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PAGINA 1
Inani pronostici
borghesi non nascondono l’aggravarsi
della crisi generale del capitale
In questi mesi di aprile e maggio il mondo capitalistico ha improvvisamente avuto la lieta sorpresa: la crisi finanziaria ha mostrato segni di rallentamento, quanto basta per battere la grancassa di una situazione sotto controllo, di una fase di stabilizzazione, e tutte le borse hanno dato la stura ai festeggiamenti con la risalita. Addirittura banche che fino al mese prima sembravano sull’orlo del fallimento, dopo le amorose cure statali a forza di montagne di debito pubblico e concessioni di vergognosi e infami artifici contabili –– curiosamente fino a qualche giorno prima si sosteneva che era giunto il momento di moralizzare il sistema, di tornare ad una finanza etica – mostrano bilanci trimestrali in attivo. E in certi casi con scarti percentuali così alti da domandarsi, ingenuamente, dove stia l’imbroglio: erano finti quelli di prima, o c’è qualcosa di sbagliato in quelli attuali?
Sembra che il sistema bancario, nel suo insieme, si sostenga in questo momento come per forza interna e risistemi le proprie falle, almeno fintantoché il mercato finanziario, aiutato da montagne di elargizioni pubbliche, riesce a mantenersi senza crolli.
Pur nella fase di incertezza per il cosiddetto periodo di stress-test, cioè il sistema di prova e simulazioni delle possibilità di resistenza e ripresa voluto dal Tesoro, il cui buon esito era obbligatorio per la concessione delle ultime tranches di aiuti pubblici, le 19 maggiori banche USA sotto analisi hanno continuato ad emettere nuove azioni. Gran buffonata questo ciclo di simulazioni, brillantemente superato da tutte le banche sotto analisi e i cui risultati sono stati oggetto di una vera e propria contrattazione tra banche e Tesoro.
Più di qualche malizioso commentatore comincia ad affermare, e con argomenti non fatui o strampalati, che gli andamenti di borsa di questo ultimo periodo, con variazioni schizofreniche in alto e in basso, sono abilmente pilotati da mani forti che operano sotto l’egida o con il beneplacito, o addirittura con il controllo degli organi economici degli Stati. E sempre in senso rialzista, per dare l’impressione di un generale rafforzamento e per indurre i timorosi piccoli risparmiatori a ricominciare a buttare i loro risparmi nel gran crogiolo. Sia come sia, truffa e ladrocinio sono nel Dna della finanza e anche se riteniamo più che probabile questa situazione non valutiamo il procedere della crisi da questo genere di indici, e gli ottovolanti lasciano il tempo che trovano perché la universale roulette delle Borse serve alla fine solamente a spostare porzioni di capitali e risparmi da un conto all’altro.
Non sono soltanto queste le buone notizie. Anzi, si comincia a mormorare della ripresa per l’industria, si vocifera che gli ordini stanno per ripartire, le aziende iniziano a ricostituire le scorte di magazzino. La Cina, nuovo faro dell’economia capitalistica mondiale, guidata, guarda il caso, da una struttura politica che si chiama ancora “partito comunista”, è sulla strada della ripresa e forse il prodotto interno quest’anno vi avrà un valore più alto di quanto prima stimato.
Sul versante della grande finanza internazionale i Fondi Sovrani starebbero riprendendo gli investimenti e potrebbero cominciare a sostenere le politiche di spesa ed indebitamento degli Stati, con la conseguenza che una volta riassestato quel settore anche l’economia e la produzione potranno essere risanate. Il terribile pericolo corso ad inizio anno si starebbe risolvendo, e tutte le autorità politiche e monetarie, dovunque, fanno mostra di ragionevole sicurezza che le cose si mettano sulla strada giusta.
Rimane in sottofondo il dubbio perché gli indici che dovrebbero annunciare schiarita sul campo della produzione e del consumo danno indicazioni così vaghe ed aleatorie da non consentire di anticipare la data feticcio del 2010 per la prevista ripartenza in pompa magna, e le variazioni in positivo sono così specifiche, legate a situazioni particolari, e calcolate su periodi così brevi da non essere davvero significative. Anzi, sul piano mondiale le stime continuano a segnare un aggravarsi delle condizioni produttive. Ma “a velocità inferiore”, e questo indicherebbe che siamo verso il fondo e poi si potrebbe soltanto risalire (il che, anche solo in geometria, non è vero).
Però basta parlarne e mostrare ottimismo! La paura della catastrofe è tanta che per ora, l’importante, è allontanarla, almeno a parole. Qualche gallinella nostrana aveva strillato di una ripresa addirittura nell’estate prossima, accompagnata da cori governativi. Ma qui siamo nell’allegra, arlecchinesca, atmosfera italica e non c’era e non c’è da prendere queste affermazioni sul serio.
Se invece guardiamo i numeri che ci danno i borghesi – prendendoli per buoni – nel primo trimestre 2009 il Pil della Germania ha registrato una flessione del 3,8% sul trimestre precedente, maggior calo dal 1970, mentre Negli Stati Uniti è sceso dell’1,6%, come il trimestre precedente. In Giappone la flessione è stata del 4%, dopo il -3,8% dei precedenti tre mesi. Nella zona Euro il calo è stato del 2,5% (-1,6% nel trimestre precedente). Tra i Paesi del G7, solo la Francia ha registrato una flessione inferiore al periodo precedente (-1,2% contro -1,5%). Quanto all’Italia, il calo è stato del 2,4% (-2,1% nell’ultimo trimestre 2008). Anche solo come indicazione di massima, il capitalismo non mostra certo condizioni di ripresa.
Qui ci limitiamo ad osservare che tutti gli elementi che hanno prodotto la presente situazione, prosecuzione sempre più grave di un decennio di fasi di crisi-ripresa, sono sempre presenti, non eliminate.
Se in quest’ultima fase, per la sola economia americana, erano valutate inizialmente da parte delle autorità monetarie della Riserva Federale perdite complessive di 100 milioni di dollari, oggi le stimano a livello globale ad oltre 4.000 miliardi; l’indice delle produttività nazionali continuano a darli in contrazione per tutte le principali economie del globo, anche se, anche questi, dicono, un po’ meno velocemente. Cina esclusa, il cui calcolo del Pil sembra però presentarsi più come un gioco delle tre carte che come un indice rigoroso.
Quella Cina, prima esportatrice nel mondo, che sostiene con l’acquisto di carta prodotta dagli USA il suo gigantesco debito pubblico e sostegno alle banche.
Il Fondo Monetario Internazionale parla di una situazione per le banche europee addirittura peggiore rispetto a quelle americane; i titoli denominati “tossici” in loro possesso, da ora al fatidico 2010 potrebbero indurre perdite di 750 miliardi di dollari, contro i 550 miliardi per le banche americane, che ne sono state il principale generatore. Solo che queste ultime, grazie al Piano di Investimenti Pubblici e Privati partorito dalle autorità monetarie americane, se ne vanno pian piano in collo allo Stato Federale; le grandi banche USA hanno potuto così recuperare capitali sul mercato senza dover svendere le proprie azioni ed hanno annunciato l’intenzione di ripagare il denaro ricevuto tramite il TARP. Una cifra complessiva per le tre banche interessate di 45 miliardi di dollari. è una pantomima, intendiamoci: il governo americano non rivuole “indietro” quei finanziamenti, almeno non in questo momento e nelle forme che pretendono le banche. Se indietro devono tornare, che tornino soldi “buoni”!
Tutto regge per ora negli USA, mentre i titoli nell’area Euro rimangono ancora sul gozzo delle banche locali. Qui non c’è la forza economica e politica d’oltre oceano, e certe politiche di quantitative easing, cioè di emissione senza limiti di moneta, non potrebbero avere gli effetti tampone che stanno per ora avendo negli States. Fa eccezione l’Inghilterra, che sotto l’ombrello finanziario USA, ha potuto operare in questo modo: ma la sua moneta non è appunto l’Euro.
C’è chi si lamenta che le banche non fanno il loro mestiere, malgrado gli aiuti, e danno col contagocce e a tassi da strozzino. C’è da capirle; ma è questo anche un indice chiaro delle condizioni reali in cui si sta muovendo il capitale, al di là delle fiammate di borsa e dell’ottimismo ad ogni costo.
Afferma qualche economista borghese che canta fuori dal coro della ritrovata speranza, che la soluzione per la crisi finanziaria poggia sulla ripresa delle esportazioni; se questo potrebbe essere vero per la Cina, alla scala mondiale è difficile immaginare che in questa crisi sia consentita una simile prospettiva. Ed infatti se nel recente G20 di Londra si è levato il coro unanime dei partecipanti contro ogni forma di protezionismo, in sostanza gli Stati hanno cominciato a chiudersi in questo tipo di politica.
Del resto le cifre per ciò che concerne il debito pubblico mostrano valori non mistificabili: escluse Francia e Germania, il cui debito si attesta sopra il 60% del Pil, Gran Bretagna col 90%, Italia vicina al 120% e Giappone con uno stratosferico 200%, e gli USA con valori prossimi ad 80%, rendono bene l’immagine di una massa fuori controllo e soprattutto non più rimborsabile. In termini assoluti il debito pubblico americano a marzo 2009 ammonta a 11.000 miliardi di dollari. Naturalmente le previsioni per questo debito sono solamente di crescita. Non riportiamo qui di quanto, quello che conta è la dimensione globale del fenomeno. La crisi fallimentare argentina degli anni ’90, che il Fondo Monetario Internazionale si è affrettò a denunciare come il risultato perverso di una spropositata espansione della spesa pubblica, imponendo un regime terribile in termini di condizioni di vita per la popolazione e il proletariato, con feroci restrizione di spesa, svanisce di fronte alla follia di simili cifre.
