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PAGINA 1
In nordafrica
il proletariato insorge e affronta il piombo borghese
Quella generosa e internazionale rivolta della classe operaia si
consoliderà nel rafforzare i suoi sindacati difensivi, nel ricusare i
partiti e le illusioni liberali e democratiche della piccola borghesia,
nel rintracciare il programma e il partito politico marxista
rivoluzionario,
in solidarietà con i lavoratori di tutti i paesi e contro la criminale
reazione mondiale del Capitale
Tornerà allora a risuonare la parola, a lungo mistificata ed oggi proibita: COMUNISMO
Il gigante proletario scuote l’Egitto
L’Egitto è un anello della catena di crisi sociali provocate dalla recessione economica, che colpisce il proletariato nei paesi di capitalismo giovane come vecchio, in questi insieme ai contadini poveri, ed induce la borghesia a togliere anche quel poco che avevano concesso nei decenni passati, spingendo i lavoratori alla rivolta, sia al Sud sia al Nord del Mondo.
In Egitto, negli scontri in tutto il paese, in settimane di mobilitazione, più di 300 rivoltosi sono stati gli uccisi e migliaia feriti o incarcerati.
La popolazione, tornata nelle strade in massa l’11 febbraio per chiedere la destituzione di Hosni Mubarak, ha ottenuto quello che chiedeva. Al momento in cui scriviamo il capo dello Stato si è dimesso e il governo del Paese è passato nelle mani di un Comitato espresso dello Stato Maggiore dell’Armata.
I militari, che hanno partecipato alla repressione, anche se è stata condotta principalmente dai corpi di polizia, hanno infine deciso di abbandonare Mubarak e di prendere il potere nelle loro mani, anche se temporaneamente, dicono. Certamente questo ha comportato una spaccatura fra i settori borghesi interessati a difendere il governo ad ogni costo e quelli disposti a sacrificare il rais e i suoi numerosi “clienti”, fatta sempre salva l’alleanza con Washington.
Gli Stati Uniti, dopo la sollevazione tunisina e la fuga precipitosa del loro uomo Ben Alì, di fronte all’acuirsi della rivolta in Egitto e alla minaccia del suo estendersi ai Paesi vicini, si sono infine risolti a sollecitare il cambio di personale al vertice di quel Paese-chiave in Medio Oriente e in Nord Africa, quello che più foraggiano dopo Israele. Pare che la CIA sia stata colta di sorpresa dagli avvenimenti, il che spiega i giornalieri aggiornamenti di rotta della diplomazia americana, mentre il Pentagono, per non sbagliare, ha inviato subito navi da guerra a difesa del canale di Suez, arteria vitale per il capitalismo.
Da parte sua la diplomazia israeliana si è battuta fino all’ultimo, evidentemente senza successo, per salvare il fedele alleato Mubarak. Non ci sorprende che come gli israeliani abbiano reagito i partiti dei palestinesi Fatah e Hamas che, entrambi, nei Territori occupati e a Gaza, hanno represso o contenuto le spontanee manifestazioni di gioia e di solidarietà ai rivoltosi egiziani. Hamas ha addirittura subito preso il posto dei poliziotti egiziani nella chiusura ermetica del valico di Rafah.
La parola d’ordine dei borghesi di tutto il mondo, arabi, egiziani e di fuori, è “cambiamento nella continuità”, cioè il classico cambiare tutto per non cambiare nulla.
Infatti, in realtà, quello che si sta facendo oggi in Egitto è rafforzare il regime. Quello di Mubarak, dopo 30 anni di aperta e dura dittatura e di fronte alla crisi economica, si era troppo screditato davanti a tutte le classi della società. Oltre alla classe operaia, sempre ribelle, la piccola borghesia non sopporta più un sistema che la sottomette apertamente all’arbitrio, alla corruzione e ai privilegi del grande capitale, per lo più impersonato in una ristretta minoranza di alti ufficiali e di affaristi legati alla famiglia del Presidente.
In Egitto dunque la grande borghesia, la grande finanza e industria, accentrata in gran parte nella gerarchia militare, mostra di cedere alla piazza, mettere un freno alla corruzione e ristabilire un certo “quantum” di democrazia e libertà politiche.
In mancanza di partiti politici borghesi con un programma reale, riconoscibile e condiviso dalle masse, questo “cambiamento” non può essere gestito che dall’alto. Come ormai non solo nei paesi di giovane capitalismo ma ovunque, questa intelligenza e forza, il vero partito della borghesia non trova la sua base nella massa sociale ma negli apparati statali stessi e, nel caso egiziano, storicamente e in particolare nell’esercito. Così già accadde nel 1953, con la rivoluzione nazionale di Gamal Abdel Nasser e dei militari suoi sodali.
Nelle strade delle città egiziane si sono quindi mescolate, e scontrate, tutte le classi. Da una parte il sottoproletariato della capitale, come spesso succede a difesa del sovrano e delle sue elemosine. Dall’altra la piccola borghesia, nazionalista, in tutte le sue sottospecie e in tutto il suo spettro ideologico, dai nasseriani ai democratici liberali alle infinite sfumature islamiche, ecc. Infine la classe operaia dalla quale le parole borghesi di libertà e democrazia sono intese come possibilità di organizzazione sindacale, aumenti salariali, riduzione dell’orario di lavoro.
Le sole classi realmente presenti nelle società moderne sono proletariato, borghesia, proprietari fondiari. Gli altri ceti sono ibridi o relitti storici. Solo le classi hanno capacità storica e, a loro tempo, rivoluzionaria. Anche in Egitto, come all’approssimarsi di una guerra, le classi fondamentali, lo vogliano e lo sappiano o meno, si stanno silenziosamente predisponendo allo scontro: la classe operaia celata dallo schermo delle superfetazioni iridescenti delle mezze classi, i capitalisti e i fondiari dietro le camarille e le famiglie delle malversazioni attorno al potere.
Infatti, la piccola borghesia che chiede più democrazia, libertà politiche e d’espressione ha ottenuto una fugace soddisfazione solo per l’appoggio determinante, alle sue spalle, di quel vero gigante che è, numericamente e per antiche tradizioni di lotta, il proletariato egiziano, quei milioni di operai dell’industria, dei servizi, dell’agricoltura che lavorano per un salario miserabile, colpiti dalla disoccupazione, che sono riusciti ad organizzarsi in sindacati clandestini nonostante la galera e la tortura, e che ingaggiano scioperi formidabili fino ad ottenere significative vittorie, anche se parziali e momentanee.
La classe operaia, che ha rappresentato il fattore centrale della crisi, nonostante le sue lotte siano rimaste ignorate da stampa e televisioni, interessate a mostrare un unitario ed indistinto movimento di popolo in lotta per la Libertà, ha saputo mostrare la sua separata presenza chiedendo libertà di organizzazione e di sciopero. È stata la mobilitazione dei lavoratori che ha spinto il governo Mubarak a concedere un aumento del 15% degli stipendi ai dipendenti dello Stato, rivendicazione che è stata subito raccolta dai lavoratori del settore privato.
Oggi, mentre tutti i settori patriottici e borghesi invocano l’ordinato “ritorno al lavoro”, per il bene della Patria e per “costruire un nuovo Egitto”, il proletariato non può condividere nelle piazze l’esultanza della piccola borghesia per la messa in pensione di un vecchio faraone, risultato che non soddisfa certo le richieste di forti aumenti salariali generalizzati, libertà sindacali, lavoro e salario ai disoccupati.
Su questo si giocherà la resa dei conti con il nuovo Esecutivo militare, come già sta accadendo alla Mahalla Textile Company dove ben 20.000 operai tessili stanno continuando lo sciopero nonostante lo spiegamento di forze effettuato dall’esercito.
La grande borghesia, egiziana e straniera, conta sulla incertezza della situazione politica, sulla novità della farsa elettorale, sull’euforia per qualche ritrovato scampolo di illusoria libertà, per ritardare l’inevitabile scontro sociale con la classe operaia, ma esso si presenterà ben presto all’ordine del giorno.
A questo il proletariato anche in Egitto non dovrà arrivare impreparato.
È necessario che continui sulla strada intrapresa, organizzandosi in sindacati indipendenti dallo Stato e dal padronato, organismi indispensabili non solo per la difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro ma anche per la protezione dei suoi aderenti e dirigenti; organismi necessari per unire la classe, al di sopra delle divisioni di categoria, di sesso, di religione, verso la costituzione di organizzazioni economiche nazionali di lotta.
Dovrà guardarsi dall’esercito, dal suo stato maggiore, che ha rappresentato e rappresenta il bastone del potere borghese e che finché questo resterà in piedi sarà sempre utilizzato contro il proletariato.
Dovrà guardarsi dai falsi amici come i Fratelli Musulmani che, anche se non sono sfuggiti in questi decenni alla persecuzione del regime, hanno costituito a lungo la sua milizia armata antioperaia, antisindacale e anticomunista.
Dovrà diffidare dei partiti borghesi, anche dei più “democratici” e della cosiddetta “sinistra”, come l’ex Partito Comunista Egiziano, pronti tutti a girare le spalle ai proletari quando riescono a seguire la loro strada con determinazione.
Dovrà rintracciare il suo programma di emancipazione sociale internazionale e anticapitalista, separato e opposto a quello tutti gli altri partiti. Nel programma del comunismo c’è, alla scala storica, la rivoluzione proletaria, che già è matura, e il simultaneo rovesciamento del potere borghese in tutti i paesi della regione.
Non è un compito facile quello che attende il proletariato. Per non perdersi lungo questa strada, piena di pericoli e di incognite, è necessario che i proletari più coscienti e combattivi si ricolleghino alla tradizione invariante e al partito dell’internazionalismo rivoluzionario marxista.
Privo del suo Partito, come dimostra l’esperienza di secoli, il proletariato può arrivare anche alla rivolta violenta, ma non a trasformarla in un processo rivoluzionario, in un movimento sociale capace non solo di sostituire un governo dello Stato borghese ma di abbattere il potere borghese, colpendo il cuore del regime del lavoro salariato.
L’unico programma rivoluzionario è il programma comunista. L’unico partito rivoluzionario è il partito comunista. Tutti gli altri partiti sono, ineluttabile, reazionari e controrivoluzionari.
La rivoluzione comunista richiede la presenza del partito comunista, un organo di combattimento politico, forgiato nei secoli, fondato su chiari e immutevoli principi, con un piano di azione rivoluzionaria prestabilito, con una direzione centralizzata unica mondiale seguita da una struttura disciplinata di militanti provati, fedeli ed entusiasti, ben radicata all’interno della classe lavoratrice e nei principali paesi. Un partito conosciuto fra i soldati degli eserciti e che solo può dirigere le azioni militari in difesa della rivoluzione.
