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Proletari palestinesi ed israeliani sono così mantenuti come topi in gabbia nel minuscolo ghetto pietroso fra il Giordano e il mare, ubriacati dalla idolatria patriottica e del sangue, in un cinico e spietato gioco fra i massimi imperialismi.
Nel tempo gli attacchi, le missioni, le campagne hanno avuto nomi diversi ma nulla è cambiato. Due anni fa abbiamo avuto le “colonne di difesa”, prima “piombo fuso”, prima ancora “caldo inverno”, sempre con lo stesso risultato perché lo stesso ne era il fine. Le vittime, come in ogni guerra in ogni parte del mondo, appartengono al proletariato. Muoiono i proletari, gli assassini ne traggono i vantaggi politici attesi, e si arriva ad un cessate il fuoco. I borghesi, tranne poche eccezioni, non soffrono delle conseguenze della guerra, loro impartiscono istruzioni. Ad oggi si contano più di 1000 morti. Queste vittime non sono nulla per Hamas, per Al Fatah o per i governanti d’Israele, sono solo dei numeri da utilizzare nelle trattative diplomatiche.
In Israele, come ancora in molti dei centri del capitalismo, gli strascichi dell’effimero benessere capitalistico, avviato al tramonto, mantengono il proletariato nell’indifferenza e nell’immobilismo, minacciato com’è, in mancanza di organizzazioni sindacali di classe, dalla perdita del lavoro e delle conquiste di cui ha goduto fino a poco tempo fa. Solo con l’ulteriore sviluppo della crisi capitalistica, con la perdita dei vantaggi economici e del cosiddetto stato sociale, vedremo il proletariato d’occidente, e anche ebraico di Israele, sviluppare vere lotte di classe, in unione con il proletariato arabo.
La guerra serve, anche e soprattutto, a evitare la lotta di classe, mantenendo diviso il proletariato, ingabbiandolo nella ideologia controrivoluzionaria della difesa della patria borghese e dell’interesse nazionale.
Anche nella società israeliana assistiamo, da un lato, al sorgere di gruppi di fascisti che, in nome della Grande Israele, portano segni e abbigliamento simili a quelle delle cellule neo-naziste nel mondo e – dialettica della storia – vengono a somigliare a quelli che li volevano sterminare; dall’altro, i gruppi dell’attivismo pacifista mostrano solo l’impotenza e la sterilità di questo movimento, che invoca una impossibile pace fra nazioni mentre è possibile, solo, fermare la guerra capitalista liberando dai ceppi dell’ideologia borghese, nazionalista e religiosa, la guerra fra le classi. Il pacifismo è caduto e cadrà inevitabilmente nel bellicismo, in nome della difesa della democrazia e della pace. Infatti il movimento pacifista, disonestamente, si guarda bene dal pronunciarsi sulla seconda guerra mondiale: solo i comunisti la denunciarono, allora ed oggi, come guerra imperialista su entrambi i fronti, giustificata dal manto ideologico della guerra delle democrazie contro le dittature. E solo il movimento comunista avrà la forza di impedire con la rivoluzione la terza guerra mondiale che, sotto la spinta della crisi, si va preparando, in Ucraina, in Siria, in Palestina e in tanti altri fronti, maggiori e minori, nel mondo.
Lo scontento è intanto esploso a Ramallah, con proteste e movimenti di giovani proletari contro il borghese Al Fatah, in reazione all’uccisione di un ragazzo arabo caduto nelle mani di una cellula fascista di giovani ebrei, e mobilitazioni che hanno scavalcato le leggi ci sono state anche a Gerusalemme Est.
Questa è la piega degli avvenimenti che più temono Hamas, Al Fatah ed i borghesi di Israele, nuove organizzazioni sindacali su basi di classe dei proletari, sia palestinesi sia israeliane, opposte alle forze borghesi del nazionalismo israeliano e palestinese, e il diffondersi anche in quel crocevia della storia delle avanguardie dell’unico rinato partito comunista mondiale.Le mappe cruciali dell’imperialismo
Per una lettura dei numerosi conflitti regionali in atto occorre
partire da alcune premesse importanti della nostra scuola teorica di
partito.
1) Non basta considerarli separatamente, come il risultato di particolari situazioni locali che, se pur reali, non ne sono la causa principale. Si riflettono localmente contraddizioni più vaste e profonde che hanno origine dalla generale crisi economica del capitalismo a livello mondiale, iniziata nel 2008 e non ancora risolta. Questa principale causa ha coinvolto e sconquassato le economie più fragili e più instabili, sia dal punto di vista economico e sociale interno sia nell’equilibrio degli interessi delle opposte consorterie capitaliste internazionali nelle varie aeree strategiche del pianeta. La soluzione di alcune di queste crisi non potrà avvenire con il prevalere militare di una o altra fazione interna ma solo nel gioco degli scontri e compromessi fra le maggiori potenze mondiali. Il caso della Libia e ancor più quello della Siria lo dimostrano, come l’interminabile crisi arabo-israeliana, la cui non soluzione risulta essere l’obiettivo più che evidente delle potenze che sono alle spalle di quelle martoriate popolazioni.
2) La spartizione del mondo avvenuta alla fine della Seconda Guerra mondiale, a Yalta, tra Usa, Urss e Gran Bretagna, sopravvive solo in modo residuale per la mutata importanza di due dei principali attori: l’Urss non esiste più e l’attuale Russia non è in grado di esplicare quella posizione di forza. Anche la potenza economica della Gran Bretagna, immersa in una crisi ormai senza fine, e il suo ruolo internazionale non sono più quelli. Il capitalismo americano ha tratto vantaggio dalla situazione di debolezza degli altri imperialismi e mantiene la sua influenza globale, pur essendo anch’esso investito dalla crisi produttiva. Questo lo spazio occupato dalla “globalizzazione americana”, come alcuni economisti indicano questo relativo vantaggio dell’imperialismo, “fase suprema del capitalismo”, di quel paese, in una generale situazione di crisi.
3) La Cina, il più giovane dei capitalismi mondiali, nella sua continua crescita, anche se con qualche cenno di rallentamento, come la nostra teoria marxista ha saputo ben spiegare e prevedere, rivendica il ruolo economico e strategico che le compete di nuova potenza planetaria, col suo enorme mercato, con i suoi capitali e con la sua necessità di materie prime. Lo Stato dei capitalisti cinesi tesse la trama della sua espansione all’esterno, oltre che commerciale e finanziaria, anche territoriale, e ha già pronte le sue mappe.
Ed è sicuramente frutto di sentimenti anti-cinesi la mappa recentemente pubblicata sul New York Times che raffigura una probabile e possibile ipotesi di espansione cinese: l’enorme macchia gialla parte ad oriente della penisola della Kamčatka fino ad occidente con la linea che dalla penisola di Jamal scende lungo gli Urali fino alle frontiere con il Kirghizistan, includendo la Mongolia e la Siberia. Questa espansione avverrebbe prevalentemente a detrimento della Russia, non prevedendo ampliamenti a Sud.
Saremmo ovviamente molto interessati a conoscere le analoghe mappe cinesi, che certo riguardano l’intero pianeta. Gli archivi degli stati maggiori e dei centri studi delle grandi istituzioni politico-economiche hanno i loro piani e progetti; alcuni sono destinati a rimanere tali ma meritano attenzione perché lasciano intravedere probabili linee di manovra del capitalismo mondiale.
4) Sempre a riguardo del ridimensionamento territoriale e intensificazione dell’accerchiamento del nemico storico russo, è interessante riflettere sulla cosiddetta “faglia slava” esposta dall’americano Samuel Huntington nel suo libro: “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” del 1996. In sintesi, in questo saggio il “politologo” americano e già consigliere della Casa Bianca, sostiene che le identità culturali e religiose saranno la fonte primaria di conflitto nel mondo post-guerra fredda. La sua linea di faglia – termine che indica una separazione tra placche territoriali diverse – tra l’area cristiano-ortodossa e quella occidentale, parte dai confini russi a nord della Finlandia, costeggia la Russia, taglia a metà la Bielorussia, parte dell’Ucraina occidentale e della Romania; taglia il nord della Serbia e della Bosnia-Erzegovina per ricongiungersi al tratto meridionale del confine della Croazia e finisce alle Bocche di Cattaro. Al di là delle posizioni teoriche alla base di questa esposizione, che noi rigettiamo completamente, non possiamo però non analizzarle e prevedere possibili aperture di fronti fra le gigantesche forze storiche materiali dello sviluppo capitalistico, e non certo fra le rifrazioni religiose e culturali che sono solo i loro luminescenti rivestimenti.
5) Il complesso quadro del Mediterraneo sud-orientale di matrice islamica va analizzato considerando anche il retaggio delle sue origini storiche più antiche.
Il profeta Mohammed con le armi riuscì a unire le varie tribù nomadi della penisola araba e, diffondendo la nuova religione dell’Islam, impegnò i suoi seguaci e successori nella costruzione di un vasto impero che in breve si estese al Mediterraneo sud-orientale fino al Nordafrica, alla Sicilia e a lambire le coste dell’Europa meridionale, diffondendosi poi a Oriente fino alle frontiere cinesi. Come sovrastruttura ideologica fu un potente strumento di unione perché nella sua espansione coinvolse diverse importanti dinastie non arabe convertite all’islam come i Samanidi nell’Asia centrale e i Selgiuchidi, di etnia turca, che imposero l’egemonia dell’ambiente turco su quello arabo nelle regioni orientali del mondo musulmano. Il dominio selgiùchide segnò, in seno all’islamismo, il consolidamento dell’ortodossia sunnita contro i movimenti sciiti aperti ai mutamenti.
Come per il vasto impero romano s’impose anche in quello islamico il problema dei rapporti politici ed economici con i sudditi di origine non musulmana che non intendevano convertirsi alla nuova religione, soprattutto in quei territori in cui, anche se sconfitti militarmente, erano la maggioranza o una forte componente, come i cristiani copti in Egitto. Fu infine introdotto il sistema dei dhimmi ovvero un “patto di protezione” contratto tra non musulmani e un’autorità di governo musulmana. Questo aiuta a comprendere le relazioni e le tensioni negli Stati etnici e multi-religiosi nel Medioriente. Lo status di dhimmi era in origine riferito solo alla “Gente del Libro”, cioè ebrei e cristiani, ma in seguito fu esteso anche ai membri di altre religioni fino ai buddisti. I dhimmi godevano di maggiori diritti rispetto ai seguaci di altre religioni, ma di minori diritti legali e sociali dei musulmani: senza entrare nel complesso delle norme economiche, legali e successorie ricordiamo che i dhimmi non potevano portare armi né accedere alla carriera militare, salvo alcune rarissime eccezioni. Erano considerati come sudditi di seconda categoria, disprezzati per la non adesione all’Islam, disponevano però di una discreta autonomia e col tempo si dedicarono ai commerci e alle professioni specialistiche.
(Curioso che oggi i cittadini israeliani di origine palestinese – il 20% dell’intera popolazione – siano mantenuti dallo Stato nella “feudale” condizioni di dhimmi).
Dell’immenso impero islamico rimase infine quello ottomano, sottoposto progressivamente a continue sottrazioni di territori da parte della Gran Bretagna, della Francia, dell’impero russo e via via di altre potenze. La scoperta degli immensi giacimenti di petrolio nella penisola arabica accelerò quel processo. Nel periodo tra la guerra di Crimea e la Prima Guerra mondiale avvenne il definitivo smembramento dell’Impero ottomano fino a ridurlo nei confini dell’attuale Turchia.
In particolare gli accordi segreti nel 1916, durante la Prima Guerra mondiale, noti come accordi Sykes-Picot tra Francia e Inghilterra, esclusa la Russia, sul destino dell’area Mediorientale, avendo data per certa la sconfitta dell’Impero ottomano, non stabilivano delle frontiere ma delle grandi aree d’influenza. Il prospetto originale fu poi modificato nel 1920. Alla Gran Bretagna fu assegnato il controllo delle zone comprendenti approssimativamente la Giordania, l’Iraq e una piccola area intorno ad Haifa. Alla Francia fu assegnato il controllo della zona sud-est della Turchia, la parte settentrionale dell’Iraq, la Siria ed il Libano. La zona che successivamente venne indicata come Palestina doveva essere destinata ad una amministrazione internazionale coinvolgente la Russia e altre potenze.
Le potenze inglesi e francesi, la seconda specialmente in Siria e in Libano, demandarono la gestione di settori dell’amministrazione coloniale alle strutture economiche e sociali delle varie comunità etniche e religiose. Si appoggiarono così alla contrapposizione fra i gruppi, ad una gerarchia tra le diverse componenti socio-economiche che si traducevano in un loro maggiore o minore status sociale e benessere. In Siria i francesi, per contenere la maggioranza sunnita, distribuirono i vari incarichi ai cristiani, ai drusi e alla minoranza alawita, mantenendo loro il controllo militare.
Questi relitti della storia sono ancora lì ad ingombrare il teatro degli scontri attuali.
6) Alla guerra fra le classi e le sotto-classi, nascosta sotto le multiformi vesti religiose, s’intenderebbe porrre rimedio usando il principio del “ciascuno stia in pace a casa sua”, ovvero ciascun popolo nel territorio storicamente degli avi. Si intenderebbe quindi delimitare e riconoscere una porzione di superficie terrestre ad ogni gruppo etnico-linguistico-religioso ove possa creare il suo Stato, omogeneo e quindi senza conflitti ed instabilità. Questa ricetta degli “Stati riserva” che in varie versioni gira da anni e viene presentata come risolutoria, per noi è l’espressione di un “razzismo” in netto contrasto con la nostra teoria e indirizzo di partito principalmente su due punti fondamentali.
Il primo è che viene a negare la responsabilità del capitalismo anche più sviluppato nella oppressione di popoli e di nazionalità. La mortificazione spesso spietata di gruppi umani particolari, individuati per la razza o la cultura, è utilmente mantenuta dal capitalismo e dall’imperialismo ai fini dell’interesse di classe e di conservazione e non troverà fine che con essi.
Il secondo perché, rinchiudere ciascun popolo, grande o minuscolo, in un delimitato territorio e difeso da uno Stato può essere talvolta un necessario trapasso difensivo e progressivo, ma, preso a modello permanente, semplicemente nega tutta la storia del genere umano, una volta uscito dalla fase della sua differenziazione biologica, che è stata di successive migrazioni tra un continente e l’altro in una crescente mescolanza e contaminazione. Immaginare oggi confini “perfetti” non significa altro che opporsi alla società unica che sta spontaneamente sbocciando, sintesi superiore di tutte le culture e di tutto il loro faticoso e sofferto percorso intellettuale, le quali tutte rivivranno nel pensiero universale dell’uomo.
7) Tra quanti si danno da fare a disegnare i nuovi atlanti geografici secondo quel principio, prendiamo in considerazione quello del colonnello Ralph Peters della National War Accademy degli Stati Uniti perché, come gli accordi Sykes-Picot, ridisegna tutta l’area del Medioriente. Ovviamente non viene fatta propria ufficialmente dall’amministrazione americana, ma nemmeno è stata sconfessata: sta lì e potrebbe tornare utile. Sulla scia della teoria di Huntington sugli scontri religiosi causa dei prossimi conflitti, disegna alcuni Stati che non mutano di territorio ed altri che lo riducono allo scopo di addivenire a questa omogeneità.
