Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n. 337 - settembre-ottobre 2009 [.pdf]
PAGINA 1 La lotta di classe è e sarà il motore della storia: Lo sciopero in Corea
Conferenza pubblica: È il Comunismo la sola soluzione alla crisi economica mondiale del capitalismo !
– Una nuova ripubblicazione del partito: Il settimanale L’Azione Comunista del 1921-22 - Spartaco Lavagnini e la rivolta del proletariato toscano
PAGINA 2 Riunione generale del partito, Torino, 26 e 27 settembre 2009 [Rg105]: Sindacato e lotte di classe in Italia: Il 2° dopoguerra - Corso del capitalismo - Il riarmo degli Stati - Storia del movimento operaio negli Stati Uniti - Dal III Libro del Capitale - La questione militare: La rivoluzione americana - Attività sindacale.
PAGINA 3 – 1 ottobre 2009 - In morte di Benito Cotogni
Ecologica
PAGINA 4 Il nostro intervento agli scioperi:
     9 ottobre - La Fiom fa la stessa politica della Cgil
   23 ottobre - Per un forte e combattivo sindacato di classe !
Ad una assemblea di tranvieri: L’assemblea dei tranvieri conferma la radice del problema, Ai tranvieri in lotta, come a tutti i lavoratori, manca il Sindacato di classe.

 
 
 
 
 
 
 
 

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La lotta di classe è e sarà il motore della storia
Lo sciopero in Corea

Una città vicino Seul, in Corea del Sud, è stata esempio di grande lotta proletaria, una lotta di classe, una lotta cruenta tra le due classi che contraddistinguono il mondo moderno, borghesia e proletariato, anche se limitata ad una solo fabbrica che produce automobili.

I lavoratori della Ssangyong Motors hanno scioperato, con conseguente occupazione della fabbrica, per più di due mesi, a seguito della dichiarazione di fallimento dello stabilimento.

In un primo tempo era stata decretata la chiusura definitiva della fabbrica, probabilmente per poi proporre più facilmente ristrutturazioni e licenziamenti di un certo peso, come poi si è avverato.

Infatti, dopo un breve momento di finte “contrattazioni”, la proprietà, che per il 51% è della China’s Shanghai Automotive Industry Corporation, annunciava il licenziamento di 1.700 operai su 7.000 e l’immediata espulsione di 300 “interinali”, colà denominati casual. Tre anni prima la fabbrica, con la vecchia proprietà, impiegava 8.700 operai.

La risposta non si fa attendere: dopo alcuni scioperi spontanei quasi 2.000 operai decidono di bloccare la produzione e di occupare la fabbrica, aiutati per quanto possibile dall’esterno dai familiari e dai numerosi solidali attraverso soprattutto il rifornimento quotidiano di cibo. Tra chi li appoggia è da registrare la numerosa presenza di operai della vicina Seul, soprattutto della KIA Motors.

Le richieste dei lavoratori sono focalizzate sul ritiro totale dei licenziamenti, per la sicurezza sul lavoro e contro le esternalizzazioni.

Passano pochi giorni ed iniziano gli scontri, duri, violenti: da una parte c’è la polizia in tenuta antisommossa, ben equipaggiata e spalleggiata da delinquenza comune e da numerosi crumiri, dall’altra gli operai della fabbrica organizzati, orgogliosi, decisi e non mollare.

Nei primi giorni gli operai riescono a tenere lontane le forze di repressione lanciando bulloni con catapulte artigianali e fionde. Poco dopo però capiscono che non potrebbero potranno resistere a lungo e decidono di asserragliarsi nel reparto vernici dove pensano di sentirsi più protetti, anche a seguito di quanto avvenuto qualche mese prima in un’altra fabbrica dove erano morti degli operai in sciopero perchè la polizia gli aveva sparato contro dei candelotti lacrimogeni creando una mortale reazione chimica con i prodotti della verniciatura. Ci furono allora numerose proteste e una forte indignazione si levò non solo nella classe operaia, ma nell’opinione pubblica in generale.

Ma la tattica non basterà ad evitare lo sgombro. Gli assalti proseguono nei giorni seguenti, il reparto vernici resiste, ma viene tagliata l’acqua il gas la luce, qualche operaio esce e rinuncia, la moglie di un operaio (che non doveva essere licenziato, ma presente in fabbrica per solidarietà), in segno di protesta si suicida.

Al di fuori un enorme cordone di sicurezza non permette i rifornimenti agli operai barricati dentro, si registrano diversi scontri soprattutto tra delinquenza comune e crumiri contro familiari e solidali degli occupanti.

Sono poche le notizie della solidarietà operaia che ci sono arrivate ma a quanto pare diverse fabbriche di Seul hanno fatto numerose ore di sciopero e a volte hanno cercato di portare la loro attiva solidarietà agli operai in fabbrica.

Significativo quanto successo dopo un partecipato sciopero di diverse fabbriche metalmeccaniche, che in piazza spingevano i sindacati a richiedere lo sciopero generale: questi, col pretesto delle imminenti elezioni sindacali, sembrerebbe abbiano desistito, provocando non poca delusione nelle file operaie. Gli scioperanti hanno allora provato a dirigersi verso la fabbrica ma sono stati bloccati dalla polizia, ne sono nati scontri che hanno portato a decine e decine di arresti.

Al di là dell’inevitabile insuccesso di questa lotta e lo sgombero il 5 agosto della fabbrica, salutiamo con entusiasmo la determinazione di questa porzione coreana della classe lavoratrice mondiale che, pur senza un partito rivoluzionario alle spalle, ha dimostrato coraggio solidarietà e decisione in difesa dei propri interessi immediati.

Dalle notizie ricevute sappiamo che molti crumiri partecipavano agli scontri, ma è anche vero che molti lavoratori che non rischiavano il licenziamento si sono battuti attivamente per 77 giorni in difesa dei loro compagni. La loro lotta è la nostra lotta.

Il nostro sdegno è rivolto verso quei sindacati collaborazionisti che ancora una volta hanno svenduto cotanta energia di classe, e che infine hanno portato i lavoratori alla disfatta con i pessimi accordi successivi.

Questa è certo una delle prime, numerose ed imminenti battaglie, che la classe salariata del mondo intero dovrà affrontare sotto la spinta della profonda crisi sociale che la società capitalista sta attraversando e dalla quale, al di là delle chimere borghesi, non uscirà se non con una nuovo e tremendo macello mondiale.

La crisi conferma che esiste e persiste il Capitale e la classe che se ne avvantaggia, la borghesia; esiste e non è sparito nel nulla il lavoro salariato e la sua classe corrispondente, il proletariato. Seppur addormentato e addomesticato per anni, come in Occidente, dovrà inevitabilmente ritrovare il suo partito comunista, l’unico che lo può guidare ad uscire dalle barbarie del capitalismo per avviarlo verso una nuova società, non più costruita sullo sfruttamento del lavoro salariato, una “società degli uomini” e non del capitale, che restituisca lo strumento lavoro a soddisfare le esigenze della vita e del progresso dell’umanità, e non quelle della riproduzione assurda di Sua Maestà il Capitale.

La lotta di classe, a scorno di tutte le illusioni borghesi, raggiungerà i massimi storici e in continuo crescendo. Oggi, nel vortice della crisi economica, in tutto il mondo la morente borghesia è costretta a difendersi con tutte le armi che ha a disposizione: con gli innumerevoli licenziamenti, col lavoro salariato sempre più precario meno sicuro e malpagato. Il proletariato, benché disarmato e circondato da ogni lato da agenti della borghesia, nei sindacati e nei suoi falsi partiti, in mille e mille episodi come quello coreano cerca di difendersi come può.

Il risorgere della classe a soggetto politico attivo e la ripresa della lotta per la sua emancipazione coinciderà con il riscoprire il suo non degenerato partito comunista internazionale, buttando a mare vecchi e nuovi sinistri opportunismi, che puntualmente torneranno a proporre le loro formule di tradimento e di sconfitta. La classe infatti, come scrivevamo nel 1921, presuppone il partito: perché per essere e muoversi contro le altre classi deve avere una dottrina critica della storia e una finalità da raggiungere in essa. La vera e l’unica concezione rivoluzionaria dell’azione di classe sta nella delega della direzione di essa al partito. Oggi questo partito è il partito comunista internazionale.
 
 
 
 
 
 
 
 


È il Comunismo la sola soluzione alla crisi economica mondiale del capitalismo !

Su questo tema sabato 17 ottobre si è tenuta a Genova, nei locali della sezione rimessi a nuovo dal lavoro dei compagni, una conferenza, seguita da un pubblico numeroso e attento.

Nel suo rapporto il compagno ha ribadito con fervore come, nonostante il megafono del regime ripeta di continuo che bisogna avere fiducia in questo sistema economico, la crisi mondiale avanza inesorabile.

Ieri le immani distruzioni causate dal secondo macello mondiale resero possibile una ripresa. Oggi lo stesso sistema, al di là delle fandonie borghesi sulla natura finanziaria della crisi, è nuovamente saturo di merci e capitali.

A difesa delle idee della classe dominante si schierano preti, giornalisti, economisti, etc. etc. mistificando le cause della crisi che non risiedono nella fraudolenta condotta di alcuni dirigenti o nell’assenza di regole ma sono intrinseche al sistema capitalistico stesso.