Solo con questo indispensabile strumento, che si muove come un sol
uomo
perché in grado di prevedere gli eventi e le mosse del nemico borghese,
di cui conosce la furia omicida e gli inganni nel difendere i suoi
privilegi,
ma anche le sue insanabili tare, sarà possibile la vittoria della
classe
operaia.
In Tunisia il proletariato è sceso nelle strade spinto dalla situazione di crescente miseria e disoccupazione e da più di un mese si scontra con la polizia. Circa 100 rivoltosi hanno perso la vita. Motivo della rivolta è l’aumento dei prezzi degli alimentari. Dopo diverse settimane anche la piccola borghesia si è unita al movimento. L’aumento dei prezzi è stato in parte revocato.
Ben Alì, uno dei tanti dittatori dell’Africa del Nord, è fuggito, sollecitato dai suoi collaboratori e dall’esercito. Era alla testa di un sistema di corruzione vasto ad un punto tale da divenire dannoso per gli stessi borghesi, e si è attirato l’odio non soltanto del proletariato ma di tutte le classi sociali.
Ma la corruzione e il nepotismo sono inevitabili in ogni società borghese, anche in Europa e in America del Nord, e a grande scala, basta pensare alle vicende italiane.
La Tunisia ha conosciuto numerosi conflitti sociali. Nel 2008, a Gafsa, centro minerario del Sud, a seguito dei licenziamenti dalle miniere la mobilitazione operaia contro le forze repressive del regime si protrasse per 8 mesi.
In tutto il mondo si conferma la tesi marxista che il capitalismo è incapace di nutrire l’umanità. La maggioranza degli Stati africani ha sviluppato una agricoltura di esportazione e la monocoltura, che sul mercato rendono di più ma rovinano i piccoli contadini e non nutrono la popolazione. Inoltre nel mondo una parte dei cereali è destinata alla produzione di carburante per le automobili. In una società fondata sul capitale e sul profitto l’agricoltura è necessariamente trascurata e le riserve sempre insufficienti.
Oggi in Tunisia lo scontro appare tra i vecchi governanti, che si sono riciclati nel nuovo governo, e i partiti piccolo borghesi. La rivendicazione dell’opposizione borghese è un Governo Provvisorio con tutti i partiti e nuove elezioni. Sia i partiti apertamente borghesi come il Forum democratico per il lavoro e la libertà, sia i partiti islamici, sia l’ex partito stalinista Ettajdid aspirano ad un governo democratico, “all’europea”. Il Partito Comunista dei Lavoratori Tunisini chiede un’Assemblea Costituente ed “una vera repubblica democratica”.
Ancora una volta, contro la classe operaia, si prepara la trappola democratica, decrepito e vile inganno della borghesia, nuova vera superstizione religiosa, che in Occidente svolge la stessa funzione dell’Islam nei paesi arabi e in Medio oriente. La democrazia ha per fondamento economico lo sfruttamento del lavoro salariato, è la maschera sotto la quale si nasconde la dittatura di classe della grande borghesia e dei proprietari fondiari. Anche in regime democratico sono essi che decidono della sorte dei milioni di lavoratori e delle loro famiglie.
Può darsi che il nuovo governo tunisino venga costituito e si proclami democratico, ma, a causa della grave crisi economica e sociale, ineluttabilmente si trasformerà presto in una nuova dittatura. Ma il proletariato tunisino – privo come è oggi del suo partito politico comunista e rivoluzionario – sarà messo fuori dal potere anche se alle elezioni prevarranno i partiti dell’opposizione. L’abbattimento del regime della famiglia Ben Alì non è sufficiente per liberare il proletariato dal capitalismo e dalla miseria. Per arrivare a questo il proletariato deve organizzarsi in una vasta rete di organizzazioni sindacali, permeabili all’attività rivoluzionaria, che raggruppi tutti i lavoratori sulla base della difesa dei loro interessi immediati e che vi accolga i disoccupati. Anche in Tunisia queste organizzazioni devono porsi fuori e contro il sindacalismo ufficiale dell’UGTT, che è nelle mani della borghesia.
L’avanguardia del proletariato tunisino, e di tutto il Nord Africa, deve inquadrarsi nella milizia nel Partito Comunista Internazionale per preparare il rovesciamento del capitalismo in tutti i paesi.
Resta acquisito che il proletariato tunisino abbattendo con la sua forza questo regime sanguinario ha dato un esempio e una speranza a sé stesso e agli sfruttati di tutto il Nord Africa e, possiamo dire, del mondo intero. I proletari egiziani sono già scesi spontaneamente nelle piazze per chiedere migliori condizioni di vita e di lavoro.
Non solo gli incancreniti regimi del Marocco, dell’Algeria, della Libia, dell’Egitto, ma anche della “ricca” Europa, hanno visto nei fatti di Tunisia il loro futuro.
Questa crisi infatti non è né solo tunisina né nordafricana, è
legata
alla crisi del capitalismo internazionale; essa fa parte di una catena
di avvenimenti di cui possiamo ricordare i moti sociali in Grecia, gli
scioperi in Portogallo e in Spagna, che annunciano che il conto alla
rovescia
per il dominio borghese è già cominciato.
A Determined Party Meeting Firenze, 22 e 23 gennaio 2011 [RG109] |
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A seguito di precedenti accordi e della convocazione del centro si è tenuta a Firenze la riunione generale del partito, nei giorni 22 e 23 gennaio scorsi, alla presenza di rappresentanti della quasi totalità dei nostri gruppi. Al solito abbiamo dedicato la serata del venerdì e la mattina del sabato alla parte organizzativa della riunione, condotta, come d’uso, sulla base di un esaustivo e dettagliato ordine del giorno, predisposto dal centro, in modo tale che tutti gli aspetti delle nostre attività fossero presi in considerazione e ne venisse indicato al meglio il proseguire. Il fine è amalgamare le nostre forze attorno alla nostra tradizione e assicurare sempre la corrispondenza e perfetta uniformità nelle loro espressioni ed atteggiamento.
È stato aggiornato il piano di pubblicazioni nelle diverse lingue e di interventi all’esterno, fra i quali particolarmente importante quello nel movimento sindacale, all’interno del quale il partito deve presentarsi con le sue chiare ed univoche direttive.
Si passava poi, al sabato pomeriggio e alla domenica mattina, all’esposizione dei rapporti dei gruppi di lavoro, dei quali diamo qui una prima brevissima sintesi. Trattasi di “esplorazioni” che spingiamo nel presente e nel passato al fine di individuare il corso futuro, vittorioso, della classe proletaria mondiale.
Le energie che il partito dedica allo studio della teoria marxista e delle vicissitudini del movimento non sono volte a discoprire vie inattese alla storia o ad escogitare nuovi originali strumenti per comprenderla. Al contrario, riteniamo nostra ambizione, possibilità storica e massima soddisfazione addivenire alla conoscenza collettiva di quello che il nostro movimento ha già detto, cosa tutt’altro che banale e scontata, e ad un grado di sua assimilazione che ce ne consenta il maneggio senza gravi errori. Ci fa quindi sorridere la smania di chi ritiene di dover dire per forza sempre qualcosa di nuovo. Il che, se elevato a metodo e “preso sul serio”, finirebbe per disarmare il partito, distruggendo la fiducia in sé e nei suoi arnesi, confuso e intimorito da una simile forma di “terrorismo ideologico”. Perché siamo un partito, che ha da condurre un’aspra battaglia, non un centro studi, che è mosso da altri interessi e fini.
Benché il partito abbia, debba avere, un suo nutrito, validissimo e
pulsante “centro studi”, che richiede profonde conoscenze e l’impiego
della robusta, irrituale, mai facile e sempre sorprendente nostra
dialettica.
Iniziavamo i lavori con il corso dell’economia.
Come avevamo previsto nel precedente rapporto, in questo inizio 2011 i grandi paesi imperialisti non sono ancora usciti dalla recessione: le ultime cifre a nostra disposizione ci indicano per l’insieme del 2011 una produzione industriale inferiore al massimo raggiunto nel ciclo precedente.
Considerando i diversi paesi in ordine di importanza industriale, otteniamo il quadro qui sotto. Pur essendo una grande potenza industriale, sicuramente più potente dell’Italia o la Francia, la Russia è stata messa a sé per le sue caratteristiche che ne fanno un paese industriale a parte: gran parte delle sue esportazioni, se non la maggiore, è costituita da materie prime, come per i paesi del terzo mondo.
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La seconda colonna indica il rapporto fra l’indice della produzione industriale del 2010 e il massimo raggiunto prima della recessione, il che misura quanto resta da risalire per tornare il massimo precedente ed uscire dalla recessione. Per gli Stati Uniti, il Giappone e la Francia l’anno corrispondente al massimo, e che chiude il ciclo precedente, fu il 2007, mentre che per la Germania fu il 2008. Quanto all’Inghilterra e all’Italia esse sono in recessione dal 2001. Per la Russia abbiamo indicato due cifre: la prima fa riferimento al 2008, l’anno che precede l’attuale caduta della produzione, e la seconda al massimo raggiunto dalla Russia nel 1989, prima dello smembramento dell’URSS, mai più poi raggiunto.
La terza colonna riporta l’incremento della produzione industriale nel 2010 in rapporto al minimo, raggiunto nel 2009.
Basta uno sguardo a queste due serie di cifre per comprendere che c’è poca possibilità che questi paesi escano dalla recessione entro la fine dell’anno. Sicuramente non l’Italia e l’Inghilterra. Bisogna tenere conto del fatto che l’incremento nel 2011 sarà necessariamente più debole di quello del 2010: all’inizio della ripresa gli incrementi sono maggiori, e tanto più quanto la caduta è stata forte. Per tutti i paesi, a parte L’Inghilterra, si ha un ritmo di crescita sostenuto ad inizio 2010, diciamo in media sui primi sei mesi, poi è seguito un ritmo più debole o nettamente più debole. La Russia non potrà ritornare al massimo raggiunto nel 1989, ma potrebbe superare quello del 2008. Una possibilità c’è solo per Stati Uniti e Germania.
Il Commercio. L’anno 2009 ha visto una bella caduta del commercio mondiale. Riportiamo qui sotto una tabella indicante la caduta delle esportazioni in volume ed in valore corrente. I paesi sono classificati secondo il loro rango mondiale per le esportazioni nel 2007, anno di massimo. L’India, al 25° posto, esporta meno della Svizzera.
