Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 338 - novembre-dicembre 2009
Pdf ]
Indice dei numeri
Numero precedente
- successivo
organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 A venti anni dalla fine del falso socialismo
Lettera da Shanghai
Bilancio di una pandemia
PAGINA 2 L’anti-irredentismo di una sinistra della Seconda Internazionale di fronte alla Prima Guerra: La Sezione Italiana Adriatica del Partito Operaio Socialista in Austria (Parte 2, continua dal numero 335): Da Milano e da Trento - Nuova convocazione - Il convegno di Trieste - Confermati tutti i limiti della Seconda Internazionale.
PAGINA 3 Crisi economica e organizzazione di difesa sindacale
PAGINA 4 – 10 novembre: La finta mobilitazione della Fiom conferma la necessità della ricostruzione del vero Sindacato di Classe, fuori e contro la Cisl e la Uil, ma anche la Cgil
11 dicembre, sciopero del pubblico impiego: Alla crisi del Capitale bisogna rispondere con la lotta di classe.
– Torino, 10 dicembre: Contro nuove morti sul lavoro opporre la forza, la mobilitazione, l’organizzazione sindacale di classe.

 
 
 
 
 
 

PAGINA 1



A venti anni dalla fine del falso socialismo

Commentando la caduta in Russia del partito-Stato Pcus nel 1991 scrivemmo né rivoluzione né controrivoluzione, il classico cambiare tutto per non cambiare nulla.

La sconfitta, sui campi della Seconda Guerra, del progetto di unificazione europea sotto l’egemonia tedesca segna l’inizio dell’irreversibile declino del continente, che perde tutti i suoi imperi coloniali. Gli eserciti americano da occidente e russo da oriente, dopo aver distrutto pesantemente città, infrastrutture ed impianti, mantenevano le loro truppe di occupazione sul territorio, scrivevano le carte costituzionali degli Stati vinti e vi modellavano i nuovi partiti “democratici”. Gli americani investivano ed esportavano largamente il loro sovrapprodotto nel vecchio continente; i russi invece, affamati di capitali necessari alla industrializzazione della madrepatria “socialista”, drenavano dalla loro parte d’Europa quante più risorse possibile.

Si venne così a determinare la divisione del continente in due zone, separate dalla cosiddetta cortina di ferro. Un unico ambiente storico, che almeno da sei secoli aveva costituito un tessuto connesso da stretti scambi di merci, di conoscenze e di pensiero, si trovò tagliato in due con impossibilità di comunicazione sia commerciale sia di forza lavoro. Alla conferenza di Yalta, sotto le insegne delle riconquistate “libertà”, si veniva ad imporre uno dei peggiori oltraggi ai conclamati principi della nazionalità, del progresso, dei diritti collettivi e degli individui. Se la Seconda Guerra significa la sconfitta definitiva del ciclo internazionale di assalto al cielo proletario nel primo quarto del Novecento, la vivisezione dell’Europa, ad opera delle nuove potenze americana democratica e russa staliniana, viene a piantare le insegne della controrivoluzione sul sostrato, il crogiolo storico della rivoluzione mondiale. La nostra rivoluzione avrebbe allora avuto da fare i conti da una parte con le forze armate, aperte e clandestine, stellestrisciate, dall’altra con i carri armati dei “partiti fratelli”. I nuovi “barbari” non portavano progresso ma sanzione della controrivoluzione e suo internazionale braccio armato.

Le borghesie europee, delle quali anche le maggiori italiana e francese nella guerra avevano dato dimostrazione di tutta la loro viltà e impotenza, non riusciranno poi a scrollarsi di dosso la “protezione” militare ed economica degli occupanti, che anzi accetteranno supinamente.

Due generazioni di europei, di qua e di là, hanno vissuto in questa “sistemazione”. L’Ovest, inserito nei flussi commerciali e finanziari del mercato mondiale, si abbevera al mito “liberale”, i paesi d’oltre cortina che invece vengono a costituire un blocco relativamente più chiuso ai traffici e tendente all’autarchia, sono sospinti al mito del “socialismo”. Vinta la rivoluzione comunista del 1917-19 in Russia e in Europa e degenerata dopo non molti anni la Terza Internazionale Comunista, le parole “socialismo” e “comunismo” perdono ogni loro significato originario e di classe per divenire espressione, in economia, di capitalismo di Stato e di economia pianificata, e in politica di forma istituzionale a partito unico. Questo stravolgimento lessicale, prodotto di una nostra sconfitta storica, è pacifico in entrambi gli schieramenti, che si contendono però l’appellativo di “democratici”.

La cortina di ferro non divide due gruppi di Stati di opposta natura politica e di classe, ma è la necessaria protezione fra due aree di accumulazione capitalistica con storia diversa e con diverso grado di produttività: le merci prodotte all’Est non riescono a competere con quelle dell’Ovest. La piena integrazione dei due mercati, auspicata da entrambi almeno dal 1956, non riesce ad attuarsi nelle forme graduali e pacifiche della concorrenza commerciale.

Ovviamente il blocco orientale e tutt’altro che tale, avendo il fatto militare portato ad inglobare paesi assai diversi per storia e grado di sviluppo: quello russo è un impero che ha una periferia, quella europea, più industrializzata della metropoli, e questa stessa periferia, dal Baltico ai Balcani, non è per niente uniforme.

Il capitalismo, con tutte le sue leggi, è lo stesso medesimo ed unico; storicamente abbiamo avuto in Russia una sua istanza, che il nostro partito ha studiato e descritto nelle sue caratteristiche, nel suo maturare e del quale ha ben anticipato il corso catastrofico e sicuramente convergente col suo omologo e rivale. In Russia è mancata la espropriazione dei contadini, che a suo tempo non ha potuto imporre la nostra rivoluzione, che era anche la loro, né poi il permanente compromesso sociale staliniano, che li bloccava nei colcos. La edificazione del socialismo, cioè del capitalismo in Russia, non ha potuto fondarsi sul surplus di manodopera e di ricchezza ricavato dalle campagne. Ciò non ha impedito che un moderno industrialismo capitalistico si impiantasse in Russia e si ricostruisse sulle distruzioni della guerra nei paesi dell’Europa orientale, e che un mercato, che si ebbe l’impudenza di dire “socialista”, collegasse tutto l’impero, con scambio di minerali, prodotti agricoli e manufatti. Il tutto ha funzionato, capitalisticamente, sebbene gli ideologi dell’Est, consci del loro relativo ritardo, venissero molto presto a riconoscere che il loro modello, cui ambire e gradualmente tendere, era l’America!

Nelle due parti dell’Europa le condizioni sia della piccola borghesia sia della classe operaia sono andate gradualmente migliorando, della qual cosa si sono fatti merito rispettivamente la “libertà” e il “socialismo”, ed il che ha garantito la pace sociale. E nelle due parti d’Europa il regime di fatto si è sempre fondato su un partito unico, lacerato nella lotta fra silenziose correnti interne, ovvero fra chiassosa pluralità di denominazioni, ma con unico programma. La fase del ciclo storico vi ha in parallelo impedito la rinascita del partito di opposizione proletaria e le organizzazioni sindacali vi sono ugualmente asservite ai governi. Non v’è stata, quindi, né era da supporre, nel blocco “socialista”, una rivolta “di popolo” per la “libertà”, capeggiata da intellettuali e studenti.

Tutta questa emulazione, come si diceva, ha durato però solo fino alla crisi economica, che, all’Est come all’Ovest, ha cominciato a manifestarsi nella seconda metà degli anni Settanta. Benché relativamente protetto quello russo fa parte del capitalismo mondiale, ne segue il ritmo ed è parte del suo invecchiamento e declino.

Uno dopo l’altro sconfinati apparati statali di polizia e di capillare controllo sociale, che si dicevano di efficienza meccanica e di forza irresistibile, di fronte alla sotterranea crisi dell’economia, non sono riusciti, in tutti quei paesi, a tenere in piedi il partito dal quale da sessant’anni, o da quaranta, dipendevano e prendevano ordini. Quando è il momento i governi crollano da sé e senza colpo ferire: vedasi in Italia con Mussolini.

Dalla gravissima crisi economica, che era venuta a scardinare la complementarietà economica del blocco orientale e tutti i suoi equilibri militari e politici, esce una esplosiva crisi istituzionale che irresistibile travolge partiti e apparati uno dopo l’altro. Ma la crisi delle istituzioni statali non può divenire crisi sociale, politica e rivoluzionaria. Tranne la stagione degli scioperi in Polonia, il proletariato e la piccola borghesia solo assistono al crollo delle vecchie istituzioni, non ne sono gli artefici né ne possono approfittare per prendere il potere. In quei momenti, in quegli anni la situazione non è rivoluzionaria, manca il partito rivoluzionario, manca perfino l’allenamento operaio alla lotta sindacale. Nemmeno rinascono partiti borghesi, piccolo borghesi o contadini: non è più quel momento storico, ormai la borghesia, sociologicamente intesa, né è più al potere, sostituita al governo dello Stato da un “comitato d’affari” del grande capitale e della finanza, con stretti legami internazionali, né ha vitalità storica e forza per volerlo. Un solo partito è storicamente abilitato a farlo, quello comunista e rivoluzionario della classe operaia, quando ci sarà, alla scala mondiale.

Le folle sono quindi solo spettatrici degli eventi, li subiscono, con l’incosciente euforia di quelle che credono giornate di “liberazione”. Presto la macchina dello Stato viene rimessa in moto, opportunamente manovrata da un partito che si atteggia a nuovo ma che non è altro che il vecchio resuscitato sotto nuove spoglie, e nemmeno tanto. Ad esser impiombati, in senso letterale o figurato, sono solo i capoccia, poche unità. Passata questa prima fase della crisi, torna la dittatura del capitale come prima. La crisi economica però continua, in una spaventosa miseria per la classe operaia e per la piccola borghesia, che si riflette in una diminuzione della vita media di molti anni.

