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Per la
solidarietà
internazionale fra gli sfruttati di tutte le razze
e paesi
Per un’unica
piattaforma di rivendicazioni difensive
contro il fronte comune
dei capitalisti e di tutti i loro Stati
Per un vero
Sindacato di Classe che organizzi la lotta
di tutti i proletari
Per
l’affermarsi del programma e del partito
del comunismo
internazionalista e rivoluzionario
Che una massa di proletari e semi-proletari fugga da miseria, disoccupazione, guerre non è un fatto eccezionale ma l’ennesima conferma della natura reale, di sempre, del vigente sistema basato sul profitto.
Il Capitalismo, come ha ormai compiutamente affermato il mercato mondiale delle merci e dei capitali, così non può evitare quello della merce forza lavoro. Che moltitudini di uomini in cerca di un salario scavalchino i confini Nord/Sud, Est/Ovest, degli Stati e delle nazioni, per quanto doloroso, è un fatto progressivo, la dimostrazione nei fatti del carattere internazionale della classe operaia, un’unica classe mondiale di sfruttati.
I proletari non hanno patria. Il capitalismo ha fatto da sempre del proletariato di tutti i continenti una classe di emigranti. Strappati ad una patria che non è più loro, nella quale diseredati, salariati o piccolo-produttori, non avevano più nulla da perdere, completano la loro perdita in occidente, nella condizione di moderno proletario, salariato e nullatenente, che ha però un mondo da guadagnare dalla distruzione del più moderno, concentrato e putrescente capitalismo. La storia, e la rivoluzione, viaggiano spesso a piedi.
Le guerre in corso – in cui ogni Stato ed alleanza imperialistica cerca di guadagnare posizioni in vista del terzo macello mondiale che tutti stanno preparando – accelerano e rendono incontenibile questa epica emigrazione.
In occidente la cosiddetta opinione pubblica è abilmente manipolata – drogata e addormentata com’è dalla società del capitale – per suscitare turbamenti ed eccitazioni, fra l’umanitarismo generico, laico o religioso, da una parte, ed il razzismo ed il nazionalismo dall’altra: una destra ed una sinistra borghesi ugualmente nemiche e timorose del rinascere di una vera, organizzata e fattiva solidarietà di classe.
La mondiale crisi economica del capitalismo, che ha origine e focolaio nei paesi “ricchi”, è una irreversibile crisi di sovrapproduzione, ed è destinata ad aggravarsi. Il capitalismo è saturo di merci e capitali, e non esiste politica borghese, sia liberista o statalista, che possa rimediare a questo fatto ineluttabile.
Ma il capitalismo, sebbene in crisi, continua a produrre masse spropositate di merci ed ha sempre più bisogno di braccia. Solo la forza lavoro produce profitto. L’unica ricchezza del capitale è la disponibilità di proletari da ingaggiare. Per questo la classe padronale è ben interessata a rinfoltire l’esercito industriale di riserva con proletari immigrati.
Dipenderà dai rapporti di forza fra le classi se i borghesi, per mantenere il loro regime economico e i loro meschini privilegi, riusciranno ad aumentare lo sfruttamento del proletariato, ad aumentare gli orari, ad abbassare i salari, ad aumentare l’intensità del lavoro. Ciò che indebolisce la classe operaia non è la “concorrenza” dei fratelli di classe immigrati ma la sottomissione a falsi partiti e sindacati operai, in realtà venduti ai borghesi, perché i salari sono regolati solo dalla risoluta lotta fra le classi, ed il numero è un fattore di forza, non di debolezza.
Per questo la borghesia aizza, con gli innumerevoli megafoni del regime, i proletari autoctoni contro gli stranieri. Il razzismo non è un “pregiudizio”, da cui la presente società possa guarire, ma un’arma dei padroni per dividere i lavoratori, esattamente come il nazionalismo. Combattere il razzismo in nome di un generico “umanitarismo” è impotente e dannoso in quanto ribadisce la divisione tra sfruttati e sfruttatori, che è la sua base materiale.
L’unica vera lotta contro il razzismo è la LOTTA DI CLASSE per la difesa del salario, contro i licenziamenti, contro la voluta opposizione fra vecchi operai “garantiti” e giovani privi di qualsiasi protezione, contro il caporalato nei campi e nelle fabbriche, contro l’utilizzo delle cooperative per coprire lo sfruttamento, per la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario.
Solo la lotta di classe contro la “razza” borghese unifica i lavoratori al di sopra delle etnie, delle nazionalità, delle religioni, li fa sentire fratelli e inevitabilmente li indirizza contro il capitalismo e verso il suo superamento.
Solo il comunismo, vittorioso in tutti i paesi, potrà risolvere il problema della più felice distribuzione degli uomini sulla superficie del pianeta, e dei loro spostamenti, in base non al bisogno o al terrore, ma al loro migliore sviluppo individuale e collettivo.
Proletari di tutti i paesi unitevi!
L’accordo raggiunto a Vienna il 14 luglio 2015 tra l’Iran e le più grandi potenze mondiali (USA, Russia, Cina, Francia, Germania e Regno Unito) è stato presentato dai media come una possibile soluzione di una questione delicata al centro delle relazioni internazionali per dodici anni. Dopo anni di difficili negoziati il risultato è la graduale revoca delle sanzioni delle Nazioni Unite, degli Stati Uniti e dell’Europa contro Teheran. Decise nel 2006 e riguardanti i settori finanziario, energetico e dei trasporti, le sanzioni furono giustificate con il pretesto di impedire all’Iran di proseguire nel programma nucleare a scopi militari.
Ma che cosa è avvenuto veramente?
Nel 1979, con la caduta dello Scià e l’ascesa al potere degli ayatollah sciiti, l’Iran si è sottratto all’influenza degli Stati Uniti. Teheran ha iniziato a perseguire l’ambizione di diventare una potenza regionale, così come l’Iraq, l’Arabia Saudita e la Turchia. L’Iran ha preso apertamente posizioni ostili agli Stati Uniti, definiti il “grande Satana”, e contro Israele, avamposto militare nel cuore del Medio Oriente dell’imperialismo USA; all’URSS era invece riservato l’appellativo di “piccolo Satana”.
Nel 1990, l’Iran sciita ha mantenuto relazioni diplomatiche e commerciali con la Russia e le ex repubbliche sovietiche, in particolare a causa dei loro interessi comuni in Asia Centrale e nel Caucaso, ma si è anche rivolto alla Cina e all’India. La Repubblica Popolare Cinese ha trovato in Iran un mercato per le sue esportazioni e una fonte per il suo crescente fabbisogno energetico; è stata ed è un alleato dell’Iran, a cui fornisce armi e tecnologia nucleare. Nel 2013 la Cina, il protagonista più discreto dei negoziati sul nucleare iraniano che ha portato all’accordo del 14 luglio, è stato il primo partner commerciale dell’Iran, da cui ha importato merci per 30 miliardi di Euro, per l’80% prodotti petroliferi e derivati, rafforzando così la sua posizione strategica nella regione e la sua avanzata geopolitica in Medio Oriente e nel Golfo. Pechino ha lanciato il suo ambizioso e costoso progetto di corridoio mercantile della “via terrestre e marittima della seta”, che prevede di collegare la Cina occidentale all’Europa attraverso il Pakistan, l’Asia centrale e il Medio Oriente.
La diplomazia americana ha voluto presentare gli accordi del 14 luglio come una vittoria, ma potrebbe presto rivelarsi una vittoria di Pirro!
Nel contesto politico dello scontro tra i grandi imperialismi per il controllo della regione e dei mercati mondiali e per esportare i loro capitali, il gigante cinese in alleanza con la Russia e l’Iran cerca di contenere l’espansione geo-strategica degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Asia centrale, che ha uno dei suoi pilastri nell’Islam sunnita. Dunque le sanzioni economiche decise dagli Stati Uniti con l’aiuto dei loro satelliti occidentali volevano fare pressione sull’Iran non tanto per ostacolare il suo programma nucleare, ma per costringerlo a tornare nella loro area di influenza, e contrastare i concorrenti cinesi e russi.
Le sanzioni economiche contro l’Iran adottate dalle Nazioni Unite, dalle grandi potenze imperialiste e dai loro tirapiedi si sono fatte sempre più stringenti nel corso degli anni, ed hanno portato al soffocamento del Paese dal punto di vista finanziario, isolandolo dal resto del mondo occidentale, come era avvenuto durante il boicottaggio del Sud Africa dell’apartheid durante gli anni 1970-1980. Con l’impossibilità di trasferire denaro da e verso l’Iran attraverso il sistema bancario e con l’utilizzo di sanzioni contro le banche, gli Stati Uniti hanno condotto la danza. Dagli accordi di Bretton Woods, nati dalle macerie della seconda guerra mondiale nel 1944, infatti il dollaro statunitense resta la moneta di scambio per i mercati finanziari internazionali, anche se il suo peso è gradualmente in declino, anche per l’azione di alcuni paesi come la Cina che stanno cercando in qualche modo di emanciparsi dal biglietto verde per le loro operazioni commerciali. Ma a tutt’oggi Wall Street rimane il centro finanziario più importante a livello globale, dove la maggior parte delle materie prime agricole ed energetiche sono quotate in dollari e nelle borse degli Stati Uniti.
Alle banche irachene e cinesi che avevano condotto rapporti con banche iraniane è stato vietato l’accesso al settore finanziario negli Stati Uniti, quindi niente crediti, nessuna transazione finanziaria, reso impossibile il commercio, nessuna attività. I grandi compratori di petrolio iraniano – le esportazioni di greggio hanno rappresentato l’80% delle entrate dell’Iran – come Cina, India, Turchia, Sud Africa, Giappone, Taiwan e Corea del Sud, sono stati costretti a fare a meno delle loro forniture iraniane. Nel 2012, le esportazioni di Teheran sono scese a 700.000 barili al giorno dai 2,8 milioni dell’autunno 2011, quando l’Iran era il quarto maggiore esportatore.
Queste sanzioni hanno ovviamente causato una situazione economica disastrosa in Iran. Il rial si è fortemente svalutato nei confronti del dollaro e questo ha avuto conseguenze gravi su un paese che importa la maggior parte del suo fabbisogno alimentare, provocando un’impennata dei prezzi al consumo e il conseguente aggravamento delle tensioni sociali.
L’Iran ha risposto alle sanzioni con un grande attivismo in politica estera: ha concesso un credito di 3,6 miliardi al regime siriano alawita di Bashar Al Assad, forze militari iraniane sono intervenute in aiuto del regime di Damasco, ha minacciato di bloccare lo stretto di Hormuz, una via strategica per il transito del petrolio dal Medio Oriente e ha confermato il suo sostegno all’organizzazione Hezbollah in Libano, ai partiti sciiti iracheni e ad Hamas (sunnita) nella striscia di Gaza. Oggi, anche dopo quest’accordo, i legami tra Teheran e il regime siriano rimangono molto stretti. L’Iran si propone anzi come intermediario per i negoziati con il regime di Damasco.
Questa graduale revoca delle sanzioni porterà notevoli vantaggi all’economia iraniana. Con gli accordi del 14 luglio, l’embargo sulle armi offensive è mantenuto per 5 anni, ma il programma nucleare iraniano non viene interrotto. L’accordo prevede la possibilità di controlli costanti alle infrastrutture nucleari iraniane, ma la sua corsa verso l’armamento nucleare è solo differita. Nel 2003 l’Iran aveva solo 163 centrifughe per arricchire l’uranio, oggi ne ha quasi 20.000. All’Iran è impedito per almeno 10 anni di dotarsi dell’arma nucleare e deve subire più stringenti controlli alle sue infrastrutture nucleari (anche se tramite complesse procedure), ma il break-out, cioè il tempo necessario per produrre abbastanza uranio arricchito per ottenere armi atomiche, è solo di un anno!, un tempo molto breve per procedere con rappresaglie, cioè, la procedura detta di snap-back, reintrodurre delle sanzioni in caso di violazione constatata, o anche ricorrere ad una risposta militare.
Ma in realtà il vero problema non è quello dell’armamento nucleare iraniano, cui collaborano in una sfacciata concorrenza grandi aziende internazionali, ma è geopolitico e commerciale.
Le prospettive commerciali dell’accordo sono veramente considerevoli. L’Iran tornerà a disporre di 100-140 miliardi di dollari in beni congelati dalle sanzioni. Il paese, con i suoi 78 milioni di abitanti, è il secondo mercato del Medio Oriente; le sue riserve di petrolio e gas sono notevoli e il Paese dovrebbe velocemente tornare alla produzione di petrolio di prima del 2006 con il rischio di un calo dei prezzi mondiali.
L’Iran è forse l’ultimo grande mercato emergente ancora relativamente non invaso dalle grandi imprese internazionali che gli si getteranno addosso come i cercatori d’oro sull’Eldorado: automobili, elettrodomestici, assicurazioni, alimentari, costruzione di infrastrutture (aeroporti, ferrovie, impianti petroliferi), compagnie petrolifere e del gas, ecc...
Dopo il viaggio a Teheran il 23 luglio scorso del ministro dell’economia tedesco, accompagnato da una delegazione di industriali, il 29 luglio è stata la volta del ministro dell’economia francese per preparare il terreno alle imprese nazionali. La Francia è uno dei grandi perdenti dalle sanzioni contro l’Iran, il suo commercio si è ridotto dai 4 miliardi di euro del 2004 ai 500 milioni del 2013. La compagnia petrolifera Total è molto interessata ai giacimenti iraniani, ma la concorrenza sarà agguerrita, anche se Teheran nell’aprile 2014 ha rotto il contratto con la CNPC cinese per uno dei suoi campi petroliferi.