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Non sono disponibili gli indici in volume per la Francia (!) e per quelli della Russia sono incoerenti. Occorre rilevare la strana differenza fra il risultato in volume ed in valore per l’India.
Non abbiamo ancora i risultati del commercio per il 2010, e non è quindi possibile sapere se ha raggiunto quello del 2007.
Concludendo. Stiamo andando verso una crisi del tipo 1929? I diversi grandi centri industriali, compresa la Cina, sono passati molto vicino ad una simile crisi. È stata evitata solo grazie all’intervento degli Stati e delle loro banche centrali che hanno iniettato migliaia di miliardi di dollari nell’economia per salvare le banche e sostenere le produzioni. Secondo il sito finanziario Bloomberg, nel giugno 2009 gli Stati europei si sono accordati su di un piano di 5.300 miliardi di dollari per venire in soccorso delle banche, cioè una somma superiore la prodotto nazionale lordo della Germania, che è di 3.300 miliardi di dollari!
Oggi alcuni Stati sono al limite del fallimento, come Grecia e Irlanda, altri come il Portogallo o la Spagna non ne sono lontani. Tutti presentano il conto al proletariato sotto forma di misure di austerità. Queste non impediranno a grandi Stati come la Francia, il Giappone o gli Stati Uniti di precipitare anch’essi nel fallimento. Tutto ciò che possono è rallentare la crescita dell’indebitamento, ma non fare marcia indietro diminuendo il tasso di indebitamento. Questo non fa che crescere in modo esponenziale dopo la grande recessione del 1973. L’indebitamento degli Stati è uno dei metodi utilizzati per assorbire la sovrapproduzione. Negli Stati Uniti il debito pubblico nel 2010 rappresenta circa il 93% del prodotto nazionale lordo e il debito privato 2,5 volte quello.
I cicli di crescita e di crisi, dopo il 1973, durano in media da 7 a 10 anni. Nel caso il capitalismo mondiale riesca ad uscire dalla presente crisi, questa ci darà quindi appuntamento al 2014-2017, cioè 3-6 anni ci separano dalla prossima recessione. E questa volta nessuno Stato potrà ripetere ciò che ha fatto perché allora l’indebitamento sarà tale, malgrado tutte le misure di austerità che potranno prendere, da sommergerli di debiti. E, peggio, la Cina non sarà più in condizione di acquistare il debito americano ed europeo. Gli Stati americano ed europei saranno allora costretti a dichiarare fallimento, o costretti alla guerra.
Se riescono ad uscire dalla presente recessione, la crescita sarà quasi nulla, proseguendo la tendenza del ciclo precedente:
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Ma è anche possibile che la crisi attuale prosegua, spinta dalla Cina. Da ottobre 2008 a maggio 2009 gli indici ufficiali forniti dallo Stato cinese segnano solo un rallentamento, ma noi sappiamo che questi indici sono gonfiati. Se consideriamo la produzione di elettricità, della quale una gran parte è consumata dall’industria, esce un quadro molto diverso: da ottobre 2008 a maggio 2009 abbiamo questa serie di incrementi: -3; -7,8; -7; -14,1; -4,8; -2,2; -3,6; -3,2! Il che corrisponde meglio alla realtà e spiega perché la Banca centrale dello Stato cinese abbia dovuto sostenere l’attività con molte centinaia di migliaia di dollari e lasciare ruota libera al credito! Ma questi fondi hanno più che altro sostenuto una frenetica speculazione immobiliare.
Quindi in Cina sono oggi presenti tutte le condizioni di una
gigantesca
crisi di sovrapproduzione: una crescita dei prezzi delle materie prime
e dei prodotti agricoli, migliaia di case invendute ed una crescita
inarrestabile
del tasso di interesse. Quando la crisi batterà alla porta della Cina
questa non potrà più sostenere il debito americano acquistandone i
buoni
del tesoro. Un nuovo 1929 si sta preparando e presto!
È stato esposto un breve resoconto della rivolta in corso in Tunisia, dove, dopo prolungate ed estese manifestazioni di protesta contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, il presidente Ben Alì aveva abbandonato il paese. Sono stati ricordati gli episodi precedenti in Tunisia di sommosse della popolazione e scioperi ed è stata descritta la natura dei sindacati e dei partiti politici presenti.
Gli investimenti stranieri, in buona parte italiani, hanno contribuito alla modernizzandone del paese e all’apertura di numerose industrie, in particolare nel settore tessile, e alla formazione di un moderno proletariato.
È subito risultato chiaro il fondamento della previsione del partito
circa: 1) la maturità sociale dei paesi del nordafrica, che vede la
presenza
della classe operaia e rende necessarie le sue azioni difensive e le
corrispondenti
organizzazioni di tipo sindacale; 2) la similitudine di condizione di
storia,
di sviluppo e sociali nei paesi arabi del Mediterraneo meridionale ed
orientale
che fanno considerare la possibilità di sue organizzazioni unitarie ed
un suo convergente movimento. Parte di quelle e di questo potrebbe
farsi
lo stesso proletariato di Israele.
La questione militare: La guerra di Crimea
La guerra di Crimea fu più di intrecci diplomatici che di strategia militare. Gli stessi comandi borghesi ammisero gli incredibili errori commessi da entrambe le parti. Non a caso la nostra scuola la indica come la prima guerra imperialista, per gli obiettivi economici, il controllo dei mercati e delle materie prime, e per il numero di Stati coinvolti, piuttosto che per le conquiste territoriali.
Il rapporto ha utilizzato citazioni dagli scritti di Engels e, per una migliore comprensione, ha sviluppato quelle considerazioni con l’aiuto di alcune carte della penisola teatro delle operazioni.
Il congresso di Vienna aveva ridisegnato la geografia europea in funzione antifrancese. La Russia si era ingrandita a nord annettendosi la Finlandia e a sud la Bessarabia, a spese del traballante Impero Ottomano. Al congresso il Sultano non fu nemmeno invitato perché non ancora risolta “la questione turca”, ovvero la spartizione fra le maggiori potenze dei suoi territori europei: tutta la penisola balcanica a sud della Sava e del Danubio.
Fu stabilito il “Principio di intervento”, ovvero la possibilità di una potenza straniera di intervenire militarmente contro uno Stato feudale minacciato da rivolte interne. Sommosse in tutta Europa furono soffocate nel sangue. Ma, nonostante le vecchie dinastie feudali cercassero di tornare alla situazione di prima della rivoluzione, nulla poteva tornare indietro.
La politica di espansione dell’Inghilterra, al tempo la maggior potenza economica europea, per tutto l’Ottocento fu incentrata sul controllo delle vie di accesso all’India: con Gibilterra 1704, Malta 1802, Aden 1840, Cipro 1878 e Suez 1882 la via mare per Bombay era garantita, mentre dalla Siria partivano le carovane per la Persia e l’India.
Questo disegno entrava in contrasto con l’espansione a sud della Russia, la cui economia con scarsa produttività, prevalentemente agricola e condotta con la servitù della gleba, imponeva sempre nuove conquiste e l’accesso ai mari caldi. Nella penisola balcanica sfruttava ogni debolezza dell’Impero Ottomano in vista dell’acquisto di territori e soprattutto del controllo del Bosforo e dei Dardanelli. Anche in Asia si estendeva verso il Turkestan per scendere attraverso l’Afghanistan all’Oceano Indiano. In entrambe le direttrici si scontrava con l’Inghilterra.
L’Inghilterra, da una parte, cercava di smembrare l’Impero Ottomano, come nel caso del sostegno all’indipendenza della Grecia, da cui ottenne le Isole Ionie e il transito dei suoi mercantili nel Mar Nero; dall’altra ne appoggiava l’integrità in funzione antirussa.
La Francia intervenne nella “questione orientale” sia per dare prestigio, con una piccola breve guerra in Oriente, al nuovo regime “imperiale” di Napoleone III, sia per l’espansione del suo giovane sistema produttivo; strinse quindi un’alleanza con l’Inghilterra contro la Russia e la Porta.
In questo quadro, la guerra di Crimea fu mossa per impedire ai russi il controllo via terra sugli Stretti, militarmente ben difesi con adeguate fortezze. Queste le cause materiali. La copertura ideologica fu una vecchia disputa sul controllo dei Luoghi Santi in Palestina!
Il conflitto iniziò nel 1854 con l’affondamento da parte della flotta russa di quella turca nel porto di Sinope, sul Mar Nero, pretesto per far partire quelle francesi e inglesi.
Napoleone III, con la minaccia di un appoggio al Regno di Sardegna nella guerra di indipendenza italiana, ottenne il sotterraneo sostegno dell’Austria; a garanzia di ciò coinvolse l’esercito piemontese in una spedizione in Crimea, così le sue restanti forze non avrebbero impensierito l’Austria.
Engels analizza gli eserciti in campo: quello di leva obbligatoria francese, ben organizzato con forte artiglieria e disciplina, e quello inglese, volontario, che “come la vecchia Inghilterra stessa, è marcio fino all’osso”. Quello russo era forte numericamente ma distribuito su territori estesi e lunghe frontiere, non usava né ferrovie né telegrafo e risentiva della società ancora feudale. Anche il multietnico esercito turco era disposto su più fronti, da quelli danubiani a quelli caucasici, e le sue truppe, di tradizione montanara, erano poco adatte alla guerra moderna. Considera quello piemontese ben addestrato e comandato mentre quello prussiano mancante di un valido comando.
Gli alleati attaccano per distruggere l’importante base navale russa di Sebastopoli. L’obiettivo è criticato da Engels per la sua inutilità dal punto di vista strategico generale e per la nota invulnerabilità del luogo.
Quello di Sebastopoli doveva essere un assedio breve con intensi bombardamenti e un assalto in forze. Per questo furono edificate postazioni insufficienti e inefficienti. In più il resto dell’esercito russo si era ritirato oltre il fiume Cernaia lasciando sguarnita la fortezza. Il suo comandante trasferì tutte le attrezzature, uomini e armi della flotta lì stanziata nella ben organizzata base e affondò 26 delle sue navi all’imbocco della rada per bloccarne l’ingresso.
Secondo le indicazioni di un ingegnere del genio russo fu qui introdotto per la prima volta un sistema difensivo basato sulle trincee che ebbe rapido sviluppo per la sua efficienza: con un ridotto numero di uomini si può tenere testa a un forte avversario.