Nella relativa continuità politica c’è stata una catastrofica e distruttiva crisi economica, e le sue conseguenze restano. Ed è un fallimento del capitalismo in generale: spazzato via per sempre il mito della possibilità di un capitalismo razionale, controllato da un piano e ubbidiente ai voleri di un centro. Spazzato via il mito della possibilità di una distribuzione egualitaria di merci per il consumo, l’abitazione e la sicurezza della classe lavoratrice. Via il mito di un graduale miglioramento delle condizioni del lavoro salariato e di una sua equa ripartizione fra tutti gli uomini. Dopo la crisi dei capitalismi di Stato tutta la ideologia del capitalismo mondiale deve ritirarsi sulle sue trincee originarie pre-socialdemocratiche e pre-fasciste.

Del declino economico e della debolezza dei due gendarmi, prima russo poi americano, possono approfittare in una certa misura le borghesie europee, che ristabiliscono traffici e influenze fra Est ed Ovest. Ma altri giganti si profilano all’orizzonte: sotto un qualche padrone sono costrette a stare.

Ma quella a cui abbiamo assistito venti anni fa, come chiaramente scrivemmo nel 1991, è solo l’anticipazione, nel suo anello più debole, di quella che sarà la vera crisi generale del capitalismo in tutto il mondo, una crisi di sovrapproduzione che farà tremare le classi dominanti in tutti i paesi e rovinare le loro fradicie istituzioni. Sarà allora che, chiuso un lungo ciclo di accumulazione planetaria, si porrà la questione del comunismo, del vero comunismo, del partito e della rivoluzione di classe.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Lettera da Shanghai

Shanghai si prepara al grande evento, l’Expò 2010, e, in concorrenza con la Pechino delle olimpiadi 2008, vuol strafare nel gigantismo edilizio. Il brulicante mondo cinese procede incessantemente nelle costruzioni: accanto ad altissimi grattacieli immense aree che un tempo erano delle “ridenti” risaie oggi sono ridotte ad un disordinato ammasso di fabbriche sputaveleno ed ammazza operai.

La crisi dello scorso anno ha colpito pesantemente le imprese cinesi, anche quelle delle costruzioni, così i lavori di preparazione hanno subito enormi ritardi e la città adesso come non mai è in preda ad un caos quotidiano generalizzato. Il traffico, che normalmente si svolge con code interminabili, adesso ha del parossistico. Arrivare a Pudong, che è la città nuova al di là del fiume, nelle ore di punta è praticamente impossibile. I cinesi allora si riversano nelle metropolitane, anche per risparmiare, visti i tempi che corrono, così anche le corsie riservate ai pedoni, biciclette e motorini si ritrovano intasate con lunghe code sui marciapiedi.

Barboni e mendicanti sono in sensibile aumento, oltre ad una moltitudine di giovani che dalle province più interne della Cina vengono nelle città a cercar fortuna, o comunque da mangiare. Anche i più intraprendenti ormai si sentono sfuggire dalle mani l’opportunità di arricchirsi come hanno fatto molti, e relativamente ai numeri cinesi, in questi anni di boom economico, e quindi si buttano in imprese sciocche e pericolose nel tentativo di far fortuna in pochi giorni distruggendo se stessi e le proprie famiglie, lasciandole sul lastrico dopo bancarotte impensabili solo fino allo scorso anno. Imprenditori falliti fuggono e fanno perdere le loro tracce per la paura di ritorsioni da parte dei creditori ma con la certezza di finire prima o poi in galera per un tempo indeterminato.

Le contraddizioni, insomma, del “nuovo” capitalismo monopolistico cinese si vanno via via acuendo: separazione fra città e campagna, che significa miseria crescente del proletariato sia delle città sia delle campagne, con la sterminata moltitudine di contadini poveri ancora ben presente nella Cina moderna, e l’arricchimento di pochi potenti che detengono alte percentuali del mercato mondiale in tutti i settori, non ultimo quello agricolo.

Il governo cinese lamenta la mancanza della classe media e spinge con tutti i mezzi ad un demente consumismo. Ma i tempi della creazione della middle class in Cina forse ormai sono persi per sempre. Gli operai ed i lavoratori in genere lamentano sempre più spesso i bassi salari e gli aumenti di tutti i generi li costringono a tirare la cinghia. Le parole dei governanti si dimostrano così illusorie ed offensive.
 
 
 
 
 
 
 
 


Bilancio di una pandemia

Quasi ogni anno, con una regolarità piuttosto singolare, un nuovo virus entra nelle vene, nei polmoni ma soprattutto nei pensieri e nei portafogli del genere umano. Così, dopo le recenti ma oramai dimenticate Sars e influenza aviaria, solo per citare le ultime, ecco pronta sul palcoscenico, con la stessa portata di terrore che aveva una peste medievale, la nuova e ancor più oscura influenza suina, genericamente chiamata Influenza A.

Questa avrebbe avuto origine in un piccolo paese del Messico, nel quale esiste uno dei più grandi stabilimenti industriali di allevamento di maiali, uno dei tanti del paese dove, grazie al Trattato di libero Commercio sottoscritto con gli Stati Uniti, svariate multinazionali americane hanno trovato terreno fertile per il loro business alimentare.

Nel paese si erano denunciate già da mesi problematiche respiratorie su circa metà della popolazione. L’allarme è però rimasto inascoltato fino che, per la sua alta capacità di diffusione, l’influenza è riuscita ad arrivare quasi in ogni angolo del mondo. Successivamente una direttiva dell’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha riconosciuta come pandemia, e ha indicato a tutti i paesi di munirsi di vaccino. Da qui in poi sarà sulle prime pagine dei giornali.

Noi comunisti, benché non specialisti virologi, lo siamo però del virus capitalista, e questa nostra secolare consolidata e comprovata esperienza, nonché disgusto, ci consente, con forza di scienza, di sapere che loro non sanno. Troppi e troppo grandi interessi vengono nei laboratori ad appannare e distorcere le lenti dei microscopi perché i poveri ricercatori possano ben vedere e ben riferire. Basti una sola notizia: le industrie farmaceutiche, si legge nei loro bilanci, spendono in pubblicità più che nella vantata ricerca. Perché la loro ricerca è solo del profitto.

Le “campagne di informazione” televisive, sempre più improntate al bamboleggiamento e alle scempiaggini, che coprono la protervia del regime borghese, non tranquillizzano né nascondono che nella società capitalista la conoscenza della realtà diventa inaccessibile, ridotta a mito, sentito dire, superstizione. Lo confermano le dichiarazioni contraddittorie perfino di addetti ai lavori, alcuni dei quali, per esempio, ritengono che questa influenza non avrebbe nulla di nuovo perché non sarebbe altro che la vecchia aviaria di ritorno, dal momento che non è mai stata debellata.

Sembra che siano i volatili il serbatoio di questi tipi virali (l’H1N1 ovvero un Ortomixovirus per la suina e H5N1 per l’aviaria). Tali virus possono passare da una specie animale ad un’altra e cambiare di volta in volta le loro caratteristiche, magari rafforzandosi diventando più virulenti. Questi passaggi e le successive modificazioni del virus sono stati studiati e si è scoperto, come prevedibile, che sono facilitati dall’ambiente degli intensivi capannoni industriali, dove risiedono animali diversi con diverse caratteristiche immunitarie, magari sottoposti a stress, a massicci trattamenti terapeutici, e soprattutto in pessime condizioni igieniche. È evidente che le condizioni dell’allevamento nel capitalismo sono quelle migliori per la trasmissione e trasformazione dell’agente virale.

Il virus quindi riesce a fare il salto fra le specie animali fino ad arrivare all’uomo, con trasmissione tramite i secreti bronco polmonari e le feci; pare non con la carne. Individui immunologicamente deboli saranno colpiti in maniera più grave, altri, la maggioranza, avranno conseguenze diverse ma non pericolose.

Una società non basata sul profitto cercherebbe di aver cura della salute animale e di bloccare la riproduzione del virus già tra i capi dello stesso allevamento e la trasmissione fra allevamenti, sì con trattamenti farmacologici ma piuttosto migliorandone le condizioni igieniche, la selezione, l’alimentazione. Il comunismo non è a priori contrario ai vaccini, nell’animale e nell’uomo, tutt’altro, non a tanto arriva la nostra disistima dei progressi medici, stupida moda recente fra la piccola borghesia, pusillanime ed ignorante. Noi critichiamo il loro uso nel capitalismo.

In questi tempi di crisi mondiale il capitale ha visto nell’epidemia un ricco sbocco di mercato, ed ecco il fior fiore delle industrie farmaceutiche che come avvoltoi si sono buttati sulla preda: la svizzera Novartis che da 150 milioni di dosi del suo vaccino Focetria otterrà tra i 400 e i 700 milioni di dollari di ricavi, la britannica Glaxo che a breve piazzerà oltre 400 milioni di dosi del suo Pandermix, la svizzera Roche che, forte del suo già “sperimentato”, e a quanto pare inutile, Tamiflu, conta di stabilire nuovi insperati record di vendite. Quest’ultima multinazionale negli anni passati, durante l’influenza aviaria, dalla vendita di milioni di dosi soprattutto ai paesi asiatici, ma anche 14 milioni in Inghilterra, ha quadruplicato le vendite.

Ricavi spaventosi, tanto che un tale Donald Rumsfield, che possedeva azioni della ditta che per prima aveva sviluppato l’Oseltamivir, il principio attivo del Tamiflu, da solo ha intascato un milione di dollari.

Oggi, in attesa del terzo macello mondiale, unica soluzione alla crisi di sovrapproduzione capitalista, il fatturato delle multinazionali farmaceutiche primeggia persino sull’industria degli armamenti: per le vaccinazioni infatti si attesta intorno ai 10 miliardi di dollari, che comprende solo circa il 3% del loro fatturato totale.