L’attuale è una crisi di sovrapproduzione. Il capitalismo – fin dalle sue origini – ha poche definite e determinate strade per cercare di reagire e non è dato inventarne di nuove:
l’aumento dello sfruttamento della classe operaia: aumentando la produttività del lavoro, riducendo i salari reali (ultima ricetta le “gabbie salariali” o i “salari differenziati” che dir si voglia);
l’espansione del mercato mondiale che ha permesso, attraverso lo sviluppo di giovani capitalismi come quelli asiatici, il rinviare la crisi, dal suo primo manifestarsi nel 1973, al termine del ciclo di espansione post-bellico, sino ad oggi.

Anche se l’economia mondiale riuscirà a risollevarsi nell’immediato futuro, la crisi non sarà affatto risolta ma solo destinata a riproporsi fra pochi anni più acuta e devastante.

La “soluzione” interna al capitalismo è nella distruzione delle troppe merci che intasano il mercato – fra cui la merce forza lavoro, i proletari – attraverso un conflitto imperialistico generalizzato: la terza guerra mondiale.

I lavoratori possono e devono opporsi a questa prospettiva. Nell’immediato lottando in difesa delle proprie condizioni di vita e lavoro intransigentemente: non assumendosi alcuna responsabilità verso la salute della economia nazionale che altro non è se non il sistema capitalistico che li sfrutta in pace e li massacra in guerra; ricostruendo organismi sindacali di classe fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl).

Ma la lotta economica non sarà sufficiente; il proletariato, liberatosi dall’influenza dell’ideologia borghese dominante dovrà affrontare la questione del potere e tornare a militare nel suo partito, il partito comunista internazionale, organo indispensabile per la rivoluzione comunista.

Con questi sentimenti e fini una nuova leva proletaria tornerà alla milizia nel partito, anticipazione nell’oggi dei sentimenti e delle aspirazioni del domani, verso una società finalmente priva di classi sociali: IL COMUNISMO.
 
 
 
 
 
 
 
 


Una nuova ripubblicazione del partito
Il settimanale L’Azione Comunista del 1921-22
Spartaco Lavagnini e la rivolta del proletariato toscano

Tra le varie pubblicazioni del Partito Comunista d’Italia che abbiamo riportato alla luce non poteva mancare il settimanale fiorentino L’Azione Comunista. La collezione che abbiamo ricostruito può dirsi completa dal febbraio 1921 al giugno 1922: solo mancano i primi due numeri e alcuni altri sono rovinati e parzialmente leggibili.

* * *

Subito dopo il congresso di Livorno Spartaco Lavagnini fondava, a Firenze, il settimanale “L’Azione Comunista”. Giornale di battaglia e di dottrina: accanto agli articoli di lucidissima impostazione teorica e programmatica troviamo le cronache delle lotte del proletariato toscano presentate con quell’entusiasmo e quella fede che caratterizza solo i partiti rivoluzionari.

Non il minimo lamento per i colpi subiti dal proletariato, ma la preparazione alla difesa ed all’offesa, senza mai nascondere le difficoltà. «Prospettiamo tutte le difficoltà che ci separano dalla realizzazione del comunismo e diciamo anche francamente che nel periodo di guerra civile che segnerà l’ascesa del proletariato al governo della cosa pubblica, trascorreremo giorni di lutti, di dolore e di miseria, accidentalità queste ultime gravi, ma inevitabili al raggiungimento del nostro massimo fine».

Presentando qui la riproduzione in Dvd de L’Azione Comunista non possiamo esimerci dal ricordare l’assassinio vigliacco del nostro Spartaco, ma soprattutto vogliamo richiamare alla memoria la virile risposta di Firenze e della Toscana proletaria. Quella borghesia che aveva temuto Spartaco vivo dovette tremare di fronte a Spartaco morto.

«Il partito comunista non ha fatto rosee promesse, né socchiuso gli occhi dei lavoratori alla visione di sogni dorati: esso ha parlato della necessità della lotta. L’azione rivoluzionaria, necessariamente violenta, necessariamente sanguinosa è azione che può rendere sublime il sacrificio, ma che il sacrificio esige, vuole, impone». Queste parole, scritte da Spartaco Lavagnini il giorno prima del suo assassinio, rappresentano il testamento politico di questa grande figura di comunista.

Sembrava cosciente della sua imminente fine. Infatti, se immenso era l’affetto che il proletariato toscano e fiorentino riversava verso di lui, altrettanto era l’odio forsennato della borghesia. Si era in piena offensiva fascista, ma nella Toscana rossa le bande mussoliniane, sia nelle città sia nelle campagne trovavano valida resistenza che, in molte occasioni, si volgeva in offensiva. Le forze del neonato Partito Comunista erano sempre le animatrici di questa guerra di classe, ed ovunque si scorgeva la capacità organizzativa di Spartaco. Per questo la borghesia decretò il suo assassinio.

La sera di domenica 27 febbraio 1921, una trentina di squadristi, che probabilmente si erano accorti della presenza del solo Spartaco all’interno del Sindacato Ferrovieri, vi fecero irruzione trivellandolo di colpi e devastando la sede sindacale. Erano circa le 6 del pomeriggio quando il proletariato toscano perdeva il suo massimo animatore, ucciso a tradimento mentre era intento al lavoro sindacale e di partito. Il Partito Comunista d’Italia era sorto da appena un mese e già riceveva il suo battesimo di sangue.

La notizia dell’assassinio corse in maniera fulminea in tutta Firenze, enorme fu la commozione, il proletariato insorse, e Spartaco ancora una volta fece tremare la borghesia. Immediatamente ferrovieri, tranvieri, elettricisti interruppero spontaneamente il lavoro. Nella stessa sera i dirigenti del Partito Comunista assunsero la direzione dello sciopero estendendolo a tutte le categorie.

Durante la notte furono tagliati i fili delle linee telefoniche e telegrafiche e lunedì Firenze proletaria era in rivolta. Gli operai «scesero in piazza e nelle vie e non inermi. Fu una lotta impari, ma combattuta con quello spirito di eroico sacrificio che solo anima le folle oppresse e provocate» (L’Azione Comunista, 5 marzo). Dall’azione di protesta si passò alla lotta armata. Ovunque sorgevano barricate, il proletariato respingeva gli attacchi nemici e contrattaccava.

I fascisti che, guidati da «Giovanni Berta, figlio di pescecani», così dice la canzone, avevano tentato una incursione dentro il quartiere proletario di San Frediano, vennero immediatamente messi in fuga. Entrarono allora in azione le forze dell’ordine facendo uso di autoblindo. Nel corso della battaglia si distinsero le donne proletarie impegnando il nemico con lancio dai tetti di tegole e d’acqua bollente. Con un lavandino di marmo lanciato da una finestra misero fuori uso una autoblindo che tentava di forzare una barricata.

Il 1° marzo lo sciopero continuava compatto, sia in città sia nella provincia, gli sconti armati si susseguivano e dai quartieri cittadini si allargavano alle periferie ed ai comuni limitrofi.

Quando le autoblindo non furono più sufficienti lo Stato, allora democratico, fece ricorso al cannone ed alla mitragliatrice. «Per alcuni giorni la battaglia fu indecisa, l’artiglieria fu messa in funzione e quando la forza poté conquistare le prime posizioni innumerevoli furono gli atti di coraggio [...] Firenze era caduta. La provincia resisteva ed a Siena, Scandicci, Empoli furono nuovi atti di coraggio e di sacrificio, ma la borghesia ebbe il sopravvento perché la Toscana restò isolata ed il giovane Partito Comunista non poteva determinare l’azione generale del proletariato italiano. Il proletariato toscano abbassò momentaneamente le armi senza cederle» (Prometeo, n.14, 15 marzo 1929).

Come al solito, anche a Firenze e nella Toscana in rivolta, i fascisti, ricevute le prime legnate, si ritirarono fino a che lo Stato non fosse riuscito ad imporre l’ordine; solo allora irruppero nelle sedi proletarie, precedentemente espugnate con il cannone e svuotate, per decorare l’opera con la loro estetica di saccheggio e di fuoco.
 
 
 
 
 
 
 

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Riunione generale del partito
Torino, 26 e 27 settembre 2009
[Rg 105]
Sindacato e lotte di classe in Italia: Il 2° dopoguerra Origins of the trade unions in Italy
Corso del capitalismo Course of the economic crisis
Il riarmo degli Stati The rearming of the States
Storia del movimento operaio negli Stati Uniti  [resoconto esteso] History of the labor movement in the United States
Dal III Libro del Capitale From The Capital, Volume 3
La questione militare: La rivoluzione americana  [resoconto esteso] The military question
Attività sindacale

 
 

Il partito non può determinare né la rivoluzione né la ripresa della lotta di classe. Di più, non può influenzare nemmeno il processo, che è storico e sociale, della sua propria crescita e diffusione geografica. In tal senso a nulla vale la forza di volontà dei suoi militi o l’adozione di particolari espedienti, nella forma della sua propaganda e del suo linguaggio, o diversi atteggiamenti nella sua attività pratica. Qualunque sua parola o contorsione non anticiperà il comunismo di un giorno.

Il partito, come dimostrato storicamente, ha avuto un solo possibile “grado di libertà”, quello di distruggersi, quando ha tradito sé stesso, il suo storico “programma”, che è già “scritto”.

Per converso sappiamo che senza il partito la rivoluzione è impossibile, e nemmeno pensabile, perché il partito è il comunismo ed è la rivoluzione, al di sopra del tempo e dello spazio.