Durante il lungo assedio attorno alla roccaforte avvennero alcune battaglie intraprese dall’esercito di terra russo nel tentativo di rompere l’accerchiamento prima dell’arrivo del temuto inverno. Intanto gelo e colera decimavano le truppe di entrambi i fronti. Il primo tentativo di alleggerimento russo avvenne con la battaglia di Balaclava, del 25 ottobre 1854. Dieci giorni dopo fu la battaglia di Inkerman: dopo un iniziale prevalere russo dovuto ad un attacco notturno e nella nebbia, pur avendo forze ben 5 volte superiore agli alleati, essa si risolse in una tremenda disfatta con perdite enormi.
Poi l’inverno prese il sopravvento.
Morto il vecchio zar, il successore dovette gestire quella che stava per diventare una disfatta. Nell’agosto del 1855 i russi tentarono di attaccare alle spalle gli assedianti sul Cernaia, battaglia alla quale parteciparono i bersaglieri piemontesi, anch’essi decimati dal colera al loro arrivo. Anche qui, dopo un primo sfondamento russo delle linee alleate, gli attaccanti non riuscirono a resistere al contrattacco e furono respinti nuovamente al di là del fiume.
Così commenta Engels: «Assistiamo a nessuna perdita di tempo, a nessun combattimento per logorare il nemico; e dall’esito di uno o due attacchi dipende la sorte della battaglia. Sembra un modo di combattere ben più ardito che quello di Napoleone (...) in realtà rivela in entrambe le parti una grave mancanza di direzione e strategia».
L’assalto finale alla fortezza era previsto per l’8 settembre dopo un fitto bombardamento di due giorni. Ma nella notte i russi evacuarono inaspettatamente la base così tanto difesa dopo aver portato via quanto più possibile e distrutto quanto rimaneva.
La caduta di Sebastopoli non significò la fine della guerra, che continuava nella Transacucasia, dove i russi conquistarono la roccaforte di Kars, si pensa addirittura col benestare inglese, chiave di volta delle vie commerciali asiatiche.
Di fatto l’unico risultato utile fu aver fermato la Russia nell’avanzata sul Bosforo.
Questo il computo finale di quella che alcuni storici definiscono come la vera prima guerra mondiale. Per noi è già una guerra imperialista per le caratteristiche economiche, politiche e di distruzione: il fronte russo impiegò 700 mila uomini cui si aggiunsero 4 mila volontari bulgari; quello alleato era di 300 mila turchi, 400 mila francesi, 250 mila britannici e 20 mila fra esercito sardo e volontari italiani, per un totale di circa un milione di uomini. Una stima riconosciuta attendibile calcola un totale complessivo di un milione di morti tra civili e militari, la maggior parte di questi di colera e tifo che colpirono tutta la regione non risparmiando nessun fronte né gli abitanti.
«Da che esistono le guerre non è mai stato buttato via tanto valore
per risultati così inadeguati come in questa campagna di Crimea. Non
sono
mai stati sacrificati tanti ottimi soldati, e per di più in così breve
tempo, per ottenere successi così insignificanti» (Engels, “La guerra
europea”).
A questa riunione il lavoro di esposizione della V Sezione del III Libro si è centrato sul capitolo 28, riorganizzato da Engels sui manoscritti di Marx, che tratta della critica e della demolizione della “Scuola monetaria” inglese. Presentare questi argomenti che storicamente appartengono a forme e modalità di emissione, circolazione e riflusso della moneta che hanno caratterizzato le crisi del diciannovesimo secolo, e riproporre la critica della nostra scuola alla oggi ormai “screditata” scuola bancaria, non è fare della storiografia, ma mantenere la forza e continuità del metodo marxista, a tutto campo contro tutte le dottrine borghesi.
Valga come esempio l’analisi svolta sul riflusso del circolante alla Banca che l’ha emesso. Negli sciagurati tempi attuali, mediante la “truffa legale”, per dirla con la Scuola Austrica, della “riserva frazionaria”, il processo si pone in modo diverso, ma ben più gravido di pericoli per la stabilità monetaria, a causa del dilatarsi del debito che questa pratica permette; indispensabile però alla luce della immane massa di anticipi che lo sviluppo della produzione capitalistica pretende per “andare avanti”.
Marx studia nella seconda metà del diciannovesimo secolo un sistema basato sull’emissione di banconote in contropartita aurea. Ma ai tempi odierni questo genere di argomentazioni sono tornate di moda, alla luce di teorie ultraborghesi che hanno ripreso forza e consistenza e pretenderebbero di “tornare indietro” e rifondare emissione e circolazione sull’oro. Nulla di nuovo.
La “Scuola Bancaria”, che annovera tra i principali autori Tooke e Fullarton, distingue in modo erroneo e confuso tra mezzi di circolazione e capitale. Il mezzo di circolazione opera come moneta quando serve per la spesa del reddito: in ogni paese una certa aliquota di denaro è impiegata in questa funzione. Mentre quando il denaro serve al trasferimento di capitale, tanto come mezzo di acquisto che come mezzo di pagamento, è in tutto e per tutto capitale. Non è quindi la funzione di mezzo di acquisto o mezzo di pagamento che lo distingue dalla moneta; la differenza risiede tra la forma monetaria del reddito e la forma monetaria del capitale, e non fra circolazione e capitale.
Solo quando il denaro è anticipato come capitale monetario all’inizio del processo di riproduzione il valore capitale esiste puramente come tale, perché nella merce prodotta (fase successiva) non vi è soltanto capitale ma anche plusvalore, capitale che ha già dentro di sé una fonte di reddito. Ciò che il piccolo commerciante, ad esempio, dà in cambio del denaro che gli rifluisce, ovvero la sua merce, è per lui dunque capitale più profitto, capitale più reddito.
È quindi sbagliato trasformare la differenza tra circolazione di reddito e circolazione di capitale in una differenza fra circolazione e capitale.
Il denaro quando si presenta come forma monetaria del reddito, funziona maggiormente come mezzo di circolazione (mezzo di acquisto di beni); al contrario, nelle transazioni del mondo commerciale, quando il mezzo di circolazione rappresenta la forma monetaria del capitale, il denaro funziona come mezzo di pagamento tanto a causa della concentrazione che per il predominare del sistema del credito.
La massa del denaro circolante, quella che è definita currency, è determinata in entrambi i casi dalla velocità di circolazione, dalla massa delle vendite e degli acquisti, e dai bilanci di pagamento da saldare. Che questo denaro in funzione rappresenti per chi paga, oppure per chi lo riceve, capitale o reddito, non ha importanza alcuna e non modifica per nulla la cosa. La sua massa è determinata esclusivamente alla sua funzione come mezzo di acquisto e di pagamento.
È evidente che c’è un nesso tra quantità di mezzi di circolazione nelle due funzioni, e quindi nelle due sfere del processo di riproduzione, perché da una parte la massa dei redditi da spendere definisce il volume del consumo e dall’altra parte la grandezza della massa del capitale circolante nella produzione e nel commercio esprime il volume e la rapidità del processo di riproduzione.
Ma circostanze identiche hanno effetti diversi e anche opposti sulla quantità delle masse di denaro circolante nelle due funzioni o nelle due sfere o sulla quantità della circolazione, come si esprime in gergo bancario. Questo dà forza all’errata convinzione della “scuola bancaria” della distinzione tra circolazione e capitale.
In periodi di prosperità e di grande espansione il processo di riproduzione è rapido ed energico, vige la piena occupazione e si verifica anche un aumento dei salari: parimenti aumentano i redditi dei capitalisti aumentando anche il consumo generale. I prezzi delle merci salgono in modo regolare, almeno in certe branche fondamentali, e per questo si accresce la quantità di denaro in circolazione, per quanto la maggior velocità di circolazione limiti l’accrescimento della massa del mezzo circolante.
Poiché la parte del reddito sociale che è costituita dai salari è originariamente anticipata dai capitalisti industriali, come capitale variabile, in forma monetaria, in periodi di prosperità si richiede una maggior quantità di denaro per la sua circolazione. Denaro che comunque rifluisce rapidamente nel sistema bancario, tramite le rimesse del commercio al consumo.
Invece la velocità di circolazione tra capitalista e capitalista è regolata dal credito e la massa del mezzo di circolazione necessaria per saldare i conti diminuisce quindi, relativamente, ben inteso, in rapporto all’espansione del processo di riproduzione, anche se cresce in senso assoluto. La medesima massa di denaro assicura il riflusso di una massa maggiore di capitale individuale.
Aumenta in senso assoluto, ma diminuisce relativamente in rapporto all’espansione del processo di riproduzione.
Nel ciclo del processo di riproduzione i riflussi – i rientri del denaro al sistema bancario – esprimono la trasformazione del capitale merce in denaro. Il credito rende il riflusso in forma monetaria indipendente dal momento del riflusso effettivo, tanto per il capitalista industriale quanto per il commerciante; è una constatazione tanto più evidente ai tempi presenti, anche per le forme diverse ed articolate che la “massa monetaria” ha assunto.
Capitalista e commerciante vendono a credito e la loro merce è alienata prima che si ritrasformi per essi in denaro e come tale gli rifluisca. D’altro canto essi acquistano a credito e quindi il valore della loro merce si ritrasforma per essi sia in capitale produttivo sia in capitale-merce già prima che questo valore sia realmente convertito in denaro, prima che il termine di pagamento delle merci sia scaduto e il prezzo di queste sia stato pagato. I riflussi di credito sostituiscono quelli reali. Questo è un dato di grande importanza nel processo di circolazione, ed è un fatto che lo caratterizza sempre, anche a capitalismo ultra sviluppato, quando il movimento della moneta è analizzato a livello di “aggregati monetari”.
Riportiamo una illuminante citazione dalla “Critica dell’Economia Politica”: «Durante i periodi in cui il credito domina, la velocità della circolazione monetaria aumenta più rapidamente del prezzo delle merci, invece quando il credito si contrae, i prezzi delle merci diminuiscono più lentamente di quanto aumenti la velocità di circolazione».
Durante i periodi di crisi si verifica che la circolazione per la spesa del reddito si contrae, diminuiscono prezzi e salari, si riduce la massa delle transazioni; mentre nella circolazione per trasferimento di capitale, il contrarsi del credito fa aumentare il bisogno di prestiti monetari.
Contrariamente a ciò che la “scuola bancaria” deriva da questa affermazione, non è la forte domanda di prestiti ciò che distingue il periodo del ristagno da quello della prosperità, ma la facilità in cui questa domanda è accolta nel periodo di prosperità e la difficoltà in cui viene soddisfatta quando è sopravvenuto il ristagno. È precisamente lo sviluppo straordinario del sistema creditizio durante il periodo di prosperità, e in conseguenza l’enorme accrescimento della domanda di capitale in prestito e la prontezza con cui l’offerta risponde alla domanda, che provocano le crisi del credito durante il periodo di ristagno. Per sintetizzare, nel periodo di prosperità predomina la domanda di mezzi di circolazione tra consumatori e commercianti, nel periodo del contraccolpo predomina la domanda di mezzi di circolazione tra capitalisti.
