Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 344 - dicembre 2010
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 – Fiat - È l’ora della verità per il capitalismo. E per la classe operaia
Afghanistan-Pakistan: Guerra nel baricentro del mondo
Fascismo e democrazia due metodi contro la classe operaia
PAGINA 2 – Mentre la crisi prosegue come il marxismo gli ha da secoli previsto, noi l’attendiamo al varco: il frantumarsi dell’unità nazionale fra le classi
Engels ai siciliani
PAGINA 3 Per la milizia comunista - Contro il personalismo storiografico
PAGINA 4 Capitalismo o morte, Credo del sindacalismo di regime
– Come lottare contro la doppia schiavitù degli operai immigrati
Lotta operaia internazionale

 
 
 
 
 
 

PAGINA 1


Fiat
È l’ora della verità per il capitalismo
E per la classe operaia

Il capitalismo, vero, è quello di Marchionne, e lo sarà sempre ed ovunque

La previsione marxista di un capitalismo destinato a cadere in crisi sempre più gravi e che si alimenta solo con la vita dei suoi schiavi salariati, è ogni giorno più confermata.

L’attacco della Fiat è quello che si verifica in tutti i paesi e in tutte le categorie e non è, come sostiene il sindacalismo di regime, e anche la sua sinistra, la Fiom, “scelta” di una particolare “cultura aziendale” e di un amministratore delegato “amerikano” e liberista.

L’intero capitalismo è afflitto da una generale crisi di sovraproduzione. Nell’auto si calcola che in Europa e in USA la sovracapacità produttiva oggi sia fra il 30 e il 40%. Questo processo, non voluto da nessuno ma risultato naturale e spontaneo delle leggi che regolano la produzione capitalistica, ha condotto ad una elevata concentrazione – altra classica previsione marxista – col passaggio a poche aziende sovranazionali in competizione per la vita o per la morte. Tutte le case costruttrici sono quindi costrette a sfruttare in modo parossistico i propri lavoratori; quelle che non l’hanno già fatto a fondo presto lo faranno.

L’accordo di Mirafiori dimostra che non può esistere un capitalismo “dal volto umano”. La Fiat, come la maggior parte delle aziende, per cercare di restare in vita deve esasperare lo sfruttamento dei suoi operai. Lo fa già da anni, e con l’avvallo di tutti i sindacati, Fim, Uilm e anche Fiom. Finché oggi i ritmi di lavoro divengono tali da non poter essere accettati dai lavoratori, nemmeno col lavorio di convincimento dei sindacati confederali, ma solo imposti.

Allora crolla la finzione della democrazia in fabbrica. La Fiat non può più permettersi che i carichi di lavoro più pesanti siano anche solo in parte vanificati dal ricorso dei lavoratori a quei mezzi con cui essi – nella loro attuale incapacità di una vera lotta frontale – riuscivano finora a sfuggire un poco a quell’inferno, come le due ore di sciopero a fine turno o il ricorso alla malattia.

Se non c’è più spazio per fingere la conciliazione degli interessi, la concertazione, non ci sarà nemmeno per quel sindacato che su quel principio di “relazioni industriali” si è costruito. Restano in piedi solo due tipi di sindacato: o quello dichiaratamente a servizio dell’azienda, e da questa “riconosciuto”, o il sindacato di classe, per costituzione nemico del padrone, fondato solo sulla sua forza di organizzazione e di mobilitazione, e non riconosciuto da nessuno, se non dalla classe lavoratrice.

Gli accordi di Pomigliano e di Torino segnano una tappa in direzione di questo processo, non il suo compimento.

La Fiom per molti decenni è stata preziosa per la Fiat, e buona parte del padronato la considera ancora tale. I borghesi sanno che privare i lavoratori di un inquadramento sindacale che predica la conciliazione degli interessi, spingendoli verso la costruzione di un vero e combattivo sindacato di classe costituisce un passo pericoloso. La ragione glielo mostra prematuro, non ancora necessario. Ma, di questi tempi di catastrofe, la ragione non basta e la lotta di classe, primo motore del divenire sociale, nelle sue forme determinate s’accende da sola. Quando la barca del capitalismo affonda le apparenze debbono passare in secondo piano, si sollevano i veli ipocriti: il Capitale tutto e tutti pretende trascinare con sé nell’abisso.

La Fiat ha dovuto mettere Confindustria e sindacati confederali davanti al fatto compiuto. La situazione è troppo grave per trastullarsi con i tempi lunghi delle “trattative”: occorre ubbidienza e disciplina, da tempo di guerra.

Staremo a vedere se il futuro svolgimento della crisi generale consentirà che, se la Fiat ha fatto tre passi avanti, Confindustria e confederali ne facciano almeno uno o due, varando un nuovo accordo sulla rappresentanza e la “democrazia sindacale”; vedremo se la Fiat potrà rientrare nelle nuove regole, e se la Fiom riavrà i “diritti” in Fiat.

Si capisce bene che, se nella vicenda Fiat la Fiom ha potuto assumere atteggiamenti da vittima, ciò non è dovuto a una sua natura di sindacato di lotta e di classe. La Fiom è stata “licenziata” dalla Fiat, la quale non è oggi in condizione di tollerare ed ospitare nei suoi stabilimenti nemmeno una finzione di sindacato. Il che sarebbe un fatto positivo, nel senso che indica la necessità di uno vero sindacato, che non chieda il permesso del padrone per organizzarsi, partendo da fuori della fabbrica, e dal padrone non si faccia raccogliere le quote.

La Fiom da sempre ha ricercato l’unità con Fim e Uilm e con queste ha “contrattato” e firmato tutti i peggioramenti con l’azienda.

Nel 1986 a Termoli con la firma della Fiom è stato introdotto per la prima volta il lavoro notturno obbligatorio per le donne, e poi negli altri stabilimenti.

Sempre Termoli fu prima a passare nel 1994 dai 15 ai 18 turni. Poiché quell’accordo, firmato anche dalla Fiom, fu respinto dai lavoratori nel referendum, nell’occasione furono mobilitati i massimi vertici dell’organizzazione per rimediare alla volontà “democraticamente” espressa dai lavoratori. Per due settimane nelle assemblee i delegati Fiom, insieme a quelli Fim e Uilm, terrorizzarono i lavoratori con la minaccia dello spostamento della produzione da Termoli a... Mirafiori. Queste le belle parole dell’allora segretario Fiom Claudio Sabattini: «Se deciderete per il no [come se col referendum gli operai non avessero già deciso!] noi rispetteremo la vostra decisione. Però non si dica che non vi abbiamo avvisato che così veniva distrutta una realtà industriale al Sud». Almeno oggi Marchionne non ha l’ipocrisia di dire che in caso di voto contrario rispetterebbe l’opinione espressa dai lavoratori! La sostanza del ricatto è la medesima.

Nel 2008 alle Meccaniche di Mirafiori avvenne lo stesso, con la Fiom che firmava l’accordo per il passaggio ai 18 turni e che fu respinto al referendum dai lavoratori, fra cui anche alcuni delegati Fiom.

Nella vicenda attuale, da Pomigliano a Mirafiori, Landini ha ripetutamente dichiarato la disponibilità della Fiom ad accettare l’aumento dei ritmi.

La Fiom, come la Fim e la Uilm, ha sempre accettato il principio secondo il quale i lavoratori debbono farsi carico della competitività dell’azienda. Mai si è posta sul piano di classe, esprimendo la necessità che gli operai si oppongano ad essere messi in concorrenza con quelli delle altre case automobilistiche in Europa e nel mondo, perché altrimenti non c’è limite ai peggioramenti, fino al consumarsi del fisico dell’operaio. Facendo suo invece il principio secondo il quale è interesse anche degli operai rendere l’azienda più competitiva la Fiom ha assecondato il capitale a dividere e sfruttare i lavoratori di tutti i Paesi. Ancora peggio, fra gli stessi stabilimenti in Italia, come nell’esempio di Termoli, o con la firma del patto territoriale per la Fiat di Melfi.

Tutta questa impostazione dell’azione sindacale, prettamente “borghese”, lega le sorti dei lavoratori a quelle dell’azienda invece che alla loro capacità di unirsi al di sopra delle imprese e delle categorie. Questa linea politica non è nemmeno oggi messa in dubbio dalla Fiom, ma rivendicata, anzi, esibita per dimostrare la pretestuosità delle “scelte” di Marchionne. La Fiom è vittima innanzitutto di se stessa e non vuole e non può, per quello che è e per tutto quanto ha fatto in passato, agire come un sindacato di lotta, scontrandosi frontalmente con la Fiat e con tutto il padronato.

Ma nemmeno può accettare la morte della “democrazia sindacale” firmando gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, perché così perderebbe quel ruolo mediano che è nella sua natura – e di cui ancora può avvalersi in tutte le altre fabbriche – e finirebbe per non distinguersi affatto da Fim e Uilm.

Quanto occorso dall’accordo per Pomigliano, del 15 giugno, a quello per Mirafiori, del 23 dicembre, conferma che l’attacco sferrato dalla Fiat non ha affatto mutato l’atteggiamento della Fiom. Nonostante fin dall’accordo di Pomigliano fossero chiare le intenzioni della Fiat e del padronato, come la stessa Fiom ha subito denunciato, essa non ha proclamato immediatamente lo sciopero generale di tutta la categoria a difesa del contratto nazionale, e nemmeno quello di tutti i lavoratori Fiat. La vicenda di Pomigliano è rimasta una questione dei lavoratori di quello stabilimento, per di più in cassa integrazione, nonostante fosse evidente che riguardava non solo tutti gli operai Fiat e nemmeno i soli metalmeccanici ma tutta la classe lavoratrice.