Tra questi la Turchia perde ad oriente in favore di un grande Kurdistan. Iran, Afghanistan e Pakistan perdono territori che vanno a formare un nuovo Stato: il Belucistan. Lo Yemen sottrae territori all’Arabia Saudita, rinominata Territorio Indipendente della Patria Saudita, che a sua volta sarebbe smembrata per formare un Sacro Stato Islamico con La Mecca e Medina. Anche Armenia e Azerbaijan si estendono a scapito dei vicini. Israele tornerebbe ai confini del 1967, si formerebbe una Grande Giordania, si amplierebbe il Libano. La Siria cederebbe territori, l’Iraq verrebbe tagliato in due con a nord un Iraq sunnita e a sud, partendo da Baghdad si formerebbe uno Stato arabo sciita con due stretti lembi di territorio attorno al Golfo Persico con Bandar Abbas da un lato e fino al Qatar dall’altro.
Anche i “cartografi” del neonato SIIL (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) hanno tracciato sulle mappe i confini che pretendono realizzare, comprendenti tutto l’attuale Iraq con il Kuwait, tutta la Siria, il Libano, la Palestina e la Giordania, facendo sparire Israele.
Entrambi i progetti, interessando un’area così estesa e vitale, non potranno trovare attuazione per via diplomatica, pacifica e per piccoli passi, ma solo a seguito di sconvolgenti eventi bellici di estensione mondiale. L’esito di questa guerra – se la rivoluzione comunista non avrà prima disarmato e costretti all’impotenza tutti i borghesi – stabilirà chi sarà a tracciare i confini dei nuovi atlanti. Come fu a Yalta.Il capitalismo, per le sue dittatoriali leggi economiche, ha sempre meno briciole da dare alla classe lavoratrice d’Occidente che, a ritmo più o meno accelerato, vede peggiorare le sue condizioni di vita e di lavoro, spinte verso quelle del proletariato del resto del mondo. Sta finendo sotto i nostri occhi l’illusione del capitalismo “buono”, dispensatore di benessere anche per i salariati. Con essa crollerà l’altro grande mito: quello della democrazia, che si rivelerà fondata solo sulla pace sociale ossia sull’annullamento politico della classe lavoratrice.
Quando i lavoratori, spinti dalla necessità, disseppelliranno finalmente l’ascia di guerra, con veri scioperi – a oltranza, con picchetti che blocchino l’ingresso di merci e crumiri, che si estendano al di sopra delle aziende e delle categorie allargando l’unione della classe – il capitalismo calerà la maschera democratica per mostrare il vero volto della dittatura borghese.
Meno i falsi schieramenti “di destra” e “di sinistra” hanno da prospettare ai lavoratori, più sono costretti, per nasconderlo, a strillare, scapigliarsi e agitare falsi spauracchi. Come nei film di Hollywood, si cerca rimedio alla mediocrità del copione negli “effetti speciali”. Gli opposti schieramenti borghesi, coi loro “grilli parlanti”, hanno il superiore interesse comune di tenere in vita il cadavere della democrazia perché questa è la miglior garanzia della pace sociale contro la lotta di classe. I lavoratori devono restare prigionieri dell’idea secondo cui la difesa dei loro interessi debba passare ogni quattro anni per il collo di bottiglia delle elezioni e svolgersi per il resto della legislatura nell’aula parlamentare.
Oggi la classe dominante dà in pasto ai lavoratori il boccone avvelenato dell’idea per cui al Popolo – indistinta comunità nazionale con la quale si vuole nascondere la sua divisione in classi – si contrapporrebbe una “casta” di privilegiati composta dai funzionari degli apparati istituzionali, partitici, sindacali. In questo modo la classe dei capitalisti, cioè la dirigenza dei grandi gruppi industriali e finanziari nazionali ed internazionali, che detiene il reale potere economico e politico in tutto il mondo e lo esercita attraverso le macchine statali nazionali, si nasconde frapponendo fra sé e i lavoratori la schiera dei suoi servitori.
Devono far credere ai lavoratori che il capitalismo li affama perché “mal gestito” dalla “casta”. Nulla di più falso. In crisi sprofondano tutti i paesi, anche quelli che, nella nostra italietta, si raccontano essere più virtuosi e meno corrotti: dalla Francia agli Stati Uniti, dal Giappone all’Inghilterra, fino all’Irlanda e all’Islanda! Non è vero che certi paesi abbiano pagato meno la crisi, o ne siano persino usciti, grazie all’onestà e all’efficienza dei loro governi. La Germania, ad esempio, è l’unico paese in Europa ad aver appena messo il naso fuori dalla recessione grazie alla sua potenza economica e finanziaria, che le ha permesso, per ora, nella concorrenza fra i capitalismi nazionali, di stare un po’ più a galla a discapito dei concorrenti più deboli. Ma con l’avanzare della crisi, inevitabile perché è il capitalismo in sé che non funziona ed è destinato al crollo economico, tutti i capitalismi nazionali cadranno uno dopo l’altro come i pezzi di un domino.
Che i politicanti borghesi siano individui corrotti e spregevoli è inevitabile perché tale è la loro economia. Ma anche nell’ipotesi che fossero di specchiata onestà non potrebbero evitare il crollo economico del capitalismo e sarebbero ugualmente costretti, per cercare inutilmente di evitarlo, ad aumentare lo sfruttamento dei lavoratori.
Ecco perché in tutti i paesi governi di ogni colore e aziende applicano le stesse misure contro i lavoratori: aumento della flessibilità, riduzione dei salari, licenziamenti, aumento della produttività, smantellamento dello stato sociale. Chi vuole conservare il capitalismo deve sottostare alle sue leggi economiche!
La strada per la difesa degli interessi della classe lavoratrice va contro il capitalismo, la sua economia e le sue “sacre” istituzioni, prima fra tutte il parlamento.
La via per la liberazione dei lavoratori è quella della
lotta: unire
le
tante battaglie che oggi i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl)
tengono isolate dentro le aziende costituendo in ogni posto di lavoro comitati
di lotta che si uniscano in coordinamenti territoriali per
condurre scioperi sempre più estesi, prolungati e unitari per i
comuni
obiettivi. Questa strada condurrà alla rinascita del
Sindacato di
Classe necessario per battersi per i soli obiettivi che uniscano
veramente tutti i lavoratori:
- forti aumenti salariali maggiori per categorie peggio pagate;
- riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di
salario;
- salario base per i lavoratori licenziati.
Battendosi per questi obiettivi economici ai lavoratori diverrà chiaro chi sono i loro nemici e i loro falsi amici, come la democrazia sia solo la maschera di un potere detenuto da una sola classe sociale, la borghesia, e come il loro solo obiettivo politico sia la conquista rivoluzionaria del potere. Per questo scopo torneranno a impugnare l’arma principe della classe operaia – il loro partito rivoluzionario dei lavoratori – il Partito Comunista Internazionale.
Una riunione di partito densa di
lavoro
Genova 24 e 25 maggio 2014
[RG119]
Corso della crisi economica dal dopoguerra ad oggi [ resoconto esteso ] | Course of the economic crisis in the realm of production and finance |
Le lotte sindacali e l’attività del partito [ resoconto esteso ] | |
La successione dei modi di produzione | Succession of the forms of production in the Marxist theory |
Il concetto e la pratica della dittatura - Prima di Marx [ resoconto esteso ] | Concepts of dictatorship before Marx |
Le società dell’India antica | The history of India and the establishment of capitalism |
Considerazioni sulla cosiddetta “democrazia sindacale” | The party’s activity in the Trade Unions |
Marx ed Engels sulla storia e la questione irlandese [ resoconto esteso - en français ] | The national question and the history of Ireland |
La questione militare: le guerre coloniali italiana e inglese contro i boeri [ resoconto esteso ] | The military question |
Origini del movimento in Italia: La Seconda Internazionale[ resoconto esteso ] | Origins of the labour movement in Italy |
Nel massimo ordine ed impegno si è svolta la periodica riunione del partito, in un metodo di lavoro che siamo fieri di vantare del tutto estraneo ed opposto ai moduli della presente società borghese, privo di concorrenza fra gruppi ed individui e fra tesi. Non lo crediamo possibile solo per la esigua dimensione della nostra attuale compagine di militanti e breve raggio di influenza, al contrario siamo certi che informerà domani anche il partito mondiale del comunismo e combattente i suoi nemici con i metodi della guerra civile.
Dimostrazione piena della sua superiorità sono i risultati del nostro lavoro, dei quali qui diamo agli assenti e ai lettori un breve sunto e che troveranno completa presentazione nella rivista Comunismo.
Il rapporto sul Corso della crisi economica dal dopoguerra ad oggi è già pubblicato in “Comunismo” n. 76, appena uscito e che dovrebbe in questi giorni essere già arrivato ai compagni e agli abbonati, è sul sito del partito, e ad esso rimandiamo.
Su Le lotte sindacali e l’attività del partito in esse tre compagni hanno riferito in merito. Il loro rapporto è riprodotto in questo stesso numero nelle pagine di “Per il sindacato di Classe”.
Il concetto e la pratica della dittatura - Prima di Marx
Il pensiero di Rousseau ha una enorme importanza in quanto base ideologica della rivoluzione francese.
Nella “Origine della disuguaglianza” del 1754 troviamo una critica della proprietà privata, eccessiva per i rivoluzionari dell’89 e del ’93, ma non per Babeuf: «il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile».
Ciò che sarà davvero importante nell’elaborazione dell’ideologia repubblicana e giacobina è però un altro concetto, quello di “diritto naturale”, concetto non certo nuovo ma che subisce una trasformazione notevole. Rousseau polemizza con il giusnaturalismo di Hobbes, di Locke, Pufendorf e Grozio, che considera una pura giustificazione dell’esistente e dei suoi rapporti di forza. Il “contratto sociale”, di cui si era parlato fino ad allora, era solo un inganno.
Ancora dall’”Origine della disuguaglianza”: «il ricco, spinto dalla necessità, alla fine ideò il progetto più meditato di quanti siano mai stati nell’intelletto umano: e fu di usare a suo vantaggio le forze stesse di coloro che lo assalivano, di trasformare i suoi avversari in suoi difensori, di ispirare loro delle altre massime e di dare loro delle altre istituzioni che gli fossero altrettanto favorevoli quanto il diritto naturale gli era contrario». Ancora: «La sommossa che finisce con lo strangolare o deporre un Sultano è un atto altrettanto giuridico quanto lo erano quelli con cui egli disponeva della sorte delle vite e dei beni dei suoi sudditi. La sola forza lo teneva in piedi, la sola forza lo rovescia».
L’uguaglianza naturale, considerata uno degli imprescrittibili diritti naturali dell’uomo, si trasforma in uguaglianza giuridica e politica, sancendo così l’ineguaglianza reale, che acquista forza e stabilità. Lo Stato è quindi visto come strumento di una classe privilegiata contro un’altra classe, con lo scopo di mantenere i privilegi esistenti.
Per noi comunisti il diritto si identifica con la forza. Questo valeva anche per Rousseau nelle società che osservava, ma egli credeva possibile una società diversa, basata sulla “legge di natura” e sui “diritti dell’uomo”, in cui il diritto, e quindi la politica, o nel suo caso, meglio ancora la morale, avessero una autonomia e una preminenza sulla struttura sociale ed economica, creando e informando di sé una società guidata dalla “volontà generale” e non più da “volontà particolari” travestite da generali.
Questa fu la tragica illusione dei giacobini e dei rivoluzionari più conseguenti, che pensando di fondare la repubblica sulla virtù e sui diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo, la portarono alla sconfitta. La nuova classe borghese nata con la rivoluzione si riprese ciò che era suo, distruggendo le gabbie ideologiche e istituzionali che pure le erano state utili, ma che andavano ora sostituite con altre più funzionali alle proprie esigenze di dominio pieno dell’apparato statale.
Nell’opera più famosa del ginevrino, “Il contratto sociale”, del 1762, leggiamo che «l’uomo è nato libero, ma dovunque è in catene. Anche chi crede di essere padrone degli altri è più schiavo di loro». «Quando la forza determina il diritto, l’effetto si fa causa». «La costituzione di uno Stato è veramente solida e duratura, quando le regole sono osservate in modo che i rapporti naturali e le leggi convergano sugli stessi punti e che queste non facciano che assicurare, seguire, rettificare i primi».
Quindi per Rousseau la legge può rettificare i rapporti naturali, e quindi la diseguaglianza naturale, forzando la legge di natura, la libertà della stessa e degli uomini. Quando esamina le forme di governo, pur elogiando la repubblica e la democrazia, le considera molto instabili ed adatte a paesi molto piccoli. Con la rivoluzione americana del 1776 molti illuministi cambieranno idea, abbandonando il pessimismo di Rousseau davanti alla possibilità ed ormai alla realtà di una repubblica democratica in un paese di grandi dimensioni.
Possiamo dire che per il ginevrino la società non più oppressa ed oppressiva esiste solo dove domina la volontà generale, che non è la somma delle singole volontà, ma una volontà collettiva e impersonale che coincide con l’interesse del corpo sociale. Tale volontà può anche limitare diritti di natura, che in quanto tali deve difendere essa stessa finché non entrino in contrasto con la vita, la libertà e la giustizia della società, più importante di quelli dei singoli, e la società, se non sottomessa alla volontà generale, si trasforma presto nella schiavitù di tutti.
Tra i diritti inalienabili egli mette anche la proprietà, in contraddizione almeno apparente con quanto già scritto. In realtà il suo ideale, nell’impossibilità di tornare al comunismo primitivo, è quello di una società di artigiani e piccoli contadini.
Nella rivoluzione francese, quando i giacobini limiteranno il diritto di proprietà, anche da essi ritenuto sacro, nell’interesse superiore della rivoluzione, che era quello di sfamare i sanculotti e i soldati, potranno a buon diritto proclamarsi seguaci di Rousseau, del quale avevano portato alle estreme conseguenze le idee ma, in questo caso, senza stravolgerle.
Sulla dittatura leggiamo: «L’inflessibilità delle leggi, per cui non possono piegarsi agli avvenimenti, può, in alcuni casi, renderle dannose e causare la rovina dello Stato nella sua crisi. L’ordine e la lentezza delle forme richiedono uno spazio di tempo che talvolta le circostanze non danno, si possono presentare mille casi non previsti dal legislatore; ed è previdenza necessaria rendersi conto che non si può prevedere tutto. Non bisogna dunque voler consolidare le istituzioni politiche sino a togliersi il potere di sospenderne l’effetto. Sparta stessa ha lasciato dormir le sue leggi».
Naturalmente, quando Rousseau, come molti altri, parlava di dittatura pensava a Cincinnato e ad altri esempi tratti dalla storia greca e romana. Saranno i giacobini, anch’essi permeati del mito di Sparta e della Roma repubblicana, a trasformare la pratica, e in misura minore il concetto, classici di dittatura.
Nel fuoco della rivoluzione e della guerra sarà quindi forgiata la nuova e potente arma: la dittatura rivoluzionaria.
Il compagno ha introdotto il primo rapporto storico sull’India ribadendo le linee principali del nostro metodo che, materialista e dialettico, pone le fondamenta dell’analisi di qualsiasi periodo storico principalmente sulle condizioni geofisiche, sociali ed economiche in cui l’uomo si trova a vivere ed in altri fattori cardine quali il livello raggiunto dai rapporti di produzione e la variabile intensità della lotta fra le classi. Per noi comunisti si tratta di delineare la dialettica sequenza storica delle forme sociali di produzione. È con questo metodo che affrontiamo la storia dell’India per tendere ad inquadrare l’attuale capitalismo indiano, denunciando nemici e smascherando i numerosi falsi amici del numericamente poderoso suo proletariato.