Si capisce quindi perché il mondo viene inondato da notizie allarmanti. Quando apparve l’influenza dei polli, l’aviaria, non si parlava d’altro nonostante causasse poco più di 300 morti, un’inezia rispetto all’influenza comune che provoca ogni anno quasi mezzo milione di decessi. La suina, ad oggi, non ha ingenerato molti morti più dell’aviaria: ad oggi per l’influenza A nel mondo sono infatti 6.000. Il bollettino diffuso dall’Organizzazione mondiale della sanità dice che i casi di contagio sono 482.300 ma aggiunge che il numero potrebbe essere significativamente più alto visto che molti Paesi hanno smesso di contare i casi data la natura leggera della malattia nella maggior parte dei contagiati.

È quindi facile rendersi conto di come tutto questo allarmismo sia creato ad arte, voluto e alimentato dal capitale in nome di sua maestà il profitto, che mantiene, uomini e bestie, artificialmente in vita e attivi con ogni tipo di drogatura, in situazioni di scarso igiene, di sovraffollamento, di sovrapproduzione, di sovralavoro e fatica. Questa riduzione dell’uomo ad oggetto e la società ad allevamento di schiavi è connaturata al modo di produzione fondato sul capitale.

Ingenuo, a dir poco, invocare medicine alternative o naturali, da imporre con boicottaggi commerciali, sviluppi contenibili o regolamentazioni statali, tutti vicoli tortuosi, religioni utopiche che ricercano la soluzione all’interno dello stesso capitalismo. Questa facile pseudo-scienza fa comodo al capitalismo perché fa credere che sia riformabile, migliorabile solo col ricorso al buon senso e alla buona volontà, non considerando le ineliminabili leggi economiche dell’attuale società.

Il sistema in cui viviamo non ha per fine migliorare le condizioni di vita del genere umano: vive, oggi diremmo sopravvive, solo per produrre profitto né mai uscirà da questo dogma. Contro i sognatori, soprattutto di sinistra, del capitalismo dal volto umano, Marx più volte dimostra come il capitalismo ha solo una morale, la sua, la legge del saggio del profitto, per sostenere il quale la produzione deve sempre crescere, sempre! Ed è del tutto indifferente su come cresce e sul cosa produce. Per esempio al capitale poco importa se, a seguito della ricerca di profitto, le moderne metropoli, da New York e da Londra fino a Bombai a Pechino e a Città del Messico, uccidono per l’avvelenamento dell’aria ben più che le temute pandemie.

Oggi come ieri il partito rivoluzionario ribadisce ciò che la miseria del presente ancora una volta dimostra: finché la rivoluzione non verrà a liberare la nuova società dal profitto e dal capitale, l’umanità si troverà sospesa nella lacerante contraddizione fra lo sviluppo oggettivo delle conoscenze e delle potenzialità di saggio intervento dell’uomo su sé stesso e su tutto il mondo vivente, e la impossibilità di trarre vantaggio da tale forza, che al contrario si rivolge contro, schiaccia e accieca i suoi creatori.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2


L’anti-irredentismo di una sinistra della Seconda Internazionale di fronte alla Prima Guerra
La Sezione Italiana Adriatica del Partito Operaio Socialista in Austria
 

Pubblichiamo qui il secondo capitolo dello studio: il primo si può leggere nel numero 335.
 

Da Milano e da Trento

Significativa la lettera scritta, nel 1895, da Filippo Turati ad Antonio Gerin che gli aveva comunicato la costituzione, a Trieste, della Lega Sociale-Democratica:

«Milano, 15 febbraio 1895
    «Caro compagno,
    «la notizia che siete finalmente riusciti a costituire una società operaia italiana, informata ai grandi principi del socialismo internazionale, mi riempie l’animo di gioia fraterna. Io sono certo d’interpretare il vivo sentimento di tutti i compagni residenti in Italia, inviandole un saluto ed un plauso cordiale. Noi traversiamo qui un periodo triste di dispotismi e di vergogne, che dimostra quanto poco la patria borghese sia patria al proletariato e ai suoi difensori. In Italia la patria dei generosi italiani è ormai il carcere o qualcuna delle isole maledette, dove stanno accomunati coi piccoli ladri e coi piccoli assassini, che i ladri e gli assassini in grande, che i grandi industriali della delinquenza, detentori del potere, sequestrano per sventare la criminosa concorrenza.
    «Ma il cuore mi si allarga ogni qualvolta vediamo che, alle vecchie patrie sfruttatrici e dissanguatrici dei loro figliuoli, i lavoratori del mondo – la parte sana dell’umanità, alla quale appartiene l’avvenire – vanno a mano a mano sostituendo una patria nuova e più larga e più moderna; la patria del lavoro e del progresso, che non conosce disumani odi di razza ed esose invidie di confini [...]
    «Viva l’internazionalismo italiano, viva, dovunque pugni per la buona causa, l’Italia lavoratrice internazionale! E abbiatevi da me e da tutti i compagni di qui i nostri auguri migliori.
    «A voi, caro Gerin, una stretta di mano.
    «Vostro Filippo Turati».
È un fatto che l’Italia, per tutto il periodo post-unitario del XIX secolo percorsa dalla violenta repressione antipopolare ed antiproletaria, non poteva certamente rappresentare per i lavoratori italiani soggetti all’Austria una meta da vagheggiare: da una eventuale annessione avrebbero avuto da guadagnare solo fame, prigione e piombo. Anche per questa ragione il sentimento annessionista restava completamente estraneo ai militanti di un partito della classe operaia che in Italia stava soffrendo serie condizioni persecutorie.

Però, mentre i socialisti istriani e triestini mantennero intatto il loro sentimento squisitamente internazionalista anche quando, nel periodo giolittiano, maturò un clima politico favorevole alla rinascita dell’irredentismo, al contrario i socialisti Trentini, con il loro dirigente Cesare Battisti, erano impregnati di sentimenti patrii.

Lo sviluppo sociale ed economico del trentino era praticamente fermo da secoli, la sua economia, salvo rarissimi casi di industrialismo, poteva definirsi ad un livello precapitalistico, la classe operaia era una porzione esigua rispetto al resto della popolazione e i conflitti di classe non arrivarono mai a prevalere sui sentimenti nazionali. Di fronte alla massa contadina indifferente o addirittura austriacante, la lotta nazionalistica impegnava soltanto una parte della piccola e media borghesia cittadina e di riflesso raggiungeva l’organizzazione socialista. Il movimento sindacale, espressione più diretta della base operaia, si trovava ad essere più a sinistra del partito stesso. L’affermazione di Tavecchia, sopra riportata, che “i compagni di Trento sono del nostro stesso parere”, pecca forse di ottimismo.

Infatti le loro intenzioni non tardarono a venir fuori. L’occasione fu la proposta di Galantara, pubblicata sull’Avanti! del 16 agosto, secondo il quale il Convegno avrebbe dovuto affermare il ricorso allo sciopero generale nei due Paesi come mezzo estremo per scongiurare la guerra fra Italia ed Austria-Ungheria. I trentini si dissociarono in modo aperto a questa proposta definita “infruttuoso martirio” che avrebbe esposto «la Nazione e lo Stato civilmente progrediti (...) alle cupide brame dei vicini più barbari, ove di uno sciopero generale dei lavoratori e dei soldati per impedire la guerra non sarebbe permesso nemmeno parlare». Considerare infruttuoso il martirio a cui il proletariato si sarebbe esposto nella sua volontà di opporsi alla guerra, significava considerare fruttuoso quello dovuto al sacrificio nei fronti di battaglia.

E, «per il caso che la guerra avesse, malgrado nostro, a presentarsi inevitabile e a breve scadenza – continuavano i trentini – allora l’unica determinazione che la nostra coscienza socialista può farci prendere (...) è quella preannunciata testé dal Turati, quando diceva che in questo caso daremo tutta la nostra opera perché nella tenzone non rimanga soccombente la causa che meglio rappresenta il progresso umano» (Il Popolo, 20 agosto 1904)

D’altra parte anche l’entusiasmo per il convegno internazionale, mostrato in un primo tempo dal PSI, si raffreddò ben presto e, dopo una serie di rinvii, il 9 ottobre l’Avanti! pubblicava un ordine del giorno votato a Firenze secondo cui l’incontro avrebbe dovuto avere carattere ristretto: cinque rappresentanti della Direzione e del gruppo parlamentare di ognuno dei due paesi. «Cinque intellettuali da una parte e altri cinque dall’altra, e voi pecore proletarie ubbidite!». Questo fu il sarcastico commento de Il Lavoro, organo sindacale triestino, alla deliberazione di Firenze.

Al contrario, il disimpegno da parte del PSI piacque molto a Cesare Battisti: «Il convegno di pochi potrà giovare molto (...) mentre un grande comizio con molte chiacchiere gioverebbe solo ai mitigai che vanno alla caccia di réclame personale ed anziché orientare il partito lo disorienterebbe». E, perché il partito non venisse disorientato, il Battisti proponeva che del convegno non se ne parlasse addirittura: «Quanto all’opera di propaganda è meglio che di propaganda ora non se ne faccia. Prima di fare della propaganda bisogna avere delle idee chiare e idee chiare per ora non ne scorgiamo» (Il Popolo, 15 ottobre 1904).

Di parere completamente opposto erano i socialisti di Trieste che, in una lettera ad Adler, ricordavano di aver proposto al Partito italiano l’allargamento del convegno soprattutto ai giornali socialisti per dargli il massimo risalto e la massima pubblicità e ribadivano quali avrebbero dovuto essere gli scopi dell’incontro: «1) Manifestazione internazionale per la fratellanza e la pace; 2) stabilizzazione dei rapporti tra socialdemocratici italiani dei due paesi» (Pittoni ad Adler, 17 ottobre 1904).
 

Nuova convocazione

Nel marzo del 1905 i socialisti triestini riproposero l’iniziativa del convegno ed il 23 marzo Il Lavoratore diramava l’invito alla conferenza fissata a Trieste per la terza decade di aprile.

Si sarebbe dovuto trattare di un doppio convegno. Il primo tra i socialisti italiani dell’Austria e d’Italia, sulla base di due relazioni: sulle condizioni dei socialisti italiani in Austria di fronte al problema nazionale e sui rapporti tra i socialisti d’Italia e i socialisti italiani dell’Austria. L’altro, un convegno segreto internazionale, dove in rapporto agli elementi emersi da quello precedente, i delegati dei due partiti, austriaco e italiano, avrebbero discusso sullo stato politico dei rispettivi paesi, concordando una linea d’azione comune contro il pericolo di guerra.