Questa è la chiave, il senso di tutto il nostro lavoro, che svolgiamo con passione e con la tensione che è quella della “grande giornata”, che per il partito è sempre “oggi” – liberi dalla impazienza tipica dei borghesi, chiusi nel loro bilancio di individui – proprio perché coscienti che la nostra rivoluzione ha un passato, un presente e un futuro, i suoi necessari tempi di maturazione, che conosciamo, studiamo e freddamente consideriamo.

In questa dinamica di forze sociali oggettive, prima che di sentimenti e di impegni, vediamo lo svolgersi delle nostre periodiche riunioni, nelle quali si vengono a fondere i diversi e spontaneamente convergenti contributi di studio e di battaglia dei gruppi del partito. Un lavoro che è ognora su di sé, rivolto alla vivente classe operaia e contro le avverse classi sociali.
 

Sindacato e lotte di classe in Italia - Il 2° dopoguerra

Nella nostra stampa del 1946, che era, allora, Battaglia Comunista, ribadiamo la nostra posizione sul sindacato di classe e sulla CGIL tricolore, criticando sia la tendenza a non rinnovare le tessere, sia a creare nuovi organismi, che non si improvvisano, perché «È la coscienza politica della classe che indica come e quando nuovi organismi sindacali si rendono indispensabili per garantire il proseguimento della lotta del proletariato».

Già allora il partito cominciava a prendere in considerazione l’eventualità di nuovi organismi “fuori e contro” la CGIL, pur restando contrario ad una scissione che, in assenza di lotte di classe e dato il predominio dei partiti opportunisti nei sindacati, non aveva senso in quel momento storico.

Il relatore dava quindi lettura di un brano di un articolo, “La nostra posizione in seno al sindacato”, dal n.24 datato 1-7 settembre.

«Partecipazione al sindacato finché questo continua a rappresentare l’antagonismo capitale-lavoro e, riunendo le masse lavoratrici, permette ad esse di condurre efficaci lotte rivendicative, e finché, d’altra parte, gli operai nel loro insieme, sotto la spinta e la pressione degli avvenimenti, non si orientino verso altre forme e mezzi di lotta; ma, nel contempo, netta delimitazione dalla direzione sindacale e aperta denuncia della sua politica di dispersione delle energie operaie e di appoggio al potere dello Stato.

«Rifiuto della scissione sindacale e della costituzione di nuovi organismi (...) finché la situazione non ponga tale problema all’ordine del giorno».

Si critica il postulato sindacalista secondo il quale il ritorno del sindacato alla sua posizione di classe può essere il frutto di una propaganda di riforme dell’attuale Confederazione attraverso votazioni maggioritarie in assemblee e congressi. È esclusa dunque la tattica della conquista parziale e progressiva della direzione sindacale da parte dei rivoluzionari, ed è scartata la prospettiva che alla direzione dell’attuale Confederazione coesistano comunisti internazionalisti e social comunisti.

I comunisti internazionalisti, secondo il rapporto delle forze, l’influenza dell’organizzazione politica rivoluzionaria, le iniziative del proletariato ecc., o si limiteranno alla denuncia delle responsabilità della dirigenza sindacale, o passeranno all’agitazione a favore della sua rimozione integrale e alla formazione di una direzione sindacale di classe, o infine parteciperanno alla costituzione delle nuove forme di organizzazione sorgenti dalla lotta ed alla loro estensione su scala nazionale.

La lotta dei comunisti nel contempo mira allo sviluppo della coscienza di classe delle masse ed al rafforzamento della organizzazione politica, condizioni essenziali della rinascita di organismi di massa a natura classista, quali che siano per essere le forme che lo sviluppo della situazione darà loro.
 

Corso del capitalismo

Il rapporto sul corso della crisi ha continuato l’esposizione con i quadri economici aggiornati dei dati relativi ai primi 4/5 mesi del 2009, riguardo la produzione industriale dei più importanti paesi capitalistici: Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia, Cina e India.

Rispetto gli ultimi dati ricevuti ed elaborati dai precedenti rapporti, come quello esposto nella riunione a Genova lo scorso giugno, possiamo valutare come per alcuni paesi l’andamento della crisi in atto abbia marcato un rallentamento della caduta: infatti nei singoli grafici della variazione percentuale della produzione industriale rispetto all’anno precedente di questi paesi possiamo vedere una leggera risalita.

Questa tendenza è in parte dovuta a diverse cause e “azioni politico/economiche” che gli Stati borghesi hanno attuato in quest’ultimo periodo per cercare quantomeno di frenare o procrastinare dati ben più pesanti. Tra queste possiamo citare: acquisto/vendita di titoli di Stato (esempio eclatante quello americano con la vendita dei titoli, soprattutto in cambio di capitali cinesi); abbassamento dei tassi d’interesse (direttiva attuata un po’ ovunque); stimolo all’industria con lavori pubblici o altri strumenti (anche questa azione è stata effettuata in tutti i paesi presi in considerazione, da segnalare soprattutto gli USA e la Germania).

Tutti gli Stati borghesi hanno dovuto intraprendere questi interventi, ma questi, ad oggi, hanno dato risultati diversi per i singoli paesi capitalisti.

Entrando nel dettaglio. Gli Usa, che hanno iniziato il loro piano inclinato a maggio 2008 (-0,3%), hanno come ultimo dato, maggio 2009, -13,4%, che è sicuramente il minimo raggiunto negli ultimi anni; stesso andamento per la Germania che ha il suo picco in negativo nello scorso aprile (-21,3) mentre aveva iniziato la caduta un po’ dopo rispetto agli Usa, a settembre 2008, con il primo segno negativo (-1,8%) dopo anni di risultati positivi.

Il Giappone invece in aprile 2009 continua ad ottenere dati allarmanti, -30,7%, ma riesce a crollare meno rispetto a febbraio 2009, quando aveva raggiunto il -37,7%.

La Francia, in un crescendo di valori negativi, raggiunge il suo record, con l’ultimo dato disponibile, aprile 2009, di -18,8%. L’Italia invece, come Usa e Germania, attende ancora gli effetti dei provvedimenti statali e registra il suo punto più basso ad aprile 2009 con -24,2%. Identico fenomeno per la Russia con il suo -17,1% di maggio 2009.

Cina ed India invece, come finora consuetudine, sono gli unici capitalismi che riescono ancora a consolidare un segno positivo. La Cina però è ben lontana dai fasti del giugno 2007, quando marcava un +15,9%, segna un rapidissimo rallentamento della crescita fino a novembre 2008, col +2,1%, per recuperare a maggio 2009 ad un +5,7%. L’India invece, dopo aver toccato il suo minimo in marzo 2009 col -2,3%, sembra in ripresa con un +1,4% in aprile 2009.

Quindi è confermata la nostra previsione che anche i giovanissimi capitalismi sono vulnerabili alla crisi generale. Il capitalismo nasce con le crisi di sovrapproduzione e di regola le crisi sono più violente nei capitalismi giovani che nei vecchi.

Dal 1975 in poi, i capitalismi maturi, vecchi imperialismi nei quali il capitalismo è solo un cadavere che cammina, hanno conosciuto numerose crisi di sovrapproduzione molto avvicinate, cioè con cicli medi fra 5 e 10 anni, ma non di un ampiezza tale da far “saltare il coperchio”.

I fattori che hanno permesso questa sopravvivenza sono diversi: il principale è stato la Seconda Guerra mondiale che, con le sue distruzione massicce di capitale morto e vivo, ha permesso un lungo ciclo di espansione senza quasi crisi: il famoso Trentennio di Gloria, come dicono i portavoce della borghesia. Il secondo fattore, da 1975 in poi, è stato l’attacco generale contro la classe operaia, permettendo di risollevare il tasso del profitto. Il terzo è l’imperialismo e le sue rendite di monopolio che permettono ricchi sovrapprofitti. Il quarto è lo sviluppo del capitalismo in Asia, ma che da solo non basterà a permettere la sopravvivenza dei grandi centri imperialisti.

Tutti questi fattori non potranno impedire lo sbocco in una grande crisi tipo 1929. Hanno avuto l’effetto di guadagnare tempo, ma così solo rafforzando e concentrando le forze che spingono verso una svalutazione generale del capitale. La crisi di oggi annuncia questa situazione.
 

Il riarmo degli Stati

L’argomento, dopo un lungo periodo in cui non era stato affrontato, almeno in sede di riunioni generali, era stato trattato l’ultima volta nella riunione di partito del giugno del 2006, a Viareggio. In quella occasione erano stati presentati i dati pubblicati dall’edizione 2006 dell’Annuario del Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma ed in particolare una tabella che elencava i primi 15 Stati al mondo per spesa militare, calcolando quest’ultima non per il suo valore in dollari ma “a parità di potere d’acquisto”, tenendo conto cioè non del cambio ufficiale delle monete ma del costo effettivo degli armamenti per i diversi Stati.

Si otteneva in questo modo una tabella che non solo scompigliava completamente quella parallela ottenuta calcolando la spesa in dollari correnti, ma portava alla luce il cambiamento che si era determinato nei rapporti di forza tra gli Stati dopo la caduta dell’impero di Mosca. In quella tabella infatti al primo posto stavano sempre gli Stati Uniti d’America, col 41,4% della spesa militare mondiale, ma erano seguiti, pur con un vasto distacco, dalla Repubblica Popolare Cinese (14,6%) e dall’India (7,4%). Al quarto posto la Russia (6,0%), poi Francia (4,7%), Gran Bretagna (4,2%), Germania (3,4), Giappone (3,2), Italia (3,1), Arabia Saudita (2,6), Turchia (2,2), Corea del Sud (2,1), Brasile (1,9), Iran (1,7), Pakistan (1,5).