L’intera Unione Europea guarda verso il gas iraniano per ridurre la sua dipendenza dalla Russia. Questa è infatti uno dei principali fornitori di gas naturale all’Europa e l’Iran ha le seconde maggiori riserve di gas al mondo dopo la Russia. Naturalmente Mosca non vede molto di buon occhio questo processo dato che è impegnata da diversi anni in una politica mirante al controllo delle rotte di approvvigionamento del gas, soprattutto da quando il gas naturale sta diventando una risorsa strategica come il petrolio. Vero e proprio Stato nello Stato, la russa Gazprom in questo caso rappresenta gli interessi dello Stato russo.
Altrettanto esplosive le prospettive geopolitiche. Il disgelo tra Usa e Iran preoccupa infatti gravemente Israele e le monarchie sunnite del Golfo, in concorrenza per la supremazia regionale.
D’altra parte se, come sembra, saranno ripristinate le relazioni tra gli Stati Uniti e l’Iran, interrotte dal 1980, la nuova situazione potrebbe anche avviare una cooperazione militare tra i due Paesi sulle crisi in Siria e in Iraq, e commerciale sui mercati globali dell’energia.
Ma il sentiero è stretto. Fino ad ora Iran e Usa hanno solo finto di lavorare insieme contro lo Stato Islamico, il Daesh, l’organizzazione terroristica sunnita nata dal caos iracheno e siriano. Apparsa nel 2004, poco dopo l’intervento degli Stati Uniti in Iraq, è ormai diventata una organizzazione militare di una certa rilevanza e occupa vaste aree della Siria e dell’Iraq ove ha dimostrato una buona capacità organizzativa anche dal punto di vista amministrativo.
Le sue ingenti risorse materiali e finanziarie non si spiegano solo con la vendita del petrolio dei pozzi caduti nelle sue mani né con il ricavato della vendita di oggetti d’arte fatti passare in Occidente tramite reti mafiose. Potenze regionali in competizione tra di loro, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo come anche la Turchia, sono certamente coinvolte nell’attività di questa organizzazione e l’hanno sovvenzionata e protetta cercando di sfruttarne l’attività per i propri fini.
Inoltre dopo la presa di Mossul e l’occupazione della Banca Centrale irachena nella città, nel giugno 2014, lo S.I. è venuto in possesso di 425 milioni di dollari diventando il movimento terrorista più ricco al mondo (le riserve di Hamas erano infatti stimate a 70 milioni nel 2011, quelle delle FARC tra gli 80 e i 350, quelle dei talebani tra i 70 e i 400). Inoltre questa organizzazione tramite le sue vittorie militari è entrata in possesso degli arsenali degli oppositori di Bashar Al Assad e di quelli ben più consistenti dell’esercito iracheno in rotta.
Per quanto riguarda la Turchia, la sua difficile situazione economica l’ha portata a ignorare il crescente potere dell’Iran e a cercare di riconciliarsi con Washington. Ankara ha quindi concordato con Washington di combattere insieme contro lo S.I., verso il quale Erdogan si era mostrato molto di più che accomodante, soprattutto durante i combattimenti tra i miliziani dello S.I. e i curdi in Iraq e in Siria. In cambio di questa svolta di Ankara gli Stati Uniti hanno concesso ad Erdoğan di attaccare con l’aviazione le basi del gruppo curdo del PKK nella Turchia orientale e nel nord del Kurdistan iracheno, dove i guerriglieri curdi hanno trovato rifugio, una azione che dovrebbe servire a contenere le ambizioni autonomiste di tutti i gruppi curdi.
La partita a scacchi tra le grandi potenze imperialiste conosce dunque una nuova fase di accelerazione.
La 4ª conferenza internazionale sulla sicurezza internazionale il 16 aprile scorso ha riunito a Mosca 70 paesi, erano presenti il ministro della difesa cinese, quello iraniano e rappresentanti di India, Sud Africa, Bielorussia, Kazakistan, Vietnam; per i paesi della NATO solo Grecia e Francia. Il tema è stato quello di organizzare un’azione congiunta tra la Russia, la Cina, l’India e l’Iran per cercare di fermare l’espansionismo militare della Nato. Il ministro della difesa russo ha ricordato che le possibilità di conflitto globale sono in aumento proprio a causa della mancanza da parte degli Stati Uniti e della NATO della preoccupazione per la sicurezza degli altri paesi.
I ministri russo e kazako hanno annunciato di aver messo in attuazione un sistema comune di difesa aerea contrapposto allo scudo antimissilistico della NATO dando avvio ad un progetto che in futuro potrebbe coinvolgere anche altri Paesi. Il ministro della difesa iraniano, certamente per influenzare le discussioni in corso con i paesi occidentali, ha vigorosamente sollecitato la Cina, l’India e la Russia a unirsi per contrastare l’espansione della NATO verso Est. Il ministro russo ha dichiarato al ministro degli esteri cinese che la collaborazione militare tra Mosca e Pechino è la sua “priorità assoluta”.
Questi Paesi dunque hanno dimostrato di voler sfidare apertamente la posizione degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Europa orientale. E il famoso geo-stratega e consigliere per la sicurezza dei presidenti degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski ha avvertito l’élite americana del formarsi di una coalizione eurasiatica che “potrebbe cercare di sfidare la supremazia dell’America” tramite una coalizione cino-russo-iraniana.
Ricordiamo che Brzezinski, ardente difensore della espansione della NATO, specialista sul blocco sovietico fin dal 1950, è stato uno dei fondatori della Commissione Trilaterale, composta da leader politici statunitensi, europei e giapponesi in funzione anti URSS. È anche uno dei teorici dell’”arco di crisi” applicato in Afghanistan e in Libano, e dell’uso di gruppi terroristici per contrastare gli imperialismi concorrenti. Nel 1997, dopo l’esplosione dell’URSS, nel libro “La Grande Scacchiera” ha delineato la strategia per evitare che uno Stato possa diventare egemone a livello regionale e dove indica come obbiettivo lo smantellamento di ogni regime che possa opporsi all’azione degli Stati Uniti nel “rimodellare” importanti aree considerate strategiche. Questa politica, definita come “instabilità costruttiva” o “caos creativo” dai neoconservatori americani, si basa su tre principi: mantenere e gestire conflitti a bassa intensità; promuovere la frammentazione politica e territoriale; dare appoggio alle minoranze etniche o religiose. E il Medio Oriente di questi ultimi anni è il triste esempio di cosa questa politica possa scatenare!
Gli strateghi cinesi attualmente pensano che l’opposizione alla coalizione trilaterale tra Stati Uniti, Europa e Giappone, possa venire, per adesso, da una triplice alleanza tra Cina Russia ed Iran. Il ministro della difesa cinese Wanqan ha detto alla conferenza che è sempre più necessario un ordine mondiale “più giusto”. Un ordine mondiale “giusto” significa, nel loro linguaggio, la ricerca di un nuovo equilibrio nella spartizione dei mercati e delle risorse a livello mondiale, corrispondente alle forze economiche di ogni superpotenza, dato che la Cina ormai tallona da vicino il gigante statunitense quanto a peso economico. La crisi di sovrapproduzione che colpisce inesorabilmente le grandi potenze capitalistiche rende sempre più aspra la gara per piazzare le proprie merci ed esportare i capitali.
Infatti Washington ha eretto una nuova cortina di ferro intorno alla Cina, all’Iran e alla Russia e i loro alleati, attraverso l’infrastruttura missilistica degli Stati Uniti e della NATO. Per contro, i sistemi di difesa aerea russi sono stati dispiegati in tutta l’Eurasia, dall’Armenia alla Bielorussia alla penisola della Kamchatka. E il 13 aprile 2015 un decreto di Putin ha annullato il divieto di vendere i missili anti-aerei S-300, destinati all’Iran fin dal 2007, eliminando in tal modo unilateralmente le sanzioni contro l’Iran. Ovviamente gli accordi del 14 luglio 2015 rendono la situazione più complicata per la Russia, ma il conflitto inter-imperialista e la minaccia di una terza guerra mondiale sono reali.
Ogni guerra mondiale ha avuto tra i suoi scopi principali una nuova ripartizione dei mercati mondiali tra le grandi potenze. «Non ci sarà pace in Medio Oriente o altrove fino a quando il capitalismo regna sovrano in tutto il mondo», così titolavamo sul nostro organo di partito Il Programma Comunista n.11 del 1967.
Solo il proletariato internazionale, inquadrato nelle sue organizzazioni classiste di difesa economica, seguendo le direttive del Partito Comunista Internazionale, potrà evitare il disastro e il caos provocato dalle lotte inter-imperialiste e abbattere l’intero sistema basato sulle leggi del capitale.
Un testo del
partito ai lavoratori americani
Unità di
lotta della classe operaia
I governi di tutte le Americhe, da Washington a Buenos Aires, così come in tutti i continenti, sollevano le bandiere del patriottismo e mobilitano i lavoratori in difesa della patria.
In alcuni casi si tratta di dispute territoriali fra Stati borghesi, dietro i quali si nasconde la lotta fra gli interessi delle lobby capitaliste nazionali e delle multinazionali, o per l’accesso alle materie prime, o per il controllo di teatri strategici per le operazioni militari, o di corridoi per il transito delle merci.
In altre occasioni gli slogan patriottici si levano quando è minacciato il buon funzionamento dell’economia nazionale, il suo tasso di profitto e le rendite, sempre parte del plusvalore ottenuto dallo sfruttamento dei lavoratori salariati.
Questi ultimi, però, non trarranno alcun beneficio né da eventuali nuovi territori “irredenti” al paese né del buon andamento dell’economia nazionale. Sempre la lotta per la difesa della patria va solo a vantaggio delle imprese capitalistiche.
I lavoratori non otterranno miglioramenti dalle dispute fra Venezuela e Guyana o fra Venezuela e Colombia. Tanto meno migliorerà la condizione dei lavoratori boliviani con il recupero dello sbocco al mare nel Corridoio di Atacama, oggi inglobato nel Cile. Ugualmente non ci sarà alcun cambiamento nello sfruttamento dei lavoratori qualora l’Argentina recuperasse la sovranità nazionale sulle isole Malvinas.
E così è anche negli infiniti casi di dispute territoriali in tutto il mondo. Per il proletariato non fa differenza se il controllo e lo sfruttamento delle materie prime, del petrolio o del gas, del rame o del ferro, ecc., sia degli Stati nazionali borghesi o concesso a consorzi imperialisti. In ogni caso il capitalismo ricerca solo ed esclusivamente il perseguimento del massimo profitto, a cominciare dallo sfruttamento della forza lavoro.
I salariati, come sono espropriati della ricchezza che è prodotta dal proprio lavoro impiegato all’interno dei confini del loro paese, lo saranno ugualmente fossero occupati in territori annessi o riappropriati da parte del loro Stato nazionale borghese.
Anche la proprietà della terra acquisita passerà, tramite lo Stato nazionale, alla classe dei proprietari fondiari.
Per contro, i governi borghesi, mentre sbraitano sulla difesa della patria, nello stesso tempo firmano accordi con le multinazionali per fare affari, passando sopra quella “sovranità nazionale” che dicono di difendere.
I lavoratori in tutto il mondo devono ignorare gli appelli dei borghesi, dei piccolo borghesi, dei loro politicanti e sindacalisti, ad allinearsi in difesa della patria e dell’economia nazionale perché questo significa solo difendere gli interessi e gli affari dei capitalisti.
Nemmeno ci può essere una “patria socialista”. Tutti i ciarlatani di ieri e di oggi che si appellano ad una simile “patria” di fatto vi nascondono dietro nient’altro che il nazionalismo borghese e la continuità del capitale, il tutto sotto un travestimento sinistroide ed opportunista al fine di mantenere i lavoratori alla coda della borghesia, ingannandoli con la menzogna di un falso socialismo o di un avviamento verso di esso.
La classe operaia non ha niente da aspettarsi dall’unità nazionale fra proletari e borghesi, fra sfruttati e sfruttatori. Questa strada non conduce né alla rivoluzione né alla rottura con il capitalismo. Questa strada va solo verso il supersfruttamento della classe operaia.
Mentre la borghesia, i politici e i sindacalisti che le reggono il gioco chiamano i lavoratori a “denunciare gli speculatori” e a battersi contro l’aumento dei prezzi dei beni e dei servizi di prima necessità, il movimento operaio classista, unito e organizzato dalla base, deve alzare la bandiera internazionale della lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro, per l’aumento dei salari, per la riduzione della giornata lavorativa, per il salario ai disoccupati, per la riduzione dell’età pensionabile, contro l’allungamento della giornata di lavoro, gli straordinari ecc. E quando i servitori della borghesia alzeranno la voce contro i lavoratori che starebbero attentando all’economia nazionale e alla patria, la risposta del movimento operaio deve essere: I proletari non hanno patria! Non possiamo e non siamo interessati a difendere ciò che non abbiamo!
Lo sciopero generale sarà espressione dell’unità d’azione della classe operaia, della rottura con i sindacati di regime e della nascita di veri sindacati di classe, dove i lavoratori si possono inquadrare senza discriminazioni di nazionalità, professione, razza, religione o fede politica. Lo sciopero deve coinvolgere i lavoratori delle diverse imprese, uniti dietro ad una unica piattaforma rivendicativa.
Il proletariato è l’unica classe rivoluzionaria, è chiamata a rovesciare il capitalismo per far posto a una società senza sfruttatori e sfruttati, senza confini nazionali, senza merci né lavoro salariato. Con la conquista del potere politico il proletariato instaurerà la sua dittatura, la dittatura del proletariato, del partito comunista internazionale, che potrà mettere in pratica il suo programma, il programma del comunismo.