La cadenza delle forme sociali e dei rapporti economici nel subcontinente indiano è descritta da Marx dalla forma primaria, o comunismo primitivo, all’attuale modo di produzione capitalista, passando per il modo di produzione di tipo asiatico.
La variante asiatica del secondo modo di produzione è profondamente determinata dalle condizioni climatico-geografiche in cui si diffonde. Se nelle zone europee l’acqua piovana irriga la terra in quantità sufficiente o può essere contenuta in piccole riserve nei periodi di siccità, in Asia o in Nord Africa, dove le precipitazioni sono insufficienti o irregolari, l’agricoltura è possibile solo grazie una razionale distribuzione dell’acqua tramite un efficiente sistema di irrigazione a grande scala, realizzabile solo da comunità di uomini associati e disciplinati in modo centralizzato. La chiave di volta dello sviluppo della variante asiatica sarà quindi uno Stato che tutto ingloba e nel quale si concentrano i legami comunitari.
La scarsità di documenti ha reso per diversi secoli lacunoso lo studio sulla storia dell’India antica, basti pensare che l’80% della documentazione sull’era pre-islamica aveva origine esclusivamente dalla tradizione orale. Solo dal 1900, grazie principalmente alle scoperte archeologiche, sono state confermate o smentite le numerose lezioni tramandate nei secoli.
La prima società stanziale nel Neolitico ha luogo con la comunità di Mehrgarh, una popolazione che inizia a sedentarizzarsi instaurando rapporti reciproci tra i cacciatori-raccoglitori e gli agricoltori, che tendono progressivamente ad urbanizzarsi. Le forme di distribuzione sono ancora collettive perché condizionate dalla forza produttiva principale, la comunità.
Per la prima civiltà urbana dobbiamo spostarci nella valle dell’Indo a Mohenjo Daro, Lothal e Harappa. A partire dal 4000 a.C. i Dravidi, popolazioni probabilmente originarie del Medio Oriente, penetrarono nel subcontinente da ovest e si stanziarono nel bacino dell’Indo e del Gange, fino a coprire tutta l’India centrale. Ed è proprio a loro che si deve la nascita della Civiltà della valle dell’Indo, che ebbe uno sviluppo comparabile alle coeve civiltà egizie e mesopotamiche. Essa raggiunse la piena maturità fra il 2500 e il 2000 a.C., per poi entrare in una fase di decadenza dal 17° secolo e scomparire del tutto nel corso del 16°.
La civiltà dell’Indo conosceva la scrittura e praticava l’addomesticamento di diversi animali ma non del cavallo, lavorava il rame e il bronzo ma non il ferro ed utilizzava vasellame di terracotta. L’agricoltura, basata sulla coltivazione di frumento e orzo e la produzione di cotone, era molto sviluppata ma si limitava ai bacini fluviali.
Seppure alcune sfumature della struttura della società vallinda rimangano nel campo delle ipotesi, sappiamo con certezza che la sua base economica era prettamente agraria e che i rapporti commerciali con le contemporanee civiltà mesopotamiche erano intensi.
Società priva di Stato, di proprietà privata dei mezzi di produzione e senza legge del valore al suo interno, che ha avuto indiscutibilmente un’armonica, potremmo dire comunistica, organizzazione della vita sociale, con una divisione del lavoro tra contadini, sacerdoti e guerrieri. La transizione dalla caccia e raccolta nomade all’agricoltura urbanizzata e all’allevamento stanziali non ha immediatamente generato una opposizione di classi, anzi ha potenziato il lavoro della comunità, grazie all’ambiente naturale estremamente favorevole.
Le ragioni del crollo di questa civiltà sono genericamente imputate all’invasione del subcontinente da parte di popoli conosciuti come Arya o Indo-arya, parte dell’ondata di invasioni iniziata nel 1700 a.C. Erano nomadi appartenenti al gruppo indo-iranico dei popoli indoeuropei, che penetrarono nel subcontinente indiano a partire dal 2° millennio, subentrando alla civiltà della valle dell’Indo e imponendosi su un ampio territorio. Sebbene vi siano diverse teorie sulla loro provenienza sembrerebbe che la loro origine fosse nelle steppe dell’Asia centrale, dove vivevano principalmente di pastorizia e dell’allevamento dei cavalli. La struttura della loro società era suddivisa in tre classi principali: i sacerdoti, i guerrieri e i produttori. La loro tecnica di combattimento era rivoluzionaria in quanto basata su carri da guerra trainati da cavalli montati da un auriga e da un guerriero con armi di bronzo. A differenza dei vallindi, in cui l’animale di maggiore importanza era il bue e che conoscevano la scrittura basata sull’alfabeto dravidico, per gli Arya importante era il cavallo; avevano una base economica nomade, parlavano una lingua indoeuropea e non conoscevano la scrittura. Inoltre gli Arya non edificavano, salvo rare eccezioni, edifici in muratura.
Nel periodo rigvedico, cioè corrispondente alla composizione del Rig Veda, la società degli Arya rimase essenzialmente tribale e pre-urbana, caratterizzata dalla graduale evoluzione dalla pastorizia e dal nomadismo a una vita sedentaria fondata principalmente sull’agricoltura. La società vedica era permeata da peculiari stratificazioni sociali che determinavano legami di natura religiosa e rituale. Non esisteva ancora né la proprietà della terra né una vera e propria forma di tassazione. Tuttavia, la crescita dell’importanza sociale dei sacerdoti, brahmani, fece sì che queste imposte divennero sempre meno volontarie. Secondo la visione del mondo dei brahmani la celebrazione di riti generavano forze che determinavano il funzionamento del Cosmo obbligando gli stessi Dei a comportarsi secondo il volere dei sacerdoti. Non vi è dubbio che all’origine del potere di questa classe c’era quindi la capacità di saper organizzare il fondamentale ciclo agricolo utilizzando preziose conoscenze d’astronomia.
Per l’India i secoli che vanno dal VI alla fine del IV comprendono il periodo fra la conclusione dell’epoca vedica e il momento in cui si compì la sua prima unificazione imperiale. Il diffondersi di una civiltà urbana in tutta la vallata gangetica a partire dal VI secolo a.C. fu l’espressione più visibile di una serie di profondi mutamenti economici e sociali.
Si completò il processo di sedentarizzazione accompagnato dal prevalere dell’agricoltura. Un’agricoltura, sulle terre migliori, che permetteva un livello di vita della popolazione rurale superiore a quello odierno, anche se il mondo agricolo oramai da tempo aveva iniziato ad esser dominato da una classe di agiati proprietari fondiari. Nel mondo rurale i proprietari terrieri più o meno agiati si separarono dai contadini senza terra.
(I sunti degli altri rapporti, compresa la conclusione di questo sull’India antica, saranno pubblicati nel prossimo numero).
Anche la merce forza lavoro deve concedersi just in time
(Segue dal numero scorso)
La risonanza del metodo che da Ford prendeva il nome spinse una delegazione di industriali, guidata da Giovanni Agnelli, l’allora presidente della neonata Fiat, a recarsi a Detroit per studiarlo. Ritornati a Torino nel 1916 affidarono a un gruppo di ingegneri l’incarico di progettare uno stabilimento ove concentrare tutte le operazioni delle varie officine sparse nella città adottandovi quel nuovo tipo di lavorazione. Sorse quindi lo stabilimento del Lingotto che iniziò a produrre a pieno regime dal 1928 fino al 1982, quando fu chiuso, vittima e simbolo della crisi economica iniziata nel 1973.
Il sistema si perfezionò adeguandosi alle nuove tecnologie fino agli anni ’70-’80. Per migliorare l’approvvigionamento delle merci in entrata e la giacenza dei prodotti finiti si giunse alla “filosofia industriale” del “just in time”, ovvero “appena in tempo”, che esaspera la razionalizzazione della gestione delle scorte. Occorreva un affidabile e veloce sistema di prelievo e consegna merci in piccole quantità per assicurare lo scorrere della produzione e le consegne del prodotto finito. Questa “filosofia” è evidentemente il prodotto di una fase calante, irregolare e imprevedibile della domanda, la nostra classica “palude del mercato”, flebili e stravaganti fiammelle che debbono essere inseguite alla svelta prima che si spengano. Qualsiasi scorta di materiale e prodotto finito è uno spreco sia di capitale costante e di capitale fisso immobilizzato in piazzali e magazzini, sia per il rischi che la domanda non richieda più quel tipo di materiali o di prodotti finiti. Per rincorrere il mercato il ciclo produttivo deve essere il più corto possibile nella somma dei tempi di progettazione e di produzione. A profitti non aumentabili, si cerca di aumentare il suo saggio diminuendo il capitale investito.
Questo avviene anche nei confronti della forza lavoro che, come tutte le altre merci, non deve giacere inoperosa nelle officine. Ecco quindi che saltano i vecchi contratti a tempo indeterminato, occorre un numero di lavoratori impiegati stabilmente ridotto al minimo, integrati con un esercito industriale di riserva più esteso, flessibile alle “mutate esigenze” della produzione capitalistica, cioè alla sua crisi.
Per qualche tempo, quando l’economia tirava, alcuni capitalisti “illuminati” cercarono di combinare il profitto aziendale, che comunque doveva essere garantito in crescita, con condizioni di lavoro meno dure, anche allo scopo, per nulla filantropico, di ridurre al minimo lo scontro tra capitale e lavoro, la lotta di classe, quel “capitalismo dal volto umano” frutto del “benessere” e che avrebbe dovuto allontanare per sempre lo spettro della rivoluzione proletaria. Per questo noi consideriamo questi capitalisti di “sinistra” i peggiori nemici della ripresa della lotta proletaria.
Un esempio significativo in Italia fu avviato dalla Olivetti di Ivrea negli anni ’70 a ridosso dei grandi scioperi operai e del movimentismo del “’68”. L’esperimento fu possibile anche per la particolare produzione dell’azienda che gestiva, quasi in esclusiva in Italia e con prestigio mondiale, il settore delle macchine da ufficio. L’Olivetti si rifaceva alle esperienze di grandi imprese, dalla Philips all’IBM, sulla rotazioni delle mansioni, l’attribuzione al lavoratore di un maggior numero di operazioni o di funzioni più qualificate, come il controllo e la riparazione delle parti che aveva prodotto, il lavoro a gruppi, l’adozione di mini catene di montaggio per piccole parti del prodotto. Nella pretesa di superare lo schema della catena di montaggio taylorista organizzava la produzione tramite Unità di Montaggio Integrate. Ogni UMI era formata da un gruppo da 10 a 30 operai con il compito di montare, collaudare ed eventualmente riparare i prodotti. Si ottenevano così dei vantaggi produttivi che andavano a compensare le migliori paghe dei dipendenti.
Questo modello, adottato anche da altre industrie, sarà abbandonato a cavallo degli anni ’80 e ’90, sia per il soccombere dell’azienda sotto la concorrenza commerciale e imperialistica internazionale, sia per l’introduzione di nuovi sistemi di automazione che vennero a semplificare ulteriormente le mansioni dell’operaio, sia per la delocalizzazione delle produzioni verso l’Est europeo e l’Estremo Oriente, dove il costo della forza lavoro era molto più basso.
Il “modello Apple”
In questi anni si è molto esaltata la bontà del sistema di lavoro nella Silicon Valley e dintorni californiani, sede delle più importanti società di informatica del mondo. Qui il lavoro si svolgerebbe in ambienti confortevoli (quasi una ricreazione, con palestre, saune, mense gratuite, ecc.) a riprova della “correlazione positiva” fra i grandi profitti di questi giganti e il benessere dei dipendenti. La realtà è ben diversa. Innanzi tutto, a fronte degli stipendi milionari dei dirigenti, l’enorme stuolo dei tecnici e dipendenti ha stipendi molto bassi, come provano anche i loro scioperi in America e in Europa. I ritmi di lavoro sono stressanti, gli straordinari obbligatori, difficili le promozioni in una artificiale competizione e sotto duri controlli.
E il rovescio di questa medaglia di oro falso si trova lontano-vicino, nelle infernali fabbriche cinesi della Foxconn dove vengono assemblati i computer “designed in California, made in China”. La taiwanese Foxconn impiega in Cina oltre un milione di dipendenti in diversi stabilimenti fra cui il maggiore con oltre 300.000 a Shenzen. Ogni anno si contano una ventina di suicidi fra i giovani operai, alcuni anche minorenni, per gli intollerabili ritmi di lavoro e per le condizioni di segregazione all’interno delle fabbriche-dormitorio.
I nodi del capitalismo vengono al pettine e appaiono tremendamente evidenti nei momenti di crisi quando i lavoratori sono considerati un impiccio, uno “spreco”.
Sappiano i lavoratori che nel capitalismo il lavoro, per quanto ben organizzato e “umanizzato”, è sempre e solo sfruttamento. Le moderne tecniche riducono a ben poco la parte della giornata di lavoro necessaria a produrre il proprio salario, il resto è solo pluslavoro incamerato dal capitalista, forte delle leggi della società borghese.
Solo il superamento del capitalismo e del suo sistema produttivo con la rivoluzione proletaria potrà eliminare quest’infame sfruttamento e organizzare la produzione dei beni necessari con un attento piano di specie, avendo eliminato il profitto legato alla proprietà privata. Cronometri ed orologi nei luoghi di lavoro non saranno più necessari perché la frase “il tempo è denaro” non avrà più alcun senso.Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Il rapporto sulla attività sindacale è stato svolto congiuntamente da tre compagni.
Il primo ha riepilogato l’attività nei quattro mesi
dall’ultima
riunione generale. Questi i nostri interventi, con volantini
appositamente redatti:
- alle manifestazioni del SI Cobas del 1° febbraio a Bologna e
dell’11
maggio a Piacenza;
- il 1° Maggio, in Italia, alla manifestazioni dei sindacati
confederali a Milano, Torino e Pordenone, a quelle del SI Cobas a
Bologna e Piacenza; all’estero a Parigi, Liverpool, Londra e in
Venezuela;
- il 7 marzo a Porcia (Pordenone) alla manifestazione dei lavoratori
del gruppo Electrolux e il 17 maggio, ancora davanti alla fabbrica di
Porcia, a seguito della firma da parte di Fim, Fiom e Uilm dell’accordo;
- il 29 aprile alla manifestazione dei lavoratori della Piaggio
Aeronautica in sciopero a Sestri Ponente (Genova);
- il 16 maggio alla manifestazione dei lavoratori ABB, ancora a Sestri
Ponente.
Sulla nostra stampa abbiamo commentato lo sciopero a oltranza di 22 giorni, a dicembre scorso, dei portuali cileni, la rivolta di operai e disoccupati a febbraio in Bosnia, lo sciopero dei minatori del platino in Sud Africa, iniziato a gennaio e conclusosi dopo cinque mesi.
È stata quindi esposta l’attività dei nostri compagni in Venezuela, impegnati per l’affermazione dell’indirizzo sindacale comunista nella FLEC (Federacion Laboral del Eje Costero, Federazione del Lavoro dell’Asse Costiero), un coordinamento da poco costituitosi di sindacati di singole aziende negli Stati di Carabobo e Falcón. I nostri compagni hanno redatto una proposta di “Manifesto Costitutivo per la FLEC”, formato da una premessa, in cui sono affermati gli assunti fondamentali di un sindacato di classe sul capitalismo, una serie di “Principi della FLEC” e una “Piattaforma di Lotta”, da diffondere fra i lavoratori e i delegati aderenti e per cui battersi negli incontri costitutivi della federazione.
