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Manovre di guerra in Europa
Gli avvenimenti delle ultime settimane nelle regioni del Sud-Est dell’Ucraina, che hanno visto lo scontro tra l’esercito ucraino, appoggiato da milizie volontarie, e ribelli filo-moscoviti, appoggiati da reparti dell’esercito russo, confermano che questo conflitto, come abbiamo scritto nei mesi scorsi, non è interno allo Stato ucraino ma tra schieramenti di Stati imperialisti.
Ricordiamo gli ultimi avvenimenti.
Alla fine di giugno, dopo l’annessione della Crimea da parte di Mosca e lo scoppio della rivolta nelle regioni orientali del Paese, l’Ucraina sigla la parte economica dell’accordo di associazione con l’Unione Europea, mentre Mosca e Washington cercano apparentemente di porre termine alle azioni militari nel Donbass. Ma ai primi di luglio l’esercito di Kiev inizia un’offensiva che porta il 5 luglio alla conquista della città di Slovyansk. Il 17 luglio è abbattuto in volo un aereo civile della Malaysian Airlines con 295 passeggeri: le due parti si accusano a vicenda dell’abbattimento. Alla fine di luglio il primo ministro ucraino Arseni Iatseniuk annuncia le sue dimissioni, denunciando il venir meno della maggioranza di governo perché la Rada, il parlamento ucraino, non è riuscita ad approvare una serie di misure richieste dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale per sbloccare un nuovo prestito.
Secondo i partiti della destra nazionalista, dalla fine del regime di Viktor Yanukovich, a febbraio, il popolo ucraino è stato chiamato a scegliere un nuovo presidente ma non una nuova Assemblea. «Crediamo che nell’attuale situazione, non dovrebbe esistere un simile Parlamento che protegge criminali di Stato, agenti di Mosca, che rifiuta di togliere l’immunità a quelli che lavorano per il Cremlino», afferma il leader del partito nazionalista Svoboda.
Il presidente Poroscenko dopo un mese dalla caduta del governo, il 25 agosto deve sciogliere la Rada e indire nuove elezioni per il 26 ottobre. Ma, a dimostrazione delle titubanze che attraversano anche la borghesia ucraina, sempre indecisa nella scelta del padrone a cui vendersi, lo stesso Poroscenko il 26 agosto partecipa al vertice di Minsk dove incontra Putin, i presidenti della Bielorussia e del Kazakistan, che fanno parte dell’Unione Doganale euroasiatica, e rappresentanti dell’Unione Europea. La riunione sembra non abbia dato risultati positivi.
Intanto sul campo di battaglia le truppe ribelli, con l’appoggio di reparti dell’esercito russo, nella seconda metà del mese di agosto hanno conquistato sempre più terreno, respingendo e accerchiando in più occasioni le truppe di Kiev.
Il 29 agosto il primo ministro ucraino Yatsenyuk, benché dimissionato, afferma che presenterà una legge per l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Il 2 settembre l’Unione Europea annuncia nuove sanzioni contro la Russia, il 3 settembre la Francia che rimanderà la consegna alla marina russa della prima delle tre unità da sbarco della classe Mistral, prevista per ottobre. Lo stesso giorno i presidenti Putin e Poroscenko cercano frettolosamente un accordo per arrivare ad un cessate il fuoco che viene raggiunto poche ore dopo. Questa fragile tregua serve a dare tempo per scongiurare un allargamento del conflitto che vedrebbe contrapposte alcune tra le massime potenze militari mondiali e fa da sfondo al vertice straordinario indetto dalla Nato per il 4 e 5 settembre, proprio per esaminare la questione ucraina.
Una guerra nel cuore dell’Europa pare oggi ancora prematura, ma la crisi economica lascia spazi sempre più ristretti alle manovre e agli accordi diplomatici e spinge gli Stati a difendere i loro interessi con le armi in un continuo allenamento ad un futuro scontro armato di portata mondiale, preparato anche a livello mediatico oltre che militare, assuefacendo la cosiddetta “opinione pubblica” alla possibilità che questo avvenga.
La propaganda borghese non nasconde ormai la possibilità, certezza per noi, di una futura guerra tra Stati imperialisti e i toni delle dichiarazioni di questi giorni ne sono la prova. Putin e Obama si lanciano pubbliche reciproche accuse e minacce in preparazione di un impegno militare che ricadrà sulle spalle del proletariato sull’uno e sull’altro fronte.
Secondo “Il Sole 24 ore” del 2 settembre, quattromila soldati di nove Paesi, con l’appoggio di blindati e aerei, stanno partecipando ad esercitazioni militari della Nato sul fronte orientale che si concluderanno ai primi di ottobre. C’è anche l’Italia che partecipa con un centinaio di parà della Folgore. L’Alleanza atlantica precisa che le manovre avrebbero dovuto essere inizialmente a guida degli Stati Uniti, ma si è poi deciso di passarle sotto l’egida della Nato nell’ambito dello sforzo in corso per rassicurare i Paesi dell’Est dinanzi alle mosse aggressive della Russia. Altre iniziative militari sono in corso: nel Mar Nero si tengono esercitazioni tra le Marine degli Stati Uniti e dell’Ucraina; «Le esercitazioni, alle quali partecipano anche Spagna, Canada, Romania e Turchia, sono focalizzate sulle tecniche della gestione di un’operazione internazionale per mantenere la sicurezza della navigazione di una regione colpita da una crisi». Altra esercitazione “su vasta scala”, che impegna oltre 5.000 uomini di Stati Uniti e alcuni alleati europei, è in corso nel Sud della Germania; l’esercitazione simula in particolare la liberazione di una città. «Queste esercitazioni hanno l’obiettivo di dimostrare come la Nato sia in grado di scoraggiare e impedire qualsiasi aggressione da parte della Russia se uno qualunque dei nostri alleati fosse attaccato», dice il generale Usa Frederick Hodges per rendere ancor più indigesto il messaggio al Cremlino (“Il Messaggero”, 9 settembre).
Il vertice della Nato, tenutosi a Cardiff e Newport il 4 e 5 settembre proprio per prendere misure concrete sulla questione della guerra in Ucraina, ha visto il netto prevalere delle posizioni guerrafondaie difese dagli Stati uniti e dalla Gran Bretagna. La dichiarazione finale impegna apertamente i 28 membri dell’Alleanza Atlantica ad «invertire la tendenza al declino dei bilanci della difesa», un richiamo rivolto apertamente ai Paesi dell’Europa centro-meridionale che negli ultimi anni, sotto i colpi della crisi economica, avevano ridotto la spesa militare. Il documento impegna tutti i Paesi a portare entro 10 anni la spesa militare almeno al 2% del PIL, una dimensione enorme per dei paesi industrializzati.
Inoltre è stato creato uno speciale fondo di sostegno per il governo di Kiev, «candidato ad entrare nella Nato insieme a Georgia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia, allargando ulteriormente l’Alleanza atlantica ad est» (Manlio Dinucci, “Il Manifesto”, 6 settembre).
Le intenzioni statunitensi erano già state dichiarate dal Presidente Obama nel discorso che aveva tenuto a Tallin, in Estonia, il giorno precedente: «La visione di libertà è minacciata dall’aggressione russa contro l’Ucraina. Il suo assalto all’integrità territoriale dell’Ucraina, una nazione europea sovrana e indipendente, sfida i principi basilari del nostro sistema internazionale. I confini non possono essere ridisegnati sotto la minaccia di una pistola». Obama ha ribadito il principio che «le porte della Nato resteranno aperte a tutti», in aperta antitesi con quanto sostenuto da Mosca che ha più volte dichiarato di non poter tollerare che la Nato spinga i suoi missili fino ai confini della Russia. Infine ha anticipato le decisioni finali del vertice di Cardiff e Newport dichiarando che sarebbe stata formata una forza militare di intervento immediato da schierare nei Paesi baltici. Al vertice verrà poi precisato che questa forza di alcune migliaia di uomini disporrà di cinque basi-deposito nei Paesi baltici, in Polonia e in Romania, sarà molto “reattiva” e con una presenza continua nei Paesi dell’Est europeo.
I vertici della NATO minacciano inoltre di costituire basi militari in Norvegia (che fa parte della Nato) e addirittura in Finlandia (che non ne fa parte), ipotesi che non fa che rafforzare il Cremlino nelle sue sparate nazionaliste, non ultima la dichiarazione di Putin che se volesse, potrebbe occupare Kiev in due settimane.
La Russia è però consapevole che non può permettersi di rompere i suoi rapporti economici con l’Europa né andare ad uno scontro militare aperto con la NATO, mostra i denti ma per arrivare ad un compromesso, contando sull’appoggio dell’Europa e della Germania in primo luogo, e anche sulla indiretta protezione della Cina, non certo favorevole alla espansione della Nato in Europa orientale.
La collaborazione commerciale e militare tra Russia e Cina si è intensificata negli ultimi anni; già all’inizio di luglio dello scorso anno i due Paesi avevano pianificato «una sei giorni di manovre nel Golfo di Pietro il grande a Vladivostok, denominata Mare Unito 2013, che è stata la più grande esercitazione navale mai pianificata tra i due Paesi. Da quanto è emerso, alle operazioni hanno preso parte 12 navi della Russia e 7 della Cina, più un numero imprecisato di aerei da combattimento. Nonostante non fosse certo la prima volta che i due Paesi svolgevano manovre militari congiunte, i media di Pechino hanno sottolineato l’importanza delle operazioni, concluse mercoledì 10 luglio: è stata la prima volta, infatti, che la Cina ha scelto di inviare una così ampia forza militare all’estero “per partecipare a esercitazioni in un’area marittima sconosciuta”, ha scritto il China Daily» (Gabriele Battaglia, “Lettera 43”).
A rafforzare la collaborazione tra Cina e Russia è arrivato nel maggio scorso, dopo dieci anni di trattative, l’annunciato accordo tra Mosca e Pechino sulla futura fornitura di gas. Su “Il Sole 24 ore” del 21 maggio leggiamo: «L’accordo – annunciato dall’agenzia Nuova Cina – è stato chiuso durante la visita in Cina del presidente russo Vladimir Putin dopo una lunga fase di stallo sul prezzo del gas naturale. Il contratto prevede una fornitura trentennale di metano, pari a 38 miliardi di metri cubi all’anno (la metà dei consumi italiani), garantito da un gasdotto lungo 2.200 chilometri dalla Siberia alla Cina orientale ancora da costruire. L’accordo vale 400 miliardi di dollari in trent’anni. Partirà dal 2018 (...) La firma dell’intesa, avvenuta alla presenza di Putin e Xi Jinping, rappresenta un’importante sviluppo per Mosca che dall’inizio della crisi ucraina sta cercando sbocchi alternativi per vendere il suo gas. Fino al 2013 l’Europa è stato il primo cliente di Mosca con 160 miliardi di metri cubi acquistati, ma la Cina da sola già da quest’anno sarà un mercato più grande. Pechino prevede di aumentare del 20% le importazioni di gas, per ridurre il peso dell’inquinante carbone per produrre energia elettrica, e arrivare a 186 miliardi di metri cubi». Anche se, come evidenziato nell’articolo, la trattativa andava avanti da un decennio il fatto che sia stato firmato in piena crisi in Ucraina è stata una buona mossa da parte di Mosca.
Così commenta questo accordo Fulvio Scaglione, vicedirettore di “Famiglia cristiana”, su “Limes” di agosto: «Tornando a Russia e Cina una cosa è certa. L’accordo sul gas mette per la prima volta a diretto contatto il maggior detentore, estrattore ed esportatore di risorse energetiche con il maggior consumatore delle stesse. A questo dato potremmo aggiungerne altri: la Cina, il paese più popoloso del mondo si aggancia alla Russia, il paese più vasto del mondo e dotato del 10% delle terre fertili del pianeta. La Russia, lo stato con il sottosuolo più ricco (...) stringe un’alleanza strategica con la Cina, cioè con l’economia che traina i consumi mondiali di materie prime».
Al di là dell’aspetto economico e dell’avvicinamento tra i due Stati che questo contratto comporta, è evidente che il Cremlino potrà usarlo anche come monito verso i clienti europei, che dipendono dal gas russo, a non tirar troppo la corda perché a breve Mosca avrà un’alternativa per il suo smercio. E proprio nella prospettiva della ricerca di un accordo con l’Ucraina, ma soprattutto con l’Europa, va interpretata la mossa di Mosca che nel giugno scorso ha interrotto le forniture di gas all’Ucraina. «Il 16 giugno 2014, continua Scaglione, Putin ha dato ordine di interrompere le forniture di gas, cioè di non immettere più nelle condotte i 40 miliardi di metri cubi annui che costituiscono la quota ucraina del gas spedito verso ovest. Strana guerra dell’energia quella che comincia nei primi giorni d’estate (...) La decisione del Cremlino pare implicare un invito a trattare, ad approfittare dei mesi caldi per tornare al tavolo e discutere la faccenda».
Anche le paventate sanzioni di Europa e Stati Uniti contro la Russia non sono spiegabili se non in vista di un imminente scontro tra potenze. Con la Russia, oltre il gas, ci sono importanti commerci; i primi due paesi europei in ordine di scambio con Mosca sono la Germania e l’Italia. A parte la vile borghesia italiana, che non ha né forza né carattere per opporsi a Stati più potenti, quale vantaggio ne trarrebbe Berlino, la più importante economia europea? Quale la contropartita, cosa può offrire Washington per imporgli di rompere con Mosca? O cosa può minacciare?
L’economia tedesca arranca e dovrebbe aumentare, non restringere i propri mercati; al di sopra delle dichiarazioni ufficiali della Merkel, ci sono i conti da far quadrare nelle imprese tedesche. Le stesse valutazioni non valgono per gli Stati uniti, che hanno scarsi rapporti commerciali con la Russia e che sono anzi intenzionati a farle concorrenza nelle forniture di gas con quello che riescono ad estrarre dalle rocce scistose.
Queste trattative tra gli Stati, questi affari per vendere gigantesche quantità di merci, questi scontri per acquisire nuovi mercati, importanti posizioni strategiche e militari, cosa portano al proletariato? Nell’orgia mediatica dell’informazione borghese fatta di titoloni sensazionalistici e poco altro, leggiamo che la battaglia nel Sud-Est ucraino da aprile ad oggi ha causato quasi 3.000 morti, un numero imprecisato ma certo altissimo di feriti e quasi un milione di profughi, costretti ad abbandonare casa e lavoro per fuggire la guerra. Queste vittime appartengono in maggioranza alla classe proletaria che, inconsapevole della sua forza e del suo compito storico, sarà costretta, ad ogni latitudine, a imbracciare un fucile per interessi che sono la negazione dei propri.
La borghesia ucraina, gli “oligarchi”, hanno potuto arricchirsi a dismisura negli anni scorsi vendendosi al miglior offerente, lucrando e rubando a man bassa, naturalmente in nome dell’Ucraina “libera e indipendente”. Come ogni borghesia perseguono solo il profitto per accrescere i propri capitale.
Il proletariato ucraino, invece, non ha nulla da guadagnare dallo schierarsi dall’una o dall’altra parte in questo scontro interimperialistico. Non è vero che i proletari del Donbass vedrebbero migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro se la regione fosse indipendente o annessa alla Russia. E neppure, come promettono loro i partiti della destra filo-occidentale, se l’Ucraina si spostasse nell’area dell’Unione Europea e della Nato. Il proletariato ucraino troverà il suo riscatto solo in sé stesso, organizzandosi autonomamente, fuori da ogni richiamo nazionalista e sciovinista, ricollegandosi alle tradizioni internazionaliste del comunismo rivoluzionario.
La guerra è uno dei fatti determinanti le tappe del ciclo capitalista nella sua ascesa e nel suo declino. Nel terzo millennio le guerre fra Stati, tutti borghesi, sono parte della strategia di conservazione e di controrivoluzione. Al proletariato compete di marciare in direzione opposta ai fronti di guerra, non contro il nemico nazionale, ma volgendo uomini ed armi contro il nemico interno, contro il suo Stato, contro il potere di classe della borghesia. Questo è l’unico indirizzo che il vero partito comunista indica alla internazionale classe proletaria, e quindi anche ai proletari ucraini.
Gaza, Iraq, Libia, Siria
Gli imperialismi all’assalto del Medioriente
Se tante volte abbiamo riferito delle nefandezze della lotta tra gli imperialismi ai danni dei popoli di tutti i continenti, ora non possiamo non parlare dei conflitti in Medio Oriente e non ricordare che lo scontro tra le due più grandi potenze in lizza, gli Stati Uniti e la Cina, dietro il paravento della Russia, sta avvenendo anche in Africa, in Estremo Oriente e in Europa (la contesa nei Balcani, il conflitto in Ucraina) e si estenderà dalla terra e dal mare su fino alle orbite dei satelliti artificiali.
Oggi le loro popolazioni del Medio Oriente e dell’Africa del Nord continuano ad essere tiranneggiate e martirizzate da movimenti politici, che siano jihadisti o meno, manipolati dalle grandi potenze e che presto si trasformano in bande di lanzichenecchi incontrollabili e feroci.