Lo stesso impegno delle famiglie americane contratto tramite le carte di credito, quotato oltre 960 miliardi di dollari, la cui insolvenza è aumentata del 30% alla fine del 2006, quindi ben prima della crisi in atto, impegno che ha permesso di consumare oggi con i proventi sperati degli anni a venire, rappresenta in modo drammatico la demenza di un debito sempre crescente per non far arrestare il meccanismo produzione-consumo-realizzazione di plusvalore.
Cosa potrà accedere dopo che tutti gli interventi di sostegno saranno esauriti non è dato sapere: i conduttori e teorici dell’economia mondiale si fermano “un passo prima”. Noi, ultimi della classe degli asini, ci attestiamo sulla previsione del Fmi che comunque vada il rapporto Debito-Pil è destinato ad allargarsi in due anni in modo drammatico. Ce lo dicono loro!
Restano non chiari inoltre, dietro a questo fosco scenario, gli effetti che potrebbe avere il volume delle contrattazioni dei cosiddetti “derivati”, che si sviluppano “fuori dai conti” e che in termini di massa monetaria superano il Pil del mondo. Su questa fantastica ricchezza, del tutto “immaginaria”, che non compare formalmente nei bilanci dei grandi istituti di credito, nessuno si azzarda a fare previsioni né a valutare gli effetti dirompenti.
Assistiamo poi al grande dibattito teorico sull’andamento a breve della crisi. Le previsioni si sprecano: da un processo a V, crollo, punto di minimo, ripresa, ed è la prospettiva dei tanti ottimisti ora che il peggio pare alle spalle, ad uno a W, minimo, breve ripresa, altro crollo, ripresa definitiva, ad L, l’economia rimane in uno stato di stagnazione, ad U, fase più lunga di minimo, per poi risalire. Leggiamo queste spezzate come segni dell’impotenza teorica della scienza economica capitalista. Registra solo la speranza che questo aprile segni davvero la fine della discesa. Per la ripresa, poi, si vedrà: i grafici degli indicatori finanziari ed economici fanno dire 2010, e sono tutti contenti.
Magari con questa pausa di inizio estate, l’aspetto finanziario della crisi potrà essere controllato per un certo periodo. L’enorme liquidità resa disponibile, l’allentamento di ogni ragionevole regola di bilancio, gli interventi nemmeno troppo mascherati di sostegno ai corsi azionari hanno offuscato la realtà dei crolli precedenti e ridato fiato a quell’impalpabile ectoplasma chiamato “fiducia”, che gli economisti borghesi pretendono di misurare con una incredibile serie di indici, dai quali traggono auspici sul futuro prossimo come fosse l’esame del fegato della vittima sacrificale. Potenza della suggestione e della mistificazione! Con tutto il denaro stampato fresco per l’occasione, visto che altri continuano a sostenere il debito, perché il disastro di uno sarebbe il disastro di tutti, non c’è da stupirsi che l’economia per finta della finanza mostri sussulti di ripresa.
Cosa diversa per l’economia “reale”, come ormai è da tutti chiamata, quasi in freudiana contrapposizione ad un’economia “immaginaria”. Qui l’attesa ripresa del credito, che dovrebbe avvenire una volta che il comparto finanziario “sia stato messo a posto”, non sta avvenendo. In questo caso l’imbroglio dei conti truccati riesce meno bene. I soldi “finti” gettati nella fornace finanziaria ancora non tornano ad entrare nel ciclo delle metamorfosi del capitale. Fintantoché la pletora delle merci prodotte non sarà materialmente “consumata” nell’usuale processo commerciale o distrutta “con altri sistemi”, la produzione non potrà riprendere. O si limiterà a vivacchiare stentatamente in un lento processo di diminuzione, come nella fase attuale, o crollerà in modo repentino e violento, come ci aspettiamo al fondo della crisi da noi prevista.
Anche la domanda industriale mostrerebbe ora un rallentamento della diminuzione, quanto basta per portare altre fascine al falò tranquillizzante della fine crisi. Ci limitiamo a far nostre osservazioni ragionevoli fatte da altri che non appartengono certo alla nostra scuola. Due elementi sono entrati in gioco: da una parte l’appoggio offerto dagli Stati alle maggiori aziende industriali nazionali, anche se non paragonabile a quello dato alla finanza, in termini normativi e legislativi, in aiuto ai mercati nazionali, dall’altro il reintegro, sebbene parziale, delle scorte, avvenuto effettivamente all’inizio dell’anno, prevedibile dopo il loro azzeramento, a meno che la crisi non fosse già così totale da bloccare nell’arco di pochi mesi l’intero processo produttivo mondiale.
Di fatto la crisi del capitalismo continua ad avanzare, quale che siano nei borghesi le speranze di ripresa. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione aumenta da 16 mesi consecutivi e il Pil continua a scendere.
Nel suo processo fondamentale questa crisi, come le altre che da oltre un decennio agitano il mondo capitalistico, ogni volta con maggior forza ed ampiezza, presenta caratteristiche ben definite e costanti.
Nella crisi attuale si assiste ad una stretta correlazione tra componente finanziaria, economica, valutaria, di solvibilità e quindi di fiducia – per quanto questa parola possa significare – ad un grado forse maggiore della Grande Crisi del 1929.
La distingue, per ora, da quel non troppo lontano evento che allora il sistema finanziario fu prosciugato con una feroce riduzione del credito e dell’aiuto pubblico, secondo il principio teorico del liberismo applicato con tutto il suo rigore, lasciando fallire tutto quanto poteva fallire nella speranza che, una volta eliminate le aziende meno produttive, quelle sane avrebbero avuto la forza di rimettere in moto finanza ed economia.
Le cose ovviamente non stavano in questo modo, come non lo sono nemmeno in questa situazione, perché allora, come ora e come sempre, la teoria economica borghese non capisce che la correlazione tra produzione e finanza è inversa rispetto a quella che essa si immagina. In quella prima metà del ventesimo secolo l’esaurirsi della leva finanziaria provocò un collasso immane, che spazzò via tutto, e schiantò la base produttiva. Ci volle la Seconda Guerra Mondiale – nemmeno il tanto decantato New Deal ebbe alla fine gli effetti taumaturgici che gli si accreditano – per rimettere in moto il processo economico con una energia e violenza “primordiale”.
Quella lezione è stata imparata, anche se l’ideologia che abbiamo appena definita “inversa” continua a farla da padrona nella loro pretesa scienza economica. Questa volta c’è stato un fiume di risorse finanziarie. Ma non, è certo, in quel comparto produttivo dal cui “sano” funzionamento ci si aspetta ricchezza e benessere. Lì, per qualunque scuola della teoria capitalistica, non servirebbe a nulla. E c’è un fondo di ragione, anche secondo la nostra dottrina, in questa analisi, ma di sicuro per ragioni diametralmente opposte alle loro!
Una enorme quantità di merci è stata prodotta senza che esistesse materialmente il suo controvalore; in altre parole, acquistata contraendo un debito, sempre crescente e non rimborsabile. Gli Stati importatori hanno finanziato l’immane crescita del volume delle merci e dei servizi con promesse di pagamento future; il sistema finanziario internazionale ha dovuto inventarsi una incredibile quantità di strumenti per dare apparente sostanza a questo fiume di carta. Il capitale produttivo di interesse è stato come moltiplicato in un enorme gioco di specchi ad uso e consumo di questa necessità, e questa massa fittizia ha operato secondo il movimento tipico del capitale finanziario.
Se ripercorriamo oltre un decennio di crisi capitalistiche, tutte risolte demandando a un improbabile “dopo” la liquidazione delle presunte cause e la “messa in sicurezza” della finanza, salta agli occhi il ripetersi dello stesso schema. Ogni volta che una qualche difficoltà in un’area del settore produttivo o uno dei tanti oscuri imbrogli abbia costretto a venire alla luce l’ammontare del debito inesigibile, la crisi si è manifestata immediatamente nell’ambito della finanza, con crolli repentini delle borse, rovinose cadute di organismi finanziari o commerciali apparentemente in ottima salute, che mostrano d’un tratto inimmaginate voragini nei propri conti.
Le anime candide, i risparmiatori rovinati dalla bufera si chiedono dove siano finiti “i loro soldi”. Prende il via la tiritera dei manager inaffidabili e super pagati, delle speculazioni irresponsabili, della mancanza di trasparenza, del furto legalizzato, della truffa; il tutto accompagnato dallo sgomento per la perdita della fiducia da parte di quanti hanno gettato parte o tutti i loro risparmi nella fornace della speculazione, ma soprattutto per la distruzione dei valori di borsa, della sua “capitalizzazione”. Considerazione questa ultima nelle quale si distinguono tanti che parlano di “Grundrisse” e “Terzo Libro”, ma pensano che i cosiddetti valori colà generati siano effettivamente qualcosa di reale.
La nostra analisi, lo ripetiamo, è invece opposta. Non è certo un punto di vista condiviso, rimaniamo dei seguaci di una dottrina economica che secondo il mondo borghese è morta e sepolta. Peggiorata, se mai possibile, dal fatto che rifiutiamo ogni aggiornamento, modifica o pretesa variazione per apportare qualsivoglia “miglioria”.