Lo sciopero ai mercati generali di Torino
In Italia, abbiamo potuto svolgere una attività continuativa a Torino, nell’organizzazione locale del SI Cobas, e a Pordenone, al presidio dei lavoratori alla fabbrica Electrolux di Porcia. Due compagni hanno reso conto di questa attività.
A Torino il SI Cobas era riuscito, in circa due anni di attività, sino a maggio scorso, ad organizzare i lavoratori di alcune cooperative, con scioperi di cui abbiamo in parte reso conto: alla Battaglio e alla 3M nel sito logistico di Orbassano, alla Perla e alla Cooperativa 2008 nel CAAT (Centro Agro Alimentare, i mercati generali), alla SDA di Settimo Torinese. L’organizzazione restava esile e sempre minacciata di essere spazzata via la sua presenza fra i lavoratori di queste aziende. Dopo una certa titubanza è stato finalmente costituito un coordinamento dei delegati, con l’obiettivo di riunire, unitamente, al di sopra delle divisioni aziendali, gli iscritti più attivi, con una periodicità di un incontro ogni due settimane.
A maggio scorso però un grande sciopero ha permesso al SI Cobas torinese di crescere notevolmente e di porre delle basi realmente solide alla sua attività. Cinque lavoratori iscritti della Cooperativa 2008 del CAAT sono stati sospesi, provvedimento che avrebbe portato al licenziamento. Militanti e lavoratori del sindacato hanno così organizzato un volantinaggio in due turni, a mezzanotte e alle prime ore del mattino, all’ingresso dei mercati generali di Torino, nei pressi di Grugliasco, dove lavorano circa 1.500 operai, suddivisi in oltre 40 cooperative. Fra i due e trecento lavorano in nero. Durante il volantinaggio numerosi lavoratori si sono fermati a parlare e ne è nata una assemblea. È stata così organizzata, per il sabato successivo, il 18 maggio, una riunione nella sede territoriale del sindacato, durante la quale una trentina di operai del CAAT presenti si sono espressi con decisione a favore dello sciopero, per il ritiro del provvedimento di sospensione contro i cinque e per miglioramenti normativi e salariali per tutti.
La voce dello sciopero è stata fatta girare fra i lavoratori. La notte di giovedì 23 maggio operai e militanti del SI Cobas si sono radunati all’ingresso facendo partire lo sciopero. L’adesione è stata massiccia, superando anche le aspettative degli organizzatori. I lavoratori hanno partecipato attivamente al picchetto, scontrandosi duramente con la polizia, la cui carica per rompere il blocco è stata respinta. A notte inoltrata erano radunati davanti ai cancelli oltre trecento operai e la coda dei camion, lunga ormai alcuni chilometri, arrivava in tangenziale. Al cambio di turno, all’alba, lo sciopero andava avanti.
Alle prime ore del mattino la Cooperativa 2008 comunicava il ritiro del provvedimento di sospensione per i cinque operai e la dirigenza del CAAT chiedeva un incontro coi rappresentanti del SI Cobas, nonostante questo sindacato non abbia alcun riconoscimento ufficiale da parte aziendale. Una conferma che il problema del riconoscimento sindacale si risolve sul piano della forza. All’incontro la parte padronale si è detta genericamente disposta a cedere alla piattaforma rivendicativa presentata dal SI Cobas: applicazione del Ccnl trasporti e logistica, salario base per tutti di 8 euro l’ora, assunzione dei lavoratori in nero, assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori che da più anni lavorano con contratti precari, predisposizione di una saletta sindacale interna ai mercati.
Su quest’ultimo punto i nostri compagni hanno espresso delle perplessità perché vi è il timore che ciò distolga i lavoratori dal recarsi nella sede territoriale del sindacato, il che è necessario per vincere la tendenza, generata in modo spontaneo dall’organizzazione produttiva capitalista, a chiudere la propria visione ed attività sindacale entro i confini aziendali.
I giorni successivi allo sciopero un considerevole numero di lavoratori del CAAT ha aderito al SI Cobas e una consistente minoranza di questi ha preso a riunirsi ogni sabato nella sede sindacale. Un patrimonio di partecipazione dei lavoratori alla vita del sindacato che nemmeno la CGIL può vantare, con le sue finte Camere del Lavoro che si riempono e si svuotano secondo gli orari di ufficio di funzionari e impiegati, con i lavoratori che vi si recano individualmente solo per adempiere alle pratiche fiscali o legali, non per organizzare la lotta, mentre gli iscritti disertano le assemblee congressuali.
Su indicazione dei nostri compagni, inizialmente il pagamento delle quote sindacale è avvenuto per via diretta, versando i soldi in mano ai militanti del sindacato, e non col deleterio metodo collaborazionista della delega, che comporta la consegna della lista degli iscritti all’azienda e il passaggio per le sue casse dei fondi del sindacato. Certo, ciò richiede lo sforzo di uno o più iscritti per ogni azienda nella raccolta delle quote. Ma è proprio questa una delle strade per cui passa l’impegno e la partecipazione dei lavoratori alla vita sindacale.
Purtroppo due mesi dopo lo sciopero il dirigente locale ha voluto ed è riuscito a passare al pagamento con delega. Pochi giorni dopo un iscritto, che da ventanni lavorava per una delle cooperative maggiori, è stato licenziato. Episodi analoghi vi sono stati in altre aziende in cui il SI Cobas ha consegnato la lista delle deleghe. Se non si può imputare solo a questo insensato canale di finanziamento la ragione del licenziamento degli iscritti, è certo che lo favorisce.
Nella riunione il sabato successivo allo sciopero sono stati scelti una trentina di lavoratori per la partecipazione alle trattative con le aziende. Vi sono stati quindi una serie di incontri con le cooperative, l’assessorato al lavoro del Comune di Torino, la presidenza del CAAT e rappresentanti delle forze dell’ordine. Essendo coinvolte una quarantina di aziende la trattativa ha richiesto un certo tempo. Si è creata una frattura fra le aziende maggiori, almeno a parole disposte a cedere alle richieste dei lavoratori, e quelle più piccole, che in alcuni casi non reggerebbero all’aumento del costo del lavoro. Le prime sono in parte interessate a debellare la concorrenza al ribasso delle seconde. Il SI Cobas ha chiarito, ai lavoratori e alle aziende, che nel caso in cui i miglioramenti salariali e normativi comportino la chiusura di alcune cooperative, tutti i lavoratori dovranno essere assunti dagli altri operatori del CAAT.
Il 6 giugno, una nuova sospensione ha colpito un lavoratore in una cooperativa. Tutti i suoi compagni sono scesi in sciopero a sua difesa e dopo poche ora l’azienda ha ritirato il provvedimento.
Passato oltre un mese senza che vi fosse una concreta proposta aziendale il SI Cobas ha lanciato un ultimatum per il 3 luglio, scaduto il quale avrebbe organizzato un nuovo sciopero. La forza espressa dagli operai il 23 maggio ha impaurito notevolmente sia i padroni sia i rappresentanti delle istituzioni borghesi locali. È bastata la minaccia di scendere di nuovo in lotta per ottenere un primo accordo in cui è riconosciuta la paga base uguale per tutti pari a 8 euro.
La battaglia però è tutt’altro che vinta. Devono essere ottenuti gli altri obiettivi rivendicati e finché non si vedranno i soldi in busta paga non c’è da prestar fede alcuna alle parole delle aziende, che in tante altre lotte organizzate dal SI Cobas hanno firmato accordi solo per prendere tempo, per poi calpestarli. Nelle riunioni i lavoratori e i militanti sindacali hanno mostrato di averne piena consapevolezza e sono determinati ad andare fino in fondo.
L’altro principale campo di attività pratica dei nostri compagni è stata la fabbrica Electrolux di Porcia, in provincia di Pordenone, con una assidua presenza al presidio dinanzi lo stabilimento e volantinaggi all’ingresso della fabbrica e durante le manifestazioni. Abbiamo qui una situazione per certi aspetti opposta a quella degli operai del CAAT. Lì i lavoratori sono privi di ogni garanzia, sono tra i peggio pagati della classe operaia in Italia, nella gran maggioranza non sono sindacalizzati, si sono mossi all’offensiva unendosi senza esitazione, istintivamente, al di sopra delle divisioni aziendali. Alla Electrolux il controllo del sindacalismo di regime è invece ferreo. I lavoratori sono tenuti chiusi in una visione aziendale dei loro problemi, come fossero in un bunker in cui convenga rinchiudersi per difendersi dalla tempesta di condizioni peggiori all’esterno: la disoccupazione, la precarietà, salari che possono arrivare a quelli, ad esempio, dei lavoratori del CAAT. Una vana illusione. La difesa diverrà efficace unendosi in lotta con gli altri lavoratori e quindi uscendo dalla fabbrica. Così impostata la lotta si conclude, sempre, in un arretramento, presentato dal sindacalismo di regime come una vittoria solo perché meno grave di quanto inizialmente l’azienda – e loro – avevano minacciato.
Conseguenza della chiusura entro i confini aziendali è anche l’avvilimento dell’arma dello sciopero che, per i sindacati di regime, deve danneggiare il meno possibile l’azienda. Tollerano gli scioperi e fingono di sostenerli fintantoché la spinta dei lavoratori è forte, ma agiscono sempre per farli cessare il prima possibile.
La lotta alla Electrolux lo conferma. La protesta è iniziata il 28 gennaio, dopo l’annuncio della direzione di esuberi, tagli dei salari e probabile chiusura di Porcia. Qui e a Susegana è partito un blocco totale delle merci, ma non della produzione, interrotta solo da brevi scioperi quotidiani di circa un’ora e mezza. I prodotti finiti venivano accumulati nei magazzini e nei piazzali e quando questi si sono saturati e risultava impossibile andare avanti con la produzione l’azienda ha minacciato la serrata. I sindacati allora hanno allentato il blocco, permettendo l’uscita di una parte della produzione. Quindi, in sostanza, non appena la loro azione ha iniziato a diventare efficace, creando un danno sostanziale all’azienda, e questa ha fatto le sue ovvie mosse per reagire, Fim Fiom e Uilm hanno fatto marcia indietro.
Lo sciopero a oltranza, ossia il blocco completo della produzione fino all’ottenimento degli obiettivi, il vero modo di scioperare, è escluso dai sindacati di regime, che ne vorrebbero cancellato anche il ricordo. Quando alcuni lavoratori più combattivi lo propongo, lo osteggiano appoggiandosi alla parte meno determinata dei lavoratori. Questa situazione non è certo peculiare delle fabbriche Electrolux ma caratteristica di tutte le grandi fabbriche in Italia e fuori.
Quando l’azione demoralizzante di questi sindacati anti-operai non bastasse è mantenuta in efficienza la macchina repressiva statale. A Susegana, nei primi giorni di mobilitazione le forze dell’ordine controllavano i dintorni dello stabilimento, dietro segnalazioni di presenza di militanti del sindacalismo di base. Una divisione dei compiti fra sindacati di regime e corpi armati dello Stato borghese per mantenere sotto controllo i lavoratori.
Il 7 marzo a Porcia è stata organizzata una manifestazione dei lavoratori del gruppo dalle RSU Fiom, Fim e Uilm di Susegana e Porcia, che per quel giorno avevano proclamato otto ore di sciopero. I loro stessi compagni di sindacato negli altri stabilimenti, le RSU Fim, Fiom e Uilm di Forlì e Solaro (Milano), hanno boicottato la manifestazione, non proclamando lo sciopero per impedire la partecipazione dei lavoratori. Un’azione finalizzata a impedire l’unione degli operai. A Forlì a questo si erano opposte due delegate Fiom ma, disciplinate alla Fiom, hanno accettato le decisioni della maggioranza dei delegati, nonché della struttura territoriale.
È da sottolineare il comportamento della Fiom nazionale, che dispone per il settore elettrodomestici di una struttura apposita, la cui responsabile nazionale è Michela Spera, succeduta in questo ruolo a Maurizio Landini. La Spera, che appartiene alla corrente maggioritaria di Landini, è entrata anche a far parte della segreteria nazionale Fiom. La Fiom nazionale nella vicenda Electrolux ha avallato, e certo indicato, la divisione dei lavoratori fra gli stabilimenti, lasciando che le modalità di lotta fossero stabilite dalle singole RSU, sostenendo la scelta delle RSU e delle Fiom territoriali di Forlì e Solaro di boicottare la manifestazione del 7 marzo a Porcia. Il 28 aprile a Mestre, durante la trattativa, la Spera è giunta ad attaccare – di fronte alla dirigenza nazionale Electrolux – una combattiva delegata di Susegana, sebbene della Fiom, chiedendo la sua estromissione dall’incontro. Si attaccano anche i propri compagni sindacali dinanzi al padrone, questo il clima dentro la Fiom, questa la pasta dei “landiniani”. Ben si capisce perché la stampa borghese li accrediti – parlandone “bene” o “male” – davanti ai lavoratori e conceda loro tanto spazio nei “dibattiti” televisivi.
La fabbrica di Solaro è l’unica in cui è presente un sindacato di base: la Flmu CUB. Nelle elezioni RSU del 2011 era risultata il primo sindacato fra gli operai. La decisione della Fiom di Solaro di non partecipare alla manifestazione del 7 marzo a Porcia è stata presa anche per impedire una estensione dell’influenza di questo sindacato di base negli altri stabilimenti. I delegati Cub, però, senza esitazioni hanno proclamato otto ore di sciopero ed organizzato la partecipazione di un gruppo di operai alla manifestazione di Porcia. Questa è la scelta giusta per il rafforzamento del sindacalismo di classe, che passa per l’unità d’azione dei lavoratori al di sopra delle divisioni fra le sigle sindacali.
È un indirizzo, questo, controcorrente nel sindacalismo di base, dove prevale la deleteria tattica delle azioni separate, con scioperi proclamati in date differenti da quelli organizzati da Cgil, Cisl e Uil ed in concorrenza con essi. Ciò non fa altro che, nella generalità dei casi, indebolire l’azione di lotta dei lavoratori. I sindacati di base devono invece distinguersi per proporre scioperi più prolungati e duri, con picchetti, a oltranza. Durante il corteo del 7 marzo a Porcia il principale delegato Fiom di Porcia si è consumato nel cercare di tenere separati gli operai di Solaro da quelli di Susegana e Porcia e arrivando persino ad aggredire una militante Cub, ma dovendo infine desistere per l’intervento di altri lavoratori, il che ha permesso a un operaio della CUB di tenere un breve comizio. Ciò dimostra quanto fastidio abbia dato la scelta degli operai CUB di Solaro.
Ma che fossero i sindacati di regime a dirigere la lotta alla Electrolux non è mai stato in discussione. Anche i lavoratori più combattivi sono ancora disuniti, disorganizzati e privi dei principi sindacali di classe. L’epilogo è stata l’inevitabile conseguenza di questa situazione. Il taglio drastico del salario, utilizzato dall’azienda come spauracchio, è stato messo da parte ma in cambio di un ulteriore aumento della produttività, cioè dei ritmi della catena, e di una piccola riduzione salariale per il ricorso ai contratti di solidarietà. Per lo stabilimento di Porcia c’è anche il taglio da 10 a 5 minuti di una pausa aggiuntiva conquistata nel 2002 a seguito di un aumento dei pezzi, ora arrivati a 94. Per di più, quando i lavoratori faranno l’orario ridotto a 6 ore per turno, attuando la “solidarietà”, dovranno produrre gli stessi pezzi che ora fanno in 8 ore.