L’appello
dei comunisti rivoluzionari è all’unità di azione nelle
lotte
rivendicative dei lavoratori a livello locale, nazionale e
internazionale, su questi principi:
1. Rifiuto
delle guerre imperialiste, senza allinearsi con nessuno degli Stati
in lotta, rivendicando il disfattismo rivoluzionario e lo scontro con
il governo e il padronato in ogni paese.
2. Rifiuto
degli appelli alla difesa della patria e a schierarsi nelle dispute
territoriali fra Stati, che giudica riflesso dei conflitti
inter-borghesi per il controllo delle materie prime e delle quote di
mercato.
3. Contro la
repressione e l’intimidazione governativa delle lotte rivendicative
dei salariati con l’argomento che le proteste operaie farebbero
parte di supposte cospirazioni “antinazionali”, “imperialiste”
o “terroriste”.
4.
Riprendere lo sciopero e la mobilitazione come forme principali di
lotta, senza limiti, senza servizi minimi, coinvolgendo lavoratori
dei diversi settori e rami di attività. Organizzare casse di
sciopero per sostenere la propaganda e soddisfare le necessità
che
si presentano al movimento di lotta.
Unità di
azione contro lo sfruttamento capitalista in tutto il mondo!
PAGINA 2
Il “quantitative easing” ovvero come la creazione di moneta non risolve la crisi del capitale
Nella riunione il relatore ha continuato l’esposizione sulle dinamiche monetarie capitalistiche (inflazione, stagflazione e deflazione) che aveva iniziato nella riunione precedente del gennaio, quando fu presentato un interessante grafico che correlava nel tempo (a far data dall’anno 1872, anche se i dati numericamente consolidati e significativi iniziavano dal 1910) le fasi di inflazione e deflazione con gli eventi politici e militari dello scorso secolo.
Iniziare la relazione con un excursus storico era il modo migliore per mettere a fuoco il tormentato percorso di sviluppo e crolli periodici della forma esteriore del capitalismo, quella finanziaria. Il nostro cardine fondamentale dottrinario ci ha indicato, e la correlazione fasi monetarie-accadimenti politici lo ha poi confermato, che è la fase deflazionaria alla scala generale quella che esprime le condizioni della crisi generale del capitalismo, e ne chiude l’era dello sviluppo; è l’indicatore di una situazione alla quale il proletariato ed il suo partito devono dare la risposta rivoluzionaria.
Per mettere a fuoco il fenomeno “inflazione”, che è strutturalmente legato alla massa di circolante rispetto alle possibilità di vendita e consumo delle merci, furono quindi presentate e discusse una serie di fasi inflattive dell’economia mondiale, specificamente le crisi inflattive seguite alla Prima Guerra mondiale, con l’evidenza della iperinflazione della Repubblica di Weimar e dell’intervento della finanza internazionale, soprattutto di quella americana (piano Dawes), che con un notevole insieme di prestiti ne consentì prima la stabilizzazione poi il superamento. La Germania, con la ripresa del ciclo produttivo, il vero motore della ripresa, dopo le distruzioni di “capitale morto” nella fase bellica, ed il progressivo azzeramento del debito pubblico, sostenuta da una politica economica ultra espansiva condotta dallo Stato, tornò a riproporsi pochi decenni dopo come un imperialismo aggressivo e potente nell’arena mondiale.
In altre parole l’inflazione, anche nella sua forma estrema di “iperinflazione”, si presenta come un fenomeno in certo senso anticipatore di un processo di ripresa capitalistica, quando, preceduta dalla distruzione di merci e capitali (il “bagno rigeneratore” del capitalismo) se interviene “da qualche parte” un flusso di capitali che consenta la rimessa in moto.
Questo concetto generale non si applica ovviamente sempre e comunque a casi di inflazione specifici di condizioni produttive e commerciali, nei quali altri fattori, ivi comprese massicci deficit statali o privati, inducono violente crisi monetarie che ritrovano il loro equilibrio in un dolorosissimo – per gli strati più deboli del corpo sociale – riallineamento del corso dei cambi.
Per mettere a fuoco questo concetto, nel rapporto è stata ripresa in esame la dinamica dell’inflazione e delle sue presunte cause che secondo le teorie economiche correnti dovrebbero essere fondate su motivazioni di natura essenzialmente monetaria, per interventi di politica economica degli Stati al fine di tenere sotto controllo il debito pubblico (abbiamo trattato il caso di spese di guerra) o per situazioni anomale sull’afflusso o deflusso di oro per i pagamenti internazionali – fenomeno tipico della circolazione monetaria del diciannovesimo secolo, a cui cercò di porre rimedio il meccanismo del Gold Standard, definitivamente abbandonato nel 1931 dopo la terribile crisi deflazionistica del 1929.
In generale il processo inflazionistico, sia nei casi di lenta deriva in aumento dei prezzi, sia come violente oscillazioni percentuali “a due cifre”, è correlato apparentemente alla massa di circolante, la cui “abbondanza” diminuisce il “valore” della moneta secondo la legge della domanda e dell’offerta, mentre è in realtà effetto della circolazione del capitale fittizio, come descritto nei cap. 25, 28 e 29 del Terzo Libro de “Il Capitale”.
Nella Seconda Guerra, il capitalismo apprese la lezione; e già nel 1944, prevedendo una nuova fase di ricostruzione post-bellica, con gli accordi di Bretton Woods fu realizzato un meccanismo che prevedeva che i deficit commerciali venissero compensati con flussi di capitali provenienti dai paesi in surplus. Il dollaro fu rigidamente ancorato al valore dell’oro secondo un rapporto fisso, e nominalmente reso “convertibile”.
Una situazione diversa fu quella che si presentò in seguito, dopo le quasi-crisi del ’66 e del ’69-’70; la stagflazione, termine che comparve allora, in particolare dopo la prima crisi petrolifera degli anni ‘73-74. Era un fenomeno nuovo, rispetto alle crisi produttive o finanziarie del passato e di difficile spiegazione per gli economisti borghesi delle diverse scuole. Il capitale fittizio provoca una deriva continua dei prezzi come contropartita dello sviluppo di produzioni e commerci, una sorta di male necessario del capitalismo nella sua forma estrema, mentre la stagflazione si presentava con caduta dei prezzi e riduzione della produzione: la contemporanea presenza di entrambe risultava incomprensibile. Nei fatti un “normale” ciclo recessivo si accompagnava ad un aumento dei prezzi.
In realtà la politica fiscale degli Stati Uniti d’America in chiave espansiva aggravò la crisi del dollaro, fino all’epilogo nel 1971 dell’abbandono, unilateralmente deciso, della parità dollaro-oro, con la svalutazione della divisa che provocò un rialzo significativo dei prezzi del petrolio, la cui influenza determinò tanto una caduta della produzione quanto un aumento dei prezzi – effetto trascinatore dell’aumento del prezzo delle materie prime.
Dal 1976 in poi la principale cura delle autorità monetarie, Banche Centrali in primis, fu quella di contenere il tasso di inflazione ad un livello “accettabile e salutare”, evitando brusche impennate da perdita di controllo.
Così, tra alti e bassi, almeno fino all’inizio del nuovo millennio.
I recenti flussi migratori verso l’Europa
A Genova abbiamo riferito dei primi risultati di una indagine dedicata al fenomeno dei sempre più consistenti flussi di manodopera da paesi dell’Africa e dell’Asia verso l’Europa.
Diversamente dalla tratta degli schiavi africani oggi non c’è bisogno di catene, bastano, su uomini liberi, quelle della necessità economica, e i rischi del commercio e del bestiale viaggio sono tutti a carico del lavoratore.
In questo capitolo iniziale la compagna ha fornito una prima descrizione del fenomeno in termini quantitativi e di modalità.
Un primo paragrafo ha descritto, con l’aiuto di quadri numerici, il numero e la provenienza degli immigrati che riescono a sbarcare in Italia. Il numero degli arrivi via mare si impenna negli ultimi 3 anni sino ad arrivare a 154.075 in Italia nel 2014 contro i 62.692 del 2011, anno delle “Primavere” arabe. I numeri eccezionali del 2014 riflettono la situazione di guerra in Nord Africa e Medio Oriente. I fronti siriano e libico e l’avanzata del fantomatico Stato Islamico contribuiscono all’esodo verso l’Europa.
In Grecia, Italia, Malta e Spagna sono arrivati, vivi, dal 2010 al 2014: 9.654; 70.404; 22.398; 59.419; 195.233. Nei cinque anni in Italia ne sono sbarcati più dei tre quarti. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel solo 2014 nel Mediterraneo sono scomparsi in mare 3.419 uomini; dall’inizio del 2015 a marzo già 470.
Un secondo paragrafo riferiva delle forze e mezzi disposti dagli Stati per il rilevamento delle imbarcazioni ed il soccorso in mare.
Il 14 ottobre 2013, in occasione della morte di 366 migranti vicino all’Isola dei Conigli, il governo di Enrico Letta annunciava l’inizio di una operazione “militare e umanitaria” denominata Mare Nostrum che consisteva in un potenziamento dei controlli utilizzando personale e mezzi navali e aerei della Marina Militare, dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e della Capitaneria di Porto. Lo stanziamento destinato dall’Italia, dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014, è stato di 9,3 milioni di euro al mese e vedeva impegnati 4 elicotteri, 3 velivoli, 7 pattugliatori, 2 corvette, 2 aeromobili a pilotaggio remoto e una nave anfibio.
Quando i nuovi migranti iniziano ad essere troppi, come sempre nella storia, quando eccedono le richieste del Capitale si trova il sistema per contenerli o per rimandarli indietro.
Il 1° novembre 2014 infatti gli Stati hanno deciso di ridimensionare drasticamente le operazioni di salvataggio dando il via all’operazione Triton, finanziata dall’Unione Europea con solo 2,9 milioni di euro al mese, con scopo principale del controllo della frontiera e non del soccorso, con a disposizione solo 1 elicottero, 2 velivoli, 2 pattugliatori.
Un terzo paragrafo ha poi messo in evidenza come la borghesia ben riesca a fare profitti con le sventure e le emergenze, nel caso tramite la costruzione e la gestione delle strutture di “accoglienza” per i migranti e per i richiedenti asilo. In Italia al giro di affari che vi ruota intorno contribuisce una serie di sigle che vanno dai Centri di identificazione ed espulsione, ai Centri di accoglienza per richiedenti asilo, ai Centri di accoglienza, ai Centri di accoglienza straordinaria, al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati.
Nel 2011 il governo Berlusconi approntava un sistema d’accoglienza “straordinario” (accanto a quello “ordinario”) dando mandato alle prefetture di individuare palestre, alberghi, palasport e luoghi di vario genere da adibire a strutture per i migranti arrivati via mare: si è sviluppato un sistema diffuso, con cooperative, associazioni, soggetti vari anche del tutto improvvisati, che ha accolto migranti a fronte di una retta media di 45 euro al giorno. La “emergenza” è stata chiusa, per decreto, il 28 febbraio 2013: i migranti ancora dentro le strutture sono stati allontanati con una buonuscita di 500 euro. Oggi, passati tre anni, per i molteplici nuovi sbarcati è stato approntato un sistema del tutto analogo: alberghi, palestre, palazzetti dello sport e altre strutture palesemente inadeguate.
Ma accanto a questi centri “straordinari”, rimangono e si sviluppano i livelli “ordinari”. Che affare! Per ogni richiedente asilo lo Stato versa in media 35 euro al giorno agli enti gestori dei centri (straordinari e ordinari), con cui provvedere a vitto, alloggio, vestiti, e poco più. Per strutture con grande capienza e pochi servizi si tratta di un business non indifferente: il centro di Mineo, ad esempio, che ha ufficialmente duemila posti ma che arriva a ospitare anche quattromila migranti, frutta a chi lo gestisce tra i 70mila e i 140mila euro al giorno.
Per il capitale la gestione delle emergenze si rivela sempre una gallina dalle uova d’oro. I capitali che ruotano intorno all’accoglienza sono “tra i 700 e gli 800 milioni all’anno”, afferma il prefetto Morcone. Ecco, dunque, come guadagna il Capitale anche sulla pelle dei proletari immigrati, prima di guadagnarci, ed enormemente di più, quando saranno immessi nel mercato del lavoro, in studiata concorrenza ai salariati autoctoni.
Migliaia di uomini costretti a vivere in condizioni disumane, segregati a chilometri di distanza dalle città e senza mezzi di trasporto. Questa massa di diseredati si trova ad infoltire l’enorme esercito di riserva proletario in continuo aumento.
L’italica borghesia nasconde dietro alle manifestazioni ipocrite di pietà cristiana e solidarietà “interculturale”, dal Papa al presidente della Repubblica, le sue rivendicazioni economiche in sede Europea.
Nello stesso tempo, nel gioco delle parti fra mestieranti dell’imbonimento borghese, sulle emozioni e timori suscitati nei confronti dello straniero trovano terreno fertile da un lato i generici “umanitari” dall’altro i nazional-populisti i quali, per accaparrarsi consensi e voti, professano la difesa della Patria dall’invasione che minaccerebbe il lavoro, la sicurezza, la casa, la salute, etc., argomenti che fanno presa sulla piccola e media borghesia ma anche su quella parte di proletariato che ha perso la nozione della necessità della difesa di classe. Sentimenti, questi e quelli, che, escludendo la solidarietà di classe, assicurano la divisione tra migranti e autoctoni atta a scongiurare una alleanza di sfruttati contro la borghesia ed il suo Stato.