Anche il rapporto di questo settembre si è basato soprattutto sull’edizione 2009 dell’Annuario del SIPRI ma ha cercato di trovare riscontri anche in altre fonti quali il Libro Bianco sulla difesa della Repubblica Francese, edizione 2008, il Libro Bianco sulla difesa della repubblica Popolare Cinese, edizione 2009, articoli della stampa internazionale.

Tutte le tabelle pubblicate sull’Annuario del Sipri partono dal 1988 e coprono quindi un periodo di venti anni caratterizzato, a livello mondiale, da una diminuzione della spesa militare per circa 10 anni, fino al 1998 e da un successivo periodo di crescita costante di questa spesa, che continua anche attualmente, “nonostante la crisi economica”, come fa notare Le Monde.

L’osservazione di questo periodo, 1988-2008, potrebbe far pensare quindi ad un andamento altalenante della spesa militare mondiale e potrebbe indurre a pensare che quest’ultima sia, nella sua media, pressoché costante nel tempo. Noi marxisti sappiamo che non è così. Il sistema capitalistico mondiale, come induce all’aumento sempre più grande della massa di merci prodotte, così impone l’espansione costante anche della merce “armi” e derivati. Aumenta inoltre costantemente la spesa militare degli Stati che tendono ad armarsi sempre di più, con sistemi d’arma sempre più moderni e delicati, e anche sempre più costosi, nella necessità, ribadita nei programmi di politica militare di tutti i maggiori Stati imperialisti, di difendere i loro interessi economici, le linee d’accesso ai mercati e alle fonti di materie prime, ecc.

A parziale conferma del riarmo crescente degli Stati il rapporto ha analizzato la spesa militare degli Stati Uniti d’America fin dalla Seconda Guerra mondiale. Dopo il picco raggiunto durante la guerra imperialista, nei primi anni del dopoguerra la spesa si era grandemente ridotta; ma già nei primi anni Cinquanta, sotto la spinta della guerra di Corea, essa ha ripreso a salire, continuando la sua ascesa fino ad oggi, quasi senza soluzione di continuità. Il breve periodo di diminuzione della spesa rappresentato dal decennio 1988-1998 è stato giustificato non solo dallo smembrarsi dell’impero russo ma dal processo ammodernamento che ha investito tutte le armate moderne, con la diminuzione marcata del numero degli effettivi e delle armi e l’introduzione di armamenti più sofisticati sotto l’aspetto tecnico.

Il compagno ha poi dato un rapido quadro del veloce riarmo intrapreso dalla Repubblica Popolare Cinese, pagato dallo sfruttamento del proletariato più numeroso al mondo. Pechino sta procedendo a marce forzate nella costituzione di un esercito, una marina e una aviazione in grado di difendere il territorio nazionale, ma è ancora lontano dal poter difendere le sue strategiche vie di comunicazione che, come delle arterie, fanno affluire nel Paese le materie prime necessarie allo sviluppo della sua gigantesca economia. Il lavoro verrà pubblicato integralmente su uno dei prossimi numeri della rivista.
 

Storia del movimento operaio negli Stati Uniti

La presentazione del lavoro sul movimento operaio americano è continuata descrivendo l’attività delle sezioni della Prima Internazionale all’interno della classe operaia nordamericana nei primi anni ’70 del secolo. Particolarmente attivi furono gli internazionalisti tra i disoccupati, e colsero anche qualche successo. Ma gli operai più attivi erano i tedeschi, che portavano dall’Europa il verbo socialista; purtroppo con quelli venivano anche le diatribe che nella madrepatria dividevano marxisti e lassalliani, e indebolivano il movimento, oltre a tenerlo lontano dagli operai “nativi”. In questo senso è stato letto un commento di Marx ed Engels sulla situazione, dalla corrispondenza del periodo. Un riavvicinamento vi fu nel 1876, in occasione dello scioglimento della Associazione Internazionale degli Operai. Quasi contemporaneamente fu fondato il Working Men’s Party of the United States, che non ebbe vita facile, mentre anche gli anarchici si davano un’organizzazione politica. Un altro evento legato alle origini europee del movimento, stavolta irlandesi, fu la breve parabola dei Molly Maguires, presenti soprattutto nei distretti minerari della Pennsylvania.

Gran parte del rapporto è stata però dedicata alle narrazione delle grandi lotte di quegli anni, ed in particolare di quello che fu chiamato “il grande sciopero ferroviario” del 1877, che fece tremare le classi dominanti e diede al proletariato la misura della sua forza. Alla fine i padroni, grazie allo sforzo congiunto di esercito, truppe private, milizia, polizia, stampa e tribunali, l’ebbero vinta in una contesa che fu anche sanguinosa, con decine di morti, anche se qualche vantaggio i proletari l’ottennero. Di certo però l’operaio medio americano aveva guadagnato almeno due lezioni fondamentali: in primo luogo si era reso conto della grande forza che la classe era in grado di esprimere quando si muoveva unita; e che questa grande forza poteva risultare in niente senza una organizzazione che le desse continuità, collegamenti, capacità di resistenza. Da qui nascerà la spinta decisiva verso la formazione di sindacati nazionali, capaci di muovere grandi numeri e di sostenere, grazie alle quote degli iscritti, gli scioperanti per periodi prolungati. Meno profonda fu invece l’esperienza politica, a causa della scarsa penetrazione nella classe del Working Men’s Party.

Sulla spinta delle lotte si produsse nel 1878 una organizzazione nazionale sindacale, la International Labor Union, che ebbe come caratteristica di classe quella di appoggiarsi sui suoi settori più deboli, quali i negri e soprattutto le donne. Ma ebbe vita breve: cessò di esistere nel 1883. L’esperienza di chi ne aveva fatto parte però non andò perduta, e fu preziosa all’interno dei Knights of Labor.
 

Dal III Libro del Capitale

Nella riunione è stato ripreso il corso espositivo della Quinta Sezione del Terzo Libro de “Il Capitale”, dopo che avevamo affrontato l’esposizione della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, analizzata nella Terza Sezione, lavoro con il quale abbiamo voluto ancora una volta ribadire quale sia, nella nostra scienza economica, il vero motore delle crisi capitalistiche, solo in apparenza originate da crisi finanziarie.

Per introdurre il tema dell’esposizione, il capitolo 24 della Quinta Sezione, “Esteriorizzazione del rapporto capitalistico nella forma del capitale produttivo di interesse”, sono state presentate alcune considerazioni di economisti attuali che, nel “dibattito” odierno attorno al denaro, si figurano, sull’indicazione keynesiana proposta nel lontano 1944 alla conferenza di Bretton Woods, una moneta depurata dalla sua natura di “merce” (il cui “prezzo” sarebbe il saggio di interesse), al fine di “pareggiare i conti” e fare anticipazioni contabili. Con il che ne sparirebbe l’uso come “riserva di valore”, anzi questa unità ideale di conto economico sarebbe sempre fisiologicamente disponibile nel processo di circolazione, ed eviterebbe di separare il debitore dal creditore, con tutti i terribili rischi che derivano dalla circolazione dei debiti, segni di valore che turbinano in quantità enormi, senza controllo, detonatori di crisi finanziarie drammatiche.

Per le banche non avrebbe più senso tesaurizzare il denaro, sparirebbero gli effetti della rendita monetaria. Le banche dovrebbero così soltanto svolgere la loro attività istituzionale, il prestito all’economia reale.

Dalla critica a queste tesi per una nuova unità di conto nell’economia capitalistica, strampalate però soltanto in apparenza, abbiamo ripresentato i punti fermi della nostra dottrina relativamente al capitale finanziario. Sgombrato il campo da ogni forzatura ideologica – che vede nel capitalismo finanziario, e quindi nel sistema bancario, la matrice di ogni male odierno del capitalismo e della sua società, quasi che un sistema finanziario intrinsecamente “cattivo” e “speculativo” si contrapponesse ad un “capitalismo produttivo” in fondo anche tollerabile, almeno nella misura in cui “produce per l’umanità” – l’esposizione ha preso le mosse dal constatare che per il marxismo in tutte le forme con le quali il capitale si presenta, la loro natura, le leggi alle quali sottostanno sono in definitiva le stesse, anche se apparentemente si comportano in modo diverso, ed hanno movimenti diversi. Dal punto di vista della nostra morale comunista, spregevoli entrambi e antiumane.

Il denaro, considerato come espressione di una somma di valore, quale che sia il suo “aspetto”, contante, merci, titolo di credito, si trasforma in capitale soltanto sulla base della produzione capitalistica, e solo mediante questo processo diviene un valore che “valorizza” ed aumenta sé stesso. Solo in questo processo assume un valore d’uso addizionale, cioè di operare come capitale, cioè produrre un profitto.

Il denaro, in questa qualità di capitale potenziale, cioè di mezzo per la produzione del profitto, diventa merce ma una merce di tipo particolare.

Nel movimento reale, il capitale però esiste come tale soltanto nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza lavoro e non nel processo di circolazione.

Per il capitale produttivo di interesse le cose stanno diversamente, e questo ne costituisce il carattere specifico.

A differenza della comune merce, il valore d’uso del capitale ceduto è esso stesso valore, cioè l’eccedenza della grandezza di valore, oltre la sua grandezza di valore originaria che si crea attraverso l’uso del denaro come capitale. Questo valore d’uso è il profitto.