A luglio la Fiom ha poi proclamato una giornata nazionale di mobilitazione dei metalmeccanici, non per uno sciopero ma per una manifestazione, da tenersi... tre mesi dopo, il 16 ottobre.

Quando il padronato ha compiuto il passo successivo, con la disdetta il 7 settembre del contratto metalmeccanico del 2008, dimostrando quanto denunciato fin da Pomigliano, e cioè l’intenzione di distruggere il contratto nazionale di categoria per sostituirlo con contratti aziendali, la Fiom ha risposto con 4 ore di sciopero divise per azienda.

Alla manifestazione del 16 ottobre a Roma Landini ha lanciato la richiesta alla Cgil di indire uno sciopero generale. Nell’attesa della proclamazione dello sciopero, che non c’è stata, la Fiom si è ben guardata dal cominciare intanto a indire lo sciopero generale della categoria.

Si è giunti così all’accordo per Mirafiori del 23 dicembre e la Fiom si è finalmente risolta a indire lo sciopero. Ma per il 28 gennaio, due settimane dopo il referendum sull’accordo, senza alcuna intenzione quindi di influire sul suo esito. Si tratta ancora di uno sciopero per esprimere la propria opinione contraria, non certo per respingere con la forza il nuovo pesante attacco.

La vittoria del “no” al referendum comporterebbe necessariamente una successiva mobilitazione dei metalmeccanici. Ma la Fiom, che non ha voluto né potuto mettere in campo una simile mobilitazione in questi sei mesi, non può né vuole farlo ora. Non vuole, perché è intimamente legata a una pratica di ricerca del compromesso col padronato che le garantisca tutti quei diritti sindacali sui quali vive la sua struttura e che non può compromettere con una vera lotta generale contro di esso. Non può perché tutta la sua azione sindacale passata, imperniata sulla ricerca della conciliazione degli interessi col padronato, non ha rafforzato ma demolito la capacità di lotta dei lavoratori.

D’altro canto la Fiom è stata emarginata solo in due stabilimenti Fiat. Può ancora contare sulla consapevolezza di buona parte del padronato che ben sa che “se c’è un sindacato che fa accordi è la Fiom”, per dirla con Landini.

La Fiom quindi non conta affatto di porsi sulla strada della ricostruzione della forza dei lavoratori per respingere gli attacchi odierni e futuri. E nemmeno per difendere se stessa. Fino all’ultimo cercherà una sponda fra le fazioni del padronato che le garantisca la prosecuzione della sua funzione conciliatoria, anche se verrà condotta in spazi sempre più angusti e puramente simbolici. Fino all’ultimo difenderà la “democrazia” e proprio per questo si rifiuterà di impostare la sua azione sull’unico piano reale, quello dei rapporti di forza. Questa condotta è fallimentare e suicida come, con una piccola anticipazione di più grandi episodi futuri, ha dimostrato la vicenda Fiat.

* * *

L’esito del referendum di Mirafiori è stata una prova d’orgoglio degli operai. In gran parte non hanno ceduto al ricatto dell’azienda. Una prova di coraggio che dimostra come la classe operaia non sarà mai definitivamente piegata e succube alle esigenze del capitalismo, come la descrivono e la sognano gli ideologi della borghesia.

Ma non è un referendum che decide la vittoria o la sconfitta in una battaglia sindacale. Questa è il risultato delle forze materiali messe in campo. Tanto quanto sono forze materiali quelle succhiate dall’azienda, dal Capitale, al fisico e alla mente degli operai, ogni giorno della loro vita. Altrettanta forza deve essere impiegata dai lavoratori per opporsi alla violenza del Capitale che vuole strappare loro ancora più fatica, sudore, logoramento fisico e mentale, per donarlo al profitto.

Questa forza non è un segno di penna su una carta, ma sono scioperi, assemblee, riunioni. Veri scioperi: non limitati all’azienda o al reparto ma estesi il più possibile a tutta la classe operaia. Vere assemblee: fuori dall’orario di lavoro, fuori dalla fabbrica, nelle sedi delle organizzazioni operaie, insieme ai lavoratori di tutte le aziende.

Tutto questo non c’è stato prima del referendum. Tutto questo se ci fosse stato avrebbe reso vuoto di significato l’esito di una conta dei voti che mostra la menzogna insita nel principio "una testa, un voto". Non solo a decidere per gli operai sono stati quadri e impiegati. Ma nel referendum gli operai in lotta mettono sullo stesso piano il loro voto con quello di chi nulla ha scarificato di sé per la battaglia, i crumiri, gli individualisti, i deboli di fronte al ricatto padronale.

Diverso il voto nelle assemblee operaie e sindacali. Vota chi c’è, chi fa la fatica di recarvisi. Si vota per alzata di mano, non nel segreto dell’urna, e si è responsabili di quel che si fa di fronte agli altri. Ma un’assemblea non è un organismo conciliatorio, riconosciuto cioè dall’azienda. È un organismo di lotta, di una sola parte, dei lavoratori, e non serve ad accettare o meno un accordo, serve a decidere se continuare la lotta contro di esso. Se gli operai arrivano a riporre solo in un referendum le sorti della battaglia hanno già perso.
 
 
 
 
 
 
 
 


Afghanistan-Pakistan
Guerra nel baricentro del mondo

Oggi, lungo la moderna via della seta corsa dall’imperialismo mondiale, che parte dagli Stati Uniti d’America, attraversa l’Europa, la Russia e passa per quella regione che oramai comunemente viene chiamata Af-Pak, Afghanistan e Pakistan, oramai in tutti i sensi vero baricentro geografico del Mondo, arrivando fino all’astro nascente cinese e al vecchio ma ancora potente Giappone, tutti si promettono, chi più chi meno, rispetto, amicizia, fraternità.

In questo spirito si è tenuto lo scorso novembre nella città di Lisbona il summit della NATO; tre le principali tematiche affrontate: i rapporti Usa-Europa, il definitivo e formale disgelo con la Russia, e la decisione, dopo dieci anni dall’inizio della missione di pace, del progressivo abbandono dell’Afghanistan, l’exit strategy, progetto che si pone come obiettivo la consegna in sicurezza di tutte le province afghane alle forze locali entro la fine del 2014.

Questa la breve dichiarazione del presidente Obama a riguardo: «Armonizzeremo il nostro approccio in modo da poter aprire il periodo di transizione che deve portare gli afghani a prendere all’inizio dell’anno prossimo la responsabilità della loro sicurezza”. Mentre ecco la sentenza sui rapporti Usa-Europa: “Dopo un periodo in cui i rapporti tra Europa e Stati Uniti erano tesi, la tensione non esiste più. Questo vertice è stato molto produttivo”. Tutte parole, banali e di circostanza, che non hanno alcun valore e domani potranno essere smentite e cambiate più volte a seconda delle esigenze.

«La Nato rimarrà il tempo necessario per sostenere l’Afghanistan. Almeno fino a quando non sarà più un rifugio sicuro per i terroristi», con queste concise parole il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen ha dovuto chiarire che non esistono scadenza per il ritiro delle sue truppe dall’Afghanistan, correggendo quanto affermato poco prima da Obama che, comunque, dopo aver promesso il ritiro nel 2011 ne aveva procrastinata la data al 2014.

Se è vero infatti che Washington, trovandosi in piena crisi economica, potrebbe seriamente prendere in considerazione una sua parziale uscita di scena, interrogandosi sulla sua effettiva capacità a sostenere di una lunga e costosa permanenza in quelle terre, è anche vero che il ritiro unilaterale sarebbe un nuovo smacco per Washington dopo quello subito in Iraq. Che l’Afghanistan gli costi caro non è un mistero, attualmente gli Stati Uniti spendono circa 8 miliardi di dollari l’anno per mantenere i loro 98 mila soldati e gli ancor più numerosi mercenari sul terreno.

Ma la posta in gioco è altissima. Questa terra di confine è diventata il centro delle frizioni delle maggiori potenze imperialiste, Stati Uniti, alleati europei, Cina, Russia, India.

Il fronte interno oggi vede i Talebani, afgani e pachistani, imporsi sia sul campo di battaglia sia su quello diplomatico, prendere contatti con vari Stati, e anche Washington non nasconde di esser venuto a patti con loro, in un complesso gioco di equilibri, sulla pelle delle popolazioni di quei paesi, straziate da una delle guerre più lunghe degli ultimi decenni.

La guerra in Iraq, guerra per il petrolio, fu spacciata come necessaria per impedire al dittatore Saddam Hussein l’uso di armi di distruzione di massa esistite solo nella propaganda dei servizi segreti statunitensi. La guerra in Afghanistan è stata presentata come freno al terrorismo internazionale dell’islamismo radicale. Ambedue le guerre sono state soprattutto il tentativo degli Stati Uniti di conquistarsi una posizione strategica essenziale contro i rivali blocchi imperialisti. Sono state effettivamente guerre preventive, non contro una inesistente internazionale del terrorismo islamico, ma contro l’Europa, la Russia, la Cina.

Non diamo, noi marxisti, una lettura complottista dello scontro di grandi for­ze storiche, ma torniamo a sottolineare che se Al Queida non fosse esistita avrebbero dovuto inventarla, per i servigi che il suo fantasma ha reso, e continua, all’infame regime del capitale.