Nella nostra dottrina la distinzione tra finanza, cioè movimenti del capitale produttivo di interesse e suoi segni, e sfera della produzione di merci, è categorica. Non esiste altro modo di valorizzazione del capitale se non quello del ciclo produttivo e della realizzazione sul mercato del plusvalore prodotto e contenuto nelle merci. La stessa idea di “capitalizzazione” dei valori di borsa è una fola da campo dei miracoli; negli alti e bassi degli indici borsistici non si indica una creazione o una distruzione di valore, ma una variazione del prezzo presunto di titoli che non necessariamente fanno riferimento a capitali impiegati effettivamente nel movimento della produzione e riproduzione.
Quindi, credere che si possa ripianare il debito senza che il processo produttivo, distributivo e di consumo riprenda vigore, è una pretesa assurda; è l’equivoco di tutte le scuole economiche borghesi.
Se non ci fosse un’immane quantità di merci prodotte da smaltire insieme ad una smisurata capacità capacità di produrle – radice delle bolle speculative nel mondo della finanza – il debito potrebbe essere recuperato. Altrimenti può solo salire.
Si nota poi che il “sottostante produttivo”, come lo chiamano gli esperti di finanza, cioè l’insieme dei diversi comparti alla scala nazionale o sovranazionale, non mostra mai le stesse improvvise turbolenze del settore della finanza, anche se è quasi sempre in alcuni suoi settori che si determina l’innesco della crisi. Le sue cadute avvengono in modi più lenti e contenuti rispetto agli uragani del mondo della carta, ma di effetto più duraturo. Quando si verificano a scala ampia, le crisi produttive, spesso posteriori a quelle finanziarie, sono interpretate come derivate da quest’ultime. Per la crisi grandissime, in termini di valori coinvolti significative anche per i bilanci statali, la pretesa scienza capitalista vede sempre e soltanto l’origine finanziaria.
Paga Pantalone
E qualunque sia la natura e dimensione, la “medicina” somministrata è, sotto forme diverse e fantasiose, sempre la stessa. Ogni volta, dopo che magari è stato permesso qualche fallimento, le “Autorità” intervengono massicciamente nel settore della finanza, o in qualche punto specifico, con generose somministrazioni di pubblico denaro. Tanto più le dimensioni della perdita raggiungono livelli altissimi, tanto più aumentano il debito dello Stato, lo dilatano incrementando con altra carta il monte di carta che è crollato. è un dato di fatto che oggi il sistema finanziario internazionale, e non solo quello americano, sia oramai insolvente.
Se guardiamo il criterio di tutti gli interventi messi in campo da Banche Centrali e Tesoro, da un punto di vista opposto rispetto al nostro che possiamo definire “sistemico”, cioè dal punto di vista dei “contribuenti”, della collettività dei “cittadini”, si arriva a conclusioni comiche in riferimento alla pretesa etica privatistica che sottende il governo delle sorti dell’economia. Alla faccia di tutti i liberismi di mercato, alla faccia dei grandi teorici dei sistemi econometrici, degli economisti che fingono di accorgersi del disastro solo dopo che è scoppiato, la cura sta in mano al padre Stato, e consiste nel trasferire il danno dal “privato” al “pubblico”. Lo Stato del capitale serve anche a questo. Naturalmente queste non sono le conclusioni della nostra lettura del capitalismo. Per noi questo genere di distinzione tra pubblico e privato non ha senso, per noi non esiste il cittadino contribuente che deve, per crudeltà e malafede dei governanti, portare sul groppo il fallimento della politica economica, e pagare “per chi ha sbagliato”.
Paga Pantalone, abbiamo scritto, ma quel Pantalone non è il contribuente medio tartassato da tasse ingiuste che mettono qualche pezza alle malefatte dei potenti. Il nostro “Pantalone” è la classe dei senza riserve, sono i lavoratori massacrati da un sistema produttivo che quotidianamente li sfrutta senza pietà e a scadenze storiche li getta nella miseria, nella crisi e poi nella guerra.
Il clima di apparente svagato ottimismo che come da copione i responsabili del’economia e della finanza recitano alla scala mondiale, alla scoperta di “germogli di speranza e buone notizie”, ha per duro contraltare un peggioramento continuo delle condizioni della classe operaia, in tutto il mondo, in termini di condizioni di lavoro, salario, intensità dello sfruttamento, perdita del lavoro; e soprattutto per le condizioni di vita nei paesi cosiddetti “del terzo mondo”, che conducono i disperati della terra al limite delle possibilità di sussistenza.
Alla scala mondiale, la tagliente conclusione della nostra scienza economica non potrebbe essere verificata con maggior precisione; la massa della miseria è in crescita costante. è l’altra faccia, quella più concreta, delle manovre finanziarie e delle cure che il governo attua nel tentativo di rianimare una economia capitalista in agonia. è uno dei capisaldi dell’intervento oggettivo delle borghesie nazionali nel confronti del proprio proletariato per cercar di salvare la singola azienda, lo specifico comparto produttivo, l’insieme del sistema capitalistico nazionale. I comunisti non ne mistificano la natura, favoleggiando di una intrinseca “crudeltà” della borghesia, del suo Stato politico, che cercherebbero avventurose rivincite nei confronti della classe operaia, che nella presente fase storica non è certo “antagonista”. Non è, per la borghesia, voglia irrazionale di sopraffazione ma disperata volontà di sopravvivere comunque, a danno di quella umanità lavoratrice che, è il ritornello della propaganda borghese, potrebbe trarre benessere solo dai risultati del sistema capitalistico.
La crisi morde anche la classe borghese e ancor più nel suo estendersi; gli altri “strati intermedi”, le mezze classi, il tessuto della piccola produzione, bastione potente dell’ideologia borghese, rischiano il loro effimero benessere e sono poi gettate nelle file dei senza riserva, quando gli “investimenti per un futuro sereno” si liquefanno senza che sia possibile capire dove siano andati a finire, quando ogni rete commerciale si lacera e si distrugge.
Nel processo della crisi lo Stato borghese manifesta senza infingimenti la sua vera natura di classe, e si blinda contro ogni avversario, anche in funzione preventiva. La borghesia, classe composta di individui in carne ed ossa che dal modo di produzione capitalistico trae vita e sostanza, si fonda su di una formidabile e impersonale rete di interessi. Con l’affermarsi alla scala mondiale del capitalismo finanziario, il capitale produttivo di interesse ha solo bisogno di una struttura di governo per il suo operare, e non più di una forma specifica di proprietà. I capitalisti effettivamente proprietari di capitale sono una frazione irrisoria di questo apparato che opprime il mondo intero, mentre di gran lunga preponderante è il numero di quanti hanno votato la loro esistenza e riposano le loro fortune nell’estendersi senza freni di quello. è un’ovvietà affermare che i gestori dei grandi capitali anonimi, dei Fondi, i governatori di banche e banche centrali, e così via, pur se formalmente soltanto stipendiati, sono a pieno titolo membri eletti di quella classe, anche se non fossero possessori di alcuna quota di capitale; non c’è bisogno di scomodare le pagine del terzo libro de “Il Capitale”, scritto alla fine del 19° secolo.
A questa classe, compatta e legata fino alla morte al sistema capitalistico, oggi si contrappone solo una sterminata massa di umanità lavoratrice che si trova a condividere, subalterna e succube, le sorti del capitalismo. Agli effimeri miglioramenti resi possibili nei momenti di massimo sviluppo, corrispondono solo e sempre miseria e sfruttamento senza limite, e rovina quando la crisi si diffonde ed allarga.
Non abbiamo mai affermato che le crisi, anche se ampie e generalizzate, siano la necessaria premessa o il detonatore della ripresa della lotta di classe e che questa ne derivi per meccanica necessità storica. Anzi, il terribile pericolo è che il capitalismo trovi la via di uscita alle sue attuali contraddizioni con la antica soluzione di distruggere ogni eccedenza e pareggiare tutti i conti, debiti e crediti, mediante il suo strumento principe e definitivo, la guerra mondiale. Il Partito definì questa condizione come “la difficile alternativa del secolo”, o guerra o rivoluzione.
Parimenti è nostro convincimento che solo da questo percorso di smascheramento
della bugia borghese si possano mettere le fondamenta della ripresa dell’azione
di classe. Per questo, soli, affermiamo viva la crisi!
Ancora una volta siamo giunti ad una scadenza elettorale.
Non possiamo qui deprecare che la democrazia ha toccato il fondo perché la sua fase di decomposizione, iniziata da più di un secolo, potrebbe andare avanti ancora, forse, per lungo tempo. Per quanto la società borghese sia putrefatta il processo di disgregazione delle sue istituzioni e della sua fessa ideologia durerà fintanto che il proletariato, con la sua azione di classe, non ne decreterà la morte definitiva.
Archiviata da tempo la sostanza della democrazia, in certi momenti storici anche le sue forme e riti diventano di impaccio per il regime capitalista e la borghesia preferisce accantonarli. Ma è una icona della quale non si sbarazza definitivamente, la tiene in serbo perché è un inganno formidabile per il mantenimento del suo dominio di classe.
Lo Stato rivoluzionario del proletariato, al contrario, non saprà che farsene, e, in un unico funerale, accompagnerà al cimitero della storia, assieme, capitalismo e democrazia.
