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Contro la parola d’ordine di uscita dall’Euro dall’Europa dalla Nato
Sabato 25 marzo si sono riuniti a Roma i capi degli Stati membri dell’Unione Europea per la celebrazione dei 60 anni della firma dei trattati che ne segnarono la nascita.
Parallelamente si sono svolte nella capitale alcune distinte manifestazioni, di cui l’unica con una partecipazione che possa dirsi di massa è stata quella convocata, con la parola d’ordine “No‑UE, No‑Euro, No‑Nato”, da un insieme di partiti, gruppi e movimenti denominatosi Piattaforma Sociale EuroStop.
Un fenomeno tipico dell’imperialismo, cioè della fase ultima del capitalismo, è l’agitarsi inconcludente degli strati sociali intermedi, mezze classi a cui lascia spazio l’effimero benessere e solo la temporanea debolezza della classe operaia. In Occidente dalla fine degli anni ‘60 appesta l’aria attorno alla classe operaia la critica reazionaria del capitalismo, a base di ideologie ancor più dannose di quella dichiaratamente borghese, in quanto travestite di falso radicalismo.
Siamo oggi ancora nel solco delle manifestazioni del “movimento” che non può resistere alla tentazione di andare a corte per “contestare i potenti” intenti nelle loro celebrazioni perché spera di trovare in queste rumorose coreografie la forza e la vitalità che non può trarre dalla sua base sociale, la debole ed informe piccola borghesia.
Si chiama “movimento”, senza aggettivo, perché non è quello operaio, proprio e specifico della classe salariata, ma è composto dai più vari strati sociali, e sogna l’unione, e la sottomissione, di quella a questi.
Le classi non sono mosse dalle ideologie ma dagli interessi economici. Un movimento popolare, cioè interclassista, non può alzarsi e camminare in una direzione nella storia perché paralizzato da contrastanti interessi economici al suo interno. Di riflesso, le pur chiassose manifestazioni del “movimento” vivono lo spazio della giornata. Così fu per il G8 nel luglio del 2001 a Genova, o per la manifestazione “No debito” dell’ottobre 2011, a Roma.
Diverso è per il movimento operaio, omogeneo e accomunato dalla incombente necessità di resistere allo sfruttamento del capitale, con scioperi in grado di durare e di ripetersi, forte di organizzazioni di lotta da pazientemente costruire e ricostruire.
Dopo la Seconda Guerra mondiale imperialista, le classi dominanti della vinta Europa vollero illudere la classe lavoratrice, uscita prostrata e sottomessa, materialmente e politicamente, dalla più atroce carneficina nella storia dell’umanità, di voler impedire che una simile tragedia si ripetesse, fondando una federazione che, sulla base di una sorta di democrazia fra Stati, impedisse il risorgere dei nazionalismi e dei totalitarismi. Questo era falso, perché non si trattò affatto del superamento dei nazionalismi, a cui il capitalismo tende e pone le premesse, ma non può realizzare.
La borghesia è stata una classe rivoluzionaria solo fintanto dovette liberarsi delle pastoie del regime feudale. Le sue rivoluzioni portarono, attraverso sei secoli, alla costituzione dei moderni Stati nazionali. Preso il potere e svolto questo enorme compito progressivo, è divenuta immediatamente una classe reazionaria e la moderna macchina statale da essa costruita è solo la sua principale arma per tenere sottomessa la classe dei lavoratori salariati. Solo la classe operaia ha il comune interesse di unirsi al di sopra dei confini nazionali e solo essa potrà liberare questo ben maturo trapasso storico.
Va detto infatti che l’Unione Europea non è un imperialismo ma una somma di imperialismi fra loro concorrenti, una alleanza fra i capitalismi nazionali del vecchio continente, il tedesco, il francese, l’italiano, ecc, per reggere nella competizione economica mondiale, a fronte di giganti di mole continentale quali gli Stati Uniti, la Cina, un tempo la Russia falsamente socialista.
Sostenere che esiste un imperialismo europeo – secondo la bolsa retorica che nasconde il conflitto degli interessi nazional-borghesi, gli stessi che da più di un secolo mandano periodicamente i proletari a macellarsi sui campi di battaglia – deforma la realtà e serve ad avvalorare la posizione degli EuroStop che sia progressivo “spezzare la gabbia della Unione Europea”.
L’Unione è giunta a darsi una moneta comune, ma è ben lontana da essere uno Stato unico, con un suo sistema fiscale ed un esercito, e ciò si è reso evidente ad ogni crisi internazionale, quando puntualmente ciascun Stato ha agito per sé, secondo i propri interessi, ed è sempre mancata la tanto invocata, da loro, politica estera comune. Ad esempio, a fronte delle ripetute azioni dei gruppi che praticano il terrorismo, i servizi segreti degli Stati europei non collaborano né si scambiano informazioni, perché ciascuno è geloso dei rapporti che intrattiene coi regimi che appoggiano quelle organizzazioni, ammesso che non lo facciano essi stessi direttamente, e quindi ha i suoi terroristi da proteggere, nascondere ed usare. Di comune c’è solo la propaganda contro il vero nemico, che è la classe lavoratrice, che non deve capire chi è il responsabile del terrorismo e delle guerre in atto.
È una Unione fra briganti pronti a pugnalarsi alle spalle, da cui i più forti traggono maggiore vantaggio e a cui i più deboli aderiscono perché – al momento – non hanno alternative. Per questo le alleanze fra gli Stati capitalisti sono sempre instabili, in ragione del mutare dei rapporti di forza e degli interessi.
Ma che imperialismi più deboli o in crisi mortale, come quello inglese o italiano, decidano, a un dato momento, di uscire dall’Unione, ciò non li renderebbe meno imperialisti e meno borghesi. Uscirebbero da un fronte imperialista per, forzatamente, aderire ad un altro. Pensare quindi che scompaginare le alleanze fra Stati capitalisti possa arrecare vantaggi alla classe operaia, o avvicinare la sua rivoluzione è solo una pericolosa illusione e sottomissione al nazionalismo.
Il cartello EuroStop parla invece di “imperialismo europeo”, sia verso l’esterno, col suo affiancarsi, più o meno convinto, alle imprese militari degli Stati Uniti, sia al suo interno, dove un nucleo di nazioni più forti, essenzialmente Germania e Francia, trarrebbero vantaggio dall’assoggettamento delle più deboli, fra cui l’Italia. Il mezzo fondamentale per ottenere tale assoggettamento sarebbe l’Euro, con cui i paesi membri avrebbero perso sovranità economica, con l’accondiscendenza di partiti e di governi anti-nazionali e corrotti.
EuroStop si dà quindi l’obiettivo dell’uscita dall’Unione Europea perché ciò permetterebbe “a noi” di recuperare la “nostra” “sovranità nazionale”. La classe operaia all’interno dello Stato nazionale non dispone di un permille di quella “sovranità”, che è solo della borghesia sulla classe operaia. All’esterno quanto “delegare” o “non delegare” è proporzionato dalla forza di ogni Stato nei confronti dei rivali.
EuroStop accusa l’Unione Europea d’essere fautrice delle politiche di austerità, il cosiddetto neoliberismo. Afferma che questa politica economica non ha risolto la crisi bensì l’ha aggravata, se non persino causata.
In realtà, nell’approvare provvedimenti che hanno aumentato lo sfruttamento della classe operaia, non vi è mai stato alcun vero conflitto fra i vari parlamenti nazionali e le istituzioni europee, entrambi fedeli rappresentanti di classi padronali, in disaccordo su tutto tranne che sulla crescente oppressione del proletariato. Per di più la cosa si presta ad un continuo rimpallo di responsabilità e alla vile propaganda sciovinista.
Tanto che l’attacco alla classe operaia non è stata una peculiarità europea e tutti gli Stati del mondo, colpiti dalla crisi economica, hanno adottato provvedimenti analoghi.
La causa della insicurezza e del peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia è il capitalismo. Le classi borghese e fondiaria ne sono la base sociale. Queste classi difendono il loro privilegio economico organizzate politicamente e militarmente nei loro Stati nazionali. Questi, per farsi meglio la guerra, commerciale o armata, si associano in temporanei organismi transnazionali quali la BCE, l’FMI, l’UE. Ma il principale e primo bastione contro cui urta il movimento difensivo, e domani offensivo della classe operaia è il proprio Stato nazionale, nati e mantenuti tutti per sostenere e difendere il capitalismo e le sue leggi economiche.
La denuncia che poi fanno quelli di EuroStop, e tutta la cosiddetta “sinistra radicale”, secondo cui le politiche di austerità non hanno risolto la crisi, dimostra tutto il loro antimarxismo. Definiscono la crisi “sistemica”. Ma non intendono per “sistema” il capitalismo, bensì la “globalizzazione liberista”, e per risolvere la crisi basterebbe una politica “non liberista”. Non è necessario abbattere il capitalismo: per costoro, che si professano comunisti, per evitare di precipitare nelle crisi basterebbe un “capitalismo socialdemocratico”, fatto anche di protezionismo, autarchia, e, magari, regolamentazione dell’immigrazione.
La “sinistra radicale” in Italia è il prodotto della putrefazione del più grande partito falsamente comunista d’Europa, il PCI. Che già era per le “vie nazionali”.
Benché la crisi economica del capitalismo – iniziata nel 1973-74 e che come da noi previsto continua a peggiorare – abbia messo in crisi il miraggio dell’incessante progresso delle condizioni dei lavoratori all’interno del capitalismo, oggi la “sinistra radicale”, che comprende anche i reduci dello stalinismo, continua a propinare illusioni riformiste alla classe lavoratrice.
Difendere le condizioni di vita della classe operaia nel turbine della crisi mondiale del capitalismo significa andare allo scontro frontale con la borghesia e con il suo Stato, perché materialmente si va a palesare l’incompatibilità fra due bisogni: quello del Capitale e quello dei lavoratori. O soccombe il Capitale, con la rivoluzione e la dittatura del proletariato, o la classe operaia, in una nuova guerra mondiale.
EuroStop invece pretende ancora di applicare le formule del riformismo socialdemocratico, parzialmente possibili solo nel ciclo di forte crescita economica seguito al secondo conflitto mondiale, e di poterlo fare senza doversi scontrare con l’apparato statale borghese: sarebbe solo necessario “rompere la gabbia europea”!
Davvero non si capisce perché uno Stato che è borghese, imperialista, capitalista e anti-operaio dentro questa Unione, dovrebbe cessare d’esserlo al di fuori, o cercando fortuna in un’altra lega fra Stati capitalisti. EuroStop crede a questa sciocchezza perché si sottomette alla ideologia borghese della democrazia e sostiene che la costituzione repubblicana del 1948 abbia cambiato la natura dello Stato, negando la fondamentale tesi marxista secondo cui lo Stato è solo e sempre la macchina di dominio di una classe.
La “sinistra radicale” inseguirà sempre la seduzione di un sistema stabile che regoli lo scontro di interessi fra classe lavoratrice e borghesia. Non a caso il principale gruppo politico di EuroStop, che è anche il gruppo che dirige l’Unione Sindacale di Base, sostiene, in buona compagnia con la Fiom di Landini, la necessità di una legge che regoli la rappresentanza sindacale, illudendosi che il regime borghese possa venire a fissare delle regole a difesa del sindacalismo di classe, invece che usare, come fa e farà sempre, ogni mezzo per combatterlo.
Il sodalizio fra le borghesie europee e la Nato, cioè con la borghesia degli Stati Uniti, è poi sempre stato tutt’altro che d’acciaio. Dalla sua nascita si sono contrapposti per l’Europa due modelli di Unione: uno più federale ed egualitario fra gli Stati membri; l’altro che dava più potere ai paesi più potenti, cioè Germania e Francia. Il primo modello era consono agli interessi USA, perché ostacolava il rafforzamento dell’imperialismo tedesco; viceversa il secondo.
In molti paesi l’uscita dall’Unione Europea e dalla Nato è un obiettivo di partiti di destra e di estrema destra, ed EuroStop a questi si accoda. La Nato sarebbe responsabile della maggior parte delle guerre degli ultimi decenni, e i gruppi politici che compongono EuroStop in ciascuna di quelle si sono schierati col fronte antiamericano: ieri con Saddam e Milosevic, oggi in Siria col regime di Assad e nel Donbass coi filorussi. Addirittura i dirigenti di USB – senza alcun mandato del sindacato – hanno partecipato a manifestazioni organizzate in queste zone di guerra dai rispettivi regimi.
Si ostinano a negare l’evidenza che in queste guerre si scontrano due fronti entrambi imperialisti, e ritengono che quello che oggi appare più debole sia meno antioperaio di quello più forte. Ambiscono quindi a portare l’Italia nel campo imperialista russo e spacciano questo per internazionalismo. Così preparano invece il terreno allo schieramento della classe operaia sui fronti del futuro conflitto imperialista mondiale.
Ed è sempre la fede incrollabile nella ideologia democratica a far pensare che il regime borghese di un determinato paese possa cambiare l’assetto delle sue alleanze sotto la spinta di un movimento di massa, senza che questo non prenda il potere con la forza. Cosa che può fare solo la classe operaia. La rivoluzione borghese di febbraio in Russia nel 1917 non riuscì a far uscire il paese dalla Prima Guerra mondiale. Ci riuscirono solo con l’Ottobre i bolscevichi. Finché resta al potere la borghesia è costretta alle sue alleanze, che non determina né sceglie.
Nel 1914-15, per le frazioni di sinistra, essere per la “neutralità dell’Italia” significava battersi per la rivoluzione comunista.
La Prima Guerra passò per il tradimento dei partiti della Seconda Internazionale. La Terza Internazionale ne raccolse la tradizione rivoluzionaria, condannò quella guerra come borghese e imperialista e solo conseguenza del capitalismo, denunciò il riformismo anti-marxista che nei vari paesi aveva spinto i lavoratori ai fronti a combattere per i propri regimi borghesi, sparando sui propri fratelli di classe.
Il partito bolscevico in Russia prese il potere nell’Ottobre del 1917 proprio sulla parola d’ordine “guerra alla guerra”, dell’affratellamento sui fronti fra i proletari. Gli operai e i contadini russi smisero di sparare sui loro fratelli di classe tedeschi e volsero il fucile contro il regime zarista-feudal-borghese e lo abbatterono.
Il movimento operaio mondiale trasse grande vigore dalla vittoria in Russia, ma non ancora sufficiente a distruggere l’influenza su di esso del riformismo: i successivi moti rivoluzionari in Italia, Germania, Ungheria, il grande sciopero generale in Inghilterra, la comune di Shanghai in Cina furono tragicamente sconfitti. La controrivoluzione trionfò nel mostro a tre teste del fascismo, della democrazia e dello stalinismo.
La storia la scrivono i vincitori. Ad essere sconfitto, nel secondo conflitto imperialista mondiale, non fu il nazifascismo, negato solo nei suoi tratti esteriori dai regimi democratici ma da essi accolto nel suo tentativo di controllo statale totalitario sulla società, ma fu il proletariato mondiale, dissanguato e privato del suo partito rivoluzionario. In particolare lo stalinismo, truccato da comunismo, l’ha per oltre mezzo secolo stravolto e infangato e ha falsificato la teoria rivoluzionaria e il programma della futura società senza classi, ridotta a capitalismo di Stato.
Dentro o fuori della Unione Europea, con l’Euro o con la Lira, con lo Stato alleato con gli USA o con la Russia, la classe operaia non vedrà migliorare le sue condizioni di vita né fermarsi il loro peggioramento, perché esso è determinato dalle ovunque dominanti leggi economiche del capitalismo.
La “globalizzazione” non è una “politica”, una scelta sbagliata o malvagia di alcuni grandi capitalisti, ma una ineluttabile necessità storica del capitalismo, che lo segna fin dalla sua ormai lontana nascita. Di più, è una rete di vincoli, di catene che lo condizionano e gli tolgono ogni libertà individuale e nazionale e lo spingono alla rovina e alla rivoluzione. È il capitale la vittima della globalizzazione, non la classe operaia, e la prospettiva del comunismo ne esce confermata e, ad ogni volta del ciclo economico, rafforzata. Evviva la globalizzazione! debbono esclamare i comunisti.
La frapposizione, o l’anteporre, o la sostituzione di obiettivi politici intermedi alla conquista rivoluzionaria del potere da parte della classe operaia è il tratto caratteristico, invariante, dell’opportunismo che lo ha sempre giustificato con l’intenzione di favorire e avvicinare il superamento del capitalismo. Ha sempre ottenuto l’effetto contrario: il puntellamento delle illusioni della classe dominante nella classe lavoratrice.
Lottare per il recupero della sovranità nazionale contro l’Unione Europea non avvicina affatto la classe operaia alla rivoluzione bensì radica in essa l’illusione di poter disporre in regime capitalista di una quota percentuale di potere politico, con cui far valere i propri interessi nei confronti di quelli borghesi, senza che sia invece necessario strapparle il potere, che essa detiene per intero, con la forza.
Compito del partito comunista è battersi contro ogni intermedismo, contro ogni preteso utile obiettivo politico all’interno del regime politico borghese che distragga la classe lavoratrice dal suo compito di abbatterlo per via rivoluzionaria.
L’impossibile pacifica spartizione della Libia fra i capitalismi europei e mondiali
In Libia sono in gioco due importanti questioni: la prima tratta principalmente di oro nero, la seconda dei nuovi assetti strategici nel vasto scacchiere del Mediterraneo orientale. Naturalmente gli accordi più importanti tra gli Stati su questi temi vengono stipulati lontano dai clamori dei mezzi di informazione, incaricati di deviare l’attenzione su temi pretestuosi: la lotta al terrorismo di matrice islamica, il traffico di esseri umani, gli sbarchi di clandestini, ecc.
È chiaramente fallito il piano, approvato dagli USA, di una stabilizzazione della Libia dividendola in tre parti, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, sotto la tutela di Italia, Inghilterra e Francia, le potenze europee con i maggiori interessi petroliferi nel paese. Si cercava così di adeguare le esigenze dei vari imperialismi alle reali possibilità di mediare gli instabili equilibri delle principali tribù locali, in lotta permanente per accaparrarsi una fetta maggiore della rendita petrolifera. Questo piano non è stato accantonato definitivamente perché al momento non ci sono alternative, dato che conciliare gli interessi di tutte le parti in conflitto è stato al momento impossibile.
Gheddafi ci riusciva, ma era il risultato di un movimento anticoloniale e nazionale che non c’è più, ora rimanendo solo le spinte centrifughe di 140 tribù. Di queste 30 hanno una valenza politica e tra queste 4 sono le più forti e importanti. Nell’ordine, la Warfalla, che abbandonò per prima il rais, il quale si appoggiava alla piccola tribù dei Ghadafa, insediata nella zona di Sirte. Seguono gli Zuwaya, nell’est a cui si sono associati i Tuareg del Fezzan, e la tribù degli Zintan, nell’Est della Cirenaica, che controlla il tratto di confine con la Tunisia e parte del deserto.
A guerra sul petrolio iniziata si è inserito il fenomeno del fondamentalismo islamico, al quale, per opportunismo, si sono aggregate varie preesistenti bande di briganti e sotto quelle false bandiere depredano e insanguinano il paese, complicando lo sviluppo della situazione.
In questo quadro il lavorio delle altre bande di briganti, gli imperialismi europei e degli altri Paesi interessati, procede alacremente, all’oscuro della “pubblica opinione”, chiamata alla bisogna ad emozionarsi a fronte di ondate di sbarchi di immigrati e di sciagurati naufragi in mare aperto.
La decisione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea nel giugno del 2016 non ha spostato la questione e il nuovo governo avrà l’identico compito di difendere gli interessi dell’imperialismo inglese su quelle sponde del Mediterraneo. Né è ancora chiaro quale sarà il profilato cambio di passo del capitale statunitense, che tira i fili della marionetta-presidente, come potrà difendere gli interessi di quel gigante in crisi. Nemmeno quali saranno le mosse del capitalismo russo, che si sta muovendo con energia in quel quadrante dopo che era stato messo da parte per non aver partecipato alla cacciata del rais. Notizie di questa metà di marzo parlano di truppe russe spedite segretamente in Egitto per appoggiare un eventuale intervento in Libia.
Riassumiamo l’origine di quella guerra con gli eventi recenti più importanti.
Il rapido intervento militare di Francia e Gran Bretagna nel marzo 2011 che, come emerse successivamente, avrebbe avuto scarse possibilità di successo senza il forte sostegno degli Stati Uniti, si dava lo scopo ipocrita di porre fine al sanguinario regime dittatoriale di Gheddafi e “portare la democrazia” nel Paese.
Alla fine è emersa la vera e principale causa del repentino attacco ordinato dal presidente Sarkosy, nonostante Gheddafi gli avesse prestato qualcosa come 30 milioni di euro per finanziare la sua prossima campagna elettorale in Francia. Sidney Blumenthal, già consigliere del presidente americano Bill Clinton e funzionario dell’omonima fondazione, il 2 aprile 2011 inviò una mail ad Hillary Clinton, l’allora Segretario di Stato, con cui la informava sul piano di Gheddafi per sostituire il Franco Cfa, ancor oggi utilizzato in 14 ex-colonie francesi nel Sahel, con un’altra moneta panafricana di nuova emissione. Il Sahel è la fascia sub-sahariana dall’Atlantico al Mar Rosso. Il Franco Cfa, istituito nel 1945 nel quadro degli accordi di Bretton Woods, al tempo era una moneta legata al Franco francese, al cambio fisso di 1 centesimo, controllata dalla Banca centrale parigina, che detiene ancor oggi nei suoi forzieri il 65% delle riserve delle ex-colonie. Oggi è legato all’Euro, al cambio di 656 Cfa.
Gheddafi, contando sull’enorme rendita petrolifera libica, perseguiva l’ambizioso progetto di costituire un’entità africana federata sotto la sua egemonia, completamente indipendente da Parigi, coinvolgendo in primis l’Africa francofona. La Francia, sicuramente ben informata su quelle intenzioni, e che intendeva mantenere il suo controllo sul Sahel, doveva impedirlo in ogni modo, sia per motivi economici, per non rinunciare ai convenienti prestiti che elargisce, sia politici, per continuare a tenere in pugno col ricatto monetario i bizzosi governi africani dell’area Cfa. Né vanno dimenticati gli interessi della francese Total nel Fezzan e in Cirenaica.