Il capitale produttivo di interesse presenta il rapporto capitalistico nella sua forma più mistificata. Sparisce il processo che serve da intermediario fra i due estremi del ciclo capitalistico, D-D’, come ad esempio nel processo del capitale commerciale, D-M-D’, che sebbene si conservi soltanto nell’ambito della circolazione e presenti il profitto semplicemente come profitto di alienazione, lo riferisce però ad un rapporto sociale, e non come prodotto di una semplice “cosa”.

Nel ciclo produttivo si evidenzia il processo di compra-vendita, mentre nella forma D-D’ (movimento del capitale produttivo di interesse, oggi si direbbe del “capitale finanziario”) questo rapporto così chiaro, sparisce.

La relazione D-D’ è in se priva di senso. Il capitale appare come semplice cosa e il processo complessivo di riproduzione appare come una qualità che la “cosa” ha di per se stessa. Il rapporto sociale è sterilizzato come rapporto di una cosa, del denaro, con se stessa; è una forma priva di contenuto. Come la proprietà di un albero da frutta è produrre frutta, la proprietà del denaro è creare denaro. Cioè il capitale effettivamente operante sembra produrre l’interesse non in quanto realmente operante, ma in quanto capitale monetario.

E si determina un altro capovolgimento: l’interesse, che è una parte del profitto, cioè del plusvalore che il capitalista estorce al lavoratore, appare a questo punto come un frutto vero e proprio del capitale e il profitto si trasforma nella forma di guadagno di imprenditore come un ingrediente che si aggiunge nel processo di riproduzione.

Per l’economia volgare, che rappresenta il capitale come la fonte indipendente del valore e della sua creazione, in questa forma feticcio, nella quale la fonte del profitto non è più riconoscibile, il processo capitalistico di produzione sparisce per dare origine al profitto in modo autonomo.

Lo è innanzitutto per la sua esistenza continuata come denaro, cioè la forma in cui la diversità delle merci come valori d’uso è cancellata, e sparisce quindi anche la diversità fra i capitali industriali che si compongono di queste merci e delle loro condizioni di produzione; è quella forma sotto la quale il valore esiste come valore di scambio autonomo.

Nel processo reale di riproduzione del capitale la forma monetaria è in realtà una forma passeggera, un semplice momento di transizione. Al contrario sul mercato monetario il capitale esiste sempre sotto tale aspetto.

Inoltre il plusvalore di cui esso si appropria, ancora nella forma di denaro, si presenta come cosa che gli spetta per intero; nel denaro pare germogliare la vita, e non appena dato in prestito o investito nel processo di riproduzione esso “deve” generare interesse.

La rappresentazione del capitale come valore che si riproduce da sé stesso e si accresce nella riproduzione in virtù di una sua qualità innata, quale valore che in eterno dura e si accresce, ha condotto alle fantastiche elucubrazioni sull’interesse composto, il cui aumento in ragione geometrica dovrebbe produrre una massa stratosferica di valore. Una risibile scienza economica che trae il suo fondamento sul considerare il capitale come un meccanismo automatico che si accresce di per sé stesso, senza tener conto delle condizioni della riproduzione e del lavoro.

Nota qui Marx che con questi ragionamenti, si trasforma la teoria dell’accumulazione di Smith nella teoria dell’arricchimento di un popolo mediante l’accumulazione di debiti, ed arriva, con una piacevole progressione all’indebitamento infinito, all’indebitamento per pagare debiti. Due secoli dopo, l’economia politica e la finanza ripropongono ancora, pari pari, le stesse incredibili ricette. Anzi, a voler semplificare all’estremo, tutta la contemporanea economia politica si può ridurre alla creazione ed alla “miglior gestione possibile” del debito.

Il processo di accumulazione del capitale può apparire come accumulazione a interesse composto solo quando la parte del profitto (del plusvalore) che viene ritrasformata in capitale, ovvero che produce nuovo plusvalore, sia denominata col nome di interesse; ritrasformata in capitale ad uno stadio di sviluppo della produttività sociale più elevato. In queste condizioni, ma solo in queste, tutto il capitale esistente appare non più come il risultato di un lungo processo di risparmio, ma come risultato di un tempo relativamente breve di riproduzione.

In realtà, come dimostra la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, questo diminuisce in rapporto all’accumulazione crescente del capitale e alla forza produttiva del lavoro sociale, che cresce corrispondentemente a quella, e che si esprime nella crescente diminuzione relativa del capitale variabile rispetto al costante.

Nel capitale produttivo di interesse la rappresentazione del capitale feticcio è portata a compimento, forma che attribuisce al prodotto accumulato del lavoro, e per di più fissato come denaro, la capacità di produrre plusvalore in una progressione geometrica, quasi per una qualità segreta innata.

Il prodotto del lavoro passato, il lavoro passato stesso, pare qui in sé e per sé pregno di una parte di plusvalore vivo, presente e futuro.

Sulla base di questo plusvalore (profitto, per i capitalisti e finanzieri) futuro si anticipano quantità sempre maggiori di denaro, nel gioco delle Borse e che, ad un livello patologico nei tempi attuali, la cosiddetta “ingegneria finanziaria” moltiplica in un mentecatto gioco di specchi.

Quando la “distanza” tra il valore che può essere prodotto nel processo reale e quello scritto sulle carte della finanza si fa sempre più ampia, e la crisi del “sottostante” produttivo (per usare le loro parole) ne riduce ulteriormente la massa, esplodono le cosiddette bolle.

Per la nostra scienza invece la conservazione e la riproduzione del valore dei prodotti del lavoro passato sono il risultato soltanto del loro contatto con il lavoro vivo; inoltre il predominio dei prodotti del lavoro passato sul pluslavoro vivo dura soltanto quanto dura il rapporto capitalistico, quel determinato rapporto storico sociale in cui il lavoro passato si contrappone in modo autonomo e preponderante al lavoro vivo.
 

La questione militare - La rivoluzione americana

Il capitolo dello studio esposto alla riunione ha trattato della rivoluzione americana del 1775-1783, venendo ad integrare, per quanto concerne la questione militare, il lavoro apparso già dal numero 61 della nostra rivista Comunismo sulla storia del movimento operaio negli Stati Uniti.

L’aspetto militare di quella rivoluzione ha due importanti risvolti. Fu uno scontro tra due ben diverse formazioni militari, quella inglese, addestrata e organizzata ma con scarse motivazioni, e quella americana raccolta alla rinfusa, con un comando il più delle volte inadatto alle funzioni preposte: solo l’ardore dei coloni per l’obiettivo finale supplì agli errori e alle defezioni, per altro molto consistenti anche nell’altro fronte. Il secondo risvolto è l’allargarsi del conflitto oltre il Nord America fino alle Antille, il Senegal, le Molucche e l’India, segno che quella nascente borghesia si muove già per un controllo del mercato mondiale.

Dal punto di vista tecnico militare osserviamo che l’addestramento delle truppe inglesi, realizzato secondo gli schemi del combattimento classico del Settecento, basato su movimenti collaudati di fanteria su terreni aperti e pianeggianti contro un avversario parimenti disposto, si rivelò gravemente inefficace contro forze nemiche diversamente animate e organizzate per attacchi di guerriglia. Problema questo mai soluto: dalle legioni romane nelle guerre sannite o in Spagna, al moderno esercito americano nella guerra del Vietnam ed oggi in Afghanistan. I nuovi, nostri contemporanei eserciti, che oggi si vorrebbero non più di massa ma di pochi specialisti mercenari, studiano e sperimentano schemi tattici, preparano truppe e comandanti per questo tipo di combattimento, quello che attualmente si svolge tra le valli montane dell’Asia centrale e nelle pianure della Mesopotamia e dell’Indo.

Qualcosa di analogo potrebbe avvenire domani nelle città ove sarà scoppiata la rivolta armata del proletariato, quando questo, non avendo ancora un suo esercito pronto e addestrato, potrebbe passare, inizialmente, all’attacco con tecniche generose ma improvvisate di combattimento contro forze predisposte a questo tipo di scontro ma rose al loro interno dalla demoralizzazione e dalla diserzione.

Dopo questa premessa si esponeva un breve riassunto della storia delle Tredici Colonie, nate con modalità diverse: alcune da avventurieri in cerca di oro, altre da esuli religiosi col sogno di un paese dove vivere secondo le loro credenze, altre come trasformazione delle concessioni delle originarie stazioni marittime, altre ancora come omaggio personale della Corona inglese ad influenti personaggi. Tutte però erano legate a Londra da precise e pesanti condizioni economiche che le incatenavano alla madrepatria.

La spartizione dell’America del Nord tra le varie potenze europee, dopo l’iniziale fase dell’esplorazione e dell’impianto di stazioni commerciali ed approdi, ad un certo punto vedeva le colonie inglesi affacciate sulla costa atlantica ma impegnate nell’espansione ad Ovest, mentre i coloni francesi dalla regione dei laghi canadesi si espandevano verso Sud lungo la valle del Mississippi, giungendo a fondare sul suo estuario Nuova Orleans. In questo modo gli inglesi si trovavano sbarrata la strada verso Ovest. Ne derivò la guerra dei Sette anni. La vittoria inglese si tradusse in vaste annessioni delle colonie della Francia e della Spagna, che si era aggiunta solo alla fine del conflitto, e in un aumento di imposte e tasse per i coloni, che in parte dovettero sostenere le spese del conflitto, e nella loro frustrazione perché la Corona inglese, non volendosi ulteriormente esporre, ne bloccò l’espansione. Dopo varie trattative tutte le tasse furono tolte tranne quella sul te, il cui commercio fu assegnato in regime di monopolio alla Compagnia delle Indie.

