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Primo Maggio 2017
Di fronte alle minacce di guerra imperialista
Tornare alla lotta di classe, all’Ottobre, al Comunismo
La storia si ripete
Il capitalismo porta alla miseria la gran parte dell’umanità non perché produce poco ma perché è costretto a produrre troppo. Come nella Grande Depressione iniziata nel 1929, la attuale crisi economica del capitalismo, che ormai abbraccia tutti i continenti, dagli Usa alla Cina, non ha via di uscita: l’accumulazione del capitale si inceppa, gli operai sono licenziati, la disoccupazione si diffonde.
Perché la causa della crisi è nei meccanismi vitali del capitalismo stesso.
Il mercato mondiale, che finora aveva smaltito la sovrapproduzione, diviene inaccessibile per le merci dei più vecchi e maggiori capitalismi, che denunciano i precedenti accordi fra gli Stati e tornano ad invocare il protezionismo e le guerre doganali. Si inganna la classe lavoratrice pretendendo di trovare una soluzione nella difesa della patria, della nazione e della sua economia, o anche solo della propria fabbrica.
La globalizzazione delle produzioni, della finanza, dei commerci, delle migrazioni dei lavoratori, nata col capitalismo, ne costituisce la esplosiva carica eversiva ed è un’illusione reazionaria volerla fermare, contenere, riformare. La negazione della globalizzazione del capitale può essere solo l’internazionalismo comunista.
Ma il capitalismo non può tornare indietro e chiudersi all’interno dei mercati nazionali: per sopravvivere ha bisogno di devastare il Mondo. Non potrà mai esistere un capitalismo senza crisi e senza guerre. Gli Stati borghesi infatti sempre più ostentano i contrasti di interessi che li dividono, non più celati nel cerimoniale delle diplomazie. Già si misurano con le armi nell’interminabile conflitto siriano, ma preparano un nuovo terzo grande conflitto globale che supererà di molto le immani carneficine di proletari avvenute nella Prima e nella Seconda Guerra.
È ineluttabile, tutti i governi, di destra e di sinistra, guerreschi e pacifisti, si getteranno nella fornace della guerra, e vi getteranno il proletariato, perché in realtà la guerra è necessaria alla mondiale classe borghese, per la sua conservazione, come è rivolta in sostanza contro la classe operaia e contro il comunismo.
Nei trascorsi decenni di pace capitalistica, nei paesi di più antica industrializzazione, nonostante le enormi ricchezze accumulate dalla borghesia, la classe operaia ha visto progressivamente revocate le briciole della corruzione del riformismo, del pacifismo e del “progresso” borghese e conservatore, mentre nei paesi di più recente sviluppo capitalistico si sono rovesciati nelle città centinaia di milioni di rurali, divenuti operai che, alla dura scuola del capitalismo, si sono allineati nell’esercito sterminato della classe operaia mondiale, chiamata dal bisogno e dalle oggettive condizioni storiche alla rivoluzione comunista.
Contro le devastazioni del tardo e morente capitalismo il proletariato, per la sua difesa oggi e liberazione domani, può contare solo sulle proprie forze, sulla sua lontana e incessante tradizione di lotta, sul programma del comunismo, di cui è custode solo il suo partito. Un programma, distruttore del mercantilismo e del lavoro salariato, che è oggi maturo ed urgente ormai in tutto il mondo.
La storia può ripetersi
Nel Maggio di un secolo fa, mentre la Prima Guerra imperialista mondiale dilaniava il proletariato europeo, in Russia il Partito bolscevico si preparava a prendere la direzione della rivoluzione che avrebbe di lì a poco abbattuto lo Stato borghese e il suo governo, nel nome dell’internazionalismo proletario, della fine immediata della guerra, della riforma agraria, del comunismo mondiale.
La classe operaia di tutto il mondo cercò di seguire quell’esempio, ma fu, allora, battuta. Fu sconfitta non dalle forze armate degli Stati borghesi ma dal loro complice, il riformismo infiltratosi nel movimento operaio.
Ma il proletariato tornerà domani a far sentire la sua voce. Si darà le sue organizzazioni di lotta difensiva, veri sindacati di classe con i quali opporrà sempre più decisi ed estesi scioperi alla oppressione padronale. Tornerà a lottare intransigentemente a difesa delle proprie condizioni di lavoro e di vita, contro l’economia nazionale, che altro non è che l’economia del capitale, ponendosi così già sulla strada che lo condurrà alla distruzione delle disumane e antistoriche leggi del capitale.