I militari americani andranno via dal suolo afghano? Non lo crediamo. Ma di una cosa siamo certi, la guerra in quella regione non finirà, le condizioni che la rendono necessaria non sono cambiate. Anzi appare evidente che queste guerre regionali, sempre più frequenti e distruttive negli ultimi anni, sono la preparazione di un nuovo macello mondiale, così come la guerra di Spagna negli anni Trenta preparò la Seconda Guerra mondiale.

La favola racconta che gli Usa vorrebbero lasciare l’Afghanistan ma non possono perché devono continuare a proteggere l’Occidente dal terrorismo. In realtà il vero terrorismo antiamericano lo muove la Cina, che si spinge sempre più decisamente alla porta del Pakistan impegnandovi ogni giorno maggiori risorse, economiche e militari.

La guerra afghana infatti si combatte anche in Pakistan. Fonti interne riportano migliaia di vittime civili a seguito dell’imponente uso da parte di Washington, di droni (nuova generazione di aerei comandati a distanza) e di missili Hellfire. Una guerra, gestita dalla Cia e dal Comando operazioni speciali del Pentagono, che ufficialmente non esiste. Quest’anno però i raid verso gli high value target si sono intensificati ed è stato sempre più difficile nasconderne gli effetti collaterali sui civili. Il governo di Islamabad, pagato profumatamente dagli States, non fa una piega ma i partiti nazionalisti, probabilmente sollecitati dalla Cina, si stanno rafforzando.

Lo scorso dicembre il premier cinese Wen Jiabao ha ribadito, a suon di miliardi di dollari, i nuovi e ottimi rapporti tra i due Paesi, e, nella simmetrica retorica degli imperialismi, ha dichiarato di sostenere il Pakistan nella lotta al terrorismo. In realtà la Cina lavora a sostituire gli Stati Uniti nel rendere il Pakistan dipendente. Sostenere l’economia pachistana, da tempo e come tutte afflitta dalla crisi, è la risposta cinese alla politica militare degli Stati Uniti e alla loro alleanza con l’India, rivale storico dello Stato pachistano.

“La Cina è il futuro del mondo”, ha dichiarato ai giornalisti Zardari, presidente pachistano, prima di partire per il suo quinto viaggio in Cina dall’inizio del suo mandato nel 2008.

La Cina si muove da vero gigante capitalista, ora che come seconda potenza economica del mondo ha riserve per 3.000 miliardi di dollari, invade “pacificamente” con le merci e con il proprio capitale i più diversi continenti, l’Asia l’Africa, l’America Latina.

Ne sono un esempio lampante i rabbocchi di dollari che il celeste impero ha concesso recentemente all’Europa, a partire dalla Grecia. L’Islanda, di fatto paese fallito, è già stata individuata come possibile e futura base navale. Bielorussia e Moldavia hanno ciascuno un miliardo di euro di prestito a testa. Numerose centrali termoelettriche sono state costruite o comperate in tutti i Balcani etc etc.

Seguire, quello che noi chiamiamo corso dell’imperialismo, ci porta a considerare gli accordi, i patti più o meno segreti che avvolgono questi predoni. Il continuo intrecciarsi di nuovi e vecchi legami non rende facile la comprensione contingente, i numerosi notiziari borghesi spesso cadono nel ridicolo dichiarando tutto e il suo contrario nell’arco di poche settimane o addirittura di giorni.

La realtà è che questi continui capovolgimenti di fronte sono reali e in linea nella miglior tradizione del mondo del capitale e solo la dialettica marxista è in grado di dare una spiegazione congrua e complessiva. Chi oggi stipula e firma intenti comuni e pacifici accordi commerciali, domani sarà pronto a darsi battaglia, utilizzando come carne da macello la classe dei lavoratori.

Il corso storico degli imperialismi, primo su tutti quello a stelle e strisce, è tragicamente imposto dal modo di produzione capitalistico. Ma anche il proletariato internazionale ha una sola strada da percorrere, quella dell’opposizione ad ogni guerra in nome della sua guerra, quella contro il regime del Capitale e per il Comunismo.
 
 
 
 
 
 


Fascismo e democrazia due metodi contro la classe operaia

Oggi, nel fango pre elettorale che caratterizza permanentemente la volgare politica parlamentare, in Italia, tra le tante accuse che il sempre pericolante ma non pericolato governo Berlusconi riceve da “destra” e da “sinistra”, ve ne sono alcune che meritano la nostra attenzione.

La continuità dell’attuale politica da rotocalco hard e le precedenti numerose leggi ad personam varate dal governo, avrebbero macchiato l’immacolata e cristallina figura dello Stato, che non solo non apparirebbe più come un candido arbitro imparziale, ma avrebbe perso la sua patina di credibilità non rappresentando tutto il popolo, ma solo una sua ristretta porzione.

Con questo inedito e suicida atteggiamento il governo avrebbe quindi indotto il popolo, di cui il proletariato è solo una parte, a perdere, ahimè, la innata fiducia riposta nelle istituzioni statali, e di conseguenza verso tutto l’ordinamento democratico. Insomma il Piccoletto avrebbe la colpa di aver demolito, siccome un Titano, tra un festino e l’altro, le integerrime basi stesse dello Stato.

Il misfatto più grave, per gli accaniti contestatori del governo, sarebbe quello di attentare quotidianamente alla Divina Costituzione, e quindi di attaccare la Santa Democrazia, sbilanciando l’Italia verso una dittatura, progettando magari un ritorno al fascismo.

Ai veri comunisti poco importa quale sarà il futuro di Berlusconi e dei suoi governi, non per una istintiva e morale repulsa nei confronti della vergognosa politica nazionale, ma per la nostra, da sempre, ortodossa posizione marxista. La vicenda infatti è indecifrabile senza ribadire alcuni concetti essenziali del marxismo rivoluzionario, punti fermi che riguardano, in maniera strettamente connessa fra loro, lo Stato, la democrazia, il fascismo. Che sono i seguenti.

Fin dal suo sorgere il marxismo si è distinto per la sua teoria scientifica dello Stato, in netta contrapposizione alla propaganda ideologica borghese che vede il comitato d’affari della borghesia al di sopra delle classi, in posizione neutrale, saggia e pacificatrice. Un ente fisico e morale che si eleva sopra tutto e tutti, a tutela dei diritti inviolabili di ogni cittadino e a difesa perenne e solenne della democrazia. “Lo Stato siamo noi”, osavano dire qualche decennio fa, o per lo meno, è “di” tutti noi, e lo dobbiamo difendere brandendo una questione morale dopo l’altra.

Al contrario, quand’anche lo Stato e le sue istituzioni funzionassero davvero secondo i principi e le regole della democrazia elettorale e rappresentativa ed i suoi funzionari ad ogni livello davvero si atteggiassero ad incorruttibili difensori della res publica, ugualmente noi comunisti denunceremmo tale perfetta macchina come organo politico della sola classe borghese e ne prevederemmo la distruzione.

Ma, per necessità della evoluzione storica, tale apparato di forza non è più quello delle sue origini rivoluzionarie. Il cuore della struttura effettiva dello Stato borghese non è più il Parlamento e i burattini che lo abitano, e, personalmente, nemmeno i ministri e il capo dei suoi variopinti governi. Quel centro dirigente la macchina statale della classe borghese risiede ormai direttamente nello Stato stesso, essenzialmente nella sua burocrazia, nelle polizie più o meno visibili, nell’esercito, e nella loro democratica magistratura. Questi sono gli strumenti principi della classe dominante, il vero governo, apparati di tecnici della politica che non sono né democratici né antidemocratici ma, semplicemente, gli attuatori della dittatura della classe che oggi in tutto il mondo nazionalmente domina.

Questo è un fatto storico irreversibile, e quando il proletariato ne avrà la forza non si muoverà certo, contro i filibustieri di turno, per il ritorno ad uno Stato onesto ed efficiente o, come richiesto dai nuovi inutili bonzi della sinistra parlamentare, in difesa dei valori democratici della Costituzione, ma si organizzerà e lotterà per sbarazzarsi una volta per tutte del potere della classe borghese, democratico o no, con tutti i suoi Istituti e le sue ipocrite Carte, e del modo di produzione capitalistico.

In Italia la borghesia, dopo la sua unificazione e formazione dello Stato nazionale e fino al macello di proletari nelle Prima Guerra mondiale, ha realizzato l’aggiogamento dei lavoratori al regime borghese con l’ideologia nazionalista e col piombo dei carabinieri. Già prima della “televisiva” Marcia su Roma i fascisti incendiavano le Camere del Lavoro, ma erano armati dai padroni, dalla classe borghese, e ben difesi dallo Stato liberale. Solo in seguito la borghesia è ricorsa, per venti anni, al mono-partitismo e al governo fascista. Successivamente alla Seconda Guerra ha governato, sotto supervisione statunitense, tramite esecutivi di coalizione “antifascista” formati “trasversalmente” da partiti di “destra” e di “sinistra”, che comprendevano sempre i democristiani.

I borghesi potevano rimanere tranquilli poiché il degenerato Partito Comunista Italiano, oltre ad essersi fatto tramite dell’avallo cominformista e della tutela dell’inquadramento democratico, garantiva che la classe operaia, ingenuamente e massicciamente organizzata in quel partito e nei sindacati da esso diretto, non si sarebbe ribellata. Il partito anticomunista italiano ha consapevolmente ubriacato i lavoratori servendo fedelmente la democrazia, giurata assoluta fedeltà allo Stato borghese.