Al convegno erano invitati anche delegati delle regioni adriatiche e del Trentino e si dava come “probabile” l’intervento di rappresentanti del partito socialista democratico tedesco, un punto su cui da parte italiana, ad opera soprattutto di Bissolati, si era particolarmente insistito. Già da allora si prevedeva la presenza di Marangoni e Lerda per la direzione dei PSI, di Bissolati, Ferri, Chiesa, Rondani, Rigola per il gruppo parlamentare socialista, di Adler, Ellenbogen, Pernerstorfer per il partito socialista austriaco, di Daszynsky del partito socialista polacco dell’Austria, di Nemec del partito socialista cèco e delegato del BSI, di Kristèan del partito socialista sloveno, di Pittoni e Susmel per i socialisti del Litorale e di Piscel per i socialisti trentini.

Pochi giorni mancavano alla data prevista per il convegno quando da parte del PSI venne chiesto un ulteriore rinvio.

Di fronte a questo nuovo aggiornamento del defatigante impegno, Pittoni diede alle stampe e diffuse la relazione che aveva già da molto tempo preparata. I compagni già la conoscono perché è stata integralmente ripubblicata nel n. 59, dicembre 2005, della nostra rivista Comunismo.

È una relazione che, seppure nell’ottica tipica della Seconda Internazionale, affronta tutte le maggiori questioni poste al movimento internazionale socialista dalle necessità dell’ora. Si scaglia chiara e tagliente contro l’irredentismo, soprattutto negando che nelle regioni adriatiche l’irredentismo potesse accampare tradizioni storiche o di massa. Senza mezzi termini viene anche condannato il movimento irredentista in Italia che incoraggiava il militarismo austriaco, gli ambienti propugnatori dell’espansionismo balcanico, e quindi offriva un altro motivo di rottura tra il proletariato dei due paesi. L’irredentismo altro non rappresenta che un comodo pretesto per sviare le popolazioni dalla chiara concezione dei loro interessi, si tratta di un vero e proprio strumento di narcosi politica. All’irredentismo borghese si deve opporre 1’irredentismo proletario aspirante ad emancipare i popoli oppressi.

Il documento allarmò i dirigenti trentini a tal punto che Cesare Battisti ingaggiò una aperta polemica su Il Popolo del 18 maggio nei confronti dei compagni del litorale, rivendicando le particolarità locali ed etniche che, nella provincia tirolese, giustificavano le ragioni morali, intellettuali, economiche e sociali della lotta nazionale, legittimando (anche nelle forme del connubio tattico con le forze della borghesia liberale) il contributo che vi davano i socialisti trentini, ben più di quanto facesse il partito socialista a Trieste.

Confermando la sua totale sfiducia sui risultati concreti dell’incontro di Trieste, Battisti non nascondeva i suoi sentimenti irredentisti quando dichiarava che nel Trentino il partito, già impegnato nel programma “minimo” nazionale (autonomia), sarebbe stato anche pronto, all’occasione, a cooperare ad un programma “massimo” nazionale. Dava quindi mandato al proprio delegato di portare al congresso la dichiarazione che «una assoluta uniformità di vedute non è possibile per tutti i socialisti italiani dell’Austria».

In una lettera ad Adler, Pittoni esprimeva tutto il suo disappunto nei confronti di Battisti e della sua federazione in questi termini: «Quei compagni non sono mai stati in grado di attuare una autonoma politica proletaria; sono dominati dalla ideologia borghese e si lasciano trascinare nelle più grandi stupidaggini. Lei dovrebbe sollecitare Avancini a venire a Vienna e ad assumersi la sua parte di responsabilità. Egli è per altro verso un uomo ragionevole, mentre Battisti è un bastian contrario, dal quale gli altri si lasciano influenzare. Noi siamo qui in dura lotta contro gli irredentisti, che usano contro di noi tutti i mezzi, compresi i colpi di revolver, e nel Trentino i socialdemocratici scioperano a favore degli irredentisti» (28 settembre 1909). Il fatto che questa lettera sia sfasata di qualche anno rispetto agli avvenimenti che stiamo descrivendo contribuisce a dimostrare quanto il problema fosse incancrenito.

La stampa socialista italiana si collocò, praticamente, sulle posizioni dei trentini gettando molta acqua sull’entusiasmo dei promotori istriani. La giustificazione ricorrente del disimpegno italiano era la mancanza di compattezza nelle file del socialismo austriaco che ne indeboliva il peso politico e non garantiva una necessaria contropartita all’impegno dei socialisti italiani. Considerando in particolar modo il problema balcanico, si pretendeva che il Partito Socialista di Austria desse assicurazione «affinché non abbia a succedere che i socialisti del Regno fermino la mano all’Italia, nel tempo che i socialisti austriaci si addimostrassero impotenti a fermare la mano all’Austria». La situazione era tale che, alla vigilia del convegno, la preoccupazione di tutti non era quella della riuscita dell’incontro internazionale e della pressione che il proletariato unito al di sopra dei confini nazionali avrebbe potuto esercitare sulle rispettive borghesie indigene, la preoccupazione era essenzialmente quella di trovare giustificazioni al disimpegno reciproco motivandolo con la poca affidabilità delle garanzia e delle promesse che gli interlocutori avrebbero potuto fare.
 

Il convegno di Trieste

Il Lavoratore di Trieste annunciava il programma del convegno nel numero del 18 maggio 1905. La mattina del 21 si svolse la seduta inaugurale. Erano presenti: Bissolati, Ferri, Lerda, Marangoni, Rigola, Rondani, per gli italiani; Adler, Ellenbogen, Pernerstorfer per i socialisti austriaci; Bokanji, Buchinger, Goldner per i socialisti ungheresi; Nemec per i socialisti cèchi; Kristan per i socialisti sloveni; Chiussi, Lazzarini, Oliva, Petronio, Pinguentini, Pittoni, Pagnini, Susmel di Trieste, Piva e Lirussi di Pola, Grassi di Udine, Contenti di Pirano per la Sezione adriatica del partito socialista austriaco; Piscel per la Sezione trentina. Ospiti del convegno gli sloveni Kopac, Kermolji, Panèk, Vidmar, mentre fu assente Villim Bukseg, uno dei dirigenti del socialismo croato; presente anche Francesco Ciccotti, in rappresentanza della stampa socialista triestina.

Come si vede aveva prevalso la tesi del convegno allargato, sostenuto dai triestini e condiviso in sostanza da Bissolati, che si rammaricò anzi per l’assenza dei socialisti tedeschi, i quali si limitarono ad inviare una lettera di adesione: ciò che ai suoi occhi sminuiva fortemente il peso politico dell’incontro.

Dopo la nomina della presidenza, nelle persone di Susmel e Piscel, ed i brevi discorsi di saluto e di augurio di Pittoni, Lerda, Rigola, Piscel, cui risposero Adler, Nemec, Buchinger e Kristan, i delegati parteciparono al previsto comizio internazionale antimilitarista. Vi presero la parola Bissolati, Marangoni, Ferri, Pittoni, Adler, Ellenbogen, Nemec, Buchinger, Kristan, unanimi nella condanna dello sciovinismo guerrafondaio e con un comune impegno nella lotta a fondo contro il militarismo. In particolare, Adler proclamò la volontà della socialdemocrazia austriaca di battersi per liberare le nazionalità oppresse dal regime centralista, ed Ellenbogen denunciò con violenza le responsabilità degli ambienti militaristi austriaci.

I lavori veri e propri iniziarono nel pomeriggio in seduta pubblica, con la relazione di Pittoni. Affrontò gli stessi temi della relazione preparata precedentemente e data alle stampe, ma ancor di più calcò la mano sul pericolo dell’irredentismo. Alla obiezione che il suo accanito anti-irredentismo chiudesse le porte in faccia a molti che avrebbero potuto aderire al partito socialista, rispose che allentando le maglie «riusciremo semplicemente a questo: ad avere dopo qualche tempo nel nostro partito un gran numero di socialisti nazionalisti o meglio di nazionalisti socialisteggianti (...) mezzi socialisti, mezze coscienze, venute apparentemente ad aiutare il nostro lavoro, in realtà a distruggere il nostro partito».

Il problema della pace era strettamente collegato a quello irredentista e il vero senso del congresso non stava tanto nel fissare i mezzi per opporsi alla guerra, quanto quello di rimuoverne le cause, diremmo “culturali”. Da qui il rinnovato appello ai socialisti italiani per una lotta a fondo contro i moti irredentisti, ed ai socialisti austriaci per una più intensa azione a favore delle autonomie nazionali. L’ingenuità di questo indirizzo è evidente: chi difendesse nel movimento le patrie pretese irredentiste è certo un traditore, ma denunciare l’irredentismo non basta in quanto è solo un pretesto e non la causa della guerra, che è nell’economia.

Parlando a nome del partito austriaco Adler con tutta franchezza ammetteva: «Noi difficilmente potremo impedire la guerra», e quindi, in riferimento alla proposta italiana di uno sciopero generale in caso di conflitto, egli dichiarava pubblicamente che per loro la cosa era fuori di ogni realistica prospettiva. Secondo Adler una volta scoppiata la guerra, ogni intervento socialista sarebbe giunto tardivo.

Il dibattito fu ripreso nella mattinata del giorno seguente con l’intervento di Piscel, il delegato trentino, che risuonò come un vero e proprio affossare lo spirito del convegno. Dopo avere ribadito le differenti condizioni geografiche, economiche e sociali del Trentino rispetto alle regioni adriatiche, e dopo avere posto l’accento sull’urgenza di soddisfare le richieste autonomiste italiane, ammise però che i socialisti di Trento avrebbero considerato solo scopi provvisori il raggiungimento di quegli obiettivi, perché “la sola soluzione ragionevole” ed irrinunciabile era l’annessione all’Italia.