* * *
A cosa sono ridotte oggi le competizioni elettorali? I vari partiti propongono programmi, rapporti economici e interessi di classe contrapposti? Niente di tutto questo.
In Italia – modello ormai imitato da molti paesi al mondo – il governo borghese mette in mostra un Grande Comunicatore incaricato di profferire scempiaggini e facezie a ritmo quotidiano, sullo stile delle reclami, cui nessuno crede ma alle quali la massa finisce per conformarsi. Completa l’opera di riverberazione la reazione dei partiti della cosiddetta opposizione che fingono di prendere sul serio quelle irriverenti esternazioni, cui fingono di opporre una loro moralità, rigore e fedeltà alle istituzioni: o che tempi! che costumi! Ne risulta che il governo non solo non perde consensi, anzi si rafforza, come Pulcinella, maschera che rappresenta il tipo d’uomo della società borghese e nel quale il borghese si riconosce, che più imbroglia più è simpatico.
Quali sono i motivi per cui l’elettorato si dovrebbe allontanare dal partito di Berlusconi? Per la candidatura delle “veline”? Il presunto satiro-Berlusca le avrebbe proposte, ma a votarle ci avrebbero pensato gli elettori “sovrani”. La trovata ha fatto indignare gli oppositori non perché la morale democratica ne avrebbe sofferto, ma semplicemente perché sarebbero state tutte quante elette, proprio come nel 1987 venne eletta Ilona Staller e nel 2006 Vladimiro Guadagno, “in arte” Luxuria.
Il corrosivo cannibalismo che apprezziamo nella classe borghese ha ridotto a “velino” anche l’ultimo rampollo di Casa Savoia che così infine ben rappresenta gli onori di quel casato che, da un capo all’altro d’Italia si distinse per le stragi di proletari ed affamati, discendente di quel Vittorio, capo dell’esercito, che con la sua diserzione causò la tribolazione e la morte ad un numero impressionante di proletari in divisa abbandonati a se stessi. La Repubblica post fascista, che non fu capace di fucilare il Vittorio disertore, coerentemente ne ingaggia il discendente nel reality del suo parlamento.
Insomma, la “opposizione” accusa Berlusconi di avere, con il suo comportamento personale, stravolto, svilito, degenerato le basi stesse della democrazia avviando la pratica politica italiana su un percorso tendente a delle conclusioni catastrofiche, democraticamente parlando, s’intende. “Il Cavaliere” alimenta questi fantasmi affermando quello che tutti già conoscono e, apertamente o meno, condividono: che sono del tutto inutili il parlamento, i partiti, etc. La borghesia, come il nazionale Pulcinella, si confessa ridendo.
L’Unità del 22 maggio è uscita riportando in prima pagina due fotografie affiancate: a destra l’attuale parlamento, con la seguente didascalia “Il parlamento è pletorico, inutile e controproducente – Silvio Berlusconi 21 maggio 2009”; a sinistra il parlamento del 1922, con la didascalia: “potevo fare di quest’aula [sorda e grigia] un bivacco di manipoli – Benito Mussolini 16 novembre 1922”. Pudicamente L’Unità ha omesso le parole “sorda e grigia”.
Noi comunisti nel 1922 non ci scandalizzammo affatto per l’affermazione di Mussolini e non rimpiangemmo mai la democrazia liberale. Ci dispiacque soltanto che una tale affermazione non avessimo potuto farla noi che, se ne avessimo avuta la forza, avremmo intimato come in Russia: “Signori, si chiude”.
* * *
Citiamo un piccolo esempio fra i tanti di come procedono i “lavori parlamentari”.
Il 28 gennaio scorso alla Camera dei Deputati viene messa ai voti una mozione di sfiducia nei confronti del Sottosegretario Nicola Cosentino accusato di collegamenti con la camorra da almeno 5 pentiti. La mozione di sfiducia era stata presentata dal PD. Ma al momento del voto i deputati PD disertano in massa: 7 risultavano “in missione” e 22 assenti; dei presenti 47 non hanno partecipato al voto, 26 si sono astenuti, 2 hanno addirittura votato contro la mozione: totale 104 voti dell’opposizione a favore del governo. Indignatissimo Claudio Fava, della Sinistra Democratica, ha accusato il PD di aver fatto uno scambio con il PdL: lotta alla mafia in cambio di sbarramento per le elezioni europee. E non ha ragione Berlusconi a dire che il parlamento è inutile, anzi, dannoso?
Berlusconi non è altro che la necessaria conseguenza di tutto un percorso politico che è mondiale e che in Italia è iniziato fino dalla nascita della Repubblica e che affonda le sue radici, senza soluzione di continuità nel precedente regime fascista, come questo fu solo una metamorfosi del precedente regime borghese “liberale”. Bene hanno scritto, stavolta, i radicali, «Accade solo che al partito unico del Fascio subentri il “fascio” unico dei partiti: tutti e subito consociati contro la volontà popolare e la legge scritta».
Quindi, ancora una volta ha ragione il Cavaliere: il parlamento è inutile, sono sufficienti le commissioni e, stringendo, bastano le Segreterie dei partiti!
I radicali non riescono a vedere che questo è il regime capitalista, il loro stesso regime. Le cose vanno così perché non possono andare diversamente: non si tratta di “Peste italiana”, ma, ovunque, della peste democratica!
Le stesse cose che oggi documentano i radicali noi le anticipammo già nell’immediata fine della guerra. Ma non per rivendicare che quella continuità con il fascismo fosse possibile storicamente invertire e politicamente e socialmente combattere.
Prima ancora che la Costituzione venisse promulgata titolammo “Abbasso la repubblica borghese, abbasso la sua costituzione” (marzo 1947). Ancor prima avevamo scritto: «Lo stesso fatto che le gerarchie politiche oggi prevalenti sono state incapaci a scorgere la necessità, per estirpare il fascismo, di una fase di dittatura e di terrore politico, dimostra che tra il fascismo ed esse – come insegna la valutazione fatta secondo le direttive marxiste – non vi è antitesi storica e politica, che il fascismo nei suoi risultati non è storicamente sopprimibile da parte di correnti politiche borghesi o collaboranti, che gli stessi antifascisti di oggi, sotto la maschera della sterile ed impotente negazione, sono del fascismo i continuatori e gli eredi, e prendono atto passivamente di quanto il periodo fascista ha determinato e mutato nell’ambiente sociale italiano» (agosto 1946).
Ancora: «La dottrina del partito proletario deve porre come suo cardine la condanna della tesi che (...) debba essere data la parola del ritorno al sistema parlamentare democratico di governo, mentre all’opposto la prospettiva rivoluzionaria è che la fase totalitaria borghese esaurisca rapidamente il suo compito e soggiaccia al prorompere rivoluzionario della classe operaia» (gennaio 1947).
Concludendo possiamo senza nessuna reticenza affermare che, tra uno
Stato Democratico puro, impossibile se non come micidiale inganno per i
proletari, sognato dai Pannella e dai rimbambiti a “sinistra”, e l’attuale
“regime sfascista dello Stato dei partiti”, noi preferiamo senz’altro
quest’ultimo. Sono questi partiti che, senza volerlo, e saperlo, lavorano
per noi.
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L’anti-irredentismo di una
sinistra della Seconda Internazionale
di fronte alla Prima Guerra
La Sezione Italiana Adriatica del Partito Operaio
Socialista in Austria
Parte 1.
Manovre di avvicinamento alla Prima Guerra
Fin dai primissimi anni del 1900, anche per causa e riflesso delle forti tensioni generatesi tra le potenze d’Europa, si assisté in Italia ad un improvviso riacutizzarsi della questione irredentista la cui direzione, dalle frange mazziniano-repubblicane, cioè dalla sinistra borghese ed antisabauda, andava trasferendosi ai partiti della borghesia liberal-conservatrice, monarchica e militarista.
La cosa non era affatto strana, anzi prevedibilissima, tant’è che Salvemini sulla Critica Sociale, trattando l’argomento dell’irredentismo, da lui definito “un trabocchetto”, “una pericolosa arma di combattimento”, aveva scritto: «Per rivendicare i confini naturali ci vuole la guerra; per far la guerra bisogna andar d’accordo con la casta militare, accarezzarla, rinforzarla. Per fare l’irredentismo bisogna rinunciare alla democrazia e all’antimilitarismo». E fu facile profeta affermando che «qualora il Governo accettasse il programma irredentista, noi vedremmo tutti i repubblicani e i democratici irredentisti correre, come un gregge di montoni, dietro ai nostri generali; tutte le questioni interne verrebbero messe in silenzio: unico obiettivo della politica democratico-governativa-militarista la conquista delle frontiere naturali» (Critica Sociale, 1 gennaio 1900).
Fu facile profeta. Quello che non aveva previsto era che del “gregge di montoni” avrebbe fatto parte pure lui, Professor Salvemini.
L’irredentismo veniva presentato come sentimento primordiale e popolare, alimentato esclusivamente dai concetti di “Patria” e “Nazione”, al di là ed al di sopra di qualsiasi tipo di interesse economico. Questa propaganda trovò fertile terreno negli ambienti della borghesia intellettuale, soprattutto esaltò l’animo degli studenti che in ogni città italiana diedero vita ad imponenti manifestazioni anti-austriache, soprattutto tra il 1903 ed il 1904. Nello stesso periodo videro la luce i primi periodici nazionalisti quali Il Leonardo, Hermes, Il Regno.