Una incessante battaglia che sarà una scuola di guerra sociale ove apprenderà a riconoscere il suo partito contrario a tutti gli altri. Tramite il partito comunista la classe imporrà la sua prospettiva storica a quella mortifera della classe borghese, e prenderà la guida dell’intera umanità sofferente attraverso un processo rivoluzionario che, come nella Russia dal 1917 ai primi anni Venti del secolo scorso, abbatterà il potere degli Stati borghesi per instaurare la sua dittatura, fino all’abolizione del lavoro salariato, del denaro, della merce, della società divisa in classi.
Oggi come cento anni fa ribadiamo che all’inevitabile guerra del Capitale la classe lavoratrice opporrà la sua parola d’ordine: Rivoluzione!
La guerra imperialista che si combatte in Siria
Dopo l’Iraq la Siria è divenuta il campo di battaglia degli imperialismi, preda di una guerra civile iniziata nel 2011 a seguito di una sollevazione contro il regime di Bashar al-Assad.
Il Paese è legato tradizionalmente alla Russia e all’Iran. Schiacciato tra la Turchia a nord, il Libano, Israele e la Giordania a sud e l’Iraq ad est, costituisce un passaggio obbligato per gli oleodotti e i gasdotti arabi e iraniani verso il mercato europeo.
Un gasdotto che dovrebbe passare attraverso la Siria è stato progettato dal 2009: dal Qatar, terzo produttore mondiale di gas, riuscirebbe ad evitare lo stretto di Hormuz controllato dagli Iraniani, passando dall’Arabia Saudita, dalla Giordania e la Siria, arriverebbe in Turchia. Ma Bashar al-Assad, alleato della Russia, ha rifiutato il progetto provocando grande irritazione negli Stati Uniti e nei suoi alleati (Qatar, Arabia Saudita e Turchia). Nel 2011 invece ha progettato con la Russia un gasdotto alternativo che, partendo dai campi di gas iraniani, attraverso la Siria raggiungerebbe i porti del Libano, ma la sua costruzione si è poi bloccata a causa della guerra.
La Turchia si barcamena tra USA-Nato e la Russia. Questa le fornisce il 55% del gas di cui ha bisogno (la Turchia è il secondo acquirente di gas russo dopo la Germania). Come l’Europa alla ricerca di alternative per approvvigionarsi di energia, la Turchia si è rivolta verso il gas del Kurdistan iracheno e sono stati presi accordi per la costruzione di un gasdotto tra i due paesi entro il 2019.
In Siria le grandi potenze, gli Stati Uniti con i loro satelliti europei, la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar, desiderose di sparigliare le carte nella regione, per ragioni d’influenza strategica ed economica, incoraggiarono l’insurrezione del marzo 2011.
Le forze di opposizione al regime si organizzarono in un fronte di 13 partiti di “sinistra”, 3 partiti curdi e diverse personalità politiche sotto il nome di Comitato di Coordinamento per il Cambiamento Democratico Nazionale, mentre i soldati e gli ufficiali “disertori” dall’esercito siriano fondavano in Turchia l’Esercito Siriano Libero (ELS), nazionalista e democratico, che raggruppava una cinquantina di fazioni delle più diverse ideologie. Infatti da un ELS così eterogeneo nel 2013 alcuni gruppi si separarono per unirsi ai jihadisti del Fronte al-Nusra, branca ufficiale di al-Qaeda in Siria. Creata nel 2011 all’inizio dell’insurrezione, divenne nel 2016 Jabhat Fatah al-Sham, e, dalla fine del gennaio del 2017, dopo violenti scontri con il gruppo jihadista concorrente Ahrar al-Sham e in seguito alla fusione con altri gruppi minori, ha cambiato ancora una volta nome assumendo quello di Tahir al-Sham. Questo stesso gruppo dopo aver rotto con Al Qaeda e lo Stato Islamico, combatterà numerose volte a fianco dell’ELS.