Il PCI è stato la più solida stampella del capitalismo italiano, perfetto garante dell’asservimento del proletariato agli interessi del capitale. Ha allontanato i lavoratori da impostazioni di classe e dai sentimenti rivoluzionari presenti ancora tra gli operai nell’immediato dopoguerra, soffocati nella palude dell’elettoralismo. Nei successivi decenni li ha illusi sulla irreversibilità di un benessere che nel capitalismo è falso e passeggero e in questo spirito di collaborazione nazionale ha diretto il sindacato da esso controllato, la Cgil.

I nuovi sinistri che appaiono oggi sulla scena della politica italiana, figli di quel padre degenerato e traditore della rivoluzione, hanno scelto da tempo da che parte stare e sanno benissimo che le loro sorti sono legate a quelle del regime capitalistico.

Le voci moralizzatrici che si levano a sinistra seguono questa obbligata direzione: salvare, difendere lo Stato borghese, impedendo alla classe operaia di individuare il suo vero nemico. Per i comunisti, invece, l’immoralità dei rappresentati di questo regime non dispiace: è indice di debolezza e di decadenza di questa putrida società.

* * *

Oggi, la falsa e mielosa retorica che avvolge le celebrazioni e gli stanchi dibattiti che precedono i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia inevitabilmente si incagliano su quella che per loro è stata la parentesi fascista. La propaganda si riduce solo ad avvalorare la tesi della continuità democratica nazionale al di sopra di quel brutto sogno, senz’altro da dimenticare.

Nel capitalismo ogni combinazione politica è tesa a realizzare al meglio il controllo sulla classe lavoratrice e in base a questo dogma deve essere giudicata. È falsa quindi l’opposizione fra la moderna democrazia e il vecchio fascismo, non separati da un muro invalicabile, essendo entrambi piani di difesa della borghesia per il mantenimento degli attuali rapporti di forza. Il fascismo è stato uno dei moduli di difesa del capitale dalla rivoluzione comunista e, in quanto tale, non è incompatibile col metodo democratico. Oggi possiamo notare come il nuovo fascismo si presenta più “borghese” che mai, democratico, parlamentare, nazional popolare, insomma come ciò che l’opportunismo di sinistra pretendeva rappresentare.

Il fascismo è la sintesi di democrazia liberale e riformismo socialdemocratico. Lo stalinismo ne è stato una variante.

Il proletariato non ha quindi alcun “diritto di scelta” tra democrazia e fascismo, due complementari facce della stessa medaglia.

Un vero antifascismo implica l’anticapitalismo, ovvero l’internazionalismo proletario. Quello che si denomina antifascismo marcia come quello sui binari della collaborazione tra le classi. Domani i lavoratori – che dovranno inevitabilmente riportarsi sul terreno della lotta classe, abbandonare il sindacalismo di regime e la solidarietà nazionale in difesa della capitalista economia nazionale, e quando avranno ritrovato il loro partito comunista – si troveranno a dover combattere i nemici di sempre: democrazia, opportunismo e fascismo accomunati.

Scrivemmo nel 1960: «La democrazia nata dalla guerra “liberatrice” è mille volte più accentratrice, totalitaria, statolatra, poliziesca, sfacciatamente borghese, conservatrice e codina, dello stesso fascismo ufficiale». L’unica possibilità che hanno i lavoratori di non ritrovarsi di fronte a un nuovo o vecchio fascismo è quello di strozzare la democrazia, dal cui seme il fascismo inevitabilmente germoglia.

La parola d’ordine che rivolgiamo ai giovani è: evitare la trappola democratica. Difendere la democrazia non è nient’altro che schierarsi con l’ala sinistra del capitale. Occorre riflettere e studiare per fuggire le facili apparenze, e unirsi al comunismo rivoluzionario contro tutte le forze che opprimono la classe dei lavoratori, insieme contro il fascismo e contro la democrazia.

Il fascismo, necessaria espressione borghese, potrà essere sepolto soltanto con la distruzione del potere capitalista, che lo alleva e lo nutre. Può adempiere a questo compito solo il proletariato, guidato dal suo partito comunista rivoluzionario.

Nulla cambia per la classe operaia. La democrazia non ha certo migliorato le condizioni di vita dei lavoratori, né promette loro un migliore futuro. Il proletariato in questa società ha una sola possibilità per sfuggire alla sottomissione al regime dei padroni: la sua organizzazione indipendente e la risoluta lotta per la difesa dei propri interessi di classe, in netta contrapposizione a tutte le fazioni borghesi, fasciste o democratiche che siano.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Mentre la crisi prosegue come il marxismo gli ha da secoli previsto, noi l’attendiamo al varco: il frantumarsi dell’unità nazionale fra le classi

Sono trascorsi quasi tre anni da che lo scoppio della “bolla dei derivati”, speculazione su titoli del tutto inaffidabili, con centro negli Stati Uniti, ha innescato la crisi più profonda alla scala mondiale dai tempi della Grande Depressione e, anche se governi ed autorità monetarie di tutto il mondo non cessano di ripetere la giaculatoria che il peggio è ormai alle spalle, ancora mettono in atto imponenti iniziative di stabilizzazione, ancora continuano ad accendersi focolai di profonda instabilità, tanto sul piano finanziario quanto su quello dei rapporti tra gli Stati, che tendono ad allargarsi e a configurarsi come scontri per ora monetari e commerciali.

È un dato di fatto che il governo del capitalismo abbia portato dentro i bilanci degli Stati i fallimenti della finanza, che aveva dilatato in modo abnorme i suoi utili di carta rispetto a quanto produzione e commercio avrebbero permesso. Operazione questa che è una caratteristica che precede tutte le crisi, a partire da quelle descritte ed analizzate nella V sezione de “Il Capitale”, tradotte nella versione italiana dell’opera in “bolle”. Tanto per rivendicare quanto la nostra scuola avesse visto lontano nel processo capitalistico e nei suoi ciclici sconquassi.

Ci dice un esperto che «Adesso (ottobre 2010) ci troviamo in una fase ancora più delicata. L’unico elemento in comune con quel periodo (l’anno 2007) è l’eccesso di liquidità. Con la differenza, però, che prima la liquidità si trasformava in credito mentre ora viene scaricata in modo semplicistico su speculazione, oro e valute». Tutto molto chiaro, viene però da chiedersi il perché. È forse solo “mancanza di fiducia”?

Viene il dubbio che, dopo la massa vertiginosa di moneta gettata in questa fornace insaziabile, dopo due anni di passione e terremoti, finalmente la creazione di valori di carta abbia avuto non diciamo fine, ma almeno una regolamentazione. Però la strada del capitalismo “finanziarizzato” non conosce svolte.

È solo un esempio, ma vogliamo riprendere quanto si legge in una pubblicazione di un importante centro studi bancario pubblicato da un giornale finanziario, secondo il quale nei bilanci delle grandi banche europee i ben noti “derivati” ed altri titoli “illiquidi”, cioè non convertibili in liquidità, «dopo essere scesi del 39% nel 2009» sono cresciuti nel primo semestre 2010 gli uni del 26% in media sul semestre passato e gli altri del 6%. «Gli attivi illiquidi hanno rappresentato al 30 giugno di quest’anno il 36% dei mezzi propri e il 38% del patrimonio di vigilanza del campione, ossia il patrimonio minimo a garanzia della solvibilità di una banca». In parole semplici il castello di carte, privo di valore, prodotto in Europa ha ripreso a crescere, ad una percentuale superiore ad un terzo del patrimonio delle Banche.

Inutile riportare i dati sull’omologa, ma ben più sostanziosa crescita alla scala mondiale. Negli Stati Uniti i mutui subprime, anche se in forma riveduta e corretta, sono di nuovo in opera. Del resto il mercato dei mutui è la parte più significativa del mercato dei capitali e continua ad operare solo come filiale del governo degli Stati Uniti. Le due agenzie di credito sui mutui immobiliari più importanti degli USA, Fannie Mae e Freddy Mac, sono al 90% in mano al Tesoro.

Ma il sistema finanziario non può abbandonare il meccanismo di creazione di valori “di carta”, che è di necessità mantenuto sino alla distruzione dei valori reali contenuti nella produzione materiale.

Perché questo sia accaduto e sia stato permesso, anzi incoraggiato con ogni mezzo, legale, normativo o fraudolento, solo la teoria marxista lo ha spiegato compiutamente; ed anche previsto. Ma a noi non serve comprendere per sanare e migliorare, per rendere il sistema di produzione capitalistico un processo controllato, disciplinato od etico. Lo scopo che muove il comunismo rivoluzionario è la liquidazione della struttura politica che lo sostiene, lo Stato borghese, e quindi per conseguenza, la sua sparizione.

La sequenza causale è chiara, anche se poi è tirato in ballo l’intervento distruttivo della cosiddetta finanza speculativa internazionale, descritta dalla stampa come il cancro che attacca gli organismi indeboliti. Ma questa è una descrizione dei fatti che non prendiamo nemmeno in considerazione: in altri tempi le turbolenze finanziarie si diceva fossero il prodotto delle malvagie attività speculative dei cosiddetti “Gnomi di Zurigo“, narrazioni assimilabili alle storie degli untori di manzoniana memoria.