Furono contrari all’intervento la Russia e l’Italia. Qui era al governo Berlusconi, che poco tempo prima aveva ricevuto a Roma Gheddafi e la sua corte, con grande pompa e riverenze, dopo che i due nel 2008 avevano siglato un “Trattato di amicizia” per contrastare l’immigrazione clandestina dalla Libia, dicevano, compresa la fornitura italiana di naviglio costiero. Facevano parte del trattato interessanti accordi economici per la fornitura di materiale bellico, infrastrutture, ma anche cessioni di quote della Finmeccanica, commesse future e contratti vari per un totale di circa un miliardo di Euro.
Sappiamo com’è finita l’operazione per la democrazia in Libia dopo la liquidazione del rais: nel Paese, che era al primo posto in Africa nell’indice Onu di sviluppo umano (cosiddetto), ora è in balia di un permanente conflitto tra le tribù locali e le varie milizie, dentro e fuori l’islam, in un reciproco regolamento di conti tra fazioni.
Queste fanno riferimento ai due poli libici principali di Tripoli e Tobruk, cui corrispondono due canali paralleli e concorrenti per l’esportazione del petrolio. L’affare del petrolio libico, di ottima qualità e basso costo di estrazione, vale almeno 130 miliardi di dollari, è il 38% del petrolio del continente africano e copre l’11% dei consumi europei; il 70% delle riserve petrolifere si trova in Cirenaica, date in concessione prevalentemente a società inglesi e francesi.
Ma in questo momento ad estrarre petrolio e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni, che si garantisce quella posizione perché riesce a manovrare, con evidente successo, tra le varie fazioni in gioco e in concorrenza reciproca. In ballo per l’Italia c’è anche la perdita di ben 5 miliardi di Euro in commesse per impianti e infrastrutture, non eseguibili in queste condizioni, come risulta dai diversi rapimenti di tecnici italiani da parte di bande criminali locali, finiti con pagamenti di onerosi riscatti, ma anche con la morte di due ostaggi per “fuoco amico” durante un’operazione militare per liberarli.
È una situazione mal sopportata dagli altri paesi europei e dagli USA, che richiedono un intervento militare italiano in Libia di almeno 5.000 uomini per un maggior controllo del territorio. Ma un altro intervento militare, visti i disastri provocati dal primo, comporterebbe costi imprevedibili.
L’italica borghesia, su richiesta del “premier” Serraj, nel settembre 2016 ha impiantato un ospedale da campo presso Misurata, con circa 500 uomini tra medici, infermieri, addetti alla logistica ed alla protezione, e nel gennaio 2017 ha riaperto la sua ambasciata a Tripoli, da tempo distrutta e saccheggiata, prima e al momento unica rappresentanza diplomatica europea, subito accolta con l’esplosione di un’autobomba nelle vicinanze. Lo scopo ufficiale assegnato alla delegazione ha dell’incredibile: unificare l’Ovest con l’Est!
Esclusa l’opzione militare, quella politica è veramente ingarbugliata per la presenza sia di sedicenti “uomini forti” locali sia di quei “pompieri incendiari” del mondo arabo che tirano i fili di questi mercenari.
L’Egitto manovra il “signore della guerra” generale libico Khalifa Haftar, ex grande collaboratore di Gheddafi divenuto successivamente suo oppositore. Rifugiatosi negli Usa sotto la protezione della Cia, il generale è ritornato in Libia cercando di assumere un ruolo guida nel nuovo regime. Le milizie che lo seguono sono predominanti in Cirenaica, regione che è sempre stata considerata dai nuovi e vecchi faraoni come una provincia egiziana ed era già stata richiesta, senza successo, anche nel riassetto territoriale dopo la Seconda Guerra mondiale. Haftar, dopo i suoi incontri a Mosca a novembre con i ministri degli esteri e della difesa russi, lo scorso gennaio è stato ricevuto con grande visibilità sulla portaerei russa Kuznetsov, al largo della Cirenaica, a riprova dell’interesse della Russia per un’eventuale base militare nel paese, ad affiancare a, se non a sostituire, quella di Tartus sulle coste siriane. La Russia conserva ancora i vecchi contratti per forniture militari di due miliardi di dollari stipulati con Gheddafi, che ovviamente vorrebbe concludere con chi è in grado di pagare, o concedere qualche cosa di equivalente, nonostante sia ancora in vigore l’embargo dell’Onu sulla vendita di armi alla Libia.
Comprensibile quindi la triangolazione di interessi tra Putin, Al Sissi ed Haftar. Molto probabilmente il terzetto sa come aggirare le sanzioni, che però cadrebbero a fronte di uno Stato libico unico e “democraticamente eletto”. Basta aspettare e manovrare con accortezza, sapendo che, oltre alle riserve petrolifere, a garanzia dei pagamenti ci sono gli ingenti depositi dei fondi sovrani libici che con la caduta di Gheddafi sono rimasti congelati nelle banche straniere, principalmente a Londra e a Roma.
Il Qatar lubrifica con dollari in quantità le armi degli “islamisti radicali” di Tripoli; la Turchia ha rispedito in Libia dalla Siria i jihadisti libici per la Guerra Santa nel golfo della Sirte; gli Emirati Arabi Uniti, puntando in alto per sostenere Tobruk, si erano comprati con un fasullo incarico da 50.000 euro al mese il precedente mediatore Onu, lo spagnolo Bernardino Leòn, costretto alle dimissioni nel novembre 2015. Nulla di strano o di nuovo nelle contese tra bande imperialiste.
Ma nemmeno i successori dello spagnolo hanno avuto calorosa accoglienza e vita facile, come l’ex primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese Salam Fayyad, proposto a quell’incarico dal Segretario Generale dell’Onu nel febbraio 2017, bloccato subito dal veto dell’amministrazione statunitense.
A Tripoli la situazione è ancora più complessa, nonostante gli accordi di Skhirat nel Marocco del dicembre 2015 tra i rappresentanti dei parlamenti di Tripoli e di Tobruk per la formazione di un Governo di Accordo Nazionale, affidato a Fayez al-Sarraj, sotto l’egida dell’Onu, di Obama e delle maggiori potenze interessate. Questo Serraj è privo di potere reale e consenso pubblico; a Tripoli ci è potuto arrivare solo via mare e vive confinato nella base navale di Abu Sitta, dove imbarcazioni veloci ed elicotteri sono pronti, alla bisogna, a scortarlo in luoghi sicuri. Suo compito, per unificare il paese, sarebbe di formare un governo di unità nazionale che includa più forze politiche, comprese quelle islamiche moderate, cosa sicuramente non facile.
Nonostante il suo governo sia riconosciuto dall’Onu non controlla nemmeno tutta la città di Tripoli, tanto meno l’area di Mellitah dove ci sono i terminali dell’Eni. Il traffico dei migranti, che dovrebbe contrastare, punto cardine dei recenti incontri a Malta avvenuti ai primi di febbraio, avviene in gran parte nella zona di Sabrata, di poco ad ovest di Tripoli, gestito da bande criminali che, a suon di dollari, possono contare sulla “distrazione” delle forze militari ufficiali, le quali potrebbero anche rivoltarsi contro Serraj se ricevessero l’ordine di combattere quelle bande. È stato calcolato che il traffico dei migranti costituisce un terzo del Pil della Tripolitania.
Attualmente si stima che a Tripoli ci siano ben 38 formazioni armate di cui fra le più forti, tre, legate ai Fratelli Musulmani, sostengono Serraj, altre tre sostengono l’islamico Khalifa Ghwell, ex presidente del Consiglio e rivale del nuovo premier. Le formazioni maggiori a loro volta controllano quelle minori sparse sul territorio. Il passaggio di campo, per credo religioso, politico o di occasionale convenienza, è frequente e rapido.
Ad indebolire il potere di Serraj è stato anche un improbabile colpo di Stato portato il 12 gennaio scorso proprio da Ghwell, che non ha avuto alcuna conseguenza immediata.
Nonostante che pesi a favore di Serraj la recente liberazione della Sirte dal controllo del Califfato, il suo prestigio è in rapido declino, mentre cresce quello del generale Haftar, che vanta strette relazioni con Putin e Al Sissi ed ambizioni a capo militare.
Haftar, nel maggio 2013, con le sue milizie, stimate in 30.000 uomini e ben organizzate in un Esercito Nazionale Libico, aveva lanciato l’operazione “Dignità”, volta a combattere l’estremismo islamico, e non solo, conseguendo buoni risultati. Si pone quindi un dualismo di forze, considerato anche il fatto importante che l’Esercito Nazionale garantisce la sicurezza dei terminali petroliferi in Cirenaica. Per contro il parlamento di Tobruk, eletto nel 2014, ma non riconosciuto ufficialmente dagli organi internazionali, è molto geloso del suo potere e non ha mai accettato quello di Tripoli, tanto che sono sempre saltati tutti gli incontri organizzati tra Serraj e Haftar.
Visto il sostegno dell’Italia al governo tripolino, Haftar ha rifiutato gli aiuti italiani e ha considerato l’apertura dell’ambasciata italiana un gesto di “neocolonialismo”.
Ha anche considerato “carta straccia” l’accordo firmato a Malta sui migranti, secondo i quali l’Italia dovrebbe svolgere un ruolo di primo piano e di coordinamento generale. Negli anni scorsi l’Italia era stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani per i “respingimenti”, ovverosia per la sua azione tesa a riportare all’interno delle acque territoriali libiche i gommoni intercettati. Questo blocco navale ora dovrebbe essere svolto dalla guardia costiera libica mentre navi della marina militare italiana avranno il ruolo di pattugliamento e soccorso fuori dalle acque territoriali libiche. La guardia costiera libica al momento dispone di nove motovedette, a suo tempo consegnate ma riparate in porti della Tunisia per evitare che cadano in mano di bande criminali o ostili al governo ufficiale. In quelle acque infatti incrociano indisturbate flotte di contrabbandieri e trafficanti, che trasportano armi e rifornimenti per tutte le parti in conflitto.
Come si vede la situazione non è affatto in via di soluzione. A Malta è stato firmato un Memorandum d’intesa che non solo non definisce la partizione dei carichi economici sul bilancio della UE, ma non risolve la questione di fondo: quale è il governo, o autorità simile, a rappresentare un paese in cui coesistono in concorrenza tra loro tre pseudo governi: Serraj, che di fatto non è nemmeno il sindaco di Tripoli, l’islamista Ghwell, insediato in un albergo di Tripoli, lo spavaldo generale Haftar che da poco e a fatica è riuscito a avere il completo controllo di Bengasi.
È ovvio che a risolvere l’attuale situazione di stallo fra gli imperialismi in Libia, che è la continuazione della guerra iniziata nel 2011, non potrà essere un’altra volta che la guerra.
Riunione generale del partito
Firenze, 27-29
gennaio 2017
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Resoconto dei compagni venezuelani |
La riunione si è svolta ottimamente, secondo la nostra prassi, in pieno ordine ed attenzione, sia nella parte organizzativa, di valutazione del fatto e dei piani del da fare, sia nell’esposizione dei numerosi rapporti. Qui, al solito, ne diamo ai lettori una breve prima sintesi.
Quello che sosteniamo essere l’embrione del grande partito della rivoluzione comunista distruttrice internazionale del capitalismo vive oggi nella determinazione della nostra piccola compagine di militanti disciplinati al programma storico e informati alla nostra scienza di classe e tradizione di guerra sociale.
Nell’utile sovrapporsi e sano succedersi delle generazioni di comunisti si tratta per il partito di tramandare dei moduli interpretativi sia del mondo sia di sé stesso che sono la dialettica e drastica negazione di quelli borghesi.
Il capitalismo nel suo ingigantire e ammorbare tende inesorabilmente a imporre sempre più estese e pressanti le premesse della sua distruzione e del suo rovesciamento nel comunismo, e il partito già nella società presente rappresenta quel compiuto superamento, anti-individualista e anti-mercantile.
Se la classe operaia vive tuttora nella società della mercificazione dell’uomo e della guerra interspecifica, il suo partito rivoluzionario è nelle condizioni di valutarla e combatterla già dall’esterno. Il sindacato è immerso nell’ambiente della concorrenza, e il mercanteggio sul prezzo della forza lavoro è il suo scopo costitutivo; ma il partito non è il sindacato, solo si ripropone di dirigerlo dall’esterno. Anche il soviet, lo Stato della dittatura proletaria, l’esercito rosso sono strumenti indispensabili, organi della classe operaia, nei quali è inevitabile l’influenza, minoritaria, di altri indirizzi non comunisti. Ma il partito non è il soviet, non è lo Stato, non è l’esercito, e contrasta con la sua natura e coi suoi fini l’adottare al suo interno i metodi del sindacato, del soviet, dello Stato, dell’esercito.
Non nel senso che nel partito si apra uno spazio di libertà policentrica e a disciplina allentata: al contrario, solo nel partito comunista, a differenza che negli altri corpi intermedi funzionali fra il partito e la classe, è possibile una superiore forma storica di convergenza d’intenti e di lavoro, una disciplina (che vuol dire “imparare”), negatrice della democrazia, storica bandiera borghese.
In questo spirito ordiniamo anche i lavori alle nostre riunioni, e a quelle generali del partito in particolare, un metodo, del resto, ricercato e tendenzialmente applicato in tutte le precedenti forme storiche del partito, dalla Lega dei Comunisti alla Prima Internazionale alla Terza nei suoi primi anni.
Alle riunioni lavoriamo a questo risultato, accogliere la ricchezza dei contributi provenienti dalla periferia, nelle diverse lingue e nella loro parzialità, per farli convergere e inserire nel grande e complesso edificio dell’unitario corpo di dottrina della nostra corrente di Sinistra Comunista, nel comune bagaglio interpretativo e nell’indirizzo che il partito rivolge alla permanente guerra sociale della classe operaia.
Storia dell’India: il movimento nazionale
Il compagno continuava i rapporti sulla storia dell’India descrivendo le organizzazioni indù e musulmane che si contrapponevano al regime coloniale fino al primo decennio del 1900.
Durante la prima sessione del Congresso Nazionale Indiano, svoltasi a Bombay nel 1885, poco rappresentata, oltre alla componente bengalese, fu la musulmana, poco presente nelle nuove professioni dalle quali veniva la maggioranza dei delegati, avvocati, medici, giornalisti e insegnanti. Ma alcuni grandi prìncipi vassalli, un certo numero di membri dell’aristocrazia maratha e alcuni industriali diedero un prezioso contributo finanziario.
A partire dal Congresso del 1887, tenuto a Madras, affluì un numero di grandi proprietari terrieri, mercanti e banchieri e anche piccoli e medi proprietari terrieri, capi villaggio e capi religiosi musulmani, cambiamento frutto della crescente pressione a cui queste classi erano sottoposte in seguito al processo di centralizzazione avviato dallo Stato coloniale.
Fu elaborata una moderna ideologia nazionalista. Critica del legame di dipendenza economica coloniale dell’India nei confronti della Gran Bretagna: il rovescio dei grandi meriti politici e sociali del Raj erano l’ininterrotto drenaggio di ricchezza.
Creazione di una moderna concezione di una nazione indiana, con rivendicazioni politiche non in quanto cittadini dell’impero ma parte di una nazione. Anche se in un territorio così vasto come l’India sembravano mancare quasi tutti quegli elementi oggettivi che, secondo l’ideologia del tempo, avrebbero dovuto caratterizzare un’identità nazionale. L’India in effetti, come non si stancava di ripetere la borghesia britannica, non era uniforme come razza, religione, cultura, e lingua. La risposta data dai primi teorici indiani non fu evidentemente materialista ma soggettiva: per Surendranath Baneijea, influenzato dagli scritti di Giuseppe Mazzini, una nazione veniva in essere quando i membri di una comunità rivendicavano un’appartenenza in un determinato territorio.
La benevola neutralità nei confronti del Congresso da parte dei vertici coloniali si trasformò nel giro di pochi anni in esplicita ostilità e le richieste del Congresso, nonostante la loro moderazione, erano state presto interpretate come al limite del sedizioso.
Tuttavia, al seguito che il Congresso si era procurato fra i notabili indiani era necessario dare una risposta: nel corso dell’ultimo decennio dell’Ottocento fu una serie di riforme amministrative. Tali provvedimenti furono giudicati del tutto inadeguati dal Congresso, ma raggiunsero l’obiettivo di aprire nuovi canali di collegamento fra i vertici coloniali e i notabili. Quest’ultimi si resero conto che potevano trattare su un piano di quasi parità con la classe coloniale. Come conseguenza, nella seconda metà degli anni Novanta, gran parte dei notabili abbandonò il Congresso.
Per il Congresso l’unico possibile rimedio era una strategia che mobilitasse dietro agli ideali del nazionalismo settori più ampi delle masse indiane. Opposizioni oggettive di classe lo rendevano però difficile. Le masse indiane erano prevalentemente rurali e generalmente molto povere. Certamente questo era anche il risultato dello sfruttamento coloniale, ma vi erano classi privilegiate, in particolare latifondisti e grandi mercanti, solo eccezionalmente inglesi, tra i beneficiari del sistema coloniale e molti di quei notabili sul cui appoggio il Congresso aveva contato e delle cui richieste politiche si era fatto carico. Per il Congresso farsi interprete delle esigenze delle masse contadine significava contrapporsi alle classi privilegiate indiane.
La lotta di classe però non era affatto nel programma di questa organizzazione, al contrario gli intellettuali nazionalisti, che ben conoscevano la miseria e la discriminazione sociale, ritenevano tuttavia che mobilitare le masse avrebbe indebolito il movimento nazionalista, contrapponendo una parte del popolo, gli sfruttati, alle classi dominanti indiane. Pur di non schierarsi con i diseredati il Congresso preferì, nella seconda metà degli anni Novanta, perdere il suo peso politico.
Si intensificarono alcune tensioni interne, la vecchia dirigenza moderata fu sfidata da una nuova corrente più radicale, “estremista”, ma socialmente altrettanto conservatrice. La loro intransigenza politica era accompagnata da una timidezza verso le riforme socio-economiche non diversa da quella dei moderati. Riuscirono ad aprirsi un varco solo ricorrendo all’utilizzo politico dell’induismo, un linguaggio di metafore e figurazioni della tradizione religiosa indù. Per quanto l’induismo politico diventasse sempre più popolare in quegli anni fra la piccola borghesia urbana indù e gli studenti, non diede un seguito di massa al nazionalismo. L’induismo si rivolse ai contadini colpiti dalla grave carestia nel Deccan del 1896, ma anche al nascente proletariato di Bombay, mostrando di voler tutelare i diritti sindacali dei lavoratori, ma solo quelli che non dipendevano dal padronato indiano, con cui l’induismo cercò di stabilire buoni rapporti.
Frattanto cresceva la tensione anche nell’ambito dei cosiddetti musulmani occidentalizzati, parte dei settori superstiti dell’aristocrazia moghul, la cui dirigenza politica era però strettamente legata agli inglesi.
In questa complessa situazione, le correnti antibritanniche, sia nell’ambito del Congresso sia tra i giovani musulmani occidentalizzati, furono alimentate dalla politica inglese che varò una serie di provvedimenti in un’ottica di riduzione dei costi.
Nel Congresso la lotta si focalizzò su due richieste avanzate dagli “estremisti”: di una forma di autogoverno identica a quella già goduta dai dominions “bianchi” e di allargare il movimento di boicottaggio a tutta l’India. Nel 1907, a Surat, i lavori del Congresso si risolsero con la maggioranza moderata che formalizzò l’espulsione degli estremisti.
La scissione del Congresso diede alle autorità coloniali la possibilità di intervenire con mano pesante. I principali capi e i più attivi militanti della corrente estremista furono arrestati e, in genere, condannati a dure pene detentive. Nella primavera del 1908, il Nuovo Partito estremista venne disperso e ridotto all’impotenza. Rimase ancora attivo un movimento terrorista, che fu presto infiltrato dal Central Intelligence Department della polizia indiana e, per quanto potesse essere pericoloso per i singoli inglesi, era lungi dal rappresentare una minaccia reale per lo Stato coloniale.
Il rapporto sul corso della crisi economica mondiale appare già nelle pagine successive di questo stesso numero
Lezioni dalla mancata rivoluzione in Germania
È proseguito lo studio e la riesposizione dei lavori di partito dedicati alla mancata rivoluzione in Germania.
Dopo aver esposto alla riunione generale di maggio 2016 la disamina “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania”, siamo passati al paragrafo “Immaturità dello schieramento rivoluzionario in Europa negli avvenimenti in Germania del 1920-21”, dedicato alla particolare situazione in Germania nella più ampia trattazione “Il processo di degenerazione della Terza Internazionale”. Tale paragrafo si raccorda al lavoro esposto precedentemente, descrivente i fatti accaduti sino alla settimana spartachista dei primi del 1919, e percorre gli anni 1919, 1920, 1921.
Formatosi il 1° gennaio 1919, il Partito Comunista Tedesco contiene già in sé tutte le deficienze teoriche e tattiche che lo accompagneranno alle sue future sconfitte. Il difetto consiliarista non risparmia nemmeno Rosa Luxemburg e Carlo Liebknecht. Rosa propone di uscire dai sindacati, infeudati dall’opportunismo, facendone assumere i compiti dai consigli operai. Carlo il 5 gennaio 1919 accetta di partecipare ad un piano insurrezionale insieme agli Indipendenti di sinistra e ai Capitani Rivoluzionari, ma già il giorno dopo gli Indipendenti ritirano il loro appoggio al Comitato Rivoluzionario di Berlino, preparando il terreno agli sbirri di Noske. Rosa e Carlo furono assassinati il 15 gennaio.
A febbraio si apre nella Ruhr la campagna per la “socializzazione” delle miniere: ancora una volta la dirigono insieme spartachisti, indipendenti e maggioritari. Ne seguirà, dopo l’ennesimo tradimento socialdemocratico, un bagno di sangue. La stessa sorte subirà pochi giorni dopo nella zona di Halle la campagna per la “socializzazione dal basso” delle imprese. Una nuova edizione del “Comitato di sciopero a tre” a marzo a Berlino si risolverà anch’esso in una nuova tragica sconfitta, 1.500/3.000 massacrati, tra i quali una delle figure più importanti della sinistra tedesca, Leo Jogiches.