Non è più questa l’epoca della pace frutto della prosperità capitalistica, ma delle guerre di ogni genere per compensare le nefaste conseguenze sul regime capitalista della crisi di sovrapproduzione mondiale. Il capitalismo nella sua fase imperialista riversa su queste regioni le merci dell’industria degli armamenti, poi quelle delle industrie legate alla ricostruzione, appena il campo di battaglia si placa un momento ed è possibile rimborsare i «danni di guerra». La guerra è diventata un affare, una fonte di profitto, una scappatoia alla sovrapproduzione di merci e alla crisi mondiale del capitalismo, lo spettro della quale terrorizza tutte le borghesie del pianeta, insieme a quello del suo nemico di classe capace di rovesciare questo ciclo infernale, il proletariato.
Ma quando le bombe cadono e il cieco terrore si abbatte sulle masse, quando al proletariato è impossibile esprimere la sua solidarietà di classe, allora diventa difficile organizzare la sola battaglia che è all’ordine del giorno per la sopravvivenza dell’umanità: la guerra rivoluzionaria.
Per far ingoiare tutti questi orrori alla classe lavoratrice di occidente, pietrificata dai continui attacchi padronali e abbrutita da quanto ancora resta dei frutti della prosperità e della pace, i portavoce politici e mediatici, asserviti all’ideologia bellicista della classe borghese, le riempiono la testa con le parole ormai odiose di diritti dell’uomo, di autodeterminazione dei popoli, quelle di cui l’ONU sarebbe il custode mentre il suo stuolo di cortigiani sventola le carte del diritto internazionale, per presentarci infine il conto giornaliero dei morti. E tutto questo per mascherare la loro inerzia e gli odiosi profitti che ne traggono. Questa demagogia democratica è stata creata dopo il primo massacro mondiale della guerra 1914-18, i cui trattati di pace e la nuova partizione del mondo fra i vincitori già preparavano il secondo macello mondiale. E un terzo conflitto si sta preparando per una nuova ripartizione dei mercati mondiali.
In Medio Oriente si incrociano tutte le grandi potenze. Il loro gioco mortale su quella scacchiera utilizza come pedine le truppe armate, da loro equipaggiate e formate nei conflitti di Afghanistan, di Libia, del Medio Oriente. Vi si affrontano anche potenze regionali: la Turchia, l’Iran, le monarchie del Golfo. Il conflitto siriano oppone ora la Russia di Putin all’America di Obama, che stanno disputandosi l’Iran, un bastione indispensabile agli Usa per contrastare le potenze russa e cinese. L’arco d’influenza dell’Iran va dal Libano, alla Siria, all’Iraq. Intanto Gaza è un sanguinante campo di battaglia.
In questi ultimi decenni gli interventi “umanitari” dell’imperialismo americano e russo e dei loro mercenari, in Afghanistan, Iraq, Libia e nei movimenti insurrezionali dell’Africa del Nord, hanno abbattuto le dittature, che già avevano appoggiato e sostenuto. Questo ha condotto solo al caos, a conflitti etnici e religiosi sempre più aspri, impedendo spesso del tutto ogni espressione del proletariato. La Libia ne è un triste esempio con la guerriglia di queste settimane che si esaspera fra i diversi clan.
Quanto alla politica dello Stato d’Israele, essa non ha nulla a che vedere con la difesa del mitico popolo ebraico perseguitato: lo Stato d’Israele rimane quello per cui fu fondato a partire dagli anni Venti, prima dalla potenza coloniale britannica poi da quella americana, una fortezza armata dell’imperialismo, uno strumento di repressione contro le masse e i proletari arabi, e oggi con la complicità delle loro borghesie.
Questo Stato, che agita senza vergogna la bandiera dell’olocausto per giustificare ogni sua azione, si fa beffa, d’accordo con tutte le borghesie, arabe comprese, del “diritto internazionale” e delle risoluzioni dell’ONU, occupando il territorio palestinese e martirizzando la sua popolazione. La risoluzione 242 dell’ONU, adottata unanimemente nel 1967, dichiarò illegale l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, egiziani e siriani: «è inammissibile per un paese acquisire territori con la guerra». Israele ha occupato la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est con la guerra, e quindi non avrebbe alcun diritto su quei territori. Ma lo Stato d’Israele pretende il diritto ad annettere questi territori e pratica a Gaza un blocco economico, una repressione feroce, ripetuti interventi militari come quello ancora in corso e nel quale il numero di morti palestinesi non fa che aumentare.
Si tratta chiaramente di una violazione del diritto internazionale e di crimini contro l’umanità, secondo il gergo dell’ONU. Ma noi comunisti sappiamo bene che il diritto internazionale e tutte le chiacchiere dell’ONU sono una creazione delle potenze per proteggere i loro interessi, e non certo quelli dei più deboli, come i loro preti vorrebbero farci credere. L’ipocrisia dei “nostri” Stati democratici d’occidente, cioè della grande borghesia industriale e finanziaria che li dirige, fa appello al diritto internazionale, che in date condizioni prevederebbe anche il diritto dei popoli all’azione armata. Ma questo diritto non è che il risultato di compromessi fra i grandi Stati imperialisti, che lo utilizzano per giustificare i loro interventi militari, o “umanitari”, come per esempio la Russia in Ucraina o gli Stati Uniti in Iraq. Le leggi e il diritto sono sempre scritti dalla borghesia per la borghesia, e quando le regole che essa stessa ha stabilito vengono ad impicciarla non esita a calpestarle, come oggi lo Stato israeliano che bombarda senza scrupoli scuole ed ospedali.
Israele è un punto di forza vitale per il fronte borghese unito contro il proletariato arabo e il massacro dei civili palestinesi deve continuare per servire d’esempio al proletariato del mondo intero.
Ne fanno le spese i palestinesi, i partiti dei quali, da parte loro, chiedono unicamente il «diritto» al ritorno, sancito dall’ONU dopo l’espulsione subita nel 1948.
Se europei ed Usa hanno imposto alla Russia sanzioni economiche per ritorsione al suo intervento imperialista in Ucraina, mai hanno neppure pensato ad imporre sanzioni allo Stato d’Israele. Il mondo borghese non è che una continua contraddizione.
Non è il diritto che salverà il proletariato, ma la guerra di classe.
Anche gli Stati Uniti si richiamano al diritto internazionale e all’accusa di crimini contro l’umanità per giustificare l’intervento nel Kurdistan iracheno, mentre il macello israeliano su Gaza continua.
L’avanzata delle truppe in lotta contro Baghdad – un fronte composto da frazioni borghesi eterogenee – minaccia questo bastione americano situato al confine con l’Iran. Le sofferenze delle popolazioni cristiane e della minoranza yazida, la presenza di personale americano ad Erbil costituiscono un perfetto alibi per giustificare le dichiarazioni di Obama, del ministro degli affari esteri francese Fabius e del presidente del consiglio italiano Renzi, tutto per preparare l’opinione pubblica ad un intervento militare. Ma chi vuole sa bene che la regione costituisce una formidabile base per i soldati americani e inglesi in una zona fra la Siria e l’Iran! Se gli Usa riuscissero ad occupare militarmente il paese o una parte soltanto – anche se col ferro e col fuoco – e a controllare il governo iracheno, incapace di soddisfare perfino il clan sciita, rafforzerebbero la loro supremazia nella regione. Il licenziamento del fronte sciita del primo ministro Maliki è già un primo passo in questa direzione.
Sarebbe una illusione credere che ci sia una soluzione alla questione palestinese sul piano nazionale o, peggio ancora, che essa possa derivare da accordi di compromesso tra “i grandi Stati democratici”. La borghesia palestinese non ha alcuno slancio rivoluzionario o, a voler parlare come i nostri democratici, alcun carattere progressista. Fatah ha più paura del proletariato palestinese che della borghesia israeliana. Quanto ad Hamas, è stato sostenuto e appoggiato dallo Stato israeliano in opposizione a Fatah col fine di dividere ed indebolire una borghesia palestinese già moribonda e pronta ad ogni compromesso e compromissione.
Quello di cui Israele non vuole assolutamente sentir parlare è la creazione di uno Stato palestinese, pur sapendo che sarebbe una finzione di Stato. Ciò che spiega l’ultimo intervento militare di Israele a Gaza può essere proprio questo: Hamas stava perdendo terreno ed era intenzionato a passare la mano del governo di Gaza a Fatah, una cosa che il governo israeliano vedeva molto male. L’assassinio dei tre adolescenti israeliani è servito di pretesto all’aggressione militare anche se i servizi segreti israeliani sapevano bene che Hamas non aveva nulla a che vedere con questi assassinii.
La sola via d’uscita per il proletariato del Medio Oriente è quella di ritrovare la via rivoluzionaria della lotta di classe e cercare di unificare le lotte proletarie in tutta la regione, sia sul piano sindacale, nella lotta contro il padronato per la difesa dei suoi interessi materiali immediati, sia sul piano politico ricollegandosi al proletariato di occidente e al programma di un Partito Comunista Mondiale. Uno solo lo scopo: il rovesciamento di tutte le borghesie e la distruzione con la forza dei loro Stati.
Dopo i licenziamenti a maggio alla IKEA di Piacenza sono seguiti quelli alla Logistica 5 a Castelnuovo (Lodi), alla Dielle di Cassina de’ Pecchi (Milano), alla Mirror di Ferrara, e tanti altri ve ne sono stati in precedenza. Tutti colpiscono gli iscritti al SI Cobas con l’obiettivo di spezzare la sua forza e impedire che il movimento operaio che ha organizzato con crescente successo nel settore della logistica si estenda al resto della classe lavoratrice.
Il meccanismo utilizzato è sempre quello del cambio di appalto, attraverso il quale i lavoratori vengono tutti licenziati e poi riassunti nella nuova ditta, selezionando il personale e spesso anche peggiorando le condizioni normative e salariali.
Tutto ciò – si badi bene – è perfettamente legale perché i lavoratori sono sfruttati in società cooperative. La legalità, sempre invocata dai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), non difende affatto i lavoratori. Solo la loro forza organizzata può farlo, e perciò, legalmente o illegalmente, il padronato si adopera per distruggerla. Al contrario, i lavoratori per difendersi spesso devono ricorrere a mezzi extra-legali, quali i picchetti: infatti in tal modo violano il diritto a lavorare dei crumiri! Allora le forze dell’ordine intervengono a difendere questo diritto bastonando gli scioperanti; le aziende, come alla IKEA di Piacenza e ai magazzini Yoox a Bologna, organizzano manifestazioni di crumiri in difesa del... diritto al lavoro; i sindacati di regime condannano le azioni di forza degli scioperanti perché violano la democrazia, per la quale chi sciopera non deve imporre la sua volontà a chi non vuole scioperare. Così, gli scioperi da loro organizzati, sono sempre perdenti!
Il SI Cobas ha dimostrato di non cadere nella illusione che la legge e le istituzioni di questo regime politico, che è della borghesia, possano difendere i lavoratori e ha agito nella sola direzione che può portare al successo la classe operaia, quello della organizzazione della sua forza. In questa direzione vanno sia l’importanza giustamente assegnata alla cassa di resistenza sia la formazione di un coordinamento dei lavoratori licenziati, con gli operai che vanno ad aiutare nei picchetti i loro compagni delle altre aziende. Dopo mesi di lotta quasi tutti i licenziati alla Granarolo di Bologna (Legacoop e Cogefrin) sono stati riassunti. Alla Dielle di Cassina de’ Pecchi (Milano) da oltre 115 giorni è in corso una battaglia durissima da parte di 60 operai. Da maggio va avanti la lotta dei 24 licenziati alla IKEA.
Un cedimento è invece il pagamento delle quote sindacali per mezzo della delega, che è un metodo collaborazionista perché dà in mano al padrone i soldi del sindacato e la lista dei suoi iscritti, facilitando in tal modo la sua opera di rappresaglia, come infatti in tanti casi si è verificato. Le quote sindacali, un sindacato di classe le deve far raccogliere ai suoi militanti all’interno dell’azienda, il che è anche un modo per favorire la loro partecipazione alla vita attiva del sindacato e mantenere vivo il rapporto con gli iscritti.
La crisi economica del capitalismo è irrisolvibile e peggiorerà sempre più le condizioni di tutti i lavoratori. Il regime borghese – coi suoi governi di destra, sinistra o “tecnici” – da anni lavora con l’obiettivo di rendere tutta la classe dei salariati, i moderni proletari, sfruttata, precaria e ricattabile come oggi sono i lavoratori della logistica. Passo dopo passo si avvicina a questo obiettivo, che per il capitalismo è necessario perché solo aumentando lo sfruttamento dei lavoratori può rimandare di qualche tempo il crollo definitivo della sua economia.
Nel frattempo i vari Stati borghesi si preparano alla sola soluzione che ha il capitalismo alla crisi: una terza guerra mondiale. In questa direzione, ben chiara alla classe dominante, soffiano sul fuoco del nazionalismo, dell’odio religioso, del razzismo, per dividere la classe internazionale dei lavoratori e mandarli a massacrarsi sui fronti di guerra per gli interessi dei loro padroni, come già avviene in Ucraina, a Gaza, in Siria, in Iraq, in Libia e in tanti altri fronti in cui gli Stati capitalisti con le loro alleanze cercano di guadagnare posizioni in vista del grande scontro futuro.
In questa certa prospettiva, se il SI Cobas saprà rimanere sulla strada del sindacalismo di classe come sinora ha fatto e resistere all’offensiva borghese tesa a distruggerlo, il suo esempio sarà seguito da sempre più lavoratori di ogni categoria e condurrà alla rinascita del Sindacato di Classe necessario per la difesa efficace della classe proletaria.
Se sapranno compiere questo passo, se sapranno difendersi sul piano economico, i lavoratori potranno allora passare alla lotta offensiva, sul piano politico, guidati dal partito comunista rivoluzionario, per trasformare la guerra fra Stati capitalisti nella rivoluzione dei proletari di tutti i paesi, uniti al di sopra di ogni falsa divisione borghese.
Seule la force organisée du syndicat de classe peut defendre les travailleurs
Après les licenciements à IKEA de Piacenza ont fait suite ceux de la Logistique 5 de Castelnuovo (Lodi), de la Dielle de Cassina de Pechi (Milan), de Mirror de Ferrara, et bien d’autres auparavant. Tous ces licenciements n’ont qu’un seul objectif: briser la force du SI COBAS et du mouvement ouvrier qui a su s’organiser avec un succès croissant dans le secteur de la logistique et empêcher qu’un tel mouvement ne s’étende au reste de la classe ouvrière.
Le mécanisme utilisé est toujours le même: celui de l’appel d’offre à des sous-traitants qui permet aux sociétés temporaires, une fois le travail terminé, de licencier les employés, puis de les réembaucher sous un nouveau nom, en en profitant au passage pour sélectionner le personnel et bien souvent aussi pour proposer des conditions de travail moins favorables.
Tout ceci est légalement possible, remarquez bien, parce que les travailleurs sont embauchés sous le statut de société coopérative. La légalité, la loi, auxquelles se réfèrent constamment les syndicats de régimes (CGIL, CISL, UIL, UGL), n’est pas faite pour défendre les intérêts des travailleurs, mais ceux des patrons, du CAPITAL. Seule la force organisée peut permettre aux travailleurs de se défendre. Les patrons de leur côté utilisent tous les moyens légaux et illégaux pour la détruire. Mais n’oubliez pas, vous êtes bien plus nombreux qu’eux ! A leur tour les travailleurs, pour se défendre, doivent bien souvent avoir recours à des moyens illégaux, comme les piquets de grève pour empêcher toute reprise et bloquer les briseurs de grève. Ce faisant l’on viole le droit des collabos, les “jaunes” à travailler ! La police intervient alors pour défendre ce fameux droit de la part des patrons à briser la grève et en profite pour matraquer les grévistes. Comme cela est arrivé à IKEA de Piacenza et aux magasiniers de chez Yoox à Bologne où les patrons ont organisé des manifestations de jaunes au nom du droit au travail ! Ces crapules ne manquent vraiment pas d’air, où est le droit au travail lorsqu’ils licencient des ouvriers ! Les syndicats de régime, évidemment en bons collaborateurs de classe, en bons larbins, condamnent l’action de force des grévistes parce qu’ils violeraient la démocratie, c’est-à-dire le droit des patrons à pouvoir exploiter à leur convenance les ouvriers. Pour ces «syndicats» les ouvriers ont le droit de faire grève, mais à condition de laisser les collabos travailler à leur place !
Le Si Cobas a démontré qu’il ne tombait pas dans cette illusion que la lois et les institutions de ce régime économique et politique, qui est celui de la bourgeoisie, puissent défendre les Travailleurs. Au contraire il les a conduit dans la seule direction qui peut mener au succès: l’organisation des travailleurs en un faisceau de force basé sur la défense exclusive de leurs intérêts immédiats, sur le sens de la solidarité et de la fraternité entre travailleurs dans la lutte en vue d’affronter le patronat, sa police et les jaunes. D’où l’importance de créer une caisse pour collecter des fonds, de former une coordination des travailleurs licenciés en étroite liaison avec ceux encore au travail, de créer des piquets de grèves pour répandre l’agitation et aider les camarades des autres entreprises. La preuve de l’efficacité de cette lutte, après des mois de lutte, presque tous les camarades licenciés à la Granarolo de Bologne ont été réembauchés. Depuis plus de 115 jours, 60 ouvriers mènent une lutte extrêmement dure à l’entreprise Dielle de Cassinan de’ Pecchi (Milan) et depuis Mai les 24 licenciés de chez IKEA continuent la lutte.