La questione militare: La guerra di Libia
L’apertura del Canale di Suez aveva riportato nel Mediterraneo le rotte verso l’Oriente, controllate dalla potente marina inglese mediante una collana di basi militari e commerciali che da Gibilterra a Aden erano di appoggio ai suoi ingenti commerci. Lo Stretto o Canale di Sicilia tra Mazara del Vallo e Capo Bon, in Tunisia, con al centro l’isola di Pantelleria era un passaggio strategico, soprattutto se controllato da un’unica potenza militare. L’Inghilterra agì quindi in modo che la Tunisia non divenisse un protettorato italiano e le due sponde del canale fossero occupate da Italia e Francia, non sempre in ottimo accordo.
La diplomazia italiana manovrò per ottenere l’appoggio delle altre potenze europee all’occupazione della Tripolitania e della Cirenaica, sotto dominio ottomano, approfittando della situazione in Turchia dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi nel 1908. Appoggio che fu concesso in senso anti-francese ed anti-tedesco.
Accurati piani militari del 1885 avevano indicato la necessità di una forza di 30.000 uomini per l’occupazione della Tripolitania.
Nel mentre la bilancia commerciale tra la Tripolitania e l’Italia cresceva, soprattutto dopo i cospicui finanziamenti dal 1902 concessi dal Banco di Roma per un’enorme quantità di attività economiche, non tutte realmente proficue e molte delle quali produssero perdite considerevoli nel giro di pochi anni.
Il relatore ha quindi sommariamente esposto la storia del Banco di Roma attingendo dal suo archivio storico. A seguito degli accordi stipulati tra Cavour e Napoleone III durante le guerre di indipendenza, il sistema finanziario e bancario francese manteneva un canale preferenziale con l’Italia. Ma particolarmente a Roma si insediarono importanti banche francesi; se l’esercito francese difendeva il Soglio di Pietro, la finanza francese difendeva il Soldo di Pietro; e questo, e di tutte le altre istituzioni religiose, era cospicuo. Ai vertici delle banche francesi a Roma erano posti membri dell’aristocrazia fondiaria romana, che aveva tratto enormi guadagni dalla speculazione edilizia e sui terreni fabbricabili all’arrivo delle nuove strutture amministrative e del personale della nuova capitale d’Italia. Dal 1870 al 1880 la popolazione crebbe da 202.000 a 305.000 abitanti.
A seguito di forti contrasti tra i vertici francesi e quelli romani della Union Général, la banca che deteneva la parte più consistente del capitale vaticano, la dirigenza romana fondò una nuova banca, il Banco di Roma. Modesto il capitale iniziale ma vi si trasferirono gli enormi fondi del Vaticano. Per altro il Papa mise a capo della nuova banca personale di sua stretta fiducia, tra cui il più attivo e affidabile fu un certo Pacelli, dalla cui famiglia poi uscì un papa.
Sollecitato dal governo italiano, il Banco di Roma aprì numerose filiali in Libia allo scopo di attivare quegli importanti interessi economici la cui difesa avrebbe “costretto” il governo italiano ad intervenire militarmente in Libia. Gli azzardati finanziamenti accordati dal Banco ad imprenditori sia italiani sia libici, generarono fallimenti e malcontento al punto che Pacelli minacciò di cedere le attività finanziarie del Banco a capitali stranieri tra cui quello tedesco, molto interessato alla Libia.
Due furono le cause che dettero una accelerazione all’intervento armato italiano in Libia: la seconda crisi del Marocco quando, a seguito dell’occupazione di Fez da parte dell’esercito francese, la Germania rispose inviando ad Agadir una sua potente nave da guerra; e la minaccia della cessione alla Germania delle attività del Banco.
Il relatore ha elencato la cronologia degli eventi più significativi. Non solo le manovre del capitalismo italiano, ma anche le azioni del proletariato che, con scioperi e occupazioni, si opponeva alla guerra. A Langhirano vi furono quattro morti tra i manifestanti che cercavano di bloccare i treni dei coscritti. Gli scioperi contro la guerra trovarono forti contrasti all’interno del PSI e della CGdL.
A Parlamento chiuso, utilizzando un articolo del codice Albertino che affidava al re particolari prerogative, il 26 settembre 1911 fu dichiarata la guerra, accelerando le operazioni navali prima dell’arrivo del maltempo che avrebbe ostacolato l’occupazione di Tripoli, Bengasi e Derna.
I vertici militari italiani basarono i loro piani su due presupposti errati: che la popolazione avrebbe ben accolto gli italiani per liberarsi dei turchi e che, dopo una incisiva guerra lampo, il governo di Istanbul avrebbe chiesto immediatamente una resa accettando le proposte italiane.
Dopo un iniziale sbandamento le decine di migliaia di truppe irregolari locali si misero a disposizione di quelle ottomane i cui comandanti organizzarono incisivi attacchi alle linee italiane, tra cui quello di Sciara Sciat presso Tripoli, ritirandosi poi nelle oasi dove le truppe italiane, memori della disfatta di Adua, non intendevano avventurarsi. La regia marina bloccava i rifornimenti via mare dalla Turchia e di conseguenza sorse un fiorente contrabbando di materiale bellico con pure l’arrivo via terra di ufficiali turchi.
Nonostante l’occupazione italiana fosse limitata ad alcune e disperse località costiere, il governo italiano dichiarò l’annessione della Libia, rifiutata dalla Turchia e mal accettata dalle altre potenze. La lunga campagna per il controllo delle oasi contro una forte guerriglia richiese due decenni di combattimenti, con continui rinforzi di contingenti e materiale bellico senza giungere mai ad un risultato definitivo e stabile. Per questo la Sublime Porta non accettò mai le mediazioni diplomatiche internazionali, nonostante la Regia Marina nell’aprile 1912 avesse occupato alcune isole dell’Egeo (il Dodecanneso), attenta a non danneggiare gli interessi nella zona delle altre potenze europee tra cui Francia e Russia.
La svolta avvenne quando i paesi della Lega Balcanica, Grecia, Montenegro, Serbia e Bulgaria, visto lo sbandamento dell’esercito ottomano, dichiararono guerra alla Turchia il 18 ottobre 1912 allo scopo di sottrarle i territori europei nei Balcani.
Gli accordi di pace sono ambigui: la Turchia non si dichiara sconfitta, concede solo l’autonomia ai libici ma mantenendo al Sultano la figura califfale, a torto considerata puramente religiosa e simbolica, più il pagamento annuale da parte dell’Italia dei tributi riscossi in Libia. Il Dodecanneso sarà restituito dall’Italia dopo la completa pacificazione dell’area.
È seguita la lettura di una parte di un articolo de “L’Avanguardia” del 1912 sulle responsabilità e l’incapacità della dirigenza italiana delle organizzazioni proletarie alla seria opposizione alla guerra e uno di Lenin tratto da “Imperialismo e socialismo in Italia” del 1915 sul ruolo della avida e corrotta borghesia italiana.
Le conclusioni hanno indicato quella guerra come di rapina imperialista, condotta da un esercito moderno in grande assetto di guerra e con una discreta flotta contro un esercito turco poco motivato e una marineria di molto inferiore. Importante fu l’uso di regolari stazioni di radiotelegrafia campale, i primi trasporti motorizzati, i dirigibili e i primi aeroplani per le ricognizioni sulle basi nemiche.
L’attività del partito in Venezuela
Abbiamo quindi dato lettura dell’esauriente resoconto dell’attività della nostre sezioni in Venezuela.
Dapprima è stato riferito delle frequenti riunioni regionali nelle quali sono state esposte le Tesi sulla guerra imperialista del 1989 e si è fornito ai compagni la rassegna completa dei lavori alle recenti riunioni generali del partito.
Per la stampa in lingua spagnola è stato descritto lo sciopero degli operai agricoli in Messico, a San Quintin ed è stato tradotto il resoconto della riunione generale del 20 e 21 settembre 2014 a Torino. Abbiamo inserito ne El Partito Comunista anche la traduzione del manifesto per il Primo di Maggio, del quale è stata effettuata la diffusione come volantino.
La sezione ha anche redatto e distribuito un volantino-appello ai lavoratori per la lotta classista.
Per quanto riguarda la situazione delle lotte operaie, in Venezuela, nonostante ve ne siano tutti i giorni, ne abbiamo notato un certo declino. Molto hanno influito gli appelli opportunisti alla “difesa della patria” dalla “minaccia imperialista”, che ha sviato l’energia proletaria, come pure la campagna per le elezioni parlamentari.
I sindacati organizzati nella Flec, indipendente dalle confederazioni di regime, si sono riuniti poco quest’anno, distratti da questioni particolari delle singole aziende. Eppure è riuscita una riunione di 25 lavoratori organizzata il Primo Maggio dalla Flec, dove si è trattato di unificare le richieste da presentare ai padroni per garantire la sicurezza personale dei lavoratori durante il loro rientro a casa dai turni notturni, ponendo a base la rivendicazione della riduzione della giornata lavorativa. Alla Flec abbiamo presentato alla discussione anche la questione di come rifiutare che si continui a bruciare la spazzatura nel quartiere operaio di Moron, il che provoca gravi danni alla salute dei lavoratori e delle loro famiglie; si attende che la Flec si riunisca per discuterne.
Nel resto del continente, in Messico si è avuta una estesa lotta dei lavoratori agricoli, che ha mobilitato anche gli insegnanti. In Argentina hanno scioperato i lavoratori del porto di Rosario, sul fiume Paranà. In Colombia 2.000 minatori dell’azienda Cerro Matoso nel municipio di Montelibano hanno scioperato contro l’estensione della giornata, per alcune mansioni, a dodici ore. Anche i minatori in Perù hanno manifestato la loro rabbia e stavano organizzando uno sciopero generale per il 18 di maggio. In Cile sciopero nazionale di circa 2.000 lavoratori delle catene di supermercati. Gli operai edili del Canale di Panama hanno iniziato uno sciopero per aumenti salariali. Sciopero a oltranza per aumenti salariali e la sicurezza sul lavoro nella fabbrica di automobili cinese Chery in Brasile. Lavoratori dell’industria casearia in Uruguay sono scesi in lotta contro i licenziamenti.
Del Primo Maggio si è impossessato il sindacalismo giallo e i sindacati di regime in generale. Questo del 2015 non ha fatto eccezione, trasformato in giornata dimostrativa della sottomissione allo Stato borghese del movimento operaio e sindacale. Moltitudini di lavoratori ai comizi, a Cuba, in Venezuela, in Ecuador ecc, hanno dovuto ascoltare come oratori anche i capi dei governi. Queste adunate del Primo Maggio sono indette sia dai governi borghesi sia dai movimenti della opposizione borghese e piccolo-borghese per catturare le simpatie ed il voto operaio nelle elezioni parlamentari e presidenziali. Le parole di entrambe sono state solo contro o a favore del governo in carica e tutte sventolavano le bandiere borghesi della difesa della patria e della economia nazionale, ignorando la necessarie rivendicazioni operaie.
Anche in America questo è possibile per l’asservimento dei sindacati al regime borghese e per il controllo che lo Stato esercita sia sui sindacati sia sui movimenti e i partiti opportunisti, che sono il principale sostegno politico del capitalismo. È quindi ormai impossibile organizzare la lotta conseguente dei lavoratori per le loro rivendicazioni nel quadro dei sindacati attuali. Nelle centrali e nelle federazioni sindacali non c’è più spazio per la lotta di classe dei salariati, al contrario, la loro azione si concentra nel frenare la lotta, dividerla e sviarla verso obbiettivi e conquiste non proletarie o che non toccano in modo significativo il padronato. Non potrà risorgere la lotta di classe nel quadro degli attuali sindacati.
Ancora sulla storia dell’Irlanda
Il rapporto ha riassunto le valutazioni di Marx ed Engels sulla questione irlandese, prima colonia nel senso moderno del termine.
La questione irlandese, come quella polacca, era di importanza vitale per il movimento operaio internazionale, perché la sua schiavitù era il fondamento dei due grandi pilastri della controrivoluzione europea: la Santa Alleanza sul continente, il cui cuore era la Russia, e l’aristocrazia fondiaria in Inghilterra. La sottomissione dell’Irlanda era stata anche la condizione della restaurazione della monarchia inglese dopo la morte di Cromwell. Lo sfruttamento impietoso dell’Irlanda era la base morale e politica dell’aristocrazia sulla società inglese. Inoltre quel flusso di ricchezze, unito al monopolio industriale britannico, permetteva di corrompere tutta una parte del proletariato inglese, trasformandolo in aristocrazia operaia, che diffondeva nel seno del restante proletariato uno spirito di collaborazione di classe e di sostegno sciovinista all’imperialismo britannico.
L’imperialismo inglese non si manteneva in Irlanda che con la forza delle baionette e con lo stato d’assedio permanente. Qualsiasi ritiro o diminuzione delle forze militari d’occupazione si sarebbe immediatamente trasformato in rivoluzione sociale con l’espropriazione violenta di quella classe che erano i proprietari fondiari inglesi. Qualsiasi insurrezione in Irlanda avrebbe per questo fatto portato un colpo mortale alla reazione in Inghilterra e fatto passare un soffio rivoluzionario sulla grande isola vicina, il solo paese allora dove esistevano le basi economiche sufficienti per il passaggio al socialismo.
Dopo la sconfitta della Comune, il movimento operaio internazionale conobbe un forte rinculo, e la possibilità di una emancipazione dell’Irlanda con la forza delle armi si allontanò di nuovo. La sola speranza, durante tutto l’ultimo quarto del 19° secolo, sembrò essere la politica per l’autonomia (Home Rule) condotta dalla grande borghesia irlandese, della quale una parte era di origine protestante. La situazione cambierà all’inizio del 20° secolo, quando l’Inghilterra aveva perduto il suo monopolio industriale, il suo immenso impero cominciava a screpolarsi e la classe operaia britannica, vedendo le sue condizioni materiali di vita peggiorare, ritornava più combattiva. Nello stesso tempo in Irlanda, sotto l’effetto di un inizio di industrializzazione, un vigoroso proletariato, acquisito alle idee socialiste, appariva, non soltanto sulla scena sociale tramite lotte sindacali coraggiose, ma anche sulla scena politica.