Ad aprile a Monaco si inscena la farsa atroce della proclamazione della Repubblica Bavarese dei Consigli, voluta dagli indipendenti e dai maggioritari, che riusciranno a coinvolgere anche i comunisti, per consegnarli subito dopo alle forze della repressione.
Con la fine del 1919 il KPD entra in contatto più stretto con la Terza Internazionale, che in quel periodo riesce a rompere l’isolamento a cui la costringeva la guerra civile in Russia. Da allora in poi l’Internazionale elaborerà tutte le risoluzioni politiche e tattiche che riguardano l’Occidente in funzione della Rivoluzione Tedesca. Inizia un influenzamento reciproco fra KPD e IC che sarà una delle cause della degenerazione dell’Internazionale stessa.
La prova più evidente di quanto il KPD fosse fuori dai binari del marxismo si ha nell’episodio del putsch di Kapp. Nonostante la nascita della Repubblica, infatti, la borghesia non dormiva sonni tranquilli poiché il proletariato tedesco era stato battuto ma non sconfitto. Inoltre il trattato di Versailles era stato un duro colpo per la nazione. In questa situazione fu deciso il putsch di Kapp. Ne sono solo apparenti artefici principali il comandante delle truppe di Berlino Von Lüttwitz, e Wolfgang Kapp, uomo degli Junker e degli alti funzionari statali. Il 13 marzo 1920 Lüttwitz occupa Berlino destituendo il governo di Ebert.
Immediata è la reazione del proletariato tedesco in seguito al quale si instaura un Comitato d’Azione comprendente SPD, USPD e sindacati: è proclamato lo sciopero generale, tutta la Germania si ferma.
In un primo momento il KPD dichiara che lo scontro tra repubblica e monarchia non interessa direttamente gli operai e che il partito avrebbe invitato gli operai allo sciopero generale solo nella prospettiva della presa del potere, non certo per salvare Ebert e Noske. Tale posizione sarebbe stata giusta se quelle di Kapp altro non fossero state che reminiscenze guglielmine. Ma, al di là delle forme, Kapp era la borghesia che voleva farla finita con la insubordinazione del proletariato. Questo, ancor prima che dal KPD, è intuito dagli operai, che bloccano in un giorno tutta la Germania. Solo a questo punto il KPD muta completamente posizione e proclama: «Per lo sciopero generale! Abbasso la dittatura militare! Abbasso la democrazia borghese! Tutto il potere ai consigli operai!».
Il 17 marzo Kapp e Lüttwitz si danno alla fuga ma lo sciopero non si placa. SPD, USPD e sindacati decidono di continuarlo nell’intento di controllare la situazione. La socialdemocrazia, messa alle strette, escogita la prospettiva del “governo operaio”, formato da “partiti operai”. A questo punto le organizzazioni sindacali, viste le “buone intenzioni” del nuovo governo Mueller, decidono per la cessazione dello sciopero. Il proletariato abbocca, ma quello che è molto più grave abbocca il KPD. Scrive “Rote Fahne” il 26 marzo: «Il KPD pensa che la costituzione di un governo socialista creerà condizioni estremamente favorevoli all’azione energica delle masse».
L’episodio evoca lo spettro del Governo Operaio molto prima di quanto farà la Terza Internazionale e fa affiorare nel KPD l’anima legalitaria. È espulsa dal Partito l’ala consiliarista. Il 5 aprile una conferenza di opposizione alla centrale di Levi, che aveva assunto la direzione del KPD dopo i fatti del 1919, porta alla fondazione del KAPD, Partito Comunista Operaio tedesco.
Il risultato di una profonda confusione di indirizzo politico dello stesso Esecutivo dell’Internazionale sarà il suo l’invito, durante il Secondo Congresso, ai tre partiti “operai” (ala sinistra USPD, KPD, KAPD) di fondersi in un unico partito sulla base delle 21 condizioni di ammissione. Il problema di fondo per l’Internazionale è creare in Germania un partito numeroso, che abbia peso organizzativo e seguito fra gli operai. Lo stesso Zinoviev interverrà in ottobre direttamente al congresso dell’USPD ad Halle auspicando una spaccatura del Partito Indipendente. Effettivamente l’USPD si scinde in due e più della metà dei suoi aderenti segue l’Internazionale. Il Comitato Centrale del KPD saluta benevolmente la rottura avvenuta ad Halle auspicando al più presto la fusione. A dicembre a Berlino l’unificazione avverrà, però, solo tra Indipendenti di sinistra e Spartachisti. Il KAPD non aderirà al nuovo Partito, preferendo rimanere partito simpatizzante della Terza Internazionale.
Il Partito Comunista Tedesco Unificato (VKPD) è un partito di massa, ha 400.000 iscritti ed una direzione paritetica fra ex Spartachisti ed ex Indipendenti, Levi e Däumig ne sono i due presidenti.
Levi è l’antesignano del Fronte Unico Politico. L’8 gennaio 1921 pubblica, in stretta collaborazione con Radek, una Lettera Aperta diretta alle centrali sindacali, al SPD, all’USPD e al KAPD, nella quale si invitano le “organizzazioni operaie” tedesche ad unirsi su una piattaforma unitaria per la difesa immediata dei lavoratori. I tempi e i modi con cui venne posta seminarono grande confusione nel Partito: a Monaco si hanno manifestazioni di nazional-bolscevismo; comunisti si mescolano alle dimostrazioni della borghesia contro l’Intesa; al Landtag i deputati comunisti presentano una mozione di protesta in comune con i deputati borghesi; nell’organo del VKPD di Baviera si preconizza il “Fronte Unico della gioventù”, si invitano gli studenti, che si erano distinti nella repressione della Repubblica dei Consigli di Baviera, ad unirsi agli operai in un “nuovo sentimento nazionale”...
Le ripercussioni in seno all’Internazionale sono di non poco conto e il partito si dibatte in una grave crisi. All’inizio del marzo del 1921 l’Esecutivo dell’I.C. spinge il VKPD all’azione. Il 16 marzo Brandler presenta un rapporto in cui sintetizza l’esigenza del momento: bisogna mobilitare le masse. Siamo alla nota “teoria dell’offensiva”.
Ma il 19 marzo il socialdemocratico Hörsing, capo della polizia della Sassonia prussiana, fa occupare la guarnigione di Mansfeld col chiaro intento di disarmare gli operai, ancora in armi dopo il putsch di Kapp. Il VKPD proclama lo sciopero generale e invita tutti gli operai alle armi. L’appello però viene raccolto solo nella Germania centrale. Scontri tra dimostranti e polizia si hanno ad Halle, Berlino, Dresda e Lipsia, ma già il 28 marzo appare chiaro che l’azione è fallita. Il 31 marzo il Partito stesso revoca l’azione. Ancora una volta il proletariato e il Partito Comunista subiscono una dura repressione. Il VKPD è duramente provato e vede di colpo dimezzare i propri iscritti.
Tutto il Terzo Congresso dell’I.C. è incentrato sulla critica dell’Azione di Marzo. Sono noti gli argomenti di Lenin, che si risolvono nella formula: prima di chiamare il proletariato all’azione decisiva bisogna essere sicuri di averne conquistato la “maggioranza” ai principî del comunismo.
L’Internazionale non fu in grado di comprendere la critica della Sinistra Italiana alla formula della “conquista della maggioranza”, che in occidente, in situazione di rinculo del movimento, non potrà non essere interpretata se non come un invito a cimentarsi sul piano legalitario e parlamentare. Non è buon metodo tentare di raddrizzare un errore per mezzo di un errore di segno opposto. Si indebolisce il Partito e si semina confusione nel proletariato. Non a caso dopo il Terzo Congresso l’Internazionale si pone su una china da cui non saprà più risollevarsi.
La questione militare - La Prima Guerra mondiale sul fronte italiano
L’esposizione della questione militare per la Prima Guerra mondiale, prima di presentare i movimenti sui diversi fronti, ne ha voluto chiarire la novità e differenza rispetto alle guerre precedenti da un punto di vista militare e strategico: un vero e proprio sistema industriale che distrugge risorse e vite umane per il rinnovamento del capitalismo. Un processo che inizialmente non fu ben compreso né dai capi militari né da quelli politici, che furono, loro malgrado o meno, coinvolti in un vortice del quale non avevano una idea chiara, e che pensavano di poter risolvere soltanto con organizzazione, ragionevoli riserve, volontà di vittoria e fatalistico consumo del materiale bellico meno costoso, quello umano.
I termini di questo tema sono stati chiariti dalla lettura di passi illuminanti di esponenti dell’alto comando austro-ungarico e prussiano, che hanno anticipato le teorizzazioni della Seconda Guerra mondiale. Questa, deflagrata dopo soli 20 anni dalla Prima, ne costituisce quasi la continuazione per la sistemazione definitiva di questioni non chiuse, anzi incancrenite, con la pace e gli strascichi politici della Prima, che non aveva risolto niente in ambito europeo sul piano della dinamica imperialistica degli Stati e aveva posto materialmente all’ordine del giorno la soluzione rivoluzionaria in Europa. La Seconda Guerra concluse le questioni tra Stati i quali, ammaestrati, sconfitti e vincitori, dagli errori alla chiusura della Prima, impedirono ogni possibilità rivoluzionaria, distrutto dalle fondamenta il partito internazionale di classe.
Tutto ciò garantì quindi una lunghissima pace capitalistica sotto il controllo della potenza due volte vincitrice, confinando guerre e conflitti nelle aree del cosiddetto Terzo Mondo, o alla periferia dei grandi paesi capitalistici.
La Prima Guerra mondiale fu segnata dal fallimento e tradimento delle socialdemocrazie nazionali, dall’ignominioso crollo della Seconda Internazionale i cui partiti si schierarono per i fronti bellici nazionali. La Seconda fu il disastro totale per il proletariato internazionale, tradito dal falso mito del socialismo “in un paese solo” e dal mito della guerra “contro i fascismi” per la difesa degli Stati democratici.
Le due guerre hanno in comune la distruzione industrializzata di risorse e vite umane, anche se con modalità differenti: di “trincea” la prima, almeno per i fronti europei ad ovest e a sud, di “movimento” la seconda. Sul piano militare nemmeno la correzione “corta” del piano Moltke rispetto all’originario Schlieffen per l’invasione della Francia, forzata dalla comprensione dell’alto comando tedesco della lentezza degli spostamenti e conseguente difficoltà di sostenere adeguatamente fronti in rapido avanzamento, portò all’annientamento sul fronte occidentale degli eserciti Alleati, ma si trasformò in un terrificante e massacrante scontro statico di guerra di trincea; anche le subitanee avanzate per la rottura dei fronti, ad esempio, sul fronte italiano, la rotta di Caporetto e la conseguente invasione del Veneto, si impantanarono poi in scontri statici, sanguinosi ma sterili (resistenza italiana sul fronte del Grappa).
Nella Seconda Guerra mondiale la Germania, che aveva fatta propria la lezione sull’impiego delle forze corazzate teorizzata dal compagno maresciallo Tukachewskij, operò diversamente con i mezzi tecnici a disposizione e con un concetto chiaro su come utilizzarli contro una forza militare organizzata secondo i criteri della precedente guerra. Guerra, la seconda, che si caratterizzò come “consumo dinamico” e fu vinta dalla potenza industriale degli Stati Uniti, esattamente come la Prima.
Per l’Impero austroungarico la guerra rappresentò l’estremo tentativo di contenere lo sfaldamento irresistibile del complesso statale della duplice monarchia, minato dalle spinte nazionalistiche delle diverse borghesie; solo l’esercito, in una peculiare forma composita austro-croata-bosniaca-ceca ed ungherese, rimase saldo sul fronte; almeno fino al 1918, quando le condizioni di consumo spropositato di risorse belliche, di viveri, di capacità industriali fu fatale tanto per l’Impero austriaco quanto per quello tedesco. E ciò causò lo sfaldamento lungo le linee di faglia nazionali dell’imperial-regio esercito, prima nella componente ceca, poi in quella ungherese. La vittoria fu della parte industrialmente più forte.
Scoppiata già da un anno la guerra, per la borghesia italiana il pretesto dell’allargamento dei confini nazionali portò ad un mercanteggio levantino del campo di alleanza, anche se da parte dell’alto comando austro-ungarico fu sempre chiaro come la cosa si sarebbe determinata e, malgrado le difficoltà legate all’intervento sul fronte russo-serbo, non mancò la pianificazione difensiva sul fronte italiano. La Germania tentò una improbabile mediazione.
Il Patto di Londra, con le incredibili promesse territoriali all’Italia, aprì un altro fronte contro gli Imperi Centrali. Ma le pianure del fronte occidentale, a sud, sul confine italiano-austriaco, si tramutarono in un accidentato e complesso fronte montano sul quale le teorie di manovre “alla Napoleone” ed una organizzazione dell’esercito totalmente inadeguata su tutti i piani, si arenarono miserevolmente in una guerra di trincea con una terribile impreparazione militare, di risorse e di armamenti che con undici offensive sanguinosissime richiesero un tributo spropositato di vite umane e risorse materiali.
Il tutto per conquiste territoriali che non permisero mai all’esercito italiano, condotto con criteri di spietata e criminale disciplina contro i propri soldati, uno sfondamento strategico del fronte avversario. Né nella quinta offensiva, che permise la conquista di Gorizia, obbiettivo solo propagandistico e di nessun valore militare, né nella undicesima, la più vicina al successo, con l’avanzata italiana sul desolato arido altopiano della Bainsizza, arrestata con una provvidenziale ritirata austriaca su posizioni ben più difendibili ed in grado di permettere una vigorosa e tremenda controffensiva.
Quanto fosse superiore la strategia di difesa elastica e controffensive locali fu dimostrato nell’offensiva austroungarica nel giugno 1916 sul fronte dell’Altopiano di Asiago (cosiddetto “del Trentino”) che piantò nelle linee italiane un cuneo che la tragica controffensiva del giugno 1917, sostanzialmente fallita ma sanguinosissima, non poté eliminare ma che neppure l’esercito non più guidato da Cadorna riuscì a spezzare se non dopo il crollo dell’esercito avversario.
Sostanzialmente la guerra sul fronte orientale, dell’Isonzo, si sviluppò in quattro fasi. La prima, dall’inizio del 1915 (il “Maggio Radioso”) fino all’inverno 1915-16, che mostrò in quattro inutili offensive l’effettivo straordinario logoramento di uomini e mezzi senza alcun risultato. La seconda fase, nel marzo-agosto del 1916, con la quinta offensiva, messa in campo per sostenere l’esercito francese impegnato nel ciclo offensivo di Verdun, e la sesta, con la “conquista” di Gorizia, continuò nel sistema del logoramento come criterio strategico. La terza fase nel settembre-ottobre-novembre dello stesso anno, nella settima, ottava e nona offensiva, segnò il cambio di paradigma con il concetto cadorniano delle “spallate”. Sospendere lo sforzo offensivo non significò meno morti, bensì più concentrati nel tempo della “spallata”, un urto più concentrato e deciso contro il fronte avversario. La quarta fase infine, nella primavera del ’17 vide la reintroduzione della manovra classica (in stile “napoleonico”) con la decima ed undicesima offensiva, la sola, questa, a permettere un vero guadagno territoriale e mettere in crisi l’esercito austroungarico.
In crisi a tal punto da costringere l’imperatore Carlo di Asburgo a chiedere l’aiuto della Germania, che interverrà con un concetto offensivo strategico completamente nuovo e micidiale, facilitato da una assurda, in termini militari, disposizione strategico-difensiva dell’esercito italiano.
(Riunione di gennaio: continuazione e fine al prossimo numero)
Riunioni regionali in Venezuela
La riunione della sezione venezuelana del partito, tenutasi a inizio marzo, ha visto la presenza di quasi tutti i nostri militanti.
Il compagno di ritorno dalla riunione generale a Firenze ne ha presentato un ampio resoconto. Oltre a vantare la bontà dell’organizzazione e la disciplina ordinata dei lavori, ha rappresentato l’importanza del contatto diretto fra compagni di lontane regioni del mondo, di assistere all’attività di diverse sezioni, di potersi scambiare valutazioni e raccomandazioni al fine di migliorare e intonare il nostro complesso lavoro.
Poi è stato letto e commentato il nostro testo “Partito e azione di classe”, del 1922.
Abbiamo quindi dato lettura dei testi che saranno pubblicati nel prossimo numero di “El Partito Comunista” e distribuiti i compiti di traduzioni, in particolare dei resoconti dei rapporti alle riunioni generali.
Si sono presi i necessari accordi per l’organizzazione, la propaganda, le finanze, la partecipazione di almeno un delegato alle prossime riunioni generali, che sarà preparata con la redazione collettiva di una relazione dettagliata del lavoro della sezione.
Attività sindacale in Venezuela
Alla riunione abbiamo anche diffusamente considerato la nostra attività nei sindacati e nelle lotte operaie.
È stato reso conto dell’andamento del movimento rivendicativo dei lavoratori dei tribunali in quiescenza, cui i nostri compagni danno il loro contributo organizzativo e di indirizzo. L’organizzazione di assemblee dalla città di Valencia si è estesa a tutto il paese fino, sabato 26 gennaio, ad un’assemblea nazionale a Caracas, alla presenza di oltre 200 delegati. A seguito di questa l’amministrazione ha convocato una serie di incontri, iniziati il 31 gennaio e proseguiti a febbraio e marzo, per discutere le rivendicazioni avanzate. Fra queste: l’aumento dei contributi assistenziali e loro erogazione mensile; l’aumento della pensione almeno a livello del salario minimo e raccordata agli aumenti stabiliti per i lavoratori attivi.
Alle assemblee vi è stata anche la presenza di lavoratori in servizio, ma in piccola misura per l’azione disfattista dei tre principali sindacati presenti nella categoria nonché per le intimidazioni dell’amministrazione. La partecipazione dei lavoratori attivi è una necessità evidente, ma è probabile che non sarà più possibile ottenerla con assemblee sul luogo di lavoro. D’altro canto è auspicabile che il movimento operaio giunga alla capacità di riunirsi prevalentemente fuori dei luoghi di lavoro, nelle sedi sindacali, fatto che favorisce il contatto coi lavoratori delle altre aziende e categorie ed ostacola la presenza delle spie del padrone.
Successivamente, nella riunione della sezione di Valencia del partito, svoltasi a metà marzo, si è fatto il punto sullo stato della Federazione del Lavoro dell’Asse Costiero, un coordinamento di sindacati di singole aziende negli Stati di Carabobo e Falcón costituitosi nel 2014, di cui abbiamo fatto cenno nei numeri passati. La FLEC è da tempo inattiva e si è allontanata dal movimento di base dei lavoratori; dobbiamo rinunciare a rianimarla e ad indirizzarne l’attività; invece è possibile cercare di organizzare direttamente un’azione unitaria del gruppo di quelle aziende in cui i lavoratori hanno mostrato disponibilità alla lotta.
Abbiamo approfittato di questi contatti con la classe anche per la diffusione del materiale del partito e delle sue posizioni. Benché non in grandi numeri, molti lavoratori hanno considerato e commentato i nostri documenti e spontaneamente li hanno riprodotti e diffusi.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Sciopero
internazionale dell’8 marzo 2017
Solo la lotta di classe può combattere l’oppressione sociale delle donne
La donna moderna è schiacciata dalla doppia oppressione: il capitalismo e la dipendenza familiare e domestica. All’oppressione della donna in quanto tale, per la donna proletaria, si è aggiunta quella del lavoro salariato, trasformando sempre più, in tal senso, la donna in uomo. Questa condizione può essere cambiata solo attraverso l’impiego dei metodi e dell’organizzazione di lotta e nella mobilitazione della classe proletaria.
Salutiamo lo sciopero odierno, a cui in Italia tutto il sindacalismo di base ha aderito, perché le rivendicazioni femminili devono essere accolte all’interno della lotta di classe di tutto il proletariato. L’azione diretta della classe lavoratrice è l’unica arma per ottenere una reale difesa della donna.
Ma tutte le rivendicazioni immediate sono effimere finché dura il regime borghese. L’emancipazione delle donne passa necessariamente per l’unione nella lotta con gli sfruttati: la causa della liberazione del genere femminile è irrealizzabile senza la distruzione di ogni forma di proprietà privata sui mezzi di produzione e di ripartizione, senza la partecipazione cosciente e volontaria delle donne all’organizzazione e all’attuazione della vita collettiva, senza il comunismo.
Il femminismo borghese invece prevede e lavora per l’unione e sottomissione delle donne proletarie alle donne della classe borghese, rigetta i principi e i metodi della lotta di classe, anche quando, per opportunismo, finge di sostenerla, e illude le donne oppresse che sia possibile, al di fuori dello scontro proletariato-capitale, ottenere quei diritti e quella parità sociale che in questa società è raggiungibile soltanto dalle esigue minoranze delle donne dell’alta borghesia, in combutta con gli uomini della propria classe, e proprio grazie allo sfruttamento e all’abbrutimento della massa delle donne. Ogni concessione all’ideologia femminista si traduce in un rafforzamento delle catene con le quali il regime attuale lega la stragrande maggioranza delle donne.
Per questo devono battersi per rivendicazioni immediate in una lotta difensiva contro il capitalismo. È nel corso di questa lotta, inizialmente difensiva, che le donne proletarie si renderanno conto che se vorranno affrancarsi dallo sfruttamento dovranno passare all’attacco contro il regime stesso e all’abbattimento di tutti i mezzi coercitivi che si frappongono alla realizzazione dei loro bisogni, primo fra tutti lo Stato borghese.
La lotta difensiva è compito del sindacato di classe, che deve organizzare la lotta per la parità di trattamento nonché per la riduzione dell’orario (fondamentale per alleviare il peso del lavoro domestico), mentre quella offensiva può essere condotta solo dal partito comunista rivoluzionario.
VIVA LA CLASSE OPERAIA
Unita e organizzata nel sindacato di classe
Diretta dall’autentico partito comunista rivoluzionario
Spezzerà tutti i suoi numerosi nemici e questo infame regime di sfruttamento
L’arresto del Coordinatore nazionale del SI Cobas pone alcune importanti considerazioni.