La delega, pratiquée par les syndicats de régime, qui consiste à faire prélever les cotisations syndicales par le patronat est tout au contraire une méthode de collaboration de classe et met les travailleurs dans la main du patronat. Avec cette méthode non seulement le patronat est maître des ressources financières du syndicat, mais il possède la liste des inscrits ce qui facilite encore les mesures de représailles, comme on a pu mainte fois le vérifier. Un vrai syndicat de classe se doit de recueillir lui-même, par l’intermédiaire de ses militants au sein de l’entreprise, les cotisations syndicales, ce qui permet de maintenir un lien vivant avec les inscrits et permet une meilleure participation de tous à la vie syndicale.
La crise économique du capitalisme est insoluble et conduira à une aggravation continue des conditions de vie et de travail des travailleurs. Le régime bourgeois, sous la pression de la crise du capitalisme, quel que soit le gouvernement – de gauche, de droite ou “technique” – a pour objectif de rendre l’ensemble de la classe des travailleurs salariés, le moderne prolétariat, précaire et corvéable à merci, comme le sont déjà les travailleurs de la logistique. Peu à peu la bourgeoisie s’approche de cet objectif – regardez la Grèce ou l’Espagne – qui est pour elle une nécessité vitale, car c’est seulement en augmentant l’exploitation des travailleurs salariés qu’elle peut reporter dans le temps l’écroulement définitif de son système économique.
Entre temps les différents États bourgeois se préparent à la seule solution qu’ils ont pour résoudre la crise du capitalisme mondial: une troisième guerre mondiale. Ceci est très clair pour la grande bourgeoisie, c’est pourquoi elle attise partout le nationalisme, la haine religieuse et le racisme, afin de diviser la classe internationale des travailleurs et de les pousser au massacre sur les différents fronts, dans l’intérêt du capitalisme, comme on peut déjà le voir en Ukraine, à Gaza, en Syrie, en Irak, en Lybie et sur bien d’autres fronts.
Dans cette difficile perspective, si le Si Cobas continue à se maintenir sur le chemin du syndicalisme de classe comme il a su le faire jusqu’ici, et à résister à l’offensive bourgeoise qui cherche à le détruire ou à le corrompre, il sera un exemple pour bien des travailleurs des autres catégories et contribuera à la renaissance d’un syndicat de classe qui est nécessaire à une lutte efficace de la part du Prolétariat.
Si ils arrivent à franchir cette étape, si ils arrivent à ce défendre sur le terrain économique, les travailleurs pourront alors passer à une lutte offensive sur le plan politique, guidés par le Parti Communiste International, afin de transformer la guerre entre les États capitalistes en guerre de classe, en Révolution Communiste Internationale des Prolétaires, tous unis, en faisant fi des fausses divisions imposées par les bourgeoisies.
Una riunione di partito densa di
lavoro
Genova 24 e 25 maggio 2014
[RG119]
Corso della crisi economica dal
dopoguerra ad oggi [ resoconto
esteso ] |
Le lotte sindacali e l’attività del partito [ resoconto esteso ] |
La
successione dei modi di produzione |
Il concetto di Stato e di Dittatura prima di Marx |
Le
società dell’India antica |
Considerazioni sulla cosiddetta
“democrazia sindacale” |
Marx ed Engels sulla storia e la questione irlandese |
La questione militare: le guerre coloniali italiana e inglese contro i boeri [ resoconto esteso ] |
Origini del movimento in Italia: la Seconda Internazionale [ resoconto esteso ] |
Le società dell’India
antica (segue
dal numero precedente)
Contemporaneamente l’espansione della colonizzazione alle terre incolte contribuì a marginalizzare le popolazioni tribali aborigene che ancora vivevano dei frutti spontanei della terra e della caccia. Emersero quindi gruppi sociali denominati fuoricasta o paria o intoccabili.
Nelle città a partire dal VI e dal V secolo a.C. prese a svilupparsi l’artigianato che in certi aspetti venne a prefigurare un sistema di piccole industrie pre-moderne: intenso sviluppo economico che segnò il progressivo passaggio da una società tribale ad una nettamente divisa in classi con la peculiarità castale. Gli esempi di questa trasformazione sono diversi, per esempio nella città la diffusione dell’artigianato si accompagnò a quella delle corporazioni i cui membri vivevano in determinati quartieri ed erano uniti da stretti legami sia collaborativi sia di parentela. Cooperazioni economiche che progressivamente diedero vita a vere e proprie caste.
La differenziazione dell’economia e quindi la progressiva suddivisione delle tribù in caste richiese la nascita di vari Stati, tra monarchie e repubbliche.
Verso la fine del IV secolo il processo sfociò nella creazione del primo impero pan-indiano, quello dei Maurya che al massimo dell’estensione giunse a comprendere gran parte del subcontinente ma anche parte dell’Afghanistan. L’Impero dei Maurya, che durò dal 321 al 185 a.C., interveniva nel controllo di ogni aspetto della vita quotidiana, intere popolazioni venivano deportate in aree ancora vergini per i lavori di dissodamento e bonifica. Ma l’Impero Maurya, nonostante l’apparente potere e splendore, era in realtà fragile proprio a causa della sua estensione. Inoltre era sottoposto a fortissime tensioni interne, dovute sia alla difficile convivenza fra i molti gruppi etnici sia ai forti squilibri sociali che si erano creati. Il declino del potente impero fu altrettanto rapido del suo sorgere. Alla morte di Ashoka, nel 233 a.C. i territori a sud del fiume Narmada si sottrassero al controllo dei Maurya, mentre il resto dell’impero fu suddiviso tra i suoi numerosi figli.
All’impero Maurya seguì un lungo periodo di frammentazione politica, destinato a terminare circa mezzo millennio dopo, con l’ascesa dell’impero Gupta (319 d.C.). L’espansione della civiltà urbana è accompagnata dalla crescente differenziazione delle strutture sociali e dall’emergere di nuove specializzazioni nel campo della produzione. Dinamica che portò alla nascita di nuove gilde fra gli artigiani ed anche la classe mercantile si organizzò in corporazioni. La prosperità economica e l’influenza sociale di queste nuove classi di mercanti, artigiani e banchieri, non scalfì minimamente il potere politico ancora in mano ai signori della guerra e ai sacerdoti, questo perché in primo luogo la divisione castale non permetteva appieno la percezione di un comune interesse di classe e perché queste classi, che possiamo definire pre-borghesi, come tutto il settore urbano, rimasero nel panorama del subcontinente un elemento minoritario.
Nella variante asiatica dei modi di produzione la necessità dei grandi lavori collettivi impediva che le classi dei piccolo proprietari potessero contendere una quota del potere statale, come avvenne nella variante antico-classica. Nelle varianti europee infatti la separazione tra proprietà collettiva e privata è originaria, in modo tale che alcuni proprietari privati potranno impadronirsi della proprietà collettiva; nella variante asiatica la concentrazione della proprietà fondiaria nell’unità centrale impedisce che le comuni locali o una casta di usurai-mercanti, seppur in espansione, si impadroniscano della terra. Il dominio della proprietà fondiaria da parte dello Stato fa sì che anche l’artigianato sia legato all’agricoltura senza possibilità di scindersi. La mancata conquista di influenza politica da parte delle classi sociali urbane nell’india post-Maurya fu quindi il necessario risvolto della loro oggettiva debolezza socio-economica nei rapporti di forza con le altre classi.
La successione dei modi di produzione: definizioni di base
Dopo aver ripresentato l’elenco dei lavori di Partito sulla dottrina dei modi di produzione, il relatore ha fornito le linee essenziali della concezione materialistica e dialettica della storia, anticipando i risultati del lavoro futuro, in modo da chiarire alcuni concetti di base in materia.
Marx ed Engels hanno dovuto innanzitutto affrontare la difficile questione del punto da cui cominciare con l’analisi delle formazioni sociali: «I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari (...) sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica» (“L’Ideologia Tedesca”).
Come mettere ordine nelle complesse vicende di un modo di produzione? È necessario ritrovare un filo conduttore che spieghi le relazioni sociali e stabilire una gerarchia che le leghi. «Secondo la concezione materialistica, il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata. Ma questa è a sua volta di duplice specie. Da un lato la produzione di mezzi di sussistenza (...) dall’altro la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie» (Engels, Prefazione del 1884 a ”Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”).
Il materialismo marxista ha subito nel tempo una serie di volgarizzazioni, una delle quali ha teso a farlo coincidere con il materialismo rozzo; per reazione contraria alcuni pretesi marxisti si sono gettati nelle braccia del volontarismo. Al contrario, «la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante; di più né io né Marx abbiamo mai affermato» (Engels a Joseph Bloch, 21 settembre 1890).
Il meccanicismo dei pretesi ortodossi della Seconda Internazionale non poteva che condurli ad approdi gradualistici e di qui nella palude del revisionismo. I bolscevichi e la Sinistra italiana hanno invece restaurato la ricchezza della originale teoria senza cedere a tentazioni libertarie. Scriveva Engels a W. Borgius il 25 gennaio 1894): «Gli uomini fanno essi stessi la loro storia, ma finora, neppure in date società ben delimitate, non con una volontà collettiva (...) I loro sforzi si intersecano contrastandosi e, proprio per questo, in ogni società di questo genere regna la necessità, il cui complemento e la cui forma di manifestazione è la accidentalità. La necessità che si impone attraverso ogni accidentalità è di nuovo, in fin dei conti, quella economica».
Se l’azione cosciente è impedita al singolo, ciò non significa che nel modo di produzione mercantile borghese non debba esserci un germe della futura società consapevole, questo è il Partito Comunista, neanche esso, però, “libero” di “fare” la rivoluzione. «La giusta prassi marxista afferma che la coscienza del singolo e anche della massa segue l’azione, e che l’azione segue la spinta dell’interesse economico. Solo nel partito di classe la coscienza e, in date fasi, la decisione di azione precede lo scontro di classe. Ma tale possibilità è inseparabile organicamente dal gioco molecolare delle spinte iniziali fisiche ed economiche» (“Teoria e Azione nella dottrina marxista”).
A questo punto il relatore forniva le definizioni di alcuni concetti chiave; primo fra tutti il tanto abusato termine di Struttura: «Il concetto di “base economica” di una data società umana si allarga (...) ben oltre i limiti di quella superficiale interpretazione che lo limita ai fatti della remunerazione del lavoro e dello scambio mercantile. Esso abbraccia tutto il campo delle forme di riproduzione della specie» (“I fattori di razza e nazione nella teoria marxista”).
Le definizioni delle Forze e dei Rapporti di produzione, concepiti non come oggetti ma come relazioni storico-sociali, sono state tratte sempre dal testo “I Fattori”: «Forze produttive materiali della società. Sono, ai vari momenti dello sviluppo, la forza di lavoro delle braccia dell’uomo, gli utensili e strumenti di cui si dispone per applicarla, la fertilità della terra coltivata, le macchine che aggiungono alla forza dell’uomo le energie meccaniche e fisiche (...) Rapporti di produzione relativi ad un dato tipo di società sono i necessari rapporti tra loro a cui gli uomini accedono nella produzione sociale della loro vita. Sono rapporti di produzione la libertà o il divieto di occupare terra per lavorarla, di disporre di utensili, macchine, manufatti, di disporre dei prodotti del lavoro per consumarli, spostarli, assegnarli ad altri (...) I rapporti di produzione, con espressione che riflette non l’aspetto economico ma quello giuridico, possono parimenti dirsi rapporti di proprietà».
Al di sopra di questa base si ergono gigantesche Soprastrutture che, nelle società di classe, invece di aderire al meccanismo di riproduzione immediata della specie, lo pongono al servizio della classe dominante e ne trasfigurano le essenze per impedirne la comprensione alla classe dominata. Anche in questo caso il relatore ha utilizzato il nostro vecchio testo: «Sovrastruttura, ossia ciò che deriva, (...) è fondamentalmente in Marx la impalcatura giuridica e politica di ogni data società».
Tra queste un ruolo di primaria importanza riveste lo Stato di classe, ed oggi che la classe operaia è vittima di quasi un secolo di controrivoluzione persino la natura dello Stato viene messa in dubbio e questo finisce col divenire uno strumento neutro in grado di conciliare la lotta fra le classi. «Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati. E, per converso, l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili» (Lenin, “Stato e Rivoluzione”).
La struttura, le soprastrutture e le loro relazioni hanno il proprio riflesso nel pensiero cosicché «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti» (Marx-Engels, “L’Ideologia Tedesca”).
Essendo l’ideologia un riflesso della struttura di base, ne eredita necessariamente tutte le contraddizioni e le determinazioni; assistiamo pertanto ad una crescente divisione del lavoro anche in campo intellettuale; i pochi tentativi di elaborare sistemi di pensiero di una certa ampiezza finiscono per diventare, appunto, sistemi, ma alla maniera hegeliana, cioè viziati da idealismo ed i cui prodotti invece di spiegare la realtà la occultano. «II materialismo storico-dialettico non vede nell’ideologia il frutto di un errore da correggere ma la risultanza indispensabile di un processo reale corrispondente a rapporti materiali. Tale distorsione deriva a sua volta necessariamente dalla situazione storica delle forze sociali che nell’ideologia si esprimono e che la impongono all’insieme sociale» (“Teoria e Azione nella dottrina marxista”).
Il marxismo è dottrina delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, è teoria che analizza, per quello che qui ci interessa, la complessa dinamica dei trapassi di un modo di produzione nel successivo. «A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti (...) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura» (Marx, Prefazione a “Per la critica dell’economia politica”).
Lo sviluppo della ricchezza si trasforma nel suo contrario. Questa inversione fa della classe oppressa, portatrice del nuovo modo di regolare la riproduzione della specie, il becchino incaricato di seppellire la vecchia società. Il proletariato moderno è la sola classe che potrà far nascere il comunismo dal grembo del capitalismo, così ponendo fine al regno della necessità.
Marx ed Engels sulla storia dell’Irlanda
Abbiamo ripreso lo studio della “questione irlandese”, cioè della tormentata storia del paese fin dalle sue lontane origini e del suo moderno movimento operaio, iniziando con la ripresentazione dei testi e delle affermazioni di Marx e di Engels.
Il primo scritto considerato, e del quale abbiamo dato lettura di alcune conclusioni essenziali, sono le bozze di una “Storia dell’Irlanda” cui Engels si dedicò fra il 1869 e il 1870 ma che poté ultimare solo nei suoi primi due capitoli, “Condizioni Naturali” e “Irlanda Antica”, spaziando dalle caratteristiche fisiche dell’isola alla sua storia fino alla sconfitta degli invasori vichinghi nella battaglia di Clontarf del 1014.
Partendo da considerazioni sulla configurazione del sottosuolo dell’isola e sulla povertà dei suoi giacimenti di carbone, relativamente ai più ricchi in Inghilterra, Engels conclude: «La sfortuna dell’Irlanda è quindi davvero antica: un paese che ha perso alla fine del Terziario i sui depositi di carbone, accanto ad un altro più vasto che ne ha in abbondanza, era fin da allora condannato dalla natura a far da terra agricola per il futuro paese industriale; questa sentenza, pronunciata milioni di anni fa, non andò in esecuzione che in questo secolo: furono gli inglesi, aiutati dalla natura, a presto e violentemente calpestare ogni inizio di industria in Irlanda».
Engels, per converso, riferisce sulla naturale fertilità del terreno, per composizione chimica e fisica, migliore di quella che si trova in Inghilterra e che potrebbe dare rese maggiori. Anche il clima, per temperature e piovosità, è più favorevole alle coltivazioni che in Inghilterra. Smentisce quindi la favola propagata dai fondiari irlandesi e dai borghesi inglesi che l’Irlanda non sarebbe atta alle coltivazioni ma solo all’allevamento, è quindi a rifornire l’Inghilterra di carne e latticini, mentre gli irlandesi, alla fame di pane, dovrebbero emigrare per far posto a vacche e pecore.
Il capitolo secondo della purtroppo incompiuta “Storia” tratta, dopo un elenco critico delle scarse fonti, delle origini. Del V secolo è l’insediamento di un clero cristiano che si dette a convertire i pagani e a fondare monasteri; furono missionari irlandesi a convertire anglosassoni, scozzesi, svizzeri, tedeschi, franchi, e l’Irlanda è considerata in Europa una culla di studi teologici. Del IX secolo è Giovanni Scoto, “fondatore della vera filosofia”, secondo Hegel.
Alla fine dell’VIII secolo il paese era ancora diviso in una moltitudine di feudi.
Gli scandinavi passarono dalle scorrerie di rapina a disporre di porti fortificati, alla conquista di tutta l’isola alla metà del IX secolo, facilitati dalle contese fra feudatari. Dopo alterne vicende, sconfitti dagli irlandesi, nel 1014, nella battaglia di Clontarf, si ridussero a scorrerie sempre meno frequenti e profonde mentre i restanti si assimilarono agli indigeni.