Dopo affermazioni di questa portata, la dichiarazione di condanna nei confronti della guerra sembra essere stato solo un atto formale. Non si capisce infatti in quale altro modo, che non fosse la guerra, si presumeva di imporre all’Austria un’amputazione territoriale che avrebbe dato il via al dissolvimento del suo corpo statale. Di qui la tortuosità di certi passi, nello sforzo di conciliare l’inconciliabile, ma che annunciavano esplicitamente quale sarebbe stato l’atteggiamento dei trentini, ed in particolare di Cesare Battisti, nei confronti della guerra, quando fosse venuta.

«Noi trentini non sentiamo la fretta irredentista degli irredentisti (...) Noi, pur essendo irredentisti, non nel senso dell’irredentismo borghese, non vogliamo che la soluzione avvenga con la guerra. Tuttavia noi non possiamo permettere che il Trentino se ne resti in pace finché non otterrà giustizia nelle sue legittime richieste nazionali».
 

Confermati tutti i limiti della Seconda Internazionale

Al di là di tutte le buone intenzioni dichiarate dagli altri convenuti, da Bissolati ad Adler, da Pittoni a Lazzarini, il convegno dimostrò l’incapacità dei due partiti di darsi un programma che andasse appena oltre le particolari rivendicazioni quotidiane che avevano caratterizzato la tattica e l’azione politica dei partiti della Seconda Internazionale.

Solo una cosa venne approvata all’unanimità, e rappresentò il segno del totale fallimento dell’incontro: i delegati concordemente deliberarono che non sarebbe stata votata alcuna risoluzione conclusiva. Ci si sarebbe riferiti all’esito del “convegno internazionale segreto”, del pomeriggio dello stesso giorno. Ma la “riunione segreta” praticamente non poté che ripetere quanto era stato detto nell’incontro allargato. Sull’irredentismo, pur condannato in linea di principio come motivo di inasprimento dei rapporti tra i popoli, si finì però, secondo quanto era apparso opportuno nel convegno allargato, col decidere di non pronunciarsi, considerando che «non [era] il caso di ipotecare il futuro».

I delegati italiani tuttavia si dichiararono pronti a contrastare in Italia la propaganda e il movimento annessionista. Riproposta l’arma dello sciopero generale quale mezzo per impedire lo scoppio della guerra, da parte dei delegati italiani venne dichiarato che il PSI avrebbe potuto ricorrere anche a quel mezzo estremo, mentre i colleghi austriaci negarono di poter arrivare a tanto: «Si potrebbe al massimo – fu detto – cominciare una piccola agitazione, ma nulla più». In fondo questo era quanto i rappresentanti del PSI volevano sentirsi dire. Era stato proprio Bissolati che una settimana prima, il 14 maggio, sul Azione Socialista aveva polemizzato con il “mito” dello sciopero generale e fu sempre Bissolati che non molto tempo dopo avrebbe ricordato come l’atteggiamento del partito socialdemocratico di Austria avesse restituito libertà di azione ai socialisti del PSI i quali, in caso di guerra si sarebbero riservati «di far valere il loro diritto, o meglio, di adempiere al loro dovere di difendere l’indipendenza nazionale» (Il Tempo, 23 ottobre 1906).

La risoluzione finale si ridusse a generici riconoscimenti, con ampie perifrasi che nascondevano il disimpegno persino di fronte a problemi di fondo, come quello di un’aperta sconfessione dell’irredentismo annessionista:

    «Il convegno, approvando la relazione del compagno Pittoni, dichiara: essere compito del proletariato d’Italia e Austria-Ungheria continuare a combattere senza tregua, come finora fu fatto, le richieste e le espansioni militari. E poiché la democrazia socialista dell’Austria, conformemente al programma di Brünn, considera l’autonomia nazionale come il presupposto della libertà di sviluppo di ciascun popolo, riconosce giuste le aspirazioni del Trentino all’autonomia. Così pure appoggerà le legittime necessarie richieste degli italiani – come quelle delle altre nazionalità – riguardo alla cultura nazionale. Ciò come finora si fece e come specialmente ebbe a dichiarare in nome del partito il deputato Ellenbogen nelle discussioni parlamentari sull’università italiana. Il partito socialista di entrambi gli Stati considera inoltre come proprio dovere opporsi con ogni energia così nel Parlamento come nella stampa al tentativo di adoprare gli interessi nazionali per provocazioni militariste o per la politica dell’espansionismo bellicoso e opporre a questo tentativo, senza lasciarsi traviare dalle insidie dello sciovinismo, l’unica e vera politica del proletariato che consiste nel favorire lo sviluppo economico, politico e intellettuale di tutte le nazionalità. Esorta il proletariato di qua e di là del confine a continuare con fermezza sul terreno della lotta di classe, il proprio lavoro di organizzazione che lo unisce al proletariato di tutti gli altri paesi. Agli intrighi diplomatici, alle ambizioni dinastiche dei due Stati, la democrazia socialista oppone la solidarietà del proletariato d’Italia con quello di tutti i popoli che vivono nell’Austria-Ungheria».
Il documento portava le firme di Adler, Kristan, Pittoni, Piscel, Lazzarini, Oliva, Nemec, Ellenbogen, Pemerstorfer, per la direzione del partito e il gruppo parlamentare socialista dell’ Austria; Lerda, Morgari, Ferri, Bissolati, Rigola, Rondani, per l’Italia; Bokanji, Buchinger, Goldner, per l’Ungheria. Chi volesse approfondire il tema del “convegno segreto” può trovare negli archivi di Stato di Vienna un dettagliato rapporto stilato dalla polizia asburgica.

Il convegno internazionale di Trieste può essere, quindi, considerato come una anticipazione dello sbandamento socialdemocratico ed il rinnegamento del proclamato internazionalismo posto di fronte a quello che sarà il fatto compiuto nel 1914.

Solo il delegato trentino Piscel poteva dichiararsi soddisfatto dell’esito del convegno, per il fatto era stata superata «quella fase per così dire infantile della prima affermazione internazionalista, nel senso semplicista della parola che involge, se non la negazione della patria e delle questioni nazionali, almeno una eccessiva trascuranza delle stesse» (citato in: “Il PSI e la Grande Guerra”, Rivista Storica del Socialismo, anno X, fasc. 32).

Dell’insuccesso del convegno internazionale socialista gioiva Il Piccolo di Trieste che, sfortunatamente a ragione, aveva definito i suoi lavori come “mera accademia” e commentava: «Tutte le questioni toccate furono per così dire spiritualizzate in una forma così vaga, così generica, così evanescente dal punto di vista della politica pratica, da meritarsi, più che il titolo di forma, quello di formalità» (24 maggio 1905).
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 3


Crisi economica e organizzazione di difesa sindacale

In tutto il mondo la crisi economica del capitalismo si ripercuote gravemente sulle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia. Si ha un bel dire “Noi la crisi non la paghiamo”, non sarebbe capitalismo se gli effetti nefasti di questo modo di produzione non ricadessero principalmente proprio sul proletariato. L’unica possibilità che ha la classe operaia per non pagare la crisi è abbattere il capitalismo. Col che cesseranno le crisi economiche in quanto saranno eliminate le loro stesse radici. All’interno del modo di produzione capitalistico la classe lavoratrice può solo resistere agli attacchi che subisce, e che in esso hanno la loro profonda origine, ingaggiando una lotta difensiva. Questa è la lotta economica, o sindacale che dir si voglia, la quale, giunta ad un certo grado di sviluppo ed intensità, con un passaggio da quantità a qualità, diviene lotta politica. Entrambe le forme sono due livelli, fra loro dialetticamente connessi, della lotta di classe; il secondo superiore al primo, il primo necessario al secondo. Condizione necessaria per il passaggio dalla lotta economica della classe operaia a quella politica è il partito di classe. Condizione necessaria, ma non sufficiente, a questo salto di qualità della lotta è il sindacato di classe, in qualunque forma venga a presentarsi.

L’allargarsi dell’esercito dei disoccupati – che Marx definì esercito operaio di riserva – preme sui lavoratori occupati, costringendoli ad accettare salari più bassi. I metalmeccanici, ad esempio, si stanno apprestando ad ingoiare il rinnovo contrattuale con l’aumento nominale più misero degli ultimi decenni. Questo è determinato da un lato dal peso della cassa integrazione e dallo stillicidio di chiusure di manifatture, dall’altro dall’opera disfattista della FIOM che affoga ogni serio tentativo di preparazione di una mobilitazione reale dei lavoratori, nella rivendicazione fallimentare del referendum, nella raccolta di firme per proposte di legge, in scioperi rituali di quattro ore e divisi per località.

Non è solo abbassando il salario che cresce lo sfruttamento dei lavoratori, altri strumenti sono l’aumento dell’intensità del lavoro – la famosa produttività – e dell’orario – ad esempio con lo straordinario. Tutti questi metodi furono descritti minuziosamente da Marx nel Capitale e trovano conferma quotidiana nella condizione operaia in tutti i paesi, del passato, del presente e del futuro capitalistici.

È chiaro che per il comunismo rivoluzionario – quello di Marx e nostro – la denuncia dello “aumento dello sfruttamento” non ha valore morale – come per i piccoli borghesi che sognano, ad esempio, un commercio equo e solidale – ma scientifico, oltre che per schieramento di classe (sentimentalmente: siamo prescientificamente dalla parte della classe operaia): esso sta ad indicare l’aumento della quota di plusvalore che il capitale deve e cerca di strappare ai lavoratori al fine di sfuggire all’inesorabile morsa della caduta tendenziale del saggio del profitto – legge economica descritta dal marxismo e che condanna il capitalismo al declino e alla morte.