Il relatore si è poi addentrato sull’analisi delle condizioni in cui si verifica il deflusso di oro, così come Marx lo analizza. Legato alla dinamica del riflusso, interessa all’analisi del processo di circolazione l’equilibrio del flusso monetario in relazione alle riserve auree che lo garantiscono, e al deflusso di oro per i pagamenti internazionali. Un genere di problema che l’abbandono della parità aurea ha oggi spostato ad altri più pericolosi livelli, ma che nel 19° e 20° secolo era di drammatica portata.
Chiosa Marx al proposito: «Il terrore che il sistema bancario moderno ha per il deflusso dell’oro supera tutto ciò che il sistema monetario, per il quale il metallo prezioso rappresenta la vera ricchezza, abbia mai sognato».
In questo problema assume grande importanza il rapporto fra
l’emissione
di banconote – il “quantitative easing” dei tempi moderni
non era neppure ipotizzabile allora! – e l’importo dei prestiti
monetari
della Banca. Oggi è facile; il Tesoro emette obbligazioni, la Banca
Centrale
le compra, emettendo in contropartita denaro. Poi... qualcuno pagherà
il debito. Ai bei tempi della finanza su base aurea non era così
semplice,
e potenzialmente catastrofico.
Un compagno ci ha quindi esaurientemente ed efficacemente riferito dell’impegnativo lavoro del nostro gruppo sindacale, compito che suscita l’apprezzamento e l’approvazione di tutto il partito.
Con gruppo sindacale comunista intendiamo, come noto, non un generico insieme di “lavoratori comunisti” che periodicamente si scambiano opinioni ed impressioni, ma un organo del partito, con la sua struttura e con specifici compiti di studio e di direzione. Svolge una delle funzioni del centro del partito, ne è parte ed è a quello disciplinato. La sua importanza è difficile sopravvalutare interessandosi dell’impianto, della difesa e del rafforzarsi del principale tramite, come previsto dalle Tesi, fra il partito e la classe in movimento.
La necessità di questo strumento di lavoro, che non è affatto una novità nella vita organizzata del partito comunista e nella tradizione della sinistra, e a questi precedenti sarà dedicato una apposita documentazione e studio storico, deriva inoltre dalla oggettiva difficoltà della materia e dalla grande complessità delle situazioni da affrontare, sia nella loro valutazione storica generale sia nel loro manifestarsi nel particolare e nel contingente.
È possibile arrivare a dominare la questione solo disponendo: 1) di un solido inquadramento teorico, fondato sul materialismo marxista; 2) di una coerente e robusta tradizione di valutazioni e di intervento pratico del partito sul campo, rintracciabile sulla nostra stampa antica e recente, una continuità di posizioni e atteggiamenti conosciuta e condivisa; 3) di uno studio delle condizioni presenti della lotta sociale e delle forze in atto, lavoro di non poca mole data la complessità e mutevolezza in cui si presentano entrambe.
Un grande e continuo impegno, dal quale allenamento deve scaturire la capacità, la collettiva “sensibilità” del partito di cogliere in anticipo le vibrazioni provenienti dal sottosuolo sociale e di prevederne le eruzioni, ed essere in grado di prefigurare l’effetto che le sue direttive potranno avere sul crescere e maturare del movimento.
Cercando di proseguire in questa chiara direzione, il compagno ci ha
descritto analiticamente le maggiori vicende della lotta operaia in
Italia
dal referendum di Pomigliano fino ai giorni della riunione, quando già
si preparava quello di Mirafiori, delle difficoltà di apprezzamento di
alcune delle mille alternative e scelte che impone la battaglia
immediata,
e di come si è addivenuti a dare delle risposte e delle indicazioni
univoche
e coerenti, che tutto il partito si impegna a far proprie e a
propagandare.
Comunismo negazione storica della Democrazia
Come già annunciato nel corso della precedente riunione, nel seguito dello studio il tema della democrazia sarebbe stato considerato in rapporto alla nascita e allo sviluppo del movimento operaio in Italia.
Secondo la concezione del marxismo rivoluzionario il proletariato può considerarsi come classe soltanto quando sorge il suo partito politico, perché solo attraverso il partito può acquistare coscienza dei suoi interessi generali e finalità storiche. La coscienza di classe non risiede nei proletari, né singolarmente presi, né come massa statistica; questo concetto è una ulteriore negazione della nozione stessa di democrazia, anche di “democrazia proletaria”.
Il partito politico di classe è quindi l’organo indispensabile per la guida della lotta proletaria per il raggiungimento dei suoi obiettivi storici.
Il partito comunista era già sorto nel 1848, esprimendo in maniera compiuta la dottrina rivoluzionaria, il suo programma storico invariante, che era stato possibile enunciare a seguito del maturare e dello sviluppo delle forze produttive e dalle conseguenti lotte sociali.
Questo, in estrema sintesi, ciò che si riferisce al partito. Per il proletario la cosa è diversa. Il proletario non lotta perché la sua coscienza lo spinge ad agire, ma è il contrario, sono i bisogni materiali che lo spingono alla lotta prima ancora di averne coscienza. Allo stesso modo avviene per la classe statisticamente intesa: sarà la lotta ad aprire le menti al proletariato a fargli intravedere i suoi interessi di classe e a permettergli di acquisire la “coscienza” nella congiunzione con il partito.
La serie di rapporti si pone l’obiettivo di ripercorrere il difficile cammino che il proletariato italiano ha dovuto affrontare nella sua istintiva ricerca di avvicinamento al partito di classe.
In Italia le prime rudimentali forme di organizzazioni operaie di cui si ha conoscenza furono costituite da società laiche di mutuo soccorso, a volte create ex novo, altre volte frutto della evoluzione di vecchie confraternite di ispirazione ecclesiastica. Questo tipo di Società di Mutuo Soccorso laiche, apparve e si sviluppò dalla fine degli anni quaranta, quasi esclusivamente in Piemonte e Liguria. Ciò solitamente viene attribuito al clima costituzionale piemontese che, a differenza degli altri Stati italiani, consentiva il diritto di associazione. Inoltre quel governo non solo avrebbe permesso la costituzione delle società di mutuo soccorso, ma l’avrebbe addirittura incoraggiata.
Nello svolgimento del rapporto sono state lette anche delle dichiarazioni del Cavour al riguardo, ma soprattutto è stato messo in evidenza il motivo di questo atteggiamento, che poteva essere solo uno: la paura, da parte della borghesia, della minaccia rivoluzionaria. I borghesi, consapevoli delle lotte operaie e delle conquiste ottenute in altri paesi, tipo Francia ed Inghilterra, ritenevano che, di fronte al proletariato, la migliore tattica da seguire sarebbe stata quella di un paternalismo di tipo riformistico, beninteso bilanciata con quella repressiva, e che lo sviluppo delle società di mutuo soccorso potesse evitare quello che loro giustamente vedevano come il vero nemico: la nascita di organizzazioni di classe. Nel corso di un intervento parlamentare Cavour aveva affermato: «non vi sono che due modi di combattere il socialismo: le baionette ed i cannoni, o la libertà; io scelgo il secondo sistema, e spero che la Camera vorrà pure preferibilmente applicare questo rimedio, il quale è assai più efficace e più durevole».
Infatti, la funzione delle Società di Mutuo Soccorso si limitava quasi esclusivamente all’assistenza per mezzo della solidarietà (i soci versavano una quota e ricevevano un sussidio in caso di invalidità e di disoccupazione). Altre volte la loro attività poteva estendersi anche all’assistenza morale, all’educazione ed all’istruzione.
Quindi le prime società operaie non si proponevano alcun obiettivo che non potesse essere condiviso dalla classe borghese. Veniva riconosciuta la distinzione della società in classi separate, ma si riteneva che le diverse classi potessero avere interessi ed obiettivi comuni e la soluzione per l’emancipazione della classe lavoratrice veniva individuata nella cooperazione escludendo, nei rapporti con i padroni, ogni carattere di antagonismo di classe e combattività.
Il rapporto si è diffuso sui vari congressi delle società operaie tenutisi nel Regno Sardo fino alla formazione del Regno d’Italia: Asti 1853, Alessandria 1854, Genova 1855, Vigevano 1856, Voghera 1857, Vercelli 1858, Novi 1859.
Le associazioni avevano il nome di “operaie” e raccoglievano al loro interno veri proletari; i discorsi pronunciati nei congressi non mancavano di iniziare con: “Operai!”, ma in realtà quelle poche decine di persone che ciascun congresso riusciva a raccogliere appartenevano quasi tutte al ceto intellettuale e, fatta eccezione per qualche artigiano, sarebbe stato difficile trovare fra di esse una rappresentanza diretta dei lavoratori manuali. Allo stesso modo la direzione delle Società era completamente in mano ad avvocati, dottori, nobili e perfino qualche prete. Si trattava di personaggi che, per quanto filantropi avessero potuto essere, mettevano tutto il loro impegno e le loro energie per far sì che il veleno della lotta di classe non contaminasse le società.
Si dovette attendere il VI congresso (Vercelli 1858) perché
venissero
messi in discussione problemi propriamente operai. In questo congresso
per la prima volta si parlò delle condizioni di vita del proletariato
delle fabbriche, ed in special modo dell’orario di lavoro, la nocività
degli ambienti ed il lavoro dei fanciulli. Tutti problemi per la cui
soluzione
veniva richiesto o l’intervento pubblico, statale e comunale, oppure
la formazione di speciali commissioni che studiassero le condizioni
della
classe operaia e promuovessero una sensibilizzazione dell’opinione
pubblica.
Tutto lì, perché i rappresentanti filantropi borghesi delle società
operaie affermavano che «Non sono le leggi agrarie, non i falansteri
dei
comunisti che possono rendere felice l’operaio, né altre esagerazioni
di tal fatta, sognate da menti torbide e fantastiche».
PAGINA 3
Contro l’attacco a tutti i lavoratori
I “diritti” si difendono con la forza - La forza
degli operai è nella loro organizzazione di classe, fuori dalla singola
fabbrica, nell’unione più larga tra le diverse categorie
L’illusione di un capitalismo “dal volto umano”, in cui la condizione dei lavoratori non sia quella di una classe di proletari, sta svanendo anche nell’occidente. Il padronato, per cercare di sfuggire alla crisi economica, ha solo una ricetta: aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice. Ogni nuovo peggioramento non è mai l’ultimo perché la soluzione alla crisi del capitalismo non esiste. Le sue cause sono la sovrapproduzione di merci e la caduta del saggio del profitto: due malattie incurabili del capitalismo. La classe borghese e i suoi governi, siano essi di destra o di sinistra, possono al massimo rimandare la crisi, fino alla sua successiva e più grave esplosione.