Qui purtroppo si interrompe la “Storia” di Engels, ma possiamo appoggiarci ad un Rapporto sulla questione irlandese che tenne Marx il 16 dicembre 1867 presso la Società di Educazione degli Operai Tedeschi a Londra (i “migranti” di allora), del quale abbiamo un resoconto schematico.
La prima conquista inglese di un terzo dell’Irlanda risale al 1172, comportando l’assimilazione del coloni inglesi agli irlandesi e dei nobili inglesi ai capi tribali locali.
Ma il peggio per l’Irlanda sopravvenne all’epoca di Elisabetta I con il piano di sterminio dei nativi e loro sostituzione con fedeli sudditi inglesi. Ma riuscirono solo ad impiantare una aristocrazia fondiaria inglese sulle terre confiscate.
Fu la rivoluzionaria repubblica borghese inglese a scaricare la sua forza distruttrice nella sottomissione violenta della popolazione irlandese: nel 1649 e nel 1652 si ha la completa conquista dell’isola con vaste devastazioni, massacri, deportazioni, vendita di molti nativi come schiavi nelle Indie occidentali e arrivo di nuovi coloni puritani inglesi.
Furono imposte forti tasse sulla esportazione dei prodotti dei lanifici tali da farli chiudere, spopolare le città e far tornare alle campagne. Il codice penale discrimina e perseguita i cattolici, esclusi dalla proprietà della terra, con l’effetto di rafforzare i sentimenti religiosi e la considerazione della Chiesa nella popolazione.
Tuttavia i coloni inglesi, che fondavano nuove città, si assimilavano ai nativi e diventavano cattolici, mentre inglesi rimanevano solo i proprietari fondiari.
Dopo il 1777, gli inglesi, arresisi ai ribelli americani, e dopo la rivoluzione in Francia, revocarono molte restrizioni ai diritti e ai commerci irlandesi.
Nel 1798 i contadini non erano ancora maturi per appoggiare una ribellione dei repubblicani a Belfast.
Del 1800 l’Atto di Unione, che secondo il parlamento inglese avrebbe dovuto chiudere ogni contenzioso. Ma l’Accordo di Libero Commercio provocò, entro il 1840, la graduale estinzione di ogni industria in Irlanda, “tranne quella delle bare”, e gli irlandesi furono risospinti ancora una volta nelle campagne e all’agricoltura.
Ciò comportò che i contadini, con gli enormi aumenti dei fitti agrari, a vantaggio dei proprietari, e degli interessi per i prestiti, si trovarono alla fame, costretti a mangiare patate ed acqua. Grande aumento di esportazione di grano in Inghilterra. Le grandi fortune accumulate, che non si vogliono investire nei miglioramenti fondiari e non si possono investire nell’industria locale, finiscono nella industria in Inghilterra.
Del 1846-47 la malattia della patata che provocò più di un milione di morti per fame e malattie; dal 1847 al 1855 più di 1,6 milioni emigrarono. Partenza dei giovani e trasformazione delle colture in pascolo. Alla revoca delle Leggi sul Grano crollo dei prezzi e nuova rovina in Irlanda. Sfratto generalizzato, con la forza dell’esercito, dei contadini insolventi. Drastico decremento della produzione agraria dal 1850 al 1866.
Gran flusso di manodopera verso le città industriali inglesi di uomini donne e bambini affamati. La diminuzione della popolazione umana corrisponde all’aumento di quella animale, bovini, ovini, suini.
Dal 1851 al 1861 il processo di consolidamento delle proprietà è in pieno slancio: diminuiscono drasticamente le fattorie di meno di 15 acri (6 ha) ed aumentano quelle più grandi.
Il relatore è quindi passato ad esporre il contenuto di altri documenti dei nostri maestri concernenti non più la storia dell’Irlanda ma l’atteggiamento dei comunisti nei confronti dei movimenti politici che all’epoca la infiammavano.
Il primo è una “Comunicazione confidenziale” di Marx del marzo 1870 al Consiglio Generale della Associazione Internazionale dei Lavoratori, alla nostra riunione riportata nei paragrafi 4 e 5. Vi si afferma:
1. L’Inghilterra è il paese più maturo, la migliore leva economica, per il passaggio al comunismo, benché la rivoluzione possa iniziare probabilmente altrove. È il solo paese dove non vi sono più contadini, la proprietà è concentrata in poche mani e la maggioranza della popolazione è formata da lavoratori salariati. Per la sua posizione di dominio nel mercato mondiale una rivoluzione in Gran Bretagna trascinerebbe con sé il mondo intero. 2. Ne consegue che il Consiglio Generale della Internazionale è bene che rimanga in Gran Bretagna per fornire ai proletari inglesi quello spirito di generalizzazione e il fervore rivoluzionario di cui manca. 3. Il punto debole della conservazione in Gran Bretagna è l’Irlanda. 4. In Irlanda la lotta contro la proprietà fondiaria è allo stesso tempo una lotta nazionale. Il potere dei fondiari in Irlanda si mantiene esclusivamente tramite l’esercito inglese. 5. Al cessare della unione forzata fra i due paesi, in Irlanda scoppierebbe la rivoluzione sociale. 6. Alla borghesia fa buon gioco dividere i suoi salariati in due campi concorrenti e ostili.
Ne consegue che la Associazione Internazionale dei Lavoratori deve auspicare in un sovvertimento in Irlanda, che incoraggerebbe la rivoluzione sociale in Inghilterra: «una precondizione per l’emancipazione della classe operaia inglese è la trasformazione dell’attuale unione forzata, che significa la schiavitù dell’Irlanda, se possibile in una libera ed eguale confederazione, se necessario in una completa separazione».
Altra questione, sollevata alla riunione del Consiglio Generale del 14 marzo 1872, riguarda direttamente il partito. Occorre tener presente che siamo all’interno di una Associazione per motivi storici formatasi e funzionante, come sappiamo, su base federale, una espressione necessariamente immatura di partito di classe. I delegati inglesi, volendo negare la diversità irlandese, chiedevano fosse respinta la richiesta dei membri irlandesi di formare una propria Sezione – una era già nata fra gli emigrati a Liverpool, un’altra a Middlesbrough – in quanto in contrasto con i principi anti-nazionali dell’Associazione. Mentre queste sezioni di operai irlandesi si dichiaravano per la repubblica e per la liberazione dell’Irlanda dal dominio straniero, si pretendeva che l’Internazionale non si dovesse dare il fine di mutare la forma dei governi né occupare della libertà delle nazioni.
Dopo altri intervenne Engels affermando che il vero scopo della mozione era di mantenere le sezioni irlandesi subordinate al Consiglio Federale Inglese, cosa che quelle rifiutavano. Il Consiglio Generale non poteva negare agli operai irlandesi ciò che l’Associazione aveva concesso ai francesi ai tedeschi agli italiani o ai polacchi. Perché gli irlandesi costituivano una nazione a sé. Dopo secoli di conquista ed oppressione inglese, e che ancora perdurava, era ingiusto imporre agli irlandesi di sottomettersi al Consiglio inglese. Sarebbe stato come chiedere agli operai polacchi di sottostare al Consiglio dei russi, o agli alsaziani o ai danesi a quello di Berlino. Non si sarebbe trattato di internazionalismo, ma di avvalorare e ribadire l’assoggettamento di una nazione da parte di un’altra.
Esistono tempi e luoghi nei quali, per superare i nazionalismi, non basta, ed è controproducente e controrivoluzionario, banalmente negarli.
Non è necessario ricordare che la questione delle sezioni nazionali non si pose più, o non si sarebbe dovuta porre, nella Terza Internazionale, né a maggior ragione si porrà nel futuro partito comunista mondiale, al quale aderiscono non tedeschi, irlandesi o inglesi, ma indistintamente comunisti, tendenti a superare, “rinnegare”, ogni loro personale educazione nei nodi di questa società. Il partito considera e ha ben presente la complessità delle sopravvivenze storiche borghesi e preborghesi, la loro successione e la dinamica degli urti sociali che inevitabilmente provocano, ma non ne è parte, non lo attraversano, e si mantiene in dottrina, nella sua organizzazione interna e nello scontro sociale ad esse tutte separato ed opposto, anche quando le considerasse progressive. E tale era, ovviamente, anche il convincimento e l’indirizzo di Marx e di Engels.
Infine abbiamo ascoltato sull’argomento una serie di brani tratti dalla fitta corrispondenza dei nostri due maestri, da una serie di lettere delle quali ci limitiamo a dare qui solo gli estremi, alle quali rimandiamo i compagni studiosi e che saranno selezionati ed ordinati nel rapporto completo: Marx ad Engels del 2 novembre 1867, dell’11 dicembre 1869 e del 14 aprile 1870, Engels a Marx del giorno dopo, Marx a Meyer e Vogt del 9 aprile, Engels ad Eduard Bernstein del 26 giugno 1882, a Friedrich Adolf Sorge dell’11 febbraio e dell’11 agosto 1891, a Frau Liebknecht del 2 dicembre 1891.
La
questione militare
Le guerre coloniali italiana e inglese contro i Boeri
Il colonialismo della borghesia italiana in Africa è un vergognoso esempio di come una classe meschina, corrotta e vile fu capace di usare senza alcun limite contro le popolazioni indigene la stessa bestiale violenza che aveva impiegato in patria per schiacciare e opprimere il proletariato. Il nostro partito non intende redimerla o imporle migliori costumi ma toglierle tutto il potere con la Rivoluzione Proletaria, unica strada per giungere al Comunismo.
L’anno precedente l’apertura del Canale di Suez, nel 1869, il governo italiano aveva concesso all’armatore Rubattino una licenza per una linea di navigazione da Genova a Bombay. Per quella rotta la compagnia aveva bisogno di una base come deposito di carbone e materiale vario per riparazioni. In realtà il governo intendeva iniziare una campagna di penetrazione coloniale in quella parte d’Africa non ancora completamente occupata dagli eserciti europei. Dopo l’acquisto di una prima striscia di terreno nella baia di Assab, il progetto fu bloccato sia per le rivolte popolari in Italia contro la tassa sul macinato sia per le proteste diplomatiche delle maggiori potenze europee che non volevano la presenza italiana in Africa. Al momento l’Italia non aveva ancora completato la sua unificazione ma già il suo giovane capitalismo spingeva all’espansione coloniale.
Nel 1882 la situazione cambia: l’Inghilterra, per contrastare l’espansione coloniale di Francia, Belgio e Germania, senza intervenire direttamente, sostiene il colonialismo italiano che arriva per ultimo in un’area di scarso interesse economico. La Rubattino vende allo Stato italiano la baia di Assab, che però risulta non idonea per accogliere un porto moderno e una base militare. Roma decide allora di occupare la città portuale di Massaua. La spedizione, lo sbarco e la protezione contro gli abitanti e la guarnigione egiziana è possibile solo con il diretto intervento degli ufficiali inglesi al seguito italiano, che oltretutto procurano i cammelli per il trasporto e le carte della zona, mentre i bersaglieri italiani sono arrivati mal equipaggiati.
Gli italiani iniziano una rapida penetrazione verso i fertili altopiani, che provoca le proteste di Giovanni IV imperatore d’Etiopia, un antico e potente impero di tipo feudale formato da più regni federati.
Il 25 gennaio 1887 il ras Alula attacca il presidio italiano di Saati e il giorno dopo presso Dogali distrugge completamente una colonna di 548 soldati italiani mandati di rinforzo alla guarnigione.
Crispi decide l’invio di un contingente di 20.000 uomini col compito di puntare direttamente nel centro dell’Etiopia, in più decide di sostenere ras Menelik, avversario di Giovanni IV, fornendogli armi e denaro. Nel 1889 Giovanni IV muore nella guerra in Sudan e Menelik diventa il nuovo imperatore d’Etiopia. Crispi gli propone un trattato di commercio e amicizia noto come il Trattato di Uccialli dove, con l’inganno delle due differenti traduzioni, in lingua tigrina ed italiana, cerca di trasformare l’Etiopia in un protettorato italiano quando l’Italia, appena sconfitta a Dogali, possiede solo il porto di Massaua. Scoperto l’inganno Menelik chiede la revisione del trattato ma intanto, con il denaro ricevuto dagli italiani acquista, anche dalle fabbriche italiane, armi moderne e munizioni in quantità.
Prosegue l’occupazione italiana nel Tigrè. Menelik decide giunto il momento di attaccare in forze gli italiani e raduna il suo esercito di 100.000 uomini con armi da fuoco, cannoni e mitragliatrici, rompe il trattato di Uccialli e muove per liberare il Tigrè attaccando le forze italiane dislocate in fortini e avamposti distanti tra loro. Cade il forte di Adigrat, il contingente dell’Amba Alagi è distrutto. I pochi superstiti riparano in quello di Macallè con l’ordine di rallentare l’avanzata etiope mentre arrivano i rinforzi del generale Baratieri. Dopo un breve assedio anche il forte di Macallè cade.
Menelik lascia partire i soldati in segno distensivo e chiede la revisione del trattato in cambio della pace. La richiesta è respinta più volte dal governo italiano. Le truppe italiane si concentrano nell’Adigrat mentre quelle etiopi nella conca di Adua. Seguono mesi di inutili trattative diplomatiche. Baratieri crede che dell’esercito di Menelik ce ne sia solo un terzo e scontento per la penuria di cibo. Invece è presente tutto l’esercito in un rapporto di 3,5 a 1 a favore degli etiopi.
Confusione nel comando italiano e nel governo a Roma che decide di sostituire Baratieri, senza avvisarlo, inviando un nuovo comandante e altri rinforzi.
Baratieri e Menelik sono entrambi costretti ad attaccare per evitare lo sfaldamento dei rispettivi eserciti. Baratieri decide di far solo avanzare le sue colonne pensando di intimorire gli etiopi e costringerli a ritirarsi. Organizza uno spostamento notturno in quattro colonne che devono avanzare insieme per proteggersi a vicenda in quella zona collinare. Non prevede alcun attacco in profondità, né un piano per la ritirata. Non hanno carte precise ma solo schizzi fatti al momento dalle guide locali. Ma la formazione si scompone: una colonna avanza troppo in fretta e sbaglia percorso, le altre si ostacolano la marcia a vicenda. La colonna più avanzata è attaccata in forze dagli etiopi. Dopo violenti combattimenti ed esaurite le munizioni, i superstiti con il loro comandante si arrendono.
Un preciso attacco di Menelik su tutti i fronti, che sfrutta l’ottima conoscenza dei luoghi, sbaraglia gli italiani che sono annientati o catturati. Baratieri ordina la ritirata, ma non vi era alcun piano e le rimanenti truppe, a gruppi isolati e disordinatamente, ripiegarono su Adigrat. Gli etiopi non li inseguono sia per le loro forti perdite sia come premessa a una pace.
Gravi le perdite italiane: 7.000 morti, 3.000 prigionieri, 1.500 feriti più la perdita di tutta l’artiglieria e il materiale bellico. Il rilascio dei prigionieri costò al governo italiano, che organizzò delle collette di denaro, 5 milioni di lire.
La pace fu firmata a ottobre del 1886: l’Italia abrogava il trattato di Uccialli e riconosceva la piena indipendenza dell’Etiopia. Fu una grande sconfitta sul piano politico oltre che militare, che mise in luce tutte le debolezze e le contraddizioni della borghesia italiana.
Alla base della seconda guerra anglo-boera, o del Transvaal, erano gli interessi dei capitalisti inglesi sulle miniere d’oro. Scoperte nel Transvaal nel 1886, avevano richiamato una massa enorme di nuovi coloni, soprattutto inglesi, che divennero la maggioranza della popolazione, assunsero la gestione dell’industria mineraria e fondando nuove città e imprese, mentre i boeri erano prevalentemente agricoltori e allevatori su basi moderne.
Il primo ministro inglese della Colonia del Capo, Cecil Rhodes, il miliardario e il più grande produttore di diamanti del Sudafrica, premeva per l’annessione del Transvaal e dell’Orange direttamente all’Impero britannico. Nel 1895 organizzò, con il segreto appoggio di Londra e di altri industriali sudafricani, un tentativo di sollevazione e invasione del Transvaal con truppe mercenarie private, che si risolse in un clamoroso insuccesso.
Seguirono alcuni anni di inconcludenti trattative mentre i due fronti si preparavano ad una guerra ritenuta ormai inevitabile.
I boeri del Transvaal e dell’Orange attaccarono anticipando l’arrivo dei rinforzi inglesi. Le loro truppe erano reclutate su base volontaria e dovevano provvedere al proprio equipaggiamento e sussistenza; erano abili cavalieri e tiratori e formarono “commandos” di circa mille unità di fanteria montata. Non c’era una precisa gerarchia militare né regole vincolanti. Lo Stato forniva un moderno armamento leggero e pesante tedesco di ottima qualità; in tutto erano circa 90.000.
Alle truppe inglesi iniziali di 22.000 uomini arrivavano continui rinforzi dai migliori reparti inglesi compresi quelli dall’India di provata esperienza. Ferrea la disciplina. La tattica consolidata, che prevedeva un consistente bombardamento preliminare seguito dall’attacco della fanteria a ranghi serrati e carica finale della cavalleria. Però qui si rivelò inefficace e il comando inglese dovette modificare e integrare le funzioni mancanti.