A tenere alta la tensione irredentista nei territori italiani soggetti all’Austria erano impegnate attivamente le due associazioni: “Dante Alighieri” e “Lega Nazionale”. La “Dante Alighieri”, ente morale con sede a Roma, istituzionalmente si presentava come associazione impegnata a proteggere e potenziare l’italianità in tutti i paesi e continenti dove vi fossero consistenti nuclei di connazionali, di fatto aveva il compito di garantire la difesa degli interessi borghesi italiani che il governo, a causa della sua delicata posizione diplomatica, non poteva sostenere apertamente. Sintomatico è il fatto che la “Dante Alighieri” si disinteressasse completamente di Nizza, della Savoia e della Corsica, mentre sembravano stargli molto a cuore il Trentino e la Dalmazia. La “Lega Nazionale”, con sede a Trento, si caratterizzava per lo spirito grettamente reazionario: oltre ad essere antiaustriaca, com’è ovvio per un’organizzazione irredentista, nutriva un’ostilità ancor più accanita nei confronti delle popolazioni slovene e croate, e di conseguenza avversava anche la Francia, che si presentava come simpatizzante del risveglio nazionale dei popoli slavi.
A fomentare il fenomeno irredentista italiano concorse anche la Francia. La diplomazia francese già da diversi anni si dava da fare per portare alle estreme conseguenze i dissapori e gli antagonismi tra le potenze tripliciste, ed in particolar modo tra Italia ed Austria. Questo atteggiamento iniziò all’indomani della caduta del IV gabinetto Crispi, che aveva determinato un processo di riavvicinamento tra le “sorelle latine”. I principali artefici di questo disegno furono Théophile Delcassé, divenuto ministro degli esteri nel 1898, e l’ambasciatore Barrère, insediatosi a Roma nello stesso anno.
La Francia era consapevole che sarebbe stato impossibile provocare una rottura immediata all’interno della Triplice Alleanza e che l’importante era di agire sul lungo periodo cominciando a soffiare sul fuoco dell’irredentismo italiano. A questo scopo la “libera stampa” francese ebbe indicazione di trattare, con linguaggio prudente e moderato, sia dei benefici assicurati all’Italia dai nuovi rapporti commerciali stabiliti con la Francia, sia degli irrisolvibili antagonismi esistenti tra Italia ed Austria dovuti alle questioni del Trentino, del Land dalmata-adriatico, dell’Albania, e della presenza navale austro-ungarica, militare e mercantile, che aveva trasformato il mare Adriatico in un “lago tedesco”.
Lo stesso ministro Delcassé, con decreto del 26 gennaio 1899, incaricava il pubblicista Charles Loiseau di redigere uno studio sui motivi di frizione esistenti tra Italia ed Austria sia a causa della concorrenza commerciale ed influenza politica nei Balcani, sia a causa delle terre irredente. Portato a termine il lavoro, Loiseau consigliava il governo di Parigi prestare attenzione, favorire e alimentare tutte quelle tendenze che affioravano in Italia e che avrebbero potuto in qualche modo compromettere l’alleanza con Vienna: da un lato l’irredentismo diffuso tra larghi strati della popolazione, dall’altro l’aspirazione di rafforzare l’influenza italiana sull’altra sponda dell’Adriatico, unanimemente condivisa da governo, esercito, industriali e banche. Il pubblicista consigliava pure di agire sulla “Dante Alighieri”, considerata organizzazione amica.
I rapporti tra Italia ed Austria vennero a peggiorare a causa delle mire espansionistiche di quest’ultima nella regione balcanica. Con l’accordo del 2 ottobre 1903 Austria e Russia avevano delineato le rispettive zone di influenza sui Balcani, ignorando completamente, come sempre accade negli accordi tra le Grandi Potenze, le velleitarie mire espansionistiche dell’Italia sull’area.
«Negli ultimi mesi del 1904 la situazione parve così compromessa che il 15 ottobre (come rivelò nel 1909 l’ambasciatore russo Isolvsky a Tittoni in occasione dell’incontro di Racconigi) l’Austria si decise ad un trattato segreto di neutralità con la Russia, per premunirsi in caso di una guerra con l’Italia “che si riteneva imminente”: un passo cui l’Austria accedette, evidentemente impressionata dal fermento irredentista in Italia e dalle voci di arruolamenti clandestini promossi da Ricciotti Garibaldi, assai più che dalla buona volontà filotriplicista di Tittoni, che pure in aprile, nell’incontro di Abbazia con Goluchowsky, aveva affrontato con spirito conciliativo lo spinoso problema albanese» (Renato Monteleone in “Il PSI e la Grande Guerra”, Rivista Storica del Socialismo, anno X, fasc. 32).
Fu allora che, per scongiurare quella guerra che sembrava a tutti ormai inevitabile, su iniziativa dei socialisti triestini, tramite il loro organo ufficiale Il Lavoratore, il 2 agosto 1904, venne avanzata la proposta di un incontro internazionale tra i rappresentanti dei partiti socialisti italiani ed austriaci; incontro dal quale sarebbe dovuta uscire la chiara condanna del proletariato nei confronti dell’irredentismo e del militarismo.
Sia dalla parte austriaca sia da quella italiane vi fu una risposta positiva alla proposta, soprattutto nelle persone di Bissolati e di Ellenbogen, entrambi già da tempo avvezzi alla collaborazione tra i due partiti socialisti. Gino Tavecchia, incaricato della risposta, scrisse ai triestini: «Carissimi compagni, con vero compiacimento (...) constatammo che le nostre idee sono completamente conformi alle vostre. Anche i compagni di Trento ci hanno scritto e sono del nostro stesso parere. Il comitato federale dei gruppi socialisti milanesi ha accettato con entusiasmo la proposta da voi lanciata di un convegno fra socialisti d’Italia e dei paesi dell’Austria e si è già costituito un comitato coordinatore del convegno» (Il Lavoratore, 9 agosto 1904).
Da parte italiana fu proposto il Canton Ticino con luogo del convegno
e fu chiesta la partecipazione anche dei socialisti tedeschi ed ungheresi.
I socialisti triestini
Il partito socialista istriano, ufficialmente denominato come “Sezione Italiana Adriatica del Partito Operaio Socialista in Austria”, rappresentò un’esperienza tutta particolare, dando prova in ogni occasione di autentico internazionalismo proletario ed aderendo nel 1921 in modo massiccio al Partito Comunista d’Italia.
Naturalmente ciò derivava in buona parte dalla sua particolarità etnica e storico-geografica.
L’Istria e la Venezia Giulia hanno da sempre rappresentato un ponte di congiunzione tra la penisola italiana e quella balcanica; nella storia millenaria degli spostamenti umani sono state punto di incontro e di smistamento di popolazioni, di civiltà diverse, di correnti culturali e linguistiche da Est ad Ovest, da Sud a Nord e viceversa. «Ricca è perciò la sua storia e povere le sue popolazioni che pagarono tributi di sangue, di dolore, di lavoro e di miseria per oltre 2000 anni alle invasioni ed alle guerre. Pestilenze, malaria e distruzioni da queste causate spesso le afflissero. I momenti di pace durarono poco, si alternarono i padroni: Roma, Bisanzio, i longobardi, i franchi, principi e vescovi, imperatori e patriarchi, Venezia, l’Austria, la Francia, Austria di nuovo e Italia ne furono padroni e spietati sfruttatori per sé e per le proprie classi dominanti» (Paolo Sema, La Lotta in Istria 1890/1945).
La continua alternanza dei dominatori aveva chiarito nella coscienza proletaria la consapevolezza che non dal mutare di padrone sarebbe arrivata la libertà, e questo aveva determinato uno spiccato spirito classista ed internazionalista.
Le prime Società Operaie, Associazioni di Mutuo Soccorso, eccetera apparvero in Istria a partire dal 1870 in poi, ma a promuoverle non erano stati i lavoratori stessi; generalmente si trattava di borghesi di ispirazione nazionalista italiana, liberaleggiante con qualche tinta mazziniana. A dirigere queste società venivano chiamati professionisti, qualche funzionario, persino dei nobili, che vi entrano come soci onorari.
Non è da stupirsi di questo se si pensa che la prima Società Operaia era nata a Pola nell’agosto del 1869 sotto il patronato di Francesco Giuseppe ed il comitato promotore era stato composto da un barone, un giurista, un dottore, un notaio, un farmacista, ed infine da un operaio. Finalità di queste Associazioni era genericamente quella della “unione, solidarietà e mutuo soccorso tra i soci”. Ma il loro vero scopo era quello di impedire l’esplosione del malcontento e il formarsi di una coscienza di classe tra i lavoratori. Si cercava di prevenire l’organizzazione proletaria per tentare di scongiurare il pericolo socialista: il famoso spettro turbava i sonni della ricca borghesia istriana. «Bisognerebbe fare anche noi come a Vienna, a Graz, a Praga: formare una società operaia. Ma non già una società che alimenti le tendenze internazionaliste; bensì un sodalizio che attragga i lavoratori verso una educazione di solidarietà nel culto delle memorie patrie e delle speranze nostre» (Titta Bullo, 1869).
Nel congresso del Partito Socialista Austriaco, tenuto a Vienna nel gennaio 1897, venne stabilito di dar luogo alla formazione di sei gruppi nazionali indipendenti, tra questi l’italiano. Il 25 dicembre successivo, a Trieste, si ebbe il primo congresso della Sezione Adriatica del Partito Socialista Operaio in Austria.