- La reazione degli operai iscritti e militanti nel SI Cobas – con scioperi in decine di aziende, che hanno colpito effettivamente l’attività produttiva del settore, prontamente iniziati non appena si è diffusa la notizia dell’arresto, e con un robusto presidio di due giorni davanti al carcere modenese – conferma come questo sindacato si sia guadagnato la fiducia dei lavoratori e come stia loro insegnando ad agire secondo i metodi e i principi d’azione della lotta di classe. Infatti gli operai hanno difeso il loro sindacato con l’atto pratico della lotta e non con generici appelli alle istituzioni dello Stato borghese o ad alla cosiddetta “società civile”, come quasi sempre fanno gli altri sindacati, sia di base sia di regime.
- Il fatto che l’apparato poliziesco dello Stato borghese italiano abbia tentato di colpire il vertice nazionale del SI Cobas conferma che la sua azione sindacale si attesta sul giusto terreno della lotta di classe, e per questa ragione è fonte di preoccupazione per la classe capitalista in Italia, come già indicato dalle centinaia di episodi repressivi di questi ultimi sei anni: discriminazioni, licenziamenti, attacchi violenti contro i picchetti, arresti, denunce, fogli di via.
- Quasi tutti i mezzi d’informazione di quella che viene spacciata come la libera stampa, radio e televisione, per anni hanno del tutto ignorato i duri scioperi organizzati dal SI Cobas. All’improvviso, quando si è trattato di infangarne il prestigio, per colpirne la forza, il suo nome è apparso in tutti i notiziari, alcuni dei quali l’hanno definito “il sindacato più combattivo”, come a dimostrare ai lavoratori che anch’esso si vende, e che quindi non c’è speranza di riscossa per la classe operaia. Non esiste nessuna “stampa libera” nel capitalismo ma solo la stampa borghese e quella proletaria. I lavoratori, col sindacato, devono anche darsi propri organi di stampa e non fare alcun affidamento su quelli estranei alle proprie organizzazioni di lotta.
- La CGIL Emilia Romagna e la FILT-CGIL di Parma in due comunicati non hanno perso l’occasione di sputare veleno contro il SI Cobas e di dimostrare ancora una volta di essere un sindacato del regime della classe dominante, contro la classe operaia.
- Le due principali confederazioni sindacali di base, USB e CUB, si sono distinte per il loro silenzio, rifiutandosi non solo di imbastire una qualsivoglia azione ma persino solo di esprimere la propria solidarietà al SI Cobas. Di peggio è riuscito a fare l’esecutivo nazionale della Confederazione Cobas che ha chiesto alla stampa borghese di evitare ogni accostamento con il SI Cobas. Si sono schierate al fianco del SI Cobas solo la Cub Trasporti, la Allca Cub, l’SGB e l’area di minoranza in Cgil “Il sindacato è un’altra cosa”. Questa ennesima miserevole condotta delle dirigenze di questi sindacati di base, che da anni, col loro settarismo, impediscono l’unità d’azione dei lavoratori, conferma la necessità che i lavoratori e i militanti di queste organizzazioni si battano contro di esse dirigenze, per imporre un indirizzo sindacale veramente classista.
- Questo attacco al SI Cobas non è stato il primo e non sarà certo l’ultimo. Il capitalismo affonda ogni giorno di più nella sua crisi economica mondiale, e per rimandare il suo precipitare deve sfruttare sempre più la classe operaia, attaccandone e peggiorandone le condizioni di vita e di lavoro. Per la borghesia impedire la rinascita di un grande sindacato di classe, colpendo le ancora piccole organizzazioni che marciano in quella direzione, è una questione vitale, come lo è per i lavoratori battersi oggi in loro difesa e per il loro rapido ed efficace rafforzamento, se non vogliono essere schiacciati dal peso di questo modo di produzione morente.
- Il capitalismo marcia verso l’unica soluzione borghese alla sua crisi economica: la terza guerra mondiale. La ricostruzione del sindacato di classe è necessaria ad affasciare le forze dei proletari, anche a livello internazionale, creando il fondamentale sentimento di fratellanza ed unità, ponendo un freno al più bieco sfruttamento. Ma non è sufficiente per impedire questa prospettiva. L’unico modo per impedire la guerra imperialista è la sua trasformazione in rivoluzione: girare il fucile che i padroni daranno in mano agli operai, per sparare sui loro fratelli di classe degli altri paesi, per puntarlo contro il proprio regime borghese nazionale. Questo compito può essere assolto solo da un autentico partito comunista rivoluzionario, internazionale, che lotti spietatamente contro tutti i partiti opportunisti, i falsi partiti comunisti, e che sappia guadagnarsi la fiducia dei lavoratori col suo indirizzo e con la sua condotta pratica nel campo della lotta sindacale.
LONG LIVE THE WORKING CLASS - United and Organized in a Class Union - Conducted by an Authentic Revolutionary Communist Party - To Break with its Enemies and this Regime of Exploitation
The arrest of the National Coordinator of the SI Cobas raises some important considerations.
- The reaction of the workers members and activists in the SI Cobas - with strikes in dozens of companies, has actually hit the productive activity of the sector, was promptly initiated with the news of his arrest, organizing also a strong garrison around the Modena prison that lasted two days- confirms that this union has gained the confidence of the workers and how it is teaching them to act according to the methods and principles of action of class struggle. In fact, the workers defended their union with the practical act of the struggle and not with generic appeals to the institutions of the bourgeois state or the so-called "civil society", like both rank and file and Regime unions almost always do.
- The fact that the police apparatus of the Italian bourgeois state has attempted to hit the national leadership of the SI Cobas confirms that their union’s action is grounded in the class struggle. For that reason the SI Cobas worries the Italian capitalist class as already indicated by the hundreds of acts of repression occurring over the last six years: blacklists, layoffs, violent attacks on pickets, arrests, arrests and deportations.
- Almost all the so called free press, radio and television, has for years completely ignored the hard fought strikes organized by SI Cobas. Suddenly, when it comes to tarring the SI Cobas’ prestige, its strength, SI Cobas has appeared all over the news, even being called "the most combative union", as to demonstrate to workers there is no hope of rescue for the working class. There is no "free press" in capitalism only a bourgeois press and a proletarian press. Workers, with the union, must also yield their own press and not rely on those outside their own organizations of struggle.
- The Emilia Romagna CGIL and Parma FILT-CGIL unions have not missed an opportunity to spit poison against the SI Cobas and proven once again to be servants of the ruling class regime and against the working class.
- Two major rank and file trade union confederations, USB and CUB, have distinguished themselves by their silence. Not only have they refused to take any action but haven’t even expressed their solidarity with the SI Cobas. Worse, the national executive of the COBAS Confederation (another rank and file union) has asked the bourgeois press to avoid any association with it and the SI Cobas. Siding with SI Cobas only CUB Transportation, the Allca CUB, the SGB and CGIL minority group "The union is another thing". The miserable conduct of the leaderships of these base unions, which for years, with their sectarianism, have impeded the unity of workers action, confirms the need for workers and activists of these organizations to fight against their leadership, and impose a truly classist direction.
- This attack on SI Cobas was not the first and will not be the last. Capitalism sinks every day more into world economic crisis, and to slow its fall it must increase the exploitation of the working class by attacking the class’ living and working conditions. For the bourgeoisie to prevent the rebirth of one big Class Union, attacking even small organizations moving in that direction, is a vital issue, because workers need to fight today in their own defence and for the union’s quick and effective strengthening, if they do not want to be crushed by the weight of this dying mode of production.
- Capitalism’s march is to the only bourgeois solution of its economic crisis: World War III. The reconstruction of the class trade union is required to focus the forces of the proletariat, internationally, by creating the fundamental feeling of brotherhood and unity, putting a stop to the most sinister exploitation. But it is not enough to prevent this perspective. The only way to prevent the imperialist war is its transformation into a revolution: to turn the gun that the masters will place in the hands of workers to shoot their class brothers in other countries, to turn it against their own ruling class regime. This task can only be accomplished by a genuine revolutionary international communist party, which fights mercilessly against all the opportunist parties, the false communist parties, and knows how to win the confidence of the workers with its methods and its practical conduct in the field of trade union struggle.
L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil
8 anni di tradimento degli interessi operai
Il
nuovo contratto
Dopo il primo incontro unitario del 5 novembre 2015 fra Federmeccanica e i sindacati confederali Fim, Fiom e Uilm, il 22 dicembre l’associazione degli industriali del settore presentava una sua proposta per il rinnovo del contratto che partiva dall’affermazione secondo cui il precedente contratto – quello separato del 2012-2015 – aveva assegnato un aumento salariale ai lavoratori che sarebbe risultato, a dir loro, superiore di 73 euro rispetto l’effettivo aumento dell’inflazione. Gli industriali quindi proponevano: nessun incremento del salario per il 2016 e, dagli anni successivi, aumenti definiti a livello aziendali e non per tutti ma solo per una parte minoritaria ai livelli salariali bassi.
Il Comitato centrale Fiom dell’8 gennaio sostanzialmente si limitava alla vaga affermazione di voler cercare un’intesa che rafforzasse il potere d’acquisto di tutti.
Il 14 gennaio gli esecutivi di Cgil, Cisl e Uil approvavano all’unanimità un documento – intitolato “Un moderno sistema di relazioni Industriali - per uno sviluppo economico fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro” – con cui procedere ad una trattativa con gli industriali per un accordo di riforma del sistema contrattuale.
Il documento affermava necessaria «una riconsiderazione della composizione quantitativa e qualitativa» del contratto nazionale e che «l’obiettivo di Cgil, Cisl e Uil è quello di rafforzare, quantitativamente, attraverso una sua maggiore estensione e, qualitativamente, attraverso un regolato trasferimento di competenze, la contrattazione di secondo livello, con l’obiettivo di realizzare il miglioramento delle condizioni di lavoro con la crescita della produttività, competitività, efficienza, innovazione organizzativa, qualità, welfare contrattuale» e, chissà poi come, «conciliazione dei tempi di vita e di lavoro».
La strada indicata per i futuri contratti nazionali di categoria – già imboccata coi precedenti recenti rinnovi – è quella, da un lato, del loro svuotamento, rimandando la definizione di sempre più materie alla contrattazione di secondo livello (aziendale, territoriali, di filiera) conservando solo quella dei minimi salariali, dall’altro, il renderli uno strumento per rafforzare la «governance delle relazioni industriali», traduciamo: difendere il ruolo dei sindacati di regime, contro il sindacalismo di classe, mediante l’applicazione del Testo Unico sulla Rappresentanza («occorre rendere pienamente attivo il nuovo sistema della rappresentanza»). Altro pilastro dell’intesa era il rafforzamento del cosiddetto welfare aziendale e degli enti bilaterali («formazione continua gestita dai Fondi Interprofessionali»).
Nulla di nuovo ma l’intesa imprimeva una ulteriore spinta in quella direzione, che la Fiom raccoglierà riuscendo ad andare, come vedremo, oltre. Con buona pace di chi, nell’area de “Il sindacato è un’altra cosa”, aveva indicato nella segreteria nazionale un possibile alleato per fermare la modifica del modello della contrattazione.
Il Comitato Centrale Fiom del 7 marzo nel suo documento di maggioranza si rallegrava dei «passi in avanti» della trattativa «in materia di sanità integrativa, previdenza complementare e formazione professionale» ma registrava «notevoli distanze in materia di salario», e quindi affermava che, qualora nell’incontro previsto per il 15 marzo Federmeccanica non avesse modificato le sue posizioni, la Fiom avrebbe considerato necessario «proseguire il confronto con la mobilitazione».
Il 16 marzo – dopo cinque mesi e quindici riunioni di trattativa – Fim, Fiom e Uilm annunciavano per il 20 aprile uno sciopero generale di 4 ore dei lavoratori della categoria, preparato da una serie di attivi unitari dei loro delegati in tutta Italia. Ciò, nonostante le piattaforme separate, veniva a suggellare la ritrovata unità sindacale.
Come scrivevamo nel volantino distribuito allo sciopero: «Questa ritrovata unità sindacale dovrebbe, a dire di Fim, Fiom, Uilm, difendere meglio i lavoratori. Ma non è affatto così. Ciò che difende i lavoratori è la loro unità nell’azione di lotta. L’unità di Fiom, Fim e Uilm non è costruita sulla lotta bensì a discapito di essa. Fim e Uilm dichiaratamente rigettano la lotta di classe, come la Cgil che sostiene e difende la “concertazione”. La Fiom ha posto al centro della sua strategia l’unità con questi sindacati gialli. Il risultato sono le odierne 4 ore di sciopero. Uno sciopero così non può che far sorridere gli industriali».
Lo sciopero, ormai era dato per scontato, non coinvolgeva gli operai del gruppo Fiat (FCA-CNHI), dimostrando che nei fatti la Fiom accettava il contratto separato per i lavoratori del gruppo. Questa scelta era anche compiuta in nome dell’unità con Fim e Uilm, che difficilmente avrebbero accettato uno sciopero unitario dei metalmeccanici esteso alla Fiat.
L’incontro del 6 maggio con Federmeccanica confermava l’intransigenza degli industriali e l’inutilità dello sciopero di 4 ore del 20 aprile.
Nei giorni successivi si consumava la rottura nell’area congressuale de “Il sindacato è un’altra cosa” con l’uscita del suo portavoce e di altri dirigenti e militanti.
Il 24 maggio la Triplice proclamava altre 12 ore di sciopero per giugno, di cui 8 con manifestazioni regionali, e due sabati di sciopero dello straordinario.
Poi, sull’altare della ritrovata unità sindacale nella categoria, dopo i lavoratori della Fiat erano sacrificati quelli della Fincantieri: il 24 giugno era siglato il rinnovo del contratto integrativo per il gruppo, anticipo di quello che sarebbe stato il contratto metalmeccanico: – nessun aumento se non 5 euro netti al mese solo per i lavori di saldo-carpenteria in spazi ristretti; – riduzione del trattamento di trasferta; – ristrutturazione del premio di produzione: € 70, prima fissi e mensili, ora assegnati come welfare aziendale con cadenza annuale, il resto totalmente variabile, con parametri di valutazione complicatissimi, differenziato per cantiere, officina, operaio; – a fronte di un arretrato salariale accumulato per il ritardo nel rinnovo dell’integrativo (scaduto il 31 marzo 2015) di circa €.2-3.000 a testa, un saldo di 400 netti e altri 500 in prestazioni di welfare per dipendente; – apertura a deroghe al contratto nazionale sulle flessibilità, come la mensa a fine turno e la quarta timbratura; – estensione della “clausola di raffreddamento” (periodo in cui si deve attendere prima di poter scioperare) da 3 a 9 giorni.
Infine il punto più importante riguardo alla trattativa in corso per il rinnovo del contratto nazionale metalmeccanico, cioè l’accettazione del contratto separato: «a far data dal 1 aprile 2015 (...) viene applicato il CCNL per gli addetti dell’industria metalmeccanica, di data 5 dicembre 2012».
Il 28 giugno Fim, Fiom e Uilm proclamavano altre 4 ore di sciopero, divise per territorio, per il rinnovo del contratto metalmeccanico. Qui si chiudeva la mobilitazione, salvo la prosecuzione, teorica, dello sciopero dello straordinario e della flessibilità per il mese di agosto. In tutto 20 ore di sciopero, diluite in quattro mesi, da aprile a luglio, sempre divise per territorio, in una trattativa durata 12 mesi (dal 5 novembre 2015 al 26 novembre 2016).
Il 25 e il 26 luglio si teneva il referendum nei cantieri navali sull’ipotesi di rinnovi dell’integrativo Fincantieri. 64 delegati RSU su 76, l’84%, si sono espressi a favore. L’accordo passava con una percentuale ben minore: il 57% compresi gli impiegati, il 54% fra i soli operai.
Il No prevaleva ad Ancona (51%), dove la Fiom è quasi l’unico sindacato, e a Monfalcone (61%), il più grande ed attivo degli 8 cantieri del gruppo in Italia, per l’orientamento contrario di tutta la RSU Fiom, che in un comunicato del 28 giugno annunciava: «La Rsu Fiom dello stabilimento di Monfalcone, in disaccordo con la Fiom nazionale, informa tutte le lavoratrici e i lavoratori dell’inevitabile uscita dal coordinamento nazionale Fiom». Va tenuto conto come questa RSU si sia sempre distinta per un un indirizzo localista contrario all’unità d’azione fra i cantieri, come nel settembre 2011 quando, con la firma di un accordo per 300 esuberi e maggior produttività, fu la prima a rompere la fragile unità del coordinamento nazionale Fiom, a fronte dell’attacco aziendale di quel periodo.
A Marghera, secondo cantiere del gruppo, 11 delegati RSU su 12 si erano espressi a favore ma il Sì prevaleva solo col 51%. A Palermo e a Riva Trigoso (Sestri Levante - Genova) col 53%.
Il risultato del referendum evidenziava il malcontento fra gli operai ed in parte anche all’interno della Fiom. Pare che la delegazione trattante del sindacato metalmeccanico Cgil fosse orientata a non firmare il contratto e che all’ultimo si sia presentato il segretario generale Landini a pretendere la firma.
L’unico cantiere (fatta eccezione per la controllata Isotta Fraschini) in cui è stata schiacciante la vittoria del Si risultava essere quello di Sestri Ponente, con ben l’85% di favorevoli. Infatti sia a Castellammare sia al cantiere del Muggiano (La Spezia), l’accordo passava col rispettivamente il 68% e il 62%. A Sestri Ponente la Fiom è diretta, in azienda e a livello provinciale, dal gruppo di Lotta Comunista, che aveva dato indicazione di voto favorevole. Questo è interessante non perché rappresenti una novità nell’indirizzo sindacale di questo gruppo politico e della Fiom genovese, bensì perché sarà in contraddizione con l’indicazione di voto che poi avrebbe dato in occasione del referendum per l’ipotesi di rinnovo del contratto metalmeccanico.
Il 31 marzo un decreto dei ministeri del Lavoro e dell’Economia aveva ripristinato la detassazione per i premi di produttività definiti a livello aziendale. Il commento di Michela Spera, entrata nella Segreteria Nazionale nel settembre-ottobre 2012 in sostituzione del portavoce nazionale de “Il sindacato è un’altra cosa”, confermava l’orientamento della Fiom in merito: «Siamo d’accordo con questo provvedimento (...) Ma la platea dei beneficiari è limitata ai lavoratori delle aziende che fanno contrattazione aziendale (...) Da anni chiediamo che il governo scelga di detassare anche gli aumenti nel contratto nazionale di lavoro, in modo che possano goderne tutti i lavoratori. Ma l’esecutivo insiste a restringere il provvedimento ai premi di risultato».
Il 14 luglio un accordo quadro fra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria dava parziale soddisfazione alle richieste della Fiom, nonché un primo seguito pratico alla intesa intersindacale del 14 gennaio per un nuovo modello contrattuale, consentendo anche alle imprese prive di rappresentanze sindacali, in cui quindi non vi è contratto di secondo livello, di erogare premi di risultato aziendali collegati a «incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione» e godere quindi della detassazione prevista dal decreto ministeriale del marzo precedente.
Si confermava la complementarità fra l’azione della segreteria confederale Cgil e quella della Fiom, a dispetto delle aspettative di contrasto fra le due, mal riposte da parte dell’area de “Il sindacato è un’altra cosa”, in particolar modo dalla frazione del gruppo Sinistra Classe Rivoluzione.
Un ulteriore esito pratico dell’accordo intersindacale del 14 gennaio e passo in avanti verso un accordo fra sindacati di regime ed industriali per un nuovo modello contrattuale era la firma, il 1° settembre, di una piattaforma per “i processi di transizione industriale” fra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, da presentare al governo con proposte per la gestione “delle crisi e delle ristrutturazione aziendali”, cioè dei licenziamenti. Con essa la triplice formalizzava l’abiura di ogni presunta lotta contro i licenziamenti e, mediante la formazione di “fondi interprofessionali” per la formazione dei lavoratori delle aziende in crisi, si predisponeva a lucrare anche su questo lato della miseria operaia, favorita dall’azione legislativa che negli ultimi anni ha ridotto gli ammortizzatori sociali, così come già fa in campo previdenziale e assistenziale.
Il 7 e l’8 settembre si teneva a Roma la prima Assemblea Generale della Cgil, il nuovo organismo, formato da 332 componenti, istituito dalla V Conferenza d’Organizzazione tenutasi un anno prima, commentata nella puntata precedente di questo lavoro. Come già accennato, l’assemblea era contraddistinta dalla presa di posizione della Cgil in merito al referendum costituzionale previsto per il 4 dicembre, schierandosi la Confederazione col fronte del No, dal rilancio della campagna a sostegno della proposta di legge d’iniziativa popolare per una nuova “Carta dei diritti universali” (sostitutiva dello Statuto dei Lavoratori del 1970) e di tre referendum abrogativi (art. 18, voucher, appalti), e dall’annuncio di un “nuovo corso” per una gestione più unitaria e pluralista del sindacato. Tutto ciò serviva all’area di “Democrazia e Lavoro” per annunciare entusiasticamente la fine del suo scontro con la maggioranza della Confederazione, che un anno prima, come abbiamo scritto, aveva assunto toni – apparentemente – molto aspri.
Il 28 settembre 2016 riprendeva la trattativa per il rinnovo del contratto metalmeccanico e Federmeccanica avanzava una proposta con alcune modifiche rispetto quella presentata il 22 dicembre 2015, affermando di proporre un aumento di 50 euro, con un recupero dell’inflazione “a scalare”: 100% dell’inflazione reale del 2016 pagata però a giugno del 2017; 75% dell’inflazione del 2017 a giugno del 2018; 50% dell’inflazione del 2018 a giugno del 2019.
Il Comitato centrale Fiom del giorno dopo valutava questa modifica un «risultato delle lotte e delle mobilitazioni unitarie» ma giudicava «la proposta avanzata da Federmeccanica in materia di salario un passo avanti ma insufficiente in quanto (...) la reale garanzia del potere d’acquisto deve avvenire attraverso una rivalutazione dei minimi contrattuali per tutti che recuperi integralmente il valore dell’inflazione e non può essere sostituito da forme di welfare».