Da notare che anche in questi giorni, d’accordo con Fim Fiom e Uilm, l’azienda fa ricorso allo straordinario nel mentre applica l’orario ridotto. Quindi da un lato risparmia due ore di costo del lavoro per ogni operaio, integrate parzialmente dallo Stato, dall’altro fomenta la gara fra lavoratori a chi cerca di aumentare il più magro salario lavorando di più. Gli esuberi, oltre 1.300 nei quattro stabilimenti, sono stati tutti confermati ma rinviati, per ora, al 2017. Il prossimo attacco dell’azienda è solo questione di tempo.
Presto o tardi i sindacati di regime non riusciranno più a controllare la rabbia dei lavoratori, accompagnandoli in questa lunga discesa verso condizioni sempre peggiori pur di “non perdere il lavoro”. Gli operai torneranno a lottare e lo faranno organizzandosi fuori e contro questi falsi sindacatiAttacco alle pensioni dei ferrovieri
Scioperano i sindacati di base
Il 10 e 11 luglio si è svolto lo sciopero indetto dalle organizzazioni di base CAT, USB e CUB ferrovia, che la Commissione di Garanzia aveva posticipato un mese fa. Lo sciopero, oltre che contro al nuovo orario di lavoro, era in difesa, per alcune tipologie di ferrovieri, del precedente sistema pensionistico. In prima linea i macchinisti, che già dal 2000 si erano visti scippare il “fondo pensioni esclusivo”, istituito addirittura nel 1908, integrandolo come “fondo speciale” nell’Inps, poi successivamente sostituito dal regime ordinario per i neo assunti. Nel 2010 fu appunto cancellato anche quel residuo “privilegio” a forza di legge, lasciando la possibilità di far sopravvivere le agevolazioni pensionistiche solo per via contrattuale. Con la Fornero sono state definitivamente equiparate quelle particolari categorie di ferrovieri a qualsiasi altro lavoro. E quindi con una prospettiva di andare in pensione a 67 anni invece che a 58.
In primo luogo è un fatto che autorevoli studi universitari hanno da tempo accertato che la durata media di vita di un macchinista è di 65 anni: dunque, la maggior parte di loro non arriverà vivo alla pensione, avendo inutilmente pagato contributi per una vita. In secondo luogo, quel limite di 58 anni fu fissato a suo tempo seguendo l’esito delle obbligatorie visite mediche periodiche: risulta che sono ben pochi i ferrovieri che risultano ancora “idonei” a 58 anni. Immaginatevi un macchinista 66enne da solo alla guida di una treno lanciato a 300 all’ora, o un manovratore, quelli che letteralmente si infilano sotto il treno per attaccare una carrozza all’altra, che “fa i ganci” a quell’età. Il lavoro di questi ferrovieri infatti era compreso nella categoria dei lavori usuranti: turni diurni e notturni con orari altamente irregolari, sottoposti a campi magnetici potenti (fino a 30 microtesla sulle linee Tav, quando il limite di legge è 0,2), con la responsabilità di migliaia di passeggeri, con periodi di riposo sempre più brevi e sempre più a discrezione dell’Azienda.
Quello che si vuole imporre in questi mesi in Francia, dove i ferrovieri si stanno ribellando.
Attualmente, dopo 20-25 di lavoro, intorno all’80% è dichiarato inidoneo. Cosa andranno ora a fare? Finché erano pochi, e per poco tempo, potevano facilmente esser ricollocati nelle biglietterie, nelle officine, ecc. Ma se saranno decine di migliaia e per quasi un decennio? Qui arriva il combinato disposto dalle modifiche all’art.18: qualsiasi azienda (sia Fs sia la neonata Ntv di Montezemolo e Della Valle) a quel punto potrà licenziarli “per motivi economici”. Fuori del settore ferroviario – il discorso vale anche, ad esempio, per il trasporto pubblico locale, con problemi molto simili, e per i Vigili del Fuoco – chi mai potrà offrire un impiego a un personale così specializzato e più vicino al fine vita che alla pensione?
A questa fondamentale questione vanno aggiunti altri temi, come il blocco della rivalutazione, l’aumento degli anni di lavoro o la conferma del calcolo contributivo, che ridurrà moltissimo le pensioni.
Purtroppo negli ultimi anni la definitiva collocazione dell’OrSA al fianco dei Confederali ed un massiccio ricambio generazionale hanno fatto sì che le lotte si siano fortemente diradate, mentre non riesce a prendere vita una solida e determinata opposizione di base, seppur minoritaria. I giovani ferrovieri, sprovvisti della minima memoria storica e non appoggiati da un vero sindacato di classe, si lasciano troppo spesso irretire da un buon salario e dalla illusione che “le cose un giorno cambieranno da sé”.
Anche la richiesta dell’OrSA per una soluzione a metà (62 anni) non garantisce che alla quiescenza si giunga con il massimo pensionabile, lasciando falcidiare la pensione dal metodo contributivo ed obbligando così i macchinisti a rimanere al lavoro, anche avendo raggiunto la possibilità di lasciarlo. Sarebbe l’ennesima presa in giro.
Lo sciopero, promosso dalle sole sigle di base, mentre Confederali, Autonomi ed OrSA ne prendevano le distanze, è andato bene, nonostante il solito crumiraggio organizzato da capi e capetti, che in questi casi vengono mandati a guidare i treni. Da notare che, a sostegno di queste rivendicazioni generali, si sono aggiunte altre vertenze prettamente aziendali, che hanno portato nelle stesse ore a scioperare i lavoratori di SERFER ed i lavoratori di Rail Traction Company in immediata antecedenza (8-9-10 luglio), con uno sciopero addirittura della durata di 48 ore!
Solo la lotta, dura e continuativa, potrà creare i rapporti di forza favorevoli per cercare di vincere questa e le altre battaglie. Non basta avere delle buone ed oggettive ragioni – il padronato è e sarà sempre più spietato contro tutti i lavoratori – ma che è necessario proseguire con costanti ed incessanti iniziative di lotta. Per questo occorre finalmente muoversi verso la ricostruzione dell’organismo sindacale di classe, lavorando fuori e dentro le attuali organizzazioni di base, al fine di superare i limiti e le carenze troppo spesso espresse da queste organizzazioni.Alla DiElle ad oltranza contro i padroni e lo Stato borghese
Qui di seguito riportiamo i due volantini che abbiamo distribuito agli operai della DiElle, una fabbrica di riciclaggio della plastica a est di Milano. Questi lavoratori, una sessantina, alle dipendenze di una cooperativa cui la DiElle appalta le operazioni, stanno conducendo una lotta durissima, ammirevole per combattività ed unione. Si erano organizzati precedentemente col sindacato di base CUB che, con uno sciopero, aveva permesso un piccolo miglioramento delle loro condizioni; che però restavano durissime: salari da 800 euro, infortuni anche gravi tenuti nascosti, uno dei quali tre anni fa mortale, trattamento di materiali nocivi senza le adeguate protezioni.
I lavoratori tramite il passaparola hanno poi conosciuto il SI Cobas che nella vicina cittadina di Pioltello, dove abitano quasi tutti gli operai, due anni prima aveva condotto una dura battaglia ai magazzini della Esselunga. Organizzati in questo sindacato il 18 maggio hanno così iniziato uno sciopero a oltranza, rivendicando l’applicazione del Ccnl della logistica, migliorativo rispetto a quello attualmente impiegato. L’adesione allo sciopero è stata quasi totale. Sostanzialmente la produzione si è fermata. I lavoratori hanno organizzato un presidio, dormendovi la notte, con tavoli, gazebo e altro materiale, fornitogli anche da delegati Cgil di alcune fabbriche limitrofe. In due fabbriche le RSU Fiom hanno raccolto fondi per sostenere la cassa di resistenza.
Questa solidarietà fra la base operaia al di sopra delle diverse sigle sindacali è estremamente positiva. A nostro parere non dimostra la possibilità di riportare la Cgil su posizioni classiste, al contrario, rafforzando la lotta di classe, indebolisce il sindacalismo di regime, principale ostacolo alla rinascita del sindacato di classe.
Lo sciopero è andato avanti a oltranza e compatto. Ma altrettanto dura è stata la reazione aziendale e quella dello Stato che – questa è la lezione più importante di questa battaglia operaia – ha confermato d’essere la macchina di dominio della classe capitalista contro quella lavoratrice. Fin dai primi giorni di sciopero dinanzi alla fabbrica sono state mobilitate ingenti forze dell’ordine, con la presenza di ben dieci blindati. Una schieramento apparentemente sproporzionato. Ma l’obiettivo del regime borghese non è tanto sconfiggere questi sessanta operai, quanto impedire che la loro vittoria sia d’esempio per le fabbriche vicine ed estenda ad esse l’organizzazione del SI Cobas e i metodi della lotta di classe.
Dopo quasi un mese di sciopero, il 15 giugno, l’azienda ha appaltato il lavoro a una nuova cooperativa, la Ecoservizi. In sostanza è ricorsa a dei crumiri. Tutto, si badi bene, perfettamente legale, grazie al sistema delle cooperative e degli appalti. Ben si vede come sia privo di senso invocare la legalità in difesa dei lavoratori. Il picchetto degli scioperanti si è ripetutamente scontrato, anche se in modo non troppo duro, con le forze dell’ordine, che intervenivano per far entrare i crumiri – in difesa del diritto al lavoro – riuscendovi solo parzialmente. La produzione quindi ha continuato a subire un drastico rallentamento, con la DiElle che ha perso clienti importanti. Una parte dei lavoratori ha organizzato un picchetto anche in un secondo stabilimento aziendale, più piccolo, a Cernusco sul Naviglio, bloccando anche lì il lavoro. In due occasioni un gruppo di operai della DiElle è andato a dar man forte ai picchetti per gli scioperi organizzati dal SI Cobas alla DHL di Settala e alla IKEA di Piacenza.
Il 29 giugno è stato siglato un pre-accordo in Prefettura che prevedeva il riaffidamento dell’appalto alla Fast Service, che sarebbe stata acquisita dalla Eco Servizi. Il 10 luglio, nell’ultimo di vari incontri, sembrava che l’azienda fosse pronta a scendere a patti, con decise concessioni ai lavoratori. Il giorno successivo però moriva in un incidente il presidente della Eco Servizi. I lavoratori, sempre troppo generosi, in rispetto del lutto hanno accettato una tregua e la trattativa è slittata al 22 luglio. La prefettura ha ripagato il rispetto per la vita umana di questi proletari approfittando della tregua per sgomberare il presidio attaccandolo con le forze dell’ordine.
Ciò che il comunismo rivoluzionario sa, e deve anticipare ai lavoratori, sulla base dell’esperienza storica della lotta di classe e della loro dottrina sociale, è che la borghesia è disposta a tutto pur di non perdere il proprio privilegio. Questi operai lo hanno imparato sulla loro pelle. Ma non si sono fatti intimidire: due giorni dopo in corteo si sono recati nuovamente davanti alla fabbrica bloccando ancora una volta i crumiri.
Il 27 luglio il SI Cobas ha tenuto a Bologna l’Assemblea Nazionale dei suoi delegati, cui hanno partecipato anche alcuni operai della DiElle.
Il 31 luglio l’azienda, tramite la cooperativa in appalto, formalizzava il licenziamento di tutti i 60 operai. Nessuno scioperante deve più lavorare dentro quella fabbrica, questo vorrebbero i padroni. Venerdì 1° agosto il picchetto più numeroso e forte dall’inizio dello sciopero è stato schierato davanti la fabbrica. Insieme agli operai della DiElle vi erano gruppi di iscritti e delegati del SI Cobas dalle aziende di Carpiano, Lodi, Brescia, Piacenza, Pavia, Parma e Bologna. Le attività aziendali sono state completamente bloccate. La nuova cooperativa che ha sostituito la dimissionaria Ecoservizi, al suo primo giorno di lavoro ha abbandonato la fabbrica con tutti gli operai chiamati inutilmente a lavorare.
Pioltello, 8 giugno
Per la
riorganizzazione territoriale della classe operaia
Quando i lavoratori si mettono sulla strada della lotta di classe – come hanno fatto gli operai organizzati dal SI Cobas alla DiElle, al CAAT di Torino, alla Ikea di Piacenza, alla Granarolo di Bologna, alla Carrefour, alla SDA e in tante altre battaglie – si mostra chiaramente che un intero regime è instaurato contro i proletari per mantenerli sottomessi allo sfruttamento del capitalismo: le aziende rispondono alle lotte con la rappresaglia, licenziando i militanti sindacali; i sindacati di regime le aiutano cercando di spezzare gli scioperi, dividendo i lavoratori, organizzando il crumiraggio; lo Stato borghese invia i suoi corpi di polizia per attaccare i picchetti.
Contro tutti questi nemici i lavoratori possono contare solo sulle loro forze. Queste, limitate all’interno di una azienda, possono bastare ad avere la meglio, temporaneamente, in qualche battaglia ma non saranno mai sufficienti per una vittoria duratura e più generale. La via della vittoria operaia è quella della unità della classe che inizia dentro l’azienda ma si realizza superando i suoi confini, e poi della categoria, sesso, razza, nazione e religione, tutte divisioni utili solo al capitalismo.
La unità dei lavoratori si compie davvero solo quando significa unità dello sciopero: quando al fianco di una parte della classe operaia sotto attacco scendono in lotta altri lavoratori; quando lo sciopero non è una questione privata dei dipendenti di una singola impresa ma un incendio che si propaga a sempre più proletari.
Perché ciò avvenga è necessaria una adeguata
organizzazione, un vero
SINDACATO DI CLASSE:
– che difenda gli interessi dei lavoratori intransigentemente,
cioè
senza subordinarli né a quelli dell’azienda, né
dell’economia
nazionale, la quale altro non è che il capitalismo, nazionale ed
internazionale;
– che rifiuti di scambiare pretesi diritti (riconoscimento,
rappresentanza) con limiti all’uso dello sciopero: i padroni trattano
con un vero sindacato solo se costretti dalla forza; altrimenti siedono
al tavolo con chi fa loro comodo, cioè coi sindacati complici.
Per sviluppare al meglio l’unità dei salariati, occupati e
disoccupati,
il sindacato di classe deve avere quale centro organizzativo la sua
struttura territoriale, non l’azienda, come nella gloriosa tradizione
delle originarie Camere del Lavoro, una Casa del Proletariato:
– in cui i lavoratori si riuniscano in quanto membri di una unica
classe, non quali dipendenti di questa o quell’azienda, così da
stringere e rafforzare i legami di fratellanza;
– in cui possano confluire i tanti lavoratori, la maggioranza, delle
piccole aziende, oggi isolati da quelli delle medie e grandi imprese, e
i sempre più numerosi disoccupati;
– che divenga centro organizzativo di mobilitazioni territoriali della
classe operaia;
– che divenga centro di riferimento delle tante lotte nelle aziende in
crisi oggi tenute isolate dai sindacati di regime;
– che promuova il fronte unico dal basso del proletariato con la
formazione di comitati di lotta nelle aziende ai quali possano aderire
i lavoratori al di sopra delle sigle sindacali.