Il 12 ottobre 1899 inizia la prima offensiva di 21.000 boeri divisi su 4 raggruppamenti che mettono sotto assedio gli avamposti inglesi. Dopo questo successo si attestano in attesa della controffensiva.
Con i nuovi rinforzi gli inglesi attaccano ma sono pesantemente sconfitti. Con una perfetta conoscenza del territorio, si rivela molto efficace la tattica di guerra dei commandos boeri che, con i nuovi potenti fucili a ripetizione Mauser, si attestano in lunghe trincee protette da reticolati contro l’attacco frontale inglese.
Londra invia come nuovo comandante l’esperto feldmaresciallo Roberts affiancato dal generale Kitchener, che aveva recentemente sconfitto i mahadisti nella battaglia-carneficina di Kartum, con un’altra armata di 45.000 soldati con migliore armamento.
I boeri non proseguono l’offensiva e si attestano sulla difensiva. Seguono altri attacchi e controffensive ma la situazione strategicamente è a favore dei boeri.
A Londra si pensa di autorizzare la resa, ma il nuovo comando in un mese di febbrile lavoro riorganizza l’esercito adeguandolo alle caratteristiche del territorio e alla tattica del nemico, e cambia strategia: invece di liberare le postazioni assediate oltrepassa l’Orange e punta sulla capitale nemica.
I commandos boeri arretrano in modo confuso verso la capitale permettendo agli inglesi di ricongiungere la fanteria e l’artiglieria con la cavalleria. Un primo attacco inglese è respinto ma il giorno seguente dalla collina 8 batterie di artiglieria con 20 mitragliatrici Maxim devastano il campo boero; i boeri si arrendono senza condizioni. Ben superiori sono le perdite inglesi per febbre e dissenteria per l’uso delle acque del Modder infettate dai cadaveri.
La situazione diventa favorevole agli inglesi che man mano, con scontri limitati, liberano le città assediate. I boeri arretrano lentamente impegnando gli inglesi in continui attacchi di guerriglia. Una parte dei comandanti boeri concederebbe la pace, altri intendono proseguire con la guerriglia.
La bonifica in Orange delle diffuse sacche di guerriglia impegna solo due settimane con la resa di 4.300 boeri su 6.000, mentre i restanti fuggono in zone sicure per riprendere la guerriglia. Riparate le linee ferroviarie distrutte dai boeri, sono inseguite le colonne di questi, che arretrano dal Transvaal verso il Mozambico portoghese. Infine nella battaglia di Bergendal i boeri sono sconfitti e in 2.000 riparano in Mozambico.
Ma prematuramente il comando inglese dichiara la fine della missione e l’annessione del Transvaal all’Impero britannico: 30.000 boeri sono ancora in armi e intenzionati a combattere, soprattutto dopo la tattica inglese della distruzione dei raccolti e dell’incendio delle fattorie. I commandos boeri si organizzano velocemente attaccando pesantemente le retroguardie inglesi che si sono spinte troppo a nord. Dopo questi successi invadono anche la Colonia del Capo e il Natal.
Il governo inglese preferirebbe una lenta sistematica occupazione del territorio mentre il comando militare attua la tattica della repressione dura e rapida. Colonne mobili rastrellano le zone di guerriglia, requisiscono raccolti e bestiame e deportano all’estero anche donne e bambini. Sono allestiti enormi campi di concentramento per i civili boeri, dove imperversano denutrizione e malattie.
I boeri, infine, nel 1902 si arrendono definitivamente, le due repubbliche boere cessano di esistere e sono annesse all’Impero britannico.
Le cifre di queste guerre appaiono incredibili: oltre 500.000 soldati inglesi impegnati: 8.000 morti in combattimento e 13.000 per malattie. Circa 100.000 i boeri in armi, con 4.000 morti in combattimento, 6.000 per malattie; 24.000 prigionieri deportati oltremare. I civili boeri morti nei 58 campi di concentramento furono 28.000 di cui 22.000 bambini. Furono bruciate 30.000 fattorie.
I boeri persero la guerra soprattutto a causa dell’assetto del loro esercito privo di una precisa struttura di comando, risultato della loro società ed economia di allevatori e agricoltori indipendenti dispersi su vasti territori. Ma la loro tattica di guerriglia obbligò gli inglesi ad investire molto per ottenere poco.
Le guerre boere rispecchiano lo scontro tra due forme di capitalismo: quella più moderna inglese basata sulla industria contro quella agricola estensiva boera e segnano la trasformazione di quegli allevatori in commercianti e fabbricanti, con la nascita delle fabbriche e delle nuove città, in altre parole del Sudafrica moderno.
Origini del movimento
in Italia
Alla fondazione della Seconda Internazionale
Il Partito Operaio dopo gli arresti di giugno 1886 ed a causa della persecuzione governativa decise di riorganizzarsi sotto il nome di una società di assistenza: l’“Unione Mutua Operaia Istruttiva”. Per sfuggire alla sorveglianza della polizia il C.C. si era trasferito ad Alessandria e solo la redazione del giornale, semiclandestino, restava a Milano. Sempre per evitare il divieto prefettizio di ricostituzione del P.O.I. nel milanese, il terzo congresso fu convocato a Pavia (18 e 19 settembre 1887). Per i socialisti rivoluzionari intervenne Costa, per gli anarchici Luigi Molinari.
Gli operaisti dichiararono che il loro programma consisteva “nella definizione della lotta di classe”, soprattutto in campo economico, ma ancora una volta ignorarono la proposta di Andrea Costa per l’integrazione dei due partiti. Il P.O.I. volle riaffermare la sua distanza sia dai socialisti sia dagli anarchici.
Una minima innovazione venne apportata al Programma ed allo Statuto allargando le rigide maglie che ne limitavano l’adesione ai puri operai salariati ammettendo anche i lavoratori indipendenti, ma il carattere “operaio” del partito fu nuovamente riaffermato negandone l’iscrizione ai non proletari anche se ne accettavane il programma ed i principi.
Prendendo in esame la questione del lavoro delle donne e dei fanciulli, gli operaisti rifiutarono di fare affidamento su soluzioni legislative affermando che questi erano problemi che sarebbero stati risolti solo attraverso la lotta di classe.
Il congresso dovette infine prendere atto della diminuzione degli iscritti, del disastroso stato delle finanze del partito e delle ondate repressive che frustravano tutti i tentativi di riorganizzazione.
Nel frattempo, per iniziativa di Turati, in accordo con Lazzari, nasceva la Lega Socialista Milanese al fine di raggruppare i socialisti escludendone gli anarchici.
Ma il POI non era il solo ad attraversare una grave crisi, altrettanto accadeva al Partito Socialista Rivoluzionario, anche se per motivi opposti: ossia a causa dei suoi reiterati tentativi di trovare un terreno comune non soltanto con operaisti ed anarchici, che comunque si tenevano su di un terreno di classe, ma anche con democratici radicali e mazziniani di sinistra. Questa tattica anziché rafforzare il partito lo aveva portato ad un continuo e progressivo indebolimento tanto che la organizzazione del P.S.R. si restrinse alla sola Romagna.
L’unico fatto importante che il P.S.R. riuscì a realizzare fu la riunione che si tenne a Forlì il 30 giugno 1889 con all’ordine del giorno la partecipazione ai due congressi internazionali (quello “possibilista” e quello “marxista”) indetti a Parigi per il mese seguente. I socialisti rivoluzionari dichiararono che ciò che divideva i due congressi non era per loro di alcun interesse e stabilirono che la loro delegazione avrebbe partecipato ad entrambi. Ai delegati venne data istruzione di agire a favore dell’unificazione dei due congressi, e per la ricostituzione dell’Internazionale. Al contrario, il Partito Operaio inviava un suo rappresentante al solo congresso “possibilista”, mentre Turati dava mandato a Costa di rappresentare anche la milanese Lega Socialista.
Il Congresso Internazionale Operaio (“marxista”) si aprì a Parigi il 14 luglio 1889; quello Operaio Socialista (“possibilista”) il giorno dopo. L’O.d.G. dei due congressi era praticamente lo stesso, e verteva soprattutto sulla legislazione sociale. Il congresso marxista risultò il più qualificato e numeroso, partecipandovi molte delle più eminenti personalità del socialismo internazionale (Lavrov, Guesde, Vaillant, Aveling, De Paepe, Liebknecht, Bebel, Bernstein, Zetkin, etc.).
Costa fu eletto alla presidenza di ambedue i congressi e conformemente al suo mandato, si adoperò, senza risultato, per l’unificazione delle contrapposte assise.
Entrambi i congressi stabilirono di rendere permanenti i vincoli internazionali istituendo rapporti continuativi tra i partiti dei diversi paesi. I “marxisti” proposero che la giornata del 1° maggio 1890 fosse caratterizzata, in tutto il mondo, da astensioni dal lavoro per rivendicare l’orario lavorativo di otto ore. Dal congresso “marxista” nacque la Seconda Internazionale, mentre l’Internazionale dei “possibilisti” non nascerà mai.
Le delegazioni italiane tornarono da Parigi con la sensazione che il movimento operaio era ormai una grande forza. Grande era stata l’ammirazione per la socialdemocrazia tedesca che appariva come modello per tutti i partiti socialisti. Così, in occasione del congresso di Halle, dell’ottobre 1890, ai socialdemocratici tedeschi fu inviato un entusiastico Indirizzo, la stesura del quale era stata affidata ad Antonio Labriola.
Intanto in Italia tre congressi erano in gestazione: quello del Partito Socialista Rivoluzionario, del Partito Operaio e degli anarchici.
Il declino del P.S.R. sembrò avere una inversione di tendenza nel 1889, quando riapparve, per la terza volta, quello che era stato l’organo dei socialisti rivoluzionari: Il Sole dell’Avvenire che, con un appello dal titolo “Della necessità di riorganizzare il Partito Socialista Rivoluzionario Italiano”, invitava a stringere le file ed a ricostituire le sezioni. Queste indicazioni riscossero un apparente successo in tutta la regione ed anche Costa, da Parigi, dove si era rifugiato per sfuggire ad una condanna di 3 anni, plaudì all’iniziativa. (Nel corso del rapporto ci si è a lungo soffermati sulle cause che avevano determinato la condanna e l’autorizzazione a procedere nei confronti del rivoluzionario romagnolo).
Di fatto, il congresso del P.S.R. non fu convocato allo scopo di riorganizzare il partito, ma, molto più modestamente, per organizzare al meglio la partecipazione alle elezioni politiche del novembre 1890.
Gli anarchici, che, in quanto astensionisti, non erano stati invitati, attaccarono violentemente il “socialismo legalitario e parlamentare” e si apprestarono a preparare un loro congresso contrapposto, da tenersi in Svizzera.
Ma il congresso del P.S.R., indetto unicamente a scopo elettorale, non piacque neanche al Partito Operaio ed ai socialisti milanesi, che rifiutarono di prendervi parte. Pure Turati e Labriola se ne dichiararono contrari.
Turati, in una lunga lettera, metteva in guardia i socialisti romagnoli sui pericoli delle “possibili alleanze con partiti cosiddetti o ritenuti affini”. Nelle competizioni elettorali, diceva Turati, ci deve essere «distinzione netta e precisa di programmi, ciascuno col nome del suo partito ed in nome del suo ideale, onde l’equivoco, che già troppo alligna nella vita pubblica ed al quale le ambizioni personali aprono così facile il varco, fugga dalle nostre file e non abbia a contaminare noi pure».
Molto più sbrigativa fu invece la risposta di Antonio Labriola: «Sono dolente di dover rispondere con un rifiuto esplicito e reciso. Io non ho mai approvato l’idea di questo Congresso indetto al solo scopo di proporre delle candidature». Qualche giorno prima, il 13 ottobre, aveva scritto a Turati: «La smania di diventar deputati, coi voti generici dei democratici d’ogni maniera, non è conciliabile con la lotta di classe, e col moto schiettamente proletario».
Il congresso di Ravenna si ridusse quindi ad una riunione locale con puro carattere elettorale. L’unico avvenimento che gli diede lustro fu quello di essere riuscito a sfuggire alla caccia della polizia. I partecipanti si erano riuniti in una palestra del Palazzo di Classe, e, mentre la polizia perlustrava il palazzo e sfondava le porte senza riuscire a trovarli, questi discutevano tranquillamente i loro ordini del giorno.
Il 1° novembre si tenne a Milano il V ed ultimo congresso del P.O.I. Le persecuzioni non erano riuscite a demolire il partito, tanto che Milano tornò ad essere la sede del congresso. Al congresso del Partito Operaio, per la prima volta, non intervennero gli anarchici, che invece avevano partecipato, e disturbato, a tutti i precedenti. I lavori congressuali affrontarono il problema della difficile resistenza e della critica situazione finanziaria per i mancati contributi di molte società. Altra questione fondamentale, ampiamente dibattuta ai congressi di Parigi, era stata la istituzione delle Camere, o Borse, del Lavoro. Già la prima, a Milano, era in fase di realizzazione completa ed altre stavano per sorgere a Torino, Firenze, Piacenza etc.
Le Camere del Lavoro erano concepite come uffici di collocamento gratuito, che avrebbero dovuto servire a disciplinare il mercato del lavoro, evitare la concorrenza fra i lavoratori e quindi il deprezzamento della mano d’opera. Il Congresso di Milano confermò questo concetto. Fu quindi deliberato «di entrare vigorosamente nella agitazione tendente a moltiplicare l’istituzione delle Borse stesse».
Passando poi alla discussione sulle otto ore e della giornata del 1° maggio, il congresso fece proprio quanto era stato deliberato a Parigi e, riguardo alla organizzazione dei contadini e delle donne fu votato un ordine del giorno per una loro migliore organizzazione ed una più intensa propaganda.
Infine il congresso terminò i propri lavori con un voto di «saluto ai martiri di Chicago, dei quali l’11 corrente mese compie il 3° anniversario della impiccagione, ed a tutte le vittime della causa dell’emancipazione sociale».
Questo fu l’ultimo congresso del Partito Operaio che, come il Partito Socialista Rivoluzionario, era ormai in fase di aperto declino; ancora due mesi e cesserà anche, definitivamente, la pubblicazione del Fascio Operaio. Moriva di morte naturale l’ideologia economicistica e corporativa, quella di un partito limitato alla resistenza, economico e non politico. Però i risultati delle sue battaglie non andarono perduti in quanto l’organizzazione della lotta economica dei lavoratori si materializzò nello sviluppo delle Camere del Lavoro e delle Federazioni di mestiere.
Dal 4 al 6 gennaio 1891 a Capolago, presso Lugano, anche gli anarchici fecero il loro congresso. Sulle contrapposte tendenze che si diedero battaglia non abbiamo interesse a soffermarci. Diremo solo che il congresso tentò la costituzione di un Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario, ma si trattava di un ben strano partito dal momento che organi centrali non erano previsti ed ogni sezione o gruppo avrebbe goduto di illimitata autonomia. Infatti le deliberazioni, prese a maggioranza, potevano dagli aderenti essere applicate o meno. Il programma si limitava ad una generica indicazione dei princìpi teorici e dei mezzi pratici che il partito si proponeva di adottare. Per quanto riguardava i primi, nessuna novità rispetto alle tesi della vecchia internazionale anarchica. Interessante è invece l’enunciazione dei mezzi, che dovevano comprendere la “propaganda in qualunque forma” e la “partecipazione a tutte le agitazioni e a tutti i movimenti operai”. Questo rappresentò un passo in avanti se si pensa che precedentemente gli anarchici avevano condannato persino gli scioperi come inutile mezzo di lotta “legale”. Infine fu dichiarata l’adesione alla festa internazionale del 1° Maggio.
Con questi tre congressi quindi, tenuti nello spazio di tre mesi, non si fece alcun passo avanti verso la formazione di quel partito socialista nazionale che era nelle intenzioni di tutti quanti e soprattutto diventava ormai indispensabile.
FINE DEL RESOCONTO DI GENOVA
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Importanti lezioni dopo i cinque mesi di sciopero dei minatori in Sud Africa
Lo storico sciopero dei 70.000 minatori delle miniere di platino in Sud Africa, guidato dall’Amcu (Association of Mineworkers and Construction Union) si è concluso dopo ben cinque mesi, il 23 giugno. Come ogni lotta operaia, a maggior ragione per la sua intensità e durata, è ricco di conferme per le tesi comuniste e di insegnamenti per i lavoratori di tutto il mondo.
È stato il più lungo sciopero nella storia del movimento operaio del paese, ben più dei due maggiori presi fino ad oggi a riferimento: lo sciopero a Durban nel 1973, partito dai portuali ed estesosi spontaneamente a quasi tutte le categorie, e quello di 360 mila minatori nel 1987, durato tre settimane e che fu guidato dal NUM (National Union of Mineworkers). Come abbiamo recentemente sottolineato la lotta di classe in Sud Africa, paese modernamente industriale, va acuendosi. Questo non va in senso contrario rispetto al resto del mondo e non rappresenta una eccezione bensì è una delle evidenti manifestazioni di un processo storico generale: la pace fra le classi è impossibile, è una ipocrisia con la quale si vuol mantenere soggiogato il proletariato. La lotta fra le classi è ancora il motore della storia, la chiave con la quale comprenderne lo sviluppo, a piena conferma della teoria comunista.