Il nuovo portavoce nazionale de “Il sindacato è un’altra cosa” Eliana Como, riguardo alla nuova proposta di Federmeccanica, affermava: «Federmeccanica propone 0 euro per il 2016 e 9 euro al 5° livello per il 2017. Non so perché i giornali dicano 50 euro». Poi ricordava che, anche nel caso l’aumento fosse effettivamente di 50 euro, tutti gli altri rinnovi contrattuali recentemente conclusi, pur peggiorativi, contemplavano aumenti ben superiori (bancari 85 euro; chimici 90; gomma-plastica 76; terziario 85; autoferrotranvieri 100; alimentaristi 105; igiene ambientale 90).
Il 30 settembre Fim, Fiom e Uilm ribadivano quanto già espresso dalla Fiom nel Comitato Centrale del giorno prima, ovverosia che la nuova proposta era un passo in avanti ma ancora insufficiente, e proclamavano un nuovo sciopero “dello straordinario e della flessibilità” che, nella gran parte delle aziende, rimarrà solo sulla carta.
Il 26 ottobre Filcams Cgil, Fisascat CISL e Uiltucs UIL si accordavano con la Confcommercio per la sospensione di una delle 5 rate in tre anni in cui era stato stabilito – dal contratto del 30 marzo 2015 – di suddividere il già misero aumento del salario (85 euro), pari a 16 euro medi lordi, la cui erogazione era prevista per novembre, «alla luce dell’ancora incerto andamento economico». Si trattava della prima applicazione di quella “verifica periodica” degli aumenti salariali introdotta nei recenti rinnovi contrattali.
Il 2 novembre si riuniva il Comitato centrale Fiom che nel merito della trattativa con Federmeccanica non introduceva alcun elemento nuovo e dava mandato alla Segreteria Nazionale di convocare una nuova Assemblea nazionale dei delegati, dopo l’ultima di luglio. Questa si teneva il 18 novembre ed al termine dei suoi lavori venivano presentati tre documenti votati in contrapposizione: quello della Segreteria Nazionale, approvato con 438 voti a favore; quello dell’area “Il sindacato è un’altra cosa” respinto con 35 voti a favore; quello presentato da Augustin Breda, storico delegato della Electrolux di Susegana, dell’area “Democrazia e Lavoro”, respinto con 3 voti a favore. Nei tre documenti erano sostanzialmente ribadite le rispettive posizioni già espresse nelle riunioni precedenti. I due documenti respinti in buona parte coincidevano, fatta eccezione principalmente per la questione del Testo Unico sulla Rappresentanza, accettato dal delegato di “Democrazia e Lavoro”, tranne che per ciò che riguarda le deroghe e le sanzioni.
La trattativa riprendeva dal 23. Il 26 i 4 rappresentanti de “Il sindacato è un’altra cosa” comunicavano l’uscita dalla delegazione trattante per i troppi cedimenti accettati. La delegazione approvava la prosecuzione dei suoi lavori con 6 voti contrari. Poche ore dopo Fim, Fiom e Uilm annunciavano la firma del nuovo contratto.
Al termine della trattativa, ancora seduti al tavolo industriali e sindacalisti di regime, Landini teneva una dichiarazione di otto minuti. È davvero istruttivo vedere gli industriali annuire e applaudire alle sue parole. Nella confusione dei concetti vuoti, retorici e di circostanza vomitati con gran maestria quelli forse centrali sono: - che il contratto è stato rinnovato nelle peggiori condizioni possibili, per la situazione economica e per le relazioni sindacali, e che questo non era il momento della divisione ma della unione: una lapidaria conferma della sua opposizione giurata alla lotta di classe; - che si impone ed estende la contrattazione aziendale; - che si tratta di contratto in cui si “sperimenta”, ad esempio sul tema degli inquadramenti.
Qui ne riportiamo alcuni punti salienti:
SALARIO
I comunicati di Fim,
Fiom e Uilm parlano di un aumento di 92 euro. La cifra invece è
minore, incerta e non per tutti:
- Ai 92 euro si giunge
sommando ai 51 di aumento salariale vero e proprio, voci legate al
cosiddetto welfare aziendale: 7,69 euro sul fondo
previdenziale Cometa (cui sono iscritti circa il 40% dei
metalmeccanici); 12 euro sulla sanità integrativa; 13,6 euro di
buoni spesa (!); infine una quota per il “diritto alla formazione
continua”. Tutti questi elementi sono senza contributi
previdenziali, arrecando quindi un danno anche al salario differito
(pensione, Tfr);
- I 51 euro salariali
sono definiti in base a un indice chiamato IPCA, adottato per la
prima volta nell’accordo interconfederale separato del 2009 fra
Cisl, Uil e Confindustria, allora respinto dalla Cgil, che poi è
passato ad avallarlo nei rinnovi contrattuali degli anni successivi;
la Fiom, ancora nel 2012, non aveva firmato il contratto nazionale
2012-2015 adducendo quale ragione anche l’utilizzo di questo
indice, che ora accetta anch’essa;
- Se l’inflazione
reale risultasse inferiore a quella prevista, gli aumenti potrebbero
essere rivisti al ribasso, come già avvenuto per il settore
terziario: quindi si tratta di un aumento incerto;
- Laddove fossero
contrattati premi aziendali fissi, a partire dal 2017 questi
assorbiranno gli aumenti del contratto nazionale; ciò avrà due
conseguenze: che dagli aumenti del contratto nazionale saranno
esclusi una parte di lavoratori e che si tenderà a rendere tutti i
premi aziendali variabili, come d’altra parte è espressamente
scritto nell’ipotesi d’accordo.
PARTE NORMATIVA
- Nel contratto non c’è
nessuna norma di contrasto al Jobs act, né riguardo al
demansionamento né ai licenziamenti; cade nel dimenticatoio l’unica
rivendicazione chiara, e che interessa davvero i lavoratori,
inizialmente avanzata dalla Fiom;
- Rinnovando il Ccnl
del 2012 la Fiom accetta tutto quello che quattro anni prima aveva
rifiutato; ad esempio: l’aumento delle ore di straordinario
obbligatorio raddoppiate da 40 a 80; l’aumento delle ore di
flessibilità da 64 a 80, cancellando l’obbligo di accordo
sindacale.
- Sono cancellate le
deroghe salariali previste dal Ccnl del 2012 e sono riconosciute
quelle normative con l’applicazione del TUR (prestazione
lavorativa, orari e organizzazione del lavoro);
- Per l’applicazione
del Testo sulla Rappresentanza è prevista l’istituzione di una
apposita commissione fin dal gennaio 2017.
Il giorno dopo la firma si riuniva il Comitato Centrale Fiom. Vi erano presentati due documenti contrapposti: quello della Segreteria Nazionale era approvato con 115 voti a favore e prevedeva un referendum fra i metalmeccanici per approvare il nuovo contratto il 19, 20 e 21 dicembre. L’altro era presentato da tre componenti del Comitato centrale, fra cui lo storico delegato della Fincantieri di Sestri Ponente (Genova), del gruppo Lotta Comunista, e il segretario generale provinciale della Fiom di Genova, del gruppo trozkista denominato Associazione Controcorrente, una ex corrente di Rifondazione Comunista, e veniva respinto con 10 voti a favore. L’area “Il sindacato è un’altra cosa” non presentava documenti in contrapposizione.
Il giorno successivo, il 29 novembre, si riuniva nuovamente l’Assemblea Generale della Cgil che rinnovava la segreteria nazionale confederale, con cinque nuovi componenti, «nell’ottica di una nuova gestione unitaria dell’organizzazione».
Lo stesso giorno si esprimeva contro l’ipotesi di rinnovo del contratto il Direttivo provinciale Fiom di Genova, con 66 voti favorevoli, 1 contrario, 1 astenuto. Il 2 dicembre quello di Trieste, all’unanimità con un solo astenuto. La Segreteria Nazionale Fiom allora inviava una circolare interna nella quale ricordava che, in base a una norma statutaria introdotta al XVI Congresso Cgil del 2010, era fatto divieto ai direttivi territoriali presentare documenti da porre ai voti una volta che un direttivo di livello più alto ha deciso. Insomma, si può discutere una decisione presa a livello superiore ma non può essere reso pubblico l’orientamento maggioritario dell’organismo di rango inferiore. Una norma introdotta, evidentemente, per rendere ancora più sicura l’approvazione delle decisioni prese al vertice. E per altro violata dallo stesso Comitato Centrale Fiom, ad esempio all’epoca della firma dal parte della Segreteria Nazionale del Testo Unico sulla Rappresentanza, il 10 gennaio 2014.
Il 6 dicembre a Firenze si svolgeva una riunione dei delegati metalmeccanici contrari all’ipotesi di rinnovo contrattuale organizzata da “Il sindacato è un’altra cosa”. La riunione era formalmente aperta a tutti i delegati a prescindere dall’appartenenza sindacale ma di fatto non si era lavorato per favorirne la partecipazione all’infuori dell’area. Non era stato rivolto un invito formale, ad esempio, ai delegati e ai militanti di USB né a quelli della Flmu CUB, i due sindacati di base con maggior inserimento, pur piccolo, nella categoria. Si sarebbe dovuto organizzare un coordinamento intersindacale contro l’accordo, che agisse in modo unitario.
Fosse per la sola propaganda per il no o, come noi auspichiamo ed indichiamo, per respingerlo organizzando uno sciopero nelle fabbriche, un simile lavoro si sarebbe scontrato con la repressione interna alla Cgil e alla Fiom. Se si pensa che la semplice adesione ad un comitato che si è riunito una sola volta – quello delle fabbriche FCA del Centro-Sud Italia – è bastato a colpire quei delegati, si può immaginare cosa sarebbe potuto accadere quando la posta in palio era la firma unitaria del contratto metalmeccanico. Questo presumibilmente ha limitato l’azione de “Il sindacato è un’altra cosa” al campo di una campagna referendaria svolta autonomamente dall’area.
Dal lato del sindacalismo di base questo atteggiamento è servito a giustificare la consueta azione isolata e separata di ciascuna organizzazione. L’USB ha convocato una sua Assemblea nazionale dei delegati metalmeccanici il 17 dicembre a Bologna. Di tale riunione non si ha risultanza di alcuna documentazione, se non alcune brevi interviste video. L’indicazione, per altro non troppo chiaramente affermata, non è stata quella del voto contrario al referendum bensì di non votare. Un indirizzo pratico del tutto inutile in assenza dell’organizzazione finalizzata all’indirizzo alternativo al voto, ossia lo sciopero. Significativamente nella sua intervista Bellavita, a commento del nuovo contratto, non faceva alcuna menzione della prevista applicazione del Testo Unico sulla Rappresentanza.
A conferma di come il referendum sia uno strumento padronale contro i lavoratori, così come già si è potuto recentemente verificare per i contratti degli autoferrotranvieri e dell’igiene ambientale, anche quello dei metalmeccanici ha segnato una netta vittoria dei sì, con oltre l’80%, nonostante in importanti grandi fabbriche, nonché gruppi industriali, abbiano prevalso i voti contrari: alla YKK di Vercelli, alla Same di Bergamo e alla GKN di Firenze, tradizionali roccaforti de “Il sindacato è un’altra cosa”; alla Dalmine di Bergamo, nonostante l’assenza di delegati di questa area ma con la presenza della Flmu CUB; alla Pasotti di Pompiano (Brescia); alla Danieli di Udine; alla Motori Minarelli di Bologna; alla Marcegaglia di Forlì; all’ILVA, alle Riparazioni navali, alla Leonardo e all’Ansaldo di Genova; alla Piaggio e alla Guzzi di Pontedera; alla Continental e alla Pistoni Associati di Pisa; alla AST di Terni; alla Aeroavio di Pomigliano, alla Dema di Somma Vesuviana, alla Bticino di Torre del Greco, alla Meridbulloni di Castellammare di Stabia e alla Schneider di Casavatore (Napoli); alla Jabil di Marcianise (Caserta); nei gruppi Fincantieri (Sestri Ponente, Riva Trigoso, Muggiano, Monfalcone, Ancona), Electrolux (Porcia, Susegana, Forlì, Solaro) e Sirti (Milano, Genova, Roma, Benevento).
Dai dati forniti da Fim, Fiom e Uilm, le province in cui hanno prevalso i contrari all’ipotesi di rinnovo contrattuale sono state quelle di Genova, di Legnano-Magenta e di Gorizia. In quest’ultima è stato determinante l’orientamento della RSU della Fincantieri di Monfalcone. A Genova lo è stato l’orientamento del Direttivo provinciale, nonostante l’intervento diretto di Landini che ha partecipato all’assemblea all’Ansaldo il 16 dicembre. Il voto della provincia di Genova è stato determinante anche nella regione, risultando la Liguria l’unica d’Italia in cui il contratto è stato respinto, nonostante nelle altre tre province abbiano prevalso i voti favorevoli. Da notare invece che a Trieste, nonostante l’orientamento contrario del Direttivo provinciale Fiom, hanno prevalso, sia pur non di molto, i voti favorevoli.
La firma da parte della Fiom del nuovo contratto metalmeccanico viene a confermare quanto affermato dal nostro partito fin dall’apertura del ciclo di simulata opposizione di questo sindacato all’attacco padronale apertosi con l’accordo alla Fiat di Pomigliano nel giugno 2010, e su tutta la Cgil, dalla sua fondazione e, peggio, dalla seconda metà degli anni Settanta, quando il suo carattere di regime è divenuto irreversibile.
L’altro insegnamento importante di questo arco di 8 anni del sindacalismo di regime in Italia qui preso in esame è la conferma del fallimento della sua “sinistra”, della sua ambizione di cambiare natura alla Cgil, riportandola sul terreno di classe.
La necessità di una organizzazione sindacale internazionale dei portuali
Il capitalismo cerca di rendere la circolazione delle merci, analogamente a quanto per la loro produzione, più veloce possibile, perché le merci possano tornare, mediante la vendita, alla forma denaro, realizzando così il plusvalore. Allo scopo di ridurre i tempi di trasporto la quantità di capitale investito nel settore marittimo è enorme.
Parimenti massiccio è l’attacco alla classe operaia perché l’automazione implica lo scontro con gli interessi immediati e vitali dei proletari. L’automazione consente al capitale di conseguire l’obiettivo di lavorare 24 ore al giorno per 7 giorni la settimana: la macchina poco si infortuna, non si ammala, mentre invece nei porti o sulle navi scioperi e blocchi anche di modeste dimensioni possono causare grandi perdite alle compagnie di navigazione.
Quindi nei prossimi anni gli economisti borghesi stimano – o sognano – riduzioni del 40-50% della forza lavoro nei porti.
Compagnie di navigazione e terminalisti non dissimulano queste loro intenzioni. L’obiettivo della distruzione di ogni forza operaia organizzata è perseguito con durezza e in un crescente coordinamento internazionale, frutto della concentrazione e centralizzazione del capitale particolarmente elevata di questo ramo d’industria. Ad esempio la danese APM Terminal (AMPT), il terzo operatore mondiale sulle banchine, è di proprietà della Maersk, la prima compagnia di navigazione al mondo.
In questo scenario i portuali provano a rialzare la testa, schiacciati dalla pressione dei padroni, dei loro governi, e dall’inadeguatezza del fronte sindacale, debole, frammentato, corrotto. Forse in nessuna altra categoria della classe lavoratrice più che nei portuali è evidente la necessità di un’organizzazione sindacale internazionale dei lavoratori, in grado di dispiegare scioperi contemporanei negli scali di diversi paesi su un’area sufficientemente vasta da impedire di deviare le merci da un porto all’altro.
I portuali spagnoli – organizzati nella Coordinadora Estatal de Trabajadores del Mar – grazie ad un’ondata di scioperi effettuati a febbraio e nei primi giorni di marzo hanno vinto una dura battaglia. Il governo nazionale aveva presentato al Parlamento una radicale riforma del lavoro nei porti spagnoli, per ottemperare a una sentenza della Corte di Giustizia europea del 2014 che imponeva di togliere alle autorità portuali la gestione delle lavoro nelle banchine, affidandola alle compagnie terminaliste. Il 16 marzo il Parlamento è stato costretto dagli scioperi a votare contro questa legge. Va elogiata l’importante azione dei portuali portoghesi, che in alcuni scali si sono rifiutati di scaricare le navi dirottate dagli scali spagnoli.
Anche i portuali svedesi sono in sciopero da una settimana a Göteborg, il più grande porto della Scandinavia, nel terminal Apm-Maersk contro un accordo nazionale firmato da un sindacato minoritario.
Nel 2016 il governo greco ha privatizzato i più grandi porti del paese. Cosco, il maggiore gruppo cinese di spedizioni marittime, ha acquistato il 67% del Porto del Pireo. Il governo greco ha fissato al 24 marzo la scadenza per presentare le offerte di acquisto per il porto di Salonicco. Tutti i posti di lavoro diventerebbero precari con un impatto devastante per le già precarie condizioni di vita e di lavoro di questa porzione di classe.
In Italia, nel porto di Gioia Tauro, uno sciopero di 5 giorni, indetto dal sindacato SUL, nel mese di marzo ha coinvolto 1.200 lavoratori per protestare contro i 400 esuberi dichiarati dall’Mct la società che gestisce lo scalo container. Lo sciopero è stato momentaneamente interrotto, ricompattando il fronte sindacale che chiede, nella trattativa tutt’ora in corso, che il numero degli esuberi scenda a 274.
Negli Stati Uniti, sulla costa atlantica le autorità portuali stanno cercando di ridurre il numero dei sindacati fra i portuali: nella maggior parte dei luoghi di lavoro in USA esiste un solo sindacato. Questo perché nel porto di New York una serie di scioperi selvaggi è stata organizzata dai sindacati minori.
Sulla costa pacifica il principale sindacato dei portuali, l’International Longshore and Warehouse Union (ILWU), in questi anni ha ripetutamente bloccato i porti. Da segnalare in particolare la lotta nel terminale di Longview il quale, dopo numerosi scioperi, è stato costretto ad accettare i lavoratori iscritti all’ILWU. Inoltre, sempre sulla costa occidentale, ci sono stati molti scioperi effettuati dai movimentatori dei container, scioperi coordinati da organizzazioni non ufficiali che hanno bloccato per giorni interi i porti.
È del 2014 il durissimo sciopero in Costarica durato dal 22 ottobre al 5 novembre che si è concluso vittoriosamente per i lavoratori impedendo la concessione del Moin Container Terminal alla danese APM.
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Il Partito Comunista d’Italia e la direttiva del fronte unico sindacale
(2/3 - continua dal numero scorso)
Sindacati, Consigli di fabbrica, Soviet
Da Tesi della Frazione Comunista Astensionista del PSI, maggio 1920
Dopo la pubblicazione
nel numero scorso di ampi stralci della relazione tenuta da Radek,
allineiamo qui estratti dalle Tesi approvate al Secondo Congresso del
Comintern.
Prima di riempire i
polmoni di quell’aria pura ed espellere le tossine prodotte da
quasi un secolo di controrivoluzione borghese, spicchiamo un salto
all’indietro di qualche mese e torniamo al rosso maggio del 1920
per leggere la chiara esposizione dei “Punti sindacali”
presentati dalla Frazione Comunista Astensionista formatasi nel seno
del PSI. La convergenza teorica e programmatica con quanto verrà
proclamato dalla massima assise del proletariato comunista mondiale è
totale.
Il sindacato è
definito inequivocabilmente come una scuola di lotta per il
comunismo, la prima esperienza pratica di questa lotta, il primo
passo sulla strada che conduce alla lotta rivoluzionaria per la presa
del potere.
La presenza dei
comunisti all’interno delle organizzazioni proletarie di difesa
economica è pertanto ritenuto compito irrinunciabile perché la
classe lavoratrice non si trovi impreparata nel momento
dell’insurrezione e perché le direttive del Partito Comunista
riescano ad informare l’azione della classe operaia in movimento
verso i suoi massimi compiti storici.
Qualsiasi idolatria di
particolari forme organizzative, che per virtù propria dovrebbero
accorciare quell’impervia via è spazzata via, illusioni che invece
contamineranno il futuro Partito Comunista d’Italia quando la sua
direzione passerà dalla Sinistra al Centro ordinovista. Non si
tratta di contrasti tra forme d’organizzazione ma tra forze
storiche mortalmente contrapposte.
II - Critica di altre scuole
10. Le organizzazioni economiche professionali non possono essere considerate dai comunisti né come organi sufficienti alla lotta per la rivoluzione proletaria, né come organi fondamentali dell’economia comunista.
L’organizzazione in sindacati professionali vale a neutralizzare la concorrenza tra gli operai dello stesso mestiere e impedisce la caduta dei salari ad un livello bassissimo, ma, come non può giungere alla eliminazione del profitto capitalistico, così non può nemmeno realizzare l’unione dei lavoratori di tutte le professioni contro il privilegio del potere borghese (...)
I comunisti considerano il sindacato come il campo di una prima esperienza proletaria, che permette ai lavoratori di procedere oltre, verso il concetto e la pratica della lotta politica il cui organo è il partito di classe.
11. È in genere un errore credere che la rivoluzione sia un problema di forma di organizzazione dei proletari secondo gli aggruppamenti che essi formano per la loro posizione e i loro interessi nei quadri del sistema capitalistico di produzione.
Non è quindi una modifica della struttura di organizzazione economica che può dare al proletariato il mezzo efficace per la sua emancipazione (...)
III -
4. (...) Soprattutto il partito esercita la sua attività di propaganda e di attrazione tra le masse proletarie, specie nelle circostanze in cui esse si mettono in moto per reagire alle condizioni loro create dal capitalismo, ed in seno agli organismi che i proletari formano per proteggere i loro interessi immediati.
5. I comunisti penetrano quindi nelle cooperative proletarie, nei sindacati, nei consigli di azienda, costituendo in essi gruppi di operai comunisti, cercando di conquistarvi la maggioranza e le cariche direttive, per ottenere che la massa di proletari inquadrata in tali associazioni subordini la propria azione alle più alte finalità politiche e rivoluzionarie della lotta per il comunismo (Il Soviet, 27 giugno 1920).