La rete di queste strutture territoriali della lotta proletaria sarà il corpo vivo ed efficiente del rinato SINDACATO DI CLASSE, che dovrà e potrà prendere la direzione delle lotte togliendola ai sindacati di regime e agli organismi rappresentativi addomesticati come sono le RSU
W la lotta degli operai della DiElle ! - Per l’estensione e il rafforzamento del SI Cobas ! - Per una Casa del Proletariato a Pioltello ! - Per la rinascita del Sindacato di classe !
Pour la renaissance du syndicat de classe en dehors et contre les syndicats de régimes. Pour unifier les revendications et les luttes ouvrières, contre la soumission à l’intérêt national. Pour l’affirmation de la direction du Parti Communiste dans les organes de défense économique du prolétariat, en vue de l’émancipation révolutionnaire des travailleurs du capitalisme. | POUR LE SYNDICAT DE CLASSE
Positions programmatique et de bataille du Parti Communiste International |
Quand les travailleurs vont sur le terrain de la lutte de classe – comme l’ont fait les ouvriers organisés dans le SICOBAS à Dielle, à Caat de Turin, à Ikea de Piacenza, à Granarolo de Bologne, chez Carrefour, à SDA et lors de bien d’autres batailles – on voit très clairement que le régime en place a mis sur pied toute une organisation contre les prolétaires pour les soumettre à l’exploitation du capitalisme: les syndicats de régime les aident en cherchant à briser les grèves en divisant les travailleurs, en organisant les briseurs de grève; et l’État bourgeois envoie sa police pour attaquer les piquets de grève.
Face à tous ces ennemis, les travailleurs ne peuvent compter que sur leur propre force. Celle-ci, limitée à l’intérieur d’une usine, peut suffire pour remporter temporairement quelques batailles, mais sera toujours insuffisante pour une victoire plus durable et plus générale. La voie de la victoire ouvrière est celle de l’UNITÉ DE LA CLASSE qui commence au niveau de l’entreprise, mais qui se réalise en s’étendant au delà de ces limites, en dépassant les divisions catégorielles, de sexe, de race et de nation, toutes divisions qui ne sont utiles qu’au capitalisme et à la bourgeoisie pour maintenir sa domination de classe.
L’UNITÉ DES TRAVAILLEURS se trouve réellement réalisée lorsqu’elle signifie UNITÉ DE LUTTE ET DE GRÈVE: quand à côté des travailleurs qui se trouvent soumis à une attaque de la part de la bourgeoisie, d’autres travailleurs descendent en lutte pour les soutenir; l’unité est réalisée lorsque la grève n’est pas une question privée des employés d’une seule entreprise, mais qu’elle est un incendie qui se propage à toujours plus de prolétaires.
Pour que cela arrive il faut une organisation
adéquate, un vrai SYNDICAT DE CLASSE:
– Qui défend les intérêts des travailleurs
de façon intransigeante, c’est-à-dire sans
subordonner
leurs intérêts à ceux de l’entreprise, ni à
ceux de l’économie
nationale, qui n’est rien d’autre que les intérêts du
capitalisme
national et international.
– Qui refuse en échange de prétendus droits
(reconnaissance syndicale, représentation, etc...) de limiter
l’usage de la grève: les patrons ne traitent avec les
syndicats que sous la contrainte; autrement ils
n’acceptent à la table des négociations que les syndicats
qui leur
sont commodes, c’est-à-dire complices comme les syndicats de
régime.
Pour développer au mieux l’unité des
travailleurs salariés, occupés ou au chômages, le
syndicat de
classe doit avoir comme base organisatrice non pas l’entreprise, mais
le territoire, comme dans la glorieuse tradition des Bourses
du Travaille, une Maison du Prolétariat:
– Dans lesquels les travailleurs d’entreprises
différentes se réunissent en tant que membre d’une
même classe,
de manière à renforcer et à resserrer les liens
fraternels.
– Dans lesquels peuvent se retrouver tous les
travailleurs qui appartiennent aux petites entreprises, qui
aujourd’hui se trouvent isolés et séparés des
travailleurs des
moyennes et grandes entreprises, sans parler de la masse toujours
plus grande des chômeurs.
– Des lieux qui deviendront des centres
organisatives pour la mobilisation territoriale de la classe
travailleuse.
– Des lieux qui deviendront des centres de
référence pour les luttes dans les entreprises en crises,
qui
aujourd’hui se battent isolément en étant
organisées par les
syndicats de régime.
– Des lieux qui se battront pour le front
unique à la base du prolétariat, avec la formation
des comités
de lutte dans chaque entreprise, auxquels pourront adhérer
les
travailleurs indépendamment de leur appartenance syndicale,
comités
qui chercheront à prendre la direction des luttes en la retirant
des mains des syndicats de régimes et aux organes
«représentatifs» domestiqués
(RSU).
Le réseau de cette structure territoriale des
luttes prolétariennes sera le corps vivant du renaissant SYNDICAT
DE CLASSE.
– VIVE LA LUTTE DES OUVRIERS DE LA
DIELLE !
– POUR L’EXTENSION ET LE
RENFORCEMENT DU SICOBAS !
– POUR UNE MAISON DU PROLETARIAT A
PIOLTELLO !
– POUR LA RENAISSANCE DU SYNDICAT DE
CLASSE !
Pioltello, 8 June
1 giugno
Estendere e organizzare la lotta di classe
OPERAI DELLA DIELLE !
Il coraggio, la determinazione, l’unità della vostra lotta sono un esempio per tutti i lavoratori.
Lo sciopero a oltranza che conducete da due settimane ha spezzato il terrorismo aziendale che vi teneva schiacciati vessandovi con insulti razzisti, minacce e licenziamenti di chi isolatamente si ribellava; ha strappato i lacci dei falsi sindacati che vi impedivano di lottare, non ha ceduto di fronte a 150 uomini delle forze armate dello Stato borghese, schierati contro di voi.
Il SI Cobas, a pochi giorni dalle dure battaglie ancora in corso alla IKEA di Piacenza e al CAAT Di Torino, vi ha dato forza organizzando la vostra lotta e dando una nuova dimostrazione di come sia possibile fare quel SINDACALISMO DI CLASSE che in ogni modo i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) avversano e che gran parte dei sindacati di base ha dimostrato di volere solo a parole, come la Confederazione Cobas che ha aderito al Testo Unico sulla Rappresentanza, l’accordo più corporativo del secondo dopoguerra.
Il SI Cobas ha anche dato, in questi anni, un efficace colpo al razzismo dimostrando come questa ignobile ideologia borghese possa essere vinta non appellandosi a generici valori morali ma organizzando la lotta dei lavoratori, nel cui fuoco i proletari di tutto il mondo si riconoscono e si sentono istintivamente fratelli.
La lotta degli operai organizzati in questo sindacato alla DiElle, al CAAT, alla IKEA, in tutta la logistica, è durissima perché è VERA LOTTA DI CLASSE: in quanto tale i proletari possono contare solo sulle proprie forze e devono fronteggiare l’intero fronte borghese composto da padroni, sindacati di regime e Stato capitalista.
Le cooperative e le imprese committenti cercano di spezzare l’organizzazione del SI Cobas coi licenziamenti; i sindacati di regime le aiutano coi mezzi più subdoli, dividendo i lavoratori delle cooperative da quelli delle aziende committenti, condannando gli scioperi a oltranza e con i picchetti, organizzando il crumiraggio; lo Stato borghese mobilita in massa le forze dell’ordine militarizzando le aziende colpite dagli scioperi, attaccando i picchetti, dimostrando che la democrazia è solo la maschera della dittatura del Capitale.
La strada dei lavoratori per vincere è una sola: estendere la loro unione superando i falsi confini del capitalismo fra aziende, categorie, occupati e disoccupati, sesso, razza e nazione.
L’UNIONE DELLA CLASSE LAVORATRICE non è una parola vuota di significato, non è l’unione dei vertici sindacali e non si realizza con i proclami di solidarietà: vuole dire SCIOPERARE UNITI! Ciò significa organizzare scioperi nelle altre aziende in solidarietà con gli operai in lotta, unire le battaglie dei lavoratori in corso in un unico movimento, partecipare ai picchetti nelle aziende in lotta.
Il SI Cobas ha intrapreso questa strada e sta affrontando i difficili ostacoli che gli sbarrano il cammino: la diffidenza dei lavoratori italiani verso i lavoratori immigrati, l’azione antioperaia dei sindacati di regime, la passività e il settarismo dei sindacati di base, o il loro tradimento.
I lavoratori più combattivi devono organizzarsi per spezzare questi ostacoli, seguire l’esempio di chi si è organizzato nel SI Cobas, dare loro sostegno. È questa la strada che condurrà alla ricostruzione del SINDACATO DI CLASSE di cui hanno bisogno i proletari per tornare a difendersi efficacemente. La lotta degli operai della DiElle è un nuovo piccolo passo in questa direzione. È una lotta di tutti i lavoratori!
I provvedimenti del nuovo governo – estensione del lavoro precario; mobilità, demansionamento, esuberi, proroga del blocco contrattuale e chiusura delle aziende partecipate per il pubblico impiego – mirano alla riduzione del salario complessivo della classe lavoratrice allo scopo di tenere in piedi la moribonda economia capitalista, frenando l’avanzata della sua incurabile malattia degenerativa, la caduta del saggio del profitto, che è la causa della sempre più grave crisi mondiale del capitalismo.
Questo obiettivo è perseguito riducendo il numero degli occupati, col blocco delle assunzioni e i licenziamenti; aumentando la ricattabilità dei lavoratori, con il precariato e la minaccia della disoccupazione crescente; tagliando il salario diretto (busta paga), indiretto (servizi e assistenza sociale) e differito (pensioni); aumentando i ritmi e i carichi di lavoro. Tutto si riassume nell’aumento dello sfruttamento dei lavoratori. Provvedimenti simili contro il proletariato sono presi in tutti i paesi e da governi di destra, sinistra, di "larghe intese" e "tecnici". Ciò perché è l’economia a determinare la politica, non viceversa: chi accetta il capitalismo deve sottostare alle sue leggi economiche.
CONTRO QUESTO ATTACCO GENERALE ALLA CLASSE DEI LAVORATORI LA RISPOSTA DOVREBBE ESSERE UGUALMENTE GENERALE
La questione salariale riguarda sempre più lavoratori: dagli operai delle fabbriche colpiti da licenziamenti, cassa integrazione, contratti di solidarietà; ai lavoratori nelle cooperative, sfruttati con salari da fame, come ad esempio i facchini nella logistica; ai dipendenti pubblici coi contratti bloccati dal 2010.
Il 6 giugno scorso i comunali di Roma hanno scioperato massicciamente scendendo in corteo in diecimila contro il taglio del salario che, come in tante aziende, avviene sopprimendo la parte accessoria, legata alla contrattazione di secondo livello. Pochi giorni fa, 2.200 lavoratori della SEA Handling di Malpensa e Linate hanno rigettato un accordo firmato da Cgil, Cisl, Uil, Ugl e USB, ma non da CUB e ADL Cobas, che prevede un taglio del salario di 260 euro mensili e la riduzione di 600 unità dell’organico. Da quattro anni cresce nella logistica un movimento operaio, organizzato dal SI Cobas, con veri scioperi – a oltranza, senza preavviso, con picchetti – per aumentare i bassi salari. Moltissimi lavoratori si ritrovano a lottare per ottenere salari arretrati da aziende in fallimento, come a inizio giugno 850 operai della Groundcare all’aeroporto di Fiumicino.
Anche la questione della disoccupazione si aggrava, e si aggraverà sempre più in futuro. Da parte dei lavoratori questo problema può essere affrontato in un solo modo: lottando per la riduzione dell’orario di lavoro, generalizzata e a parità di salario.
I sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) invece tengono chiusi i lavoratori nelle aziende, nella categoria, conducendoli a gruppi isolati di sconfitta in sconfitta. Tutti gli accordi aziendali firmati prevedono riduzioni del personale da un lato, aumenti dei ritmi e dei carichi di lavoro dall’altro. Nel pubblico impiego non fanno eccezione: avallano il blocco delle assunzioni e non si mobilitano contro il blocco dei contratti; nei Vigili del Fuoco hanno recentemente firmato il piano di riordino del corpo che condurrà alla ulteriore contrazione dell’organico.
Ma anche il sindacalismo di base ha gravi colpe che hanno impedito in questi anni la costruzione di un vero Sindacato di classe, necessario a una mobilitazione generale della classe lavoratrice:
– il settarismo delle dirigenze, dovuto alle loro finalità politiche non classiste, ha impedito l’unificazione delle tante sigle che agiscono in competizione l’una con l’altra. Il SI Cobas, il sindacato di base che ha condotto le più importanti lotte operaie in questi ultimi anni, anche nei momenti di più dura lotta – subendo la rappresaglia padronale coi licenziamenti, e statale, con denunce, fogli di via, cariche delle forze dell’ordine ai picchetti – non ha ricevuto alcun reale appoggio dalle altre sigle sindacali di base;
– la proclamata volontà di lotta di queste organizzazioni è stata spesso subordinata all’obiettivo del riconoscimento padronale, finalizzato all’ottenimento dei diritti sindacali sul posto di lavoro, senza i quali si crede, a torto, che sia impossibile svolgere attività sindacale. L’USB, anni addietro, accettando nel pubblico impiego il riconoscimento in cambio della firma dei contratti nazionali, ha perso la fiducia di molti lavoratori e delegati combattivi, disperdendo un notevole patrimonio di forza che era riuscita ad organizzare, ad esempio nei Vigili del Fuoco. La Confederazione Cobas – unica fra le sigle sindacali di base – si è ridotta a firmare l’accordo più corporativo del secondo dopoguerra, il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio scorso, sancendo il suo tradimento del sindacalismo di classe;
– infine, la pratica degli scioperi separati evidenzia l’errata concezione della lotta dei lavoratori delle attuali dirigenze, vista come uno scontro di coscienza e non di forze fisiche, di classi, in lotta. Facendo scioperare i lavoratori in date diverse da quelle dei sindacati confederali, se non persino da quelle di altri sindacati di base, indeboliscono la forza dello sciopero, della qual cosa si avvantaggiano proprio i sindacati di regime. Lo sciopero deve unire più lavoratori possibile e i sindacati di base devono distinguersi per le loro rivendicazioni e per sostenere la necessità di scioperare più a lungo, a oltranza, senza preavviso, con picchetti che blocchino merci e crumiri. La scelta di non scendere in sciopero con i comunali di Roma il 6 giugno, solo perché Cgil, Cisl e Uil, per non perdere il controllo di questi lavoratori, erano stati costretti a proclamare lo sciopero, è l’ultimo deleterio atto di questa prassi.
Sta ai
lavoratori e ai militanti sindacali più combattivi raddrizzare
questa grave situazione, tornando a propagandare e a battersi per
l’affermazione dei veri metodi e principi del sindacalismo di
classe:
– vita
sindacale basata sul lavoro gratuito e volontario dei militanti
sindacali, riducendo al minimo funzionari stipendiati;
– raccolta
delle quote mensili sindacali per via diretta, attraverso i militanti
sindacali, rigettando il mezzo della delega, per non dare in mano
all’azienda i soldi del sindacato e la lista dei suoi iscritti,
base materiale fondamentale del collaborazionismo sindacale;
– organizzazione sindacale che privilegi le strutture territoriali
rispetto a quelle aziendali, come nella tradizione delle originarie
Camere del Lavoro, dove i lavoratori si incontrano in quanto tali,
non come dipendenti della singola azienda, rafforzando i legami di
classe.