A fianco della corrente socialista e di quella per lo Home Rule, apparve un nuovo movimento repubblicano, che si appoggiava sulla piccola borghesia cittadina e delle campagne.
Dopo la sconfitta del movimento dello Home Rule e dello sfortunato sollevamento prematuro delle forze socialiste nel 1916, il movimento repubblicano, approfittando dell’indebolimento dell’imperialismo britannico alla fine della prima guerra mondiale e del montare del movimento rivoluzionario proletario, imporrà l’indipendenza dell’Irlanda con la forza delle armi. Questo si farà senza accorpare l’Ulster.
La situazione nell’Ulster, prodotto controrivoluzionario dell’imperialismo britannico, fondata su una discriminazione di tutto quello che vi era di origine irlandese, condurrà alla fine degli anni ‘60, a seguito di manifestazioni pacifiche represse nel sangue, ad un doloroso conflitto sociale. Infine l’imperialismo britannico verrà ad un compromesso che chiuderà la questione.
L’attività sindacale del partito
Il rapporto sull’attività sindacale si è concentrato sul nostro intervento al primo congresso del SI Cobas, svoltosi le prime tre giornate di maggio. Rimandiamo alla sua pubblicazione estesa nei due numeri passati del giornale e qui riepiloghiamo solo i punti affrontati.
Siamo dapprima intervenuti al congresso provinciale di Torino, ribadendo la necessità di un’azione determinata e conseguente all’intento, condiviso, di riunire a periodicità fissa il coordinamento provinciale dei delegati, aperto agli iscritti, quale strumento per rinsaldare l’unità di classe e combattere l’aziendalismo.
Abbiamo poi assistito alla seconda giornata del congresso nazionale e siamo intervenuti nella terza, aperta alle organizzazioni politiche e sindacali invitate.
L’intervento
del nostro compagno ha toccato i seguenti punti, dopo aver
riconosciuto, apprezzato ed incoraggiato il molto positivo lavoro
compiuto dal SI Cobas:
– Individuazione
dei suoi punti di forza nella reale disponibilità a dirigere la
lotta di classe, in un atteggiamento teso al superamento
dell’aziendalismo e sul terreno del fronte unico dal basso;
– Rilievo
di alcune criticità nell’indirizzo attuale del SI Cobas:
1) Mancata
chiarezza nella distinzione fra la funzione del sindacato e quella
dei partiti politici, che si manifesta, anche, in una proposta di
fronte unico politico che va a confliggere e danneggia l’attuazione
del fronte unico sindacale.
2) Ambiguità
del rapporto fra il sindacato e movimenti sociali non proletari. Il
sindacato deve mantenere rigorosamente la sua individualità di
classe, sul piano del reclutamento, della organizzazione, delle
rivendicazioni e dell’indirizzo politico. Solo sul piano
dell’azione e delle lotte può accettare la solidarietà di
movimenti esterni alla classe e in quando si sottomettano al piano di
azione della classe operaia.
3) Rapporto
fra sindacato e movimento di lotta per la casa. Il terreno proprio
della lotta operaia è quello per la difesa del salario e degli
orari
di lavoro. Il sindacato non fa sua la richiesta di un reddito
garantito a tutti i membri della società a prescindere dalla
loro
appartenenza di classe, ma si batte per il salario ai lavoratori
licenziati e ai disoccupati involontari. Ugualmente non abbraccia la
causa generica del diritto alla casa. Come non si impegna nella
demagogica lotta al caro-vita, così tende a non far sua la
protesta
contro il caro-affitti, parole che diluiscono ed indeboliscono il
movimento operaio fino a soffocarlo nel popolo. Piuttosto tende a
spostare il movimento verso le sue rivendicazioni proprie, di aumenti
salariali. La questione delle abitazioni può essere impostata
solo
all’interno del movimento operaio, cioè dei suoi organismi di
classe e su sue specifiche rivendicazioni.
(Fine del resoconto)
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Alla Ikea i lavoratori portati a lottare divisi
Uno dei cavalli di battaglia del sindacalismo di regime è sempre stato quello di valorizzare la cosiddetta contrattazione integrativa, ovvero aziendale. Negli anni passati, in tal modo, in alcune grandi aziende, attraverso questi contratti, i lavoratori si sono visti riconosciuti salari e condizioni migliori rispetto al resto della classe lavoratrice. Ma in questo modo è stata accentuata la divisione fra i lavoratori delle grandi aziende e il resto della classe. Inoltre l’interesse a battersi per un buon CCNL è diminuito, mentre è cresciuto quello a mobilitarsi per un buon contratto aziendale: si è quindi favorita la chiusura dei lavoratori nell’orizzonte aziendalista, a discapito di quella classista. Col tempo, la quota di salario percepita attraverso il contratto aziendale è divenuta sempre maggiore, a discapito di quella del CCNL.Con l’avanzare della crisi, però, è proprio attraverso la rimessa in discussione della quota di salario legata alla contrattazione aziendale che passa l’offensiva padronale. I contratti integrativi vengono disdettati e si impongono draconiani tagli del salario.
Se quegli aumenti salariali fossero stati conquistati sul contratto nazionale di lavoro, oggi il padronato si troverebbe nella difficile condizione di imporre tagli salariali dovendo fronteggiare intere categorie. Si vede bene, dunque, come i sindacati di regime gli abbiano facilitato il compito.
Gli esempi sono numerosissimi, dalle aziende di trasporto pubblico, a quelle di nettezza urbana, all’Electrolux... Qui riportiamo quello dell’Ikea.
* * *
A fine maggio Ikea ha comunicato ai sindacati la disdetta unilaterale del contratto integrativo a partire dal 1° settembre. Come risposta Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil hanno proclamato uno sciopero di 16 ore, delle quali 8 da gestire a livello territoriale, a discrezione dei vari punti vendita, e le altre a carattere nazionale. Il 6 giugno l’agitazione territoriale è stata effettuata in oltre la metà dei punti vendita. La partecipazione è stata alta e la determinazione pure. Ciò si spiega con la posta in gioco, non di poco conto: un taglio medio del salario del 20%! Questo attraverso la revisione delle maggiorazioni per il lavoro domenicale e festivo e la trasformazione del premio aziendale, che era una voce fissa nello stipendio, in quota variabile.
Quale sia stato l’atteggiamento dei sindacati di regime fino ad oggi rispetto al problema lo spiega Giuliana Mesina, segretaria nazionale della Filcams Cgil: «Esiste una parte, che ammonta circa al 10% della popolazione aziendale, che ha delle condizioni più favorevoli, lavorano nei negozi più vecchi e hanno accordi migliori rispetto al grosso dei lavoratori, che hanno il 70% di retribuzione [di maggiorazione domenicale e festiva]. Ce ne sono poi alcuni al 50, 45, 40%, quindi il sistema è molto differenziato». Un tempo la maggiorazione era per tutti del 130%.
Questa differenziazione non è avvenuta contro la volontà dei sindacati confederali, Filcams Cgil compresa, ma in accordo con essi. Ikea infatti si è contraddistinta per venticinque anni come un modello relazioni sindacali pacifiche, collaborative, senza conflittualità da parte dei suoi dipendenti.
Leggiamo ora cosa dice l’azienda in merito alla sua proposta di taglio salariale: «La proposta di Ikea è volta a rendere più equi i trattamenti per il lavoro domenicale e festivo che oggi presentano differenze sia da negozio a negozio, che all’interno dello stesso punto vendita (tra vecchi e nuovi assunti). Un esempio: attualmente un collaboratore di Catania deve lavorare 3 domeniche per guadagnare quanto un collega di Corsico».
Quindi, i sindacati confederali hanno privilegiato la “difesa” dei dipendenti con anzianità maggiore a discapito dei nuovi assunti, assecondando la divisione dei lavoratori, favorendo l’offensiva padronale odierna che può far leva sul minor interesse a battersi dei lavoratori peggio pagati in difesa di quelli in condizioni migliori, che sono quelli che più hanno da perdere in questa battaglia.
L’opposto di ciò che deve fare un sindacato di classe: mobilitare i lavoratori in condizioni migliori a difesa di quelli più deboli, perché così difendono anche se stessi dalla concorrenza al ribasso. Nozioni del sindacalismo di classe tanto elementari quanto quotidianamente calpestate da questi sindacati antioperai.
Dopo alcuni incontri che non hanno portato ad alcun risultato è stato indetta una nuova fermata di 8 ore per sabato 11 luglio, per tutti i 6.000 dipendenti dei 21 punti vendita in Italia. Anche questo sciopero è riuscito ma non ha sortito nessun accordo. Così sono state proclamate altre 24 ore di sciopero – 4 giorni – da gestire a livello locale. A fine luglio sono iniziati gli scioperi che in molti casi si sono stati protratti oltre quanto inizialmente stabilito, ad oltranza, come a Genova, Napoli, Padova, Roma.
Per lo più i sindacati confederali hanno indicato di organizzare innocui presidi permanenti davanti ai negozi, e spesso i lavoratori, forse anche perché non abituati a lottare, non hanno ritenuto necessario imbastire azioni più decise. In tal modo chi voleva lavorare non era in alcun modo dissuaso dalla forza e dall’unità degli scioperanti. Se non vi erano le condizioni per operare un picchetto duro, che impedisse l’ingresso dei crumiri, sarebbe stato opportuno schierarsi ugualmente davanti agli ingressi dei negozi. In alcuni casi, invece, sono stati organizzati cortei interni, come a Milano, sortendo un notevole effetto nei confronti dei crumiri e dei capetti.
Altra via per la quale i sindacati confederali hanno indebolito questo bel movimento di lotta è stata la strategia di privilegiare l’azione dei vari negozi ciascun per sé, limitando lo sciopero unitario a pochi casi eccezionali. In tal modo, da un lato si è ottenuto di spompare i lavoratori più combattivi, dall’altro l’azienda non è stata colpita con la forza di uno sciopero a oltranza, contemporaneo di tutti i negozi. Anche ammesso che potesse non riuscire completamente, il che non è scontato, ciò non toglie che, vista la determinazione dei lavoratori dei negozi principali, era questo lo sciopero da mettere in campo, per piegare un gigante internazionale come Ikea.
Per vincere aziende di simili dimensioni sarebbe necessario organizzare scioperi internazionali: chiamare alla lotta i lavoratori Ikea di tutti i paesi d’Europa, oggi in difesa di quelli d’Italia, domani per quelli della Francia, dopodomani per quelli di Spagna... sempre per tutti. I sindacati di regime marciano in senso opposto, chiudendo l’azione a livello locale!
A Genova lo sciopero, durato nove giorni, è stato condotto da una corrente della CGIL che pretende mostrarsi ai lavoratori come più combattiva rispetto al resto di quel sindacato e che si contraddistingue per appellarsi alla necessità di un sindacato europeo. La distanza fra queste parole e la reale prassi sindacale si misura nella testarda difesa dalla delegata CGIL dell’operato del suo sindacato, a fronte delle critiche mosse dai militanti del SI Cobas di Genova, durante un volantinaggio al presidio, collocato prudentemente dai confederali a una cinquantina di metri dall’ingresso.
Questa condotta di Cgil, Cisl e Uil non è ovviamente peculiare dell’Ikea. L’abbiamo vista applicata fra i tranvieri – nello storico sciopero del dicembre 2002 – dividendoli per città e persino per rimessa nella stessa città; più recentemente in Fincantieri e in Electrolux. Divisioni perseguite coi mezzi più subdoli e meschini. In Fincantieri, Electrolux, Ikea esistono dei coordinamenti nazionali dei sindacati confederali che evidentemente hanno il preciso scopo di impedire ogni reale coordinamento fra i lavoratori!
Ancora divisi i sindacati di base
Prima della fermata estiva i confederali hanno sospeso gli scioperi a seguito della disponibilità all’incontro da parte dell’azienda. In vista di quest’incontro, il 7 settembre si è svolto a Roma il Coordinamento Nazionale della RSU e della RSA. Ai delegati di USB, presenti negli storici negozi milanesi di Carugate e Corsico è stato persino impedito d’entrare.
Questo episodio è stato giustamente denunciato da un comunicato dell’Esecutivo Nazionale Lavoro Privato USB che però non ha fatto menzione della CUB, che si trova nella stessa condizione – visto che nel negozio di Roma Anagnina è il primo sindacato, con 150 iscritti contro 17 dei confederali su 350 lavoratori – ma non vede riconosciuta la sua rappresentanza, nemmeno a livello del singolo negozio.
Questo è un particolare importante perché mostra la mancanza di volontà delle dirigenze dei sindacati di base a svolgere un’azione unitaria per offrire ai lavoratori una valida alternativa al sindacalismo collaborazionista di Cgil, Cisl e Uil.
L’atteggiamento di queste dirigenze, improntate alla competizione fra sigle invece che all’unità d’azione, è stata certamente una delle cause che ha frenato la formazione di un coordinamento nazionale dei sindacati di base, alternativo a quello dei confederali, che accogliesse i gruppi USB dei negozi milanesi (Corsico e Carugate) – e di Sesto Fiorentino, da poco formatosi, il comitato autorganizzato dei lavoratori del negozio di Brescia, costituitosi durante questa lotta in rottura coi confederali, la CUB del negozio di Roma Anagnina e in cui sarebbe necessario includere anche il SI Cobas, che condusse le durissime lotte a novembre 2013 e a maggio 2014 nel magazzino logistico Ikea di Piacenza, il più importante del Sud Europa, fra i lavoratori degli appalti, il cui coinvolgimento darebbe ulteriore forza al movimento di sciopero.