Questo sciopero conferma un’altra fondamentale posizione comunista: la fine dell’apartheid e l’avvento della democrazia non hanno affatto posto fine alla condizione di miseria e sfruttamento della classe lavoratrice, e non poteva essere altrimenti essendone la causa il capitalismo, non una sua particolare forma di governo. Le radici delle contraddizioni sociali, in Sud Africa come in tutto il mondo, non affondano nella razza, nella religione, nella democrazia o nella dittatura, ma in questo modo di produzione fondato sulla divisione della società fra la classe dei lavoratori salariati da un lato, i moderni proletari, e la classe di detentori o gestori del Capitale dall’altro, la borghesia. In ogni paese i falsi partiti dei lavoratori sempre indicano agli sfruttati quale causa delle loro sofferenze un aspetto particolare del capitalismo, risolto il quale questa società diverrebbe finalmente benevola anche per loro.
In Sud Africa, finché c’era l’apartheid era facile far credere ai proletari negri che la loro miseria era dovuta al razzismo dei bianchi, e non alle leggi economiche con cui funziona il modo di produzione capitalista. In realtà, con la fine del regime razzista, nel 1994, la situazione operaia non è migliorata e il crescere della lotta di classe negli ultimi anni lo conferma al di sopra di ogni dubbio. Ciononostante l’opportunismo, che non può non mentire, addita i bassi salari ad una eredità del passato regime non ancora debellata, definendoli “salari colonialisti da apartheid”. Una visione prettamente ideologica che nasconde le chiare ragioni economiche alla base di questa condizione. È il capitalismo che spinge al ribasso i salari! Oggi un governo borghese di neri tutela gli interessi, non dei bianchi, ma del Capitale nazionale e internazionale, in questo ricco e importante paese.
La grandiosa battaglia dei minatori conferma anche le nostre tesi in campo sindacale. Come già abbiamo scritto – sia su questo sciopero sia su quello segnato dal massacro di 34 minatori per mano della polizia, democratica e nera, l’agosto di due anni fa a Marikana – il COSATU sta mostrando la sua natura di sindacato di regime, ossia la sua fedeltà agli interessi capitalistici, analogamente a quanto avvenuto, ad esempio in Italia nel secondo dopoguerra con la CGIL. La federazione dei minatori, lo storico NUM, ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per spezzare lo sciopero, organizzando il crumiraggio e con le calunnie. Diversi sono stati gli scontri e le vittime fra i minatori in sciopero e i crumiri del NUM. Nelle miniere di platino la forza di questo sindacato è ormai compromessa. Dopo la strage di Marikana l’AMCU si è guadagnato la fiducia degli operai. Resiste invece l’influenza del NUM nelle miniere di carbone, oro e diamanti. Questo ha impedito allo sciopero di estendersi agli altri minatori, il che avrebbe sicuramente permesso un successo maggiore. Lo stesso vale per il resto della classe operaia, controllata dal COSATU, nella quale non vi sono esempi di organizzazione e lotta fuori e contro questa confederazione paragonabili a quello dell’AMCU.
I 70.000 minatori del platino hanno così scioperato eroicamente per cinque mesi soli, isolati dagli altri minatori e dal resto della classe lavoratrice. Il tentativo da parte dell’AMCU di estendere lo sciopero alle miniere d’oro è stato bloccato dalla Corte del Lavoro che ha definito l’azione non legale. Ulteriore fatto che conferma la natura borghese del regime democratico post-apartheid sudafricano.
La sentenza della Corte è stata condannata anche dalla dirigenza del NUMSA, la federazione metalmeccanica del COSATU, che, come in Italia la FIOM, fa una finta opposizione da sinistra all’interno della confederazione. Il NUMSA, dopo che il NUM ha perso oltre 50.000 iscritti a favore dell’AMCU, è divenuto la maggiore federazione del COSATU, inquadrando circa 270.000 operai. A dicembre 2013, in previsione delle elezioni politiche del maggio successivo, ha ritirato il suo appoggio all’alleanza governativa ANC-SACP, schierandosi così contro la propria confederazione. Dopo le elezioni, che hanno confermato il precedente governo, il NUMSA ha chiesto un congresso straordinario del COSATU, che all’interno della confederazione si sta dibattendo se svolgerlo o meno. Il timore di alcuni, speranza di altri, è che si giunga ad una scissione. Ma, come in Italia con la FIOM, per capire come stanno realmente le cose, bisogna dare il giusto peso alle dichiarazioni e agli scontri di corrente, concentrandosi sui dati di fatto, che solo importano.
In cinque mesi di sciopero dei minatori il NUMSA non ha fatto nulla in loro aiuto. In quanto maggiore federazione del COSATU, che organizza una categoria, quella dei metalmeccanici, la quale, insieme ai minatori, rappresenta il cuore della classe operaia, ha così provocato la divisione della classe lavoratrice e l’isolamento dello sciopero. Ciò appare ancora più evidente se si considera che il NUMSA ha atteso la fine dello sciopero dei minatori, il 23 giugno, per far partire quello generale dei metalmeccanici il 1° luglio! L’unione delle due lotte avrebbe inferto un colpo mortale alla resistenza delle compagnie minerarie e degli industriali, permettendo una grande vittoria per tutti i lavoratori. Il NUMSA si è ben guardato dal farlo. Ciò conta cento, mille volte di più di ogni roboante dichiarazione o lotta congressuale. I fatti hanno la testa dura, diceva Lenin.
Vi è inoltre un altro fatto importante. La rivendicazione dei minatori del platino è, dal 2012, prima organizzati in comitati di lotta poi nell’AMCU, quella di un salario base di 12.500 Rand, circa 890 Euro. Il NUMSA ha chiamato allo sciopero gli operai metalmeccanici dal 1° luglio per un salario base di 5.600 Rand. Ciò indica due cose: da un lato la modestia della rivendicazione, compatibile con gli interessi capitalistici, ed infatti sostenuta da tutto il COSATU; dall’altro che i salari dei metalmeccanici non si discostano da quelli dei minatori e che quindi la lotta per un salario base di 12.550 Rand era in tutto e per tutto anche loro. Altra conferma della natura compromissoria del NUMSA e della sua opera di divisione della classe lavoratrice.
Questa situazione e le lotte delle organizzazioni sindacali sul campo dello scontro fra le classi in Sud Africa confermano sia la tendenza all’assoggettamento dei sindacati al regime borghese, carattere proprio del capitalismo nella sua fase imperialista, dal nostro partito ritenuto compiuto già all’indomani della seconda guerra mondiale, sia la conseguente reazione spontanea a ricostruire l’organizzazione sindacale per la lotta di classe, o con una lotta all’interno dell’organizzazione sindacale di regime o attraverso una riorganizzazione fuori e contro di essa. Il partito non sempre e ovunque può prevedere quale di queste due strade sarà percorsa dal movimento, ma dedica attento studio allo spontaneo atteggiarsi difensivo della classe, tramite l’attività dei suoi militanti in essa, al fine di prevederne le modalità e le difficoltà nei necessari successivi trapassi della sua contingente difensiva, e li anticipa alla classe, in un percorso che non è in contraddizione con il più generale dispiegamento rivoluzionario diretto dal partito.
All’AMCU va il grande merito di aver guidato con coraggio e determinazione il più lungo sciopero nella storia del Sud Africa, non cedendo alle intimidazioni delle compagnie minerarie e del regime borghese. Questo sindacato si è guadagnato la fiducia dei minatori. I comitati sindacali nelle varie miniere, prima associati al NUM, poi distaccatisi per condurre autonomamente la lotta, hanno infine aderito ad esso. Di questo sindacato però sappiamo ancora poco. Per il fatto che si scontra con il COSATU, ed in particolare con il NUM, influenzati dal falso partito comunista sudafricano, è additato di “anticomunismo”. Joseph Mathunjwa, il capo, è un fervente cristiano. La linea politica imposta ad un sindacato non può non determinarne, nel bene o nel male, l’azione. La dirigenza dell’AMCU si dichiara “apolitica”. Ma la “politica” è l’espressione dei contrasti di interessi fra le classi: non può esserci apoliticità in una società divisa in classi. Chi si dichiara apolitico, rifiutando perciò i principi politici comunisti, finisce giocoforza per abbracciare quelli borghesi. Ad esempio, Mathunjwa, al termine dello sciopero, ha detto alle migliaia di operai riuniti nello stadio di Rustemberg: «Compagni, avete fatto la storia del Sud Africa: questa vittoria non è solo nostra ma dell’intero paese». Questa è già una dichiarazione politica, in cui si enuncia un principio politico borghese.
Con essa il capo dell’AMCU voleva forse rispondere agli industriali che accusavano gli scioperanti di danneggiare l’economia nazionale. Ma ad aver ragione sono proprio quest’ultimi! Lo sciopero danneggia sempre le aziende e il paese, in una parola il Capitale. Il 16 giugno l’agenzia internazionale finanziaria Fitch ha abbassato la previsione sul rating da stabile a negativo in quanto «le prospettive di crescita del Sudafrica sono minacciate soprattutto dallo sciopero dei minatori che ormai da cinque mesi sta piegando l’industria del platino». Lo stesso hanno fatto, dopo poche ore, le agenzie sorelle Standard & Poor’s e Moodys. Nel primo trimestre del 2014 il prodotto interno lordo è tornato a scendere dello 0,6% dopo la recessione nel 2009, con l’attività manifatturiera diminuita del 4,4% e quella mineraria del 24,7%.
È indubbio che la lotta dei minatori ha contribuito a far cadere nella recessione l’economia sudafricana. Ciò, lungi dall’essere un fatto negativo per la classe operaia, ne dimostra la potenza e la forza e conferma la tesi comunista che la lotta dei lavoratori non può essere in difesa dell’economia nazionale, che altro non è che il capitalismo, ma necessariamente contro di essa. L’unica onesta, coerente ed efficace replica all’ira borghese di sempre contro gli scioperanti additati quali disfattisti dell’interesse nazionale non sta nel negare l’evidenza di questa accusa, ma nell’affermare – travalicando l’ambito “tradeunionista”, che in realtà separato non esiste – che i lavoratori non possono che giovarsi della disgrazia dell’economia nazionale provocata dalle loro lotte perché essa favorisce il crollo politico di questo regime e quindi la conquista rivoluzionaria del potere. Solo con questa sarà possibile finalmente rispondente stabilmente ai bisogni dell’umanità lavoratrice e non a quelli del profitto, sovvertire il funzionamento della attività produttiva, organizzandola in modo razionale, secondo un piano mondiale, non certo chiuso nei confini nazionali, già da decenni stretti per lo stesso capitalismo e da esso utilizzati solo per dividere e mantenere oppressi i lavoratori.
Questa vittoria, e soprattutto questa lotta, hanno avuto sì una importanza che va oltre i proletari che l’hanno condotta, i minatori del platino, ma non certo per il Paese, cioè per tutte le classi della società in Sud Africa: è una vittoria della sola e intera classe operaia sudafrica e internazionale.
Vi è stata, forse, una certa timidezza o remora da parte dell’AMCU nel cercare di estendere lo sciopero oltre la cintura del platino, alle altre miniere. Non siamo riusciti a rinvenire alcun appello agli altri minatori ad unirsi allo sciopero. Se questo atteggiamento derivasse dalla volontà di non arrecare eccessivo danno all’economia nazionale con una mobilitazione più estesa dei lavoratori già si vedredde come la linea politica del sindacato, che vuole essere apolitica, influenzi la sua azione, ponendosi di traverso all’unificazione della lotta della classe lavoratrice. È chiaro che questo è un nodo che l’AMCU si troverà presto a dover sciogliere e da come lo farà avanzerà sulla via della difesa della classe operaia o imboccherà quella della difesa degli interessi del Capitale, come già in passato ha fatto il COSATU.
Lo sciopero si è concluso con un compromesso che sembra sia stato accolto positivamente dagli scioperanti e che l’AMCU ha presentato come una vittoria. Non è stato ottenuto il salario base di 12.500 Rand, che avrebbe comportato un aumento del 125%, bensì un accordo su tre anni al termine dei quali il salario base sarà di 8.900 Rand (630 euro), con un incremento del 46%. Gli aumenti sono maggiori per le categorie peggio pagate, fatto positivo perché riducendo le differenze salariali aiuta ad unificare i lavoratori (in Italia Cisl, Uil e Cgil, Fiom compresa, applicano il principio opposto: aumenti maggiori per i lavoratori che già guadagnano di più e minori per quelli il cui salario è più basso).
Al di sopra dell’esito economico della lotta va sempre ricordato che il risultato fondamentale sta nell’accresciuta o diminuita unità dei lavoratori, ossia nella loro forza organizzata in vista delle battaglie a venire. Questo bilancio potrà presto farsi alla prova delle lotte che già si annunciano, con la compagnia mineraria Lonmin che il 25 agosto ha annunciato il licenziamento di 5.700 operai, in risposta all’aumento ottenuto, corrispondenti al 21% della forza lavoro dell’azienda in Sud Africa. Il 29 luglio è stato invece segnalato il nuovo massimo raggiunto nella disoccupazione, che ha raggiunto il 25,5%.
A fronte dell’incrudirsi della lotta di classe quel regime borghese in veste democratica si sta predisponendo a correre ai ripari e già diversi suoi rappresentanti si sono espressi a favore di una legge che limiti la lunghezza degli scioperi imponendo oltre una certa durata un arbitrato dello Stato. Il ministro del lavoro Mildred Oliphant ha dichiarato che «il governo deve intervenire. Non è possibile assistere a scioperi così lunghi nel nostro paese; dove una mediazione non è possibile deve essere imposto un arbitrato». Come si vede, alla prova fatti, cioè della lotta di classe, la democrazia mostra la sua vera natura borghese.
Il 1° luglio è iniziato lo sciopero del NUMSA. Anche questo un grande sciopero, durato quattro settimane, fino al 28 luglio. Si sono fermate le fabbriche della Toyota a Durban, della Ford a Pretoria, della General Motor a Port Elizabeth, per citare i casi maggiori. A differenza di quello dei minatori, osteggiato in ogni modo, questo sciopero ha ricevuto il sostegno del COSATU e delle sue federazioni, fra le quali il NUM, naturalmente limitatosi a solenni dichiarazioni. La ragione si spiega nel senso di responsabilità della dirigenza del NUMSA verso gli interessi del Capitale. Ciò emerge, come visto, dalla limitatezza della rivendicazione economica.
Anche indicativa la dichiarazione del Comitato Esecutivo Nazionale del NUMSA all’inizio della mobilitazione: «Lo sciopero non è stato una facile decisione, bensì dolorosa. Organizzare lo sciopero non è mai stato nella nostra agenda; lo sciopero ci è stato imposto. Noi usiamo lo sciopero come parte di una tattica tesa a fare pressione sul padronato, tornare al tavolo e presentare una offerta accettabile ai nostri membri». Un tono analogo a quello dei sindacati concertativi italiani.
Il NUMSA combatte quelli che chiama i “colonial apartheid wages” (i salari coloniali e da apartheid), con una formula opportunista che attribuisce la causa dei bassi salari non al capitalismo ma ad una sua pretesa forma peggiore, per altro liquidata vent’anni fa. Il problema per i lavoratori è nel salario senza aggettivi, che il capitalismo, nazionale e internazionale, spinge al ribasso. E contro i bassi salari i lavoratori non possono certo battersi finché sono guidati da sindacati che rifiutano e temono l’arma dello sciopero! Anche in Sud Africa, come in tutti i paesi del mondo, lo scontro fra salariati e capitale passa per la ricostruzione di una organizzazione sindacale di classe.
Taglio a distacchi e permessi e il sindacalismo di classe
L’11 agosto il parlamento ha approvato la legge n. 114 di conversione del Decreto del 24 giugno titolato “Misure urgenti per l’efficienza della p.a. e per il sostegno dell’occupazione”. I provvedimenti principali che riguardano i lavoratori dipendenti dalla macchina statale borghese sono:
1) l’introduzione della mobilità obbligatoria entro 50 chilometri, ossia la possibilità che diverse amministrazioni pubbliche si accordino per spostare da una sede ad un altra il lavoratore;
2) l’introduzione del “demansionamento”, di un livello sia di qualifica sia di posizione economica. Questa è presentata come una “possibilità”: il lavoratore può farne richiesta entro il termine di scadenza della messa “in disponibilità”, una sorta di cassa integrazione in cui si percepisce l’80% del salario per 24 mesi, scaduti i quali vi è... il licenziamento. Quindi, o fai richiesta per ridurti il salario o diventi disoccupato.
Oltre a ciò questo provvedimento legislativo prevede la riduzione, dal 1° settembre, dei «contingenti complessivi dei distacchi, aspettative e permessi sindacali».