Una delle basi dell’ELS si trova in Turchia, ed è dunque controllata dall’esercito turco. Nel 2012 aderì ad una coalizione nazionale di forze dell’opposizione al regime siriano che comprendeva alcuni gruppi jihadisti e salafiti, organizzati dall’Arabia Saudita, dal Qatar e dalla Turchia. Questi gruppi jihadisti, pesantemente armati, diverranno presto la forza armata dominante all’interno del fronte.
Dal marzo 2011 il regime di Bashar, in difficoltà, fece un nuovo appello al PKK, che aveva tradito e perseguitato dal 1998. Il regime siriano ha puntato a lungo sui contrasti tra arabi e curdi per riprendere il controllo delle regioni curde nel Nord del Paese, che si erano sollevate contro l’odiato regime di Assad. Il PKK, con la sua branca siriana, il PYD, come aveva fatto negli anni ‘80, accettò nuovamente di tradire i curdi di Siria e di sacrificarli alle sue insensate ambizioni regionali in Turchia.
Bashar fece liberare 600 quadri e militanti del PYD e accettò l’arrivo di 3.000 combattenti del PKK provenienti dall’enclave di Qandil, nel Kurdistan iracheno. Nel luglio 2012 l’esercito siriano poteva così ritirarsi dalle zone curde del Nord lasciando ai guerriglieri del PKK il compito di controllare i partiti curdi anti-Assad.
Nello stesso mese il Governo Regionale del Kurdistan (GRK), che ha come presidente Mas’ud Barzani, tentava di favorire un accordo tra il PKK/PYD da una parte e il Consiglio Nazionale Curdo anti-Bashar. Ma il PKK preferì accordarsi con Bashar, che gli lasciava l’area della provincia storica di al-Jazira, tra la Turchia e l’Iraq, e la regione attorno ad Afrin, a Nord-Est di Aleppo. Nel novembre 2013 alcuni rappresentanti curdi, tra cui quelli del PKK-PYD insieme con quelli di altre etnie, fra cui anche elementi arabi, formavano un governo nella regione e nel gennaio 2014 proclamavano una Costituzione per il Rojava.
Ma era soprattutto il PKK-PYD che andava progressivamente organizzando un governo; con il suo braccio armato, le Unità di Difesa del Popolo (YPG), si fece portatore di un programma che si richiamava al “collettivismo economico”, al socialismo libertario e al confederalismo democratico. Il potere decisionale e la logistica militare restavano nelle mani del PKK di Qandil, in Iraq, che nominava i comandanti, molti dei quali erano militanti iraniani o turchi.
L’YPG, i cui combattenti sono stimati tra 20.000 e 50.000 (fra cui gran numero di donne), svolge un ruolo essenziale nel conflitto siriano; non affronta che sporadicamente le forze del regime e si è alleato tatticamente nel 2011 con l’Esercito Siriano Libero e con il suo paravento islamista sunnita, considerato allora accettabile dall’opinione pubblica occidentale.
I nemici principali del PYD sono sempre più i gruppi armati islamisti, lo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra o i salafiti vicini alla Turchia.
Nel maggio 2013 l’Alto Consiglio Curdo – costituitosi nel 2011 ad Erbil, in Iraq, sotto l’egida di Barzani e formato da una dozzina di partiti curdi siriani di cui il PYD è il più importante – è invitato alla Conferenza di Pace di Ginevra, a cui partecipano gli USA, la Russia, l’Unione Europea e alcune delle forze di opposizione al regime siriano. La Conferenza però non dà risultati concreti.
Ma il valzer delle alleanze di circostanza non finisce qui.
Coalizione anti‑Stato Islamico o anti‑proletaria?
Nel 2014 lo Stato Islamico è diventato un incomodo per Washington e per Mosca, gli interessi dei quali in Siria sono divergenti ma possono ritrovarsi momentaneamente per combattere i nemici comuni. Ma quali sono i loro comuni nemici?
Lo Stato Islamico, come Al Qaeda e altri gruppi islamisti sunniti, si è formato e sviluppato con l’aiuto degli USA e dei suoi sbirri europei e medio orientali, come la Turchia, l’Arabia Saudita, il Qatar, con il fine di destabilizzare prima la Russia in Afghanistan e nei suoi territori abitati da musulmani, poi la Siria e l’Iran sciita, legati a Mosca. I gruppi jihadisti hanno ricevuto notevoli flussi di combattenti stranieri dal Maghreb, dall’Europa, ma anche dalla Russia e dalla Cina; questo flusso è terminato dopo il 2015. La creatura mostruosa aveva ormai raggiunto lo scopo per cui era stata generata e adesso era necessario contenerla.