Per spiegare questo gigantesco fenomeno, dalle diverse scuole e teorie sono stati ipotizzati i fattori più disparati, dai mutui non garantiti, ai derivati e via elencando tutto l’armamentario fuori controllo e con scarsa o inesistente regolamentazione che sta alla base dell’ingegneria finanziaria. Tutto il teorizzare spiega la crisi come un evento patologico che nasce da un uso sbagliato, truffaldino o azzardato della finanza, dall’impiego distorto del credito, che diffonde poi la “malattia” all’economia reale.

Per ogni teoria economica borghese, la crisi, tutte le crisi del capitalismo, nascono dalla finanza. Ogni scuola naturalmente individua in questo sterminato campo i fattori critici specifici, le particolari dinamiche, le distorsioni di questa o quella grandezza. La sovraproduzione verrebbe “dopo”, da un punto di vista causale e temporale, una volta inceppato il ciclo produzione-consumo. Invece per la scuola marxista la sovraproduzione, indotta dal meccanismo intrinseco del capitalismo e spinta all’estremo dalla legge della caduta del saggio di profitto (un’eresia innominabile per le altre teorie economiche) precede e determina la crisi del credito e della finanza.

Ogni sistema teorico propone i suoi “specifici”, i suoi interventi risolutori o stabilizzatori, in relazione alle cause individuate. Per il marxismo rivoluzionario la soluzione non può essere che una e radicale, l’eliminazione del modo di produzione capitalistico.

Tutti però convergono all’ovvia considerazione che alla fine, l’incepparsi dei mercati porta alla sovraproduzione, che si accompagna alla deflazione, il mostro da combattere con ogni mezzo.

«Ciò che alla fine tornò utile fare negli anni Trenta (spendere per la guerra) si rivelò di fatto distruttivo, una sorta di scherzo crudele giocato dagli dèi dell’economia. Sarebbe stato di gran lunga meglio se la Depressione si fosse conclusa spendendo per cose utili – come strade e ferrovie, scuole e parchi. Però non si raggiunse mai il consenso politico necessario a procedere a una spesa adeguatamente grande. Il mondo ebbe bisogno di Hitler e di Hiroito». Così scrive in un articolo dello scorso novembre un famoso economista dei nostri tempi di rigorosa scuola keynesiana, fautore del “deficit spending” e del “quantitative easing” ad ogni costo, spesa statale in deficit e stampa forsennata di moneta, tanto brillantemente messi in atto dalla Federal Reserve in questa lunga crisi: il Tesoro emette obbligazioni che la Banca Centrale acquista emettendo liquidità in contropartita. Così lo Stato finanzia sé stesso, con sommo orrore per i seguaci della Scuola Austriaca, che vedono nel “fiat money“ e nel controllo dei mercati la radice di tutti i disastri per il capitalismo.

È vero, si può spendere per ricostruire ciò che è stato distrutto; si può spendere per costruire ex-novo quanto possa servire alla “pubblica utilità”, o a “rimettere in moto“ il processo di produzione. L’economista liberal ne fa una questione di spesa legata ad un consenso politico, cioè, in parole meno ipocrite, intende una decisione assoluta dell’imperialismo più forte; che però allora non ci fu né ci poteva essere, e non per colpa di una mancanza di guida indiscussa.

Se la leadership è forte, senza opposizione, il keynesiano crede che si “possa spendere senza distruggere”, altre scuole propendono per una “distruzione dolce” operata con la liquidazione che non necessiti della guerra. A quella gli economisti fingono di non arrivare, o non ne parlano. Ci penseranno gli Stati, al termine del disastro finanziario ed economico.

Lo schema della nostra teoria è pienamente verificato: la spesa fu per la “ricostruzione”, dopo quella necessaria ed inevitabile per la “distruzione”, un affare di ordine immenso, realizzato, ma solo a quel punto, dall’imperialismo vincitore, che impose di necessità il “consenso politico”, per oltre cinquanta anni guida indiscussa ed arrogante del mondo capitalistico.

La Grande Depressione dello scorso secolo si concluse con la Seconda Guerra mondiale, “bagno di giovinezza” del capitalismo nella fase imperialistica. Prima si provò con ogni mezzo ad arrestare il processo deflattivo e stabilizzare i corsi monetari, con tentativi forzati ed improbabili di riutilizzo del gold standard ed altri meccanismi di ancoraggio delle divise all’oro. Basti rammentare la serie di duri contrasti negli anni dopo il 1932 tra i governi degli Stati capitalistici, compresa la URSS, durante i quali ogni governo, ed in particolare gli Stati Uniti verso gli Stati europei, tentò in modo ora aperto ora diplomatico di scaricare i propri problemi finanziari e monetari sugli altri.

Da questo punto di vista le analogie di quel periodo con la fase attuale sono davvero significative, fatti salvi i volumi finanziari in gioco, le dimensioni del mercato mondiale, e l’estensione dello scacchiere internazionale. Certo condurrebbe fuori strada la pretesa di leggere rigidamente i fatti di questi anni secondo le fasi di allora, e pensare a una loro ripetizione. Ma lo schema generale sarà lo stesso, il paradigma delle crisi capitalistiche è per la nostra scuola dimostrato in via definitiva.

Anche in questa tornata, i piani su cui si svolge il processo di crisi sono due, come abbiamo accennato all’inizio: uno endogeno, relativo ai singoli sistemi economici, che si manifesta nell’ambito della finanza e dell’economia, l’altro esogeno, nel campo dei rapporti di forza tra gli Stati.

La crisi generale del capitalismo, come abbiamo definito la forma estrema delle crisi, porta sempre allo sconvolgimento totale degli assetti politici internazionali, al tramontare dei vecchi e all’affermarsi di nuovi. Se la Rivoluzione sociale in qualche modo non interviene a spezzare questo ciclo, di norma è un conflitto armato che lo conclude, nel quale, per altro, non è detto che i contendenti principali debbano di necessità trovarsi su fronti opposti.

Se la Grande Depressione segnò in certo modo il trapasso tra il ruolo centrale di dominio imperialistico dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, con l’Europa di Francia e Germania a subirne politicamente il peso, e toccò poi alla Germania, lo Stato più forte in Europa, ed al Giappone, potenza emergente nell’estremo oriente, dare inizio all’apocalisse della guerra mondiale, in questa Seconda Depressione la guerra valutaria ed il conseguente controllo dei mercati, essenziale per ogni prospettiva di ripresa (vana, per la nostra visione), prefigurano una nuova guerra per il predominio politico mondiale.

Per ora si assiste ad uno scontro valutario essenzialmente a tre, Euro-Dollaro-Yuan, che maschera il livello “più alto”, quello fra gli Stati. Non è un caso che quello che detiene il volume più alto di obbligazioni statali americane, la Cina, e quindi in certo qual modo ha sostenuto il pilastro centrale della finanza mondiale, rifiuti ora, pur sotto una pressione martellante, di rivalutare la propria divisa per alleggerire il debito pubblico del debitore. Né che, nell’ultima operazione di allentamento quantitativo operato dalla FED, i titoli del Tesoro non siano stati piazzati sul mercato ma direttamente assorbiti all’interno. Questi sono indici di una situazione di conflitto profondo. Sono onde lunghe di crisi che si presentano in punti specifici ma generano linee di rottura che si manifestano nelle strutture politiche.

Anche la condizione critica degli Stati più deboli della “chimera” europea ha nella attuale dinamica una duplice valenza. Il dato interno di una condizione produttiva e finanziaria oggettivamente fallimentare – questi sono vasi di coccio tra vasi di ferro brutalmente scossi dalla crisi – si lega all’elemento esterno dello scontro tra gli Stati.

Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna si possono permettere allentamenti quantitativi senza opposizioni interne che non siano quelle di alcune scuole teoriche; ma non per questo l’apparato politico nazionale fa una piega. Il loro sistema bancario può essere pieno di carta straccia che prefigura un valore insistente, assolutamente “illiquido”, come si dice. Ma questo è un problema che si può tentare di scaricare sugli altri, gli stati Uniti lo fanno da decenni con successo, dalla loro posizione di forza imperialistica, con qualche difficoltà nei tempi recenti.

Il sistema bancario europeo non sta meglio quanto a cartaccia degli altri ladroni, quello tedesco primo fra tutti, ma non possiede l’unità politica per operare allo stesso modo.

Da una pubblicazione finanziaria di novembre si legge: «Il caso più eclatante è quello di Deutsche Bank: il colosso tedesco impiega verso la clientela solo il 17% dei propri attivi, mentre il 54% lo destina ad altre attività ovvero ad attività finanziarie, come i derivati, che poco hanno a che vedere con il mestiere tipico della banca. Parliamo di una cifra gigantesca: quasi 1.050 miliardi di euro. Non a caso Deutsche Bank è tra gli istituti più a “leva”: il suo patrimonio netto tangibile (...) è pari a neanche il 2% dei suoi attivi (...) La maggior parte dei suoi attivi è in altre parole coperta dal debito: fa leva, appunto, sul debito per speculare in attività finanziarie ad alto rendimento ma a rischio altrettanto elevato». E questa sarebbe la sana finanza di Germania.

Senza poter approfondire l’argomento, si vede come si salda l’effetto politico per questa pseudo-federazione europea alla pressione della crisi finanziaria. “Salvare” piccole entità statali come Irlanda, Grecia o Portogallo continuando ad assorbire il loro deficit non sarebbe poi tanto più oneroso per la Banca Centrale Europea, succursale della banca centrale tedesca, di quanto non sia emettere divisa per la Banca Centrale Inglese a favore del proprio sistema finanziario.