Tutto sfociò nel poco nobile e coraggioso attacco, nel dicembre 1773, alla nave della Compagnia carica di te ancorata nel porto di Boston; alcuni cittadini, travestiti da indiani, si impadronirono della nave e ne gettarono il carico a mare. Dopo l’imposizione del risarcimento dei danni la situazione peggiorò progressivamente fino alla guerra, scoppiata due anni dopo, sempre a Boston, quando 5 lavoratori in rivolta furono uccisi dai soldati inglesi. Dalle carte da bollo e dalle petizioni ora ci si affidò alle armi.

Le forze in campo erano molto diverse fra loro. Volontari, miliziani (minut men), truppe e ufficiali americani addestrati nell’esercito inglese, per un totale di 273mila effettivi e oltre 120 navi, formavano l’esercito delle Tredici Colonie. Successivamente arrivarono dalla Francia 15mila regolari con circa 60 navi e dalla Spagna 8mila regolari con circa 40 navi. A questi si unirono ribelli del Quebec e tribù indiane degli Oneida e Tuscarora. Le forze inglesi arrivarono ad un totale di 112mila uomini con 100 navi così ripartiti: 12mila regolari inglesi, 55mila lealisti americani, 40mila regolari dell’Assia e Hannover e 5mila della confederazione irochese. Significativo è il computo delle perdite: 25mila soldati americani uccisi in combattimento più 5mila civili caduti per eventi bellici ma ben 63mila per malattia, freddo e stenti. Quello inglese ebbe 15mila soldati persi in combattimento più 27mila per malattie e stenti.

Le forze americane ebbero un notevole aiuto dall’arrivo di valorosi combattenti europei, ma soprattutto del generale prussiano von Steuben, che prese in carica l’organizzazione e l’addestramento delle truppe americane. All’inizio esse erano solo 16mila; il loro armamento e sostentamento era a completo carico della Colonia d’origine, cui si richiese un invio di truppe in base alla rispettiva consistenza.

Il diverso schieramento e addestramento obbligò fin da subito gli inglesi a modificare parzialmente la tattica di combattimento delle fanterie in una non convenzionale, da loro con superbia definita “rompere le linee in una zuffa americana”.

Le fanterie inglesi avevano a disposizione il fucile Brown Bess con tiro utile di circa 250 metri, i francesi il loro Charleville con soli 100 metri di efficacia. Questo sarà successivamente modificato dagli armaioli americani che produssero il famoso Sprigfield 1795, leggero maneggevole con canna corta. I coloni inglesi avevano anche il potente fucile Kentucky o Pennsylvania a canna rigata che aveva un tiro utile di circa 370 metri ma era molto lento nelle operazioni di ricarica. Tutti erano ad avancarica.

Dagli inglesi fu usato anche il primo fucile a retrocarica Fergusson, il cui inventore, un colonnello scozzese, ebbe il comando di una compagnia di 100 fucilieri nel suo primo uso in combattimento. Poteva essere caricato anche in marcia e sparava fino a 5 colpi al minuto contro i 3 dei Brow Bess e Charleville e l’unico del Kentucky. La morte in una delle prime battaglie del suo inventore fece abbandonare per molto tempo l’uso di quel fucile: solo nella guerra franco-prussiana del 1870 abbiamo le fanterie di entrambi i fronti completamente armate e addestrate all’uso di fucili a retrocarica.

Le artiglierie terrestri erano composte da pesanti cannoni da fortezza o su ruote di tipo classico, che usavano palle piene dai 12 ai 20 chilogrammi; più importanti furono le artiglierie navali che comprendevano sempre cannoni in bronzo con canne lunghe fino a 4 metri con gittate da 800 metri con proietti da 18 chilogrammi fino ai 5mila metri delle colubrine con palle da 8 chilogrammi.
 

Attività sindacale

Infine è stato presentato un resoconto sulle ultime vicende che hanno interessato le condizioni e le lotte operaie, in un difficile trapasso che vede il precipitare della crisi economica in assenza di organizzazioni difensive di classe.

In particolare si riferiva della demagogia della sinistra sindacale, e della Fiom, che si atteggiano in dissidio rispetto alla linea ufficiale della Cgil, ma solo per trattenere il malumore dei lavoratori, illudendoli che solo con una battaglia congressuale sia possibile riportare il sindacato ad essere quello che non è più da oltre mezzo secolo, un sindacato di classe. La sinistra sindacale riuscirà, al più, ad ottenere qualche poltrona per i suoi aderenti.

Note non migliori sono da riferire circa il sindacalismo anti-concertativo, che non riesce a reagire alle torbide e distruttive manovre scissioniste della sua dirigenza.

Si impartivano infine disposizioni per la partecipazione dei nostri militanti alle prossime manifestazioni di sciopero, previste per i giorni 9, indetto dalla Fiom, e 23 ottobre, dal sindacalismo “di base”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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In morte di Benito Cotogni

Il giorno 1 ottobre, a seguito delle ferite riportate nel coinvolgimento in un incidente sulla strada, ci ha lasciato il compagno Benito. Lo abbiamo salutato al cimitero con le parole che qui riportiamo, alla presenza della sua compagna, del figlio, di noi del partito e di numerosi amici e conoscenti che, tutti, lo hanno amato e stimato.

Non è un compito facile ricordare il nostro “grande” Benito – “piuttosto, ingombrante” come rideva lui – con le poche parole di un commiato.

La scorsa primavera avevamo festeggiato, noi del partito, con la sua compagna Serena, il figlio Leone e pochi intimi amici, il suo settantacinquesimo compleanno. Settantacinque anni, oggi, non sono molti, ma quella di Benito non è stata certo una vita breve, perché vissuta intensa e piena.

Ne ha viste, sentite e fatte tante. Era nato nell’aprile del 1934, con il fascismo all’apice della popolarità, poco prima dell’inizio della guerra d’Etiopia. E dalla guerra, non quella d’Etiopia ma dalla Seconda Guerra imperialista mondiale, è stata segnata la sua infanzia e prima giovinezza. Dalla guerra e dalle ristrettezze economiche in famiglia: la madre, rimasta sola, riuscì a provvedere al mangiare per i tre piccoli, Benito e due sorelle, e anche a prepararli e proteggerli dalle insidie della guerra, delle occupazioni e della “liberazione”.

Benito è rimasto sempre riconoscente di questo alla madre, che ha accudito, con l’aiuto della sua compagna, per lunghi anni, quando rimase invalida.

Piaceva a Benito sorridere degli episodi della sua giovinezza nella Firenze spazzata dalla guerra, e raccontava di quel periodo, delle sensazioni e reazioni di un ragazzino curioso e intraprendente che vincevano lo smarrimento e le paure da adulto. Raccontava che, con le sorelle, al suono delle sirene sfuggivano alla madre e al rifugio in cantina per correre al piazzale Michelangelo da dove, di lassù, “veder cascare le bombe”.

Non aveva potuto studiare, ma giovanissimo fu costretto a lavorare, prima, per più di dodici ore al giorno, nelle fabbrichette del dopoguerra, poi cambiando mille mestieri.

Cercò la sua emancipazione personale formandosi, con la sua viva intelligenza, una vasta cultura da autodidatta, ben più vitale e partecipata di quella che si “acquista” oggi nelle università borghesi. Era interessato a tutto. Conoscitore e appassionato di cinema, della musica, della pittura. Lettore dei classici e della narrativa, ma anche amava tenersi aggiornato su pubblicazioni di fisica e di scienze naturali. Intanto riusciva a migliorare la sua condizione economica e di lavoro.

Praticava allora lo sport e amava raccontare con auto-ironia le sue avventure in montagna.

Non aveva ancora trent’anni quando, nei primi anni Sessanta, uscì dal Partito Comunista Italiano per aderire al nostro partito, del quale subito abbracciò sentimenti e aspirazioni e ne assimilò la dottrina. Non era facile, anche allora, diventare comunisti rivoluzionari. Benito aderì al partito con slancio, con la determinazione e l’entusiasmo dell’età, ma che ha conservato fino all’ultimo.

Ebbe allora modo di conoscere i compagni delle precedenti generazioni dei quali conservava un ricordo nitido e grande ammirazione, e dei quali ci riferiva della loro umana semplicità e dell’affetto che dimostravano per il partito e per i compagni.

In quegli anni cambiò la sua situazione lavorativa essendosi trovato a gestire un’azienda commerciale. Anche in quel compito, non facile, dal quale si è ritirato solo pochi mesi fa, Benito ha dimostrato doti non comuni di conoscenza dei meccanismi del mercato e del capitalismo, nello stesso tempo preservando la sua umanità e le sue convinzioni, sempre disponibile verso chi si rivolgeva a lui per un consiglio, un favore, un aiuto.

Ma noi compagni ricordiamo soprattutto la sua gioia quando, alla fine degli anni Sessanta, una nuova leva di giovani aderì al Partito; ricordiamo con quanta generosità e disponibilità offriva la sua casa in via della Scala, e la Serena una tavola sempre imbandita, per chiunque di noi e a qualunque ora, in quegli anni non facili per la vita del partito; come aiutava, con la sua chiarezza, non solo programmatica, ma anche sana conoscenza della vita e degli uomini, ad evitare formali impunture e giovanili estremismi.