Già da prima gruppi di socialisti esistevano ed operavano nelle varie località istriane, soprattutto nelle città e nei centri costieri, come provano statuti di associazioni, notizie su giornali socialisti ed avversari, tanto in campo italiano quanto in quello croato e sloveno. Il quadro che ne risulta è però estremamente povero ed indefinito.
L’8 ottobre 1896 L’Idea Italiana scriveva: «Alcuni messeri triestini vanno da tempo predicando il socialismo internazionale nella nostra Istria e cercano di introdursi anche da noi. Questi falsi tribuni tentano di convincere il popolo nostro a disprezzar oggi quello che fino a ieri adoravano» Probabilmente il giornale irredentista si riferiva al fatto che buona parte dei socialisti triestini provenivano dalle file mazziniane.
Molto interessante è anche un altro brano, tratto dallo stesso giornale
del 21 novembre e che darebbe l’impressione del carattere nettamente classista
del socialismo istriano: «Io so intanto che – scriveva un anonimo corrispondente
– gli operai di Muggia e di Isola e alcuni di Pirano intendono di votare
compatti per candidati del partito social-democratico e so che essi vogliono
farlo anche essendo sicuri di rimanere soccombenti».
Rifiuto dell’irredentismo
Le sezioni socialiste giuliane e dalmate, sia italiane sia slave, non tardarono a distinguersi per le loro posizioni più radicali e classiste rispetto alla socialdemocrazia austriaca, che si ispirava a un programma riformista sul piano delle lotte di classe e semplicemente autonomista su quello della questione nazionale: ciò che fu definito l’austro-marxismo.
Mentre a Vienna, il programma sancito dal Congresso del 1901 si limitava a parlare di evoluzione, e stabilire quale finalità del partito quella «di organizzare il proletariato, di compenetrarlo della coscienza del suo stato e del suo compito, di renderlo e di conservarlo intellettualmente e fisicamente capace alla lotta, servendosi di tutti i mezzi opportuni e corrispondenti al diritto naturale dei popoli», a Trieste Valentino Pittoni scriveva che «il partito socialista è l’avanguardia dell’esercito proletario, risveglia il proletariato alla coscienza di classe, lo organizza, lo istruisce, lotta per assicurargli la forza. Il proletariato, incamminato sulla via delle rivendicazioni sociali, non potrà arrestarsi, ed ogni mezzo utile dovrà servire allo scopo (...) Il partito socialista non è un partito legalitario (...) la maggiore o minore resistenza delle classi avversarie determinerà l’uso dei mezzi legali o quello della violenza» (Citato in: M. Pacor, Confine Orientale. Questione Nazionale e Resistenza nel Friuli e Venezia Giulia).
Al Congresso delle sezioni giuliane e dalmate del 1899, che si tenne a Pola, fu dichiarato fra l’altro: «Ormai la questione nazionale per la borghesia nazionalista non è diventata che un mezzo per la reazione. Essa sarebbe disposta a cacciare nelle patrie galere tutti i senza patria e si crede di poter spadroneggiare politicamente, nazionalmente ed economicamente negando al popolo il diritto di voto politico ed amministrativo».
E la Martinuzzi proclamava che compito del socialismo era quello di liberare «la Regione Giulia da un nazionalismo ormai resosi delittuoso (...) Tacerà allora l’arcaico, rettorico vanto della millenaria civiltà, i lirismi per i leoni e le aquile romane, per i Cirilli e i Metodi, per gli stemmi russi e savoiardi; e i due popoli, nella loro amata lingua materna, reciprocamente rispettata, rallegreranno la patria istriana coll’Inno dei Lavoratori, mentre la rossa bandiera, spazzato via ogni altro simbolo di sanguinose memorie, i secolari servilismi, le puerili lotte campanilesche, sventolerà dalle Alpi Giulie a Pola, emblema di amore universale, di eguaglianza e libertà».
La Martinuzzi non mancò di dire la sua anche sul problema del “programma minimo” da lei definito “raccattatore di briciole” e trampolino di lancio per carrieristi e transfughi: «Molti, troppi, elevatisi col suo mezzo, uscirono dal proletariato, per entrare nella classe borghese e diventare conservatori (...) Io temo questo programma minimo, perché non crea dei ribelli, ma dei soddisfatti, che poi invigliacchiscono concludendo che, quando si sta bene non occorre brigare per star meglio».
Il Congresso impegnò tutti i socialisti ad un maggior slancio propagandistico ed organizzativo.
Le elezioni del 1907 davano ancora una volta lo spunto per ribadire la comunione di interessi tra il proletariato italiano e slavo e per denunciare come funzionali al potere centrale di Vienna le lotte nazionalistiche, orchestrate dai sedicenti irredentisti. Il Lavoratore riportava notizia di comizi socialisti bilingui nei quali veniva data al proletariato l’indicazione di votare per lo stesso candidato socialista.
Se non in rari casi, in Istria italiani, croati e sloveni non vivevano separati dalle linee di demarcazione etnica e linguistica, ma le varie nazionalità si compenetravano quasi ovunque e continuamente si intersecavano nei villaggi, nelle case e nelle campagne.
«In questa terra di così brevi confini, vivono, da oltre undici secoli, due popoli d’origine diversa, cui distingue tuttora la lingua, il grado d’incivilimento e le condizioni economiche. Non si tratta né d’indigenato per gli uni, né di ospitalità per gli altri; ambi sono istriani. Ragione dunque vorrebbe, ed anche giustizia, che si considerassero eguali nei diritti e nei doveri; che le due lingue fossero per l’uno e per l’altro libero e rispettato mezzo di progressivo incivilimento; e che si aiutassero vicendevolmente nella dura lotta quotidiana per l’esistenza» (G. Martinuzzi, La lotta nazionale considerata quale ostacolo al socialismo, discorso tenuto a Pola il 12 agosto 1900).
«E qui ed in Istria, il maggior ostacolo che si impone al socialismo è l’ostinatezza, la piccineria superbosa del nazionalismo: ebbene, si prenda di mira questo sciagurato retrogrado, né gli si dia quartiere, nemmeno a titolo di tolleranza nelle nostre file. Lo si combatta, non per solo opportunismo, non soltanto durante i periodi elettorali, ma costantemente, tenacemente, con la parola e coll’esempio. Né la guerra gli si faccia nel senso di conculcare l’elemento italiano in favore del nazionalismo slavo, le cui prodezze, là dove impera, eguagliano quelle che noi deploriamo nel nazionalismo italiano; ma bensì nel senso di allearsi colla parte povera e maltrattata delle genti istriane, affine di illuminarla e renderla socialisticamente attiva: affine di disfare ciò che vanno portando i portabandiera dei Cirillo e Metodio, i veri sovversivi, da cui nulla possono sperare i proletari slavi» (G. Martinuzzi, Discorso pronunciato al Circolo di Studi Sociali di Trieste nel 1900)
L’immenso merito dei socialisti istriani fu quello di essersi completamente liberati delle tare nazionalistiche del mazzinianesimo, dalle cui file in buona parte provenivano, e di aver prodigato ogni loro sforzo per liberare il proletariato dai residui del patriottismo e delle mitologie culturali delle classi dominanti.
Il partito socialista adriatico aveva sempre relegato il problema nazionale in second’ordine rispetto ai temi dell’emancipazione operaia, e si era battuto accanito contro l’irredentismo borghese, quanto più questo mostrava di reggersi sulla speranza che l’Italia attuasse contro gli slavi (soprattutto contro il proletariato slavo) quella politica di potenza e sopraffazione che nemmeno l’Austria aveva mai adottato. I socialisti istriani fin dal congresso del 1902, avevano assunto un carattere nettamente classista e rigorosamente internazionalista: attitudine questa che avrebbe permesso loro di superare positivamente anche la drammatica prova del conflitto mondiale. Ciò che determinò l’odio vendicativo della borghesia nazionalista italiana ed il risentimento della socialdemocrazia austriaca, la quale aveva abbracciato la causa nazionale e si sentiva in diritto di accusare i socialisti adriatici di «consegnarsi alla dipendenza intellettuale dell’Intesa», come scrisse Viktor Adler a Valentino Pittoni il 22 agosto del 1914.
Il Vaticano rivendica ed in tutte le occasioni non manca di richiedere che venga addirittura codificato il fatto che l’Europa, per quanto riguarda la storia, la cultura, la politica, affonda le sue radici nel cristianesimo, tanto nella dottrina e visione del mondo quanto nella prassi storica: l’Europa è così perché è cristiana, se non fosse stata cristiana oggi non sarebbe stata così.
Non c’è dubbio che il Vaticano abbia le sue buone ragioni per richiedere, diremmo, pretendere, un tale riconoscimento.
Passando dalla radici ai frutti, e almeno per quanto concerne la Italietta di oggidì, non esiste partito o rappresentante politico che non sia sempre pronto ad esaudire i voleri del papa e, se ormai nessuno più si prostra al bacio della sacra pantofola non è perché siano tutti quanti diventati laici, ma semplicemente perché quel rito medievale è stato abolito da Giovanni XXIII.
Timide voci di dissenso contro le ingerenze dei preti si alzano, di volta in volta dai partiti, quelli minuscoli, quando si trovano alla opposizione, non quando fanno parte del governo.