Ma l’altro scopo fondamentale dei compari russo e statunitense, che alla bisogna sanno stringersi la mano all’ONU, è anche quello di impedire ogni sollevamento popolare nella regione siriana ed irachena. Se si verificasse un’insurrezione contro un qualche regime medio orientale, il rischio per le classi dominanti arabe e per l’imperialismo sarebbe che, a causa delle guerre, della miseria, di tutte le immani sofferenze cui attualmente sono sottoposte quelle popolazioni, essa potrebbe estendersi a tutto il Medio Oriente e al Maghreb, dove le popolazioni sono ovunque sottomesse a turpi tirannidi militari o religiose.
Quindi, come abbiamo visto in Iraq nel 2003, lo scopo degli USA non è quello di sbarazzarsi di dittatori come Bashar, con cui si può sempre discutere e che è sempre stato utile per tenere sottomesse le masse dei diseredati, ma di evitare ogni sollevamento della piccola borghesia e del proletariato, anche solo teso a rivendicare una maggiore democrazia. La riluttanza degli Stati Uniti e dell’Europa a sostenere i partiti democratici di opposizione in Siria lo dimostra, perché dietro ogni movimento popolare si cela il rischio di un sollevamento proletario, l’incubo delle borghesie del mondo intero.
È lunga più di un secolo la storia delle continue lotte interimperialiste per la conquista dei mercati mondiali e il controllo delle materie prime ed energetiche, tra cui il petrolio, e per conseguenza delle regioni strategiche, da un punto di vista economico e militare, come del confronto russo-americano in Medio Oriente dopo la Seconda Guerra mondiale e del caos mantenuto da decenni nella regione dalla potenza economica militare dominante, gli Stati Uniti.
Il controllo Usa del Medio oriente si realizza dal 1945 con una politica di accerchiamento dell’URSS, poi della Russia, e prosegue ancora. Ma quando oggi il loro maggior avversario, la Cina, si avvicina a sorpassarli economicamente, appoggiano discretamente ma fermamente il compare russo. L’imperialismo statunitense da qualche anno è in trattative con l’Iran, l’ex-alleato passato nel 1989 nel campo “nemico”.
La Russia conduce anch’essa il suo cinico gioco imperialista. La metà della bilancia commerciale della Federazione è coperta dalla vendita di gas e petrolio; la dipendenza energetica degli Stati acquirenti ne accresce la forza diplomatica.
La corsa all’energia per nutrire il mostro capitalista resta ancora una delle ragioni fondamentali di tutti questi conflitti interimperialisti e interstatali. Le grandi potenze imperialiste necessitano di fonti di energia, che sia il carbone nel XVIII-XIX secolo o il petrolio dalla fine del XIX. Il controllo degli approvvigionamenti energetici resta il punto centrale dello scontro tra le grandi potenze per il dominio del mercato mondiale, coscienti che nei decenni a venire saranno le regioni del Pacifico e dell’Asia le maggiori consumatrici di prodotti energetici, in particolare la Cina. Alcune analisi prevedono che nel 2030 tutto il fabbisogno in petrolio del Giappone e della Corea del Sud proverrà dal Medio Oriente, così come il 90% dell’India e l’80% della Cina. Quest’ultima potrà infatti rivolgersi anche verso gli Stati dell’ex URSS in Asia centrale.
Anche per questo la Siria è importante per Mosca. Le buone relazioni e la vendita di armi russe alla Siria datano dal 1946 e si sono rinforzate dal 2003. La Russia, ormai sorpassata dalla Cina come grande potenza imperialista, ha un obbiettivo militare e strategico da raggiungere nella regione: consolidare il potere di Damasco in Siria, dove i russi dispongono di due basi sul Mediterraneo, e che intendono assolutamente conservare: una marittima, il porto di Tartus nel Nord del Paese, e una base aerea a Hmeimim a sud-est di Latakia. L’imperialismo russo teme che una frammentazione della Siria potrebbe fargli perdere le basi, il controllo dei flussi petroliferi e di gas e uno dei suoi più importanti acquirenti di armi. D’altra parte la caduta del potere siriano e le mani americane sul paese rafforzerebbero il concorrente e i suoi sbirri, in primo luogo l’Arabia Saudita e il Qatar. Inoltre Putin teme una crescita degli integralisti dello Stato Islamico nel Caucaso e in Cecenia.
