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Il proletariato in Grecia – contro le manovre degli Stati borghesi e dei partiti e dei sindacati falsamente operai, che vogliono dividerlo tra favorevoli e contrari all’Unione Europea e all’Euro – rifiuti il referendum populista e demagogico e si mobiliti per ricostruire le sue organizzazioni di classe, per difendere unito i suoi interessi immediati e futuri.
Non varrà a sollevare il proletariato greco dalla sua drammatica condizione né lo schierarsi con i mostri del nazionalismo né con la pirateria internazionale dei capitali. Per salvarsi da questo sistema di sfruttamento e di miseria sono entrambe irreali illusioni sia l’“Europa dei popoli” sia il chiudersi in una autarchia patriottica.
Tutti i partiti parlamentari, che si riempiono la bocca di “democrazia” e “volontà del popolo”, lavorano con tutte le loro forze per impedire la riorganizzazione del proletariato come classe che lotta per i suoi esclusivi interessi, oggettivamente opposti a quelli delle altre classi.
Il proletariato greco tolga ogni fiducia al governo frontista di Syriza e alle sue demagogiche promesse! Si astenga dal voto!
Imponga ai sindacati di iniziare una lotta accanita, con ogni mezzo, per la difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, per salari e pensioni adeguati e sufficienti ad una vita dignitosa, per la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, per il salario integrale ai licenziati e ai disoccupati, per la difesa dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Per lo sciopero generale contro gli affamatori della classe lavoratrice, contro i pescecani capitalisti d’Europa e di Grecia e contro i loro servi politici e sindacali.
Gli Stati imperialisti, l’Unione Europea, non cambieranno la loro politica, non possono cambiarla. Continueranno a difendere i loro profitti e le loro rendite con ogni mezzo, spremendo il sangue alla classe lavoratrice di tutti i paesi. C’è un solo modo di cambiare questo stato di cose, abbattere il regime del Capitale con la rivoluzione comunista internazionale.
Proletari di tutto il mondo unitevi!
Una falsa alternativa per il proletariato
Questo il volantino che abbiamo diffuso poco prima del referendum in Grecia, per invitare i lavoratori a non andare a votare e di prepararsi a rispondere come classe con i metodi della classe.
Questo non solo per gli stringenti motivi generali che da lungo tempo hanno portato la nostra corrente a ritenere ormai nocivo al raggiungimento dei fini ultimi del proletariato far pratica accettazione dei falsi riti e degli inganni della propaganda e dell’elettoralismo borghese, ma anche, nel caso specifico, perché convinti che per i lavoratori di Grecia qualunque fosse stato l’esito del referendum non sarebbe cambiato in nulla l’attacco che la borghesia sta conducendo alle sue condizioni di vita, parallelo ed anticipatore di quello contro il proletariato europeo e di tutto il mondo.
Il referendum popolare è lo strumento che più si confà alla cosiddetta democrazia diretta, tanto cara alla sinistra borghese perché rispecchierebbe fedelmente quella volontà popolare che, nella ideologia liberale, alla nostra opposta, dovrebbe scegliere gli uomini di governo ed imporre loro l’indirizzo politico.
Il populista governo greco di “sinistra-destra” ne ha fatto la sua bandiera e, quando si è trovato messo con le spalle al muro dalla Troika, cioè dal capitalismo mondiale, ha illuso gli elettori che avrebbero potuto decidere sull’accettazione o meno da parte dello Stato greco delle misure richieste per la concessione di un ulteriore prestito. Solo così pretendeva apparire diverso dai precedenti governi, di Nuova Democrazia o del Pasok, che, almeno, avevano evitato l’ipocrisia di chiedere il parere ai cittadini prima di fare quello che non potevano non fare: servire gli interessi del capitale, industriale e finanziario, nazionale e internazionale.
Il problema per il governo di Alexis Tsipras è sorto quando ha “vinto” al referendum, con il 60% dei votanti che ha aderito al suo invito e ha votato No. Questo risultato, nella precedente propaganda governativa, avrebbe dovuto rafforzare la delegazione greca nella trattativa con la Troika per strappare un accordo meno pesante.
Invece, il giorno seguente, come se nulla fosse accaduto, il fotogenico primo ministro si è presentato a Bruxelles con un pacchetto di proposte che accoglievano tutte le richieste fatte in precedenza dalla Troika e respinte dal referendum. Inoltre, dopo ore ed ore di trattative con l’Eurogruppo, Tsipras ha accettato un memorandum ancora più pesante di quello che aveva presentato. Una capriola completa che ha smentito d’un colpo tutta la retorica nazionalista e populista sparsa allegramente nei giorni precedenti dal suo partito e dal suo governo.
«Non c’era altro da fare per evitare la catastrofe», si è giustificato il primo ministro, «l’alternativa poteva essere solo l’uscita dell’Euro e il popolo greco, proprio col referendum, aveva ribadito di voler restare in Europa». La lotta all’austerità imposta, la battaglia per un diverso sviluppo economico, la salvaguardia dei poveri e dei lavoratori? Tutto scomparso, con un colpo di bacchetta magica.
Il Ministro delle Finanze, il professor Varufakis, che aveva dichiarato che piuttosto che firmare quel memorandum si sarebbe tagliato il braccio destro, si è dimesso, preservando così la sua integrità fisica.
Il Parlamento greco invece si è affrettato a chinare il capo alle intimazioni della Troika e ha approvato quanto dovuto nei brevissimi tempi imposti. I meccanismi parlamentari non sembra ma sono ben oleati e funzionano sempre a comando: una parte della maggioranza ha votato contro l’approvazione, ma una sufficiente parte dell’opposizione ha votato a favore. Un veloce rimpasto di governo, subito benedetto anche dalla Chiesa ortodossa, ha permesso di rimettere (quasi) tutto a posto, cioè guadagnare qualche mese di sopravvivenza.
Il prezzo è stato: più di venti giorni di chiusura delle banche, massimo di 60 euro giornalieri di prelievi ai bancomat, nuova riduzione delle pensioni, aumento di tutti i generi di prima necessità, annullamento dei contratti di lavoro, ecc.
Anche il parlamento europeo ha confermato quello che è, un mulino di parole dove migliaia di politicanti recitano una parte (molto ben retribuita), un immenso apparato che non decide nulla. Come nei parlamenti nazionali le decisioni sono prese da grigi funzionari che rappresentano le associazioni industriali e finanziarie, le banche, l’industria militare, le Chiese. Lo stesso Varufakis ha denunciato che è l’Eurogruppo che decide tutto, un organismo nemmeno previsto fra le istituzioni europee, che non redige verbali delle riunioni e non risponde delle sue azioni ad alcun parlamento. Anche nell’Unione Europea la democrazia è solo un liso ornamento e chi comanda è il più forte, sul piano economico e militare.
Non certo una novità per i marxisti, ma un fatto ormai ammesso dagli stessi borghesi. Scrive “Il Sole 24 ore”, il giornale della Confindustria italiana, del 19 luglio: «L’influenza del mercato finanziario globale ha tolto qualsiasi risvolto democratico alle istituzioni dei vari paesi membri, la cui politica economica, alla quale è in particolar modo legata quella sociale, è formulata dall’esterno e quindi siamo nel pieno di un’economia etero-diretta alla quale i governi altro non possono fare che obbedire».
Dunque il metodo democratico, le elezioni parlamentari, i referendum, la dialettica tra i partiti ecc. sono solo un teatrino tenuto in piedi per frastornare i proletari mentre i rapporti tra Stati ed istituzioni, come quelli tra le classi, rispondono esclusivamente ai rapporti di forza. Se un risultato Syriza l’ha ottenuto, nonostante se stessa, è stata proprio la dimostrazione di questo assunto marxista: la democrazia non esiste, è solo la maschera di una dittatura di classe.
Cosa fare dunque? Basteranno le capriole di Tsipras a far comprendere al proletariato greco e a quello europeo (perché a settembre si voterà in Spagna dove il movimento di Podemos si prepara a replicare la bieca impresa di Syriza) che le elezioni sono un inganno, che nessun partito borghese difenderà mai i suoi interessi, che l’unica soluzione è il paziente lavoro per la ritessitura di una organizzazione di classe per la difesa degli interessi immediati del proletariato e per il rafforzamento del suo partito?
Non basteranno. Le aspettative del proletariato greco negli ultimi imbonitori al governo sono certo rimaste deluse, ma, lasciandosi illudere, privo del suo partito di classe, è stato spinto sulla strada sbagliata, ha preso quella del referendum, che è opposta ed incompatibile a quella della riorganizzazione e della lotta di classe; e non è facile far fare, a comando, marcia indietro alle masse. Perché il referendum è il contrario dello sciopero, idealmente e praticamente: o con tutte le classi ed ordinatamente si vota o da solo il proletariato duramente sciopera.
Il taglio popolar-referendario ha confuso ogni confine di classe anche per il restante proletariato d’Europa, anch’esso privo di direzione politica. In nessun paese ha ritenuto fosse il caso di muovere un dito, come classe organizzata, per dimostrare che il proletariato sa difendere con la sua forza organizzata la sua vita e i suoi interessi e sa esprimere la sua solidarietà di classe al di sopra delle frontiere.
Sta
infatti ai lavoratori più combattivi, in questo caso almeno nei
vari
paesi europei, mobilitarsi, certi che altrimenti l’odierno destino
di quello greco attende domani il proletariato ovunque e che la
difesa non può arrivare da nessuno se non dalla loro lotta,
organizzata in rinati sindacati di classe, diretta dal partito,
comunista, rivoluzionario e internazionale
In un mondo arabo corso dagli imperialismi lievita la guerra generale
La crisi di febbraio
L’arrivo via mare di disperati da ogni dove si è recentemente ingigantito perché in Libia le formazioni armate del cosiddetto Stato Islamico hanno preso il controllo di alcuni centri della costa e da lì è iniziato un precipitoso esodo.
Mentre le emozioni della vilissima piccola borghesia italica oscillavano fra gli sbarchi in massa e le mediatizzate brutalità dello Stato Islamico, o una combinazione delle due cose, nei piani alti del capitalismo italiano la preoccupazione era ben altra: gli investimenti italiani in Libia.
Dopo quasi due anni di totale disattenzione per gli scontri nel paese, con affrettate dichiarazioni il ministro degli esteri Gentiloni chiedeva il via libera dall’Onu per sbarcare truppe italiane in Libia “contro lo Stato Islamico” e fermare il “terrorismo” alle porte di casa, lasciando intendere che il governo era in massima allerta e pronto all’intervento militare. Gentiloni nascondeva la preoccupazione di perdere il controllo degli investimenti italiani nel settore petrolifero e la relativa importazione: se lo S.I. si impossessasse dei pozzi e dei tecnici dell’Eni l’Italia non sarebbe in grado di gestire da sola una crisi di tale entità.
È facile quantificare la cosa: il rapporto economico stilato dall’Eni per il quarto trimestre 2014 riporta una perdita netta di 2,34 miliardi di euro, che sconta l’adeguamento del valore delle scorte di greggio e derivati ai valori correnti (-0,86 miliardi) e le svalutazioni di attività finanziarie e altri oneri per circa 1,94 miliardi.
Il giorno seguente il primo ministro Renzi ha dovuto raffreddare le emozioni guerresche della borghesia: simili decisioni non si prendono a Roma, nonostante la minaccia dello S.I. di acconsentire un esodo di decine di migliaia di uomini, fra i quali vari loro militi che presto pianterebbero la bandiera nera sul Colosseo e su San Pietro.
La campagna di ostentate provocazioni dello S.I. va vista in una strategia generale dei grandi Stati imperiali che lo finanziano.
Vedi quella dal pilota giordano bruciato vivo, a cui ovviamente il reuccio di Giordania ha risposto bombardando le basi dello S.I. Se queste erano note e controllate da tempo perché non lo ha fatto prima? C’è dietro sicuramente un mercanteggio con gli Usa. Nel mondo arabo le proteste si sono limitate solo all’Egitto. Il giorno seguente l’Arabia Saudita annuncia che non parteciperà più ai bombardamenti contro lo S.I. per evitare la stessa fine ai suoi piloti.
Passa una settimana e lo S.I. si vanta di aver decapitato 21 egiziani di religione cristiana copta, lavoratori che nonostante le minacce sono stati costretti ad emigrare in Libia e con le loro rimesse mantenere le famiglie. Entra in azione l’aviazione egiziana e le forze speciali di terra per bombardare alcune basi dello S.I. in Libia ed occuparne altre. Navi egiziane pattugliano per impedire il rifornimento via mare di materiale bellico; ma non sappiamo quali sono i porti di armamento e rifornimento di quei convogli né come sia stata presa e concordata tale decisione. La Turchia e il Qatar hanno protestato contro l’azione egiziana.
La Libia
In Libia è fallito il tentativo di dividerne pacificamente il territorio in tre zone: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, riunendo gli interessi delle principali tribù locali ciascuna desiderosa di accaparrarsi una fetta della rendita petrolifera.
Le elezioni del 2012 consegnavano la Libia a un governo unico, ma il susseguirsi di violenze fra le varie fazioni ne impedivano il funzionamento al punto che nel giugno del 2014 si indicevano nuove elezioni e un nuovo parlamento si riunì a Tobruk e non più a Tripoli. Nel novembre dello stesso anno la Corte Suprema libica dichiarava illegittimo il nuovo governo e ripristinava il precedente governo di Tripoli.
La contrapposizione è fra il governo di Tripoli, formato da partiti fra i quali prevale il Partito della Giustizia e della Costituzione, ala politica della Fratellanza Musulmana, e il parlamento di Tobruk, condizionato dal generale Haftar, che presenta lo scontro come tra il radicalismo islamico di Tripoli e le forze democratiche e laiche di Tobruk. Con questa operazione Haftar ha incassato il sostegno della coalizione anti S.I., e maggiormente di Italia, Gran Bretagna e Francia, che non possono permettersi di perdere il controllo della Cirenaica.
Ha incassato anche il prezioso sostegno economico e militare dell’Egitto di Al Sissi, dell’Arabia Saudita, e di gran parte delle monarchie del Golfo, in lotta aperta contro la Fratellanza Musulmana, che considerano una minaccia per la sopravvivenza dei loro governi e delle loro dinastie e contro i governi di fatto assoluti delle petromonarchie dove tutte le cariche economiche e politiche sono assegnate ai membri delle folte famiglie claniche dinastiche.