Tesi del secondo Congresso dell’Internazionale
Comunista
Veniamo alle Tesi dell’Internazionale. Tralasciamo la lunga e fondamentale parte dedicata ai rapporti tra Sindacato e Consigli di fabbrica perché esce dall’oggetto di questo studio. Di grande interesse è la rapida e sommaria disamina da parte dell’avanguardia proletaria mondiale della storia del movimento sindacale nel periodo precedente e immediatamente seguente lo scoppio del primo massacro imperialista e del ruolo di pompieri svolto dai dirigenti socialisti e dai mandarini sindacali a capo delle organizzazioni economiche proletarie: alla lotta rivoluzionaria si sostituirono costantemente la ricerca di un accordo con la borghesia, vanificando anche la stessa difesa degli interessi immediati dei lavoratori. Oggi questo freno dell’istinto di classe è più tirato che mai, reso necessario per raffrenare la classe operaia travolta dalla crisi economica del capitalismo mondiale e per mantenerla accodata al carro, che malamente avanza a fatica, della borghesia.
Sindacati e Consigli di fabbrica
I.
1. I Sindacati, creati dalla classe operaia nel periodo del pacifico sviluppo del capitalismo, erano organizzazioni della mano d’opera allo scopo di lottare per l’aumento del prezzo della forza di lavoro sul mercato del lavoro e per il miglioramento delle sue condizioni d’impiego (...) I sindacati, i quali abbracciavano precipuamente i lavoratori qualificati, meglio pagati dagli imprenditori, che nella grettezza della loro coscienza sindacale, vincolati da un apparato burocratico avulso dalle masse, furono traviati dai loro capi opportunistici, hanno tradito non solo la causa della rivoluzione sociale, ma anche la causa della lotta per il miglioramento delle condizioni di vita degli operai, da essi organizzati (...)
2. Le conseguenze economiche della guerra, la completa disorganizzazione dell’economia mondiale, i pazzeschi rincari, l’estesissimo impiego del lavoro femminile e giovanile, il peggioramento delle condizioni di abitazione, tutto ciò spinge le grandi masse del proletariato sulla via della lotta contro il capitalismo. Questa lotta è, per la sua estensione e per il carattere che assume ogni giorno più, una lotta rivoluzionaria che distrugge obbiettivamente le basi dell’ordinamento capitalistico (...) Affluendo nei sindacati, queste masse cercano di farsene la loro arma di combattimento (...) I sindacati, che durante la guerra erano diventati organi per influire sulle masse operaie nell’interesse della borghesia, diventano così organi per la distruzione del capitalismo.
3. Questa
trasformazione del carattere dei sindacati è in ogni modo ostacolata
dalla vecchia burocrazia sindacale e dalle vecchie forme di
organizzazione dei sindacati. La vecchia burocrazia sindacale cerca
in molti luoghi di mantenere i sindacati come organizzazione
dell’aristocrazia operaia (...) La vecchia burocrazia sindacale
tenta oggi ancora di sostituire alla lotta dei lavoratori a base di
scioperi, che assume ogni giorno di più il carattere di una lotta
rivoluzionaria tra borghesia e proletariato, una politica di accordi
coi capitalisti, una politica di concordati a lunga scadenza, che già
solo in considerazione degli ininterrotti fantastici sbalzi di prezzo
hanno perduto ogni senso. Essa cerca di imporre ai lavoratori la
politica delle associazioni operaie nei Consigli industriali misti e
di ostacolare la conduzione degli scioperi legalmente con l’aiuto
dello Stato capitalistico.
Nei momenti di lotta
più tesa, questa burocrazia semina la discordia nelle masse degli
operai in lotta e impedisce che la lotta delle varie categorie
operaie si unifichi in una lotta di classe generale (...)
4. In considerazione
dell’affluire di possenti masse operaie nei sindacati e del
carattere obbiettivamente rivoluzionario della lotta economica che
queste masse conducono in contrapposto alla burocrazia sindacale, i
comunisti di tutti i paesi devono entrare nei sindacati allo scopo di
farne degli organi di lotta consapevoli per l’abbattimento del
capitalismo e per il comunismo. Essi devono prendere l’iniziativa
della formazione di sindacati là dove questi non esistono.
Ogni volontario
appartarsi dal movimento sindacale, ogni artificioso tentativo di
creare dei sindacati speciali (...) senza esservi costretti sia da
atti eccezionali di violenza da parte della burocrazia sindacale (..)
sia dalla sua angusta politica aristocratica, che sbarra l’ingresso
nelle organizzazioni alle grandi masse dei lavoratori poco
qualificati, rappresenta un enorme pericolo per il movimento
comunistico (...)
5. In quanto essi pongono il fine e l’essenza dell’organizzazione sindacale al disopra della forma, i comunisti nel movimento sindacale non debbono arretrare dinanzi ad una scissione delle organizzazioni sindacali stesse, qualora la rinuncia alla scissione volesse dire rinuncia al lavoro rivoluzionario nei sindacati e al tentativo di fare di essi uno strumento di lotta rivoluzionaria e rinuncia all’organizzazione delle parti più sfruttate del proletariato. Ma anche se una tale scissione dovesse dimostrarsi necessaria, essa deve compiersi solo se i comunisti riescono, con una lotta senza posa contro i capi opportunisti e la loro tattica, con la più attiva partecipazione alla lotta economica, a persuadere le grandi masse operaie che la scissione è effettuata non per i lontani fini rivoluzionari che esse ancora non possono comprendere, ma per i concreti e prossimi interessi che hanno le classi operaie nello sviluppo della loro lotta economica. Nel caso che una scissione si renda necessaria, occorre che i comunisti incessantemente e attentamente ricerchino se la scissione non li condurrà ad isolarsi dalle masse (...)
7. Nell’epoca dello sfacelo del capitalismo, la lotta economica del proletariato si trasforma in politica molto più rapidamente di quanto non possa avvenire nel periodo del pacifico sviluppo del capitale. Ogni grande urto economico può porre gli operai direttamente dinanzi al problema della rivoluzione. È perciò dovere dei comunisti, in tutte le fasi della lotta economica far presente agli operai che questa lotta può riuscire vittoriosa solo se la classe operaia vince in campo aperto la classe capitalistica e intraprende per via l’opera di costruzione socialista. Muovendo di qui, i comunisti devono tendere a realizzare una completa unità fra i sindacati ed il partito comunista, a subordinare i sindacati all’effettiva direzione del partito come avanguardia della rivoluzione operaia. A questo scopo i comunisti devono dappertutto formare nei sindacati e nelle officine dei gruppi comunisti, mediante i quali essi si impadroniscono del movimento sindacale e lo guidano (L’Ordine Nuovo, 9 ottobre 1920).
(continua)
Il corso catastrofico del capitalismo mondiale
Le produzioni e i commerci
Rapporto alla riunione generale di gennaio
A. LE PRODUZIONI
Il modo di produzione capitalistico ha sconvolto gli antichi rapporti di produzione ad economia mercantile fondati sull’economia familiare contadina e sulla piccola produzione artigianale delle città e dei villaggi. Ha rovinato ed espropriato i vecchi produttori, li ha proletarizzati costringendoli a vendere, in cambio di un salario, il solo bene loro rimasto, la forza lavoro. Così facendo e sostituendo alla produzione indipendente e dispersa del contadino e dell’artigiano la produzione collettiva e centralizzata dell’economia meccanizzata e della grande industria, il capitalismo ha minato le fondamenta della produzione mercantile e ha socializzato le forze produttive.
Nelle società precapitalistiche la produzione, tanto agricola quanto artigianale, si appoggiava sulle conoscenze acquisite nel succedersi delle generazioni. A differenza del mondo antico, che aveva fatto ricorso quasi esclusivamente al lavoro muscolare dello schiavo, la società feudale e l’antico regime avevano già cercato di meccanizzare la produzione. Ma questa restava limitata dall’angustia della produzione familiare del contadino, dal limite dell’impresa artigianale e dal basso livello di conoscenze che ne risultavano. La natura stessa delle fonti naturali di energia (acqua, vento e trazione animale) ne costituiva un altro limite.
La grande agricoltura capitalista meccanizzata e la grande industria, mobilitando immense armate di lavoratori, che operano collettivamente e in maniera centralizzata, impiegando le ultime conoscenze tecniche e scientifiche, hanno fatto saltare la limitatezza degli antichi modi di produzione e hanno liberato le forze produttive, e l’accumulazione forsennata del capitale ne ha esaltato lo sviluppo a una scala senza precedenti.
Tuttavia, il capitalismo è diventato a sua volta, dopo l’apparizione dei monopoli, oggi chiamati “multinazionali”, alla fine del XIX secolo, un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. Da una parte l’accumulazione micidiale del capitale – di per sé incontrollata – conduce a una socializzazione sempre più spinta della produzione, dall’altra parte l’appropriazione resta privata. Questa contraddizione fondamentale conduce periodicamente il capitale a crisi di sovrapproduzione.
L’accumulazione del capitale poggia sull’appropriazione, nell’atto della produzione, di lavoro non pagato al lavoratore: il plusvalore. Il capitale addiviene ad una gigantesca accumulazione di plusvalore, cioè di valore, il valore non essendo altro che cristallizzazione del lavoro nell’oggetto prodotto, sia esso agricolo o industriale.
Più la produttività del lavoro sociale si accresce, più il saggio del profitto cade, e quindi diminuisce il rendimento del capitale investito. Per tentare di risolvere questo dilemma il capitale cerca, quando può, di impiegarsi in nuovi settori della produzione in cui la composizione organica del capitale è più bassa.
La composizione organica del capitale esprime il rapporto fra il valore del capitale costante e quello del capitale variabile. È una misura della produttività sociale del lavoro. Più il lavoro dell’operaio è produttivo, grazie alle macchine e alla migliore organizzazione del lavoro, maggiore è la massa del capitale costante trasformata in una unità di tempo, cioè maggiore è la massa del capitale costante in rapporto a quella del capitale variabile, i salari degli operai. Quindi, dove la composizione organica è più alta anche il saggio del plusvalore risulta più elevato.
Oppure spostandosi in altri Paesi, dove la composizione organica del capitale è sì più bassa, ma dove i salari e gli oneri sociali, quando esistono, sono nettamente inferiori, e dove quindi il saggio del plusvalore è molto maggiore. Allora anche il saggio del profitto si impenna. Questo è ciò che succede ad esempio in Messico, dove i salari degli operai sono inferiori dell’80% a quelli degli Stati Uniti. Di qui l’accorrervi delle multinazionali dell’industria automobilistica. Ciò ha determinato che oggi, a parte la Germania, 4° produttore mondiale di automobili dopo il Giappone, il Messico nel 2015 ha prodotto più auto di qualsiasi paese europeo: una volta e mezzo la produzione francese e il triplo di quella dell’Italia. Davanti a tutti la Cina con 24,5 milioni di autoveicoli e gli Stati Uniti con 12,1. L’Inghilterra e l’Italia sono rispettivamente al 12° e al 13° posto mondiale.
Ma si possono dare molti altri esempi di paesi che offrono condizioni più propizie all’accumulazione, in particolare la Cina. I grandi gruppi quindi hanno investito sempre meno nei loro paesi d’origine. Solo le piccole e medie imprese tendono a investire per modernizzare l’apparato produttivo e aumentare la produttività, poiché non hanno altra scelta. Le altre “delocalizzano” e mantengono sul posto il meno possibile.
Per illustrare questa decrescita del saggio del profitto, riportiamo tre tabelle sull’andamento della produzione industriale nei grandi paesi imperialisti, fra gli anni 1900 e 2007. Questo lungo periodo è diviso in 5 cicli.
L’antagonismo fra le forze produttive scatenato dall’accumulazione di capitale e gli stessi rapporti di produzione capitalistici conducono a crisi cicliche di sovrapproduzione. Queste sono la maniera attraverso la quale il capitale scarica e risolve temporaneamente le proprie contraddizioni. L’accumulazione del capitale è innanzitutto un’immensa accumulazione di merci, e la crisi appare nella circolazione delle merci quando il calo delle vendite scatena le insolvenze.
Nei magazzini si ammucchiano le merci invendute, scattano i protesti e i bilanci delle banche si gonfiano di cambiali rimandate o insolute. I fallimenti finanziari e industriali non sono più evitabili. L’economia è paralizzata: è la crisi. Le imprese “ristrutturano” e licenziano in massa, la disoccupazione assume dimensioni gigantesche. Il capitale fittizio, risultato delle speculazioni frenetiche che hanno preceduto la crisi, vede sprofondare le sue quotazioni. Il capitale costante di numerose imprese industriali perde di valore. Gli istituti finanziari stessi falliscono e la massa delle loro cambiali inesigibili, precedentemente tenute nascoste, viene venduta a società di becchini specializzati nel recupero con ogni mezzo del poco che rimane. Le merci in giacenza finiscono per essere liquidate, il capitale costante in parte si è svalorizzato, i salari sono al livello più basso, la disoccupazione al massimo tanto quanto la precarietà.
A questo punto il saggio del profitto inizia a risalire, la tensione cede e a poco a poco l’attività riprende. In seguito la disoccupazione si allenta e i consumi riprendono. Le produzioni passano dal trotto al galoppo per un certo periodo, finché l’accumulazione finisce di nuovo per imballarsi. La speculazione, che ha ripreso a montare, raggiunge allora il culmine, il costo delle materie prime, sotto l’effetto della forte domanda e della speculazione, sale alle stelle, i salari sono a loro volta aumentati e, per forzare il mercato ad assorbire la gigantesca quantità di merci, il credito viene spinto al massimo. Sotto l’effetto congiunto della speculazione e del credito, che risultano dall’enorme accumulazione di capitale, i tassi d’interesse, che con la ripresa avevano incominciato a salire dolcemente, arrivano di nuovo ai massimi.
Poi torna di nuovo la crisi.
Così ogni 7-10 anni si ripete questo ciclo in cui si alternano espansioni e recessioni improvvise. Ma da un ciclo all’altro il saggio del profitto inesorabilmente cade, e ciò si traduce in un rallentamento della crescita delle produzioni, che tende a zero. Nello stesso tempo se il saggio del profitto cade, la massa del plusvalore aumenta sempre più, in maniera tale che l’accumulazione di capitale diventa gigantesca.
CICLI DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE Incrementi medi annui della Produzione Industriale (fonte Onu) |
|||||
1900 -1913 |
1913 -1929 |
1929 -1937 |
1937 -1973 |
1973 -2007 |
|
Regno Unito | 2,3% | 0,8% | 2,0% | 2,5% | 0,8% |
Francia | 3,6% | 0,7% | -4,0% | 3,0% | 1,2% |
Germania | 4,1% | 0,2% | 0,8% | 4,3% | 1,8% |
Italia | - | 2,7% | 2,3% | 5,1% | 1,4% |
Stati Uniti | 6,7% | 4,6% | 0,9% | 4,6% | 2,5% |
Russia | - | 19,5% | 7,1% | -1,2% | |
Giappone | - | 7,6% | 6,0% | 8,6% | 1,9% |
Cina | - | - | - | 12,7% | 10,7% |
Corea del Sud | - | - | - | 17,6% | 8,7% |
Le tabelle qui riportate rappresentano la crescita industriale nei 9 principali paesi industriali, che sono nello stesso tempo nazioni imperialiste nel senso di Lenin. La crescita industriale è determinata dal saggio del profitto, perché di fatto è questo che determina gli investimenti nelle produzioni in capitale fisso e circolante.
Nella teoria marxista si chiamano Capitale fisso le macchine, gli utensili, gli edifici, che si consumano soltanto parzialmente durante la produzione, e il valore che aggiungono ai prodotti corrisponde alla loro usura, l’ammortamento, e Capitale circolante le materie prime, che possono essere semilavorati o componenti, e i prodotti ausiliari, come i lubrificanti, i combustibili, l’elettricità, ecc. Questo Capitale circolante viene consumato interamente nel processo produttivo e il suo valore passa interamente nel prodotto finale. La somma della parte del Capitale fisso che passa nel prodotto e il Capitale circolante costituisce il Capitale costante.
La crescita produttiva è un riflesso del saggio del profitto. Quando il saggio del profitto è elevato, la crescita è anch’essa robusta, mentre quando, al contrario, il saggio del profitto è basso, come nel caso dei vecchi paesi imperialisti, a causa di una elevata composizione organica del capitale, la crescita delle produzioni è altrettanto bassa.
Abbiamo qui dedotto i tassi di crescita, o incrementi medi annui, a partire dagli indici della produzione industriale forniti dall’ONU nel suo Annuario Statistico. L’ONU li calcola a partire dalla produzione in volume delle fabbriche. Dopo avere calcolato un indice per ogni ramo produttivo, deve poi calcolare l’indice per l’insieme di tutti i grandi settori economici. Questo si fa attribuendo un coefficiente di ponderazione a ciascun settore, e a ogni tipo di industria in ciascun settore, in funzione del loro peso sull’insieme. Per determinare il peso di ogni industria e di ogni settore viene utilizzato il valore aggiunto, aggiunto dagli operai nel processo produttivo, il lavoro pagato e non pagato, ossia il salario più il plusvalore.
Poiché cambia nel corso del tempo il peso delle componenti in seno a una stessa industria o di un settore in rapporto all’insieme dell’industria, così, circa ogni cinque anni, i coefficienti vengono aggiornati. Questo può nascondere fenomeni di de-industrializzazione, come in Occidente la sparizione dell’industria tessile, il crollo della siderurgia, o il forte calo dell’industria automobilistica, senza parlare dei cantieri navali. Comunque sia queste indagini seppure approssimative degli istituti borghesi ci permettono di seguire il corso del capitale a scala mondiale.
Le statistiche dello Stato cinese non seguono la metodologia adottata dall’Onu: i suoi indici si basano sulla produzione in valore e non in volume. Per questo non vengono pubblicati dall’Onu e noi li troviamo sull’annuario pubblicato da Pechino. Così, per avere una visione più realistica, riportiamo anche i dati delle produzioni in unità fisiche, come l’elettricità, il cemento, l’acciaio, gli immobili, ecc.
Le tabelle si leggono verticalmente e orizzontalmente. Verticalmente i paesi sono elencati per indici crescenti, il che corrisponde ad anzianità decrescente, poiché i paesi a capitalismo più vecchio, quelli a composizione organica più elevata, hanno tassi del profitto più bassi.
Orizzontalmente, di ciclo in ciclo, si può vedere la tendenza alla decrescita nel tempo del tasso di crescita industriale, il che corrisponde a un rallentamento del tasso del profitto.
È da notare il rovesciamento di questa tendenza a seguito della Seconda Guerra mondiale: il ciclo 1937-1973 ha segnato una risalita degli incrementi grazie alle distruzioni massicce della guerra, un bagno di giovinezza per il capitalismo mondiale. Lo si vede ancora meglio, nella seconda tabella, che parte non dal 1937 ma dal 1950, anno in cui i vari paesi hanno ritrovato il livello del 1937, che era il massimo raggiunto poco prima della guerra. L’Inghilterra ritrova un incremento quasi giovanile con la media del 3%. La Germania, che aveva conosciuto spaventose distruzioni, ha una crescita vicina a quella dell’URSS, 7,2% contro 8,2% dell’URSS, che era un capitalismo più giovane. Ricordiamoci che il capitalismo russo, in seguito alle distruzioni della guerra civile, era pressoché scomparso e dovette rinascere negli anni ’20, con la politica economica della NEP.
Ma questo ciclo del dopoguerra, che ha visto un’accumulazione del capitale vigorosa e quasi prodigiosa, e sul piano materiale un formidabile sviluppo delle forze produttive, si è definitivamente chiuso nel biennio 1973-1974 con la prima grave crisi mondiale successiva al conflitto. In seguito, di ciclo in ciclo, gli incrementi diminuiscono costantemente. Mentre nel periodo 1950-1973 praticamente non si conoscono recessioni, o si limitano a fenomeni nazionali, il ciclo 1973-2007 si suddivide in cinque cicli corti: 1973-1979, 1979-1989, 1989-2000, 2000-2007, l’ultimo, dal 2007, non è ancora concluso. Ciascuno di questi cicli corti corrisponde a un periodo di espansione seguito da una recessione internazionale.
CLASSIFICA DEI PAESI | |||
1950-1973 | 1973-2007 | ||
Regno Unito | 3,0% | Russia | -1,2% |
Stati Uniti | 4,2% | Regno Unito | 0,8% |
Francia | 5,9% | Francia | 1,2% |
Germania | 7,2% | Italia | 1,4% |
Italia | 7,3% | Germania | 1,8% |
Urss | 8,2% | Giappone | 1,9% |
Cina | 12,7% | Stati Uniti | 2,5% |
Giappone | 13,5% | Corea d.Sud | 8,7% |
Corea d.Sud | 17,6% | Cina | 10,7% |
Si può rilevare che la classifica dei paesi cambia allorché si passa dai “Trenta gloriosi” al ciclo successivo. L’URSS, che correva fra i primi con un incremento dell’ 8,2%, è crollata e la Russia resta poi ultima con un regresso di -1,2%. Gli USA, che si trovavano appena dietro l’Inghilterra con un 4,2%, fanno meglio di tutti gli altri vecchi paesi imperialisti con un 2,5%. Nemmeno il Giappone corre più, con l’1,9%.
La Cina passa davanti alla Corea con il 10,7% contro l’8,7%. Tuttavia, come abbiamo scritto sopra, bisogna prendere con precauzione gli indici industriali calcolati dallo Stato cinese. Se ci si riferisce alla produzione di energia totale utilizzata dall’industria cinese nel periodo 1978-2007 (periodo per il quale disponiamo di dati) si ottiene un incremento medio del 5,1%. E se prendiamo il consumo totale di energia per lo stesso periodo si ha un 5,6%! quasi la metà dell’incremento vantato della produzione industriale.
Si nota la mancata ripresa degli incrementi della Germania, degli USA e in particolare della Francia nel ciclo 1929-1937, che precede la Seconda Guerra mondiale, nonostante lo sforzo per il riarmo. Invece l’Italia e l’Inghilterra si mantengono sui livelli prossimi a quelli dei cicli precedenti.
Gli Stati Uniti durante gli anni della guerra si produssero in un gigantesco sforzo militare. La guerra ha permesso al capitalismo mondiale di ricominciare un nuovo lungo ciclo di accumulazione e fu un ottimo affare per il capitalismo americano, mentre sul campo di battaglia i “suoi” proletari in uniforme si facevano massacrare.