Al contrario, se succede che il Vaticano o i vescovi, a titolo puramente teorico-dottrinale, con il dovuto garbo, riprendano comportamenti pratici del governo, ma che non intaccano minimamente le fonti del loro sostentamento, allora è l’opposizione, ed in modo particolare la sua sinistra, che si fa papalina ed integralista, pronta ad accusare il governo di non essere abbastanza attaccato alle tonache dei preti.
Ad esempio, riguardo al recente Disegno di Legge sulla sicurezza, il capo dell’opposizione, Franceschini non ha avuto niente di meglio da dire che: «Non avete ascoltato nemmeno le parole dei vescovi, voi che siete così ipocritamente devoti avete usato anche parole di disprezzo contro la Chiesa italiana». Orrore! Il governo disprezza la fede dei padri! Franceschini ha una sola sfortuna, quella di essere nato in Italia, anziché in Iran. Lì sì che avrebbe fatto fortuna! Berlusconi, al contrario giura che nessun vescovo gli ha mosso delle critiche su questo argomento: «Non ho conoscenza di queste critiche. Ho parlato più volte con i responsabili della conferenza episcopale e ogni volta che ho illustrato il nostro provvedimento ho sempre trovato un’accoglienza positiva».
Noi crediamo al Berlusconi, almeno questa volta. Infatti abbiamo un documento papale che potrebbe benissimo essere inserito nel Disegno di Legge. è vero, si tratta di un documento non recentissimo, ma in fatto di fede il tempo non trascorre, è immutabile, quindi mantiene intatta la sua attualità.
Era l’anno 776 e papa Adriano I scriveva a Carlo Magno: «I maledetti bizantini navigano sempre lungo le coste dei longobardi [cioè le coste italiane - ndr] e lì, dopo essersi messi d’accordo con la popolazione locale comprano intere famiglie di schiavi. Per far cessare questo scandalo avevamo ordinato al duca Allone [di Lucca - ndr] di preparare molte imbarcazioni per catturare questi pirati e bruciare le loro navi; ma lui si rifiutò dicendo di non avere navi e marinai esperti. Però qualcosa abbiamo fatto lo stesso: abbiamo incendiato le navi bizantine che erano nel porto di Civitavecchia e gettato in carcere per molto tempo i loro marinai».
Ma per quale motivo gli scafisti dell’epoca, bizantini e saraceni, battevano le coste italiane e facevano i loro abbondanti carichi umani? Il motivo è semplice e ce lo spiega la stessa lettera papale nel passo successivo: «I longobardi continuano a vendere le loro famiglie come schiavi perché la fame a ciò li costringe, molti altri liberi longobardi salgono spontaneamente nelle navi dei bizantini perché non hanno altra speranza di sopravvivere se non dandosi schiavi».
Ieri era la fame a far scappare le popolazioni italiane che, nella speranza di sopravvivere, si davano schiave. Oggi sono altre popolazioni che nella speranza e di sopravvivere ugualmente tentano di darsi schiave. Ieri ci si rivolgeva al duca Allone di Lucca perché bloccasse ed incendiasse le navi schiaviste, oggi al duce Gheddafi perché faccia altrettanto.
Possono protestare i vescovi? Certo che no, però il riconoscimento
delle radici cristiane hanno tutto diritto di esigerlo!
PAGINA 4
Marcia indietro:
Il sindacato metropolitano
“Sindacato metropolitano”, questa la parola d’ordine uscita prepotentemente dall’Assemblea nazionale CUB tenutasi a Riccione dal 22 al 24 maggio.
Abbiamo scritto nello scorso numero del giornale su come si è arrivati a questo importante appuntamento per il sindacalismo di base e svolto la nostra critica dei documenti preparatori. Ma né questi documenti né i congressi preparatori avevano portato a chiare indicazioni sull’effettiva “nuova” natura che si sarebbe voluto dare alla costituenda organizzazione, nota non ai lavoratori ma solo al nugolo di partiti e frazioni che attualmente controllano strettamente il movimento e lo manipolano come fosse cosa loro.
Il chiarimento è arrivato all’Assemblea non tanto dalla relazione introduttiva, ancora diplomatica su cosa stia dentro la definizione di “sindacato metropolitano”, quanto dalla preordinata serie di interventi, specie dei rappresentanti delle varie organizzazioni che più o meno si riconoscono nella svolta, il Sindacato dei Lavoratori (SdL), lo Slai Cobas, la Confederazione Cobas, per finire con i Blocchi Precari Metropolitani, con i quali la nuova organizzazione ha voluto contaminarsi perfino nel nome.
La crisi incalza. La classe operaia è costretta su posizioni estreme di debolezza e di difensiva, di smarrimento ideale per essersi affidata per generazioni a partiti operai-borghesi, sul piano sindacale per la crisi e perché priva di organizzazioni di classe. Il padronato sta passando a rinnovare i suoi attacchi. Quindi, dicono, il tempo stringe, c’è il rischio di “perdere il treno”. I topi del politicantismo e del sindacalismo di mestiere corrono ad abbandonare la nave della difesa di classe per “qualcosa di nuovo”. Cosa si intenderebbe mettere insieme con questa Assemblea nazionale? Liberazione del 24 maggio: «Il sindacalismo di base di fronte alla “cosa”. Farà, un sindacato-sindacato o un sindacato-partito?”
Cauta la relazione introduttiva di Pierpaolo Leonardi, uno dei coordinatori nazionali della CUB che hanno fortemente promosso questa “Assemblea costituente”. Si parte dalla osservazione che «il mondo del lavoro si è trasformato radicalmente (...) Esiste una diffusione di soggetti diversi che non hanno un luogo di lavoro fisico o che (...) lo hanno per pochi mesi». Ma a questi sono affiancati altri “soggetti”: «quelli senza salario e senza lavoro che chiedono reddito (...) quelli che non hanno una casa di proprietà (...) gli immigrati».
In questa situazione si ritiene necessario rompere con «l’egemonia del sindacalismo puro» per abbracciare «pratiche diverse ma assolutamente efficaci che si realizzano nelle metropoli e sul sociale». Per questo l’Assemblea deve produrre «una proposta di sintesi politico/organizzativa su cui far misurare una nuova, più larga assemblea generale del sindacalismo di base, aperta ai movimenti e ai soggetti sociali che la ritengano utile e intendano ritessere una relazione con essa».
Stiamo assistendo quindi, da una definizione dei fini della Confederazione, difensivi della classe dei lavoratori, e che intende utilizzare i metodi della lotta di classe, che sono la organizzazione separata e lo sciopero, a riferirsi e contaminare la quasi totalità dei ceti sociali, fino agli inquilini, gli studenti e ai “diversi”, pronti a darsi ad indefinite e quanto mai sospette “pratiche diverse ma assolutamente efficaci”, al fine di una generale denuncia e protesta contro praticamente tutti gli infiniti mali i questa società. Sentimento senz’altro meritorio, se, invece che sul piano della realtà dello scontro di classe ci portiamo su quello della carità generica. E, più che altro, del politicantismo e dell’elettoralismo, della demagogia impotente e della più totale e oscena confusione. Il mantenimento del potere borghese si fonda oggi prevalentemente sulla confusione.
Dal punto di vista del sindacato di classe i disoccupati non sono che lavoratori, e come tali vanno organizzati e difesi, non per un reddito ma per un salario. Oppure, nel sindacato di classe non vi sono genericamente “gli immigrati”, considerati come una separata “categoria” razziale-nazionale, ma, semplicemente, umanamente ci verrebbe da dire, i “lavoratori immigrati”.
Ben accetti all’Assemblea ed utilizzati allo scopo interventi demolitori, tipico quello di Bernocchi della Confederazione Cobas: «In una situazione in cui siamo circondati dalle macerie [le loro macerie, quelle dell’opportunismo stalinista e parlamentaresco! ndr], occorre fare un salto in avanti rispetto al sindacato che abbiamo conosciuto, dobbiamo creare un soggetto nuovo che sappia fare politica e sindacato e incalzi il capitalismo su tutti i fronti». «Una cosa – commenta compiaciuto Il Manifesto del 24 maggio – già oltre il sindacato (l’esempio sono le lotte della scuola di quest’anno, con i genitori accanto a professori e studenti), un soggetto plurale che non contempla più la separazione novecentesca tra sindacato e partito».
Altrettanto esplicito l’intervento del rappresentante dei Blocchi Precari Metropolitani: «Il sindacalismo metropolitano può divenire un movimento politico nel senso pieno del termine, ma deve saper ricomprendere al suo interno anche la funzione sindacale in senso stretto». Si noti: anche!
Il processo unitario, così faticoso finché si trattava di lavorare per il “sindacato-sindacato”, per usare la terminologia di Liberazione, pare essersi improvvisamente accelerato appena si è aperta la prospettiva del sindacato “di tipo nuovo”, “metropolitano”. Ci sembra dunque nient’affatto fuori luogo il commento dell’escluso Tiboni, il presidente della vecchia CUB, che l’ha definito «possibile levatrice di un progetto politico piuttosto che sindacale». Il sindacalismo rivoluzionario, l’anarco sindacalismo, che era uscito dalla RdB sbattendo la porta, vi rientra, e alla grande, dalla finestra. Tendenze del movimentismo e dello spontaneismo sono state ricorrenti nella storia del movimento operaio in Italia, in Spagna, in Francia. Verso di queste si vorrebbe fare marcia indietro. Ma qui si aggiunge di peggio: l’interclassismo e la assoluta mancanza di riferimenti, principi e programmi.