Gli equilibri delle forze in Libia sono tali da non permettere ad alcuna delle parti in gioco il predominio e il controllo del territorio, perpetuando quindi una totale instabilità. Tobruk chiede insistentemente l’intervento aereo della coalizione anti S.I. per estendere il territorio che controlla, ma non ha ancora ottenuto nulla di significativo. La comparsa di autoproclamatesi milizie dello S.I., con i consueti tragici rituali, e solo successivamente “prese in carico” da meno di due decine di esponenti della originaria struttura irachena, ha aumentato la confusione ed avvalorato le affermazioni, e le richieste, del generale Haftar circa una commistione tra il governo di Tripoli e lo S.I.
In questa situazione è interessante osservare la posizione e le manovre dell’Italia.
Nonostante la situazione, la produzione petrolifera libica è paradossalmente aumentata negli ultimi mesi assestandosi attorno ai 400.000 barili al giorno (la metà del potenziale attuale, ben inferiore ai livelli pre-crisi) localizzata soprattutto nell’area soggetta all’autorità di Tripoli. A beneficiarne principalmente è l’ENI che mantiene il controllo degli impianti di produzione e trasporto, non dovendo così sottostare alla mediazione del governo.
L’ENI e gli altri investitori italiani avrebbero auspicato una qualche forma di sostegno a Tripoli da parte del governo italiano, il quale invece ha fatto la scelta opposta: a causa delle descritte tensioni è stato richiamato l’ambasciatore a Tripoli e chiusa l’ambasciata, passando a sostenere il governo della Cirenaica. La diplomazia italiana, come storicamente esperta, dovrà quindi impegnarsi a fondo nel doppio gioco per difendere gli investimenti in Libia.
Al momento attuale non si intravvede alcuna soluzione alla crisi e si prospetta un lungo stallo. Non sarà facile stabilizzare la divisione del paese nelle tre zone, tanto meno riportarlo sotto un unico governo. Si accorderanno gli imperialismi su di un nuovo piccolo Gheddafi, capace di unificare i libici, ed amico, di fatto, dell’Occidente?
Gli attentati contro i turisti nei musei o sulle spiagge in Tunisia inseriscono anche questo paese nel conflitto, che è anche economico. Per la Tunisia, piccolo paese con scarse risorse, quella del turismo è molto importante. È con uno Stato relativamente laico, modernista e aperto all’occidente. V’è una radicata tradizione di organizzazioni e lotte sindacali. Il governo di Tunisi ha reagito con la dichiarazione dello stato di emergenza e la soppressione di molti diritti civili, per ora solo di 30 giorni; probabilmente, oltre ai “terroristi”, spariranno anche vari oppositori del regime ed organizzatori sindacali.
Lo Stato Islamico
Al Daesh, o Stato Islamico, si oppone una coalizione di ben 32 Stati, che tutti si attendono qualcosa, comunque vada.
Si autoproclama Stato e della sua struttura ha la forza repressiva militare, risorse economiche non indifferenti, “lecite” o meno, e la sovrastruttura ideologica e religiosa che infiamma, dicono, i suoi militi; controlla un vasto territorio con circa 6 milioni di abitanti. Appare una versione potenziata del passato regime dei talebani in Afghanistan.
È provato che è stato creato, organizzato, finanziato e armato da molteplici forze del mondo sunnita. Le azioni militari che ha compiuto dimostrano la discreta qualità delle sue formazioni, che non si improvvisano né sorgono per la sommatoria di gruppi diversi; dimostra una accurata preparazione, sicuramente gestita da quadri militari di professione forniti da qualche Stato dietro le quinte, insieme a parte dell’armamento.
Si dichiara in opposizione al degrado del mondo occidentale capitalista, che avrebbe corrotto i valori di un islam “tradizionalista”. Ma del capitalismo denunciano solo l’esteriorità mentre ben ne accettano la sostanza, dalla proprietà privata, alla divisione in classi sociali, alla rendita ecc. ecc.
Con il loro Califfato affermano voler tornare ad una presunta età dell’oro di quando il Profeta, con l’ideologia religiosa e le armi, riuscì, con una certa fatica, a riunire tutte le bellicose tribù arabe in continua lotta per il controllo delle oasi, dei pascoli e dei pozzi. Dai vari gruppi salafiti ortodossi che si ispirano a quelle origini sono nati i gruppi moderni più radicali come i Fratelli Musulmani, che accompagnano alla predicazione la corruzione delle masse popolari con opere sociali e aiuto economico, e come le milizie jihadiste vicine ad Al Qaeda, per lo più indipendenti tra loro.
Tra queste l’attuale gruppo diretto da Al Baghdadi, individuo liberato da un carcere americano in Iraq “per distrazione ed errore di valutazione” come affermano i vertici militari americani, ovvero pedina della CIA, forse poi “sfuggita” al suo controllo.
Nell’area siro-irachena, dopo i bombardamenti aerei della coalizione, varie formazioni armate di iracheni, curdi, sciiti, stanno riconquistando alcune posizioni chiave tenute dallo S.I. La situazione è in continua evoluzione, come prova la caduta e riconquista della città di Kobane.
La Russia
La perdurante crisi economica, iniziata fin dal 1973 e non ancora conclusa, di recessione in recessione, con deboli ed insufficienti riprese, ha azzoppato le economie grandi e piccole, prima il colosso russo, poi quello americano. La Russia si è oggi praticamente riportata ai confini del 1792, alla fine del regno di Caterina II, prima della completa spartizione della Polonia avvenuta nel 1795: dell’ex-Urss non ha la potenza economica e militare.
La Russia mentitamente socialista è stata la prima grande vittima della crisi capitalistica dopo la Seconda Guerra mondiale; l’economia a capitalismo di Stato dell’Urss non ha retto alla crisi ed è crollata miseramente. Con questa è crollata anche la sua difesa territoriale di Stato unitario, disposta ad ovest con gli Stati cuscinetto europei fino alla “cortina di ferro”, che ora appartengono a vario titolo ad alleanze di segno opposto, e a sud-ovest da varie alleanze con paesi mediorientali che però non costituivano una permanente e sicura difesa. La fallimentare ed onerosa avventura in Afghanistan, nell’improbabile tentativo di giungere all’oceano Indiano attraverso l’alleato Pakistan, ha segnato l’inizio della fine di quella grande potenza militare imperialista.
La Confederazione degli Stati Indipendenti (CSI), sorta nel 1992 come libera associazione di una dozzina di soggetti dell’ex-Urss e zona di libero scambio, è più simbolica che altro e con poteri sovranazionali, economici e di alleanza militare ancora tutti da mettere alla prova. Alcuni Stati si sono già ritirati, altri non hanno ratificato gli accordi ed infine l’Ucraina nel 2014, dopo l’occupazione russa della Crimea, si è ritirata definitivamente; da come si stanno svolgendo le operazioni militari nel Donetz è difficile prevedere una ricomposizione pacifica dei contrasti.
La grande dipendenza russa dalle oscillazioni del prezzo di petrolio e gas la rendono particolarmente vulnerabile, soprattutto ora che il prezzo è sceso già da alcuni mesi della metà. Il bilancio dello Stato russo, impostato su 100$ al barile, è saltato e gravi sono le difficoltà nel rinnovo dei consistenti prestiti internazionali e sugli investimenti diretti esteri, garantiti dal valore dei depositi accertati di idrocarburi.
Il prezzo del petrolio è sceso per la caduta della domanda, nella crisi economica che frena la macchina produttiva a livello mondiale, che la crescente richiesta cinese non basta a compensare. Ma possiamo ben immaginare che sia mantenuto basso anche dalla speculazione come arma americana contro la Russia, ora che è costretta ad affrontare l’offensiva militare in Ucraina.
Il “dumping”, cioè la vendita sotto il costo reale, è stato sempre usato nel capitalismo per battere la concorrenza: accadde agli inizi delle ferrovie americane e per l’acciaio negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso. Si provoca il fallimento del produttore concorrente, o il crollo economico di uno Stato, come sta avvenendo per il Venezuela. L’Arabia Saudita, primo produttore Opec, stabile e fedele alleata degli Usa, ha fatto sapere che non intende ridurre l’estrazione del greggio per compensare il crollo del prezzo, apparendo una combinata mossa anti-russa. Le enormi riserve saudite e la potenza militare americana possono gestire anche sui tempi lunghi un dumping di quelle proporzioni. Il prezzo del petrolio è sicuramente un’arma strategica.
La Russia quindi, dopo l’annessione della Crimea, al momento non è nelle condizioni di portare estesi attacchi e si dovrà fermare alla formazione di una entità filo russa autonoma in Ucraina. È invece impegnata a sostenere i suoi alleati mediorientali e di quella parte che resta del vecchio regime siriano.
Gli Stati Uniti
Gli Usa, meglio sarebbe dire il capitale americano, si dichiarano primi nella coalizione contro lo Stato Islamico.
Se gli Usa sono ancora la prima potenza finanziaria, industriale e militare del mondo, da poco sono stati superati dalla Cina nel volume del commercio estero. L’economia americana, dicono, sarebbe appena uscita dalla recessione con un incremento a gennaio dello 0,2% sul mese precedente ma nessuno può dire se sarà vera ripresa o solo un sobbalzo.
Lo sfaldamento dell’ex-Urss e la fine del “condominio russo-americano”, con cui i due paesi si erano divisi le aree di influenza e controllo del pianeta, ha aperto agli Usa un consistente ampliamento del suo sistema economico e militare, che è penetrato soprattutto nell’area asiatico-caucasica, potendo così chiudere di molto l’accerchiamento della Russia da sud-ovest, dopo che già i paesi del cosiddetto “impero esterno”, dall’Estonia alla Bulgaria, sono divenuti a vario titolo membri dell’Unione Europea.
In questo movimento verso levante gli Usa sono giunti a ridosso dei confini della Cina, economia imperialista emergente.
È semplice rispondere alla domanda di che cosa gli Usa vogliono: difendere ed ampliare la sfera di influenza della loro economia ed aumentare il flusso di capitali stranieri nelle loro assetate e voraci casse. Per questo occorre mantenere l’egemonia mondiale a tutti i costi, e per questo hanno impiantato una fitta rete di circa 900 basi militari, ufficiali, nei punti chiave del pianeta.
Le casse dello Stato e delle banche americane sono le più indebitate del pianeta e necessitano sempre di maggiori prestiti e finanziamenti per potersi sostenere. Come ebbe a ribadire il 41° presidente americano George H.W. Bush senior nella conferenza internazionale a Rio sulla “difesa dell’ambiente” nel 1992: “the American way of life is not negotiable”.
L’Europa
L’Europa è unita solo nelle sue affermazioni di principio e nelle sue esteriorità mentre nei fatti è un’unione esclusivamente commerciale e finanziaria.
L’Europa dei quadri statistici non mostra le profonde differenze e le avversità, dove ciascun Stato cerca di superare l’attuale duratura crisi con una propria soluzione. Ogni paese mantiene la propria politica economica, ognuno per sé nella concorrenza dei capitali nazionali fra loro, in un contesto di globalizzazione economica e finanziaria di un maturo imperialismo. La concentrazione finanziaria e industriale è ancora indietro rispetto agli altri imperialismi.
In questa situazione poco si conosce di eventuali piani strategici e militari comuni e nemmeno se c’è un piano unico autonomo e non condizionato, se non imposto, dall’America tramite la Nato. È una contraddizione che prima o poi dovrà emergere se l’Unione Europea vorrà essere un soggetto indipendente e attivo nella sua politica estera, per difendersi dalla ex-Urss, la quale ha più bisogno dell’Europa di quanto l’Europa della Russia.
Se con difficoltà si approntano politiche economiche unitarie, possiamo ben immaginare le difficoltà in campo militare. Al momento parrebbe che ognuno si muova come vuole limitandosi ad informare gli altri a cose fatte.
Parigi ha concordato o semplicemente “informato” gli altri Stati europei di inviare nel mar Rosso una sua squadra navale, con tanto di portaerei e sottomarino nucleare, per bombardare lo S.I. da migliore e sicura posizione? Forse far decollare gli aerei dalle basi in Giordania, più vicine, è diventato pericoloso perché gli avversari potrebbero essersi dotati di sistemi per abbatterli, come è stato per il tornado giordano. Non è una curiosità da poco.
L’Italia è stata lasciata da sola nell’emergenza profughi e nell’operazione Mare Nostrum. Mettere in difficoltà un socio in affari non è “corretto”.
Sicuramente l’Italia vuol tornare in Libia con un ruolo egemonico, ma altrettanto sicuramente la Total e la B.P. vogliono difendere le loro quote petrolifere. Parigi e Londra hanno sempre usato Roma per i loro scopi. Per una operazione italiana in Libia c’è prima molto da discutere e chiarire, Berlino acconsentendo.
L’unità europea sta ora affrontando questo sdoppiamento tra i rapporti comunitari e nazionali sulla crisi libica, mentre deve risolvere quella economica greca: due importanti verifiche nello stesso momento in cui la Germania pare essere più interessata a quella greca che a quella libica, vista la sua forte esposizione finanziaria sulla Grecia.
L’Inghilterra, fuori dall’area dell’euro, sembra stare alla finestra e osservare con attenzione.
Il riaprirsi delle tensioni nella sponda sud del Mediterraneo può deviare l’attenzione dall’area slavo-balcanica, dove al momento i conti sono regolati al suo interno, dopo lo smembramento della ex-Iugoslavia, e sembra che per ora si voglia tenerlo così circoscritto.
La Cina
La sorniona Cina è vicina, anzi molto vicina, in continua ricerca di petrolio e mercati per le sue merci e i suoi capitali; rimasto fedele alla linea pragmatica di Deng Xiaoping, il veloce sviluppo capitalista cinese del dopo Mao fa affari con tutti.
I suoi indici di crescita, anche se da prendersi con estrema cautela, parlano ancora di un’economia in espansione, sebbene a minore velocità.