Il rifiutarsi di farlo è questione esclusivamente di politica economica nazionale, della politica estera tout court, anche se si favoleggia di una improbabile “unità politica europea”. È un salvataggio che, alla luce delle reali condizioni finanziarie del più robusto, produttivo e benestante del reame, ha comunque un ampio margine di rischio.

Situazione più complessa per gli altri partners, Italia e Spagna che, con sistemi produttivi ben più sviluppati, accusano un debito statale enorme, almeno per le dimensioni delle loro economie. E tocca risentire la favola della speculazione internazionale che “prenderebbe di mira” le strutture più deboli, quasi fosse un gran risultato con guadagni stratosferici mandare in fallimento uno Stato, e rendere inesigibile il suo debito. Più semplicemente, ma più gravemente, «i creditori di un’azienda finanziaria o di uno Stato sovrano dovranno sopportare perdite legate ai rischi cui consapevolmente si espongono». E ad un certo punto si fa forte la decisione di non concedere più credito. Seguono gli effetti finanziari e si fa più vicino il rischio di fallimento.

Se vogliamo riassumere il tutto in una sequenza secca e senza sfumature, la tratteggeremmo così; crisi economico-finanziaria, crisi dei rapporti tra gli Stati, scontri sulle divise, rottura e crisi per le economie-finanze più deboli, frantumazione delle unità politiche.
 
 
 
 
 
 


Engels ai siciliani

L’ultimo scritto di Engels dato alle stampe fu una lettera indirizzata alla rivista siciliana "La Riscossa" ed ivi pubblicata nel numero del 30 giugno 1895. Qui la riportiamo.

«Salute e lunga vita al vostro giornale, organo dei lavoratori siciliani, salute al vostro partito che si riorganizza!

«La natura ha fatto della Sicilia un Paradiso terrestre; ragione sufficiente questa perché la società umana, divisa in classi opposte, ne facesse un inferno. L’antichità greco-romana ha dotato la Sicilia della schiavitù per far produrre le grandi proprietà e le miniere. Il medio-evo alla schiavitù ha sostituito il servaggio e la feudalità. L’epoca moderna, benché pretendesse di aver spezzate queste catene, non ha fatto che cambiarne la forma. Non soltanto essa ha conservato in realtà queste antiche servitù, ma vi ha aggiunta una nuova forma di sfruttamento e la più crudele, la più spietata di tutte: lo sfruttamento capitalista. Gli antichi poeti siciliani, Teocrito e Mosco, hanno cantato la vita idilliaca degli schiavi-pastori loro contemporanei. Erano, senza dubbio, sogni poetici. Ma vi è un poeta moderno così audace da cantare la vita idilliaca dei “liberi” lavoratori della Sicilia d’oggi? I contadini di quest’isola non sarebbero felici se potessero lavorare i loro campi financo con le dure condizioni della mezzadria romana?

«Ecco sin dove ci ha condotti il sistema capitalista: gli uomini liberi rimpiangono la schiavitù del passato! Ma ch’essi si rassicurino. L’aurora di una nuova e migliore società sorge luminosa per le classi oppresse di tutti i paesi. E dappertutto gli oppressi serrano le file; dappertutto essi s’intendono a traverso le frontiere, a traverso le diverse lingue; l’esercito del proletariato internazionale si forma, e il nuovo secolo che sta per cominciare lo guiderà alla vittoria!».
 
 
 
 
 
 
 

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Per la milizia comunista
Contro il personalismo storiografico

Ad alcune lettere che abbiamo ricevuto da “storiografi” della Sinistra comunista, in richiesta di collaborazione o materiali, abbiamo risposto che, anche quando la ricostruzione di determinati periodi della storia del partito voglia essere onesta e fedele, è lo spirito del loro lavoro che non possiamo condividere.

Noi non siamo “storici”, ma militanti del partito comunista, e pertanto la storia che ci interessa non è quella di uomini, per quanto grandi e importanti siano stati, ma quella del movimento di classe e delle sue vicende nei vari svolti epocali e nella realtà di oggi. La firma sotto un articolo non soltanto non è importante, bensì è dannosa, come mostrano appunto le tragiche vicende del secolo scorso, quando nel nome di Lenin si fece strage di proletari e di comunisti. Anche qui non è Stalin il cattivo, il deviato, ma sono le esigenze di costruzione del capitalismo in Russia che imponevano la messa da parte delle istanze comuniste e rivoluzionarie. Se non ci fosse stato Stalin come persona, ci sarebbe stato XXYY: che cosa è importante per i comunisti, criticare la malvagità o le nevrosi di Stalin, o di XXYY, oppure individuare l’oggettiva tendenza ed esigenza storica in quel momento?

I nomi sono accessori, perlopiù dannosi. Al massimo servono per esigenze abbreviative, di esemplificazione, ma mai, per i comunisti, per fare l’analisi di pensieri e di interpretazioni. Si vedono gli uomini e non le idee, le Tesi, che hanno una vita propria, sociale e materiale, e solo transitano e sono con assai poca efficienza e per breve tempo custodite nella scatola cranica degli individui. La coerenza e le difficili leggi storiche del movimento e dei suoi invarianti è tempo perso cercarli nell’imballaggio. Pochi sono all’altezza storica di vedere dentro la scatola.

Soggetti di storia, e di storiografia, sono i partiti. Un partito non è la somma degli uomini che lo compongono. E nemmeno può ridursi a contorno logistico di un capo: se il capo c’è, il che non è sempre dato, non è esso che utilizza il partito, ma viceversa.

Il lavoro di partito è quindi anonimo, di un’entità collettiva che non si affida a singole persone, anche se naturalmente a scrivere questo o quel testo o a profferire un dato intervento ovviamente è un solo compagno. Fidarsi è una parola borghese. Non è utile a ritrovare il filo smarrito, chi l’ha smarrito, ricostruire la vicenda personale di un compagno, anche se è un grosso calibro. Su questo punto il partito è stato sempre intransigente ed ha assimilato in pieno questa serena certezza.

I nostri Maestri sono quindi coloro che, disponendo di capacità intellettuali e di forza fuori del comune, meglio degli altri sono riusciti ad inserirsi nel lavoro anonimo e al di sopra delle generazioni del partito storico e meglio a formulare le sue necessarie posizioni di battaglia sociale.

Oltre un interesse affettivo per compagni che abbiamo imparato a conoscere e ad amare, Carlo, Nicola, Amadeo, non ha alcun senso cercare la coerenza politica, il filo, e la soluzione delle incertezze dell’oggi, nella vita di un particolare compagno, se non per quello che ha prodotto all’interno del lavorio del partito, quello nel quale milita, non come produzione intellettuale della singola mente. Dobbiamo ricordare anche il piccolo Antonio e il grande Leone? Al compagno comunista infatti, se non gli accreditiamo i meriti, nemmeno gli addebitiamo errori.

Nel comunismo primitivo gli antenati si credeva dessero ai vivi consiglio e protezione, mito chiuso a cerchia parentale ma assai più materialmente fondato delle successive religioni. Noi, comunisti di oggi, siamo i nostri Maestri, che non sono morti, e non hanno bisogno di autopsie, resurrezioni o rievocazioni spiritiche. Moriranno se morirà il partito. Nel partito, si sa, “con i Morti”, si continua a lavorare. Tanto che con sicurezza possiamo affermare che noi, orgogliosamente comunisti e marxisti, con in mano le chiavi del mondo, non solo interpretative, sapremo tenere il partito a quelle altezze e, lavorando abbastanza, potremo fare anche certo di meglio. Questo il sano rapporto che il partito ha con i suoi maestri, cioè con sé stesso.

L’esperienza ci ha insegnato invece che ostentare il culto per il Grande Capo e sfoggiare la citazione letterale è tutt’altro che una garanzia di fedeltà ai suoi insegnamenti e piuttosto una scorciatoia per praticare una separazione fra una Teoria, in Cielo, nobile, imperfettibile, e di fatto “impossibile” ed in fondo solo decorativa, e una pratica in Terra, che scade nel pessimismo, nel tatticismo e nello espedientismo.

Tutta la storiografia che si fa sulla Sinistra è quindi, suo malgrado, borghese. Anche se lo storiografo ha trascorso del tempo all’interno del partito non ha assimilato il concetto base della nostra scuola: il superamento comunista dell’individuo. «Bordiga riteneva che la peggiore forma di proprietà privata fosse quella intellettuale? Ah, che geniale pensiero di... Bordiga! Bordiga rifiutava qualsiasi riferimento alla sua persona? Ah, che Uomo questo Bordiga!». Allora sarebbe meglio credere in dio anziché deificare un uomo.

Ovviamente il partito stesso è estremamente interessato alla storia della Sinistra comunista, non per puro interesse “storico” ed “obiettivo”, ma solo per trarne degli insegnamenti e delle tracce per il lavoro comunista, che si fa e per quello da fare. Naturalmente, anche nella storia del nostro movimento ci possono essere stati momenti di disorientamento, ed anche errori probabilmente, ma non è questo l’importante. L’importante è capire il passato per orientare al meglio l’azione odierna e futura del partito, non per “rimettere a posto le cose storicamente”.