In queste condizioni le battaglie diplomatiche e militari per il controllo degli oleodotti e dei gasdotti in Medio Oriente saranno sempre al centro dei giochi di potere internazionali.
La coalizione arabo‑occidentale
Dal 2015 il nemico comune dichiarato ufficialmente è lo Stato Islamico.
Questa coalizione dispone ufficialmente di 7.500 uomini. Fra questi 4.600 militari statunitensi, che forniscono anche l’80% dell’aviazione, e 500 francesi, incaricati della “formazione” delle forze irachene e dei peshmerga, con l’appoggio aereo dalla portaerei Charles de Gaulle. Inoltre ne fanno parte soldati inglesi, canadesi, australiani, belgi, tedeschi e giordani. La coalizione è appoggiata dalle forze irachene e dai peshmerga curdi (numerose migliaia di combattenti provenienti dal Nord dell’Iraq) ai quali fornisce materiale bellico e l’indispensabile appoggio aereo.
La Russia, la Turchia, l’Iran e la Siria non partecipano alla coalizione, ma l’Iran aiuta i curdi di Barzani.
La Turchia, snodo tra l’Europa, il Medio Oriente, la Russia, nel Caucaso e in Georgia, resta un elemento strategico fondamentale per i due campi, russo e statunitense, che se la contendono. Aderisce alla NATO. Gli USA e la NATO la utilizzano come scudo anti-russo e come punto d’appoggio per il controllo della regione (nella base di Izmir, sulla costa sud-ovest della Turchia, si trova un importante Quartier Generale della NATO e una base militare degli USA; dalla base aerea NATO di Incirlik, nel Sud del Paese, partono gli aerei della coalizione per bombardare in Iraq.
La Turchia tenta di giocare su diversi tavoli e fra i suoi numerosi alleati: l’UE, gli USA, la Russia. Per l’Unione Europea la Turchia è un partner importante a seguito dell’accordo firmato a Bruxelles sulla questione dei migranti nel marzo 2016, in base al quale il governo turco ha accettato di sbarrare il flusso migratorio verso l’Europa. Inoltre gli scambi economici della Turchia con l’UE (soprattutto la Germania) e gli USA restano molto importanti. Ma la Russia occupa già dal 2008 un solido secondo posto (dopo la Germania) per quanto riguarda i volumi del commercio bilaterale e sono notevoli gli investimenti turchi nell’economia russa, e russi nell’economia turca (telefonia, siderurgia).
Aggiungiamo, per comprendere la complessità dello scacchiere turco, che questo Paese sosteneva gli insorti ceceni contro Mosca. I mercanteggi e le pedine da spostare sono molte e varie!
La Turchia ha anche l’ambizione di diventare un importante centro di smistamento per il mercato energetico internazionale. Russi e americani hanno evidentemente presente che l’accesso alla costa mediterranea siriana permetterebbe all’Iran e all’Iraq, con il progettato del gasdotto Iran-Iraq-Siria, di far arrivare i loro idrocarburi in Europa. Il governo regionale del Kurdistan, che esporta sia in Turchia sia in Iran, sta invece negoziando con l’Iran la posa di un oleodotto che porterebbe il petrolio del Kurdistan iracheno verso gli oleodotti iraniani per arrivare alle raffinerie dell’Iran settentrionale. Questo permetterebbe uno sviluppo del Kurdistan iraniano, e il Kurdistan iracheno diventerebbe così meno dipendente della Turchia. Gli interessi di Teheran, di Baghdad, di Erbil, di Ankara e di Mosca alimentano un gioco diplomatico serrato che potrebbe maturare in nuove tensioni, principalmente tra Erbil e Baghdad.