Con Gheddafi la Cina aveva stipulato accordi in campo petrolifero, in cambio di opere infrastrutturali, che ovviamente sono saltati in aria. Non era un contratto quantitativamente significativo per la sete cinese di petrolio, ma era un inizio, mal visto dai concorrenti europei. È fuori luogo affermare che gli imperialismi abbiano abbattuto il regime libico per chiudere alla Cina il sud del Mediterraneo e il suo petrolio, ma certamente quei suoi piani si sono per il momento arenati. La Cina è ben presente invece nel Sud Sudan dove, dopo la lunga e sanguinosa devastazione di quel povero paese, ricco però di petrolio, fa affari con entrambi gli Stati sorti dalla divisione dell’originario Sudan. Il piccolo Sud Sudan detiene il 75% delle risorse petrolifere, ma per la sua esportazione è costretto ad usare l’oleodotto che passa a nord nella Repubblica del Sudan pagando ingenti pedaggi. La situazione non si è mai stabilizzata definitivamente al punto che le truppe dei due paesi si contendono in sanguinosi combattimenti il controllo dei pozzi.
La Cina ha un forte controllo non solo economico ma anche gestionale della situazione perché ha costruito tutte le infrastrutture esistenti nel paese, ora diviso in due, tra cui l’oleodotto di 1.500 Km che unisce la vasta area petrolifera con Port Sudan sul Mar Rosso. Detiene anche la quota di maggioranza nel consorzio internazionale per l’estrazione di 4 degli 11 più importanti giacimenti sudanesi come pure il controllo del consorzio per la raffinazione. Dallo scorso autunno ha ottenuto dall’Onu l’autorizzazione di inviare suoi 750 caschi blu nell’area come forza di interposizione e controllo della regione.
Ha quindi un’ottima fonte di petrolio a disposizione e non sembra voler essere coinvolta nella faccenda del terrorismo islamico, salvo la fornitura di materiale bellico a chi è in grado di pagare
Ma il suo attuale primo interesse imperiale è nel Mare Cinese Orientale. Qui è in atto un’annosa disputa tra Cina, Giappone e Taiwan per il controllo del piccolo gruppo delle isole Senkaku, vicine e a nord di Taiwan, per finalità estrattive e strategiche. In quella strategica via d’acqua che collega dal Mar Cinese Orientale e Meridionale i porti di primaria importanza Hong Kong, Shanghai, Tientsin, Dalian, Shenzhen, da quelli della Corea del Sud allo stretto di Malacca, transitano 15 milioni di container all’anno e il 50% di tutto il petrolio mondiale: averne il controllo è di fondamentale importanza per i paesi della regione.
Qui potrebbe innescarsi un prossimo conflitto su vasta scala. Ormai la Cina sarebbe in grado di sostenere crisi in teatri lontani, ma al momento non intende impiegarvi energie. Da tener conto che da pochi anni è sotto il tiro da gigantesche basi americane poste su opposti fronti: dalle ex repubbliche sovietiche del Kirghizistan e dell’Uzbechistan, in Afghanistan e in Pakistan e dalle numerose basi nella Corea del Sud e in Giappone.
L’Egitto
L’Egitto del generale Al Sissi che cosa rappresenta, da chi è stato sostenuto?
Abbiamo scritto molto sulle cosiddette “primavere arabe” e in particolare sull’Egitto, il paese più capitalisticamente avanzato del nord Africa, con un forte proletariato che si è espresso anche recentemente in dure lotte nelle aree industriali. Abbiamo anche descritto la funzione economica della classe militare e dei suoi vertici che gestiscono la maggior parte delle imprese.
L’Egitto è anche in una posizione strategica cruciale sia come cerniera tra il Nord Africa e il Vicino e Medio Oriente, sia per i grandi traffici sul Canale di Suez. È passato dalla influenza dell’ex-Urss a quella degli Usa e, definitivamente tramontato il sogno di una grande nazione panaraba, si trova nella difficile situazione di laboratorio dove provare a conciliare i contrasti tra il morigerato rigore musulmano e lo sfrenato consumismo capitalista.
La rivolta egiziana del 2011, da altri definita rivoluzione mentre noi diciamo che la borghesia al potere, espressa anche nei vertici militari, è rimasta al suo posto cambiando solo facciata, depose il presidente Mubarak, anch’egli proveniente dall’esercito. Le elezioni del 2012 proclamarono nuovo presidente Morsi, un dirigente dei Fratelli Musulmani, la setta religiosa più diffusa e duramente repressa con centinaia di impiccagioni dal regime egiziano di Mubarak anche nel suo ultimo periodo di esistenza. Le attese erano molte sia fra i proletari che chiedevano migliori condizioni di lavoro e di vita, sia nella borghesia che voleva riprendere i suoi affari, sia fra quanti, principalmente sunniti, pensavano di instaurare uno Stato improntato ai dettami religiosi musulmani.
Ma la situazione in Egitto precipita velocemente sul piano economico con la chiusura di molte fabbriche e l’occupazione di altre, ma anche scontri contro il governo per le ripercussioni del suo integralismo sul piano economico e sociale. Il generale Al Sissi attua un colpo di stato militare. Iniziano gli arresti in massa dei Fratelli Musulmani con feroci repressioni di alcune migliaia di “oppositori”; 600 morti con 2.000 feriti solo negli scontri di piazza Rabi’a al Adawiyya nell’agosto 2013. La repressione è continuata sia contro i lavoratori sia contro i sostenitori del deposto Morsi e tutti gli altri oppositori politici, con il beneplacito di tutte le potenze straniere che si contendono il controllo dell’Egitto. Al Sissi ha così dimostrato alle centrali imperialiste di essere capace di contrastare con determinazione la lotta di classe.
Ha infine attuato azioni militari egiziane contro le postazioni dello S.I. in Libia, evitando forse un congiungimento di quelle formazioni con i gruppi armati dei Fratelli Musulmani che operano nella zona di Tripoli, il cui governo non ha alcun riconoscimento internazionale.
Con questa manovra l’Egitto si propone come ago della bilancia, uno Stato a capo degli arabi “moderati” e una potenza regionale in grado di gestire crisi di un certo livello. Questo anche per continuare a ricevere aiuti e assistenza alla sua economia, in grave crisi economica per la caduta produttiva industriale, per la nuova dipendenza nel settore energetico, perché da esportatore è diventato importatore, e per la consistente caduta degli introiti dal turismo.
La Turchia
Sulla Turchia abbiamo ampiamente scritto sul n.360 di questo giornale. La Turchia è anche lei uno Stato-ponte, cerniera tra il mondo occidentale e quello mediorientale, e cerca di assumere il ruolo di prima potenza nell’area. Forte di questa posizione strategica sta giocando su più tavoli. Ha corteggiato con insistenza per anni l’Unione Europea, con il suo volto modernista di stile europeo, per poter avere la sua produzione industriale accesso a quel mercato. La politica del presidente Erdogan sembra andare nella direzione opposta, sospendendo le trattative per l’ingresso nella U.E. Erdogan cerca così di controllare i forti contrasti tra classi e gruppi sociali ed economici opposti. Alla lunga queste contraddizioni, in un paese che si affaccia al moderno capitalismo, sono destinate ad esplodere.
In questo contesto la scelta di Erdogan se fare della Turchia l’ultimo mal visto paese della UE o il primo del Vicino Oriente, è a favore della seconda. Per l’egemonia regionale si allea con chi può essergli utile ma soprattutto contro ciò che rimane del regime siriano di Assad: ultimamente è il sostenitore più palese dello S.I. e attraverso le sue frontiere transitano uomini e rifornimenti di ogni genere in cambio del petrolio proveniente dai pozzi controllati dallo S.I.
Le trattative con i curdi, sempre sullo scambio di petrolio, sono più complesse: si contrasta la richiesta dei curdi di un loro Stato entro i confini della Turchia.
La Turchia, appena ristabilita la situazione dopo la caduta del regime di Gheddafi, aveva ottenuto la gestione dell’aeroporto di Tripoli, ora sotto il controllo di Alba Libica, ed è l’unico Stato ad aver riconosciuto il governo locale di Tripoli ed aver nominato un suo rappresentante per gli affari con Tripoli. Certamente da quella posizione diplomatica Ankara intende ottenere agevolazioni per le sue importazioni di petrolio.
Lo Yemen
Anche in Yemen si sta perpetuando una sporca guerra del capitale che la grancassa mediatica della disinformazione borghese preferisce non pubblicizzare. A combatterla sono le armate dell’Arabia Saudita appoggiate da una coalizione di paesi del Golfo Persico: Emirati, Bahrein, Kuwait, Qatar, Giordania ed Egitto; il pretesto sarebbe la minaccia dei jihadisti di Al Qaeda nella penisola araba (Aqpa) e gli houthi, i “ribelli” zaiditi (una corrente dell’islam sciita) originari del nord dello Yemen.
Le armate della coalizione che bombardano quotidianamente le città e i villaggi yemeniti colpendo indiscriminatamente e a farne le spese sono per la maggiore i diseredati: secondo le Nazioni Unite al 26 marzo scorso 1.849 sono i morti fra gli yemeniti, 7.394 i feriti, oltre mezzo milione costretti ad abbandonare le loro case.
A partire dal 2013, gli houthi si sono scontrati a varie riprese con altre milizie, con potenti gruppi tribali e con i combattenti di Al Qaeda. Nella loro avanzata hanno stretto un’alleanza di circostanza con il loro vecchio nemico, l’ex presidente Ali Abdullah Saleh. Fra i motivi di questo conflitto vi sono le proteste popolari ispirate alle primavere arabe, suscitate dall’estrema povertà e dalla scarsità di risorse idriche. Nel settembre del 2014 gli houthi avanzano sulla capitale Sanaa e a marzo 2015 attaccano Aden. L’Arabia Saudita, che già in passato ha combattuto gli houthi, guida un’operazione dei paesi arabi militare per fermarne l’avanzata.
L’Iran fornirebbe armi agli houthi. Teheran ha proposto all’Onu un piano di pace per lo Yemen, che prevede: un cessate il fuoco immediato, un programma di assistenza umanitaria, la ripresa del dialogo tra le fazioni in lotta e la formazione di un governo di unità nazionale.
Nel paese agisce anche il gruppo di Aqpa considerato il pericoloso ramo di Al Qaeda, che combatte sia contro gli houthi sia contro il governo. Aqpa si è formato nel gennaio del 2009 dalla fusione dei rami yemenita e saudita di Al Qaeda. A metà aprile, approfittando del caos nel paese, Aqpa ha rafforzato il suo controllo sulla città di Mukalla, nel sudest del paese.
Infine abbiamo la presenza dello S.I. giunto nello Yemen il mese scorso. Finora si sono distinti per alcuni attentati suicidi contro due moschee sciite a Sanaa, che hanno provocato 137 morti.
Quelli dietro le quinte
Il ricchissimo Qatar è uno dei principali fornitori di armi allo S.I. e senza dubbio dietro di lui altri emirati lo sostengono.
L’Iran sciita, dopo i primi segni di un riavvicinamento agli Usa in ambito del nucleare, per ora solo negli accordi presidenziali perché né il Congresso americano né il parlamento iraniano al momento li hanno ratificati, sostiene i gruppi sciiti nell’area siriana e non sembra voler scoprire le sue strategie nell’area.
Israele ha taciuto evitando di farsi coinvolgere, tenendo conto dei suoi problemi con l’Iran e quelli derivati dal controllo di quel grande campo di concentramento che è la Striscia di Gaza.
Il 2 luglio in un ben combinato piano, formazioni armate riferentisi allo S.I. hanno attaccato alcuni posti di frontiera sul Sinai settentrionale a breve distanza dalla Striscia di Gaza, con aspri combattimenti, ovviamente diversamente quantificati in ordine di perdite umane dai due fronti. Come risposta il premier israeliano Netanyahu ha ammonito che “il nemico è alle porte”. La preoccupazione sia di Israele sia dell’Egitto è che lo S.I. riesca ad entrare nella Striscia col pretesto di “liberare” i palestinesi.
Non ci stupiremo se di fronte a una simile eventualità sorgesse un’anomala manovra combinata tra Egitto ed Israele contro quei disperati, perché il capitalismo in qualunque forma di governo si presenta è sempre pronto a temporanee alleanze per combattere il proletariato, il loro comune nemico, anche se non ancora in fase di attacco.
* * *
Certo i centri dell’imperialismo si attendono e caldeggiano una ennesima frattura nel mondo arabo, del quale una parte finanzia i fondamentalisti ed una, maggioritaria, gli si oppone.
Le formazioni di Boko Haran dalle loro basi nel nord della Nigeria hanno annunciato di voler andare in aiuto delle formazioni fondamentaliste in Libia.
Mentre perdura in un apparente stallo da oltre due anni la guerra in Siria-Iraq-Kurdistan, mentre in Ucraina la situazione è a un livello di guerra guerreggiata ancora a fatica definibile regionale di basso livello, mentre il resto dell’area danubiano balcanica ha secolari contrasti e l’attuale stabilità non è a prova di fuoco, la crisi attuale in Libia sposta in avanti non solo in senso quantitativo ma qualitativo la stabilità e il controllo del traffici nel Mediterraneo.
In Usa il presidente Obama è stretto tra la pressione delle lobby degli armamenti e il difficile invio di nuove truppe in Medio Oriente, dopo che ha faticato non poco a mantenere la promessa nella prima campagna elettorale di far rientrare dall’area tutte le truppe americane. Troppa carne al fuoco per interventi separati e localizzati anche per una grande potenza.
Come
si divideranno stavolta gli imperialismi le aree di intervento sui
molteplici fronti aperti, Ucraina compresa? Per prevedere le mosse
del capitale nel suo complesso planetario occorre non farsi
influenzare dai singoli fatti contingenti o dalla cronaca degli
inviati di guerra.
PAGINA 2
1. Il corso della crisi nelle produzioni e nella finanza |
2. Storia dell’India: fino all’arrivo degli europei |
3. I moti proletari nella Italia nel primo dopoguerra |
4. La crisi della finanza |
5. I recenti flussi migratori verso l’Europa |
6. La questione militare: Libia 1911 [ resoconto esteso ] |
7. Resoconto lavoro in Vzla |
8. Ricapitolando sulla storia dell’Irlanda |
9. Attività sindacale |
Ottimamente organizzata dagli efficientissimi compagni locali abbiamo potuto trovarci per la periodica riunione generale del partito nella sede della nostra redazione genovese, per l’occasione appositamente attrezzata.