Come abbiamo sempre detto, i comunisti non sono né imparziali né obiettivi: la loro verità – la loro “ricostruzione storica”, che certo abbiamo – è di parte, decisamente, e cioè è dalla parte della classe proletaria e del movimento comunista, e quindi si oppone a tutte le altre “verità” che possono apparire sulla scena. Il lavoro genericamente “storico”, anche “onesto”, restando fuori dalla milizia nel partito, e non a caso, cioè se non si inquadra nell’azione politica del partito, ci resterà comunque estraneo e non sarà mai di una qualche utilità al comunismo.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitalismo o morte
Credo del sindacalismo di regime

Non esiste società divisa in classi senza lotta di classe: anche quando pare sopita essa cova sotto le ceneri nell’equilibrio delle forze e nella silenziosa minaccia di impiegarle. Nel capitalismo, il proletariato, quando non ha la forza di prendere l’iniziativa per la sua azione difensiva, è ugualmente costretto a subirla, a resistere, per ridurre il danno o impedire ulteriori peggioramenti. A questo stiamo assistendo nella vicenda Fiat: il padronato sferra un attacco, potendosi permettere di denunciare ogni precedente accordo. Ovviamente ogni diritto, stabilito di fatto o per legge, si fonda solo sui rapporti di forza.

Come in tutti i paesi a capitalismo avanzato, in Italia, prima, con gli scioperi degli anni ’60 e dei primi ’70, la classe operaia ha ottenuto di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, poi, con l’inizio della crisi economica a partire dal 1974-’75 in avanti, i lavoratori hanno subito uno stillicidio di sconfitte. Col tempo i peggioramenti sul precariato, sulla previdenza, infine anche sui salari si sono fatti sempre maggiori.

Ma l’aspetto più grave di questa ritirata non sono stati i peggioramenti in sé, ma il fatto che ogni attacco è stato subito senza lottare. Non ha prodotto il necessario irrobustimento della forza organizzata operaia ma, al contrario, il suo decadimento. In trent’anni ogni sconfitta ha determinato un arretramento insieme delle condizioni di vita della classe lavoratrice e della sua capacità difensiva.

Questo disastroso risultato è stato il prodotto del controllo sulla classe lavoratrice del sindacalismo fedele al regime borghese. Questo, di fronte all’attacco crescente ai lavoratori ha seguitato a percorrere la strada opposta alla necessaria: invece di battersi per unire i lavoratori in lotte comuni al di sopra delle divisioni in cui li chiude il capitalismo, ha confermato quelle divisioni, all’interno delle aziende e delle categorie. Peggio ancora, li ha chiusi nella propria generazione anagrafica, opponendo padri a figli, abbandonati del tutto indifesi nelle mani dei padroni.

Non è stato un semplice errore di strategia, ma l’inevitabile conseguenza della concezione politica del riformismo e dello stalinismo (oggi, peggio ancora, tutti “ex”: un circo di zombi), nemici mortali del socialismo, che subiscono con fastidio la lotta di classe ed indicano ai lavoratori la strada della conciliazione con la borghesia, per una “buona gestione” del capitalismo, da loro chiamato eufemisticamente “il Paese”. Questa concezione, totalitaria ed imperante, lega le sorti della classe proletaria a quelle dello Stato e dell’economia capitalistica, il che si traduce, in fondo alla scala, nel legare le sorti dei lavoratori a quelle dell’azienda.

Per il vecchio riformismo ottocentesco non esisteva una via d’uscita rivoluzionaria dal capitalismo, ma solo era possibile un suo lento e graduale superamento, per via pacifica e legale. Sarebbe stato quindi autolesionismo condurre lotte che danneggiassero l’intera macchina produttiva, andava fatto invece un lavoro collaborativo fra le diverse classi sociali per lasciarla naturalmente evolvere verso il Progresso Sociale. Nel secolo dell’imperialismo, il Novecento, invece abbiamo alla testa sia dei sindacati sia dei partiti cosiddetti “operai” non degli a-rivoluzionari ma dei contro-rivoluzionari, senz’altro emanazione della classe dominante, infiltrati nelle file operaie.

Il sindacalismo borghese, percorrendo questo ramo discendente della sua parabola, ha potuto avere successo ed imporsi nella classe per l’appoggio materiale degli Stati, ma fondandosi sulla temporanea crescita economica del dopoguerra, che ha permesso – non senza dure e sanguinose lotte – qualche effettivo miglioramento alla condizione operaia. La politica di collaborazione sociale ha spacciato come suoi successi i risultati contingenti di una fase del ciclo economico capitalistico, terminata con la crisi del 1974-’75.

L’effimero boom economico del dopoguerra, coi suoi ampi margini di profitto aziendali, ha potuto realizzarsi solo sulle rovine e sui 55 milioni di morti della Seconda Guerra mondiale, unica vera soluzione che il capitalismo trovò alla crisi che lo affliggeva da inizio secolo. Solo in questo eccezionale contesto, e in un pugno di Paesi al mondo, è stato possibile ottenere qualche miglioramento per la classe lavoratrice.

Con l’inizio della crisi, i decrescenti margini di profitto, la competizione capitalistica sempre più accanita, continuare a legare le sorti dei lavoratori a quelle dell’azienda non ha potuto significare altro che costringerli a sopportare ogni sacrificio pur di mantenere in vita l’azienda e l’economia nazionale. Ora che il capitale, socialmente decrepito, per sopravvivere chiede più sudore, più lavoro, meno salario, il sindacalismo borghese corre verso il fallimento, e in questo precipizio cerca di trascinare con sé la classe operaia.

La politica dei sindacati di regime, anche nelle loro componenti di “sinistra”, non può cambiare registro. Per essi, legati ormai irreversibilmente ad una mentalità che in Italia risale al riformismo di destra, organicamente trapassato nell’ideologia del fascismo prima e dello stalinismo poi, e ad una ormai assimilata psicologia patriottica e nazionalista, gli interessi dei lavoratori sono conciliabili, devono esserlo, con quelli del capitalismo. Questo vincolo con il capitalismo è ormai nella loro natura, è assoluto, precedente e prevalente anche rispetto alla vita stessa dei lavoratori. Se non è possibile garantire un decente livello di vita a chi fatica e al contempo il normale andamento dell’economia capitalistica, occorre peggiorare quel livello; se occorre licenziare che si licenzi. E, coerentemente, domani, se necessario “per il Paese”, che i proletari partano inquadrati per farsi fare a pezzi al fronte. Marchionne e Fiom dissentono su particolari questioni procedurali e formali, non su questa cornice.

Poiché così non è sempre stato, e noi comunisti da lunghissima data stiamo qui a ricordarlo, la classe operaia può ritrovare domani, insieme alla sua ricomposizione internazionale, che vede oggi saldarsi le condizioni, i bisogni e le aspirazioni dei proletari di occidente e di oriente, la sua tradizione di indipendente organizzazione e il suo movimento difensivo, non chiusi al superamento della società borghese.

Una guerra di classe così impostata è suscettibile, se diretta dal partito comunista, di passare dalla difesa del salariato in quanto tale alla sua negazione sociale, una volta distrutto il potere politico del capitale.
 
 
 
 
 
 
 


Come lottare contro la doppia schiavitù degli operai immigrati

I lavoratori che si trovano sul suolo italiano provenienti da altri paesi in questi mesi hanno dato vita ad una serie di lotte per la difesa della propria stessa vita, che per essi è condizionata dalla possibilità di avere il permesso di soggiorno in sanatoria. L’alternativa è essere rinchiusi nei Cie, anticamera dell’espulsione, darsi alla macchia e proseguire la vita infernale del clandestino.

Dietro pagamento di 500 euro si prometteva la loro regolarizzazione. Era stata chiamata infatti “Legge per l’emersione dei clandestini e per la loro regolarizzazione” (N.102 del 3 agosto 2009). Gli immigrati occupati al nero nei campi e nelle officine hanno così cercato un modo per uscire della clandestinità, il permesso di soggiorno e di lavoro essendo la premessa indispensabile per accedere al “normale” mercato del lavoro e divenire dei “normali” schiavi salariati come gli altri.

Così non è poi stato. L’obbligo di dimostrare di avere un lavoro come domestici ha messo gli immigrati nelle mani di vari approfittatori della loro condizione di ricattati, caporali i quali, previo pagamento dai 2 ai 5.000 euro, si inventavano padroni fasulli, in galera o addirittura morti.

Dopo che 154 milioni di euro erano entrati nelle casse dello Stato, è scattata l’odiosa trappola: chi aveva già due provvedimenti di espulsione, si è detto, non poteva essere regolarizzato; l’emersione è divenuta così, retroattivamente, un’auto-denuncia, ed è servita alla cattura e alla espulsione a pagamento.

Infatti la “Circolare Manganelli”, del marzo 2009, ha stabilito, spirati i termini per la presentazione delle domande, che non avrebbe potuto fare domanda chi non avesse rispettato il secondo ordine di espulsione emesso dal questore, reato punibile con la reclusione da uno a quattro anni. Una misura che di punto in bianco ha privato della possibilità del permesso di soggiorno migliaia di lavoratori, nonostante tutte le rassicurazioni date anche a legali ed esperti del settore. Si poteva addirittura leggere sul sito del Viminale ancora il 30 settembre 2009: «Si può fare la richiesta per un lavoratore che ha avuto un decreto di espulsione però non lo ha rispettato ed è rimasto in Italia anche se successivamente è stato trovato di nuovo dalle forze dell’ordine e condannato».

L’esercito degli immigrati viene diviso in tre: una regolarizzata nella schiavitù salariale; una lasciata alla clandestinità, pronta a fornire alla economia nazionale mano d’opera ultra ricattabile con bassissimi salari e condizioni di vita e di lavoro bestiali; una terza parte nei famigerati Cie in attesa di espulsione (anche di questi giorni) che servano di lezione a chi alza la testa.