La Russia combatte le velleità della Turchia di rendersi autonoma dalla sua dipendenza energetica: utilizza quindi le truppe del PKK per far saltare gli oleodotti con i quali la Turchia riceve il petrolio dal Kurdistan iracheno. Da parte sua il PKK aspira in Siria all’autonomia del Kurdistan siriano, limitrofo alla Turchia, e passa dal sostegno americano a quello russo, con grande scorno di Ankara. Il PKK, dopo la rottura delle trattative di pace con la Turchia, è intervenuto nel luglio 2015 per far deragliare un treno che trasportava materiale per la costruzione del Trans Anatolian Natural Gas Pipeline (TANAP), la cui costruzione è iniziata nel 2015, che dovrebbe permettere il trasporto del gas del Mar Caspio dall’Azerbaigian alla Turchia e di là in Europa, che in questo modo potrebbe ridurre la propria dipendenza energetica dalla Russia. Il PKK ha anche organizzato un altro sabotaggio al gasdotto dall’Azerbaigian verso la Turchia attraverso la Georgia.
Gli USA dal 2015 forniscono aiuto militare al PKK-PYD, nonostante sia stato a lungo alleato di Mosca e nonostante sia nella loro lista di organizzazioni “terroristiche”. D’altronde né il PKK né gli USA sono al loro primo cambio di alleanze. Per i gruppi curdi del PKK si tratta evidentemente di ottenere il sostegno statunitense per ritagliarsi un territorio autonomo ai confini meridionali della Turchia. Ma questo gioco tra David e Golia è possibile solo perché i due ladroni, il russo e l’americano, hanno alcuni obiettivi convergenti, come quello di sbarazzarsi di certi gruppi di opposizione al regime siriano, e in questo senso l’aiuto dei combattenti curdi è loro utile. Ma non è affatto detto che il PKK, in questo gioco tra Washington e Mosca, alla fine ci guadagnerà davvero.
La battaglia di Kobanê
Nella città curda-siriana a ridosso della frontiera turca si è combattuto tra il settembre 2014 e il giugno 2015. La lunga battaglia si è conclusa con la vittoria sui miliziani dello Stato Islamico di una coalizione che ha visto insieme le truppe del PKK-PYD, le brigate dell’Esercito Libero Siriano e i peshmerga di Barzani, con l’appoggio aereo degli USA. La vittoria però non è stata gradita da Ankara che vi ha visto un rafforzamento del PKK.
I media occidentali presentano le forze curde-siriane come il miglior strumento militare contro lo Stato Islamico, mettendo in secondo piano i gruppi guerriglieri islamisti, compresi quelli sostenuti dai Paesi occidentali tramite la Turchia, l’Arabia Saudita o il Qatar. Soprattutto omettono il fatto che queste forze curde-siriane non combattono il regime siriano ma puntano a negoziare con esso per arrivare ad una Siria federale, nel seno della quale la regione del Rojava disporrebbe di una larga autonomia politica e amministrativa, come probabilmente hanno fatto balenare le diplomazie di Russia e Stati Uniti per ottenere il loro sostegno sul campo di battaglia.
La Turchia da parte sua deve arginare imperativamente il problema del PKK perché essa è strutturalmente e storicamente opposta ad ogni forma di autonomia curda, anche in ambito federale. Da qui il suo accanimento contro i curdi turchi e siriani. Benché abbia sostenuto gli islamisti dello Stato Islamico in passato, nel 2015-2016 ha cambiato strategia: dopo gli attentati sul suolo turco attribuiti al PKK, Ankara nel luglio 2015 ha rotto i negoziati di pace con esso e ha bombardato le sue basi nel Kurdistan iracheno. Dopo il tentato colpo di Stato in Turchia del 15 luglio del 2016 si è riavvicinata al nemico-amico russo proclamando apertamente la sua ostilità verso lo Stato Islamico. Questo cambiamento di strategia di Ankara nei confronti del PKK si può spiegare con l’azione offensiva del PKK nel nord della Siria al confine turco e con le ambizioni autonomiste del Rojava.
Il rafforzamento del PKK-PYD in questa regione si è effettuato a spese dello Stato Islamico, e grazie al sostegno degli USA, che hanno chiuso gli occhi su certe azioni del PKK per ripulire la regione dalle popolazioni non curde e per far tacere le voci dissidenti provenienti dai gruppi curdi che si oppongono al regime siriano, o anche dall’interno stesso del PKK.