Il tempo, da fine maggio a inizio settembre, non è mancato, e nemmeno la necessaria temperatura di lotta, ma, nonostante la volontà in tal senso di alcuni delegati, non si è avuto alcun risultato apprezzabile. Ancora venerdì 18 settembre, la Flaica CUB ha organizzato uno sciopero all’Ikea di Roma al quale l’USB dell’Ikea di Milano non si è unita.
Questa lotta ha ancora due elementi assai istruttivi da mettere in evidenza. La Flaica CUB di Roma Anagnina ha condotto gli scioperi, anche dopo che i confederali ne hanno deciso la sospensioni, il 18 settembre, pur non avendo riconosciuta la propria rappresentanza sindacale dall’azienda. L’USB, che invece ha avuto suoi delegati eletti nelle RSU di Corsico e Carugate, non ha avuto tale forza. Ciò dimostra come, già oggi, stare dentro le RSU non significhi affatto sviluppare una maggior forza sindacale. Anzi, probabilmente gioca un effetto negativo, perché invischia e ingabbia i delegati dei sindacati di base nelle guerre e nei giochetti fra i delegati dei sindacati di regime e fra questi e le loro strutture territoriali.
Si pensi a cosa accadrà in futuro, quando col rinnovo del CCNL del commercio, verrà applicato il Testo Unico sulla rappresentanza, cui USB ha aderito. In queste RSU i delegati di questo sindacato non potranno più scioperare contro gli accordi a perdere siglati dai confederali.
Questo importante elemento spiega in parte l’inefficienza a impostare un’azione comune da parte di questi sindacati. La dirigenza di USB necessariamente deve già impostare la sua azione, e quella dei delegati, indirizzandola alla competizione elettorale nelle RSU. Ciò inevitabilmente va a divergere con l’azione di questi sindacati di base che non hanno firmato il Testo Unico, come la CUB.
Questo processo si è manifestato con maggiore evidenza fra i ferrovieri. Dopo cinque scioperi comuni fra CAT, CUB e USB, riusciti, che hanno rappresentato un passo in avanti verso la costruzione di un’alternativa sindacale nella categoria, l’annuncio da parte di USB di partecipare alle elezioni RSU dal 24 al 27 novembre, con le regole del Testo Unico sulla Rappresentanza, ha rotto questa alleanza, tant’è che all’ultimo sciopero, domenica 13 settembre, proclamato da CAT e CUB, USB non ha aderito.
Nuove restrizioni del "diritto"
di sciopero in tutti i paesi
Nello scorso numero del giornale abbiamo affrontato la questione dell’attacco alla libertà di sciopero portato a fondo in Italia con il Testo Unico sulla Rappresentanza, in Germania con un’apposita legge, e in Turchia con una già esistente legislazione in materia a cui il governo ha fatto ricorso negli ultimi due anni contro potenti scioperi operai.
Abbiamo spiegato come questa azione politica sia dovuta alla consapevolezza che i regimi borghesi hanno del fatto che la crisi li costringerà a peggiorare senza tregua le condizioni di vita della classe lavoratrice e ciò produrrà inevitabilmente il ritorno dei lavoratori alla lotta. Ciò si sta già verificando, con crescita, sia pur limitate, degli scioperi, ad esempio in Germania ed in Inghilterra.
In Italia, un esempio di questo processo è lo sciopero all’Ikea: in un’azienda modello per 25 anni di pacifiche relazioni sindacali, un taglio medio del salario del 20% ha portato questi lavoratori allo sciopero ad oltranza, fino nove giorni consecutivi.
La lotta di classe non nasce da una visione ideologica della società, che i comunisti propaganderebbero fra i lavoratori, ma è il prodotto materiale delle contraddizioni del capitalismo, studiato dal marxismo in modo scientifico. Le borghesie nazionali perciò si preparano ed erigono nuove mura, rafforzano vecchi bastioni, a difesa del loro regime, contro l’ondata della lotta di classe che sta maturando.
Come questa azione sia un fatto determinato dalle leggi dell’economia capitalista e non il prodotto di una determinata idea politica – che il riformismo chiama neoliberismo – lo conferma che essa è attuata nei più disparati paesi dai governi borghesi d’ogni colore. A scala mondiale, stesse le leggi del capitalismo, stesse le soluzioni dei suoi governi, stesso il necessario indirizzo di lotta per i lavoratori.
Uruguay
Contro la lotta dei lavoratori
della scuola
A seguito di una lotta in corso da mesi dei lavoratori della scuola per un aumento del salario minimo a 30.000 pesos (1.040 dollari) – respingendo la proposta governativa di elevarlo a 25.000 pesos (865 dollari) – in Uruguay il governo, il terzo consecutivo di orientamento “progressista”, ha varato ad agosto una legge che limita la libertà di sciopero nella scuola, chiamata decreto della “esencialidad”, simile alle leggi sui servizi pubblici essenziali già esistenti in Italia del 1991 e del 2003, avallate da Cgil, Cisl e Uil.
Il governo uruguagio si è appellato al “diritto allo studio”, al quale, a suo dire, il “diritto di sciopero” deve essere subordinato. Noi comunisti spieghiamo ai lavoratori che lo sciopero è un un diritto solo nell’ideologia borghese – dominante nel capitalismo e propria anche del riformismo – la quale vorrebbe trovare, in questa società divisa in classi, un equilibrio fra i suoi inconciliabili interessi, codificato, appunto, nel diritto, nei vari diritti: alla mobilità, all’istruzione, al lavoro, allo sciopero, ecc. Nella realtà, invece, lo sciopero è un’arma: l’arma fondamentale dei lavoratori per difendere le proprie condizioni di vita. Accettare o subire una limitazione del suo utilizzo ha quale conseguenza la sconfitta. Invocare la sua difesa in quanto diritto, riconosciuto da una determinata legislazione, significa non comprendere che è soltanto il suo impiego – cioè la forza – a garantirne la sua difesa, dai padroni e dal loro Stato.
In Uruguay del decreto della “esencialidad” si discuteva da tempo. A giugno la UFC (Unión de Funcionarios del Codicen), il consiglio direttivo del sindacato degli insegnanti, aveva avanzata una proposta al 12° congresso del PIT-CNT (Plenario Intersindical de Trabajadores – Convención Nacional de Trabajadores) – la confederazione sindacale che riunisce quasi tutti i sindacati dell’Uruguay – per uno sciopero generale nazionale di 24 ore di tutte le categorie, immediato, non appena fosse stata tentata l’approvazione del decreto.
Ma il congresso evitò la discussione sulla proposta della UFC, ostacolando in tal modo una pronta reazione generale della classe lavoratrice. A conferma della natura di regime di questa confederazione sindacale – analogamente a Cgil, Cisl e Uil in Italia – basti pensare che il suo congresso è stato aperto da un intervento del capo del governo Tabaré Vasquez!
Quando il governo, ad agosto, è passato ai fatti, il movimento di lotta si è sviluppato, ma confinato all’interno della scuola. Inoltre non è riuscito a superare le divisioni regionali e quelle fra gli insegnanti delle scuole primarie, delle secondarie e dell’università.
La lotta ha avuto epicentro a Montevideo e Canelones, 40 km a nord della capitale, nell’interno. In queste due città lo sciopero dei maestri, iniziato il 15 agosto, è proseguito ad oltranza. Al suo apice vi è stata una formidabile assemblea, convocata dall’ADEMU (Asociación de Maestros del Uruguay) il 23 agosto, cui hanno presenziato ben 2.000 lavoratori, che ha deciso la prosecuzione dello sciopero per un’altra settimana, a fronte dell’approvazione del decreto prevista per il giorno successivo e della sua entrata in vigore il 26, giorno dal quale perciò lo sciopero sarebbe divenuto illegale.
Il FENAPES (il sindacato degli insegnanti delle secondarie) e l’AFUTU (il sindacato degli insegnanti dell’università) hanno fatto scendere in sciopero i loro iscritti il 26 ed il 27, così come l’ADEMU di Maldonado, un’altra città capitale di dipartimento, 200 km a est di Montevideo, sulla costa.
Il PIT-CNT, per non perdere il controllo del movimento, ha indetto per ìl 27 uno sciopero generale, definito “parziale” perché di solo 4 ore. Un altro sciopero, nella scuola secondaria, si è avuto il 2 settembre.
Ma il movimento, così confinato nella categoria e diviso al suo interno, non è riuscito a piegare il governo.
Anche in India è sempre più difficile scioperare
Anche l’economia indiana ha rallentato la crescita nella stretta della crisi internazionale, e la borghesia nazionale non ha perso tempo ad approfittarne per attaccare le condizioni di vita e di lavoro dei proletari.
Il 2 settembre milioni di lavoratori indiani sono scesi in sciopero per l’intera giornata contro la bozza di “riforma del lavoro” del governo che, dice, vuole “modernizzare” le leggi attuali. Un ritornello in bocca alle borghesia di tutti i paesi. Nella sostanza si tratta di una serie di peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia indiana e ostacoleranno la sua la lotta. L’attacco alle organizzazioni sindacali è mirato verso quelle più piccole, più combattive, in competizione con quelle maggiori, collaborazioniste. Anche qui perfetta l’analogia con l’Italia e, ad esempio, la Germania, sulla cui legislazione antisciopero abbiamo scritto lo scorso numero.
Oggi, in India, per autorizzare un sindacato ad indire uno sciopero “legale” è necessario che inquadri almeno il 10% dei lavoratori di una fabbrica; con la nuova legge ne servirà il 30%. Verrà inoltre aumentato il numero minimo di dipendenti in un’azienda affinché questa sia considerata “fabbrica”, e quindi i suoi operai possano godere di maggiori diritti: in Italia c’è la famosa soglia dei 15 dipendenti; in India tale limite è di 100 lavoratori e la riforma vuole elevarlo a 300. Infine, la regolamentazione degli scioperi potrà essere derogata all’autorità locale.
Il governo indiano ha dispiegato la propaganda usata dalle borghesie di tutto il mondo, ovvero che grazie a questa riforma le assunzioni saranno più “flessibili”, e quindi la disoccupazione verrà ridotta.
Lo sciopero è riuscito. I sindacati che lo hanno indetto, una decina, attraverso un documento congiunto hanno richiesto, oltre all’annullamento della riforma, una copertura assicurativa per tutti i lavoratori e un salario minimo per tutti di 15.000 rupie, circa 200 euro.
Ma diversi sindacati non hanno partecipato allo sciopero; tra i più importanti il Bharatiya Mazdoor Sangh – vicino al partito di governo – e il National Front of Trade Unions. In molte città si sono svolti presidi, picchetti e manifestazioni; in alcune sono scoppiati scontri con la polizia che hanno portato a feriti ed arresti, in particolare nel Bengala Occidentale, Stato a nord-est dell’India con una forte tradizione operaia. A Kolkata, la capitale, 200 manifestanti sono stati arrestati dopo un’intera giornata di scontri.
La produzione del settore automobilistico nell’area chiave a sud ovest di Delhi – Gurgaon, Manesar, Bawal – è stata paralizzata: chiuse le fabbriche Maruti Suzuki, Honda, Hero MotoCorp, Munjal Kiriu, Asti Elettronica, Baxter, Bajaj Motos, Adatta, e Bellsonica. L’amministratore delegato della Maruti ha dichiarato che quasi l’80 per cento delle fabbriche di automobili di quest’area sono rimaste inattive a causa dello sciopero.
Lo sciopero non è invece riuscito nelle fabbriche tessili del Gurgaon, in cui quasi tutti i lavoratori non sono sindacalizzati. Ma altre aziende di questa vasta zona industriale hanno imposto una giornata di ferie, per paura di una massiccia adesione degli operai.
Documenti
del Partito Comunista d’Italia sui sindacati
Il problema
sindacale
da Il Comunista, 30 gennaio 1921
Riproduciamo qui una delle prime messe a punto del neonato Partito Comunista d’Italia circa la tattica comunista, sempre considerata fondamentale, nel campo sindacale.
Vi si
afferma:
1) La
distinzione che è nel marxismo fra partito e sindacato e loro
interagire (la “miniera”)
2) La
valutazione comunista di quelli che erano, e, sotto altra forma, sono
oggi, sindacati di impostazione anarcoide-sindacalista e
modalità di
comportamento nei loro confronti.
È assai interessante considerare quali ripercussioni abbia avuto la scissione del Partito Socialista nelle file del movimento sindacalista-anarchico che opera nella Unione Sindacale Italiana.
I nostri rapporti con questo movimento costituiscono un problema delicato e assai importante per lo sviluppo dell’azione del nuovo Partito Comunista.
Noi vorremmo che questi rapporti, che indubbiamente non potranno non essere accompagnati da discussioni e polemiche reciproche, non venissero inaspriti da precipitati giudizi, e – pur essendo indiscutibile che il problema delle relazioni tra partito politico e sindacati operai sarà sempre controverso tra noi e i sindacalisti – ci auguriamo che questi giudichino la questione con la maggiore serenità possibile, sforzandosi di valutare imparzialmente le direttive da noi seguite in materia.
Sentiamo già dire anche da amici a noi molto vicini: non siete abbastanza risoluti a lottare contro i riformisti e i socialdemocratici, poiché non volete passare dalla scissione da loro nel campo politico alla scissione anche nel campo economico, Anzi, ci dicono, vi è di più: pur essendo dinanzi al fatto compiuto della scissione del movimento sindacale italiano, voi comunisti vi proponete di restare nella Confederazione Generale del Lavoro anziché uscirne per venire a rafforzare la Unione Sindacale.