In tutti questi lunghi anni la sua è stata una presenza costante, determinante, nel mantenimento del sano ambiente e spirito comunista. La sua esperienza umana e di partito ne ha fatto un punto di riferimento costante per tutti noi, fraterno, sensibile e affettuoso. Con la sua bella voce profonda, aveva sempre una parola d’incoraggiamento e ha continuato ad occuparsi e preoccuparsi di noi fino all’ultimo. A tutti mancherà la sua calda compagnia, i suoi occhi ridenti, la sua presenza sempre ironica e rassicurante.

Con lui se ne va un altro dei nostri capi, sì vogliamo definirlo così, un altro di quella generazione di compagni, Angelo, Giuliano, Enzo, Livio, Fortunato, Giandomenico, che ci sono stati capi e maestri, maestri di vita e di milizia, compagni che in questa società di opportunisti, di voltagabbana, di arrivisti, di vinti, hanno dedicato la loro vita alla lotta per l’emancipazione del proletariato dallo sfruttamento di classe, per il comunismo.

Nessuno di loro ha visto con gli occhi la società nuova alla quale hanno dedicato la vita, ma nessuno di loro è morto deluso o sconfitto. «Io non voglio profetizzare quando arriverà la nostra rivoluzione – ha scritto Rosa Luxemburg, la grande rivoluzionaria comunista – Chi di noi sta a fare i conti, che c’importa se la nostra propria vita basta allo scopo? Importa soltanto che noi sappiamo con chiarezza e precisione quello che si deve fare».

Per questo non abbiamo bisogno della parole di un prete che ci indichi la via della resurrezione e della vita eterna. La nostra via, quella del prossimo, vero, materiale e terreno riscatto dell’uomo lavoratore, la conosciamo bene, è quella segnata dal percorso che Benito ha scelto e seguito per una vita. Facilmente la riconosciamo nel suo indifeso candore, nella sua sensibilità, nella sua gioia di vita, nel suo affetto per la moglie, per il figlio amatissimo e per i compagni tutti, nel suo entusiasmo per la vita, nel suo comunismo.
 
 
 
 
 
 
 
 


Ecologica

Ad un nostro compagno è stato prestato, con tanto entusiasmo, da un collega di lavoro, un libro di tale André Gorz dal titolo Ecologica, in cambio di un nostro giudizio in merito.

L’autore sostiene di rifarsi alla tradizione marxista, che cita di continuo. In effetti si sforza di esporre le dinamiche, i meccanismi e le contraddizioni del capitale e della sua attuale crisi. La forma, come è oggi d’uso, è sicuramente accattivante e scorrevole e meno ruvida rispetto ai testi di partito.

Il libro sottintende che attraverso una ecologia ambientale la società potrebbe arrivare ad una ecologia della vita. Concediamo qui, ma non è affatto detto, che ecologia della vita e comunismo siano per l’autore sinonimi. I problemi nascono nel momento in cui vorrebbe indicare la strada da percorrere (anche se non è chiaro se la indica come auspicabile oppure come unica ed inevitabile) partendo dal giusto assunto che nella attuale esistono già i presupposti della società futura.

A ben vedere, però, quello che si propone è una sorta di riformismo dal basso. Ovvero, le persone (parola che è ormai obbligatorio usare al posto di popolo, cittadino, lavoratore, proletario o, semplicemente, uomo), cambiando le proprie abitudini e stili di vita, arriverebbero a superare e fare morire di morte naturale il capitalismo.

Questo presupporrebbe che:

1. Avvenga una presa di coscienza di massa. Ma la coscienza purtroppo è patrimonio di pochi, la maggioranza è trasportata come le foglie dal fiume: dove mi porta io vado. Le masse sono costrette a farsi poche domande, o ad accettare le risposte che le vengono imposte dal sempre comodo e rassicurante “pensiero unico”, che i mezzi di informazione prontamente ed incessantemente confezionano. Libri come questo vengono a dare risposte apparentemente “diverse” a chi le cerca. D’altra parte il movimento oggettivamente anti-capitalista esiste già, basta guardare alla classe operaia che, come può, resiste alla sua oppressione. Invece i generici movimenti di opinione, come quello ecologista, sono formati (e non potrebbe essere diversamente in quanto interclassista) da mille anime tutte incoerenti ed inconcludenti tra loro. In fin dei conti è questa la differenza tra movimento e partito di classe. Quest’ultimo, al contrario, si pone lo scopo di accogliere le coscienze dei pochi che hanno veramente voglia di impegnarsi per organizzarli e prepararli a guidare domani la rivolta dei molti che si muoveranno non per presa coscienza ma perché obbligati dal corso degli eventi.

2. Che il capitalismo, ad un certo punto, alzi le braccia e accetti il fatto di essere stato superato, di non avere più ragione di esistere e, spontaneamente, abdichi lasciando al comunismo proletario la scena della storia. Anche nel 1700 tutti avevano capito che la società dell’epoca era un cadavere vivente, e che l’aristocrazia era stata superata dalla storia. La stessa nobiltà dominante lo aveva ben compreso. Ma per fargli accettare di rinunciare ai suoi privilegi di classe è fu inevitabile utilizzare la ghigliottina.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Il nostro intervento agli scioperi del 9 e del 23 ottobre

Riportiamo i due volantini che sono stati diffusi durante le manifestazioni tenute in occasione dello sciopero dei metalmeccanici indetto dalla Fiom per il 9 di ottobre e lo sciopero generale indetto dal sindacalismo di base per il 23.
 

9 ottobre
La Fiom fa la stessa politica della Cgil

Lo sciopero di oggi trova la classe lavoratrice, soprattutto del settore manifatturiero, in grave difficoltà. Nell’ultimo anno i disoccupati sono aumentati di più di 340.000 e la cassa integrazione è già triplicata.

Questa crisi, che è assai peggiore delle precedenti, non accenna a risolversi, nonostante le menzogne dei borghesi e dei loro tirapiedi.

Il padronato reagisce cercando di ridurre in ogni modo il costo della forza lavoro, licenziando e mettendo in cassa integrazione, prolungando l’orario di lavoro e lo sfruttamento di chi resta alla produzione, attuando ristrutturazioni e dislocamento della produzione in paesi dove i lavoratori si pagano ancora meno, riducendo i salari, soprattutto dei giovani e generalizzando il lavoro precario. Cresce la massa dei disoccupati, con l’effetto di tenere bassi i salari e di esercitare una potente arma di ricatto sui lavoratori occupati.

Intanto lo Stato borghese si prepara allo scontro sociale promulgando leggi sempre più restrittive contro gli scioperi, appoggiandosi alle grandi Confederazioni sindacali e ai falsi Partiti operai, fedeli al regime, per impedire il risorgere di organizzazioni per la difesa dei lavoratori su basi di classe.

Oggi è sotto gli occhi di tutti che la classe lavoratrice non ha alleati tra le altre classi, e che i lavoratori devono impegnarsi in prima persona e lottare se vogliono impedire la loro rovina.

Ogni giorno si conferma che le conseguenze di questa crisi non si possono contrastare lottando fabbrica per fabbrica. La crisi è così grave che è quasi impossibile condurre una lotta vittoriosa contro i licenziamenti in un singolo posto di lavoro. La questione della difesa dei disoccupati, dei cassintegrati e delle loro famiglie è una questione politica, che va affrontata a livello generale, di classe.

Si capisce bene che lo sciopero di oggi non costituisce certo lo strumento adatto per ottenere risultati di questo tipo! Questo sciopero serve più a recuperare il malcontento per l’atteggiamento conciliatorio della CGIL verso il padronato, che ha creare un fronte operaio contrapposto al fronte padronale. Per elevare il livello della lotta c’è bisogno di una organizzazione sindacale che voglia e possa farlo, e questa non può essere la FIOM la quale, nella sostanza fa la stessa politica della CGIL!

Oggi più che mai i lavoratori hanno bisogno per la difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro di un genuino SINDACATO DI CLASSE, un sindacato che riprenda la via della lotta, recuperando l’arma degli scioperi, decisi ed estesi oltre le categorie, i settori, le località; un Sindacato centralizzato e diffuso, per l’unione effettiva di occupati e disoccupati. È necessario che si formino in ogni luogo di lavoro degli organismi sindacali di classe che, fuori e contro i sindacati di regime CGIL-CISL-UIL-UGL, tendano ad organizzare i lavoratori superando le divisioni fomentate dal padronato (pubblici e privati, giovani e vecchi, precari e “garantiti”, indigeni e immigrati). Occorre un sindacato che organizzi e diriga la lotta generale per questi obbiettivi:
- Per la riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario.
- Per aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate.
- Per il salario pieno ai disoccupati.
- Per il rifiuto di ogni concertazione, compatibilità e sacrificio in nome dell’economia nazionale.
- Per la rinascita del sindacato di classe.

Sul piano politico generale, in questa vera e propria guerra contro il padronato lo Stato borghese i sindacati collaborazionisti, i lavoratori hanno un unico alleato, il loro partito, il partito comunista internazionale, custode dell’esperienza delle lotte rivoluzionarie che già dalla metà dell’Ottocento fecero tremare i borghesi davanti allo spettro del COMUNISMO!
 
 
 

23 ottobre
Per un forte e combattivo sindacato di classe !