Questo è esattamente ciò che è avvenuto negli ultimi 35 anni, cioè dalla prima manifestazione della crisi nel 1973-1975. Allora iniziò l’attacco per togliere ai lavoratori, dapprima gradualmente e poi in modo sempre più deciso, tutto ciò che avevano conquistato nei decenni precedenti al prezzo di dure lotte.
Abolizione della scala mobile, introduzione della “politica dei redditi”, controriforma delle pensioni, introduzione e allargamento del lavoro precario, sono solo alcune tappe principali di questa offensiva.
A questo attacco generale, di una classe contro un’altra, si è aggiunto il peggioramento delle condizioni all’interno delle fabbriche con la riduzione degli organici, l’aumento dei ritmi, dello straordinario, il lavoro notturno, nei sabati, ecc. Il risultato nel tempo è stato che gli operai, quando non hanno la sfortuna di trovarsi fra i disoccupati o i cassaintegrati, per avere un salario decente sono costretti a lavorare sempre di più, con straordinari e turni di notte.
Ma fatto ancor più grave di questo generale immiserimento è che i lavoratori non sono riusciti a opporsi ad esso con la lotta e la ricostruzione della loro forza organizzata, la sola in grado di porre un freno alla spirale dei peggioramenti imposti dalla folle e moribonda economia capitalistica.
Questo è stato il gravissimo danno prodotto dalla politica di tutti i sindacati di regime (CGIL-CISL-UIL) impostata sul falso principio che gli interessi dei lavoratori e quelli del Capitale sono conciliabili a beneficio di entrambi. Questa “politica dei sacrifici”, non solo è stata disastrosa, ma ha allontanato dalla lotta i lavoratori, chiudendoli in una visione aziendale dei loro problemi e privandoli della mobilitazione unita di tutta la classe, unico strumento per una vera difesa.
Con l’esplosione di quest’ultima crisi l’offensiva in corso da 30 anni contro i lavoratori ha subito un’ulteriore accelerazione e peggioramento.
Il padronato per molti decenni ha ben accettato la funzione della “democrazia sindacale” perché essa era utile alla “concertazione”, alla presunta conciliazione degli interessi in azienda. Concedeva i cosiddetti “diritti in fabbrica”, ma ad organizzazioni sindacali disposte a ridurre al minimo la conflittualità, sostituita da lunghe trattative, che quasi sempre si concludevano con compromessi ampiamente favorevoli agli interessi del padrone.
Oggi, schiacciata dalla recessione, per la borghesia diviene insopportabile ogni minima concessione, si svincola dai contratti nazionali di categoria, vero baluardo, materiale e di principio, della classe operaia, e tende a risparmiare sui costi e sui tempi della “democrazia sindacale in fabbrica”. Alla FIAT, in grave crisi e minacciata dal fallimento, questo è già avvenuto.
Per effetto della crisi il padronato deve imporre carichi e ritmi di lavoro tali che diviene sempre più difficile farli apparire come risultato di una trattativa fra le parti: non possono essere accettati dai lavoratori ma solo imposti. E se di un provvedimento imposto si tratta allora il divieto di trasgredirvi, vietando lo sciopero, è solo la ovvia e logica conseguenza.
Tutto questo non dimostra affatto la particolare malvagità di Marchionne o di chi per lui, ma il fatto, duro e reale, che gli interessi degli operai sono inconciliabili con quelli dell’economia capitalistica: il bene e la sopravvivenza di questa significano la sofferenza e lo spietato sfruttamento della classe dei salariati.
Tutto questo fa ben capire come di fronte alla crisi, che inesorabilmente, come fatto in questi 35 anni, continua la sua marcia, lo spazio per il sindacalismo fondato sulla “ragionevole” conciliazione degli interessi diviene sempre più angusto, perché è lo stesso padronato che deve imporre provvedimenti sempre più insopportabili e irragionevoli per i lavoratori.
In questo scenario sempre più sono possibili solo due tipi di sindacato: o quello apertamente complice coi padroni, o quello apertamente conflittuale, il sindacato di classe.
La CGIL si trova apparentemente nel mezzo di questo guado ma in realtà ha già scelto perché non ha scelta: tutta la attività sindacale e organizzativa è fondata sul riconoscimento da parte del padronato del suo ruolo conciliatorio. In tutta la vicenda FIAT Landini ha continuamente ribadito questa funzione, riconosciuta da tanti industriali, per dimostrare la pretestuosità della posizione di Marchionne.
Fino all’ultimo tutta la CGIL difenderà il quadro di regole che permettono l’esistenza di questo tipo di sindacalismo, nonostante i suoi spazi siano destinati a ridursi sempre più, palesando la sua inutilità ai fini della difesa dei lavoratori. La CGIL non potrà mai scegliere la via della vera lotta aperta dei lavoratori perché ciò significherebbe compromettere definitivamente, distruggere, questo quadro di regole sindacali: per difendere la “democrazia sindacale” essa non vuole e non può difendere i lavoratori.
Un vero sindacato conflittuale non può che rinascere in rottura con
tutto questo sindacalismo di regime, fuori e contro le sue
organizzazioni,
sulla base della tradizione secolare del sindacalismo di classe:
– deve risorgere consapevole di non poter essere riconosciuto
dal padronato e dai governi se non per esserselo guadagnato – di fatto
se non di diritto – sul campo, imponendosi ai padroni attraverso
l’organizzazione
di vere lotte, di veri scioperi: i cosiddetti diritti si ottengono e si
difendono solo con la forza;
– non esiterà a passare con la lotta sul cadavere della finzione
della “democrazia sindacale”, rigettando per principio i distacchi
e i permessi sindacali pagati dall’azienda, così come la riscossione
delle quote dei suoi iscritti fatta dal padrone per mezzo della delega;
– deve essere un sindacato di tutte le categorie, che nelle fabbriche
abbia i suoi organizzatori, ma la cui vita e struttura organizzativa
sia
al di fuori di esse, come nella gloriosa tradizione delle Camere del
Lavoro,
perché suo generale criterio d’azione è quello, partendo anche
dal reparto e dallo stabilimento, di far confluire ogni singola lotta
in
un generale movimento di tutta la classe. Durante la crisi gli operai,
minacciati di licenziamento, sono particolarmente ricattabili
all’interno
dell’orizzonte aziendale, e lì gli stessi scioperi e rivendicazioni,
anche se condotti con coraggio, determinazione e a costo di grandi
sacrifici,
perdono di efficacia. La possibilità della difesa si apre solo sul
piano
generale in uno scontro sociale con la classe borghese. La classe
lavoratrice,
fatta di occupati e disoccupati, oggi può e deve pretendere dalla
classe
padronale tutta e dal suo Stato la difesa dei salari e delle condizioni
di lavoro.
La crisi economica del capitale è un dramma per milioni di lavoratori in Italia e in tutto il mondo. Ma essa ha anche il grande pregio di svelare agli occhi della classe la vera natura del capitalismo e dei falsi sindacati e partiti operai. La crisi è il passo necessario che consentirà la rinascita di un vitale e fiero movimento difensivo operaio.
Potremo allora gridare:
Evviva la Crisi! Evviva la forza organizzata e potente della
classe operaia!
Più forte del Capitale e della sua crisi perché portatrice
di un mondo senza Capitale e senza crisi.
PAGINA 4
Divide et impera da Pomigliano a Mirafiori
Corsi e ricorsi della lotta di classe
Appena posata l’ultima scheda del referendum-lotteria, già le crocerossine del Capitale Italico festeggiavano ognuna la propria vittoria. La democrazia borghese è uno strano meccanismo, nel quale una parte, il rapporto di capitale, vince sempre ed un’altra, la forza-lavoro, perde; gli sponsor del SI festeggiavano la nascita di “una nuova era nelle relazioni industriali” (dalla fine della Seconda Guerra mondiale è stato un susseguirsi di “nuove ere”, “nuovi modelli di sviluppo”, “nuovi modi di produrre”...), e quelli del NO potevano gioire del ritrovato “orgoglio operaio”. In ogni gioco, però, ci deve pur essere una parte perdente, ebbene è sempre la solita: la classe operaia tutta, la quale continuerà ad essere incatenata al meccanismo infernale che ne succhia la vita.
La lunga notte di Mirafiori, è stata chiamata, e vengono mostrati i volti tesi dei lavoratori dopo aver votato sul proprio destino: crepare in fabbrica per morte da superlavoro o assopirsi su di una panchina dei parchi torinesi. Come se fosse una questione di conta di teste!
Nel “responso delle urne” (così lo chiamano i borghesi democratici) in termini percentuali il SI avrebbe una piccola prevalenza grazie al voto degli impiegati, i “colletti bianchi” ma soprattutto quadri e dirigenti. È fuori da ogni prospettiva marxista l’esaltazione del lavoro manuale, il cosiddetto operaismo, malattia che ciclicamente si ripresenta come forma particolare, adeguata alla fase, di opportunismo; le varianti opportuniste sono tutte vecchissime e non fanno che ripresentare le stesse maschere. Ma risulta confermata la radice materialistica della lotta di classe (altro che valori! Noi comunisti conosciamo solo il valore della forza-lavoro in tempo capitalista): il proletariato, in generale, è spinto a muoversi in reazione allo sfruttamento e alla insicurezza.
Il capitalismo, costretto a svilupparsi a ritmo sempre crescente, è un modo di produzione caratterizzato da un’estrema criticità, che si esprime nella dialettica legge marxista della decrescenza del suo incremento relativo. In questo processo esso tende a distruggere la fonte stessa della propria sopravvivenza: la forza-lavoro, della quale si ingegna a ridurre quantità e prezzo. Questo cammino sulla lama di un rasoio rende il rapporto di capitale potente e fragile nello stesso tempo.
Nella sua potenza è in grado di ricattare storicamente (non da Pomigliano comincia il ricatto!) il proletariato con la minaccia di cacciarlo nell’esercito industriale di riserva, prospettiva oggi più che mai spaventosa a causa della internazionalizzazione estrema del capitalismo. Per contro proprio quest’ultimo fenomeno rende sempre più vicina la grandiosa riscossa proletaria che sola può sferrargli il colpo di grazia. Ma per uccidere il capitalismo è necessario dotarsi dell’arma nucleare: il Partito di classe!