Ora noi preghiamo gli amici sindacalisti a volersi prospettare che il modo nel quale noi consideriamo il problema della tattica sindacale – sulla base del nostro pensiero marxista e comunista, e delle tesi della Internazionale e dei suoi congressi – esclude che nella soluzione che ne diamo possa influire una considerazione di opportunità momentanea, di maggiore o minore senso di temporeggiatrice opportunità.
Per noi la questione appare chiarissimamente impostata nel campo dei principi e delle direttive generali. Noi comprendiamo – poiché dal canto nostro conosciamo assai bene la loro mentalità e i loro criteri – che i sindacalisti si augurano l’”adozione” da parte nostra del boicottaggio della Confederazione diretta dai riformisti; ma li vorremmo tanto illuminati da comprendere che nessuna insistenza o incoraggiamento anche amichevole ci indurrà mai ad un simile passo, e tanto meno poi apprezzamenti ingiusti sulla nostra dirittura ed energia.
Poiché per noi la questione è questione di principi e di direttive generali, oltreché di indiscussa disciplina internazionale.
L’invito all’entrata nelle file della Unione Sindacale non può dunque avere nessun utile effetto, e tanto meno ne avrà se al nostro reciso rifiuto si darà la interpretazione consistente nel diffidare della serietà dei nostri propositi di lotta senza quartiere al riformismo della Confederazione.
Osserviamo però, ad evitare altri equivoci, che se mai noi accetteremo la tattica di boicottare lo organizzazioni confederali, non deve credersi che questo voglia dire boicottaggio dell’Unione Sindacale, o d’altri organismi, da parte degli iscritti al Partito Comunista, pei quali nessuna incompatibilità di massima di tal genere potrebbe concepirsi che venisse sancita.
Questa tattica non può e non deve sembrare discontinua, illogica, o stiracchiata a chi si prenda la pena di rendersi conto del nostro criterio in materia sindacale.
Abbiamo detto che si risale ad una questione di principio, ed è appunto una questione di principio che dai sindacalisti ci divide. Secondo essi l’organo delle energie rivoluzionarie del proletario è il sindacato economico; e questo aveva acquistata una pratica di transazioni riformistiche soprattutto per influenza del partito politico e delle sue tendenze socialdemocratiche.
Logicamente la scuola sindacalista vide il rimedio nella costituzione di nuovi sindacati “rivoluzionari” sottratti al controllo dei partiti politici, poiché ciò avveniva in quell’epoca in cui azione politica e azione di partito erano la stessa cosa che azione elettoralesca, collaborazionista, possibilista.
Ma questa forma di reazione al pericolo riformista, a parte il fatto che i suoi insuccessi devono farlo ritenere superato, nulla ha di comune col metodo comunista moderno, fondato sul ritorno alle dottrine marxiste originarie.
Per noi comunisti il partito politico di classe è l’organo rivoluzionario indispensabile. Le sue degenerazioni nel periodo della II Internazionale si svolsero parallelamente al dilagare del corporativismo nel movimento sindacale; e potrebbe anzi dirsi che furono le organizzazioni economiche che trascinarono i partiti socialisti nel riformismo colle loro esigenze minimaliste.
Nel periodo storico attuale si costituiscono i partiti comunisti attraverso la risoluta rottura nel campo politico col metodo riformista e coi suoi seguaci. Caratteristica essenziale di questo processo storico è dunque la scissione dei partiti socialisti tradizionali. I partiti comunisti assommano in sé le energie rivoluzionarie, ponendosi in un piano superiore a quello delle piccole esigenze dell’azione elettorale riformistica e del corporativismo economico. Essi considerano i sindacati proletari come la miniera dove trovano il minerale per forgiare l’acciaio delle loro armi. Nel partito è indispensabile il metallo puro, nel sindacato è assurdo cercarlo. D’altra parte non v’è sindacato non che sia aperto, per logica di cose, a lavoratori d’ogni fede politica.
Il sindacato diverrà un organo utile per l’azione rivoluzionaria solo sotto la guida del partito comunista.
Quindi la tattica internazionale dei partiti comunisti non consiste nel foggiare a loro immagine e somiglianza sindacati di minoranza, ma nel penetrare e conquistare i sindacati che vi sono, nei quali è la grande maggioranza operaia, da cui non si può straniarsi, nella quale occorre lavorare per strapparla all’influenza degli attuali capi riformisti.
È logico che i sindacalisti dicano: come mai accetterete di restare in minoranza sotto i capi riformisti della maggioranza confederale? Poiché essi vedono il sindacato al di sopra del partito.
È logico che noi rispondiamo che l’essere alla opposizione di minoranza nella confederazione non ci impegnerà se non ad una più violenta azione contro i suoi capi – poiché per noi il partito è al di sopra del sindacato.
Il partito comunista veramente degno del nome, accentrato, disciplinato, che escluda dalle sue file ogni elemento dubbio, è la garanzia perché i gregari possano lavorare senza pericoli e col massimo effetto, dovunque sono masse proletarie, benché ancora guidate da nemici del comunismo.
Su queste basi, rigorosamente marxiste, è fondata la tattica geniale e chiarissima di Mosca.
C’è la questione che l’USI, con altri organismi di tipo sindacalista, è aderente alla III Internazionale. Come questo fatto debba influire sui rapporti tra l’Unione Sindacale e il Partito Comunista è argomento che ampiamente tratteremo, ma appunto per sgombrare il terreno da equivoci che non potrebbero essere che dannosi a tutti, abbiamo voluto stabilire che i nostri propositi di azione sindacale non contengono alcuna ombra di esitazione e di incertezza, ma costituiscono il metodo migliore per l’attacco a fondo a quel riformismo sindacale, che i sindacalisti combattono da tempo, con accanimento, ma con un metodo che secondo noi è inadatto allo scopo.
Le recenti ricerche nella genetica
confermano la lezione
di Marx
Sono fattori
sociali ed economici più che razziali
a fare le nazioni
Un numero recente di Nature ha pubblicato il resoconto di un ampio studio dal titolo “La struttura genetica di dettaglio della popolazione britannica”.
La ricerca è stata intrapresa e giustificata per le sue implicazioni mediche. Sappiamo che il business medico e farmaceutico finanzia queste indagini solo per i profitti che ne possono derivare, o per farsi pubblicità. Ma certo da questi lavori, rintracciando il divenire genetico attraverso lo spazio e le generazioni, possono anche scaturire, come un sottoprodotto, delle scoperte e dei progressi in campo medico e scientifico in generale.
La scienza sotto il capitalismo, come il lavoro operaio, è sempre più parcellizzata, “specializzata”, il che è utile al fine del profitto aziendale. I laboratori di ricerca non sono ormai che aziende capitalistiche cui si lesinano le risorse e che devono “rendere”, cioè produrre pubblicazioni e brevetti industriali. Le specializzazioni tendono ad avere una vita propria e devono dimostrare un ruolo accademico utile all’interno della complessiva struttura della cosiddetta cultura accademica. Al singolo ricercatore e al singolo laboratorio manca il quadro di insieme, il panorama complessivo del problema. La concorrenza e l’individualismo fra ricercatori, e la ossessiva “mancanza di tempo” nel capitalismo rendono impossibile questo vasto studio comune.
Questa ampia apertura alla ricerca è, diciamo per inciso, propria e possibile, nel suo piccolo attuale, nel partito rivoluzionario della classe operaia, anticipatore della sapiente società comunista di domani. Far combaciare, per così dire, tutte le diverse informazioni in un risultato generale degli eventi diventa un compito che è possibile solo ai marxisti. Nel partito si utilizzano certo anche le competenze particolari dei singoli militanti, ma non è un insieme di “specializzazioni”, concezione e pratica nefasta che anzi combatte per sostenere che in principio ogni compagno può conoscere e comprendere il programma comune, anche nei suoi aspetti più ardui e “specialistici”, e comportarsi di conseguenza. Il marxismo è l’unico metodo di analisi che possa inserire tutte le diverse conoscenze nel quadro storico generale, perché è la Storia, la lotta delle classi, che genera la Scienza, e la spiega. E, nella intuizione, la anticipa.
* * *
Prima che fossero conosciuti i risultati di studi recenti, in particolare quelli sulla genetica umana, si disponeva di una quantità limitata di informazioni sulle popolazioni umane nella preistoria, il periodo primo della nostra storia che non ha lasciato documenti scritti. Le testimonianze scritte si resero necessarie con l’avvento della proprietà privata, delle terre e delle merci, e quindi sono espressioni di società di classe. Anche i miti e le leggende precedenti sono riportati nei testi scritti tramandatici attraverso il filtro della particolare visione del mondo propria di date classi dominanti.
Marx utilizzò il materiale a disposizione alla sua epoca per descrivere la storia antica, che in seguito sarebbe stata chiamata preistoria, nei suoi “Appunti Etnografici”, che Engels in parte utilizzò nel suo autorevole Le origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Scopo principale di questo lavoro era educare i giovani partiti socialisti. Il messaggio era chiaro: ci fu un primo stadio umano che non conosceva proprietà privata né Stato, e nel futuro socialismo non ci sarà né proprietà privata né Stato.
La borghesia naturalmente deride tale prospettiva, essendo per essa scopo massimo e ultimo delle società umane e dei millenari loro sforzi addivenire e mantenere proprietà e Stato, cioè, oggi, la società sua propria.
L’archeologia borghese fu inizialmente un giocattolo per ricchi – Schliemann fece enormi danni scavando a Troia (“scoprì” un sito già ben noto alla popolazione locale) solo per giustificare le storie di Omero. Poi sarebbe toccato all’antica Grecia ricevere il “trattamento Schliemann”. Solo più tardi sarebbe prevalso, dicono, un approccio più ordinato. Molto rovinata dai terremoti, la Creta minoica è stata ricostruita nel miglior modo che si poteva fare all’epoca. Ma quello che sempre prevalse fu una gara a spogliare il mondo antico per riempire i musei delle capitali delle nascenti potenze imperialiste. E queste utilizzarono l’interpretazione di quelle antiche tradizioni e i reperti per giustificare il proprio ruolo di “civilizzatori”. L’archeologia divenne un campo di battaglia per lotte politiche e ideologiche, per interessi accademici o nazionali. Non a caso Sir Mortimer Wheeler affermò: «l’archeologia non è una scienza, è una vendetta».
Università e fondazioni si impegnarono negli scavi e nella decifrazione di antiche scritture. Le cronologie delle antiche civiltà furono prolungate indietro nel tempo. Presto la cronologia biblica fu collocata nella più ampia storia del Medio Oriente e spiegazioni scientifiche vennero fornite ai miti e alle leggende ebraiche.
Ne è risultato che l’origine dei gruppi umani è andato spostandosi all’indietro nel tempo. L’ascesa e la caduta dei vari imperi ha mostrato una serie di cicli, in un avanzamento costante ma irregolare della società umana, ed uno spazio sempre più ridotto rimane per coloro che ancora si aggrappano ai pregiudizi borghesi, sia religiosi sia laico-progressisti.
Tuttavia il modello “diffusionista” è restato a lungo quello dominante. La civiltà europea avrebbe avuto origine nel Medio Oriente e si sarebbe trasmessa verso l’esterno da quei popoli civilizzati, col commercio e con la conquista. Gli avamposti più lontani del Nord-Ovest dell’Europa si sarebbero quindi sviluppati relativamente tardi. Monumenti come Stonehenge erano attribuiti a un periodo tardo: piattaforme di osservazione astronomica per sacerdoti egiziani, o eretti da viaggiatori minoici. L’ipotesi che tali opere antiche fossero proprie di popoli indigeni non era nemmeno presa in considerazione. L’isola di Gran Bretagna non poteva avere avuto che una popolazione ritardata, sottosviluppata, con l’Irlanda isola selvaggia ai margini dell’Europa. Questo arrogante punto di vista sarebbe stato ben presto abbandonato come pura ideologia.
La scoperta del decadimento naturale degli isotopi, dalla metà degli anni Quaranta in poi, ha fornito metodi di analisi che si possono applicare ai reperti archeologici. La datazione al carbonio 14, seppure entro i suoi margini di errore, iniziò a dare qualche scossone alle precedenti ipotesi. Le prime misure furono ignorate perché considerate inaffidabili, finché non si dimostrarono coerenti con i risultati di altri metodi. E si dovette abbandonare il modello diffusionista così come era stato applicato alle isole Britanniche. Colin Renfrew riconobbe che un “millennio profondo” si stava aprendo alla nostra conoscenza, nel quale erano da collocare i monumenti dell’Età del Bronzo, e altri, non più semplici esportazioni dalle civiltà del Medio Oriente. Le cronologie venivano estese a ritroso “nella notte dei tempi”. La Preistoria, in precedenza intesa solo come una premessa alla civiltà, si stava sviluppando in una disciplina in espansione, con una dignità propria.
L’imprecisione della datazione al carbonio 14 fu presto integrata con la dendrocronologia, che adesso consente una notevole precisione fino a circa 10 mila anni fa. In assenza di campioni di DNA da scheletri, le letture di isotopi dello stronzio, tra gli altri, hanno dato indicazioni delle aree in cui gli esseri viventi, uomo e animali, si sono evoluti. Possiamo iniziare a descrivere l’andamento di eventi preistorici e i movimenti delle popolazioni.
Un esempio è il recente ritrovamento del cosiddetto ”Arciere di Amesbury”, e del suo compagno/parente, sepolti nei pressi di Stonehenge, e che appartengono alla prima fase del monumento: entrambi erano cresciuti in un’area alpina dell’Europa Centrale!