Come tutti sanno, le nostre sono “riunioni di lavoro” e non “congressi”. Questo perché la maturità storica della nostra dottrina e dei derivati schemi tattici esclude che vi sia ormai all’interno del movimento comunista da individuare una “linea” e da prendersi delle “decisioni” in merito. Noi non abbiamo più nulla da decidere, se non disposizioni d’ordine secondario volta a volta richieste dalla normale organizzazione del lavoro interno o sulle modalità, i tempi, ecc. della propaganda all’esterno.
Era presente a Genova ampia rappresentanza di tutti i nostri gruppi, dall’Italia, la Francia e la Gran Bretagna. Chi non ha potuto esserci ha inviato una chiara e completa relazione sul lavoro locale, di cui è stata data integrale lettura.
Del fitto succedersi delle numerose relazioni dei gruppi di studio e dei compagni impegnati nell’attività sindacale al solito qui diamo un succinto riassunto e rimandiamo la loro pubblicazione per esteso ai prossimi numeri della nostra rivista Comunismo.
Il corso della crisi nelle produzioni e nella finanza
L’accumulazione del capitale spinge le forze produttive al parossismo, portando alla produzione di una montagna di merci sempre più mostruosa. Questa esaltazione delle forze produttive entra in antagonismo con i rapporti di produzione capitalistici. L’accumulazione del valore trova il suo limite nella caduta tendenziale del tasso del profitto: più la produttività del lavoro aumenta, più il rendimento del capitale, il tasso del profitto, si abbassa. Il capitale contrasta la caduta del tasso del profitto con un ulteriore aumento della produttività, possibile solo con impianti giganteschi. Così il tasso del profitto si abbassa, ma la massa del profitto aumenta. Il che obbliga a scaricare sul mercato una massa sempre maggiore di merci. Più il capitalismo si sviluppa, più i mercati si accrescono, tuttavia il loro aumento non può tener dietro a quello della produzione e non si trova un equilibrio fra la produzione e il consumo. Come si ha una caduta del tasso del profitto nel tempo, ugualmente si assiste ad un rallentamento della crescita dei mercati, che tende a zero sul lungo periodo. Così i grandi centri imperialisti devono per forza cercare nuovi sbocchi per le loro industrie, come devono cercare nuove fonti di materie prime a buon mercato.
Tuttavia, ciò che caratterizza l’imperialismo, come insegna Lenin, non è solo l’esportazione di volumi sempre più grandi di merci verso nuovi sbocchi, ma soprattutto l’esportazione di capitali là dove il tasso del profitto è più elevato. I grandi centri imperialisti hanno a loro disposizione non solo il proletariato indigeno, ma anche e soprattutto il proletariato mondiale. Come visto nelle precedenti relazioni, abbiamo assistito a partire dalla metà degli anni 1980 ad un afflusso di capitali dai grandi centri imperialisti verso i cosiddetti BRICS, Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, ma soprattutto verso la Cina. Questo fenomeno ha permesso un aumento considerevole del capitalismo in queste regioni, soprattutto in Asia ed in particolare in Cina, il che ha condotto ad un temporaneo aumento del tasso del profitto medio del capitale alla scala mondiale e ad un aumento considerevole di quei mercati. Solo questo ha permesso al capitalismo mondiale nei trascorsi anni di evitare una crisi del tipo del 1929. Oggi siamo arrivati alla fine di questo ciclo e si profila una gigantesca crisi di sovrapproduzione la cui intensità sarà superiore, e di molto, a quella del 1929. Se in Europa e in Giappone nel 2016-17 vi sarà ripresa, essa non potrà essere che moderata e preludio a questo prossimo tracollo.
C’è una profonda contraddizione fra le crescenti forze produttive e la loro chiusura nei ceppi della legge del valore, fondato sullo sfruttamento del lavoro salariato. Questa contraddizione fra produzione sociale ed appropriazione privata pone il modo di produzione capitalista in un costante squilibrio. Il fine della produzione capitalista è l’accumulazione del profitto, il che conduce ad una esaltazione costante della produttività del lavoro; per converso l’aumento generalizzato della produttività del lavoro provoca l’abbassamento del tasso di accumulazione del profitto.
All’incessante accumulazione dei capitali si oppone la strettoia del mercato. Per forzare questo limite e permettere al capitalista industriale di ricominciare il suo ciclo produttivo anche prima che le sue merci siano consumate, egli le vende ad un grossista, che le paga a credito. Si ha qui un pagamento differito, e in germe il rischio di una crisi, in caso di blocco dei consumi. Per aver denaro per ricominciare subito il suo ciclo produttivo, acquistare le materie prime e pagare i salari, l’industriale si rivolge alla sua banca alla quale vende la tratta del grossista, pagandole uno sconto, diciamo il 5%, tasso che fluttua in funzione del mercato del denaro. Fin qui si tratta di una vendita di un titolo, non di un credito. Il banchiere acquista questa tratta, che diviene per lui del denaro: sarà lui, alla scadenza, a farsela pagare dal grossista.
Questo gigantesco numero di tratte, senza le quali nel capitalismo non è possibile nessuna produzione, costituisce la grande massa di moneta in circolazione ed è la base di tutto il sistema del credito. Senza entrare nei dettagli, come funziona il credito? Il bilancio di una banca si divide in due colonne, il passivo e l’attivo. Il passivo comprende il capitale proprio della banca, che è relativamente poco, i depositi dei clienti – industriali, commercianti, privati, ecc. – sotto forma di conti correnti, risparmi, titoli, ecc. L’attivo comprende l’insieme dei titoli detenuti dalla banca, prestiti, obbligazioni, azioni, ecc. Per fare un prestito la banca utilizza i suoi depositi a breve termine – che non le appartengono – che trasforma in prestiti a lungo termine. Questa operazione si traduce la maggior parte delle volte in un semplice giro di scritture. Al creditore la banca apre un conto ove registra l’ammontare del prestito. Questa operazione genera per la banca una creazione di moneta. E il nuovo conto corrente che si è aperto può, a sua volta, servire per un nuovo credito: i depositi generano prestiti e i prestiti generano depositi. Così s’innalza tutta la girandola dei titoli che rappresentano solo del denaro virtuale.
Finché alla scadenza chi ha preso in prestito – il grossista nell’esempio – paga, tutto va bene. Ma quando le merci si accumulano perché i mercati sono saturi e le insolvenze seguono alle insolvenze, allora viene la crisi commerciale e finanziaria, poi la crisi industriale: è il crac e tutto il castello di carta rischia di rovinare!
A questo punto il denaro si fa raro, cioè nessuno vuol prestare. È quello che è successo con la crisi finanziaria del 2008-2009; le banche non si fidano più fra di loro e non vogliono più prestarsi del denaro: le banche che raccolgono risparmi non prestano più alle banche di investimento, che cessano di prestare ai capitalisti e ai privati. Si assiste ad un blocco: diviene difficile per le banche europee acquistare dollari dalle banche americane per investirli nei loro affari commerciali, e per le banche dell’Europa del Sud da quelle del Nord, trovando le prime difficoltà a contrarre prestiti sul mercato finanziario. È in queste condizioni che le banche centrali sono intervenute al fine di evitare un crollo generale. In un primo tempo abbassando il tasso di interesse direttore della banca centrale – a 0% quello della FED e della Banca Centrale di Inghilterra – poi intervenendo sui mercati finanziari al fine di sostituirsi alle banche e permettendo di nuovo la circolazione del capitale denaro sui mercati primario e secondario – rispettivamente il mercato di compra-vendita delle obbligazioni di Stato ed il mercato dei prestiti fra le banche e i diversi istituti finanziari.
Benché i tipi di intervento e di acquisto differiscano fra le varie banche centrali, questi riposano sullo stesso meccanismo che abbiamo visto a proposito dei prestiti bancari. Al passivo dei bilanci delle banche centrali si trovano i depositi di tutte le altre banche. E questi sono i depositi che sono stati utilizzati sia per prestare il denaro sia per acquistare titoli. Intervenendo le banche centrali hanno permesso di evitare il dissolversi del capitale finanziario ed una svalorizzazione massiccia del capitale. Ma hanno trasferito il rischio nei loro bilanci, innescando così una bomba ad orologeria.
Storia dell’India: fino all’arrivo degli europei
Il compagno introduceva il nuovo capitolo dello studio sulla storia dell’India descrivendo come all’inizio del Quattrocento le conseguenze della peste e della crisi economica, che avevano coinvolto alcune aree chiave della Terra, incominciarono ad essere superate, in particolare nell’Europa occidentale e in Cina.
Nell’estremo occidente il piccolo regno del Portogallo, grazie al prezioso appoggio finanziario di banchieri genovesi e tedeschi, intraprese la sistematica esplorazione delle coste dell’Africa alla ricerca di una via diretta per le Molucche, fonte primarie per le spezie, preziose per l’alimentazione europea dell’epoca. Nel 1488 una spedizione guidata da Bartolomeo Diaz riuscì a superare il Capo delle Tempeste, poi ribattezzato Capo di Buona Speranza. In questo contesto la corte spagnola finanziò un genovese, Cristoforo Colombo, che riteneva di aver trovato, navigando verso ponente, una via più rapida per raggiungere l’Asia.
Fu questo un periodo caratterizzato dalla diffusione di nuove invenzioni tecnologiche, in particolare, nel campo militare, le armi da fuoco: gli Stati accrebbero il proprio apparato amministrativo e resero più efficiente la tassazione per far fronte al costo crescente degli eserciti. Il risultato fu una progressiva centralizzazione del potere che in Europa occidentale determinò l’emergere delle monarchie assolute, ma processi simili si verificarono nella Russia zarista, nell’impero ottomano, in quello persiano, nel Giappone dei Tukugawa, nella Cina della dinastia Tang ed infine nell’India dell’impero Moghul.
Verso la seconda metà del Cinquecento, tutta la parte settentrionale del subcontinente indiano fu definitivamente unificata nell’Impero Moghul. Nel peculiare contesto del sistema di produzione asiatico, il processo di centralizzazione fu davvero notevole. I generali vittoriosi erano obbligati a versare tutto il bottino conquistato allo Stato. Il processo di centralizzazione subì un’ulteriore accelerazione negli anni Settanta e incluse la progressiva riappropriazione, da parte del fisco imperiale, delle terre e dei benefici goduti a vario titolo dall’aristocrazia, specie quella religiosa. Queste terre vennero sottoposte alla diretta amministrazione dell’imperatore. Con il passare del tempo, anche a seguito delle numerose rivolte, vennero fatte alcune concessioni alla nobiltà adottando una considerevole flessibilità nell’applicazione delle regole.
Nel corso del Seicento, alcuni prodotti, manufatti di cotone o di cotone misto a seta, di cui l’India era la maggiore produttrice al mondo, sostituirono le spezie come principale merce acquistata dalle compagnie europee, le quali avevano spezzato il monopolio precedentemente esercitato dai portoghesi. Le compagnie europee, in particolare olandesi e inglesi, provvidero a soddisfare la domanda di merci indiane in Europa, America e, in parte, in Africa.
Iniziò una nuova politica espansiva dello Stato Moghul con il trasferimento della capitale a Delhi. L’impero si fece musulmano e governato secondo le leggi della sharia.
Nel 1681 l’impero Moghul invase il Deccan. Ma l’offensiva del Deccan non si dimostrò senza resistenza. Nei decenni fra il 1720 e il 1760 una larga parte del subcontinente passò sotto il controllo dell’uno o dell’altro signore della guerra maratti. L’impero Moghul si trasformò da una monarchia su un insieme di province sostanzialmente autonome. La fine dell’unificazione Moghul non coincise con una unificazione maratta: la rapida espansione del potere maratto non portò mai alla costituzione di un vero e proprio impero.
Nel 1748 un esercito afgano si era lanciato in una serie di scorrerie nel nord dell’India fino ad arrivare nel 1761 alla disfatta maratta. Tuttavia lo scià afgano non riuscì mai a mettere radici nell’India, determinandosi un vuoto di potere, di cui approfittarono le compagnie commerciali francese, inglese ed olandese.
Nel 1717, la Compagnia inglese era riuscita ad ottenere dall’imperatore Moghul notevoli privilegi commerciali in cambio di un compenso annuale. Oltre a una serie di stabilimenti commerciali in varie parti dell’India, la East India Company venne a possedere le basi fortificate nell’isola di Bombay, a Fort St.George (Madras) e nell’insediamento di Calcutta. Tra il 1720 e 1740, una pericolosa concorrente divenne la Compagnie française des Indes orientales, che dispose di un certo numero di insediamenti commerciali e di basi fortificate tra cui Pondicherry nel Coromandel.
Lo scoppio della guerra di successione austriaca in Europa (1740-1748) e la comparsa nell’Oceano indiano delle navi da guerra di sua Maestà britannica e della marina francese, finirono per coinvolgere le compagnie francesi ed inglesi nel conflitto. La Compagnia francese conquistò Fort St.George. Il governatore moghul provinciale del Carnatico con un corpo di cavalleria pesante di 10.000 uomini attaccò nei pressi di Madras un distaccamento di fanteria francese di 930 unità; nonostante la disparità numerica, la fanteria indo-francese inflisse una secca sconfitta alla cavalleria moghul, dimostrando per la prima volta la schiacciante superiorità delle fanterie addestrate all’europea sugli eserciti indiani.
I moti proletari nella Italia nel primo dopoguerra
È stato esposto il primo di una breve serie di rapporti che si porranno lo scopo di ripercorrere a grandi linee lo scontro di classe del primo dopoguerra – che possiamo definire vera e propria guerra civile – e l’intervento del partito comunista.
Finita la guerra, il proletariato, uscito dallo strazio della trincea, venne immediatamente assillato da quello economico. La lotta economica sindacale, in cui il proletariato italiano aveva una notevole tradizione, si riaccese immediatamente. Il moto fu spontaneo e simultaneo da un capo all’altro del paese, nelle città come nelle campagne, e la borghesia ebbe a tremare all’avanzata del proletariato. Ed il suo terrore era pienamente giustificato dal momento che una vera marea rossa stava attraversando tutta l’Europa. È su questo scenario internazionale che si inquadrano anche le lotte del proletariato italiano.