La nascita di questi organismi di lotta sarà la base di quella ORGANIZZAZIONE SINDACALE DI CLASSE che ancora manca e della quale sempre più hanno bisogno i lavoratori.
L’UNIONE DEI LAVORATORI non è una formula vuota ma è L’UNIONE NELLA LOTTA, NELLO SCIOPERO!
PER LA RINASCITA DEL SINDACATO DI CLASSE, FUORI E CONTRO I SINDACATI DI REGIME!
La situazione in Iraq ha continuato a deteriorarsi dopo la partenza delle truppe americane alla fine del 2011, con una recrudescenza di violenze e attentati. Ancora una volta risultano evidenti i frutti nefasti degli interventi “umanitari” degli Stati Uniti “per portare la democrazia” che, dalla Seconda Guerra mondiale e i discorsi di Truman, imperversano per il mondo a coprire una politica aggressiva e imperialista, una lotta feroce per la supremazia su avversari altrettanto spietati, dagli europei ai russi ai cinesi, per spartirsi il mondo e i mercati.
Tre anni dopo la partenza delle truppe americane (ma la presenza statunitense è ancora lì tramite le imprese, le truppe militari private e un impressionante arsenale diplomatico chiuso nell’Ambasciata barricata nella superprotetta “zona verde” di Baghdad) lo Stato iracheno è prossimo alla disgregazione, la vicina Siria si trova nel caos della guerra civile, in Libano torna l’incubo delle autobombe mentre Israele interviene nuovamente nella striscia di Gaza massacrando centinaia di proletari disarmati.
Le rivolte contro i regimi familiari in Tunisia, Egitto, Libia, sono fallite lasciando spazio alla presa del potere da parte di movimenti religiosi o nazionalisti.
Nonostante la immensa ricchezza petrolifera, lo Stato iracheno è debole e paralizzato dallo stato di guerra fra le comunità e fra partiti politici. Il primo ministro sciita Nuri al Maliki si mantiene ormai tramite una feroce dittatura, in particolare contro la minoranza sunnita non curda. Questa rappresenta il 20% della popolazione ed è stanziata soprattutto nell’ovest del paese; gli sciiti sono il 60%, e vivono in maggioranza nell’est e nel centro, le regioni più povere. Il 20% sono curdi, in prevalenza sunniti, ed abitano nel nord, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno; infine 800.000 sono i cristiani caldei e nestoriani di etnia assira, armena o latina.
Ma il malessere sociale colpisce l’intera popolazione a causa della mancata ricostruzione delle infrastrutture: grave il problema dell’approvvigionamento di acqua ed elettricità, i trasporti e le vie di comunicazione insufficienti e deteriorate. Incombe anche la minaccia di una drastica modifica del Codice del Lavoro a vantaggio del padronato, in complicità le richieste del Fondo Monetario Internazionale per concedere nuovi prestiti, indispensabili per la ricostruzione del paese, devastato da decenni di guerra.
L’Iraq rimane il secondo produttore OPEC e la quarta riserva mondiale di petrolio, con bassi costi di estrazione e una immensa riserva di gas. L’economia irachena resta interamente dipendente dalla produzione di idrocarburi, che rappresentano il 95% delle entrate statali e il 100% delle entrate in valuta. Il debito pubblico è stato ridotto oggi al 25% del Pil grazie alla cancellazione del 80% del montante nel 2004 e alla sua ristrutturazione nel 2011 da parte dei creditori pubblici del Club di Parigi, nonché alle cancellazioni o riduzioni di debito concesse nel 2010 dalla Cina, nel 2011 dall’Algeria, nel 2012-2013 dai paesi del Golfo.
Ma la situazione sociale è esplosiva, con una popolazione per il 57% di giovani, colpiti dalla disoccupazione, e che costituiscono un terreno fertile per i gruppi estremisti di tutte le bande, jihadisti sunniti e milizie sciite. È ben chiaro per tutta la popolazione che una parte enorme delle entrate petrolifere è deviata dalla corruzione dilagante tra il personale al potere e tutte le sue clientele, il che provoca dissensi anche all’interno della borghesia sciita.
L’Iraq, patria di Abramo, padre di tutti i credenti ebrei, cristiani e musulmani, è ormai preda delle divisioni religiose (sunniti-sciiti) ed etniche (curdi-arabi). Dopo il 2003 la politica degli americani ha fortemente accresciuto gli attriti tra le comunità. Ad uno sciita è andato il posto di primo Ministro, ad un sunnita quello di portavoce del parlamento e a un curdo la presidenza. Inoltre il governo americano ha favorito l’autonomia del Kurdistan iracheno, confinante con la Turchia e l’Iran, aprendogli la prosperità economica che oggi dimostra.
La guerriglia sunnita, che chiama alla crociata anti-sciita e che raggruppa i gruppi jihadisti e i vecchi militari legati a Saddam Hussein; il vicino conflitto siriano; la politica aggressiva anti-sunnita del primo ministro Al Maliki; le concorrenze regionali tra le monarchie sunnite del Golfo e l’Iran sciita; per non parlare delle ambizioni regionali della Turchia, che commercia senza ritegno col regime autoritario del Kurdistan iracheno, essendo quest’ultimo in conflitto aperto col primo ministro iracheno; senza dimenticare l’onnipresenza dei grandi imperialismi statunitense, cinese e russo, tutto questo ha condotto allo sgretolarsi dell’entità irachena.
La jihad, l’albero che nasconde la foresta
In Iraq e in Siria pare quindi ripresentarsi il sanguinoso scontro tra i due rami principali dell’islam, sunnita e sciita. Ma dietro questo antagonismo secolare si gioca una battaglia geopolitica per il dominio regionale di cui i jihadisti dello SIIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) sono solo una delle creature e si indica a loro come all’albero per nascondere la foresta. Lo SIIL sembra aver abolito il confine tra Iraq e Siria e ora minaccia da vicino la capitale dell’Iraq, Baghdad. Ma l’azione di qualche migliaio di uomini, anche se bene armati, non può spiegare la situazione attuale.
La chiave del problema è rappresentata soprattutto dallo scontro tra le grandi potenze imperialiste per il controllo strategico del Medioriente, delle vie marittime che permettono di accedere al suo petrolio e al suo gas. Non bisogna infatti dimenticare che il petrolio iracheno è uno dei più economici al mondo, con un costo di produzione di 4 dollari al barile, mentre attualmente viene venduto a circa 110 dollari fruttando così una rendita colossale. Il petrolio non è ambito solo dalle multinazionali del settore, ma anche da tutte le borghesie locali, dagli sceicchi tribali ai trafficanti, dai gruppi jihadisti ai nazionalisti curdi, che lo vendono, legalmente o di contrabbando, al miglior offerente. Al momento lo sfruttamento del petrolio nel Nord dell’Iraq è fortemente ostacolato dai combattimenti, ma continuano le esportazioni di greggio da Bassora, nel Sud, da dove è tradizionalmente imbarcata la maggior parte del greggio iracheno. Il maggior acquirente è la Cina, il principale importatore di greggio iracheno, che è quindi preoccupata per l’instabilità del paese, seguita dalla Turchia, che per questo motivo si è avvicinata al Kurdistan iracheno guidato da Massud Barzani.
L’attuale conflitto iracheno è presentato da tutte le borghesie del mondo come di tipo religioso, o etnico quando si tira in ballo la questione curda. In effetti partiti a base sociale sunnita governano su gran parte dei paesi nel Magreb e in Medioriente, in particolare nel Golfo Persico. Musulmani sciiti sono invece la maggioranza degli iraniani e degli iracheni; ma in Iraq sono spesso stati disprezzati e perseguitati.
Ma la sostanza del problema non è né religiosa né etnica. Il Medioriente è stato amministrato per secoli dall’Impero Ottomano e dalla sua gerarchia sunnita, che già contendeva il controllo della Mesopotamia al potente vicino persiano. Alla fine della Prima Guerra mondiale la regione è stata divisa in uno sciagurato mercato tra l’imperialismo francese e quello inglese, usciti vittoriosi dal conflitto, in base ai loro interessi geopolitici ed economici (il controllo dei pozzi petroliferi), mentre gli Stati Uniti osservavano interessati. Nonostante le rivolte tribali degli anni Venti, sanguinosamente represse, le tradizionali comunità sono state lacerate e gli Stati che sono nati sotto l’occhio vigile dell’imperialismo occidentale non hanno mai potuto vivere in pace a causa degli antagonismi interni, prodotti anche dagli artificiali confini loro imposti.
Durante la dittatura del baathista Saddam Hussein, che poggiava il suo potere sulla borghesia sunnita, l’Iraq ha conosciuto un forte sviluppo economico, legato ai proventi derivanti dall’estrazione del petrolio, che ha portato profitti milionari agli uomini d’affari di mezzo mondo. Ma la guerra contro l’Iran prima, l’occupazione del Kuwait dopo, e infine l’intervento armato della coalizione anglo-americana, e dei suoi scagnozzi, hanno martirizzato la popolazione, rovinato il paese e le ambizioni regionali della sua borghesia.
Nel 2003 la caduta di Saddam Hussein e l’aiuto dei vincitori hanno permesso alla borghesia sciita di salire al potere. L’occupazione americana si è appoggiata sulle divisioni etniche e religiose, che grandemente ha incoraggiato, in particolare difendendo gli interessi della borghesia sciita e curda. L’esercito iracheno è stata sciolto, provocando la smobilitazione di decine di migliaia di soldati e ufficiali, tornati alle loro case; i baathisti sono stati perseguitati e le ricche famiglie sunnite escluse dal potere.
La resistenza contro gli eserciti occupanti si è quindi rapidamente organizzata intorno alle comunità sunnite, appoggiate ad ovest e a nord dai soldati dell’ex regime baathista, mentre iniziavano ad apparire gruppi islamisti sunniti come Al Qaeda e l’Esercito Islamico in Iraq.
Il primo ministro sciita Nuri al Maliki, sorretto dall’Iran e da Washington, ha esacerbato le tensioni tra le comunità religiose adottando misure discriminatorie e repressive al fine di soddisfare la sua base sociale e i sostenitori di Moqtada al Sadr, che gli permettono una maggioranza in parlamento.
Moqtada al Sadr è un politico sciita, capo di una importante milizia, la cui roccaforte è nella periferia di Baghdad. Ha combattuto la presenza americana in Iraq ed è favorevole ad un riavvicinamento con Bashar Al-Assad. Per questo motivo ha rapporti tesi con il Grande Ayatollah Ali al-Sistani a Najaf.
La discriminazione contro i sunniti si esprime soprattutto nell’accaparramento da parte di Maliki e della sua banda di una buona parte delle entrate petrolifere, dalle quali si è trovata ampiamente esclusa la borghesia sunnita, rappresentata soprattutto da proprietari terrieri, da notabili urbani e da uomini d’affari; quindi rispetto al tempo del regime di Saddam Hussein la situazione si è rovesciata.
Quanto al Kurdistan iracheno “autonomo” di Barzani, l’attuale crisi potrebbe consentirgli di diventare indipendente ottenendo il controllo permanente della regione di Kirkük con i suoi giacimenti di petrolio, che i peshmerga curdi hanno occupato dopo la presa di Mosul da parte dei ribelli. Migliaia di iracheni hanno cercato rifugio in questa regione, ben protetta dai peshmerga, dopo l’inizio dell’offensiva dello SIIL. Si sono però già verificati degli scontri tra l’armata irachena alleata con le milizie curde e i ribelli nelle città di Jalawla e Saadiya.
Per noi comunisti è assolutamente essenziale denunciare la strumentalizzazione che, in tutti i campi, viene fatta della dimensione religiosa, che sarebbe causa di tutti i mali attuali. Queste guerre che si vorrebbe spiegare come causate dallo scontro tra il messianismo democratico occidentale e le dittature di ispirazione religiosa o etnica, nascondono – ma così male che si dovrebbe esser ciechi per non vederlo – l’avidità di grandi e piccoli imperialismi, regionali e globali, i cui interessi continuamente si intrecciano e si contrappongono.
Le potenze in lotta per la supremazia nella regione sono la Turchia che ha assunto l’eredità dell’Impero ottomano, l’Iran e l’Arabia Saudita; l’Iraq è stato violentemente cancellato dall’elenco degli Stati che contano. Per quanto riguarda le grandi potenze imperialiste, Stati Uniti, Cina, Russia e, meno visibile, la Germania, sono in lotta tra di loro tanto per ragioni di strategia economica (le ricchezze del sottosuolo), quanto per motivi geopolitici (il controllo delle principali vie del commercio mondiale) e cercano di tenere piegate ai loro interessi le potenze regionali.
Attualmente l’Iran, il cui arco di influenza va dalla Siria al Libano, interviene sistematicamente in tutti i conflitti nella regione. È stata Teheran a ordinare al movimento libanese Hezbollah, che finanzia, di impegnarsi militarmente a fianco di Bashar Al-Assad in Siria, e questo con l’aiuto di armi russe scaricate nel porto siriano di Tartus. L’Iran, per la sua posizione strategica, è corteggiato da tutte le potenze imperialiste, dagli Stati Uniti alla Russia alla Cina, ma l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo, legati da una congenita alleanza agli Stati Uniti, per non parlare di Israele e della Turchia, non vedono affatto favorevolmente questo riavvicinamento tra gli USA e l’Iran.
Infine Israele, testa di ponte degli Stati Uniti in Medioriente, ha annunciato il suo sostegno all’indipendenza della regione autonoma curda e ha sviluppato relazioni di tutti i tipi con il Kurdistan di Barzani (acquisto di petrolio, progetti di ingegneria idraulica di cui potrebbe beneficiare lo Stato d’Israele) mentre i suoi consiglieri militari sono molto attivi nel nord dell’Iraq confinante con l’Iran. Il suo intervento nella regione è sempre più pesante, come dimostra anche l’invasione di Gaza di questo luglio.
A causa della guerra civile in Siria, da due anni sono tagliate le vie attraverso le quali transitavano le merci europee e turche esportate in Giordania e in altri paesi del Medioriente; per questo dalla fine del 2012 migliaia di tonnellate di merci varie passano per i porti israeliani e sono trasportate da camion turchi, greci, bulgari e rumeni verso la Penisola Arabica e la Giordania. Anche i negoziati in corso sul nucleare iraniano tra i 5 membri del Consiglio di Sicurezza più la Germania, da un lato, e i funzionari iraniani dall’altro, sono seguiti con particolare attenzione da Tel Aviv, tanto più che la guerra in Iraq sembra favorire gli iraniani, che hanno assunto un ruolo sempre più importante nella lotta contro i ribelli sunniti.
Lo SIIL, sorto nel 2006 da una scissione dell’organizzazione terroristica Al Qaeda, ha il grosso dei suoi combattenti in Siria ma sta avanzando rapidamente anche in Iraq; questo movimento è considerato come una minaccia da Teheran che vede dietro di esso la mano dell’Arabia Saudita.