Un’altra finestra sulla preistoria si è aperta nel 1991 col ritrovamento di un corpo mummificato nelle Alpi Orientali, risalente al periodo del passaggio dal Neolitico all’Età del Rame. Il corpo, chiamato Oetzi, ha finora fornito solo una quantità limitata di informazioni sui movimenti dei popoli preistorici. Il primo ad essere analizzato è stato il DNA mitocondriale, trasmesso per linea femminile: ne è risultata la collocazione della stirpe di Oetzi nel sub-aplo-gruppo K-1, ulteriormente suddiviso in K-1a, K-1b e K-1c. La lettera K indica i discendenti da una singola donna, i quali, o almeno alcuni di loro, entrarono in Europa approssimativamente nello stesso periodo della “rivoluzione neolitica”.
L’ipotesi che quei partecipanti alla “rivoluzione agricola” fossero tutti discendenti di K presuppone che si sia trattato di una qualche forma di colonizzazione, piuttosto che di uno sviluppo tecnico locale nella produzione, o nella raccolta, di alimenti, già presente al momento del loro arrivo. D’altronde non tutti furono convertiti ad uno stile agricolo di sussistenza.
Il DNA nucleare, la combinazione del DNA del padre e della madre, si è dimostrato non essere abbastanza resistente da sopravvivere per un periodo di tempo così lungo, più di 5.000 anni. Il cromosoma Y di Oetzi, ereditato in linea paterna, rientra in un raro aplo-gruppo e sotto-gruppo europeo noto come G-L91, che nel 2013 è stato ritrovato in diverse decine di uomini che vivono oggi nel Sud Tirolo.
Prima di queste scoperte in Austria, confronti di altri DNA europei, nord africani e della penisola arabica avevano dato risultati affini agli attuali abitanti di Corsica e Sardegna. Nel contesto europeo/mediterraneo l’uomo è stato marinaio prima di diventare agricoltore
* * *
Ulteriori elementi al quadro si sono aggiunti appunto tramite questa indagine genetica sui gruppi di residenti nel Regno Unito. Come uno dei principali ricercatori afferma: «I documenti storici, l’archeologia, la linguistica, tutto di queste testimonianze ci parla delle élite. Si dice infatti che la storia è scritta dai vincitori (...) La genetica completa il quadro, che appare molto diverso. Essa ci dice cosa è successo alle masse (...) alla gente comune».
Non intendiamo qui discutere la metodologia dello studio su Nature e le conclusioni più di dettaglio.
Questa indagine è partita da campioni di DNA di individui che possono essere considerati rappresentanti delle varie popolazioni regionali della Gran Bretagna, cioè dell’intera isola, Inghilterra, Galles e Scozia, più le Orcadi e l’Irlanda del Nord. L’analisi ha utilizzato 2.039 soggetti di zone rurali che avevano i quattro nonni nati nel raggio di 80 chilometri. Partendo da questi campioni è stato possibile risalire al DNA dei nonni, tutti nati in media intorno al 1885; quindi i risultati mostrano il DNA delle aree rurali prima dei movimenti di popolazione su larga scala del 20° secolo. Successivamente i dati sono stati confrontati con quelli di campioni provenienti da 10 paesi dell’Europa continentale.
Nell’introduzione all’articolo si legge: «La composizione genetica delle popolazioni umane varia nelle diverse regioni della Terra come risultato di interazioni tra i movimenti delle popolazioni, il loro incrociarsi, la selezione naturale e la spontanea deriva genetica. Scoprire le struttura genetica della popolazione fornisce potenti strumenti per comprenderne la storia».
Si conclude: «L’indagine ha rivelato un ricco e dettagliato ordine di differenziazioni genetiche con notevole concordanza tra i raggruppamenti genetici e la geografia». Inoltre «questa differenziazione genetica regionale e le relative condivisioni di ascendenze con 6.209 soggetti provenienti da tutta Europa danno chiare tracce di eventi demografici storici». «Stimiamo che il contributo genetico al Sud-Est dell’Inghilterra da parte delle migrazioni Anglo-Sassoni sia inferiore alla metà; sono invece individuate regioni che non portano materiale genetico da queste migrazioni. È da ipotizzare un significativo movimento dall’Europa continentale post-Mesolitico ma pre-romano verso l’Est dell’Inghilterra, ed è dimostrato che nelle parti non-Sassoni del Regno Unito esistono sottogruppi geneticamente differenziati, piuttosto che una popolazione genericamente “Celtica”».
La prima sezione dello studio mostra infatti una mappa per 17 gruppi e l’albero dei loro sottogruppi, risultati nettamente separati. I gruppi genetici mostrano una notevole concordanza con le aree di residenza, senza sovrapposizioni. «È stato possibile separare i gruppi anche quando si trovano in aree vicine, come ad esempio in Cornovaglia e Devon nel Sud-Ovest dell’Inghilterra, dove i gruppi genetici coincidono fedelmente con i moderni confini delle contee, o nelle Orcadi, al largo della costa Nord della Scozia».
La maggiore differenziazione genetica si ha fra i campioni delle Orcadi e tutti gli altri. Anche i campioni gallesi sono separati da tutti gli altri. C’è un’ulteriore separazione tra Nord e Sud del Galles. Poi fra Inghilterra del Nord, Scozia e Irlanda del Nord e il resto dell’Inghilterra, e fra la Cornovaglia e il resto dell’Inghilterra. Un grande gruppo copre la maggior parte del Centro e del Sud dell’Inghilterra.
Questi risultati avranno una ulteriore conferma quando potremo accostarli alle risultanze degli studi sulla preistoria delle Isole britanniche. La popolazione delle Orcadi era considerata più antica già al tempo del tentativo dei Romani di conquista della Scozia. La Cornovaglia sembra aver avuto uno sviluppo separato, non solo geologicamente, dal Devon, ma per la sua economia.
Continua l’articolo: «Le differenze genetiche tra i gruppi britannici potrebbero riflettere in parte il loro relativo isolamento, in parte differenti episodi di migrazioni e assimilazioni con popolazioni da fuori del Regno Unito. Gruppi europei sono presenti nei profili degli antenati di tutti i gruppi del Regno Unito». Questi gruppi europei appartengono all’Ovest della Germania, al Belgio, quella che oggi è l’area fiamminga, al Nord-Ovest e al Sud della Francia, a Danimarca, Spagna, Norvegia e Svezia. Per lo più queste influenze si riferiscono ad invasioni e ad insediamenti in periodi successivi all’Impero Romano. Nessuno di questi movimenti sembra aver cancellato le popolazioni precedenti. In generale, i risultati non forniscono informazioni che non siano conformi alle testimonianze storiche dei movimenti demografici.
Ma si fa riferimento anche a movimenti di popolazioni nella remota preistoria, quando la Gran Bretagna era ancora unita al continente europeo: dal 9600 fino al 7500 a.C. migrazioni avrebbero potuto incamminarsi su quel ponte di terraferma, a volte indicato come Doggerland. In seguito i movimenti dovettero aver luogo via mare.
L’Irlanda si è formata come un’isola separata in seguito all’innalzamento del livello del mare entro l’8000 a.C. Fatta eccezione per l’Ulster l’Irlanda non figura però in questa ricerca, il che è un peccato: sarebbe stato utile vedere come l’Irlanda entri nel quadro complessivo.
«Nel Regno Unito la differenziazione genetica non è legata meccanicamente alla distanza geografica. Esempi di differenziazione più sottile includono la separazione tra le isole Orcadi; del Devon dalla Cornovaglia; e della zona di confine gallese/inglese delle aree circostanti». Inoltre «i confini tra i gruppi seguono in alcuni casi confini geografici naturali, ad esempio, tra il Devon e la Cornovaglia l’estuario del Tamar e Bodmin Moor, e le Orcadi separate dal mare di Scozia».
«Dopo le migrazioni sassoni, la lingua, i nomi dei luoghi, le specie di cereali e gli stili della ceramica, tutto cambiò rispetto a quelli della preesistente popolazione romano-britannica a favore di quelli dei migranti sassoni. Ci sono state continue controversie storico-archeologiche sulla misura in cui i sassoni abbiano sostituito le precedenti popolazioni romano-britanniche (...) Noi stimiamo che la proporzione di ascendenza sassone in Inghilterra centrale e meridionale sia molto probabilmente inferiore al 50%, e quasi sicuramente tra il 10 e il 40%».
Questo confuta la nozione corrente di un “genocidio celtico” da parte degli invasori sassoni. Certo la società post-romana fu trasformata dagli invasori sassoni in un nuovo tipo di società rovesciando il vecchio sistema di governo romano. Ma il mitico Re Artù, il Regno Celtico, i Cavalieri della Tavola Rotonda sono stati tutte invenzioni della successiva dinastia Tudor, che era di origine gallese, per giustificare il nuovo ordine della mercantile borghesia dominante.
«Una conclusione più generale delle nostre analisi è che, mentre molti degli eventi storici di migrazione lasciano segni nei dati genetici, in questo caso hanno avuto un effetto sulla composizione genetica delle popolazioni del Regno Unito in modo molto inferiore a quanto si riteneva. In particolare, non vediamo alcuna prova genetica chiara dell’occupazione vichinga danese e del loro controllo di gran parte d’Inghilterra, sia nei singoli gruppi britannici di quella regione, sia nei profili di ascendenza, suggerendo un ingresso relativamente limitato del DNA dei vichinghi danesi e nella successiva mescolanza con le regioni vicine».
Quest’ultima osservazione ignora il genocidio perpetrato da Guglielmo I nel reprimere la resistenza a York, area danese sottoposta a una lunga campagna di morte e distruzione e finita per fame. Circa un secolo dopo i Normanni hanno cercato di farlo anche in Irlanda. In entrambi i casi non mancò l’approvazione papale.
La nostra
analisi storica, ora confortata da evidenze nella genetica, smonta
due miti nazionalisti tanto diffusi sia in Gran Bretagna sia in
Irlanda giusto per negare la nostra visione materialista della
storia.
1. L’idea
sciovinista di una superiorità anglo-sassone: l’Inghilterra
è
sempre stata, e a maggior ragione lo è ora, un miscuglio di
popoli.
2. L’idea
di una stirpe/nazione celtica: i popoli celti sono tanto diversi fra
loro come lo sono da quelli inglesi
È stato lo sviluppo delle forze produttive che ha modellato la storia delle isole inglesi, piuttosto che fattori di razza.
* * *
Questa la nostra conclusione: i risultati della ricerca qui riassunti sono in perfetta sintonia con quanto scrivevamo in “Fattori di razza e nazione”, nella sezione sui germani e sul modo di produzione barbarico. «La nuova organizzazione della produzione agraria su tali terre, dato il relativamente piccolo numero degli occupatori e la loro tradizione di lavoro comunistico, lasciò indivise grandi estensioni, non solo di boschi e pascoli, ma anche di terre seminative, prevalendo le forme del diritto germanico su quelle romane, o formandosi interferenze di entrambe. Ciò rese possibile un’amministrazione fissa territoriale di quei popoli già migratori, e per quattro o cinque secoli sorsero gli Stati tedeschi con poteri sulle antiche province e sulla stessa Italia. Il più notevole era quello dei Franchi il quale valse da argine contro l’occupazione dell’Europa da parte dei mori, e pure cedendo alla opposta pressione dei Normanni fece sì che le popolazioni resistessero sui territori in cui si erano fissate, sia pure nella complessa miscela etnica di Tedeschi, di Romani e, nel regno dei Franchi, degli aborigeni Celti. Tali Stati tedeschi non erano nazioni per questo recente ingorgarsi di ceppi etnici, di tradizioni, di lingua, di istituzioni eterogenee: ma Stati lo erano di fatto per avere finalmente salde frontiere e un’unicità di forza militare».
Per l’Inghilterra basta sostituire “Franchi” con “Anglosassoni”. L’Inghilterra era stata abbandonata dai romani nel 410 d.C., mentre già era in corso l’arrivo degli anglosassoni. Nel secolo che seguì questi introdussero il modo di produzione germanico, cioè feudale, che si dimostrò superiore a quello che avevano trovato sul posto, aglo-celti romanizzati proprietari di schiavi. «I contadini gettatisi sull’agognata terra fertile e in clima mediterraneo ne trarranno subito ben maggiore profitto delle greggi di schiavi. Ed in questo senso le forze produttive di tante braccia inoperose e del ricco terreno disprezzato dai cresi romani risorgono potentemente».
Qui è ben rappresentata la trasformazione dell’Inghilterra da, circa, il 400 all’880 da aree tribali ad una serie di singoli Stati (Wessex, Mercia, ecc.) ed infine in una nazione, sotto la pressione delle invasioni danesi. Più tardi i normanni si appropriarono di uno Stato pienamente funzionante e vi sovrapposero una brutale struttura militare. Ma la base etnica rimase largamente la stessa. A differenza, per esempio, dall’Irlanda, che riuscì a sconfiggere i danesi nel 1064, diverrà una nazione ma mai uno Stato e in pochi anni si divise in una dozzina di regni instabili. Nemmeno il Galles fu mai unificato. La Scozia divenne uno Stato solo con l’introduzione del feudalesimo da parte delle élite anglo-normanne da sud.
In altre parole: i testi di partito sulla rivoluzione economica feudale anticipano le evidenze empiriche fornite dalle ricerche, confermando la sua teoria, la visione marxista della storia. L’emergere delle nazioni si basa sullo sviluppo socio-economico, contrariamente alle favolose storie ufficiali sulla superiorità di alcune stirpi e sulle gesta dei grandi uomini.
PAGINA 6
Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo
(Continua dal numero scorso)
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