Sarebbe impossibile fare un resoconto di tutte le lotte sindacali, o solo scegliere tra di esse le più notevoli per durata, numero di partecipanti, conquiste realizzate, o anche per la violenta repressione da parte delle forze dello Stato liberal-democratico, ed un resoconto dettagliato non rientrerebbe nemmeno nell’economia di questo lavoro. Diremo soltanto che si viveva in uno stato di pre-guerra civile.
A questo riguardo è stata data lettura di due citazioni, l’una di Curzio Malaparte l’altra di Umberto Terracini, che dai due lati della barricata fra le classi illustravano la medesima situazione: il proletariato era istintivamente e potenzialmente all’attacco, e la piccola borghesia italiana si era in una certa misura rassegnata a sottostare alla vittoria della rivoluzione.
Ma non rassegnata, la grande borghesia e il suo Stato, a perdere il potere senza combattere. Tanto più che da parte di quello che avrebbe dovuto essere il principale nemico, il partito socialista, non veniva fatto niente per organizzare le masse proletarie in vista della presa del potere.
L’occupazione delle fabbriche, accompagnata in molte parti d’Italia dalla invasione dei latifondi da parte dei contadini poveri, fu uno di quei momenti nei quali la capacità dei partiti politici e la preparazione rivoluzionaria delle classi sono messi alla prova. E quel momento fu perso per il proletariato.
Il partito socialista, di fronte alla necessità dell’azione, retrocesse. Di fronte alla lotta vera di strada, non più di parole, di demagogiche affermazioni nei comizi e sui giornali, anche i suoi più scalmanati agitatori balbettarono. E mentre il proletariato, chiuso nelle fabbriche, attendeva il segnale e l’ordine di agire, i capi sindacali mercanteggiavano la resa.
L’inazione proletaria in questa congiuntura critica fu il segnale dell’inizio del contrattacco borghese. La borghesia si era resa conto che dietro la terribile minaccia degli operai, da parte del partito del proletariato, nei fatti, non vi era che incapacità ed inerzia e, per conseguenza, ora era possibile contrattaccare.
Così, mentre di fatto il partito socialista paralizzava le lotte del proletariato, la borghesia si riorganizzava: nascevano la Confederazione Generale dell’Industria e la Confederazione Generale dell’Agricoltura: industriali ed agrari, animati da una spiccata coscienza di classe, capivano che contro la marea proletaria che avanzava non potevano battersi in ordine sparso, ma avrebbero dovuto costituire un fronte unico di difesa e che oltre all’arma del licenziamento, della serrata, etc. avevano esigenza ed urgenza di disporre anche di una struttura armata, extra-legale, per affrontare il proletariato sul terreno dello scontro frontale violento.
L’organizzazione mussoliniana, che in seguito affasciò tutte le altre, non era affatto l’unica struttura armata extralegale borghese. Immediatamente dopo la fine della guerra in Italia erano sorti, finanziati dalla grande industria, una miriade di raggruppamenti armati antioperai: le “Camicie azzurre” di Federzoni, gli “Arditi”, ed altre milizie dai nomi più disparati come “Lega Antibolscevica”, “Fasci di Educazione Sociale”, “Umus”, “Riscatto Italico”, etc.
La storiografia ufficiale si guarda bene dal ricordarlo ma esistevano anche squadracce armate cattoliche. Sfogliando l’“Avanti!” del 1920 ci si imbatte in note riguardanti il cosiddetto “teppismo cristiano” ove si relaziona di attacchi di squadre di “pipilari”, aderenti al Partito Popolare fondato da don Sturzo, che, spesso guidate dai preti, attaccavano cortei operai o effettuavano imboscate e pestaggi di militanti socialisti. Il cattolico Giovanni Gronchi, futuro presidente della repubblica, nel novembre 1919, in un intervento a Viareggio, affermava: «Quando infuriava la bufera rivoluzionaria e parve che i poteri politici avessero abdicato, il nostro fu il primo partito che compisse il dovere di un’affermazione di antibolscevismo» (“Il Messaggero Toscano” 7 luglio 1919). Noi non ci scandalizziamo certo: come ebbe a scrivere “Il Popolo d’Italia”, «i campi erano due: per Lenin o contro Lenin».
Nel campo “pro Lenin”, cioè proletario, in modo del tutto spontaneo fin dal 1918 ad opera della gioventù socialista si erano costituiti gruppi di difesa che, nelle intenzioni dei promotori, avrebbero dovuto essere gli embrioni di una futura organizzazione militare di partito, la cosiddetta “Guardia Rossa”.
L’“Avanguardia”, il giornale della gioventù socialista, del 29 giugno 1919 scriveva: «In attesa che la situazione del generale stato d’animo rivoluzionario provochi la scintilla dell’atto estremo che generando l’incendio distrugga il traballante e decrepito edificio borghese [...] il dovere dei giovani socialisti crediamo sia nel preparare gruppi d’avanguardia che dovranno prima concorrere ad ordinare l’esercito rosso dei proletari, poi precederlo nelle sue azioni di offesa e difesa [...] La borghesia scende in campo contro i proletari con mitragliatrici, con bombe, con fucili, rivoltelle e pugnali. I proletari devono pagarla con ugual moneta».
È stata pure letta una lunga citazione da “Il Soviet” del 27 aprile 1919 in cui si chiariva che il lavoro di preparazione e di organizzazione doveva essere compiuto con grande disciplina e soprattutto senza cadere in prevedibili provocazioni che avessero portato a prematuri moti di piazza.
Gli eserciti non si improvvisano e le rivoluzioni non avvengono a date prefissate; il compito del partito è quello di prepararsi e predisporre le sue forze per l’attacco rivoluzionario e cogliere il momento opportuno per sferrarlo, non lanciando anzitempo il proletariato in una lotta destinata a fallire. L’esortazione de “Il Soviet” non era quindi un invito a desistere dalla lotta, ma l’appello per una seria preparazione rivoluzionaria.
Seppure in mancanza di direzione, innumerevoli furono gli episodi di rivolta.
Gli organici di polizia e carabinieri erano insufficienti a mantenere l’ordine sociale, l’esercito, se messo alla prova, molto probabilmente sarebbe passato dalla parte del proletariato. Il governo Nitti effettuò quindi una rapida trasformazione degli apparati della pubblica sicurezza, fu organizzato un piccolo esercito all’interno dell’esercito, selezionato e con truppa che dava piena garanzia. Il territorio nazionale e le principali città furono suddivisi in settori; ogni settore fu posto sotto un comando che sul luogo disponeva di reparti in piena efficienza bellica.
Nitti si affrettò pure nell’ottobre del 1919 a costituire un nuovo corpo di polizia, la Regia Guardia, con un organico di 45.000 unità, posta alle dirette dipendenze del ministero degli Interni; dal momento che Nitti, oltre alla Presidenza del Consiglio si era riservato il ministero degli Interni, la Guardia Regia era alle sue dirette dipendenze. Inoltre portò a 65.000 il contingente dei carabinieri, a 35.000 quello della Guardia di Finanza e dotò il servizio di spionaggio di 12.000 agenti investigativi. Furono costituiti anche 18 Battaglioni Mobili di Carabinieri e 20 di Guardie Regie (organico del Battaglione 750 uomini, 28 Ufficiali, una o due sezioni mitragliatrici, sezione automobilistica). Anche la Guardia di Finanza fu raggruppata in Battaglioni (azione contro i minatori di Albona). La Guardia Regia ebbe squadroni di cavalleria. Ufficiali e sottufficiali di questi tre corpi frequentarono i corsi di aviazione, di artiglieria e altre specialità. I Battaglioni mobili e di pronto intervento vennero ubicati nei punti di maggiore interesse strategico. Gli assetti vennero ammodernati e sburocratizzati.
Nitti, a giustificare la formazione del nuovo corpo di polizia, a settembre, aveva dichiarato alla Camera: «Il Ministero dell’Interno [...] non può prescindere dalla necessità di avere alla propria diretta dipendenza un corpo armato [...] del quale disporre senza alcuna limitazione». In base al decreto n.1790 del 2 ottobre 1919, alla Regia Guardia venivano affidate «funzioni di polizia preventiva, repressiva e d’ordine pubblico».
Lo Stato, organo di difesa della classe borghese, a difesa dei propri interessi di classe, si attrezzava per “prevenire e reprimere” l’assalto proletario.
Il proletariato era inquadrato nel più grande (per adesioni, struttura e ramificazioni) partito italiano; il partito socialista oltre all’enorme rappresentanza parlamentare con 156 deputati, frutto di circa 2 milioni di voti, possedeva 3.000 sezioni, amministrava 2.500 comuni e, tramite il sindacato, organizzava milioni di lavoratori, operai e contadini.
La gioventù socialista era effettivamente disposta a darsi un inquadramento militare, sia di difesa sia di offesa, “nella più stretta osservanza della disciplina di partito”. Ma il partito sarebbe stato disposto a dotarsi di una sua struttura militare clandestina? Il PSI, organo della classe proletaria, si dava una organizzazione rivoluzionaria per coordinare la lotta di classe, indirizzarla e condurla alla vittoria finale?
I dirigenti massimalisti del PSI all’inizio non sconfessarono l’organizzazione illegale (lo faranno in seguito), anzi, come da consumata tattica dell’opportunismo, finsero addirittura di promuoverla, e di volerla organizzare a scopo insurrezionale. D’altra parte è questa la tattica tipica di tutti i rinnegati.
Molto e serio fu invece l’impegno profuso dall’organizzazione giovanile del PSI che, per quanto poteva, cercò di impiantare a scala nazionale un efficiente apparato illegale di partito, e soprattutto ripromettendosi di fare opera rivoluzionaria di disgregazione all’interno dell’esercito. Sfogliando il giornale della gioventù socialista si trovano molteplici prese di posizioni al riguardo, tanto che non mancarono di allarmare le alte sfere delle Forze Armate.
Ma la Frazione comunista aveva ben chiaro che la prima azione rivoluzionaria da compiere era quella di liberare il partito e le organizzazioni proletarie dagli elementi controrivoluzionari.
Se l’attività svolta dalla gioventù socialista non produsse una efficace organizzazione, e all’interno del PSI non avrebbe potuto, non fu lavoro speso inutilmente in quanto tornò utile poi, quando si trattò di costituire l’organizzazione illegale del partito comunista. Per potere parlare di un serio e disciplinato inquadramento rivoluzionario si dovrà attendere la scissione di Livorno e la nascita del PCd’I.
Il PSI non avrebbe mai potuto dare vita ad una seria organizzazione militare rivoluzionaria perché era infetto dalla peggiore delle malattie che possano colpire il movimento proletario: l’elettoralismo. E, ai fini della lotta democratica non solo era indispensabile mantenere nel suo seno la corrente riformista, ma era anche necessario considerare lo Stato non come borghese, di classe, ma al di sopra delle classi e ad esso appellarsi per il mantenimento della legalità e l’ordine costituzionale.
In risposta alla violenza legale ed extra-legale scatenata contro il proletariato e le sue organizzazioni il partito socialista rispondeva con aberranti comunicati tipo quello lanciato da Turati: «Non raccogliete le provocazioni, non fornite loro pretesti, non rispondete alle ingiurie. Siate buoni, siate pazienti, siate santi. Lo foste già per millenni, siatelo ancora. Tollerate! Compatite. Perdonate anche. Quanto meno mediterete vendetta, tanto più sarete vendicati. E coloro che scatenano sopra di voi l’obbrobrio del terrore, tremeranno dell’opera propria». Ma Turati non era il solo, era l’intero partito ad avere abbracciato la predicazione evangelica.
I due programmi, socialdemocratico e fascista, differivano sui mezzi, non sul fine: la conservazione degli istituti borghesi.
(Fine del resoconto al prossimo numero)
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Le borghesie europee
rinsaldano le mura contro la ripresa della lotta di classe
A fronte dell’inesorabile seguitare della crisi, del graduale ma incessante peggioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice, dei primi suoi segni di reazione a questo processo, in vari paesi la borghesia rafforza preventivamente le mura difensive contro l’inevitabile futura ondata della lotta di classe.
In tal senso in Italia un importante colpo è stato portato a segno dal padronato con l’Accordo sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, firmato fra sindacati confederali e Confindustria, che ha messo a nudo le gravi debolezze del sindacalismo di base, operando una sana selezione fra le sue varie organizzazioni, e suscitando anche una positiva reazione all’interno di una di esse, l’USB. Entro fine anno, però, il governo pare intenzionato ad accogliere in una legge i contenuti di questo accordo. Sarebbe questo un colpo ancora più duro contro la libertà di sciopero e il sindacalismo di classe.
In Germania, dopo un certo ritorno di combattività di alcune categorie, con una serie di scioperi nella prima metà dell’anno, il governo ha approvato a fine maggio una nuova legge che rende sempre più illegale ogni vero sciopero, riservando ai sindacati maggioritari, cioè a quelli di regime, la possibilità di siglare accordi collettivi e di ricorrere all’azione collettiva. Incassato questo successo gli industriali tedeschi sono già passati a proclamare il loro nuovo obiettivo: aumentare l’orario di lavoro.
In Gran Bretagna il governo ha in cantiere una legge di regolamentazione degli scioperi, che dovrebbe rendere legittimo il ricorso al crumiraggio da parte delle aziende. Cosa che, per altro, è avvenuta in Germania nel recente sciopero dei postali, e avviene costantemente in Italia nel settore della logistica organizzato dal SI Cobas.
In Turchia, a fronte di vigorosi scioperi operai, il governo è ricorso a una legislazione già molto severa, ponendo ripetutamente fuori legge queste agitazioni.
Nella
sostanza, quando anche non negli aspetti formali, tutti i capitalismi
marciano in questa direzione sotto la pressione dell’ineluttabile
forza materiale di questo modo di produzione in crisi.
Il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, firmato inizialmente da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, si è dimostrato un cruciale banco di prova per il sindacalismo di base. Abbiamo già analizzato nel dettaglio l’accordo sul n. 364 di questo giornale. Qui ne riproponiamo i contenuti in estrema sintesi.