I lavoratori, di nuovo traditi dai loro dirigenti, che catturandone le sane aspirazioni, avevano mentitamente promesso il loro impegno “per il sindacato di classe”, debbono oggi essere estremamente diffidenti riguardi a questa nuova “cosa”, la cui funzione, nelle intenzioni, non è di produrre alcunché di vitale, ma di montare la confusione per far “perdere il treno” alla classe operaia.
Noi comunisti prevediamo che il movimento operaio, quanto tornerà ad esprimersi nella sua forza e risolutezza, si darà un altra forma di inquadramento e di lotta, impostazione e politica che non preferiamo per esigenza estetica o solo per una astratta coerenza dottrinaria ma perché necessarie alla difesa immediata dei lavoratori. La forza del sindacato di classe, che non può che radicarsi e muoversi su un terreno e con modalità e tempi diversi e distinti da quelli del Partito, sta nella sua realtà di lotta intransigente contro il Padronato e contro lo Stato, fuori da ogni tipo di concertazione e compromissione, e nella separazione prima opposizione poi ad ogni ceto e istituzione borghese.
Abbiamo scritto a questo proposito su questo stesso giornale (n. 205 del 1992):
«Di fronte all’attacco capitalista che è coordinato ed unitario i lavoratori si presentano divisi, per fabbriche, categorie, località: solo in un Sindacato di Classe esteso e spontaneamente disciplinato nelle azioni possono presentarsi uniti allo scontro. Per raggiungere la massima mobilitazione il Sindacato di Classe ha sempre reclutato non sulla base di una determinata ideologia, ma chiunque si trovi nella condizione oggettiva di lavoratore, indipendentemente dalle sue simpatie politiche. Alla classe occorrono le funzioni sia del Sindacato sia del suo Partito politico, che sono però diverse sebbene complementari e richiedono organizzazioni distinte. Ipotizzare la costituzione di un Sindacato formato di soli comunisti, o di un’organizzazione ibrida a metà strada fra Sindacato e Partito, sarebbe condannarlo fino dalla nascita all’impotenza ed abbandonare a se stessa, cioè al sindacalismo di regime, la maggioranza del proletariato. Per converso pretendere la “indipendenza dei partiti”, nel senso di impedire l’adesione e la parola ai lavoratori militanti di partito, significherebbe consegnare il Sindacato al “partito diffuso” della ideologia borghese dominante che si infiltra per cento vie anche fra gli operai».Riguardo alla oggi ricercata inclusione nella nuova organizzazione di altri “soggetti” quali inquilini e studenti scrivevamo:
«Scopo del Sindacato di Classe è la difesa delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia. Si intende questa nel suo significato più ampio di insieme di prestatori d’opera, non proprietari degli strumenti del loro lavoro, qualunque sia la forma di retribuzione: comprende quindi manuali e intellettuali, produttivi e improduttivi, dipendenti da un padrone individuale, da una cooperativa di padroni, dallo Stato. Sono esclusi i membri delle altre classi, cioè capitalisti anche piccoli e minimi (artigiani e contadini) e strati attraversanti più classi (inquilini, studenti, ecc.). Sono invece organizzati i pensionati e i disoccupati, non separatamente ma nella rispettiva categoria di provenienza».Sulla questione della necessità di una organizzazione in grado di raggiungere un mondo del lavoro sempre più parcellizzato e disperso, scrivevamo già più di 15 anni fa:
«Al Sindacato di Classe è indispensabile una organizzazione territoriale esterna ai luoghi di lavoro (nella tradizione delle Camere del Lavoro) dove le rappresentanze di fabbrica e i singoli lavoratori dispersi in piccole e piccolissime unità produttive si possano regolarmente incontrare, rafforzarsi e coordinare le iniziative».Questa la chiara impostazione della “questione sindacale” dei comunisti marxisti, da sempre. Su questa base i nostri militanti e i lavoratori che seguono il nostro indirizzo sindacale continueranno oggi ancora il loro lavoro all’interno di questa “nuova” CUB, consapevoli che non sarà breve né facile la strada perché il proletariato riesca a darsi di nuovo, contro tutti i nemici schierati e, molto peggio, i falsi amici, una organizzazione efficace conto l’offensiva padronale. Per questo non esistono scorciatoie volontaristiche, tantomeno con i metodi del politicantismo congressuale. Non possiamo oggi escludere che la inevitabile nuova mobilitazione spontanea dei lavoratori, contro lo sfruttamento, la disoccupazione, il precariato, i bassi salari, gli incidenti sul lavoro, possa trovare nelle attuali organizzazioni sindacali di base una rete a cui appoggiarsi. Questo non lo sarà più quando si fossero trasformate in un informe e rissoso coacervo di formazioni politiche “di sinistra”, tornando così a lasciare al sindacalismo confederale il monopolio del sindacalismo di regime.
I recenti fatti di Torino sono a questo proposito esemplari. La Fiom pur di impedire che un rappresentante dello Slai Cobas parlasse dal palco, ha imbastito una provocazione, con qualche spintone sul palco e staccando i fili del microfono.
Il fatto, minimo in sé, è stato subito stravolto, amplificato e utilizzato
anche dalla “sinistra” della Cgil e da quella medesima stampa “di
sinistra” che oggi condivide e approva la nascita a Riccione del “sindacato
metropolitano” (Il Manifesto, Liberazione). Hanno additato
i lavoratori di Pomigliano, minacciati di licenziamenti in massa, come
provocatori, squadristi, ecc. in sintonia perfetta con tutta la stampa
borghese che ha ripreso l’episodio per stigmatizzare la “violenza”
di una minoranza di operai, dimenticando la violenza del padronato che
minaccia licenziamenti di massa, che colpisce i lavoratori più attivi
sindacalmente che spedisce a centinaia in un reparto confino, col consenso
dei confederali.
Cresce in Cina lo sfruttamento capitalista
Abbiamo sempre definito il regime sociale in Cina come pienamente capitalista, tanto formalmente quanto sostanzialmente, aldilà della dominante retorica neo-stalinista.
Che il dominio del capitale non vi sia solo come fatto teorico lo ha dimostrato il massiccio avvelenamento, tramite il latte, di decine di migliaia di infanti cinesi. La melanina, usata nell’industria del mobile per la sua grande capacità adesiva, “inganna” i controllori che dovrebbero misurare le proteine nel latte, facendone aumentare il livello apparente. Il composto era aggiunto dalle tre principali aziende lattiere del paese, settore che è stato definito da qualche funzionario “dominato dall’anarchia”.
Le conseguenze dell’aggiunta di melanina al latte, fondamentale nell’alimentazione infantile e presente in una infinità di prodotti derivati, sono danni irreversibili ai reni e alle vie urinarie. Lo scandalo, diventato pubblico solo alcuni giorni dopo la fine delle Olimpiadi, consisterebbe nell’aver colpito circa 53.000 bambini a metà settembre e aver provocato anche di alcuni decessi. All’inizio di dicembre 2008 nuovi calcoli hanno alzato quella cifra a 300.000 bambini colpiti da un capo all’altro del paese, però a quella data la notizia aveva già cessato di essere “interessante”.
Il fatto ancora una volta dimostra drammaticamente le conseguenze di una produzione orientata al profitto e la cecità criminale del capitale che tende al plusvalore a qualunque prezzo. Quindi anche la necessità della sua distruzione.
Devastazione capitalista nelle campagne argentine
è questo un nuovo esempio di come l’anarchia della produzione, lungi da costituire la panacea universale per i problemi dell’umanità, come predica il liberalismo, si sia trasformata esattamente nel principale problema per la sopravvivenza della specie umana.
L’apparizione della famosa “soia transgenica” negli anni �90 e i suoi apparenti vantaggi (cresce in terreni poveri, è estremamente resistente alle inclemenze climatiche, alle infestazioni e alle malattie) ha fatto sì che una gran parte del suolo agrario argentino (16,9 milioni di ettari) si mutasse in una gigantesca monocoltura di questa leguminosa, collocando l’Argentina la terzo posto della produzione mondiale, dietro agli Usa e al Brasile.
Ha spinto a questo poter ottenere subito grossi profitti. Ma ne è conseguita la devastazione di gran parte della bio-diversità. Basta dire che nel periodo dal 2002 al 2006 più di un milione di ettari di bosco nativo sono spariti per far posto alla redditizia soia transgenica.
Il drastico crollo dei prezzi della soia, che arriverà prima o poi a causa della sua sovrapproduzione, darà ancora una volta la evidenza palmare della incapacità delle leggi mercantili capitaliste ad amministrare in modo razionale le risorse naturali e la stessa alimentazione della specie umana.
La reazionaria guerra delle lingue in Spagna
Ancora un volta il nazionalismo delle periferie (Galizia, Paese basco, Catalogna), approfittando dell’esistenza di lingue propria, sta agitando lo spauracchio della “normalizzazione linguistica” per distrarre l’attenzione delle classe operaia dalla crisi economica e dai suoi effetti sui proletari. Il fine di questi reazionari piccolo borghesi, veri agenti ausiliari della grande borghesia capitalista, statale e centralista, è isolare, linguisticamente parlando, i proletari di queste regioni dal resto dei loro fratelli di classe spagnoli e ispano-americani. Cercando di far girare indietro la ruota della storia creano dal nulla questioni nazional-linguistiche del tutto cerebrali. Il proletariato non deve prestare attenzione al canto della sirena dei nazionalismi ma organizzarsi sotto le bandiere dell’internazionalismo comunismo, unica via per la sua emancipazione!