In Italia, dall’inizio della crisi, nel maggio 2008, la crescita dei dati Istat della disoccupazione, dal 6,1% a giugno 2007 all’8,2% dell’ottobre 2009, è stata rallentata dal massiccio ricorso alla cassa integrazione. Le ore di cassa ordinaria nel settore metalmeccanico sono cresciute nei primi 10 mesi del 2009 rispetto ai dodici mesi del 2008, di 13,5 volte, colpendo 250.000 lavoratori sui 2 milioni della categoria. Per gli operai di tutte le categorie la cassa ordinaria – confrontando i primi undici mesi del 2009 con l’intero anno 2008 – è cresciuta di 4,2 volte. Quella straordinaria di 2,5 volte. Per gli impiegati la cassa ordinaria è cresciuta di 9,5 volte, quella straordinaria di 3,2. Per operai e impiegati insieme l’aumento della cassa integrazione, ordinaria e straordinaria, è stata di 3,6 volte, per complessivi 816 milioni di ore da gennaio a novembre.

L’esercito dei lavoratori disoccupati, in questo primo anno e mezzo di crisi, è stato accresciuto inoltre dai precari: il padronato non ha avuto bisogno di licenziare chi non aveva un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è bastato semplicemente che a contratto scaduto non li riassumesse. Grande risultato, questo, a cui da oltre dieci anni ha lavorato la borghesia in combutta con la triplice sindacale CGIL-CISL-UIL. Di questi precari rimasti disoccupati, il 75% ha meno di 34 anni (dati ISTAT). Quindi la disoccupazione per ora colpisce prevalentemente i giovani e questi – in genere – si appoggiano al sostegno economico della famiglia.

L’ampio ricorso alla cassa integrazione ha fatto sì che per moltissimi lavoratori la crisi si sia manifestata con una drastica riduzione del salario: il massimale mensile stabilito per il 2009 che può entrare nella tasca del lavoratore cassaintegrato è di 886,31 Euro, assegni famigliari esclusi. Nel 1999 – dieci anni fa – questo massimale era di 1.344.839 Lire. Non servono tanti calcoli per vedere che, non la cassa integrazione, ma il normale salario di molti lavoratori oggi è più basso della cassa integrazione di dieci anni fa. Ciò rende bene l’idea della reale diminuzione dei salari in questo ultimo decennio, risultato, in generale, dell’attacco della borghesia e del ruolo antioperaio dei sindacati confederali, e, in particolare, dell’accordo del luglio 1993 sulla moderazione salariale, firmato da CGIL-CISL-UIL e con cui fu formalizzata la prassi – già consolidata nella pratica da decenni – della cosiddetta concertazione.

* * *

La Sinistra Comunista – unica corrente del movimento operaio mondiale che attraverso la selezione della controrivoluzione è rimasta fedele al marxismo rivoluzionario, rappresentata oggi solo dal nostro partito – non ha mai sostenuto banalmente una correlazione meccanica tra crisi e lotta di classe. Abbiamo sempre mostrato come di solito la grande crisi abbia in principio un effetto deprimente sulla lotta operaia, per il ricatto della disoccupazione. Tuttavia il peggioramento generale delle condizioni di vita del proletariato è una delle condizioni, sebbene non sufficiente, affinché esso torni a scendere sul piano dell’aperto scontro di classe. Nel rapporto dialettico fra il peggioramento della condizione operaia e il ritorno all’utilizzo massiccio dell’arma dello sciopero, si inseriscono due elementi chiave: il sindacato e il partito di classe. Questi due distinti organi della classe lavoratrice sono prodotti e fattori in questa dinamica che si combatte alla scala storica e internazionale.

Se, come si può dire, la battaglia sindacale è difensiva, di resistenza, e quella politica offensiva, la classe operaia si trova – non solo oggi ma da trent’anni – certamente in una difficile fase difensiva. I numerosi resoconti di lotte scaturite dalla crisi, in Italia e fuori, parlano di battaglie chiuse all’interno dei confini aziendali. I lavoratori assumono atteggiamenti anche estremi, salendo sui tetti degli stabilimenti, occupandoli, ma che palesano la loro debolezza, disperazione e soprattutto impossibilità di schierare un conflitto generale fra le classi e perfino di immaginare come questo si potrebbe svolgere.

Se fino a ieri in gran parte della classe operaia regnavano l’apatia e il disinteresse per le questioni sindacali, oggi i lavoratori colpiti dalla crisi sono facili vittime – a causa della loro inesperienza – di una grande confusione d’idee, delle trappole preparate loro ad arte dai mestieranti dei sindacati di regime, nonché degli errori e delle ingenuità anche di quei lavoratori che si pongono alla testa delle lotte in contrapposizione all’opportunismo sindacale. Allo stato attuale delle cose tutto ciò sta concorrendo ad impedire, deviare o ritardare il fondamentale passo pratico senza il quale le lotte dei lavoratori, anche se generose, sono destinate a fallire, e cioè la loro unificazione in un movimento generale di lotta. E ciò può avvenire solo se la classe lavoratrice si dota dello strumento necessario a compiere tale passo ovverosia la ricostruzione del vero Sindacato di Classe, fuori e contro i sindacati di regime CGIL, CISL, UIL, UGL.

Sono evidenti i limiti di una lotta condotta entro l’orizzonte aziendale: le esigenze dei lavoratori non possono oltrepassare il confine segnato dalla necessità dell’azienda di restare competitiva, pena la sua chiusura o trasferimento – la temuta delocalizzazione – e la disoccupazione per tutti o parte dei lavoratori. In fase di crescita economica – come nel secondo dopoguerra fino al 1973 – le aziende soffrono meno la morsa della concorrenza e possono esser costrette a concedere qualcosa. Ma in fase di crisi la concorrenza diviene spietata e le imprese ricorrono al massimo sfruttamento della forza lavoro per rimanere sul mercato.

L’unificazione delle lotte operaie è quotidianamente negata ed impedita dall’irreversibile fedeltà al regime capitalistico della CGIL, oltre che evidentemente delle altre confederazioni. I sindacati sottomessi allo Stato e alle necessità del capitale sono il principale strumento con cui la borghesia ottiene di fiaccare e svilire la combattività della classe operaia. Sono essi che si premurano di dare ai lavoratori tutte quelle indicazioni e l’armamentario ideologico che li condanna a non trovare la strada corretta per dar vigore e seguito alle loro lotte difensive.

Uno dei metodi fondamentali è quello di mantenere isolate le singole battaglie ed impedire la loro fusione. A tal fine non vengono fatti propri dal sindacato i comuni obiettivi generali per i quali mobilitarsi e lottare come classe. Anche quando vengono agitate finalità che sembrano unire i lavoratori, in realtà operano in senso opposto, contribuendo a mantenerli divisi. È il caso della richiesta del blocco dei licenziamenti, rivendicazione che tende a volgere lo sguardo dei lavoratori ancora una volta verso la propria azienda, dato che è in quest’ambito che si decide se, quanti e chi licenziare. Inoltre un’impresa che sta per chiudere può bloccare i licenziamenti? Solo in un modo: bloccando il pagamento dei salari.

Per difendersi nella crisi dalle conseguenze dei licenziamenti di massa la giusta rivendicazione di classe per cui mobilitare i lavoratori è quella del salario ai lavoratori disoccupati, unitamente a quella della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per gli occupati. Questi obiettivi, che soli corrispondono alla necessaria difesa operaia e che superano la difficoltà che il singolo padrone in crisi non può pagare, comportano una lotta generale di tutta la categoria e di tutte le categorie. La controparte non è più la singola cellula produttiva capitalistica, l’azienda, che con la difesa del posto di lavoro si è costretti a mantenere in vita ad ogni costo, cosa spesso oggettivamente impossibile, ma l’intera classe borghese attraverso il suo Stato, cui si richiede il pagamento del salario di disoccupazione.

Ciò non vuol dire naturalmente che il sindacato non debba organizzare i lavoratori anche per la lotta nelle singole aziende. Ma la sua funzione è di inquadrare l’insieme della categoria a scala almeno nazionale e di rappresentare la necessità ineludibile di superare i livelli minimi del conflitto sindacale per spiegare la battaglia sul piano dello scontro aperto e generale di tutti i lavoratori per le loro comuni rivendicazioni.

Altra via per la quale il tradimento sindacale persegue l’obiettivo di mantenere divise le lotte è quella di far passare in secondo piano la relazione che intercorre tra la singola crisi aziendale e quella complessiva e mondiale e presentando ai lavoratori come determinanti le caratteristiche peculiari della singola impresa. Ciò si concreta nella critica al padrone di non saper fare il padrone, nella mancanza di un adeguato piano industriale, nell’incapacità dei dirigenti a compiere il loro dovere, la loro corruzione, ecc. ecc. Secondo questo ragionamento la salvezza della classe dei lavoratori dipende dalla buona salute aziendale, come era per gli schiavi incatenati ai remi delle galere. Lo stesso ragionamento, a scala di un paese, è fatto coi governi: è la politica di Berlusconi che aggrava la crisi! È quando la crisi porta alla chiusura delle fabbriche che questa interclassista solidarietà aziendal-nazionale appare nel suo aspetto mostruoso e che si deve far saltare.

Naturalmente ogni crisi aziendale ha le proprie particolarità. Ma ha in comune con tutte le altre il fatto di condannare una parte dei lavoratori alla disoccupazione e l’altra parte ad un maggior carico di lavoro. Per questa ragione lo sforzo di un vero sindacato di classe è dare la possibilità materiale di sentirsi una classe con gli stessi interessi sociali e di mobilitarsi unitamente per un obiettivo generale, che riguardi tutti i lavoratori in quanto tali, non in quanto dipendenti di questa o quell’altra azienda. E questo perché più vasto ed unito è uno sciopero maggiore è la sua forza.

Ad esempio dal Manifesto del 17 novembre leggiamo che Gianni Seccia, della Fiom, lungo il corteo dei lavoratori Eutelia gridava: «Ci sono 11 mila persone che perdono il posto non perché c’è la crisi, ma perché gli imprenditori fanno i ladri. Chiediamo se questo è normale in un paese civile». Certo che è normale in un paese civile, cioè capitalistico! E lo dimostra proprio la vicenda Omega/Agile/Eutelia che non è per niente eccezionale ma è la pratica comune in ogni fallimento.