Cosa comporta l’Accordo
L’aspetto più grave è la limitazione della libertà di sciopero. I contratti, nazionali e aziendali, saranno efficaci ed esigibili se firmati dai sindacati aderenti al Testo Unico e che detengono, sul piano nazionale, un rappresentanza maggioritaria (50% + 1) e, sul piano aziendale, la maggioranza dei delegati nelle RSU. Ciò significa che ogni altro sindacato aderente all’accordo se “in minoranza” non potrà agire, con scioperi o per altre vie, contro tali accordi, qualsiasi essi siano. A garantirlo saranno una serie di sanzioni economiche e di sospensione delle agibilità sindacali in azienda, da stabilirsi nei rinnovi dei contratti nazionali.
La Fiom, per esempio, contro un nuovo contratto nazionale separato – dopo quelli 2009-12 e 2012-15 firmati da Fim, Uilm, Uglm e Fismic – non potrà agire, né sul piano nazionale (cosa che una volta firmati i contratti si è sempre guardata dal fare), né con la farsesca lotta “azienda per azienda” con cui, dopo la firma, in passato ha finto di proseguire la lotta. Lo stesso accadrà per gli accordi aziendali, nelle RSU in cui non ha più della metà dei delegati. Ciò vale, naturalmente, per la Fiom come per qualsiasi altro sindacato aderente all’accordo.
Dev’essere chiaro che, in quanto patto fra le parti e non legge, il Testo Unico sulla Rappresentanza non vincola i sindacati che non vi aderiscono, che perciò mantengono la libertà di sciopero. Ciò però è pagato con l’esclusione dalle RSU.
Infatti, anche le RSU sono state istituite da un accordo pattizio, quello del 20 dicembre 1993, e non da una norma legislativa, come invece è stato per le RSA, istituite dalla legge 300 del 1970 (lo “Statuto dei Lavoratori”). E le parti, quindi, stabiliscono chi può parteciparvi e chi ne è escluso. La partecipazione è subordinata all’accettazione integrale del Testo Unico sulla Rappresentanza, come a suo tempo lo fu all’accordo interconfederale del 20 dicembre 1993.
L’esclusione dalla RSU comporta un notevole ostacolo alla possibilità di accedere alle cosiddette “agibilità sindacali”: permessi, possibilità di richiedere assemblee in orario di lavoro, bacheca sindacale, riscossione delle quote sindacali col cosiddetto metodo della delega, ossia attraverso prelievo automatico della quota dal salario del lavoratore da parte dell’azienda, che gira poi la quota al sindacato.
Il diritto a disporre di tali “agibilità” non è del tutto escluso perché per i sindacati che non aderiscono al Testo Unico resta, in linea teorica, la via della costituzione di una RSA, prevista, come detto, dalla legge. Nella pratica però un sindacato che rifiuti di sottostare al Testo Unico per ottenere il riconoscimento della RSA dovrà battersi non solo con l’azienda, come già oggi avviene, ma coi sindacati della RSU, alleati ad essa. Come sempre, a decidere, in ultima istanza, sono i rapporti di forza.
Altri tre i punti importanti dell’accordo interconfederale del 10 gennaio:
1) Viene stabilito un processo certificato dallo Stato, attraverso l’INPS, di misurazione della rappresentatività: la media fra gli iscritti con delega e i voti alle RSU. Ne consegue che solo i sindacati aderenti all’accordo avranno la rappresentatività misurata e certificata, e saranno quindi considerati “rappresentativi”.
2) Di questi sindacati rappresentativi solo quelli che raggiungono un 5% della media fra la percentuale degli iscritti e quella dei voti nelle elezioni per le RSU saranno ammessi alle trattative per i rinnovi dei contratti nazionali di categoria. Essere ammessi non significa aver garantita la partecipazione alla negoziazione con il padronato, che resta libero di trattare con chi vuole.
Quanto alla famigerata “unità sindacale” – formula equivoca con la quale dal secondo dopoguerra i sindacati di regime mistificano il significato dell’unità di classe – l’accordo prevede solo che i sindacati «favoriranno, in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie». Resta perciò la possibilità di nuovi accordi separati, come i due ultimi metalmeccanici. E questo è un bene per il padronato e i sindacati collaborazionisti che possono seguire a giocare con le loro false contrapposizioni.
3) L’accordo del 10 gennaio, infine, confermando i precedenti due accordi interconfederali del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013, prevede la possibilità di derogare al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per ciò che riguarda «la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro». Un passo decisivo verso la distruzione del contratto nazionale.
La capitolazione
Il sindacalismo di base inizialmente ha rigettato compatto il Testo Unico sulla Rappresentanza.
Ma già il 24 marzo 2014 la Confederazione Cobas annunciava la sua adesione e due giorni dopo toccava allo Snater, piccolo sindacato delle telecomunicazioni, unito da un patto federativo all’Usb, la quale, a seguito di questa decisione, rompeva l’alleanza. Il 12 maggio di quest’anno ha aderito l’Orsa e infine, il 23 maggio, la stessa Usb. Anche il piccolo Adl di Varese, scissione locale da Usb all’epoca del 1° congresso del 2013, ha preceduto la sua ex confederazione su questa strada.
Restano fermi sulla posizione contraria all’adesione la Cub, il SI Cobas, lo Slai Cobas, l’UniCobas e l’Associazione Lavoratori Cobas, federata alla Cub.
La maggior parte del sindacalismo di base ha perciò aderito all’accordo dimostrando di non credere alla possibilità di fare sindacato senza le “agibilità”, di non aver quindi fiducia nella lotta dei lavoratori, di essere disposta a sacrificare la libertà di sciopero pur di mantenere le “agibilità”.
L’Accordo ha messo a nudo ciò che già era da tempo maturo: l’assenza di una vera pratica sindacale classista da parte della maggior parte sindacati di base, che ad essa si richiamavano solo a parole.
L’Usb verso il sindacalismo di regime
L’attitudine rinunciataria dinanzi a questa prova porta ad un giudizio pesantemente negativo verso la maggioranza del sindacalismo di base.
Ma, a ben vedere, le premesse di questa capitolazione erano già presenti nelle motivazioni con le quali la dirigenza Usb rigettava il Testo Unico.
“Cambiare”, “migliorare”...
Anche la Fiom inizialmente si era schierata contro, minacciando persino la sospensione dei lavori del XVII Congresso CGIL, all’epoca in svolgimento, organizzando una consultazione fra i suoi iscritti per “cambiare e migliorare il Testo Unico” e dichiarando, in un comunicato del 18 marzo, che al suo esito avrebbe vincolato “i propri comportamenti sindacali e negoziali, sia nella contrattazione aziendale che nella contrattazione nazionale”.
Si trattava – naturalmente – delle solite chiacchiere per mascherare la pratica sindacale antioperaia, in linea perfetta con quella della Cgil. Infatti, nonostante l’86% dei votanti si fossero espressi contro, il Testo Unico è stato poi accettato dalla Fiom, nonché applicato nelle aziende per escludere i sindacati di base dalle RSU. Quanto al XVII congresso esso proseguì senza intoppi e con mozione unica, sostenuta dalla Fiom, che si limitò a proporre cinque emendamenti. Questi i fatti che rendono conto di quanto vale lo “scontro” fra Fiom e Cgil, di cui la stampa borghese ha fatto da grancassa, ed a cui anche parte del sindacalismo di base ha finito per credere.
Il titolo di quel comunicato Fiom – “Cambiare e migliorare il Testo Unico” – richiama l’ignobile moderatismo della Cgil che in questi anni, a fronte dei duri attacchi contro i lavoratori – dalla riforma delle pensioni, a quelle del mercato del lavoro (Fornero e Jobs Act) e della scuola, approvata il 9 luglio – ha sempre indicato di battersi non per respingerli ma per “modificarli”. Anche in ciò si dimostra la falsità della contrapposizione fra Fiom e Cgil.
La sostanza dell’atteggiamento dell’Usb verso il Testo Unico non è stata diversa. A tal proposito è molto utile la lettura del ricorso legale presentato al tribunale civile di Roma da due dirigenti nazionali della Confederazione Usb e di Usb Lavoro Privato e da due delegati RSU. L’oggetto del ricorso parla già chiaro: “Richiesta di declaratoria di nullità parziale” del Testo Unico. L’accordo non è rigettato in toto, ma solo parzialmente. Il binario è lo stesso della Fiom: cambiare e migliorare. Dell’accordo, infatti, l’Usb rigettava la terza e la quarta parte, più le “clausole transitorie e finali”, mentre accettava le prime due, pur rilevandovi “gravissimi difetti”. Le parti rigettate riguardavano la titolarità alla contrattazione nazionale ed aziendale e la limitazione della libertà di sciopero. Quelle accettate – le prime due – la misurazione e certificazione della rappresentanza e la regolamentazione delle Rsu.
Appellarsi al boia
Nel testo del ricorso del 19 marzo si affermava che «la Confederazione Usb (...) nonostante una contrarietà di fondo all’intero impianto dell’accordo del 10 gennaio (...) e rimanendo convinta della necessità di una legge sulla rappresentanza sindacale – ritiene possibile aderire, come in effetti con la presente aderisce, alle parti 1 e 2 dell’accordo». Come la Fiom, anche la dirigenza Usb considera positivamente l’instaurazione di un processo, statale, per la misurazione certificata della rappresentatività e si è fatta promotrice – insieme al Forum Diritti e Lavoro, allo Snater e all’UniCobas – di una proposta di legge sulla rappresentanza. Una legge sulla rappresentanza, quale “soluzione” al “problema” della “rappresentatività”, è invocata da un arco sindacale che va dalla Cgil, all’Usb, alla Cub, all’UniCobas, alla Confederazione Cobas. Sono invece contrarie a un intervento legislativo la Cisl e la Uil.
Questo indirizzo, che accomuna larga parte del sindacalismo di base al maggior sindacato di regime italiano, rivela in quei sindacati l’estraneità dai contenuti del sindacalismo di classe; e anche la totale cecità delle loro dirigenze.
Estraneità al sindacalismo di classe perché esso è tale in quanto difende l’indipendenza politica ed organizzativa delle associazioni difensive dei lavoratori, non solo dal padronato ma anche dalla sua macchina statale. Accettare che i rapporti fra i diversi sindacati siano regolati da una legge, e non unicamente da liberi accordi stretti fra di loro, significa calpestare la loro indipendenza. Significa inoltre credere alla superstizione dello Stato super partes nella lotta fra Capitale e Lavoro, al quale volontariamente ci si sottomette, quando tutta la storia del capitalismo dimostra che lo Stato sta dalla parte del Capitale contro i lavoratori.
Cecità perché le leggi, come gli accordi, sono il frutto dei rapporti di forza fra le classi. Una legge sulla rappresentanza oggi non potrebbe far altro che accogliere i contenuti – se non persino peggiorarli – dell’Accordo del 10 gennaio. Ci si sta appellando all’aiuto del proprio boia! Perché la legge, peggio dell’accordo, vincolerà tutti i sindacati. Inoltre, un accordo anti-operaio è più facile da combattere di quanto lo sia una legge, che per essere abolita richiede la mobilitazione di una forza superiore, che va a scontrarsi direttamente col regime politico della classe dominante.
La CGIL ha tutta la convenienza ad invocare una legge sulla rappresentanza, che accoglierà certamente buona parte dei contenuti delle sue proposte. Che lo facciano alcuni sindacati di base lascia sbigottiti per la pericolosa pochezza delle loro dirigenze.
Intanto, sul piano governativo, già si lavora per varare una simile legge, si dice entro fine anno. E sul piano internazionale, come riferiamo in queste pagine, hanno già mosso passi concreti e fatto da apripista Germania e Regno Unito.
La lotta unica garanzia
Leggiamo nel testo del ricorso di Usb: «Tutti i ricorrenti [la Confederazione Usb, Usb Lavoro Privato e i due delegati] non possono che vedere con favore il passaggio della rappresentatività da un meccanismo di accreditamento datoriale a regole oggettive e non presunte di misurazione del numero di lavoratori iscritti e di votanti».
Il problema del rapporto fra sindacato e Stato, chiamato in causa dalla richiesta di una legge sulla rappresentanza, ritorna con la questione della misurazione della “rappresentatività” attraverso un processo gestito dall’Inps e certificato dal Cnel. Di nuovo la dirigenza Usb dimostra di non intendere cosa sia, sul piano pratico, l’indipendenza di un sindacato, al punto che indica come una conquista consegnare la lista dei suoi iscritti al fine del suo “riconoscimento” a un organismo che pretende essere neutrale – lo Stato – e che invece è di parte, dalla parte padronale.
Accettare simile “misurazione della rappresentatività” è rivelatore di un secondo cruciale punto rispetto al quale la dirigenza Usb si pone nuovamente fuori dal campo del sindacalismo di classe: come cresce e si rafforza un sindacato di classe. Per i capi Usb crocevia fondamentale dello sviluppo del sindacato sarebbe la raccolta di iscritti e il meccanismo elettorale delle Rsu, che le “regole oggettive e non presunte di misurazione del numero di lavoratori iscritti e di votanti” del Testo Unico favorirebbero.
Infatti leggiamo ancora dal ricorso: «Il principale valore su cui i ricorrenti sindacati hanno costruito la propria identità e su cui hanno imperniato il proselitismo è quello del diritto di scelta consapevole dei lavoratori a monte con l’elezione diretta dei rappresentanti e a valle con la validazione democratica dell’eventuale accordo da questi raggiunto con la controparte».
Il principale valore di un sindacato di classe è invece la lotta, perché il suo rafforzamento avviene attraverso lo sviluppo del movimento di sciopero, che segue un percorso diverso, spesso opposto, a quello della conta elettorale, ed anche degli iscritti. La scelta della maggioranza dei lavoratori, di seguire le indicazioni di un sindacato o di un altro, di scioperare o lavorare, non è consapevole ma compiuta in base ad un collettivo istinto di classe: se ci si sente forti o deboli. E la forza scaturisce dal caldo della lotta, non nella “fredda” urna elettorale.
Far votare i lavoratori può essere uno strumento utile talvolta al sindacato per mostrare ai lavoratori la forza del loro numero e la determinazione alla lotta, ma non è un principio. È sempre da ammonire che non basta certo un voto o anche solo iscriversi ad un dato sindacato per cambiare le cose, indebolire i sindacati di regime o per ottenere dei risultati, senza il necessario sacrificio dello sciopero, sperando che eleggendo delegati più fedeli questi possano risolvere il problema battendo i pugni sul tavolo delle trattative.