Resta un punto da chiarire: il ringiovanimento del capitalismo per mezzo della guerra imperialista. La guerra imperialista produce gigantesche distruzioni e terrificanti massacri. Queste distruzioni massicce, come nelle crisi di sovrapproduzione ma a scala ben superiore, comportano una estesa distruzione di capitale e la generale svalorizzazione del capitale costante. Vi si aggiunge un abbassamento considerevole dei salari, legato alla disoccupazione in massa e alla grande precarietà, che porta con sé un forte aumento del saggio del plusvalore. Questi due fattori provocano una notevole risalita del saggio del profitto, come ai tempi delle prime stagioni del capitalismo, soprattutto nel periodo della ricostruzione. Anche finita questa, anni 1946-1950 nel secondo dopoguerra, e quando le produzioni hanno ritrovato il loro livello d’anteguerra, la nuova accresciuta produttività, legata all’introduzione delle nuove tecnologie, abbassa i costi di produzione del capitale costante, riducendo momentaneamente la composizione organica del capitale.
Un esempio numerico. Ammettiamo che il rapporto in valore fra il capitale costante e il capitale variabile per un paese X sia di 99.000 di capitale costante e 1.000 di capitale variabile e che il saggio del plusvalore sia del 100%. Il plusvalore, il lavoro non pagato, sarà allora di 1.000, come il capitale variabile. Il tasso del profitto, cioè P/(C+V) = 1.000/(99.000+1.000) = 1%. In seguito, nel dopoguerra, lo stesso capitale costante vede il suo valore diviso per 3. Si ha dunque 33.000 di capitale costante per 1.000 di capitale variabile. Il tasso del profitto è allora di 1.000/(33.000+1.000) =2,9%. Ora se il saggio del plusvalore è passato dal 100% al 200%, il saggio del profitto sale al 5,9% !
Il saggio del profitto cade ma la massa del plusvalore cresce esponenziale.
Il saggio del profitto cade costantemente e tende verso lo zero, e ciò condanna a morte il capitalismo. Si può temporaneamente risollevare, in una nuova crescita per qualche decennio, soltanto attraverso guerre imperialiste sempre più devastanti. Ma se il saggio del profitto cade, al contrario la massa del plusvalore aumenta costantemente, e con essa la massa del capitale e la produzione fisica. Ad eccezione dei periodi di crisi, che vedono crollare la produzione e il valore dei capitali, da un ciclo all’altro la massa del plusvalore e la produzione continuano a crescere. «La caduta del saggio e l’accelerazione dell’accumulazione non sono che espressioni differenti dello stesso processo, in questo senso entrambe esprimono lo sviluppo della produttività» (“Il Capitale”, Libro III, tomo I, capitolo XV).
È questo che mostriamo qui riferito alla curva della produzione industriale tedesca. Ci saremmo potuti riferire a quella degli Stati Uniti o di qualsiasi altro paese, il risultato sarebbe stato lo stesso. L’indice della produzione industriale vi passa da 100 nel 1950 a 947 nel 2015, come dire che dal 1950 la massa dei prodotti dell’industria si è moltiplicata per 9,47.
Osservando la curva, si notano i punti di minimo, che corrispondono a contrazioni della produzione dovute alle crisi di sovrapproduzione: 1967, 1975, 1982, 1987, 1993, 2002-2003 e soprattutto 2009-2010.
B. LO STRANGOLAMENTO DEL MERCATO
Lo scopo della produzione, nel modo di produzione capitalistico, non è il soddisfacimento dei bisogni umani ma l’accumulazione di capitale: ogni capitale investito deve fruttare un profitto.
Questo si presenta come una massa di merci di cui bisogna realizzare il valore, cioè va venduta sul mercato.
Fatto è che non si può avere equilibrio fra produzione e mercato, perché queste due fasi della circolazione del capitale sono rette da leggi in contrasto. La produzione non è determinata dai bisogni, dalla domanda, ma accade il contrario: la produzione nel capitalismo, a differenza dei modi di produzione antecedenti, precede la domanda, e si trova poi a dover smaltire la produzione di merci, condizione per poter ricominciare un nuovo ciclo.
La sezione I del capitale comprende l’insieme dei settori che producono i mezzi di produzione, le macchine utensili, le materie prime e i semilavorati, che vengono utilizzati poi dalla sezione II, la quale produce i beni di consumo, alimentari, abbigliamento, ecc.
La produzione capitalistica si trova in uno squilibrio costante: squilibrio fra la sezione I e II del capitale, squilibri locali, a livello regionale, ecc. Queste tensioni alla lunga si traducono in fallimenti di imprese e periodicamente in sovrapproduzione.
È dunque vitale per il capitalismo estendere il mercato, costi quel che costi, al fine di smaltire la sempre più gigantesca produzione di merci. L’aumento dei salari aumenta lo smercio, ma se aumentano i salari il plusvalore diminuisce: questa è la morsa che stringe il capitalismo. Poiché il mercato nazionale presto si satura, bisogna trovare degli sbocchi all’estero: di qui l’importanza del commercio internazionale. L’altro mezzo di aggirare il limitato potere d’acquisto di privati ed imprese è il credito. Tuttavia prima o poi i conti devono quadrare.
Come con il calo del saggio del profitto la crescita delle produzioni rallenta, anche il mercato, nazionale e internazionale, si restringe. Tanto più che il mercato principale per il capitale è rappresentato dalla sezione I, quella dei mezzi di produzione. Rallentando la crescita degli investimenti, rallenta a sua volta il mercato dei mezzi di produzione, così come rallenta quello dei mezzi di consumo.
Riportiamo qui tre tavole riguardanti il commercio internazionale. Come fonte ci siamo riferiti alla Organizzazione Mondiale del Commercio, la quale offre una serie di dati sul commercio internazionale per tutti i paesi, in dollari correnti, a partire dal 1948. Serie che noi abbiamo convertito in dollari costanti del 2005. Per questa conversione avremmo dovuto avere l’indice dei prezzi dei prodotti importati e di quelli esportati, in moneta locale, per ogni paese, per poi convertirlo in dollari USA. In mancanza abbiamo calcolato un coefficiente di conversione per ogni anno basandoci sul rapporto fra il PIL degli Stati Uniti in dollari correnti e in dollari costanti 2005, dati forniti dall’ONU. Le serie della Banca Mondiale, espresse in dollari costanti partono infatti soltanto dal 1960, e non avremmo potuto raccordarli al lavoro sul commercio internazionale che il partito all’epoca aveva già intrapreso. Però la precisione delle misurazioni nella scienza economica non è quella richiesta in fisica o in chimica; essenziale è che non sia invertita la tendenza generale. Tuttavia la differenza fra i risultati ottenuta per mezzo di questo espediente e i dati della Banca mondiale è sicuramente trascurabile.
INCREMENTI ANNUI MEDI DEL COMMERCIO MONDIALE 1836-2008 (fonti Kuscynsky e OMC) |
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1836 -1890 |
1890 -1913 |
1913 -1949 |
1949 -1974 |
1974 -2008 |
4,3% | 3,3% | 0,5% | 8,3% | 5,1% |
Per la costruzione delle tabelle ci siamo riferiti all’interscambio commerciale mondiale, sommando esportazioni ed importazioni. A livello mondiale le importazioni e le esportazioni si pareggiano.
Si passa dal 4,3% per il ciclo 1836-1890, al 3,3% del 1890-1913, allo 0,5% per il ciclo che copre le due guerre mondiali. Poi una forte rimonta dopo la Seconda Guerra mondiale coll’8,3% del “Trentennio glorioso”, e una netta decelerazione al 5,1% nel ciclo 1974-2008.
Tuttavia l’incremento resta ancora elevato come si può vedere nella tabella seguente. In questa il ciclo 1974-2008 è diviso seguendo i cicli corti corrispondenti alle crisi commerciali internazionali. Non abbiamo suddiviso il ciclo 1949-1974 dato che in esso le crisi commerciali non hanno colpito tutti i paesi e non erano sincrone.
Nei periodi che seguono il 1980 si ha prima un crollo spettacolare dell’incremento fino al 1992, poi una netta, sebbene discontinua, risalita fino al 2008, seguita da una brusco rallentamento nel ciclo successivo, dal quale non siamo ancora usciti.
INCREMENTI MEDI ANNUI DEL COMMERCIO MONDIALE 1949-2008 (fonteONU) |
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1949 -1974 |
1974 -1980 |
1980 -1990 |
1990 -1992 |
1992 -1997 |
1997 -2000 |
2000 -2008 |
2008 -2014 |
8,3% | 7,6% | 1,2% | 1,5% | 6,0% | 3,4% | 9,4% | 1,0% |
Si evidenzia un rallentamento per il breve ciclo 1997-2000. Questa diminuzione corrisponde alla crisi monetaria e finanziaria che ha colpito i paesi del Sud-Est asiatico nel 1997, partita da Hong Kong, estesasi poi alla Corea del Sud e di lì alla Russia, il cui Stato si dichiarò insolvente, e che infine raggiunse i paesi dell’America Latina, come il Messico, il Brasile e soprattutto l’Argentina, che conobbe una terribile recessione e il cui Stato fu costretto a dichiararsi in bancarotta.
Cosa spiega la forte risalita degli incrementi del commercio mondiale dal 1992 al 2008? Due fattori: in primo luogo le delocalizzazioni e le esternalizzazioni che hanno fatto crescere il trasferimento di merci, in secondo luogo il formidabile sviluppo del capitalismo in Cina e nel Sud-Est asiatico.
Oggi le merci soltanto di rado vengono prodotte interamente nello stesso paese. Per abbassare il loro costo di produzione le grandi imprese hanno “esternalizzato” una parte della loro produzione e fatto ricorso a subappaltatori. Usufruendo della significativa riduzione nei noli dei trasporti, soprattutto marittimi, mettono in concorrenza le piccole e medie imprese fra loro in tutto il mondo. Così uno stesso prodotto prima di diventare vendibile può viaggiare numerose volte avanti e indietro fra diversi paesi. Oggi i beni intermedi rappresentano fra il 40 e il 60% del commercio internazionale. Per la Germania il 45% del suo commercio, poiché una parte considerevole della sua produzione è realizzata nei paesi dell’Europa Centrale (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca) dove la manodopera è qualificata e i salari sono molto bassi. È così che la grande Germania fra il 2003 il 2009 è diventata il primo esportatore mondiale. Successivamente gli Stati Uniti sono ritornati primi, ma poi la Cina ha superato entrambi, diventando dal 2009 il primo esportatore mondiale.
Gruppi come Renault in Francia o GM negli USA fanno fabbricare intere parti della loro produzione all’estero, che poi reimportano per venderla sul territorio nazionale. Secondo l’OMC il 49% degli scambi mondiali di merci e servizi nel 2011 avevano luogo nel quadro delle catene verticali di assemblaggio, contro il 36% nel 1995.
Ciò ha come effetto che la svalutazione della moneta nazionale oggi non aumenta la competitività del paese poiché fa rincarare i prodotti intermedi importati dall’estero. Lo si vede molto bene col Giappone che, malgrado varie svalutazioni successive, non è riuscito a rilanciare le esportazioni: nel periodo 2007-2015 l’incremento medio delle sue esportazioni è stato di -0,2%, contro il +2,7% degli Stati Uniti e il +2,1% della Germania. Ciò si riscontra anche in Gran Bretagna: dopo che ha annunciato la sua intenzione di uscire dall’Unione Europea la sterlina è scesa fortemente, tuttavia le sue esportazioni non sono affatto migliorate, proprio a causa del rincaro dei componenti intermedi che deve importare.
Questo risultato non piacerà certo ai partiti di nazionalisti e populisti che fioriscono un po’ dappertutto, ma che non possono cambiare in nulla questo aspetto della questione.
Il peso crescente dell’Asia
Lo sviluppo folgorante del capitalismo in Cina e nel Sud-Est Asiatico ha offerto un nuovo mercato, innanzitutto per le merci del settore manifatturiero, poi per i capitali dei grandi monopoli: gruppi industriali come General Motors, Honda, Siemens, Renault, ecc., collegati a banche di investimento che controllano, direttamente e indirettamente, migliaia di imprese sparse per il mondo. Mentre i mercati nordamericano, giapponese ed europeo crescono a passi da tartaruga, quelli del Sud-Est asiatico e della Cina galoppano.
Un semplice sguardo alla tabella mostra che la crescita del volume degli scambi dei grandi paesi imperialisti si è dimezzato nel ciclo 1974-2008 rispetto al precedente 1949-1974. Se si osservano nel dettaglio i cicli corti si vede nettamente la caduta degli incrementi passando dal 1974-1980 al seguente 1980-1990. Una piccola risalita per il ciclo 1990-2000 è seguita da una risalita nettamente più sostenuta, praticamente il doppio, fra 2000 e 2008, dovuta ai subappalti e in parte, grosso modo per la metà, allo sviluppo del mercato asiatico, in particolare di quello cinese.
INCREMENTI MEDI ANNUI DEL VOLUME DEGLI SCAMBI (fonte ONU) | ||||||
EUROPA + GIAPPONE + USA | ||||||
1949‑2008 | 1949‑2008 | |||||
1949- 1974 |
1974- 2008 |
1974- 1980 |
1980- 1990 |
1990- 2000 |
2000- 2008 |
2008- 2014 |
8,5% | 4,4% | 7,1% | 2,4% | 3,3% | 6,4% | -0,9% |
ASIA, meno il Giappone | ||||||
1960-2008 | 1974-2013 | |||||
1960- 1974 |
1974- 2008 |
1974- 1980 |
1980- 1997 |
1997- 2000 |
2000- 2008 |
2008- 2014 |
8,2% | 8,3% | 8,3% | 7,1% | 3,4% | 11,6% | 4,8% |
CINA | ||||||
1959- 2008 |
1959-2014 | |||||
1959- 1966 |
1966- 1974 |
1974- 1981 |
1981- 1997 |
1997- 2008 |
2008- 2014 |
|
9,1% | -3,6% | 8,6% | 8,2% | 9,9% | 18,0% | 7,4% |
La seconda partizione della tabella tratta dell’Asia, Giappone escluso. Comprende l’India, ma nel 2014 il volume commerciale di questo gigante asiatico restava inferiore a quello del Belgio, anche se sta riducendo le distanze. Per il Pakistan, l’Iran o i paesi del Medio Oriente la situazione è ancora peggiore. Quindi la crescita del mercato asiatico viene in primo luogo dalla Cina, autentico gigante, ma anche dalla Corea del Sud, grande paese industriale, da Taiwan, e dall’insieme dei paesi asiatici fra cui il Vietnam, che nel futuro potrebbe diventare un nuovo Giappone.
In Asia l’incremento resta elevato e stabile in entrambi i due cicli. Nei cicli brevi si ha una piccola diminuzione passando dal primo al secondo e una forte caduta per il ciclo 1997-2000, legata alla crisi del Sud-Est asiatico e che mostra bene il peso di questi paesi nel commercio asiatico. In seguito si è avuta una risalita nel ciclo 2000-2008, periodo in cui sono affluiti i capitali in eccesso dei grandi paesi imperialisti.
Si ha poi una forte contrazione ad un terzo nel ciclo successivo, che corrisponde alla crisi di sovrapposizione internazionale. Ma questo incremento annuale medio del 4,8% deve essere comparato al -0,9% dei grandi paesi imperialisti. Il commercio mondiale è quindi stato trainato dai paesi asiatici e in generale dai paesi emergenti che continuano ad attrarre i capitali dei monopoli. Tuttavia dopo il 2015, un certo numero di questi paesi sono entrati in recessione, come il Brasile, o la loro crescita è fortemente rallentata.
PESO % DELLE ESPORTAZIONI NEI SUCCESSIVI CICLI (dati Banca Mondiale) |
|||||
‘73-79 | ‘79-89 | ‘89-00 | ‘00-07 | ‘07-15 | |
Stati Uniti | 4,6% | 4,7% | 5,6% | 4,5% | 4,4% |
Germania | 5,3% | 5,6% | 4,7% | 4,7% | 4,4% |
Giappone | 2,5% | 3,3% | 3,2% | 2,8% | 2,5% |
Francia | 2,4% | 2,5% | 2,6% | 2,3% | 1,8% |
Regno Un. | 2,9% | 2,8% | 2,4% | 1,9% | 1,5% |
Italia | 2,4% | 2,4% | 2,3% | 1,9% | 1,5% |
Belgio | 1,7% | 1,7% | 1,6% | 1,6% | 1,4% |
Cina | 0,0% | 0,8% | 1,5% | 3,4% | 5,1% |
Corea Sud | 0,2% | 0,4% | 0,8% | 1,3% | 1,6% |
Russia | 1,5% | 1,8% | - | 1,1% | 1,1% |
Mondo | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 |
Cina. Fra il 1959 e il 2008 il suo commercio internazionale è cresciuto al ritmo medio del 9,1%, più del contemporaneo 8,5% dei paesi occidentali. I cicli corti cominciano col 1959-1966, che ha visto in Cina la terribile crisi del 1961-1962, in cui la produzione industriale è crollata del 48%. Questa crisi è stata accompagnata da una grave crisi agricola che ha provocato milioni di morti. Ciò spiega il crollo del commercio internazionale cinese. Questa recessione sarà seguita da un’altra nel 1967-1968, dopo che nel 1966 era stato superato il massimo del 1960: 1043 contro 924 nell’indice della produzione industriale. La crisi è stata meno grave, ma la caduta della produzione ha raggiunto comunque il 22%. Ciò che spiega la crisi politica in seno all’apparato del partito e dello Stato e l’arruolamento di una parte della gioventù nella cosiddetta “rivoluzione culturale”, al fine di combattere le turbolenze sociali e mobilitare le energie in vista della ripresa. Tuttavia questa crisi non appare nell’incremento medio di tutto il ciclo, al contrario il suo ritmo molto elevato corrisponde a un capitalismo in una fase giovanile di crescita sostenuta.
La Cina ha approfittato in pieno della “mondializzazione”, come si può vedere dall’ascesa dei suoi incrementi, di ciclo in ciclo, fino a raggiungere il 18% medio annuo nel ciclo 1997-2008. Merci affluivano dappertutto, ma anche e soprattutto capitali, e le esportazioni cinesi esplodevano.
Poi venne la fine dell’ubriacatura: la recessione mondiale del 2008-2009, con una caduta del commercio mondiale in dollari costante del 14%. Le esportazioni sono diminuite del 28% in Asia, del 21% in Europa, del 18% in America del Nord e del 9,3% in Cina.
Questa caduta delle esportazioni cinesi è stata seguita da una forte ripresa nel 2010. Ma, indagando sul commercio estero della Cina, vedremo che è rallentato fortemente nel 2014, nel 2015 e nel 2016, annunciando una recessione di notevole ampiezza.
Nella successiva tabella riportiamo il peso relativo mondiale delle esportazioni dei principali paesi industriali.
PESO NEL COMMERCIO MONDIALE DEI PRODOTTI DELLA MANIFATTURA (dati Banca Mondiale) |
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2000-2007 | 2007-2015 | |
Russia | 0,7% | 1,0% |
Svizzera | 1,3% | 1,2% |
In rimarchevole e inesorabile declino la Francia, il Regno Unito e l’Italia. Questi due ultimi si ritrovano allo stesso livello del Belgio, il cui arretramento è molto più debole, ma è sorpassato dalla Corea del Sud. La Germania arretra anch’essa, ma più lentamente e il Giappone ritorna alla sua quota del 1973-1979. Gli Stati Uniti segnano un lento declino e si ritrovano nei cicli 2000-2007 e 2007-2015 a un livello leggermente inferiore a quello del ciclo 1973-1979.
In senso inverso si può osservare la folgorante ascesa della Cina che passa da un valore trascurabile nel ciclo 1973-1979, al 5,1% del 2007-2015, massimo mondiale, avendo sorpassato gli Stati Uniti. Nelle esportazioni la Cina ha superato gli Stati Uniti dal 2006 e nel volume del commercio dal 2013. La Corea del Sud continua la sua lenta ma non meno evidente ascesa.
Abbiamo riportato i dati sulla Russia al fine di mettere le cose nella giusta prospettiva. La Russia è una grande potenza industriale, comparabile al Giappone, ma è un nano commerciale. Se si escludono le materie prime e se si prendono in considerazione i prodotti manifatturieri, allora anche la piccola Svizzera le passa davanti. Ciò fa sì che tutti i paesi europei come la Germania, la Francia, il Belgio, il Regno Unito, ecc., a parte l’Italia, hanno un interscambio commerciale maggiore con la Svizzera che con la Russia. Soltanto l’Italia commercia di più con la Turchia e con la Russia, che con la confinante Svizzera.
Per concludere questo capitolo riportiamo due grafici a conferma che il declino relativo del commercio dei paesi occidentali va di pari passo con il loro declino industriale, del loro peso nella produzione industriale mondiale, e confermare l’ascesa inesorabile dell’Asia, soprattutto del Sud-Est asiatico e della Cina.
Nel primo la curva in segnata in blu rappresenta il peso commerciale degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone riuniti insieme, quella in giallo rappresenta l’Asia senza il Giappone, quella in celeste gli Stati Uniti e quella in rosso la Cina. Il declino commerciale relativo dei grandi Stati imperialisti è evidente. La loro quota passa dal 55% al 38% mentre l’Asia passa dall’8% al 30%. Si vede che le due curve tendono ad incontrarsi, e si può anche prevedere quando.
La curva della Cina ha incrociato quella degli Stati Uniti nel 2012 e l’ha sorpassata nel 2013. È nato un nuovo grande imperialismo, che si prepara a prendere il posto degli Stati Uniti nel mondo. In questo inizio del XXI secolo la Cina si trova a fronte degli Stati Uniti nella stessa posizione in cui questi si trovavano con l’Inghilterra all’inizio del XX secolo. Ci sono volute due guerre mondiali perché gli Stati Uniti rimpiazzassero definitivamente l’Inghilterra. Ma ai nostri giorni la produttività è tale che la crescita del capitalismo è ben più rapida, ed invecchia anche molto più rapidamente. Ciò fa sì che, nel caso in cui il proletariato non riesca ad arrestare la folle corsa del capitalismo mondiale, basterà una sola guerra mondiale.