I sindacalisti di regime illudono i lavoratori che il loro problema si risolverebbe trovando un bravo imprenditore che voglia prendersi carico dell’azienda e questo sarebbe l’obiettivo per cui lottare! In realtà il capitalismo speculativo, finanziario, piratesco è figlio legittimo di quello imprenditoriale e industriale. La speculazione è insita nelle leggi del capitalismo ed è presente in esso fin dal suo nascere. Ciò che la rende sempre più ricercata è la crescente difficoltà a fare affari investendo nella produzione.

* * *

Entrambe le rivendicazioni classiste – salario pieno ai lavoratori disoccupati e riduzione dell’orario di lavoro – non rappresentano delle novità ma appartengono al tradizionale sindacalismo di classe. Per questo sono state messe da parte e fatte dimenticare da parte del sindacalismo CGIL-CISL-UIL.

Naturalmente la strada della classe operaia è in salita, ed ha gioco facile il tradeunionismo di regime nel far leva sulle debolezze della classe sfruttata e nell’appoggiarsi allo status quo. La impostazione sindacale del comunismo marxista, da sempre, non posa sulla base di un estremismo generico e superficiale, al modo del vogliamo tutto e subito dei gruppuscoli studenteschi e piccolo borghesi che hanno infestato i margini del movimento operaio durante gli anni settanta e i cui reduci e rottami la crisi si sta fortunatamente occupando di spazzare via.

Non saranno certo le nostre parole d’ordine classiste che lanciate fra i lavoratori avranno di per sé la virtù magica di trasformarli dallo stato di debolezza e difficoltà in cui sono oggi in una classe tutto d’un tratto forte, compatta e combattiva. Questo è proprio il quadro menzognero con cui l’opportunismo cerca di diffamare la nostra azione sindacale fra i lavoratori.

Ciò che distingue il sindacalismo di classe dal sindacalismo borghese è il piano generale della lotta. Il sindacalismo tradizionale di classe individuava il suo fine ultimo nella emancipazione del lavoro, l’attuale di regime nella difesa ad oltranza della democrazia parlamentare. Tutto il resto viene di conseguenza. Se la classe operaia dal dopoguerra ad oggi ha finito per cadere nello stato di prostrazione attuale, fino a perdere la stessa cognizione d’esser classe, ciò è stato perché ha avuto successo è applicazione il secondo piano operativo, quello del regime borghese, finalizzato a demolire pezzo per pezzo ogni residuo di posizione di classe nella CGIL e nel proletariato. Questa opera è stata incessante e perdura oggi, né mai cesserà finché esisterà il capitalismo.

L’intervento comunista fra i lavoratori non nega l’importanza e il ruolo delle lotte parziali e limitate quali sono quelle attuali. Significa sostenerle, ma approfittare di queste battaglie, quando l’asprezza della lotta sveglia le menti dei lavoratori e li costringe a ragionare, per spiegare la necessità di un superiore e più vasto dispiegamento delle forze. Significa ricordare alla classe i fini generali della lotta sindacale. E questo non come astratta dichiarazione di principi ma come scopo immediato e necessario per cui prepararsi materialmente a lottare.

In pratica noi comunisti, in ogni lotta che nasce all’interno di un’azienda, indicheremo ai lavoratori le direttive meno peggiori in quella particolare vertenza, ma al contempo spiegheremo come quella loro debolezza comprovi la necessità di organizzarsi per la preparazione di scioperi più duri ed allargati, fino allo sciopero generale per le rivendicazioni di classe.

L’impostazione corretta della lotta sindacale è quella che punta ad evitare che le energie espresse in ogni lotta parziale si esauriscano in essa, e che servano, in parte piccola o grande, a compiere un passo in avanti verso l’unificazione della forza dei lavoratori, verso l’innalzamento della capacità di scontro della classe operaia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


10 novembre
La finta mobilitazione della Fiom conferma la necessità della ricostruzione del vero Sindacato di Classe, fuori e contro Cisl e Uil, ma anche la Cgil
 

Operai!

Incalzata dalla crisi la borghesia attacca duramente le condizioni della classe lavoratrice. Licenziamenti, cassa integrazione, diminuzione del salario reale, aumento dello sfruttamento mediante incrementi della produttività e dell’orario.

In questo quadro generale rientrano gli accordi separati firmati da CISL e UIL: a gennaio per la riforma generale della contrattazione collettiva, e il 15 ottobre per il contratto dei metalmeccanici.

L’inganno alla classe operaia si orchestra secondo l’ormai ben sperimentato gioco delle parti sindacali, finalizzato a puntellare il principale fra i sindacati di regime, la CGIL, a cui la borghesia si è affidata dal dopoguerra ad oggi per mantenere il controllo sulla classe operaia:
- CISL e UIL, mostrando senza reticenze la loro natura di sindacati padronali, si contrappongono “da destra” alla CGIL, per avvalorarla agli occhi dei lavoratori;
- la FIOM e la sinistra CGIL, puntellano la CGIL “da sinistra”, e illudono gli operai e i delegati che è possibile recuperare questo sindacato di regime e farlo tornare ad essere un sindacato di classe. In realtà ostacolano e ritardano l’esodo dei lavoratori da questa falsa organizzazione operaia, e la ricostruzione di nuovi organismi di lotta, che convergano nella ricostituzione di un vero e combattivo Sindacato di Classe.

La CGIL, ricostituita nel secondo dopoguerra sul modello dei sindacati corporativi, ha subìto da allora un processo di ulteriore chiusura alle rivendicazioni e alle lotte operaie, fino a diventare – da oltre 30 anni – un organismo irreversibilmente non conquistabile ad una direzione classista.

Lo stato d’animo “meno male che c’è la FIOM...”, diffuso fra gli operai, che confidano in essa come un sindacato che difende quel che è rimasto della forza e della combattività operaia dopo decenni di sconfitte, è ben comprensibile nella condizione attuale di debolezza della classe ma è profondamente sbagliato e dannoso! È vero infatti l’esatto contrario: è la politica sindacale sia della CGIL sia della FIOM che per decenni ha dispersa e distrutta la grande forza della classe operaia, e ne impedisce oggi la ricostituzione!

Compagni, operai!

La lotta dei metalmeccanici conferma questo imbroglio ormai troppe volte imposto alla battaglia sindacale:
- La CGIL finge di opporsi ai peggioramenti della contrattazione nazionale, e non firma l’accordo. Ma manda avanti le sue singole federazioni, che già hanno iniziato (telefonici e alimentaristi) a firmare contratti di categoria modellati sull’accordo separato di gennaio. Intanto la Confederazione nel suo complesso ben si guarda dal mobilitare i lavoratori con una lotta generale.
- La FIOM si presenta come “ala dura” della CGIL, ma non denuncia apertamente la condotta della Confederazione e si nasconde dietro gli ovvi e inutili attacchi a CISL e UIL. Intanto non prepara alcuna seria lotta, della necessaria risolutezza, come conferma la chiamata ad uno sciopero di sole quattro ore e per di più articolato per località!

I belati sulla “illegittimità” dell’accordo di FIM e UILM e la richiesta di un referendum sono consapevolmente inutili: ciò che conta – lo sanno tutti – è mettere in campo la forza dei lavoratori attraverso la loro mobilitazione, l’unificazione delle diverse vertenze, per preparare uno sciopero generale, senza preavviso e senza limiti di tempo, che respinga gli accordi e imponga la trattativa per:
- la riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario.
- il salario pieno ai disoccupati.
- aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate.
- il rifiuto di ogni concertazione, compatibilità e sacrificio in nome dell’economia nazionale.

Compagni, operai!

Da anni la classe operaia subisce solo sconfitte perché non esiste un Sindacato di Classe. Questa situazione diventa insostenibile di fronte ad una crisi come quella attuale. Il capitalismo oggi mostra a quali condizioni di rinnovata miseria intende ridurre in breve tempo i lavoratori, in Italia come in tutto il mondo. I lavoratori più consapevoli devono trarre da questo dato di fatto le necessarie conclusioni, smascherando l’opportunismo dei sindacati di regime, lavorando affinché la classe lavoratrice scenda di nuovo sul piano dello scontro aperto col padronato, ritrovando la sua forza e la sua organizzazione, sindacale e politica.
 
 
 
 
 
 
 


11 dicembre - sciopero del pubblico impiego
Alla crisi del capitale bisogna rispondere con la lotta di classe

Tre manifestazioni interregionali, Milano, Roma e Napoli, ha visto lo sciopero generale proclamato dalla CGIL Funzione Pubblica. A Roma vi è stata la più numerosa, per la presenza nella capitale dei dipendenti dell’amministrazione centrale statale, ma soprattutto perché al pubblico impiego si univa qui la manifestazione, unica nazionale, dello sciopero proclamato dalla CGIL Federazione Lavoratori della Conoscenza, che ora inquadra i lavoratori della scuola e dell’Università.

La manifestazione non ha visto certo i numeri sbandierati dalla CGIL, che ha parlato di 100.000 in piazza: diviso per dieci è un numero realistico. Erano presenti delegazioni dei lavoratori pubblici di varie città del centro Italia ma, visibilmente, poco numerosi erano i dipendenti pubblici della capitale. Ciò è conseguenza da un lato dell’influenza di CISL e UIL, che nel pubblico impiego hanno le loro roccheforti clientelari, dall’altro dell’ormai consolidata e non trascurabile presenza dei sindacati di base, che non scioperavano.