Il sindacalismo di classe ritiene che il voto possa al massimo comprovare il suo seguito in un dato momento e luogo, mentre rammenta ai lavoratori l’ineludibile necessità dello sciopero. Lo sviluppo del movimento di lotta non coincide con i tempi e le modalità delle consultazioni elettorali in fabbrica, i cui risultati positivi, eventualmente, anche in termini di iscritti, arrivano dopo che le lotte si sono vinte.
Un processo rovesciato rispetto a quello che ha in testa la dirigenza Usb e che essa pone a riferimento e guida della sua azione sindacale. Il sindacato di classe conta i suoi iscritti per sé, per aver coscienza della sua forza, non per fornirne l’elenco all’azienda – come avviene col metodo di pagamento delle quote sindacali per delega – esponendoli a una comoda rappresaglia aziendale.
Il “riconoscimento” padronale e statale non ce lo attendiamo da una “certificata” procedura elettorale, ma dalla nostra forza reale. Il padrone “riconoscerà” il sindacato non per il numero di schede o di tessere che potrà vantare ma per il numero di scioperanti, per quanto danno gli fanno i nostri scioperi. E, alla fin fine, dall’influenza del partito comunista su quella reale forza sociale in movimento.
Rinunciare alle Rsu o agli scioperi?
Il ruolo primario che la dirigenza Usb assegna alle consultazioni elettorali in azienda, alla raccolta degli iscritti, elogiando un meccanismo di misurazione della rappresentatività del sindacato pattuito col padronato e gestito dallo Stato, e giungendo a invocare, come fa la Cgil, una legge sulla rappresentanza, non poteva che finire per porre, nella migliore delle ipotesi, in secondo piano il compito pratico fondamentale di un vero sindacato di classe, cioè quello di sviluppare la lotta dei lavoratori.
Ma nella pratica il risultato non poteva che essere peggiore perché i due elementi – ricerca della rappresentatività per via elettorale e sviluppo del movimento di lotta operaia – dovevano necessariamente confliggere, per l’inevitabile intervento del padronato e del suo regime politico finalizzato a far prevalere il primo a discapito del secondo.
Questa impostazione sindacale della dirigenza Usb – non classista – necessariamente l’ha condotta verso l’adesione al Testo Unico sulla Rappresentanza, a discapito di tutti gli strali lanciati contro di esso e contro i sindacati di base (Confederazione Cobas e Snater) che già vi aderivano.
Se l’Usb ha «costruito la propria identità e imperniato il proselitismo sul diritto di scelta consapevole dei lavoratori con l’elezione diretta dei rappresentanti», sarebbe mai stato possibile per essa rinunciare alla possibilità di partecipare alle elezioni Rsu, di esercitare quel “diritto”?
Se l’identità e il proselitismo di Usb sono stati imperniati sull’elezioni delle Rsu, e non sullo sciopero, ciò significa che i lavoratori ad essa iscritti sono stati educati a riporre più fiducia in questi organismi rappresentativi che nell’azione di lotta. Di conseguenza, restare esclusi dalle Rsu non poteva che comportare la perdita degli iscritti che hanno aderito a Usb su queste basi.
Alla fine il problema si è posto: rinunciare alle Rsu o alla libertà di sciopero?
Nel ricorso si legge: «Aderire alle parti III, IV e alle clausole finali comporterebbe [per Usb] la violazione dello statuto, il crollo della propria linea di politica sindacale». Un’affermazione perentoria e che pare non lasciare adito a dubbi. Però contano più i fatti delle parole. Una determinata pratica sindacale impone le sue scelte. La decisione di aderire al Testo Unico ha svelato, a chi non lo aveva ancora riconosciuto, il carattere collaborazionista e concertativo del sindacalismo della sua dirigenza.
Una reazione classista in Usb
Altrettanto grave è stato il metodo con cui l’Usb è pervenuta a questa decisione.
Come dichiarato dai suoi stessi massimi dirigenti l’adesione al Testo Unico avrebbe comportato la violazione dello statuto e della linea politica uscita dal primo congresso del maggio 2013. Perciò poteva essere presa solo da un nuovo congresso.
Invece della decisione se ne è incaricato il Consiglio Nazionale Confederale e lo ha fatto all’insaputa della grande maggioranza del sindacato, ignaro anche che il 23 maggio questo organismo avrebbe discusso la questione, che per altro, come detto, non gli competeva. Sapeva solo chi doveva sapere. Tant’è che persino al Consiglio Nazionale del Lavoro Privato – il massimo organo sindacale del settore direttamente interessato dal Testo Unico – riunitosi il 22 maggio a Roma, il giorno prima che il Consiglio Nazionale Confederale decidesse l’adesione, la questione non è stata nemmeno discussa!
Si è trattato quindi di una decisione che la dirigenza ha voluto far passare a tutti i costi, calpestando, oltre che la linea politica, ogni principio di fraterna e leale vita interna di un sindacato di classe, dizione questa che preferiamo a “democratica”.
Questa decisione, e il metodo con cui è stata presa, ha determinato una apprezzabile reazione all’interno di Usb, alla quale i nostri compagni iscritti al sindacato hanno dato il loro contribuito organizzativo e d’indirizzo.
È stato redatto un primo documento, che ha raccolto un buon contingente di adesioni. Si è preso quindi contatto con analoghe iniziative, in Veneto e nel milanese e, successivamente a un incontro a Milano, si è pervenuti a un nuovo documento unico a livello nazionale. È stato organizzato l’intervento dei firmatari del documento in diverse riunioni locali del sindacato, a Bologna, Venezia, Milano, Lecco, Genova, Perugia, Napoli e Firenze, al coordinamento nazionale dei lavoratori del Ministero dei Beni Culturali (che ha preso una posizione contraria, purtroppo tiepidamente, all’adesione). Il documento inoltre è stato diffuso agli iscritti in due manifestazioni della scuola, a Bologna e Roma. A fine luglio si è svolto un nuovo proficuo incontro a Roma.
Un lavoro estremamente positivo, non solo perché ha permesso di tornare ad agitare i giusti caratteri del sindacalismo di classe, ma anche consentito di superare le paratie che la dirigenza di USB ha posto fra i suoi militanti ed iscritti, separandoli per categoria, azienda, località, al solo fine di garantirsi il suo potere.
In tal modo, finalmente, militanti di varie parti di Italia sono riusciti a stabilire un rapporto ed a iniziare un lavoro comune sulla base del rifiuto dell’adesione al Testo Unico, che è una buona discriminante fra sindacalismo concertativo e classista, in quanto implica l’accettazione del fatto che il sindacato si possa e debba fare anche senza le “agibilità sindacali”.
Questa battaglia è servita quindi a unire e rafforzare ciò che ancora di genuinamente classista vi è nell’Usb. Un risultato positivo e fertile in sé, al di là dell’esito di questa battaglia.
In Germania - “Rappresentanza” per legge
La lotta di classe ha aperto una breccia nel cuore dell’Europa. E il regime borghese ha subito reagito erigendo un nuovo muro a sua difesa.
Nel numero di settembre 2013 riportammo alcuni dati sulla condizione della classe lavoratrice nella “locomotiva” d’Europa, la Germania, che mostravano che il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro non è, come si vuol far credere, un problema che riguardi solo i paesi del Sud Europa, Grecia in testa. Dall’inizio di quest’anno una serie di scioperi lo ha confermato. Sono scesi in lotta: macchinisti delle ferrovie, lavoratori degli asili, postini, aeroportuali, ospedalieri. Più di 350.000 le giornate di sciopero nei primi 5 mesi dell’anno in corso, a confronto con le 156.000 dell’anno scorso e delle 28.000 del 2010.
Venerdì 8 maggio, dopo varie dimostrazioni nei mesi precedenti e molteplici incontri tra sindacati e istituzioni, sono scesi in sciopero per un aumento salariale del 10% 240.000 lavoratori dei Kindergarten, le scuole per l’infanzia tedesche, organizzati in tre sindacati: Ver.di, Gewerkschaft Erziehung und Wissenschaft (GEW) e Deutscher Beamtenbund (DBB). Lo sciopero è stato unbefristet: a tempo indeterminato.
Il 19 maggio sono scesi in sciopero per la nona volta in otto mesi i macchinisti, organizzati dalla GDL (Gewerkschaft Der Lokführer), fermandosi a oltranza per sei giorni: il più lungo sciopero del secondo dopoguerra nelle ferrovie Deutsche Banh, che ha coinvolto anche i conducenti della metropolitana di Berlino, di proprietà della stessa azienda.
Abbiamo già riferito nel numero di novembre-dicembre 2014 della lotta dei macchinisti, quando, dopo il primo sciopero di tre giorni ad ottobre, ne era stato messo in campo un secondo, di cinque. La richiesta era di un aumento salariale del 5% e di una riduzione dell’orario di lavoro da 39 a 37 ore settimanali.
Le condizioni di lavoro in questo settore sono ben descritte da un macchinista in un’intervista al Die Zeit: «Per cosa sto lottando? Per migliorare l’orario di lavoro, un carico di lavoro meno pesante ed un limite sugli straordinari (...) Ci sono settimane in cui lavoro 30 ore, e in quella successiva 60 ore, e la settimana dopo ancora 50. Per quanto tempo si lavora e come non si può mai sapere con certezza. Tutto questo è dovuto ai turni che sono organizzati in modo da portare il massimo beneficio ai datori di lavoro (...) I turni di notte spesso arrivano alle 12 ore. Siamo costretti a fare molto straordinario a causa dei lavori di manutenzione sui binari, o per sostituire i colleghi che sono in malattia. Molto spesso l’azienda quando si è in carenza di personale – cosa ovviamente strutturale – assegna turni senza il dovuto preavviso. In definitiva, mi ritrovo ad essere perennemente in servizio per loro». Sempre più non si lavora per vivere, ma si vive per lavorare.
Come abbiamo scritto, contrariamente a quanto si fa credere, i macchinisti tedeschi sono tra i peggio pagati in Europa. Il salario netto, dopo due anni di servizio, è di 1.288 euro. Con l’aggiunta di altre voci si arriva a una media tra i 1.438 e i 1.588 euro, mentre un macchinista italiano con la stessa anzianità di servizio ha un salario netto di 1.850 euro.
Altro fronte di lotta è stato quello dei postini della Deutsche Post, il principale gruppo di poste tedesco, scesi in sciopero a oltranza l’8 giugno. L’azienda ha utilizzato mezzi che poco si accordano con l’immagine di un capitalismo “civile” e rispettoso delle regole che qui in Italia, soprattutto da sinistra, si propina ai lavoratori, per farli lottare non contro ma per migliorare il capitalismo, cosa che il “modello tedesco” dimostrerebbe possibile.
La Deutsche Post – per il 30,5% di proprietà statale – non solo ha intimidito i precari affinché si astenessero dallo sciopero, minacciandoli di non rinnovar loro i contratti, ma ha fatto ricorso al crumiraggio: dapprima facendo svolgere il loro lavoro da altri impiegati; poi giungendo a utilizzare i postini della DHL Packet, controllata dalla stessa Deutsche Post, della vicina Polonia!
Secondo il Sueddeutsche Zeitung – il più diffuso quotidiano tedesco – sulla vicenda è intervenuto il vicecancelliere Sigmar Gabriel che avrebbe scritto ai vertici di Deutsche Post chiedendo il rispetto dei diritti dei lavoratori.
Alle parole di questo eminente esponente del governo, fanno da contraltare fatti ben più significativi di segno opposto. Il 22 maggio è stato approvato dal parlamento un disegno di legge finalizzato ad ostacolare il rafforzamento di nuove organizzazioni sindacali combattive, a difendere quelle di regime, ovviamente “maggioritarie”, e a ridurre la libertà di sciopero. Il proponente ministro del lavoro, Andrea Nahles, appartiene all’ala sinistra del partito socialdemocratico tedesco, la SPD, a conferma del fatto che il riformismo è da un secolo una frazione del Partito Unico del grande Capitale.
La legge è stata chiamata Tarifeinheit, vale a dire “unità contrattuale”, ed è stata riassunta con la formula Ein Betrieb, ein Tarifvertrag, una impresa, un contratto: prevede che nel luogo di lavoro viga per tutti i lavoratori il contratto stipulato dal sindacato con il maggior numero di iscritti.
La legge non vieta esplicitamente la proclamazione di scioperi da parte dei sindacati minoritari. Tuttavia, non solo la loro azione verrà indebolita dall’impossibilità che essa si concretizzi in un accordo collettivo, ma, oltre a ciò, leggiamo da “Diritto sindacale europeo comparato” – pubblicato a gennaio dall’anno incorso – che: «Secondo il consolidato orientamento della Corte Federale tedesca, l’azione industriale (cioè lo sciopero; ndr) è esclusivamente complementare alla contrattazione collettiva. In altri termini, il conflitto collettivo è consentito solo se il suo obiettivo è la stipulazione di un contratto collettivo. L’importante implicazione di questa interrelazione tra contrattazione collettiva e conflitto collettivo è la seguente: il conflitto collettivo può essere legalmente posto in essere solo dalle parti legittimate a concludere un contratto collettivo. Dalla parte dei lavoratori ciò significa che uno sciopero può essere proclamato solo da un sindacato. La conseguenza è che scioperi proclamati da gruppi di lavoratori che non sono sostenuti dal sindacato – i cosiddetti scioperi spontanei o a gatto selvaggio – sono illegali». E, aggiungiamo noi, anche gli scioperi generali di tutti i lavoratori, nonché quelli politici, ad esempio contro la guerra.
Quindi, in quello che la sinistra borghese nostrana propina come un modello di capitalismo “buono”, sono illegali sia lo sciopero spontaneo – a differenza che in Italia, dove ancora non è necessaria la famosa “copertura sindacale” – sia lo sciopero generale, e, dopo l’approvazione della nuova legge il 22 maggio, anche lo sciopero proclamato da un sindacato minoritario.
È stato applicato per legge ciò che in Italia è stato concordato fra le parti, l’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014. In piena democrazia, lo sciopero, quello vero – considerato che i sindacati di regime organizzano solo scioperi privi d’ogni efficacia – è ormai di fatto illegale.
In Turchia - Tutela statale sui sindacati “maggiormente rappresentativi”
Nell’ultimo ciclo breve di accumulazione – tra il 2001 e il 2008 – il capitalismo turco ha avuto, in controtendenza col quadro economico europeo di debole crescita, un forte incremento della produzione, spesso con numeri a due cifre.