Se si prolungano la curva che rappresenta il gruppo dei vecchi imperialismi e quella che rappresenta l’Asia, si può prevedere il loro punto di intersezione. La data varia seguendo il tipo di funzione approssimante utilizzata. La curva dell’Asia è praticamente una linea dritta, e la si può dunque rappresentare con una funzione lineare (ax+b). Quella degli Stati Occidentali, Giappone compreso, è più complessa. Se la si presenta come una funzione lineare, il punto di intersezione si ha nel 2033, mentre se si utilizza una funzione del secondo ordine (ax²+bx+c) il punto di intersezione anticipa assai già al 2019.
Nel frattempo si avrà un’altra crisi di sovrapproduzione, che noi prevediamo per il 2018-2019.
Fra questi giganteschi urti della storia si porrà l’alternativa: Rivoluzione comunista internazionale o Terza guerra mondiale.
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Come le classi dominanti curde si sono sempre sottomesse agli imperialismi e come ne sono state sempre infine tradite
Il Kurdistan iracheno
L’operazione No Fly Zone disposta nell’Iraq del Nord dagli occidentali, presentata come “umanitaria”, sarebbe durata sei mesi. Rispondeva anche agli interessi della Turchia, uno degli attori chiave della coalizione. La zona fu di fatto sottratta all’autorità di Baghdad, creando de facto una entità indipendente. Questa non copriva l’insieme del Kurdistan iracheno, erano escluse la città petrolifera di Kirkuk, riconquistata dalle truppe governative il 28 marzo 1991, oltreché la gran parte del governatorato di Sulaymaniyya; viceversa la zona comprendeva la regione di Mosul, la cui sovranità era sempre rivendicata da Ankara. Iniziava così quel processo di spartizione dell’Irak che è tutt’ora in atto.
Il 23 ottobre, sorprendendo tutti, il regime di Baghdad richiamava dai governatorati curdi tutti i suoi funzionari (giustizia, sanità ed educazione) lasciando la regione in un vuoto giuridico e amministrativo, e imponeva un embargo economico che si aggiungeva a quello disposto sullo stesso Iraq da parte dell’ONU. Tutto ciò doveva aggravare le già disastrose condizioni di vita della popolazione del Kurdistan. Nel 1992 i partiti curdi autoproclamarono la zona “regione federata” dell’Iraq, finché il 2 ottobre 2005 la Costituzione irachena sancì il federalismo in Iraq e nel Kurdistan iracheno.
La regione copre 41.939 kmq e vi vivono 4 milioni di abitanti, per la maggior parte curdi musulmani con minoranze religiose cristiane, ed etniche turcomanne e arabe.
Di lì a poco, nel 1992, furono organizzate elezioni parlamentari, per una “Assemblea nazionale del Kurdistan-Iraq”, e presidenziali. Il PDK superò l’UPK per soli 15.000 voti, e alla presidenza Massoud Barzani vincerà su Jalal Talabani per appena 5.000 voti. Un governo detto “governo regionale del Kurdistan” fu costituito “in misura paritaria” fra i due partiti, ma senza presidente, e nessun altro accordo poté essere stabilito.
Una guerra civile fra i partigiani dei due partiti dilanierà la regione dal 1994 al 1998, causando 4.000 morti. Il motivo della guerra stava nella spartizione dei proventi del contrabbando con la Turchia, dei diritti di dogana sulle importazioni irachene al varco di frontiera di Khabur, alla frontiera turca e situato nella zona di influenza del PDK, mentre i posti di frontiera con l’Iran, controllati dall’UPK, non davano che deboli rendite. Mentre l’UPK era sostenuto dal regime iraniano, il PDK si rivolse alla Turchia, che in cambio chiese di combattere il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) presente nella sua zona di influenza.
La Turchia nel marzo 1995 lanciò le proprie truppe nell’Iraq del Nord, ma nel 1996 dovette chiedere l’aiuto di Saddam Hussein per contrastare l’UPK sostenuto dall’Iran. Occorre sottolineare che ancora oggi le risorse del commercio transfrontaliero fra Turchia e Iraq del Nord sono sistematicamente utilizzate da Ankara al fine di dividere le fazioni curde nel quadro della sua lotta contro il PKK.
Anche l’Iran si impegnò per assicurarsi la collaborazione dei curdi d’Iraq per eliminare la propria opposizione curda, rifugiata nell’Iraq del Nord; utilizzò anche i partiti islamisti sunniti attivi nell’est del Kurdistan iracheno al fine di avere un ascendente sull’UPK, che controllava il governatorato di Sulaymaniyyah e che nel 2001 si impegnò a versare al partito islamista un sostegno finanziario.
Il programma pseudo-umanitario “petrolio in cambio di cibo” – impostato dagli occidentali con la risoluzione 986 dell’ONU dell’aprile 1995 per alleviare le sofferenze del popolo iracheno, e che si sa bene essere stata una fonte di privilegi e di grande corruzione per tutti i partner economici occidentali, iracheni, turchi, ecc. – contribuirà senza alcun dubbio all’autonomia dei tre governatorati curdi. Infatti si applicherà un programma specifico per i curdi, che Baghdad accettò nell’aprile 1995, dopo cinque anni di dinieghi, di fronte ad una situazione sanitaria e alimentare catastrofica. Il 13% della rendita del petrolio fu attribuita ai tre governatorati curdi del Nord, che se la spartivano in funzione dei bisogni clientelari dei due principali partiti curdi nazionalisti.
Con gli accordi di Washington del settembre 1998 fra PDK e UPK, gli USA e la Gran Bretagna erano riusciti a mettere fine alla guerra civile curda, divenuta imbarazzante per queste potenze imperialistiche, stabilendo una cooperazione con la Turchia contro il PKK e la concessione per i turcomanni di poter vivere liberamente in Kurdistan (il PDK aveva rifiutato, a dispetto di ogni pressione turca, di riconoscere i diritti delle minoranze turcomanne!).
Nel 2001, Baghdad, Ankara e Damasco, ostili all’autonomia dei tre governatorati curdi, ritarderanno gli aiuti previsti per la regione. La Turchia limiterà il transito per il Nord dell’Iraq controllato dal PDK e fra il 2001 e il 2002 limitò il commercio di gasolio per privare il PDK di circa il 90% delle sue risorse. Le rendite furono ridistribuite fra il PDK e l’UPK e certe zone e certe minoranze, come i turcomanni, ne furono escluse. Questo atteggiamento facilitò il lavoro dei gruppi islamisti che si manifesteranno nella regione nel 2001, soprattutto nella regione controllata dall’UPK e vicina all’Iran.
All’approssimarsi dell’intervento degli occidentali nel 2003 contro il regime di Saddam Hussein, i partiti curdi offrirono agli americani 100.000 combattenti, a condizione di essere protetti dalla Turchia, che minacciava di invaderli da nord. Gli USA rinunciarono allora a sorvolare con i loro aerei la Turchia, poiché questa a sua volta chiedeva in cambio l’autorizzazione ad invadere l’Iraq. Ma la Turchia pretese che i combattenti curdi si ritirassero da Mosul e da Kirkuk, sulle quali puntava.
La Regione Autonoma
Il vuoto giuridico sopravvenuto il 9 aprile del 2003, giorno della fine del regime di Saddam Hussein, fu colmato nel febbraio del 2004 dal governatore americano Paul Bremer con l’adozione di una legge d’occupazione che sopprimeva la Costituzione irachena del 1970: essa definiva l’Iraq come una repubblica federale “democratica”, riconoscendo l’autonomia del Kurdistan iracheno comprendente i governatorati di Dahuk, Erbil, Sulaymaniyya, Kirkuk, Ninive e Diyala, e del curdo come lingua ufficiale dello Stato, accanto all’arabo.
La riunificazione dei due governi curdi, quello del PDK, la cui sede era a Erbil, e quello dell’UPK, a Sulaymaniyya, fu inaugurata insieme con l’accordo elettorale del primo dicembre 2004, che conferì a Talabani il posto chiave di presidente nel governo centrale di Baghdad, mentre Massoud Barzani prese la presidenza del Kurdistan. Al momento delle elezioni parlamentari curde, il PDK e l’UPK fecero una lista unica col nome di Alleanza Unita del Kurdistan e si spartirono in quote eguali il numero dei seggi. Inoltre annunciarono la presentazione di una lista unica per le elezioni nazionali irachene del 2005, che daranno poi la maggioranza ai partiti sciiti; la coalizione curda arrivò al secondo posto dal momento che gli arabi sunniti furono i grandi assenti, avendo fatto appello al boicottaggio.
Nell’aprile 2005 Talabani fu eletto presidente dell’Iraq, malgrado l’ostilità dell’ala sinistra dell’UPK, che considerò la nomina un espediente per allontanarlo dal Kurdistan. Talabani impose che l’UPK designasse Massoud Barzani alla presidenza, minacciando altrimenti di dimettersi dal Partito: nel giugno 2006 il Parlamento all’unanimità lo elesse presidente del Kurdistan. Massoud Barzani dichiarava così la riunificazione delle due amministrazioni curde in un solo governo, attribuendo il posto di primo ministro al PDK e quello di presidente del Parlamento all’UPK.
Nell’ottobre 2005, la Costituzione irachena adottata tramite un referendum aveva confermato il federalismo curdo e l’arabo e il curdo come lingue ufficiali. Il Kurdistan iracheno manteneva i propri combattenti peshmerga sotto il nome di Guardie della Regione. Ma la Regione Autonoma non poteva concludere trattati internazionali né accordi economici e commerciali, che restavano di competenza dello Stato federale. La Costituzione del 2005 non rispondeva alla spinosa controversia sui limiti geografici del Kurdistan iracheno, le regioni rivendicate dal governo curdo sui territori arabizzati delle regioni ricche in petrolio, Kirkuk e Khanaqin; non affrontava il problema della minoranza turcomanna, sostenuta dalla Turchia, né di quella cristiana. D’altra parte spetta all’Assemblea Nazionale irachena adottare il bilancio d’insieme dell’Iraq attribuendone il 17% al governo del Kurdistan (dopo averne sottratte una parte per le spese sovrane dello Stato centrale).
Questo Kurdistan iracheno autonomo, che confina con la Turchia e con l’Iran, baserà la sua economia sulla rendita petrolifera e sul contrabbando. Il governo iracheno tenterà più volte di rimettere in discussione l’ammontare di questa rendita, mentre Massoud Barzani rivendicherà continuamente la città di Kirkuk e le sue ricchezze petrolifere. Gli attentati del 2012 in questa città accrebbero ulteriormente la tensione. Lo sfruttamento del petrolio era controllato dallo Stato centrale, ma il governo curdo, malgrado l’opposizione di Baghdad, rivendicava il controllo di tutti i nuovi giacimenti scoperti dopo il 2005. Esso siglò contratti con compagnie straniere, americane, coreane, turche e francesi, e una parte delle rendite del petrolio non fu mai versata nelle casse del governo centrale.
Il Kurdistan iracheno autonomo ha conosciuto un significativo sviluppo economico, maggiore rispetto al resto dell’Iraq, grazie alla rendita petrolifera e al commercio con i paesi vicini, in special modo la Turchia, cui Barzani si era riavvicinato politicamente e dove aveva massicciamente investito; era ritenuto essere vicino anche ad Israele. L’appoggio americano è certo decisivo, poiché il Kurdistan ne resta sempre una pedina. Il governo del Kurdistan iracheno di Massoud Barzani ha stretti contatti con i curdi turchi, iraniani e siriani, con i quali gioca la carta americana (o altra) nell’attuale conflitto siriano.
Il regime di Massoud Barzani, autoritario e clientelare, è un perfetto guardiano della pace sociale, malgrado il malcontento della popolazione sempre più marcato. La popolazione curda non può più prendersela ormai con i nemici “esterni” ma solo contro l’UPK e il PDK, partiti totalmente rappresentativi della borghesia curda: il PDK, più conservatore, e caratterizzato da residui tribali e famigliari, e l’UPK, pseudo-socialista, rappresentano di fatto un solo fronte che difende gli interessi della borghesia del Kurdistan contro quelli del proletariato. Il malcontento è significativo soprattutto nella zona d’influenza dell’UPK che mostra forti divisioni interne. Al momento delle elezioni del 2007, il partito degli islamisti ha riportato circa il 15% dei voti nella città di Sulaymaniyya e il 7% a Erbil, feudi di Talabani.
Per altro, in Iraq la deplorevole situazione economica e politica permane. Gli attentati del 2012 oppongono sempre sunniti e sciiti e il bilancio del massacro, benché ben inferiore a quello degli anni 2003-2007, ammonta a 4.500 vittime. La sua economia è interamente vincolata al petrolio (90% degli introiti e l’80% delle esportazioni). Il paese è diretto da partiti islamisti sciiti fortemente influenzati dall’Iran, ma è sempre sotto il controllo americano. Gli USA ne sono il primo fornitore militare: il tentativo di rivolgersi alla Russia nel 2012 è stato bloccato dalle pressioni americane. La guerra in Siria ha aggravato i contrasti fra la minoranza sunnita, che è intervenuta al fianco della ribellione siriana, quindi contro l’Iran, e il potere sciita iracheno.
Il Kurdistan iracheno autonomo si è imposto come l’alleato indispensabile degli USA in Iraq e nella regione. Le istituzioni politiche del Kurdistan autonomo sono sotto il controllo del presidente, Massoud Barzani, capo del PDK, e del vicepresidente che appartiene all’UPK; il suo ex-rivale Talabani, capo dell’UPK ha accettato la presidenza dell’Iraq e altri curdi hanno ottenuto posti importanti nell’amministrazione, nei servizi segreti e nell’esercito. Questi dirigenti servono ormai da arbitri e da pompieri fra i sunniti e gli sciiti iracheni, a tutto vantaggio dell’imperialismo americano. Ma nel 2012, mentre lo stato di salute del mediatore Talabani era peggiorato, l’arroganza di Barzani e le sue rivendicazioni di indipendenza non cessavano di aumentare in un contesto di acuto conflitto sciita-sunnita iracheno, che la situazione siriana, qualunque sia il suo sbocco, potrebbe ulteriormente aggravare.
Nella Regione Autonoma del Kurdistan, o GRK, la Francia ha aperto un Consolato a Erbil nel 2007, dopo quello della Russia, seguita da molti altri Stati.
Da qualche mese deve far fronte ad una ondata di contestazione causata dal mancato pagamento degli stipendi ai suoi funzionari e da accuse di corruzione. In effetti, dopo un periodo di ricchezza nel primo decennio di questo secolo, grazie alle risorse di idrocarburi e per essere snodo commerciale tra l’Europa e la Turchia e tra l’Iraq e l’Iran, nel 2014 la GRK è entrata in una crisi. La caduta del prezzo del petrolio, lo sforzo della guerra contro Daesh e l’accoglienza di rifugiati e profughi vi hanno provocato una recessione. Nel febbraio 2016 il governo ha adottato misure d’austerità.
La Regione dispone di un proprio esercito, i peshmerga, equipaggiati e finanziati da Washington, e vende il suo petrolio anche senza l’accordo dello Stato centrale, principalmente alla Turchia e anche all’Iran. In effetti dopo il 2010, si assiste ad una crescita spettacolare delle relazioni economiche tra la Turchia e le autorità del Governo regionale curdo di Iraq, che hanno buone relazioni però anche con l’Iran, e con lo stesso Israele per la tecnologia militare.
Il petrolio si trova nella regione attorno a Kirkuk e Bassora, nel Sud, con raffinerie vicino a Kirkuk e a Baghdad. Gli oleodotti partono da Kirkuk o da Erbil, a nord di Kirkuk, e si dirigono uno verso la Turchia, un altro verso la Siria, un terzo si prolunga fino al Golfo Persico passando per Baghdad. Dal 2014 Erbil ha cominciato a fornire petrolio alla Turchia, ma nell’agosto 2015, dopo l’interruzione dei negoziati di pace tra Ankara e il PKK, questo ha sabotato gli oleodotti che passano per la Turchia. Anche l’oleodotto per la Siria è stato abbandonato dopo l’occupazione da parte dello Stato Islamico e la guerra. Nel 2014 è stato raggiunto un accordo per la costruzione di un nuovo oleodotto verso le raffinerie iraniane; Teheran deve agire però con cautela per non ferire l’alleato governo iracheno.
Negli ultimi anni il petrolio curdo è stato trasportato in Turchia ed in Iran con file infinite di autocisterne.
Il Kurdistan turco
Il Kurdistan turco si estende per 230.000 kmq e comprende circa 12-14 milioni di abitanti, ossia il 18% della popolazione della Turchia, di cui la metà nei villaggi dell’ovest; una buona parte è integrata nella società turca ma quella che vive in Kurdistan è ostaggio della lotta fra le organizzazioni curde autonomiste e il governo turco.
Un partito curdo, il Partito della Società Democratica, membro dell’Internazionale Socialista, tollerato per alcuni anni dal governo turco, nel 2009 è stato sciolto d’autorità dalla Corte Costituzionale turca. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), fondato nel 1978, che propugna la strategia maoista della guerra popolare, è la principale formazione politico-militare in guerra contro Ankara; i suoi guerriglieri sono dispersi in Turchia, Iraq, Iran e Siria. Molti di questi furono addestrati dai palestinesi del Libano inquadrati nelle truppe di Yasser Arafat. Nel 2002, il PKK ha cambiato il nome in Congresso per la Libertà e la Democrazia in Kurdistan, KADEK, abbandonando quindi i riferimenti al marxismo-leninismo. Il Partito della Turchia democratica, ovvero il DTP, pro-curdo, creato nel 2005 e suo portavoce legale, ha ottenuto 20 seggi al Parlamento turco nel 2007. La base logistica del PKK è il Monte Kandil nel Kurdistan iracheno, dove gli eserciti iraniani nel 2006 e turchi nel 2008 hanno tentato di annientarlo: a partire dagli anni Ottanta, Ankara aveva negoziato con il governo di Saddam Hussein un “diritto di inseguimento” di circa 10 km all’interno del territorio iracheno.
Il capo del PKK, Abdullah Öçalan, è stato rapito nel 1999 in Kenya da agenti turchi aiutati da americani e israeliani, ed è stato imprigionato in un’isola del Mar di Marmara, ma è sempre con lui che il governo turco cerca ancora oggi di trattare.
L’influenza del PKK si estende in Siria, in Iraq (si contano in circa 26 le incursioni dell’esercito turco nel Kurdistan iracheno nei 27 anni di combattimenti) e in Iran, dove nel 2004 ha creato una sua filiazione, il Partito della Vita Libera per il Kurdistan (PJAK), il quale si vanta che la metà dei membri sono donne. Il PJAK è nato con il sostegno finanziario degli USA e di Israele e i suoi militanti sarebbero addestrati nel Kurdistan iracheno da militari israeliani. Il PJAK dipende di fatto dal PKK. Benché le due organizzazioni siano considerate “terroriste” dall’Europa, dagli USA e dalla NATO, incontri hanno luogo regolarmente con il loro capo, che vive liberamente in Germania e che, per esempio, si è recato a Washington nel 2007.
In Francia 18 membri del PKK sono stati condannati nel 2011 per estorsione nei confronti delle comunità curde, riciclaggio e traffico di droga. L’assassinio nel gennaio 2013 a Parigi di tre militanti curdi del PKK legati a Öçalan avviene nel corso delle trattative di pace che quest’ultimo aveva aperto alla fine del 2012 con il governo di Ankara. Si vuol portare sul piede di guerra il PKK quando è invece interessato a fare la pace: secondo l’Interpol l’80% dell’eroina proveniente dal Medio Oriente transita attraverso il PKK e il PJAK, il che rappresenta per questi gruppi una risorsa colossale. La guerra infinita contro il PKK è anche un alibi per nascondere i problemi sociali e ravvivare il nazionalismo turco, sostegno indefettibile del governo di Ankara.
Negli anni 2000, la “soluzione” alla questione curda è stata utilizzata come pretesto nelle trattative per l’ingresso nell’Unione Europea: alcune misure di ammorbidimento nei confronti dei curdi sono state adottate, ma dal 2009 la repressione è ricominciata colpendo tutti i partiti curdi, legali e illegali.
La posizione della Turchia nella NATO e nel campo americano e il suo appoggio alla ribellione siriana potrebbe oltremodo aggravare le tensioni in tutto il Kurdistan. Per il momento i curdi siriani diffidano dei ribelli siriani e delle loro componenti sunnite e nazionaliste. Ma attualmente i governi siriano e iraniano hanno tutto l’interesse a strumentalizzare i ribelli curdi, e in particolare il PKK, contro la Turchia. Nell’ottobre 2011 a seguito dell’aggressione mortale a 24 soldati, al fine di inseguire i partigiani del PKK intorno al monte Kandil, l’esercito turco è penetrato nel Kurdistan iracheno con l’assenso del governo Barzani e il sostegno dell’intelligence americana.
Il Kurdistan turco è essenziale per la Turchia innanzitutto per le sue ricchezze in petrolio, ma anche per i grandi fiumi Tigri e Eufrate, fondamentali per l’irrigazione dell’Anatolia e dei paesi a valle, l’Iraq e la Siria. Anche Israele sarebbe interessato ad un possibile approvvigionamento. Questa regione è oggetto già dal 1977 del Great Anatolian Project, un grande progetto regionale con la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche. Vi sono presenti investitori giapponesi, olandesi e israeliani. Queste dighe sono oggetto di un contenzioso con la Siria e l’Iraq poiché la Turchia, regolandone il deflusso, potrebbe causare disastrose carenze d’acqua per l’agricoltura. Di fatto nel 1992 la Turchia ha esercitato questa pressione sulla Siria, che tollerava il PKK nella valle della Bekaa: a partire dal 2011 il regime siriano ha cambiato politica e combatte il PKK. Contrasti per la diminuzione dell’approvvigionamento d’acqua si sono avuti anche con l’Iraq. Ma negli ultimi anni i due governi turco e iracheno si sono riavvicinati e gli scambi commerciali bilaterali, principalmente a favore della Turchia, non cessano di aumentare.
Erdoğan ha rotto le trattative con il PKK nell’estate 2015 con un cambiamento di tattica che punta a sbarazzarsi della minaccia curda all’interno e alle frontiere.
(continua al prossimo numero)