Nessuna delle organizzazioni sindacali cosiddette rappresentative nel settore statale si è lagnata di questo provvedimento. I sindacati tricolore (Cgil, Cisl e Uil), d’altronde, fedeli al loro spirito corporativo, cioè agli interessi del capitalismo nazionale, da anni hanno fatto propria la crociata del regime borghese “contro gli sprechi”, e solo a questo scopo battagliano a colpi di documenti con “proposte costruttive” per distribuire i sacrifici fra lavoratori e dirigenti. Non potevano quindi certo chiamare i propri iscritti a una battaglia contro i sacrifici, ora che toccavano in sorte alle loro organizzazioni. Anche se questo drastico taglio dei permessi, sappiamo, non fa certo loro piacere. Hanno fatto buon viso a cattivo gioco, ingoiando il rospo, vittime loro stessi della bieca propaganda padronale di cui si sono fatti portatori. Lo scopo dichiarato, far funzionare in modo efficiente la macchina statale capitalista, non sarà mai raggiunto, mentre sarà centrato il vero obiettivo, aumentare drasticamente lo sfruttamento dei lavoratori.
La USB, la principale organizzazione sindacale di base nel pubblico impiego, ha giustamente stigmatizzato la propaganda del governo, che vorrebbe far credere che simili provvedimenti servano a risanare il regime e l’economia capitalista afflitti dalla crisi. Ha poi scritto «siamo certi che la militanza sarà in grado di supplire alla sottrazione di tempo e di risorse da dedicare alle lotte... È una sfida per rafforzare la prospettiva del sindacato di classe, è una battaglia che siamo convinti di poter combattere e vincere”. Una presa di posizione corretta.
Il nostro partito ha sempre sostenuto che un sindacato di classe deve basarsi essenzialmente sul lavoro volontario e gratuito dei suoi militanti, non affidandosi a distacchi e permessi. E proprio per questo abbiamo dovuto criticare le principali organizzazioni sindacali di base. Perché, per l’USB e non solo, fra il dire e il fare... Queste dichiarazioni hanno poco valore finché la prassi resta, come fino ad oggi è stata, ben diversa da quella di un sindacato di classe basato sulla militanza, troppo sovente coartata con la minaccia di provvedimenti disciplinari o soffocata con la suicida espulsione di buoni militanti e di intere sezioni.
Venezuela - Sidor
Sindacalisti e padrone uniti per fermare la lotta
operaia
La lotta continua per l’aumento dei salari uguale per tutti e per la riduzione della giornata lavorativaSidor è la più grande fabbrica siderurgica del Venezuela, è in crisi da anni, ridotta ad un deposito di macchine ed impianti che si deteriorano di giorno in giorno. 29 anni fa Sidor aveva a libro paga circa 20.000 lavoratori, più altri 10.000 a contratto. Produceva in media 2 milioni di tonnellate all’anno, con un massimo di 5; oggi non arriva al 30% della sua capacità.
Questa crisi il governo borghese cerca di scaricarla sulle spalle dei lavoratori, riducendo i costi con bassi salari e il ritardo, il prolungamento di fatto, della durata del contratto collettivo.
Quattro anni dopo la scadenza del Contratto Collettivo, il sindacato dei siderurgici e affini (SUTISS) ha firmato un accordo con il padrone alla fine di un incontro durato dalla notte del 13 fino alle 5 del mattino del 14 agosto. Il segretario del SUTISS ha dichiarato «Abbiamo raggiunto l’obbiettivo dei lavoratori, che è sempre stato quello di firmare. Non è stato facile, e abbiamo chiesto scusa per le azioni che abbiamo dovuto intraprendere in difesa dei nostri diritti. Andiamo ad aumentare la produzione e l’efficienza dell’azienda».
Quattro anni senza contratto, quattro anni senza migliorare il salario dei lavoratori, e il sindacato «chiede scusa» perché avrebbe difeso dei nostri diritti!
E, a questo punto, che fa il sindacato? Promuove la mobilitazione operaia e lo sciopero? Organizza picchetti di propaganda in tutte le aziende della Guayana? Promuove l’unità e la lotta dei lavoratori in tutta la regione e nel paese per la comune rivendicazione dell’aumento del salario uguale per tutti? La risposta è NO. Il SUTISS non ha promosso alcuna la lotta rivendicativa. Le azioni di protesta e di scontro con il padrone si devono agli operai scontenti, ed al sindacato non è rimasta altro che presentarsi come “rappresentante dei lavoratori”, ma sempre alla ricerca della collaborazione con il padrone.
L’accordo stabilisce un aumento del salario giornaliero di 170 bolivares, dei quali 80 verranno pagati alla firma del contratto e 30 in più ogni sei mesi; in aggiunta 240.000 bolivares a compenso del ritardo contrattuale. Il resto delle clausole oggetto del conflitto sono praticamente rimaste identiche al contratto scaduto.
Ma l’importante dell’accordo, che unifica il padrone e il SUTISS, sta nell’«aumento della produzione e dell’efficienza».
Sindacato e padrone/governo si sono accordati per il pagamento dei 240.000 bolivares retroattivi, ma questo non è altro che il bonus che viene pagato per legge a qualunque lavoratore per il ritardo della firma del contratto. Che non solo non compensa i quattro anni di salario bloccato, e quindi costituisce un notevole risparmio per l’azienda, ma nemmeno compensa tutte le prestazioni sociali relative agli aumenti salariali non percepiti in questi quattro anni. Sindacato e padrone vantano il bonus per ammansire i lavoratori, che non si avvedono che così si fanno derubare una percentuale addizionale di plusvalore. 240.000 bolivares per quattro anni corrispondono a 60.000 bolivares all’anno e a 5.000 bolivares mensili, che in questi quattro anni si sono svalutati vertiginosamente di non meno del 154%. Questo è il prezzo che il padrone/governo e il sindacato hanno concordato per mantenere la pace sociale alla Sidor e nella Guayana.
Inoltre è deciso un piano di investimenti per rilanciare la produzione dell’acciaieria nazionalizzata. Anche questo conferma che la maggior preoccupazione della SUTISS è il benessere dell’azienda e non dei lavoratori. Le rivendicazioni approvate cercano solo di placare la lotta così da garantire il buon funzionamento dell’azienda.
La Central Bolivariana de Trabajadores – che è una confederazione padronale, un sindacato del regime che sta dalla parte dei padroni – ha pubblicamente espresso soddisfazione e sostegno per l’accordo alla Sidor. Una parte della sua dirigenza sindacale (guidata dal suo presidente) denunciò il 14 agosto che quell’accordo era stato firmato “alle spalle dei lavoratori” e che pertanto “la lotta continuava”, però senza bloccare l’azienda. Solo dopo poche ore, gli stessi annunciarono ai lavoratori che... erano stati convocati dal Ministro dell’Industria! Infatti, questo gruppo non è di tipo diverso da quello che ha firmato l’accordo, ma le elezioni sindacali si avvicinavano e si strumentalizzava il malcontento operaio per mantenersi alla direzione del sindacato e continuare ad ingannare i lavoratori. I vari movimenti e correnti sindacali che controllano il direttivo di SUTISS sono movimenti filo-padronali, talvolta spinti dai lavoratori ad azioni di protesta, ma che non hanno esitato a venire a patti con la direzione della Sidor, con il Ministero del Lavoro e con quello dell’Industria. Questi movimenti sono un freno alla protesta operaia, e non solo dei lavoratori della Sidor ma di tutti i lavoratori della Guayana.
I lavoratori della Sidor hanno dimostrato grande combattività, facendo onore alla storia delle loro lotte. Durante questi quattro anni gli operai si sono mobilitati, sempre pronti allo sciopero. La stessa combattività hanno dimostrato tutti i lavoratori della Guayana e del Venezuela nella lotta per l’aumento del salario uguale per tutti, per la riduzione della giornata lavorativa e la riduzione dell’età di pensionamento.
Essendo in gioco il profitto capitalistico il governo non esita a reprimere la mobilitazione operaia ogni volta che si presenta. Il borghese governo chavista si sta togliendo la maschera di “socialista” ed “operaio” mandando nei tribunali e al carcere i lavoratori che scendono in strada a protestare. Recentemente è stato disperso il picchetto operaio ai portoni della Sidor con lacrimogeni e sparando proiettili di gomma e inseguendo i lavoratori anche all’interno della fabbrica. I partiti della “opposizione”, che dichiarano la loro “solidarietà” con i lavoratori della Sidor, non esiteranno a formare un solo fronte borghese per reprimere i lavoratori nel caso diano alla lotta un risoluto contenuto di classe.
Lo Stato borghese è fondamentalmente un organo di repressione della classe operaia. Il governo, i tribunali, e tutti gli organismi statali si integrano in questa funzione repressiva insieme a tutti i partiti e movimenti che vivono nel parlamento e che controllano i sindacati attuali.
SUTISS è un sindacato di regime, cioè filo-padronale, che manipola i lavoratori per mantenerli passivi, disorganizzati e divisi, che attua alla lettera tutto ciò che la legge impone, perché sa che le leggi sono contro gli scioperi e la lotta di classe. Tutte le centrali sindacali, le federazioni e i sindacati locali in Venezuela sono sindacati del regime indipendentemente da quel che affermano i loro dirigenti. Solo ci possono essere singoli dirigenti operai sinceramente combattivi, però non esistono sindacati di classe in Venezuela. Questa è attualmente una delle grandi debolezze del movimento operaio venezuelano e mondiale.
La classe operaia deve voltare le spalle ai ciarlatani opportunisti, che le chiedono di collaborare con il padrone attraverso i consigli operai, che sacrifichino le sue proteste per la difesa della patria, dell’economia nazionale e del buon funzionamento dell’azienda, e deve dirigere la sua energia nella lotta per la difesa del salario e delle sue condizioni. Alla Sidor o in qualsiasi altra azienda, del settore statale o privato, è lo stesso: il padrone, pubblico o privato, cercherà di ottenere il massimo profitto con il super-sfruttamento operaio.
I lavoratori devono organizzarsi alla base in tutti i centri di lavoro per spingere la lotta per l’aumento del salario uguale per tutti, per la riduzione della giornata lavorativa per la riduzione dell’età pensionabile; incoraggiando lo sciopero e la mobilitazione unitaria, al di sopra delle aziende, per categoria e per regioni, fino ad abbracciare tutto il paese, cercando sempre la comunicazione ed il coordinamento con la classe operaia di tutti i paesi, che soffre allo stesso modo l’oppressione capitalista.
La ripresa della lotta di classe dovrà condurre le grandi masse salariate a muoversi fuori e contro gli attuali sindacati, mettendosi, sotto la direzione del partito comunista internazionale, sulla strada della rivoluzione proletaria, della presa del potere e della instaurazione della dittatura del proletariato, premessa verso la società senza classi, senza mercato, senza lavoro salariato, senza Stato, e per una vita davvero di specie.
Il referendum per la “indipendenza” scozzese
Ancora un vicolo cieco per la classe operaia
Fin dall’inizio della crisi finanziaria del 2008 la questione dominante l’economia borghese in tutti i Paesi è stata come ridurre gli astronomici debiti degli Stati, delle banche e dei privati. E la questione dominante la politica come far passare i peggioramenti nella classe operaia, blocco dei salari (o almeno aumenti inferiori all’inflazione), disoccupazione, tagli a pensioni, riduzione dei servizi, povertà.
Ma non dimentichiamo che, se la borghesia è ben solidale nell’affrontare il suo opposto economico, la internazionale classe operaia, per il resto è tutt’altro che monolitica: le oscillazioni economiche suscitano continue tensioni fra i borghesi, diversi interessi capitalistici si trovano a incessantemente in conflitto per proteggersi le quote del profitto estorto al proletariato mondiale.
Il nazionalismo è il miglior veleno contro la classe operaia. Lo diffondono apertamente i partiti di destra e “regionali” dello spettro politico – in Italia la Lega Nord, in Francia il Fronte Nazionale, in Gran Bretagna lo UKIP, lo Indipendent Party – che scaricano sugli immigrati la colpa della caduta dei salari e della disoccupazione, mentre in realtà derivano dalla mancata solidarietà di classe fra indigeni e stranieri. I partiti di “sinistra” invece coprono il loro razzismo e nazionalismo sotto frasi ipocrite.
Poiché non possono ammettere le vere ragioni internazionali della crisi, i principali partiti borghesi presto prudentemente aggiustano la loro retorica nazionalista ciascuno secondo il suo stile. Così in Gran Bretagna il Partito Conservatore, Tory, ora al governo, ne dà la colpa alle troppe deleghe concesse alla E.U., che sarebbero ora da “rimpatriare”. La Gran Bretagna, liberatasi dai “burocrati di Bruxelles”, potrebbe stabilire norme più restrittive all’immigrazione, l’industria britannica guadagnerebbe in competitività rispetto agli altri pesi europei come Germania e Francia, ecc. Per altro, a “sinistra”, il Partito Laburista, mentre implora “ascoltiamo cosa si dice fuori della nostra porta!”, non si esime da proclamare la necessità di un drastico contenimento all’arrivo di lavoratori stranieri.
La retorica è la stessa di ovunque: la colpa è sempre dei maledetti stranieri. L’ultima difesa di tutti i borghesi di fronte alla crisi è il nazionalismo con relativo sventolio di bandiere e fanatismo.
Non è diverso in Scozia, dove il Partito Nazionalista Scozzese, SNP, chiede la nascita di un nuovo mini-Stato capitalista.
Storia minima di Scozia
Visto che il SNP, benché non faccia che affermare che “non ha niente contro il inglesi”, fa sua una visione anti-materialista della storia che presenta la Scozia come un paese “oppresso”, che sarebbe stata trascinata all’Unione con l’inganno, e vanta la tradizione dei “grandi eroi scozzesi” come William Wallace e Robert de Bruce, che si opposero agli inglesi per affermare l’indipendenza scozzese, vale la pena di minimamente accennare alla storia dal Medioevo in poi per verificare se davvero la Scozia è mai stata una “nazione oppressa” in disperato anelito alla “liberazione”.
Nell’ultima parte del XIII secolo e all’inizio del XIV la monarchia scozzese si trovò in una crisi di successione, di cui approfittò l’espansionismo di re Edoardo I per imporvi l’egemonia inglese. Ma queste ambizioni finivano già sotto suo figlio, Edoardo II, quando un esercito inglese invasore fu sterminato a Bannockburn nel 1314. Il SNP ha celebrato quest’anno il 700° anniversario di quell’evento, assimilando l’attuale ubriacatura elettorale ad una “seconda guerra di indipendenza della Scozia”.
Nel 1328 Eduardo III firmò il Trattato di Nortampton, col quale rinunciava alle pretese inglesi al nord del confine. L’espansionismo della dinastia Plantageneta si rivolse quindi alla conquista della Francia nella Guerra dei Cento Anni. Nel frattempo i re scozzesi tesero ad amalgamare le classi dominanti scozzesi in un solo regno. Le classi dominanti anglo-normanne in Scozia fecero progressi nell’affermarsi contro i clan celtici delle Highlands e della isole.
Cionondimeno il conflitto fra inglesi e scozzesi continuò anche con la dinastia Tudor, che segna l’inizio della fine dell’era feudale in Inghilterra. La Scozia era entrata in segreta alleanza con la Francia (la “Auld Alliance”, che durò dal 1295 al 1560) e la rivalità fra Inghilterra e Francia trapassò in Scozia, in particolare con la disfatta delle forze scozzesi a Flodden Field nel 1513.
Col crescere della potenza inglese sotto il regno di Elisabetta I la relazione cominciò a cambiare (con matrimoni incrociati fra le dinastie inglesi e scozzesi, la Riforma religiosa, le piantagioni in Irlanda ed il timore comune di minacce esterne, come quella della Armada spagnola). Il terreno era pronto per l’unione delle Corone.
Quando Elisabetta I morì senza lasciare un erede, nel 1603 Giacomo VI, Stuart, re di Scozia, fu nominato successore al trono col nome di Giacomo I di Inghilterra. I sovrani e le sovrane Stuart ressero entrambi i regni, indipendenti, come anche l’Irlanda, fino all’Atto di Unione del 1707.
La Riforma inglese dei Tudor e le rivolte del XVII secolo erano dovute ad una lunga evoluzione della società, religiosa, culturale, ma soprattutto economica, suscitata dall’attività mercantile e dall’enuclearsi di una classe capitalista dalla nobiltà feudale. Però, mentre la Scozia esprimeva una più radicale riforma protestante, rimaneva indietro all’Inghilterra nello sviluppo economico e sociale. I due paesi non erano ancora pronti ad unirsi.
Nel tardo XVIII secolo il capitalismo fiorì in Inghilterra in forza del suo crescente potere sui mari e del suo capitale mercantile. Materie prime, come cotone, tabacco e zucchero, erano prodotte dal lavoro degli schiavi nelle piantagioni del Nuovo Mondo e trasformate in prodotti finiti in Inghilterra. Le grandi proprietà feudali si trasformavano in agricoltura capitalista. Politicamente questi cambiamenti si erano espressi nella “Gloriosa Rivoluzione” del 1688, che assicurò all’Inghilterra l’indipendenza dalla grande potenza continentale della Francia e concesse grandi libertà alle classi capitaliste (le famose “libertà inglesi”).