Di fronte a questa debolezza globale che caratterizza il capitalismo, gli agenti borghesi (pedine più o meno consapevoli) oggi alla testa delle organizzazioni operaie pretendono adottare l’antica strategia del “divide et impera”, ingaggiare battaglie isolate invece di attaccare contemporaneamente tutto lo schieramento avversario.
Storicamente sono le grandi fabbriche, ed in genere è la categoria dei metallurgici a fare da testa di ponte (da ambo le parti). Si è saggiata la resistenza operaia a Pomigliano, ora è stato il turno di Mirafiori. Sulla stessa linea sono gli stabilimenti Marcegaglia (uscirà da Confindustria?); prossimamente sarà l’ora dell’Iveco (sempre gruppo Fiat); Tamoil a Mantova (ex-Montedison); Telecom continua nella linea decennale di ristrutturazione (che significa mobilità, precarietà, esternalizzazioni, smobilitazione); Enel si sta lanciando nel piano nucleare in vista delle grosse commesse governative (nel mentre in una qualsiasi centrale elettrica il personale dipendente da Enel è ridotto drasticamente); Eni sta progressivamente spostando il proprio baricentro produttivo verso le zone di approvvigionamento del combustibile, lasciando in Italia (per ora) solamente i centri direzionali; Tirrenia è stata affidata ad un gruppo dirigente con il chiaro intento di smembrarla per poi svenderla un pezzo alla volta; non siamo grandi profeti – infine – se crediamo che l’Ilva di Taranto (ex-Finsider) reagirà duramente alla legge regionale pugliese che impone allo stabilimento controlli sulle emissioni, seguendo la linea tracciata dall’amministratore delegato della FIAT: getterà sul tappeto il proprio peso di unica realtà occupazionale della zona, e tanti saluti... alla salute.
L’elenco, che potrebbe continuare, dà solo un piccolo quadro di ciò che si suol chiamare – con profondo spirito di comunione ecclesiale – “Sistema Paese”, come se il capitalismo non superasse già da sé gli angusti confini nazionali!
Abbiamo gridato “La classe operaia è debole perché non è
organizzata
per la lotta” e “Dal ricatto di Pomigliano un monito per tutti
i lavoratori”, legando assieme una questione chiave: l’organizzazione
di classe come condizione necessaria per difendere tutti i lavoratori,
e il fatto che ogni lotta parziale è destinata a fallire per quanto
grande
sia la frazione della classe che rappresenta. Non è polemica odierna
questa,
lo dicemmo francamente già a Gramsci quando si trattò di trarlo fuori
dal falso mito della “Comune” di Torino. Solo una grande reazione di
tutti i lavoratori è in grado di arrestare momentaneamente il
piano-ricatto
dei settori più avanzati del padronato (attenzione: avanzati, non
arretrati).
Le parole d’ordine sono quelle di sempre:
– Costruzione di un Sindacato di Classe con gli elementi d’avanguardia
che le lotte andranno ad esprimere;
– Lotta senza quartiere dei comunisti aderenti al Partito all’interno
di questo sindacato per imporre la linea marxista dell’evoluzione della
lotta economica in lotta politica per la conquista del potere centrale
dello Stato: dittatura e terrore proletario.
Il grande metodo marxista
La classe operaia ha capito fin dove poteva capire: ha capito che il piano industriale di Marchionne è un maglione blu dal collo strettissimo che li cingerà alla gola; che i ritmi di lavoro diverranno infernali, che l’intensità dello sfruttamento aumenterà vertiginosamente; che la durata della settimana si allungherà fino a 6 giorni su 7 (dalla settimana cortissima di memoria Alfa Romeo di Arese, alla settimana lunghissima di Fiat 2011); che la catena di montaggio diventerà una zona militarizzata con controllori pronti a spiare eventuali atteggiamenti contrari all’organizzazione aziendale (non libertà sindacale, dannata libertà! ma lotta di classe); e ciò fintanto che il ciclo produttivo reggerà i ritmi frenetici della concorrenza quanto ad estrazione di plusvalore ad un determinato tasso (non di produzione di autoveicoli in quanto valori d’uso si tratta – oh sicofanti dell’economia borghese – ma di veicoli che trasportano profitto), dopo di che si ritornerà ai vecchi rimedi: licenziamenti, cassa integrazione, disoccupazione, mancato ricambio (turn over), pensionamenti anticipati.
Tutto questo la classe operaia lo capisce non perché sia un precipitato dei fantasmatici “valori di civiltà”, ma per il semplicissimo motivo materialistico dell’essere la classe in una determinata posizione nel rapporto di capitale, e direttamente a contatto con i meccanismi più brutali del generale sfruttamento del lavoro salariato.
Cosa non può capire, invece, direttamente, la classe? La strategia, il programma come linea che guida il cammino verso il potere; non ne riesce a comprendere i gradini che uno dopo l’altro è costretta a salire per raggiungere il vertice della piramide.
La nostra Corrente è da sempre additata come dogmatica, astratta, che si affida a dei principi invarianti che poi non hanno riscontro nella realtà concreta. Vediamo di smontare – per l’ennesima volta – questa sciocca tesi.
Al vertice della piramide si colloca quell’organismo che solo può esprimere il massimo del potenziale rivoluzionario della classe proletaria: il Partito Comunista Mondiale. Tale metodo d’analisi e d’azione è valido sia nel microcosmo, la fabbrica capitalistica, sia nel modo di produzione capitalistico nella sua totalità; ed è valido nel “piccolo” proprio perché è valido nel “grande”, e non viceversa; è perché quel metodo permette la comprensione dell’intera formazione socio-economica borghese, che, del pari, permette d’indagare i fenomeni che si svolgono nelle sue cellule. E quindi consente l’azione tesa a distruggerla.
È questo frutto di un’elaborazione secolare forgiata nella lotta contro le decine di varianti del “socialismo immediato” che ancora oggi ostacolano la presa di coscienza, da parte proletaria, d’essere una classe mondiale prima che nazionale e aziendale o locale. Di fronte alla ripresa della lotta di classe, determinata da fattori oggettivi che si sintetizzano nel perdurante morso da migliaia di tonnellate delle mascelle capitalistiche in crisi, molti – persino alcuni che vorrebbero richiamarsi al marxismo di sinistra – credono di poter accelerare il corso della lotta di classe, saltando uno o più di quei gradini. Si salta il gradino sindacale quando si incitano i lavoratori “a farla finita con tutti i sindacati, perché l’organizzazione sindacale è non più necessaria”. Ovvero si sostituisce il gradino del Partito con quello del Soviet se si afferma che i lavoratori devono costituirsi immediatamente in consigli i quali da soli possono decidere della direzione che dovrà prendere l’azione. Infine sostenere che la lotta di classe stessa creerà il futuro partito comunista, come aggregato di gruppi diversi e disomogenei il cui programma sarà, successivamente, oggetto di discussione ed elaborazione, comporta l’abbattimento di tutta la piramide, precipitando il Partito al livello della Classe, e non – come credono costoro – l’innalzamento della Classe al livello del Partito.
Nella sua opera somma – Il Capitale – Marx elabora un concetto di fondamentale importanza, quello di “capitale in generale”, attrezzo teorico che permette ai comunisti di distinguere il capitalismo come modo di produzione da tutti quelli che lo precedono e da quelli che lo seguiranno. Il movimento del capitale singolo è comprensibile in quanto movimento particolare all’interno del movimento globale del capitale sociale, e da questo dipende. Come spiegare altrimenti che gli agenti singolari del capitale sono costretti a marciare in una certa direzione per la conservazione del rapporto di capitale anche in contrasto con i propri interessi squisitamente privatistici? Il capitalismo è un’azione di una classe contro un’altra classe, non in quanto somma di tanti capitali singoli, ma in quanto differenziazione dei particolari all’interno dell’universale modo di produzione.
Dal sindacato al partito politico di classe
Tornando al caso particolare, la Fiat, il piano di ristrutturazione è chiaro nelle sue linee generali: gli investimenti “produttivi” (che nel capitalismo implicano un aumento di capitale costante rispetto al variabile, pertanto – almeno nel breve periodo – licenziamenti di massa) sono subordinati all’accettazione – da parte operaia – di gravi sacrifici; viceversa l’a.d. Marchionne si è detto pronto a dirottare quel capitale altrove nel Mondo, presumibilmente in Brasile, economia in forte espansione con scarse capacità difensive operaie: l’ideale insomma.
Prendiamo come metro d’analisi la Fiat in Italia; non guardiamo solamente a Mirafiori, pensiamo all’intero Gruppo. Da questo punto di vista l’alternativa parrebbe insuperabile: la meta verso cui marciare, ossia la mobilitazione generale, è obiettivamente difficile da conseguire. Il ricatto è un macigno che pesa sulle vite di migliaia di lavoratori; come sperare allora che di fronte alla minaccia di licenziamento, il proletariato – anche fosse l’intera classe italiana – possa condurre una vigorosa battaglia di lunga durata, la sola che potrebbe costringere ad una momentanea retromarcia i continui attacchi padronali?
La risposta è che non sarà volontà dei singoli proletari, ma il determinismo delle condizioni economiche a rimettere in moto la lotta di classe e il nostro Partito confida nella combattività tante volte dimostrata in passato dai lavoratori della penisola. Ed opererà in tal senso, incitando ovunque ad andare oltre le battaglie monche che vorrebbero concludersi con metodi borghesi (il referendum come fotocopia del metodo parlamentare elettorale).
Tuttavia occorre che i proletari italiani alzino gli occhi al cielo e comprendano di appartenere ad una classe mondiale, già resa internazionale dallo stesso capitale. È il solito frasario retorico che ci viene attribuito e che noi rivendichiamo orgogliosi? Vediamo.
Il Gruppo Fiat ha stabilimenti in Polonia, in Serbia, in Brasile... oltre a quelli in Italia; per non parlare della recente “acquisizione” del gigante Chrysler; la produzione di questo Gruppo non si ferma ai “veicoli commerciali”, comprende anche quella dei “veicoli industriali” (Iveco e New Holland), quella dei “Componenti e Sistemi di Produzione” (Magneti Marelli, Teksid, Comau) ed il settore dell’Editoria (La Stampa). Un simile gigante abbisogna di una direzione fortemente centralizzata, come a dire che il capitale ha abbattuto i confini nazionali.