Ma non è solo il numero ciò che conta. Una manifestazione di 10.000 lavoratori, se ben motivata e combattiva, sarebbe un buon primo esempio e stimolo per il resto della categoria e per tutte le altre. Ma inevitabilmente, e di proposito, gli scioperi della CGIL, oltre ad essere organizzati e propagandati nel peggiore dei modi, oltre a infilarci figurazioni da carnevale, presentano obiettivi contraddittori – nel pubblico impiego conciliare a tutti i costi le rivendicazioni di classe con la riduzione della spesa – una politica più che equivoca e che toglie vigore alla mobilitazione. Gli scioperi, per le attuali leggi dello Stato, che di fatto hanno soppresso il cosiddetto “diritto di sciopero”, sono consentiti per un solo giorno e molto lontani fra loro, norme queste che la CGIL approva ed è pronta ad imporre con la forza a chi fosse costretto a disattendere. Quindi la manifestazione non può che ridursi ad una passeggiata in cui i lavoratori si limitano ad esprimere la loro opinione contraria. L’indomani tutti a lavorare! benché non si sia ottenuto ancora nulla e solo con la flebile speranza che tale pressione morale basti a smuovere qualcosa nei piani alti dove caporioni sindacali padroni e ministri si mettono d’accordo. Insomma la CGIL quando chiama i lavoratori allo sciopero, non lo fa preparandoli e portandoli ad un vero scontro sociale, ad una prova di forza con il padronato e con lo Stato. Il lavoro di questo sindacato in tutto questo secondo dopoguerra è consistito proprio nel disabituare i lavoratori a simili prove, fino a renderli praticamente incapaci di lottare.

Questo naturalmente non è un risultato irreversibile. I lavoratori impareranno nuovamente ad impegnarsi in scioperi duri, improvvisi, a oltranza, anche illegali, per il semplice fatto che vi saranno costretti dallo stato di miseria in cui ogni giorni di più li spinge il capitalismo e dalla insostenibile limitazione nella quale il loro movimento sarà sempre più cacciato dal regime borghese. Questo processo collimerà con lo svuotamento dei sindacati di regime CGIL, CISL e UIL e con la ricostruzione di un forte e combattivo Sindacato di Classe.

* * *

Salutiamo questa nuova giornata di lotta e mobilitazione dei lavoratori, dopo lo sciopero della FIOM del 9 ottobre e lo sciopero generale del 23 ottobre scorso dei Sindacati di Base.

Oggi la CGIL Funzione Pubblica vi ha chiamato allo sciopero, senza i soliti compari di CISL e UIL, su obbiettivi in parte condivisibili.

Ma anche la stessa CGIL per decenni ha collaborato all’attacco ai lavoratori del Pubblico Impiego; per decenni ha parlato dei loro “privilegi”, dei “fannulloni”, contro gli aumenti uguali per tutti e per la “meritocrazia”; per decenni ha predicato la concertazione, la conciliazione e la moderazione salariale; per decenni ha difeso l’introduzione del precariato e la riforma della pensioni. L’ultima è l’aumento dell’età pensionabile delle donne, attuato con l’approvazione e il silenzio assoluto anche della CGIL.

Il prof. Ichino e il Ministro Brunetta sono solo gli esecutori della politica della CGIL, e della CGIL Funzione Pubblica in particolare, insieme a CISL, UIL e ai sindacati autonomi.

Il precariato, la contro-riforma delle pensioni, l’annullamento delle risorse per i rinnovi contrattuali, il taglio del salario accessorio e la sua destinazione ad un esiguo numero di dipendenti, la decurtazione dello stipendio in caso di malattia, il licenziamento di decine di migliaia di precari, la contro-riforma della contrattazione nazionale, la campagna diffamatoria contro i lavoratori pubblici, questo l’attacco ai lavoratori della Pubblica Amministrazione, nel quale si sono impegnati indifferentemente tutti i governi, di destra e di sinistra, con la complicità di tutto il sindacalismo di regime, CGIL-CISL-UIL-UGL-Autonomi.

Anche di fronte a questa crisi che sta avendo effetti gravissimi e provoca centinaia di migliaia di licenziamenti nel settore manifatturiero, ma anche nel Pubblico, soprattutto tra i lavoratori a vario titolo precari, la CGIL si rifiuta di unificare la lotta di tutte le categorie, una lotta seria e decisa in difesa della classe lavoratrice, confermando di essere un sindacato irreversibilmente legato a questo sistema politico ed economico. La CGIL è ormai per costituzione votata soltanto alla difesa dell’economia nazionale, cioè del capitale, e prevede la difesa dei lavoratori solo subordinatamente all’interesse del capitale e all’interno delle sue leggi economiche e del suo infernale modo di produzione.

Un vero sindacato di classe al contrario deve partire da un altro principio, quello che la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori viene al primo posto, anche quando è in contrasto con l’interesse immediato e futuro del sistema e della produzione capitalistici!

LAVORATORI, OPERAI, COMPAGNI!

I lavoratori che oggi sono scesi in sciopero devono sapere che non è continuando ad affidarsi a questo tipo di sindacalismo che ci si può difendere dall’attacco concentrico del Padronato e dello Stato.

La CGIL è ormai irrecuperabile ad una vera azione di difesa dei lavoratori. Anche le sue componenti “di sinistra” non hanno altra funzione che nascondere questa realtà.

Per difendersi dagli effetti devastanti della crisi economica – che è appena agli inizi – occorre una nuova organizzazione sindacale, generale, unitaria, di classe, che sappia abbandonare ogni personalismo e atteggiamento settario per tendere ad inquadrare tutti i lavoratori, solo i lavoratori, occupati e disoccupati, fissi e precari, pubblici e privati, indipendentemente dalle loro convinzioni politiche e nazionalità, per arrivare a mobilitarli in una sola lotta generale.
- Per il salario pieno ai disoccupati!
- Per la riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario!
- Per aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate!
- Per il rifiuto di ogni concertazione, compatibilità e sacrificio in nome dell’economia nazionale!
- Per la rinascita del sindacato di classe!
 
 
 
 
 
 
 



Torino, 10 dicembre
Contro nuove morti sul lavoro opporre la forza, la mobilitazione, l’organizzazione sindacale di classe

Marghera, Eternit, Thyssen Krupp, quotidiani omicidi colposi, e perfino assassinii volontari come quello occorso al carpentiere senegalese Ibrahim M’Bodj, ucciso il 3 dicembre a Biella dal suo padrone perché chiedeva d’esser pagato!

Il capitalismo vive sul crescente sfruttamento dei lavoratori, il che spesso comporta la distruzione delle loro vite. Non vuole né può sopportare regole che lo disciplinino. Lo dimostra il trasferimento della maggior parte della produzione industriale in paesi dove queste regole sono minori e meno rispettate perfino di quanto lo siano in Europa.

Il capitalismo è un mostro che o cresce o muore. Ma il capitale, ingigantendosi e invecchiando, si isterilisce: il calo del saggio del profitto è una legge inesorabile del capitalismo quanto lo è la gravità nel mondo fisico. Il capitalismo corre irrimediabilmente verso la sua crisi storica di sovrapproduzione, quale è quella attuale.

Il solo modo che ha la borghesia per frenare questo processo è succhiare più plusvalore dal lavoro degli operai. Costi quel che costi: dall’aumento della produttività e degli orari fino a far morire i lavoratori per disattenzioni provocate dalla stanchezza e dalla pericolosità di impianti mal tenuti. Pur di conservare questo sistema sociale fondato sul profitto la borghesia è pronta a portare l’intera umanità alla rovina, fino alla guerra planetaria.

Compagni, operai, lavoratori!

Sfruttamento, morti sul lavoro, guerre: finché il capitalismo non apparterrà al passato la classe lavoratrice non potrà emanciparsi da questi suoi nefasti effetti. Ma può combatterli, può resistervi lottando duramente. Non basta affidarsi a leggi e norme dello Stato che da sole tutelino i lavoratori e per sempre: queste possono essere solo il risultato della forza messa in campo dalla classe operaia nella lotta in difesa dei suoi interessi. Venendo a mancare questa forza la borghesia non perde tempo a sbarazzarsi, o non applicare, i pretesi diritti acquisiti. Questo è esattamente ciò che è avvenuto negli ultimi tre decenni. La lotta per la sicurezza sui posti di lavoro significa quindi ricostruzione della forza della classe lavoratrice.

Compagni, lavoratori,

Da trent’anni la classe operaia subisce solo sconfitte. Andata perduta non è stata solo una effimera sicurezza nel futuro, ma la stessa consapevolezza dei lavoratori di appartenere ad una classe distinta e con interessi contrapposti alle altre classi della società. Questo è stato il risultato del pacifismo sociale e del collaborazionismo dei falsi partiti operai (PCI e suoi rottami odierni) e dei sindacati di regime (CGIL-CISL-UIL) i quali hanno convinto i lavoratori d’essere non membri di una classe internazionale, con interessi immediati ed un proprio fine storico per cui lottare, ma cittadini di un paese per cui sacrificarsi, uniti ai loro padroni e in concorrenza agli operai degli altri paesi.

Per i partiti e per i sindacati traditori i lavoratori devono difendere i loro interessi solo se questo non pregiudica la competitività dell’economia nazionale. Ed è per la difesa della competitività del paese che i salari reali diminuiscono, il precariato si diffonde, le pensioni e il cosiddetto Stato sociale sono smantellati e il lavoro degli operai diviene sempre più pericoloso, malsano, mortale!

Compagni, lavoratori!

Il primo passo da compiere per affermare la forza della classe lavoratrice deve essere la ricostruzione del Sindacato di Classe, fuori e contro CGIL, CISL e UIL. Anche la CGIL da almeno 30 anni è un organismo irrecuperabile ed irreversibilmente passato dalla parte del padronato. L’apparente rottura con CISL e UIL sull’accordo separato non contraddice questa verità. La CGIL infatti sta mandando avanti le sue singole federazioni (telefonici, alimentaristi, trasportatori) che già hanno cominciato a siglare o si apprestano a farlo rinnovi dei contratti di categoria che accolgono le parti fondamentali dell’accordo, primo fra tutti l’allungamento a tre anni della durata della parte economica del contratto.

La sinistra CGIL, al di là delle tante parole fumose, ha la funzione di nascondere questa verità ai lavoratori e ai delegati, ostacolando e ritardando l’esodo da questa falsa organizzazione operaia.

La ricostruzione del Sindacato di Classe e il ritorno dei lavoratori alla milizia nel loro partito – il Partito Comunista Internazionale – saranno i passi che segneranno la riscossa della classe operaia e la sua lotta vittoriosa verso la futura società senza classi: il Comunismo!