Lo sciopero generale di oggi avviene in un momento di grande difficoltà per i lavoratori di tutte le categorie, sia pubbliche sia private, anche se colpisce con particolare durezza il settore manifatturiero.

La crisi di sovrapproduzione dell’economia capitalistica, a livello mondiale, scarica i suoi effetti sui lavoratori con decine di migliaia di licenziamenti, aumento eccezionale della cassa integrazione, riduzione dei salari reali, aumento dell’orario di lavoro e dello sfruttamento, taglio del cosiddetto Stato sociale, dalla sanità alla scuola, leggi sempre più repressive e restrittive per contrapporre manodopera indigena e immigrata.

Questa è l’unica ricetta che ha la classe borghese per resistere alla crisi, indipendentemente dal colore dei partiti e delle coalizioni che sono al governo: aumentare lo sfruttamento di chi resta alla produzione e liberarsi delle braccia in eccesso con licenziamenti generalizzati.

Per difenderci da questo attacco alle nostre condizioni di vita e di lavoro non si può lottare divisi, fabbrica per fabbrica. È necessario unire le diverse vertenze, le diverse categorie in una mobilitazione che porti al coinvolgimento nella lotta della maggioranza dei lavoratori. Oggi non esiste una organizzazione economica di classe capace di questo compito.

Gli stessi sindacati di base che hanno promosso questo sciopero si presentano sempre più divisi rendendo ancora più difficile quel processo di svuotamento dei sindacati concertativi che rappresenta il primo passo per la ripresa della lotta di classe.

I sindacati di base hanno rappresentato per molti anni una alternativa al sindacalismo tricolore di CGIL, CISL e UIL e un possibile percorso verso la formazione di un forte sindacato di classe, ma gli avvenimenti degli ultimi mesi marcano un netto ritorno indietro. Il flebile percorso unitario iniziato col “patto di base”, sotto la spinta dei lavoratori più attivi che chiedevano l’unità delle diverse sigle, si è concluso con una scissione che ha spaccato la Confederazione Unitaria di Base (CUB) in due tronconi con motivazioni del tutto incomprensibili. Queste ulteriori divisioni indeboliscono il lavoro di quei gruppi di lavoratori d’avanguardia che cercano di prospettare ai loro compagni una prospettiva reale di organizzazione fuori e contro la CGIL e il sindacalismo tricolore.

Occorre reagire a questo nuovo passo indietro e proseguire verso la ricostruzione di un forte, indispensabile, sindacato di classe.

Questo non può essere che opera dei lavoratori stessi. È necessario che già da ora si formino organismi sindacali con ferme connotazioni di classe che, fuori e contro i sindacati concertativi CGIL, CISL, UIL e UGL, organizzino i lavoratori superando le divisioni fomentate dal regime (pubblici e privati, giovani e vecchi, precari e “garantiti”, indigeni e immigrati); sindacati organizzati sul territorio, in grado di unire occupati e disoccupati, migranti e precari; sindacati ben diretti e centralizzati in grado di costruire unità di categorie e federazioni; sindacati che si riapproprino delle armi tradizionali del movimento operaio, dell’arma dello sciopero esteso oltre le categorie, i settori, le località, fino allo sciopero generale, senza preavviso e senza limiti di tempo e di spazio, sulla base di genuine rivendicazioni di classe.
- Riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario.
- Salario pieno ai disoccupati.
- Aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate.
- Rifiuto di ogni concertazione, compatibilità e sacrificio in nome dell’economia nazionale.
- Per la rinascita del sindacato di classe!

La lotta economica, sappiamo, non è sufficiente a difendere a lungo le condizioni di vita della nostra classe all’interno della società capitalistica. Ma la crisi sta indebolendo questo sistema di oppressione, di rapina, di guerra, lo sta minando alle radici. Così pone le condizioni per una ripresa della lotta rivoluzionaria di classe. Questa sarà la sfida di domani quando avanguardie proletarie consistenti si getteranno nella lotta politica, sostenendo l’azione del Partito Comunista, rivoluzionario ed internazionalista, e militeranno nelle sue file. In quel Partito che solo potrà condurre il proletariato alla realizzazione del suo programma storico: conquista del potere politico, instaurazione della dittatura sulla classe borghese, distruzione dei rapporti di produzione capitalistici.
 
 
 
 
 
 
 


Ad una assemblea di tranvieri

A Genova c’è malcontento fra i tranvieri per un piano aziendale che prevede tagli e aumento dei carichi di lavoro. Recentemente, durante la “notte bianca”, gli autisti si sono rifiutati di fare lo straordinario che ormai, e in specie in quelle occasioni, rappresenta una buona fetta del servizio. L’astensione dallo straordinario in quel caso ha avuto un certa ripercussione riportata dai giornali locali. Il 21 settembre c’è stata un’assemblea “autoconvocata”: una grande sala era gremita da oltre trecento lavoratori, molti in piedi perché non c’erano più posti a sedere. Il giornale locale, il Secolo XIX, esagera parlando di mille partecipanti. Rabbia contro i sindacati e scontro anche fra lavoratori fra pro e contro FAISA, il sindacato corporativo di maggioranza da quando alcuni anni fa in molti abbandonarono la CGIL.

Clima teso, ma disponibilità alla mobilitazione ancora scarsa. Il gioco è sempre lo stesso: si fa la voce grossa sperando che i sindacati s’impauriscano e righino dritto.

Questo il testo distribuito l’indomani dai nostri compagni allo sciopero con corteo di circa seicento tranvieri. È un fatto questo da non esaltare troppo, ma nemmeno deve lasciare indifferenti: per i tranvieri e la loro storia recente è stato un evento.
 

L’assemblea dei tranvieri conferma la radice del problema:
Ai tranvieri in lotta, come a tutti i lavoratori, manca il Sindacato di classe

Tranvieri!

Ieri sera, gremendo la sala, in oltre trecento vi siete riuniti in assemblea per discutere come lottare contro il nuovo progetto aziendale che prospetta per voi ancora più sfruttamento. L’assemblea è stata dichiaratamente convocata al di sopra delle sigle sindacali ma, inevitabilmente, ha finito per discutere proprio della questione sindacale. Tutti siete d’accordo: i sindacati hanno tradito, o, nell’ipotesi più accomodante, “non fanno il loro mestiere”. Molti, come già tante altre volte in passato, hanno minacciare di strappare le tessere. In molti già l’hanno fatto.

CGIL-CISL-UIL, dalla loro nascita ad oggi, hanno seguito un percorso che le ha condotte ad essere irreversibilmente organismi passati al nemico. Sono inutilizzabili da parte dei lavoratori ai fini della lotta mentre servono solo alle aziende per gestire il discontento in seguito ai loro piani di “sviluppo” e “razionalizzazione” sulla pelle dei proletari.

La FAISA, in quanto sindacato corporativo, per definizione non può che finire per cogestire con l’azienda lo sfruttamento dei dipendenti secondo la logica che “se l’azienda sta bene, stanno bene i lavoratori”. Nulla di più falso: per le irriformabili leggi dell’economia capitalistica tutte le aziende, senza eccezione, per essere sane devono crescere e per crescere devono aumentare la produttività, cioè lo sfruttamento. I lavoratori invece, devono difendere le loro condizioni di vita al di sopra e contro lo stato di salute delle aziende e dell’economia capitalistica in generale, pena il loro sacrificio sull’altare del profitto.

Tranvieri, lavoratori!

Abbandonare questi sindacati non basta perché non condurrà ad una loro impossibile “guarigione”. Ciò che legittima queste organizzazioni non sono i lavoratori ma l’azienda! Né si può pensare di sostituire il sindacato con un’assemblea.

I tranvieri come tutti i lavoratori devono ricostruire un vero sindacato: il sindacato di classe!

Ciò può avvenire da zero o rinforzando embrioni di organizzazioni già esistenti. Non è vero infatti che “tutti i sindacati sono uguali”. La CUB nel 2003 fu la sola ad appoggiarvi incondizionatamente durante lo “sciopero selvaggio” di dicembre-gennaio e se ne avvidero alcuni tranvieri di una delle rimesse più combattive (Boccadasse) che da allora militano in questa organizzazione. Questi – come ha detto ieri uno di loro in assemblea – non utilizzano distacchi e sono lavoratori al pari degli altri, non bonzi sindacali. Contrariamente alle altre organizzazioni, la CUB è suscettibile d’essere migliorata dalle energie di lavoratori che siano disposti a dedicare parte del loro tempo all’impegno in difesa dei propri interessi di classe. Anche in questo il sindacato di classe si deve differenziare dagli altri, in quanto chiede e pretende l’impegno dei lavoratori in prima persona. Solo un sindacato di questo tipo può lavorare per preparare i metodi di lotta necessari ad affrontare e vincere le lotte presenti e future, con scioperi veri, senza preavviso e ad oltranza, che spezzino i codici di autoregolamentazione imposti dai governi di destra e sinistra e avallati dai sindacati di regime.

Tranvieri, lavoratori!

I tranvieri oggi sono sottoposti ad un attacco al pari di tutto il resto della classe lavoratrice. Le lotte che si prospettano nel futuro saranno ancora più dure perché sempre più a fondo morderà la crisi del capitalismo. I tranvieri e tutte le categorie di lavoratori per farvi fronte dovranno unire le loro forze. Per raggiungere questo obiettivo i lavoratori più combattivi fin da oggi devono porsi sulla strada della ricostruzione di un organismo di lotta che dichiaratamente lavori per questo fine: il sindacato di classe.