Di fronte a questa luce che indica la strada il proletariato dovrebbe rinchiudersi nei cancelli di Mirafiori e combattere una battaglia difensiva che tende all’isolamento? No! La classe operaia deve utilizzare proprio i mezzi che le vengono messi a disposizione dal capitale stesso (ricordate Marx quando affermava che è il capitalismo stesso – con la concentrazione degli operai in grandi agglomerati industriali – a fornire ai propri becchini gli strumenti per scavargli una fossa profonda e sotterrarlo definitivamente?) e intraprendere dei collegamenti permanenti che travalichino gli angusti limiti degli stabilimenti e della Santissima Nazione. Abbiamo avuto uno splendido esempio proprio dagli operai polacchi in occasione della vertenza a Pomigliano, quella mano tesa non deve essere lasciata cadere.
Per questi motivi il nostro Partito invita gli operai di Mirafiori ad uscire dalla fabbrica, a creare organismi permanenti, trasversali ed esterni agli attuali sindacati tricolore, che comprendano tutti i lavoratori più attivi dell’intero Gruppo Fiat per una vertenza comune di risposta al “Piano Marchionne”; ci auguriamo che questi organismi di classe possano contribuire a diventare il primo nucleo del prossimo Sindacato di Classe e che siano d’esempio per i lavoratori di tutto il Mondo. Dove dirotterà a quel punto gli investimenti, qualora dovesse trovarsi di fronte un nucleo compatto di lavoratori in grado di mobilitare in permanenza l’intero Gruppo Fiat?
Ci si obietterà: “cari somari, così fate il nostro gioco! si potrebbe anche dismettere completamente la Fiat e dirottare quei capitali verso altri settori produttivi”. Benissimo. Il marxismo è nato avendo ben chiaro che la classe operaia è classe mondiale e che il socialismo è – nel suo stesso concetto – modo di produzione mondiale. Uscire da rivendicazioni puramente di categoria è l’altro obiettivo che i lavoratori del Gruppo Fiat devono sempre avere davanti agli occhi, ogni lotta parziale è destinata ad essere riassorbita dal capitalismo.
Ecco che siamo saliti – inevitabilmente, e non per mezzo di astrazioni ideali, ma per il tramite della forza delle cose – al gradino sindacale. Il Sindacato di Classe è per sua natura intercategoriale (ricordiamo ancora come luce abbagliante la potenza delle Camere del Lavoro di inizio ‘900), tende a superare la divisione sociale del lavoro e a riunire in sé tutti i lavoratori, in modo da poter utilizzare questa enorme massa d’urto come un potente maglio; il sindacato oltrepassa i corporativismi e le rivendicazioni puramente immediate (a volte le sacrifica sull’altare dei supremi interessi della classe) per la difesa del valore della forza-lavoro.
Sarà possibile costruire questo Sindacato classista utilizzando la Triplice Confederale? Lo neghiamo senza tema di smentite. Il nostro indirizzo in campo sindacale è chiaro e afferma che anche la CGIL è irrecuperabile ad una sana politica di classe, in quanto inglobata nello Stato borghese ed in quanto ne condivide le finalità, anche queste di classe, sì ma della classe nemica! Questa posizione non è frutto della contingenza (mai il marxismo si è lasciato travolgere dai “fatti recenti”).
Il sindacato non è tuttavia il gradone decisivo della piramide che conduce alla lotta per il comunismo. Il sindacato è costretto a muoversi dentro il meccanismo di formazione del valore della forza-lavoro, per sua stessa natura non può spezzare il ciclo infernale che incatena il proletariato. È il Partito l’organo supremo, il cuore e cervello della Rivoluzione Socialista. Il Partito Comunista è quell’organo della classe che, solo, è in grado di travalicare i confini artificiosi – ma necessari al funzionamento del capitalismo – che dividono l’umanità in gruppi antagonisti la cui linea di separazione è dettata dalla posizione sociale nel meccanismo di riproduzione del capitale. Il Partito è un’anticipazione del comunismo, e come tale non soffre di quelle patologie che ammorbano il presente regime borghese. Questa sua caratteristica gli consente di avere chiara la linea generale per guidare il proletariato ad emanciparsi definitivamente: è il Programma del Comunismo.
Un ciclo grandioso di lotte, che in tutti i Paesi si sta chiaramente aprendo, richiede la presenza del Partito. È tentativo vano – ed opportunistico – cercare di plasmare quel cervello della rivoluzione proletaria sulle rivendicazioni che provengono dalla sempre adulata base, anche quando la classe sia riuscita nello sforzo di organizzarsi stabilmente in un Sindacato di Classe.
Un sindacato è di classe non perché persegua fini comunisti, ma perché si muove su una linea di difesa di classe e non accetta di essere dipendente dallo Stato della borghesia. È continuamente soggetto all’influenza delle forze riformiste ed anche conservatrici (e la storia della CGdL è un chiaro esempio di questa lotta incessante tra comunisti e non comunisti). A causa di questa mancanza di coerenza nel proprio programma, il sindacato non è in grado d’informare la classe del supremo fine cui è chiamata, pertanto la linea politica può e deve provenire dal Partito. Questo non si limita solo ad una opera di propaganda dei principi comunisti, ma lavora quotidianamente negli organismi immediati di lotta del proletariato perché i lavoratori presenti possano riconoscere come propri i metodi e il programma del comunismo e conquistino il sindacato stesso alla direzione del Partito.
Nessun balzo in avanti, nessuna novità: al nostro posto nel solco della tradizione marxista!
Solo l’unificazione dei “mille rivoli” può infiammare nuovamente la lotta di classe
Di fronte alla globalità dell’attacco padronale, un qualsiasi lavoratore si aspetterebbe una parola d’ordine, la sola in grado d’unire la classe: “sciopero generale ad oltranza!”. Eppure è una rivendicazione che stenta a decollare persino fra i lavoratori più combattivi che queste recenti lotte stanno esprimendo.
In verità è stata pronunciata diverse volte anche dal segretario della Fiom Landini, ma ci sembra di sentirla da lui con il retrogusto del timore che possa realmente unire la classe! Si stanno oggi cavalcando vecchi leitmotiv dell’estremismo fine a sé stesso, dall’occupazione delle fabbriche al ricorso all’assenteismo, passando per una pratica che ha riscosso una discreta risonanza: salire sui tetti delle fabbriche. Abbiamo impiegato milioni di anni – come specie – per scendere dagli alberi, ed ora dovremmo tornare sui moderni alberi di cemento e acciaio? Non può essere questa la strada. Non dobbiamo fare il gioco dei borghesi, che dividono il fronte operaio, confinato nella propria piccola realtà. Il resto della società, amici e nemici, si può accorgere della forza del proletariato organizzato solo quando sente tremare le strade sotto i passi dei lavoratori in marcia verso i centri del potere.
Il compito per cui sono nate le organizzazioni dei lavoratori, i sindacati, è quello di difendere il prezzo della forza-lavoro. L’attacco alle pensioni, la colossale partita che si gioca attorno al trattamento di fine rapporto (TFR) tramite la costituzione dei fondi pensione, la vertenza che si aprirà sul tema della contrattazione collettiva, la paventata riforma dei cosiddetti ammortizzatori sociali, sono parte – assieme proprio al piano di ridimensionamento drastico del salario diretto – di un’unica battaglia di classe. Non c’è alternativa che questa: tenuta su tutta la linea o disfatta sull’intero fronte. Ed il nostro Partito grida ai lavoratori in lotta: mantenete le posizioni, arriveranno i rinforzi!
I sindacati confederali, invece, stanno ingaggiando battaglie separate, e più perché tirati dentro dai propri iscritti che per volontà propria. La necessità di una risposta generale non deriva da principi ideali che noi comunisti vorremmo imporre al movimento reale per adeguarlo a nostri personalissimi schemi mentali, questa è da due secoli la critica che ci muovono tutte le varianti dell’opportunismo. La necessità di una battaglia globale è la sola reazione adeguata ad una crisi generale: di fronte ad un attacco di questa portata all’intero salario sociale, ogni lotta parziale è inadeguata, è l’utilizzo di ferri di legno; al contrario, noi affermiamo che il tipo di risposta è già insito nel tipo di attacco che gli agenti del capitale sono costretti a sferrare per arginare gli effetti di questa lunga crisi generale di pletora di capitale: ad un attacco locale si può rispondere con una difesa locale, ad un attacco generale non si può che rispondere con una lotta generale!
Non crediamo all’uso dei referendum. Portiamo la nostra solidarietà ai lavoratori di Mirafiori che hanno scritto una pagina di orgoglio di classe. Ma, proprio perché la nostra solidarietà è sincera, è necessario che istruiamo quei proletari sui pericoli insiti in simili farsesche “consultazioni della base”.
Si è fatto un gran parlare – soprattutto da parte del “fronte del NO” – del fatto che quel referendum fosse un “ricatto” e pertanto i lavoratori non “sarebbero stati liberi di decidere”; ai cani da guardia confederali i comunisti chiedono da sempre: “quando l’operaio è libero di decidere nel capitalismo?”. Sì, l’operaio è libero nel doppio senso di essere libero dagli antichi vincoli feudali e corporativi, ma anche nel senso di essere libero da ogni proprietà; ecco le uniche libertà per il proletariato; è sulla libertà da ogni proprietà che si fonda il rapporto salariale, che i comunisti affermano di voler mandare alla malora assieme a tutti i suoi servi più o meno sciocchi.
Consultare la base è consultare l’ideologia della classe dominante. L’alternativa non è tra il comunismo e una teoria “neutra” rispetto alla lotta di classe; l’alternativa è tra il comunismo e l’ideologia dominante, la quale è la “filosofia spontanea” del capitalismo.
Un sindacato che lascia determinare la propria linea da meccanismi elettorali è un organismo che ha perso la propria natura di classe proletaria per trasformarsi in agente del capitale in seno al movimento operaio. Persino un sindacato dichiaratamente riformista ha il dovere di una elaborazione programmatica indipendente dal “pensiero della base”. La piramide di cui sopra è percorribile in due direzioni ben distinte: salendo dalla base alla cima si aumenta il grado della coscienza di classe fino, al culmine, alla coscienza comunista; scendendo dalla cima alla base ci si perde nella confusione delle contingenze e dei particolarismi. Non può essere la classe statistica, fatta di iscritti e non iscritti, determinati ed irresoluti, a dettare la linea al sindacato, perché la classe si trova ad un gradone inferiore rispetto al sindacato.
Nei principi operativi del futuro di Sindacato di Classe non ci sarà il dipendere dal responso di futuri referendum, che sicuramente si ripeteranno, ma di contrastare fermamente il ricorso a quel metodo decisionale: NO ai referendum perché sono sempre dei ricatti!