Ad ottobre del 2010, alla scadenza per la presentazione della documentazione per l’emersione, scoppia la rivolta contro gli internamenti nei Cie, le espulsioni, il rifiuto dei permessi. Migliaia di lavoratori si riuniscono nelle piazze, soprattutto a Brescia e Milano, delusi e truffati, condannati ad una vita infernale si sentono spinti ad unirsi e lottare.

I lavoratori in lotta si trovano a che fare, oltre che con le divisioni al loro interno, con un unico fronte avversario: i partiti di “sinistra” parlamentare, che a parole fanno gran vanto della difesa degli immigrati sotto la formula, che niente vuol dire, dell’antirazzismo; il Governo e il Ministero dell’Interno; la polizia. Chiesa e sindacati di regime in perfetta intesa cercano di blandirli con promesse e rassicurazioni caritatevoli, senza muovere un dito. Gruppi e gruppetti dell’area cosiddetta antagonista cercano attraverso parole d’ordine “contro il razzismo” e “contro il fascismo” di sviare la lotta su falsi obiettivi, sul piano delle garanzie democratiche e legalitarie. Tutti uniti nel tentativo di impedire il sano percorso di irrobustimento della resistenza operaia per un fronte di classe unito e solidale.

La disperazione a cui si arriva quando vengono messe in discussione le stesse condizioni di esistenza hanno portato vari lavoratori immigrati di diverse nazionalità, egiziani, pachistani, indiani, marocchini, senegalesi, a barricarsi su di una gru nel centro di Brescia, nel cantiere della metropolitana, e dopo pochi giorni è stata occupata anche la torre ex Erba a Milano.

Si sono formati dei presidi permanenti di sostegno e sono stati organizzati cortei di solidarietà a cui hanno aderito la Cub, operai della Inse (memori del loro isolamento) e qualche telegramma di solidarietà di gruppi di lavoratori.

Infine la polizia e i carabinieri hanno attaccato i presidi e bloccato tutte le strade, anche per gli avvocati e i medici, lasciando passare solo il prete; hanno poi impedito la consegna di vestiti e alimenti.

L’azione delle forze cosiddette “pacifiche”, la Curia, Cgil e Cisl e i partiti Idv e Pd, hanno completato l’accerchiamento. A mezzanotte, col permesso dei poliziotti e tramite anche gli avvocati, hanno avvicinato la gru convincendo a scendere gli ultimi quattro con promesse e rassicurazioni per tutti.

Risultato: per i quattro una temporanea libertà, per i fermati espulsioni. Della sanatoria per tutti, neanche a parlarne.

Questa protesta dei lavoratori immigrati è risultato soprattutto della disperazione e degli esempi di salite sui tetti etc. che hanno costellato quest’ultimo periodo di reazioni operaie agli attacchi padronali. Risente quindi della estrema debolezza a cui la classe operaia è costretta. Potremmo dire che si avvicina alla forma del kamikaze, il sacrificio di alcuni in difesa di un principio rivendicato per tutti. Non è quindi uno sciopero, perché non ve ne sono le condizioni, mancando forza ed organizzazione, ma solo una denuncia, dai tetti, dalle gru, nella speranza che sotto qualcuno si muova.

Con l’attuale scompaginamento organizzativo e la bassa capacità di mobilitazione del proletariato, difficile se non impossibile allargare il fronte arrivando ad organizzare un vero collegamento con gli operai “italiani”, che non riescono oggi a difendere nemmeno se stessi.

Lezione: solo la ricomposizione di un unico fronte difensivo di lotta di tutta la classe operaia, indigena ed immigrata, porrà tra i suoi obiettivi anche quello, centrale, della totale parità di diritti civili per ogni salariato, a qualunque nazionalità appartenga. Per questo occorre una forte e ben radicata organizzazione sindacale che veramente si voti alla incondizionata difesa della classe, senza patria, di chi lavora.
 
 
 
 
 
 


Lotta operaia internazionale

Gli organi di informazione nei paesi occidentali – strumenti fondamentali per la sottomissione proletaria – accuratamente ignorano le lotte operaie che si verificano nel resto del mondo. Devono suffragare e consolidare negli operai del vecchio mondo industrializzato l’idea che in quei paesi non vi sono lavoratori come loro, che affrontano e combattono gli stessi problemi e nemici, membri lì e qui di una classe sociale distinta e contrapposta al resto della società, ma popoli “stranieri”, descritti come un corpo sociale omogeneo, spesso intriso d’ideologie reazionarie e religiose, e il cui muoversi sia per i lavoratori del “primo mondo” da guardare con indifferenza o, peggio, da temere come un pericolo.

Quando la stampa occidentale parla dei paesi del cosiddetto terzo mondo predilige riportare notizie di lotte tribali, religiose, interetniche, di attentati sanguinosi, o di esotiche manifestazioni culturali, per far apparire quei popoli lontani dall’Occidente, arretrati culturalmente e socialmente.

Quasi mai si parla dei veri sommovimenti sociali, della lotta di classe, un fenomeno a cui la stessa stampa borghese di quei paesi riconosce una importanza niente affatto secondaria, e che noi marxisti individuiamo come il fenomeno sociale e politico fondamentale.

Sono invece sempre più frequenti ed intense le lotte della pura classe operaia in quello che solo poco tempo fa veniva chiamato mondo in “via di sviluppo”. La caduta in disuso di questa etichetta è sintomatica del fatto che le differenze fra i giovani capitalismi nazionali emergenti e quelli vecchi ancora dominanti si vanno assottigliando.

Il futuro della classe operaia in Italia, in Europa, in America, in Giappone – e in molti casi già il suo presente – non è il “benessere” di cui ha goduto una parte di essa, per un breve arco temporale e in una manciata di paesi, ma la miseria e lo sfruttamento che ha segnato la storia della classe operaia nell’intero arco di vita del capitalismo, sia in Occidente che, da quando vi si è impiantato sostituendo i precedenti modi di produzione arcaici, nel resto del mondo.

La crisi economica ormai da tre decenni ha spinto la borghesia nei paesi capitalisticamente maturi a riprendersi gradualmente tutto ciò che era stata costretta a cedere sotto la spinta delle lotte proletarie e in virtù degli enormi margini di profitto realizzati durante e dopo la Seconda Guerra mondiale. Con la crisi del 1973-’74 si è esaurito il ciclo di forte crescita post-bellica e il padronato da allora si è predisposto a riguadagnare il terreno perduto.

In Italia la svolta dell’EUR del 1977 – con l’accettazione in via di principio dei “sacrifici” in nome della salvezza dell’economia nazionale – segnò l’acquiescenza del sindacalismo di regime a questa necessità borghese, ma è stato questo un processo seguito da tutti i Paesi economicamente all’avanguardia. La riconquista padronale di quanto ceduto negli anni di forte crescita economica e di lotta operaia ha potuto svolgersi in modo graduale nell’ultimo trentennio, in ragione della diluizione della crisi economica del capitalismo e del rallentamento della sua avanzata. Ciò è stato possibile per due fattori principali: da un lato il successo del sindacalismo di regime nel piegare la classe operaia ai sacrifici di volta in volta richiesti, dall’altro l’espandersi del mercato mondiale in quei paesi che proprio a partire dagli anni ’80 muovevano i passi decisivi verso il pieno sviluppo capitalistico.

Dalla metà degli anni ’70 la crisi economica ha però continuato a maturare, i fattori sopra indicati sono divenuti sempre più insufficienti a porvi freno, ed essa è infine prepotentemente esplosa negli ultimi tre anni.

All’accelerazione della crisi è corrisposta l’accelerazione nell’attacco alle condizioni di vita della classe lavoratrice.

Nei precedenti trent’anni, prendendo come esempio la nostra Italietta, possiamo segnare quali tappe fondamentali di questa offensiva l’annullamento della scala mobile (1984), l’accordo sulla politica dei redditi (1993), la prima controriforma delle pensioni (1995), l’introduzione dei contratti di lavoro precari (Legge Treu 1997, Legge Biagi 2003).

Oggi il padronato abbandona la precedente attenta gradualità e passa a muovere colpi decisi, con la demolizione dello Statuto dei Lavoratori per mezzo del Collegato Lavoro (approvato in Parlamento nel silenzio generale il giorno prima del voto di fiducia al governo), con lo smantellamento del contratto nazionale di categoria, col licenziamento di migliaia di precari nella pubblica amministrazione e nella scuola, col blocco dei salari dei dipendenti pubblici.

Per la classe operaia la parola progresso in questa società è ormai priva di senso. Le condizioni dei lavoratori del “primo” mondo e di quelli dei paesi un tempo definiti “in via di sviluppo” tendono ad avvicinarsi. Mano a mano che questo processo avanzerà i lavoratori d’Occidente vedranno in quelli del resto del mondo i loro fratelli di classe, e non più stranieri e lontani.

E da essi hanno e avranno molto da imparare. Le notizie dal mondo mostrano una classe operaia che non teme ma cerca il sacrificio per la lotta e non per illusori vantaggi personali. I lavoratori occidentali hanno da questi proletari molto da imparare, anzi da reimparare, dopo che nell’arco di due generazioni la sana tradizione classista è stata qui sradicata ad opera di un effimero quanto mefitico benessere, ma soprattutto a causa dell’intervento incessante dell’opportunismo politico e sindacale, ben foraggiato dal regime borghese.