La crisi internazionale del 2008 ha però colpito duramente anche questo capitalismo nazionale, facendo crollare la sua produzione industriale, fra metà 2008 e fine 2009. Ne è seguita una rapida ripresa, di nuovo superiore a quella stentata dei paesi europei, tutti ad oggi con livelli produttivi ancora al di sotto di quelli pre-crisi.
Ma i ritmi dell’accumulazione del capitale non sono più tornati ai livelli precedenti il 2008: dopo il tipico balzo in avanti post-crisi, nel 2010-2011, la crescita si è assestata a livelli più modesti, restando al di sotto del 5% nei tre anni successivi, dal 2012 al 2014. L’indebolimento è confermato nell’anno in corso, con un calo del 2,1% a gennaio e crescita modesta fino a maggio.
In questi ultimi anni, la classe operaia turca ha imbastito alcuni importanti scioperi. A fine gennaio la DISK (la Confederazione dei Sindacati Progressisti) ha mobilitato i metalmeccanici per miglioramenti salariali, in particolare per i lavoratori peggio pagati. Hanno scioperato oltre ventimila operai. Dopo pochi giorni, visto il propagarsi della lotta fra le fabbriche, lo sciopero è stato dichiarato illegale con un decreto governativo firmato dal presidente Erdogan, perché ritenuto “una minaccia per la sicurezza nazionale”. La legge 6356 – Legge sui Sindacati e gli Accordi Collettivi di Lavoro – afferma infatti che «uno sciopero o una serrata possono essere sospesi per un periodo di 60 giorni dal Consiglio dei Ministri con un decreto, nel caso in cui ci sia pregiudizio per la salute pubblica o per la sicurezza nazionale».
Nel 2014 con la stessa legge il governo vietò lo sciopero proclamato dal sindacato Kristal-Is per i 6.000 lavoratori dei dieci stabilimenti della Sisecam, il più grande produttore di vetro in Turchia.
I metalmeccanici, come i lavoratori del vetro, non hanno avuto la forza di continuare la mobilitazione. La DISK, invece di organizzare e appellarsi all’estensione della lotta, o di accettare la necessità di subire oggi il provvedimento preparandosi ad opporvisi in futuro con la lotta, è ricorsa ai tribunali dello Stato borghese, chiedendo l’annullamento della legge. Questo nonostante la magistratura, l’anno precedente, avesse confermato e appoggiato la decisione del governo contro i lavoratori del vetro.
A maggio un altro sciopero ha squassato l’industria automobilistica locale che vede operare Renault, Fiat, Ford, Toyota, Honda e Hyundai-Kia. Nel 2014 sono state prodotte in Turchia il doppio delle automobili costruite in Italia, circa 1,2 milioni, di cui l’80% destinate all’esportazione.
La lotta è iniziata dopo che il sindacato Türk Metal – il maggiore del settore – ha concluso un accordo in una fabbrica per un aumento contrattuale, senza coinvolgere gli altri stabilimenti. Il sindacato si è guardato bene dal diffondere la notizia, così come la stampa borghese, che però è presto trapelata col passaparola. Il 14 maggio sono così scesi in sciopero 2.500 operai operai della fabbrica Oyak-Renault di Bursa, rivendicando un analogo aumento. I giorni seguenti si sono uniti allo sciopero gli operai della Fiat Tofaş, della Ford e di varie fabbriche di componentistica.
La Oyak-Renault di Bursa è la più grande fabbrica Renault al di fuori dell’Europa occidentale ed è controllata al 51% dalla casa automobilistica francese e per il restante 49% dall’Oyak, il fondo pensioni delle forze armate turche. La Tofaş invece costruisce auto su licenza Fiat dal 1971 ed è per il 38% di proprietà della Fiat Chrysler Automobiles. Dalle due fabbriche esce quasi il 40 per cento della produzione automobilistica turca.
La Türk Metal – che fa parte della maggior confederazione sindacale di regime del paese, la Türk-İş – ha osteggiato lo sciopero, giungendo a definirlo illegale, invocando quindi, di fatto, un nuovo intervento governativo per fermarlo.
In Turchia, come anche in Germania, solo il sindacato “maggiormente rappresentativo” può organizzare uno sciopero.
Si stima che circa ottomila operai abbiano stracciato la tessera di questo sindacato. È stata creata un’organizzazione chiamata Solidarietà dei Lavoratori Metalmeccanici, trasversale agli stabilimenti. Le rivendicazioni dei lavoratori sono state: “uguale salario per uguale lavoro”, “forti aumenti salariali” e “riconoscimento della rappresentanza diretta di comitati dei lavoratori al posto del sindacato Türk Metal”.
La
barriera linguistica e la cappa di piombo del locale regime borghese
e dei suoi sindacati non ci hanno permesso di capire quale sia stato
l’esito di questo moto di lotta spontaneo di una parte della classe
operaia turca. Ma al di là del suo esito contingente, essa ha
dato
importanti conferme:
– i
lavoratori, quando scendono in battaglia fuori dal controllo dei
sindacati di regime, istintivamente superano le divisioni aziendali,
uscendo dai confini della fabbrica, entro i quali mai bisogna
richiudere la lotta;
– la
natura di organi al servizio del regime capitalista dei maggiori
sindacati è comune ai paesi industrializzati di tutto il mondo;
– sempre
più, in questi paesi, per lottare i lavoratori debbono
organizzarsi
fuori e contro questi sindacati, in organismi che sono il primo passo
verso il sindacato di classe;
– il
moderno Stato borghese turco si è distinto per la
crudeltà della
repressione contro la classe operaia (come il massacro del 1°maggio
1977 in Piazza Taksim), oltre che della minoranza curda. Tutto
ciò è
sempre avvenuto col tacito assenso dei regimi borghesi d’occidente
che, quando comoda loro, attingono alla loro falsa coscienza
democratica, coi propri partiti di sinistra, per condannare il
“deficit di democrazia” dello Stato turco. Nel frattempo, contro
i lavoratori, questi regimi, pienamente democratici, si danno leggi
contro la libertà di sciopero e di associazione sindacale del
tutto
analoghi a quelli in vigore in Turchia. Si conferma quindi che la
vera contrapposizione non è fra democrazia e fascismo, da sempre
intercambiabili e che sfumano l’uno nell’altro, ma fra la
dittatura del Capitale, che la classe dominante cerca di mascherare
con la democrazia, e quella della classe lavoratrice sulla classe
capitalista.
Il regime borghese turco garantisce alle grandi aziende dei maggiori capitalismi, europei e mondiali, il massimo sfruttamento della classe operaia locale – ricordiamo i 300 minatori morti a Soma a maggio 2014 – e con questi regimi è in piena sintonia sul piano delle normative contro lo sciopero e l’organizzazione sindacale di classe. Su questo piano, la Turchia è già “in Europa”.
Sono la classe operaia turca e quella dei paesi europei ad essere divise. La patria è la galera politica della classe operaia e l’azienda lo è della lotta sindacale.
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SDA-Roma
Aggressione
Cgil al picchetto di sciopero
Nell’ambito della dura lotta che ha contrapposto dal 22 aprile al 20 maggio i facchini organizzati dal SI Cobas alla SDA Express Courier – società per azioni del gruppo Poste Italiane – in particolare in uno dei tre principali hub (centri logistici) nazionali, quello di Sala Bolognese, la notte fra 18 e 19 maggio è stato organizzato lo sciopero nei due magazzini di Roma. Nel più grande – l’altro hub nazionale insieme a quello di Carpiano (Milano) – la maggior parte dei facchini sono inquadrati nel SI Cobas. In quello più piccolo, chiamato Roma-1, il SI Cobas è invece in minoranza
Davanti a questo i lavoratori si sono concentrati fin dalle quattro del mattino. Alle sette un nutrito gruppo di autisti, con in testa i responsabili delle cooperative e uno della SDA, hanno preso d’assalto il picchetto, armati di manganelli telescopici, caschi e altri arnesi. Gli operai in sciopero non sono rimasti inermi e lo scontro è stato duro, con feriti da ambo i lati, il più grave dei quali, uno scioperante, rischia di perdere un occhio. I crumiri sono riusciti a rompere il picchetto, frapponendosi fra esso e il cancello. Gli scioperanti non si sono però dispersi ed hanno occupato la strada. È subentrata allora la pressione delle forze dell’ordine che dopo un’ora ha costretto i facchini a sgomberare la via. Lo sciopero però è proseguito fino a fine turno, costringendo gli autisti a caricarsi da soli i mezzi.
Non è la prima volta che gli operai in sciopero organizzati dal SI Cobas si trovano a fronteggiare l’attacco di squadre di crumiri. È accaduto recentemente alla Rhiag di Siziano (Pavia), il 26 marzo. In quel caso i crumiri, respinti, erano stati capeggiati da alcuni delegati dell’Ugl. Questa volta la maggior parte di loro erano iscritti alla Cgil, fatto che la Filt Cgil Lazio ha ammesso e giustificato, non smentita da nessuna sua istanza superiore.
In risposta all’aggressione il SI Cobas ha organizzato l’8 giugno una manifestazione nei pressi del magazzino SDA con un corteo ben riuscito, prevalentemente composto da operai, durante il quale abbiamo distribuito il seguente volantino.
Roma, lunedì 8 giugno 2015
Quando i lavoratori lottano per davvero – con veri scioperi, ad oltranza, con picchetti per bloccare merci e crumiri, unendosi al di sopra delle aziende – diviene immediatamente chiaro chi sono i loro nemici e i loro falsi amici.
I lavoratori delle cooperative della logistica, organizzati dal SI Cobas, hanno sperimentato sulla loro pelle questa verità: in cinque anni di lotta hanno fronteggiato le ritorsioni degli industriali e la repressione del loro Stato coi licenziamenti, i pestaggi delle forze dell’ordine, degli scagnozzi padronali, gli arresti, i processi, persino i fogli di via ai militanti e ai dirigenti del sindacato. Ciò nonostante il movimento di lotta operaia, grazie alle generose lotte dei lavoratori, si è rafforzato incessantemente.
I lavoratori hanno dovuto combattere anche contro un nemico più insidioso: i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl). Questi falsi sindacati sono gli agenti del padronato nelle file della classe operaia: utilizzano ogni mezzo per spezzare la lotta, organizzando il crumiraggio, facendo leva sulle false divisioni fra i lavoratori.
Alla Rhiag di Siziano, a fine marzo, i capetti dell’Ugl hanno guidato un assalto al picchetto degli operai in sciopero. Alla SDA di Roma gli assalitori erano invece iscritti della Filt Cgil Lazio, che con un’infame rivendicazione ha vergognosamente difeso e giustificato la loro vile azione.
Ciò dimostra da che parte stanno queste false organizzazioni sindacali. Ma è prova anche della loro debolezza, di fronte al movimento operaio nel settore logistico ed al suo sindacato, in grande crescita.
La Filt Cgil ha accusato il SI Cobas, con la lotta iniziata il 22 aprile e conclusasi, per il momento, il 20 maggio, di mettere a repentaglio il posto di lavoro dei dipendenti diretti SDA, provocando perdite pesanti all’azienda. Invece di approfittare della lotta dei facchini per far scendere in sciopero gli altri lavoratori del gruppo e ottenere miglioramenti per tutti, la Cgil ha contrapposto i lavoratori in condizioni relativamente migliori a quelli peggio pagati ed in lotta.
Non solo. SDA è di proprietà di Poste Italiane che sta per condurre un attacco ai suoi dipendenti attraverso un piano di ristrutturazione. Un vero sindacato di classe avrebbe cercato di unire alla lotta dei facchini non solo gli autisti delle cooperative e i dipendenti diretti di SDA, ma anche i postali. L’azione del SI Cobas è andata proprio in questa direzione, dando sostegno a Bologna allo sciopero regionale dei postali proclamato dalla Slc-Cgil. A Roma la risposta della FILT Cgil è stata la difesa di quei suoi iscritti che non hanno esitato ad assalire con bastoni i lavoratori in sciopero.
Il silenzio della Cgil confederale, locale e nazionale, come di tutte le sue strutture territoriali di categoria, dalle quali non si è levata una sola voce di condanna, conferma l’approvazione di questo sindacato all’azione di copertura della Filt Cgil Lazio dei suoi iscritti picchiatori. Questo è un ennesimo elemento, di indubbia gravità, che deve insegnare a quei pochi, della corrente minoritaria della Cgil, che hanno dato la loro solidarietà agli scioperanti della SDA di Roma, che la Cgil è irreversibilmente un sindacato di regime e che il sindacato di classe non potrà rinascere che fuori e contro di essa.
Per i lavoratori la strada è quella imboccata dal SI Cobas il quale ha avuto il merito di unire nella lotta i lavoratori a prescindere dalle differenze di razza, nazione e di religione, favorendo l’unità e la solidarietà fra i lavoratori: lo sciopero è il solo mezzo per difendersi; unire le lotte al di sopra delle divisioni di reparto, di azienda, di categoria; partecipare agli scioperi a prescindere dal sindacato che li proclama, sia esso anche la Cgil, perché l’unità dei lavoratori è la migliore arma contro il sindacalismo di regime. Va inoltre intransigentemente rifiutato ogni patto col padronato che leghi il riconoscimento del sindacato alla limitazione della libertà di sciopero, come hanno invece scelleratamente fatto la Confederazione Cobas, l’Adl Cobas e, da ultima, l’Usb.
Gli autisti SDA che oggi hanno accettato le divisioni fomentate dall’azienda e dalla Cgil, domani – come per altro già fatto, ad esempio, dagli autisti GLS di Roma – si uniranno alla loro classe in lotta, organizzata in un vero sindacato di classe, che inquadri i proletari al di sopra d’ogni divisione aziendale, di categoria, di razza, nazionalità, religione e di opinione politica.
Questa organizzazione di lotta, per i bisogni immediati, economici, della classe lavoratrice è la condizione migliore e necessaria per la vittoria sul piano politico, per l’abbattimento del regime capitalista, che necessità invece del Partito Comunista, rivoluzionario e internazionalista.
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Il petrolio,
i monopoli, l’imperialismo
(Continua dal numero scorso)
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