Nel 2001, dopo gli attacchi dell’11 settembre, l’intervento militare degli Stati Uniti in Afghanistan ha cacciato i talebani dal governo, dopo che in precedenza erano stati sostenuti e utilizzati da Washington contro i russi. In seguito gli Stati Uniti hanno attaccato un loro ex-alleato nemico dell’Iran, Saddam Hussein, e dopo averlo sconfitto ed impiccato, nel 2003 hanno installato nel paese un governo sciita. Tutto questo ha contribuito ad aumentare la potenza iraniana nella regione, provocando l’insofferenza dell’alleata Arabia Saudita verso l’imperialismo statunitense. La preoccupazione di Riyadh è aumentata dopo che Washington ha ripreso il dialogo con Teheran, e la diplomazia americana forse dovrà presto scegliere tra l’Iran, che la borghesia americana vuole riportare nel suo grembo, anche in funzione antirussa, e l’Arabia Saudita che rimane comunque un alleato prezioso.
Se i governi dell’Arabia Saudita e del Qatar negano formalmente di fornire assistenza allo SIIL, sappiamo che hanno favorito il suo sviluppo per contrastare l’Iran, come hanno fatto per l’altro gruppo jihadista, Tel Al Nusra, che d’altra parte si è anche scontrato con lo SIIL in Siria.
Dunque sarà questo fantomatico SIIL il nuovo maligno da combattere? Questa organizzazione riceve finanziamenti privati e secondo il ricercatore Jean Pierre Luizard, specialista in Iraq del CNRS, attualmente sarebbe il più grande gruppo armato al mondo. Le risorse di cui dispone attualmente, provenienti dall’esproprio delle banche, dalle estorsioni, dai rapimenti con richieste di riscatto, dal contrabbando di petrolio, dalla conquista di intere caserme piene di armi e attrezzature militari ecc., lo renderebbero un gruppo relativamente indipendente da tutele esterne. Rivale di Al Qaeda ne sarebbe più potente; il suo intervento assistenziale tra le popolazioni impoverite ne aumenterebbe assai la popolarità.
L’Iraq è oggi un paese economicamente distrutto, con un’economia dipendente dai proventi del petrolio, dei quali però gran parte della popolazione del paese, rovinata dalla guerra, non riceve alcun beneficio, se si esclude la regione del Kurdistan iracheno. Un movimento sunnita dai tratti jihadisti ha invaso quasi tutta la parte occidentale del paese, da nord a sud, e anche una zona nella parte orientale, risparmiando solo la ben difesa regione del Kurdistan, e la sua avanzata minaccia ormai da vicino la capitale. Lo dovrebbe contrastare un esercito che a Mosul, dove era una forte guarnigione prevalentemente sciita, addestrata dagli americani, ha scelto di fuggire precipitosamente con in testa gli ufficiali, mentre gli ayatollah sciiti delle città sante del Sud e Moqtada al Sadr chiamano gli sciiti a formare reparti contro l’invasore sunnita!
Il primo ministro sciita, Al Maliki scagnozzo dell’Iran e dei diplomatici statunitensi, segretario generale del Partito Islamico Dawa, ha chiesto l’aiuto dei suoi padroni, che attualmente fanno molte promesse ma restano prudenti. Gli Stati Uniti hanno infatti schierato solo 200 soldati per rafforzare la difesa della loro ambasciata a Baghdad, la più grande al mondo per numero di personale, e dell’aeroporto, che si sono aggiunti ai 275 soldati inviati nel giugno scorso e ai 300 consiglieri militari.
Ma alla fine di giugno il governo Maliki a sorpresa ha ricevuto una prima consegna dalla Russia di aerei Sukhoi: gli Su-25 sono aerei da attacco al suolo molto efficaci. Naturalmente il Cremlino non si è fatto scappare l’occasione di concludere un affare facendo contemporaneamente lo sgambetto a Washington, che non ha visto certo di buon grado questa incursione russa in Iraq. Anche l’Iran ha inviato truppe in soccorso del governo di Al Maliki.
Lo SIIL ha annunciato la restaurazione del califfato che si estendeva da Aleppo, nella Siria settentrionale, fino a Diyala, in Iraq orientale, abolito nel 1924 dal nazionalista turco Mustafa Kemal. Dopo essere stati assai silenziosi per molto tempo, adesso i media, con l’aiuto di siti web, dichiarazioni di politici, ricercatori ed esperti sul Medio Oriente, ecc., ci raccontano che l’arrivo di questo piccolo gruppo di islamisti, provenienti dalle roccaforti sunnite, è spesso preceduto, o è causa diretta, di insurrezioni locali come a Mosul, a Tikrit e a Falluja.
La resistenza all’occupazione USA e anche all’influenza dell’Iran sull’Iraq, dopo la caduta di Saddam Hussein si è organizzata attorno a diversi gruppi. Tra questi, l’Esercito Islamico in Iraq si definisce come nazionalista di tendenza salafita ed è composto principalmente da soldati e ufficiali dell’ex-esercito iracheno disciolto dal governo statunitense; vanta centinaia di operazioni armate contro le forze della coalizione anglo-americana e anche rapimenti di giornalisti. Altri gruppi armati sono emersi come quello denominato Kataeb Al Ichrine, o Al Qaeda in Iraq, guidato dal giordano Al Zarqawi, ucciso nel 2006, che inquadra una percentuale elevata di stranieri e organizza anche attacchi suicidi.
Tra questi gruppi sono sorte divergenze anche gravi. Poiché Al Qaeda era entrato in contrasto con i capi di alcune tribù sunnite a causa della sua crudeltà nei confronti della popolazione e riguardo al contrabbando di petrolio, alcuni dei gruppi della resistenza, insieme ad alcuni capi tribali sunniti, nel 2007, nella provincia di Al Anbar, hanno aiutato le truppe statunitensi ad eliminarla. Attualmente il gruppo dello SIIL si contende con alcuni sceicchi il controllo del contrabbando di petrolio lungo la strada da Baghdad ad Amman, in Giordania.
In mezzo a questa confusione, una parte della borghesia sunnita si è organizzata dietro alcuni capi tribali sunniti, ufficiali dell’esercito del vecchio regime e membri del partito Baath iracheno, perseguitato dal 2003. Questi ultimi, molti dei quali si erano formati nell’ultra-sofisticato servizio di intelligence controllato dall’ex dittatore, si sono infiltrati da alcuni anni in tutti i gruppi islamisti.
L’insurrezione attuale sarebbe guidata da capi tribali alla testa di milizie armate sunnite, sotto la supervisione di soldati del disciolto esercito iracheno. Ma chi sono questi capi tribù sunniti che si uniscono alla resistenza contro l’occupazione straniera e contro la preponderante influenza dell’Iran sul paese, se non notabili, proprietari terrieri, grandi mercanti, industriali e uomini d’affari di ogni genere? Una buona metà di questi capi tribali, che oggi sono per lo più urbanizzati, sono stati nominati tali da Saddam Hussein per costituire la base sociale degli ultimi dieci anni del suo regime, e rappresentano una borghesia sunnita che rivendica la sua parte di torta nella spartizione delle rendite del petrolio.
In un’intervista del giugno 2014 al quotidiano panarabo “Asharq Al Awsat” (Medio Oriente in arabo, giornale con sede a Londra, fondato nel 1978 da un principe saudita, è il più importante quotidiano pan-arabo diffuso in 4 continenti), Ali Hatim Al Suleiman capo della tribù Dulaim, una delle più grandi con circa tre milioni di componenti, in maggioranza sunniti, presenti sia in Siria sia in Iraq e soprattutto nella parte occidentale della provincia irachena di Al Anbar, ha detto che l’attuale situazione in Iraq è quella di una “rivoluzione delle tribù” contro il governo Maliki e che sono le tribù ribelli che hanno il controllo di Mosul. Secondo lui non è ragionevole affermare che lo SIIL, che ha pochi uomini e mezzi, sia in grado di controllare grandi città come Mosul. I combattimenti in questo settore sarebbero stati condotti da alcune tribù sunnite che si contrappongono alle forze governative già dal dicembre 2013. Per organizzare le province occupate sarebbero stati creati dei Comitati militari ai quali partecipano sia capi tribali sunniti sia ex ufficiali dell’esercito di Saddam.
Beninteso quelle che chiamano “tribù” non hanno nulla a che fare con le tribù nomadi originali: si tratta di sovrastrutture politiche, che possono mantenere alcuni legami di parentela, ma piuttosto deboli, che si sono adattate alla società borghese e costituiscono una rete di interessi tenuta in mano dalle famiglie più potenti. In Iraq sono identificate 150 tribù, di cui 30 influenti, divise in clan e poi in famiglie; esse rappresenterebbero circa la metà, o anche più secondo alcune fonti, della popolazione; i membri di una tribù si richiamano a un mitico antenato comune ma possono essere sciiti, sunniti o anche di gruppi etnici diversi.
Secondo le dichiarazioni di Gilles Munier sul suo sito web France-Iraq, sarebbe stato creato un “Consiglio rivoluzionario militare generale iracheno”; questo organismo rappresenterebbe l’organizzazione clandestina che amministra le province “liberate” (distribuzione di pane e acqua, controllo dei prezzi alimentari, rapporti con le tribù) e coordinerebbe l’avanzamento delle forze ribelli. Il suo portavoce è il generale Mizher Al-Qaissi. Quest’ultimo è stato intervistato dal canale televisivo del Qatar Al Jazeera (ora vietato in Iraq) e ha dichiarato che certamente lo SIIL (“Daash” arabo) esiste ma la “nuova primavera irachena” sarebbe rappresentata dalla rivoluzione armata guidata dalle tribù. La sua organizzazione coordina le attività dei Consigli regionali, comprendenti militari, capi tribù, dirigenti delle organizzazioni di resistenza e migliaia di ufficiali e soldati; progetta e persegue i suoi obiettivi in materia e certo può verificarsi, dice il generale, che qualche gruppo autonomo sia in grado di muoversi verso gli stessi obiettivi, ma sono i membri della sua organizzazione che circondano le città e le occupano.
Sempre secondo Gilles Munier, la spettacolare conquista di Mosul e delle sue installazioni petrolifere si spiega con la presenza all’interno della città, di ex ufficiali dell’esercito di Saddam e con la partecipazione di milizie sunnite guidate da capi tribali, decise a ribellarsi contro Baghdad; Mosul infatti durante l’antico regime è stata una risorsa inesauribile di alti ufficiali e di dirigenti del partito Baath.
Anche l’Esercito Islamico e il gruppo Naqshbandi, di ispirazione Sufi e guidato dall’ex vice presidente dell’Iraq, Izzat Ibrahim Al-Duri, avrebbero partecipato insieme allo SIIL alla presa della città. Izzat Ibrahim Al-Duri, 71 anni, è un civile che ha legami tribali e familiari nella regione di Mosul; dopo la morte di Saddam, ha assunto la direzione del Baath, diventato illegale, e sulla sua testa è stata messa una taglia dagli occupanti americani (vivo o morto!); fuggito dall’Iraq attualmente vive in Arabia Saudita. Mantiene una fitta rete di contatti con ex ufficiali dell’esercito iracheno e gruppi paramilitari al servizio del vecchio regime. Appartiene alla confraternita Sufi di Naqshbandiyya (una setta mistica sunnita contrastata da Al Qaeda), potente a Kirkük e Mosul. È entrato nella resistenza nel 2003 e, raccogliendo i baathisti, ha formato l’ “Esercito della Vita di Nakshbandi”, riferendosi ad una setta Sufi teoricamente pacifista.
È stato un gruppo di suoi affiliati ad attaccare il 26 marzo 2003, a colpi di lanciarazzi, l’hotel, situato nella zona verde di Baghdad, dove risiedevano i diplomatici statunitensi; suoi combattenti hanno partecipato alla battaglia di Falluja e a quella di Samarra. Nel 2009, secondo fonti dell’intelligence USA, dai 2.000 ai 3.000 dei suoi soldati hanno combattuto nella zona di Kirkük e attaccato le basi americane. Questo esercito è caratterizzato dalla sua fede religiosa, dal suo stile di vita ascetico e dal patriottismo dei membri, che li tiene uniti al di sopra delle divisioni etniche. Il grosso dei suoi aderenti è composto da ex membri dell’esercito iracheno.
Infine, “Le Monde”, in un articolo del 1 luglio dal titolo “Izzat il rosso, lo sceicco di Baghdad”, il cui contenuto è molto più interessante del titolo, ci dà altre informazioni su Izzat Ibrahim El Duri. Nato nel 1942 a Daour in un villaggio vicino a quello di Saddam Hussein, ha aderito al Baath alla fine del 1950, ha assistito Saddam Hussein in tutte le sue manovre, fino alla morte. Nel 1979 era diventato vice-presidente del “Consiglio di comando della rivoluzione” che costituiva l’apice della piramide del potere e aveva organizzato la spietata repressione baathista, compresa la feroce soppressione dell’insurrezione curda del 1980.
Riportiamo alcuni estratti dall’articolo: «In pensione, ma al comando delle truppe baathiste super addestrate che affiancano lo SIIL e che occupano le città conquistate dai jihadisti, è riapparso il “ricercato numero 6”, simbolo del fallimento dell’azione degli Stati Uniti in Iraq (...) L’immensa ricchezza, che gli proviene da un fruttuoso contrabbando di petrolio organizzato con il figlio di Hafez al-Assad in Siria, gli permette di finanziare l’insurrezione in Iraq e garantirsi potenti protettori nella regione».
Quindi la coalizione che dirige la lotta contro il governo filo-iraniano e filo-americano del signor Maliki, appare eterogenea e porta già in sé i germi di inevitabili discordie future. I prossimi scontri tra questi falsi amici proseguiranno la tradizione di alleanze opportunistiche e tradimenti sanguinosi propri del partito Baath e di Saddam Hussein e sulle velleità fanatiche dello SIIL, forse ancor prima che l’Iraq sia spartito in varie parti, come pare sia prospettabile.
La nuova situazione geopolitica regionale è come una diabolica partita di scacchi in cui Izzat e lo SIIL costituiscono dei pezzi che gli imperialisti ad un tempo manovrano ma non possono ignorare.
L’Iraq va verso uno smembramento territoriale e una spartizione dei proventi del petrolio tra i vari clan borghesi iracheni, come sembra prudentemente prevedere la diplomazia di Obama, o verso una lunga guerra civile in cui le masse irachene avranno da soffrire ancora di più?
La classe proletaria in Iraq non sembra, al momento, in grado di muoversi in modo autonomo; del resto non ne abbiamo alcuna informazione al riguardo. Tuttavia, solo un movimento del proletariato della regione potrà evitare che la situazione irachena si aggravi ancora e soprattutto potrà fare in modo che evolva in senso rivoluzionario attraverso una lotta contro tutti i briganti borghesi, piccoli e grandi.
Il proletariato iracheno dovrà riappropriarsi delle sue grandi tradizioni di classe e unirsi in forti organizzazioni economiche per difendere le sue condizioni di vita immediate, mentre i suoi membri più combattivi ritroveranno il programma del comunismo rivoluzionario, il Partito Comunista Internazionale. I lavoratori dell’Iraq ormai non hanno più nulla da perdere se non la vita e non vale la pena perdere la vita per difendere lo Stato borghese e i suoi scagnozzi prezzolati!
Certo è che, date le attuali condizioni di acuta crisi economica e di scontro sempre più intenso tra i vari imperialismi, per i lavoratori dell’Iraq e di tutto il Medioriente non sarà facile riprendere il cammino della lotta di classe; ma con l’appoggio decisivo del proletariato occidentale, in rivolta contro le politiche imperialiste dei propri governi borghesi, potranno riuscire a spezzare questo ciclo di guerre e massacri senza fine.
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Il petrolio,
i monopoli, l’imperialismo
(continua dal numero 365)
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