Invece il tentativo scozzese di crearsi un proprio impero coloniale finì in un disastro: lo schema Darién volto a finanziare l’impresa dilapidò un quarto del denaro circolante in Scozia e lasciò la nobiltà scozzese gravemente indebitata. Lo schema fu infine abbandonato nel 1700 a seguito del riuscito assedio spagnolo alla colonia, chiamata Caledonia, sull’istmo di Panama.
Alla nobiltà e alla nascente borghesia scozzesi non restò altra scelta che svendersi al ricco vicino; un accordo che dovrebbe per sempre svergognare ogni mitologia di nazionalismo scozzese e di “pugnalata nella schiena”. Come scrisse nel 1791 il romantico poeta scozzese Robert Burns: «Fummo comprati e venduti all’oro inglese / Che nazione di bricconi!».
L’Atto di Unione del 1707 così veniva ad unificare i due regni in un nuovo Stato, il Regno di Gran Bretagna. La regina Anna, ultimo monarca Stuart, restò sul trono fino al 1714. Da allora la successione di sovrani inglesi della casa di Hannover e Saxo-Cobure e Gotha-Windsor si è fondata su entrambi i discendenti di Giacomo VI / I della casa Stuart e di religione protestante, appoggiati dalla borghesia sia in Inghilterra sia in Scozia.
All’inizio del XVIII secolo questa continuità fu brevemente minacciata dal “Vecchio” e dal “Giovane Pretendente” che cercarono di unificare i clan irlandesi e scozzesi delle Highland per restaurare la legittima linea Stuart – tentativo che fu vigorosamente respinto non solo dalla borghesia inglese ma anche da quella emergente scozzese delle Lowland.
L’Unione rientrava quindi nei piani del capitalismo, coincidendo con il sorgere della Gran Bretagna a prima potenza industriale del mondo. Mentre il terzo regno delle isole britanniche, l’Irlanda, era lasciata in gran parte indietro, la Scozia e l’Inghilterra emergevano come una singola unità capitalistica, che assumeva unita il dominio su di un terzo della superficie del globo. La Scozia quindi non è mai stata una “nazione oppressa” in senso marxista (né in alcun altro).
Chi legga Adam Smith ne “La ricchezza delle nazioni” saprà che durante l’illuminismo scozzese e la rivoluzione industriale la Scozia assurse importanza in Europa per i commerci, gli intellettuali e l’industria. Lo sviluppo economico della Scozia godeva dell’accesso ai mercati domestico e esteri dell’Inghilterra. In particolare Glasgow divenne la “seconda città dell’Impero”, dopo Londra, e grandi fortune si accumulavano tramite lo sfruttamento del lavoro inglese e delle colonie.
I maggiori progressi della classe operaia di tutto il Regno Unito nel XIX secolo si hanno in questo contesto, per esempio con la formazione dell’Indipendent Labour Party, fondato a Bradford nel 1893, e organizzato per tutto il Regno Unito. Il suo primo dirigente, Keir Hardie, era un organizzatore sindacale del Lanarkshire. Il Communist Party of G.B., fondato nel 1920, era anch’esso organizzato su tutta l’Unione, benché uno dei suoi dirigenti di Red Clydeside, John MacLean, erroneamente chiedesse un separato partito scozzese, pretendendo che la tradizionale società scozzese fosse organizzata sulle orme del “comunismo celtico”. Questo assurda ed antistorica pretesa, che la società celtica costituisca una più solida base per il comunismo di quella “anglo-sassone”, risuona ancora oggi nell’ala “progressista” del nazionalismo irlandese.
Vacuità mediatiche sul “nazionalismo scozzese”
Per decenni il SNP è stato un partito marginale, alleato con simili partiti in Gran Bretagna e in Europa. L’idea di una Scozia pienamente indipendente di fatto non aveva mai convinto nessuno e i successi elettorali del SNP gli provenivano dal raccogliere il voto di protesta, specie quando era al governo il Partito Laburista, di gran lunga il maggiore partito in Scozia per gran parte del XX secolo.
Nel 1990 Alex Salmond vinse brillantemente le elezioni e divenne leader del SNP, dimostrando tutte le caratteristiche dell’astuto maneggione: flessibile e privo di principi è sempre stato l’uomo giusto. Sotto la sua direzione il SNP è arrivato ad avere sei deputati nelle elezioni nazionali del 1997, che avevano visto la travolgente vittoria del Labour Party di Tony Blair.
Fu poi il Labour Party a varare la politica della “devoluzione”, cioè del trasferimento di alcune funzioni alle regioni, come era già avvenuto in molti altri Stati, e fece passare una legge per la costituzione di un “Parlamento Scozzese” ad Edimburgo.
In Italia delle Regioni se ne cominciò a parlare nel 1962 per quella “autonoma” del Friuli, e ne scrivemmo anche: “Dopo la patria e la fabbrica adesso anche la regione!”. Vi affermavamo che lo scopo è legare gli operai agli istituti borghesi; quando la barca generale fa acqua si diffonde l’illusione che la classe operaia possa meglio difendersi nella solidarietà interclassista attorno al campanile piuttosto che in uno schieramento generale operaio; il regionalismo è una politica che si inquadra perfettamente nelle linee di sviluppo della autodifesa capitalistica; il capitale, quanto più è accentratore e distrugge il mito e la realtà della piccola produzione, quanto più distrugge le finzioni del localismo e del periferismo, tanto più ha bisogno di ricostituire oasi economicamente fittizie ma socialmente e politicamente preziose di autonomia locale.
Nel Regno Unito, benché la retorica nazionalista lamenti la volontà accentratrice della “casta di Westminster”, la devoluzione dei poteri alle regioni è parte di una strategia a lungo termine dello Stato ed è stata proprio la burocrazia di Westminster a decidere di trasferire alcune delle sue funzioni alle regioni, la Scozia, il Galles e l’Irlanda del Nord.
Fu quindi convocato il nuovo parlamento in Holyrood ad Edimburgo. I parlamentari vi sono eletti con una rappresentanza semi-proporzionale, per far confluire nel parlamento scozzese tutte le lobby politiche, il che meglio funziona per tutti gli imbrogli del capitalismo.
Ma la propaganda del SNP parlava di “indipendenza”! Durante gli anni di boom precedenti la crisi finanziaria del 2008, argomentava che la forza delle sue banche ed industrie avrebbe consentito ad una Scozia indipendente un ruolo egemone all’interno della “fascia di prosperità del Nord”, assieme ai paesi scandinavi. L’adesione al Regno Unito, diceva, impediva alla Scozia di arricchirsi. Il SNP si riferiva al successo, effimero, della “tigre celtica” irlandese, dove le paghe e la prosperità erano in salita. Questo fintanto che il boom continuava, era un argomento che aveva una certa presa. Ma, come sappiamo, il boom del capitalismo finisce sempre nel suo contrario.
Dopo alcuni governi laburisti o diretti dai laburisti, nell’agosto 2009 un governo di minoranza con il SNP cercò di far passare al parlamento scozzese la legge per un referendum nel 2010. Gli altri maggiori partiti (Laburisti, Liberal-democratici e Tory) ne garantirono il rigetto. Il SNP ovviamente etichettò questi partiti, organizzati su base nazionale, come “partiti di Westminster”, cui opponeva il suo “Prima la Scozia”.
Ma quando la crisi finanziaria del 2008 portò alla rovina la Royal Bank of Scotland ed al crollo del prezzo del petrolio (e alla bancarotta dell’Islanda, prima indicata come un altro dei modelli del SNP) la retorica dovette cambiare. Si spostò a sinistra: i “partiti di Westminster” erano tutti neo-liberali, gli scozzesi socialdemocratici, e Salmond cominciò a presentare l’indipendenza come il solo metodo per mantenere il Servizio Sanitario Nazionale e per creare posti di lavoro “per i giovani”. Abbracciò le politiche “verdi”, la “protezione dell’ambiente” e la “energia pulita”.
I tagli nella spesa che seguirono ridussero i salari della classe operaia nel mentre puntellavano il sistema bancario. Per varie ragioni alla Scozia furono evitati i tagli più severi. Per primo, le banche scozzesi furono le principali beneficiarie dei ripianamenti, largamente finanziati dai contribuenti inglesi. Secondo, la cosiddetta “Formula Barnett”, un meccanismo usato dal Tesoro per distribuire da Londra i contributi alle regioni, Irlanda del Nord, Scozia e Galles, era particolarmente generoso con la Scozia, con un impegno pro-capite significativamente più alto che in Inghilterra. Terzo, nonostante i suoi problemi economici, il reddito pro-capite in Scozia rimase più alto che in Inghilterra e in Galles, con una crescente disparità di ricchezza rispetto a Londra e le regioni del Sud-Est.
Fu il governo dello SNP di Salmond a distribuire soldi di Westminster alla popolazione scozzese. Così il “populismo tartan”, vestito alla scozzese, del governo 2007-2011 poté eliminare le tasse scolastiche, ridurre il numero di alunni per classe, promuovere l’energia “verde”, ecc. E se vi furono tagli alla spesa, peggioramento delle condizioni di vita, nuove tasse impopolari e declino economico in Scozia, questo era dovuto al “maledetto perdurare della politica di Londra” e alla “intoccabile casta di Westminster”. Un governo scozzese pienamente indipendente avrebbe fatto di meglio.
Così il SNP andò alle elezioni scozzesi del 5 maggio 2011 con la promessa “diamo agli scozzesi l’opportunità di decidere il futuro della nostra nazione in un referendum indipendente”. Al solito nei manifesti elettorali il SNP fu largo nelle enfasi quanto avaro nelle proposte e negli obiettivi.
Di fatto la proposta del referendum, giustamente, non è percepita dai votanti come premessa alla effettiva attuazione dell’indipendenza, ma solo un voto come altri sulla questione, di protesta, quasi un gioco di società.
Alle elezioni generali nel Regno Unito del 2010 in Scozia i conservatori riuscirono ad eleggere un solo deputato, dando così al SNP l’argomento che in una Scozia indipendente i voti degli scozzesi avrebbero dato loro “il governo per il quale avevano votato”. Di fronte agli effetti della crisi mondiale ora molti scozzesi, già contrari all’indipendenza, cominciarono ad illudersi che avvicinare il governo ad Edimburgo fosse “la scelta meno peggiore” per proteggersi in qualche modo.
Ultimi imbrogli
È noto che nel XX secolo il Regno Unito ha subito un drastico declino della sua importanza economica nel mondo, che si è accelerato con la decolonizzazione dopo la Seconda Guerra mondiale ed il sorgere di nuovi imperialismi, in particolare Usa, Urss, ed oggi la Cina. I cantieri navali del Clydeside, per esempio, non esistono quasi più, assieme a quelli del nord-est dell’Inghilterra e di Belfast. La classe operaia britannica ha ripetutamente resistito e combattuto contro la conseguente perdita di posti di lavoro e gli attacchi alle sue condizioni di vita, benché in Scozia, come ovunque, sia stata indotta spesso in atteggiamenti suicidi dalla direzione riformista e stalinista (in particolare durante il “Noi lavoriamo” del 1971 ai Cantieri navali dell’Upper Clyde di Glasgow, quando si ripeterono gli errori dell’occupazione delle fabbriche in Italia dopo la Prima Guerra mondiale). La classe operaia britannica non ha mai espresso una tradizione rivoluzionaria ed internazionalista tramite un suo partito politico, nel che sta la sua maggiore fonte di debolezza.
Il separatismo scozzese è rimasto una corrente minoritaria nella politica nazionale, finché non cominciò a zampillare il petrolio dal Mare del Nord. Una frazione crescente della borghesia scozzese fu allora attratta dall’idea di poter arraffare una fetta maggiore dei profitti e dei proventi fiscali se la Scozia si fosse separata dal resto del Regno Unito. La cosa si accentuò all’epoca della crisi energetica a metà degli anni ‘70. Ma il progetto trovò poco appoggio nella classe operaia scozzese e quelli del SNP parevano solo dei “Tory in tartan”.
Dagli anni ‘80 in avanti quindi il SNP si è destreggiato fra la linea “pro-business” e l’abbagliare l’elettorato col mito dell’indipendenza. Negli anni passati si è quindi legato a vari partitini di sinistra e gruppi informali, elementi usciti dal Labour Party, che si stava dimostrando sempre più corrotto ed apertamente padronale, e ben prima che nessuno avesse mai sentito parlare di Tony Blair.
Da un lato lo SNP si affanna a dire che la Scozia deve diventare indipendente non tanto perché sia in qualche modo oppressa e sottomessa, ma perché «la Scozia è uno dei paesi più ricchi al mondo, più della Gran Bretagna, della Francia, del Giappone e di molti altri paesi sviluppati». Grazie al controllo del petrolio del Mare del Nord ed altre ricchezze, «dall’indipendenza ricaveremmo delle solide finanze pubbliche (...) La Scozia può pagare (...) In ciascuno degli scorsi 33 anni abbiamo versato più tasse per abitante dell’intera Unione (...) La questione non è se la Scozia è ricca abbastanza per essere indipendente. La questione è se sarà il governo scozzese o Westminster a decidere come impiegare la nostra ricchezza». La campagna ufficiale per il Si promette minori tasse societarie per attrarre in Scozia maggiori investimenti delle compagnie multinazionali.
Il messaggio non potrebbe essere più chiaro: la borghesia di tutti i paesi che investirà in Scozia potrà ritagliarsi un margine maggiore del bottino del capitale mondiale. E parte di questo, ovviamente, sarebbe destinato al SNP per foraggiare una burocrazia scozzese provvista di tutte le prebende del sottogoverno, in emulazione con la “casta di Westminster”.
Difficile conciliare questi messaggi ai capitalisti con l’immagine di una Scozia “oppressa”!
D’altro lato abbiamo la campagna “progressista” per il Si, che promette un utopico socialismo dopo l’indipendenza. C’è chi attraversa i quartieri operai affermando che una Scozia liberata da Westminster (e dal governo Tory in particolare) potrebbe tornare ai “valori scozzesi” della socialdemocrazia. Questi falsi socialisti propagano la menzogna che il voto per il Si (nonostante tutto quello che Salmond va dicendo) non solo sarà una vittoria contro le misure di austerità imposte dal governo dell’Unione, ma anche darà il “potere” alla “gente comune”. Le parole che più si sentono nella propaganda sono le vecchie fole del riformismo, “dal basso”, “dal territorio”, per una “rifondazione della democrazia”, combinate col richiamo dei classici modelli del liberalismo di sinistra.
Anche in Inghilterra i politicanti di sinistra e i commentatori dei media sono saltati su questo carrozzone, gridando che la indipendenza della Scozia avrebbe portato ad una rigenerazione della “democrazia di base” in tutto il Regno, compresa una nuova devoluzione da Westminster e dalla City alle regioni di poteri economici e politici.
I quali imbrogli e finzioni, l’ “autonomia” e il “decentramento”, non farebbero che maggiormente legittimare la dittatura del capitale.
È evidente che il coronato leone britannico, benché vecchio e ammalato, ha ancora abbastanza denti per non lasciarsi tagliar la coda da una banda di politicanti chiacchieroni e di sudditi frastornati dai demenziali talk sulle televisioni (di Stato) e armati solo di schede elettorali.
Questa è l’illusione che si vuol propagare nella classe operaia, lo Stato “per volontà popolare” e non di una sola classe e ad essa rispondente: la borghesia. O, più precisamente, al grande capitale, che non è né inglese né scozzese ma mondiale.
Forse potrebbe anche tornare utile ai banchieri e ai capitalisti della City disporre una qualche maggiore possibilità di manovra e di traffici attraverso una certa “autonomia regionale”, sul piano fiscale, commerciale, monetario e finanziario. E alla diplomazia del Foreign Office per doppi giochi e per imbrogliare meglio i rivali.
Sicuro risultato sarà il rafforzarsi dello sciovinismo anche in Inghilterra – molti nello UKIP vorrebbero sbarazzarsi della Scozia “socialista” per arrivare ad una Inghilterra più “omogenea” e “competitiva”, una volta uscita dall’Unione Europea.
Concludendo, né il No né il Si servono agli interessi della classe operaia scozzese. Tutto il frastornante “dibattito” è solo per portare i lavoratori nel vicolo cieco elettorale, smarrito ogni riferimento nel fitto delle fumisterie democratiche e delle illusioni del metodo elettorale.
Mentre andiamo in stampa il risultato del referendum è ancora incerto. Ma qualunque sia il risultato del voto del 18 settembre e qualunque delle parti vanterà vittoria, sarà la classe operaia scozzese a tornare al lavoro, sotto gli esiti di una sbornia che potrebbe durare decenni, alimentata dalle menzogne e dalla contesa fra le varie frazioni della borghesia scozzese ed internazionale su come ripartirsi la ricchezza che essa, classe operaia, sola produce. La borghesia continuerà a fare tutto quello che può per aizzare gli operai scozzesi ed inglesi gli uni contro gli altri, mettendoli in concorrenza per abbassare le paghe.
L’unica via diritta che la nostra prospettiva indica è unificare le lotte di tutta la classe operaia di Gran Bretagna, che è parte della classe operaia mondiale, finché una sua minoranza si riconoscerà nel partito comunista internazionale e nei suoi scopi che sono strappare il potere alla borghesia per iniziare la trasformazione socialista del mondo.