In effetti in questo partito si stanno affrontando da molti anni due tendenze: quella di Öçalan, da 18 anni in prigione ma favorevole al processo di pace col regime turco, e quella del Quartier Generale di Qandil il quale al contrario appoggia il rilancio della lotta armata in Turchia approfittando della guerra in Siria.
D’altra parte la crescita alle elezioni legislative del giugno 2015 del Partito Democratico del Popolo, filo-curdo, ha fatto perdere al partito di Erdoğan, l’AKP islamico-conservatore, la maggioranza assoluta in Parlamento. Adesso Erdoğan punta a cambiare la costituzione in modo da rinforzare i suoi poteri presidenziali (accesso al potere esecutivo, alla nomina dei ministri ecc.).
L’oscuro “colpo di Stato” del luglio 2016 a Istanbul gli ha permesso di sbarazzarsi di una buona parte degli oppositori nell’esercito e nell’amministrazione dello Stato. Per Putin ed Erdoğan questo “colpo di Stato”, che stupisce per la mancanza di preparazione e per l’assenza di un sufficiente sostegno militare, sarebbe stato incoraggiato, se non promosso, dagli Stati Uniti, ma si può constatare come sia servito soprattutto ad Erdoğan. Il 21 gennaio 2017 il voto del Parlamento turco ha sancito la vittoria politica del presidente turco fautore del cambiamento della costituzione.
L’intervento russo
Nel settembre 2015 la Russia è apertamente intervenuta in Siria, chiamata dal governo siriano, per lottare, afferma, contro lo Stato Islamico e al-Nusra. Le reazioni occidentali sono state modeste, tranne le incessanti denunce di massacri di civili siriani da parte dell’Esercito siriano e dei bombardamenti effettuati dai russi. La Turchia, che era ancora ostile al regime siriano, rivendicava una zona di sicurezza lungo la frontiera, minacciando di mettere fine al blocco dell’immigrazione verso l’Europa.
Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno dato l’impressione di voler restare in disparte, e quando nel settembre 2013 si è trattato di dover decidere se intervenire militarmente o meno dopo che era stato denunciato l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano, hanno scelto di rinunciare, costringendo ad accodarsi anche la Francia, la quale era invece per l’intervento. A questo proposito nello stesso mese di settembre 2013 fu firmato a Ginevra un accordo pubblico tra il Segretario di Stato John Kerry e il Ministro russo per gli Affari Esteri Lavrov, che assegnava alla Russia il compito di smantellare gli arsenali chimici siriani. Certamente questo accordo ha previsto anche altre clausole tenute segrete.
La pacificazione della Siria venne affidata all’Esercito regolare siriano, appoggiato dalle forze russe e da quelle iraniane (alcuni reparti di élite e gli hezbollah libanesi) con il sostegno della Turchia, malgrado le reticenze di Damasco che temeva le ambizioni turche sui territori siriani di confine. La riconquista dei territori iracheni da Mosul verso il nord della Siria fu invece affidata alla coalizione a guida statunitense.
Ma quando occorre il Pentagono sa anche mettere a posto i suoi momentanei alleati, come dimostra l’attacco aereo dell’ottobre 2016 che ha portato all’uccisione di uno dei capi più importanti di al-Nusra, ostile ad Assad.
In effetti l’accordo con la Russia, tenuto segreto, prevederebbe la liquidazione, oltre dello Stato Islamico, dei gruppi jihadisti anti-Assad, tra cui al-Nusra, e anche la neutralizzazione dell’Esercito Libero Siriano. Così, dopo la loro entrata ufficiale nella guerra, i bombardieri russi si sono concentrati sui gruppi ribelli ostili al regime di Damasco, benché questi fossero ancora ufficialmente sostenuti dagli Stati Uniti, dall’Europa e dalla stessa Turchia.
Nel giugno 2014 la presa di Mosul da parte dello Stato Islamico fu seguita da una campagna di sterminio contro i curdi yazidi (una popolazione curdofona che professa una religione correlata con lo zoroastrismo persiano). I combattenti del PKK-PYG, venuti dalla Siria e dalla Turchia, iniziarono allora, nel dicembre 2015, una audace operazione che spezzò l’assedio jihadista alla montagna di Sinjar, nel Nord-Ovest dell’Iraq, vicino al confine con la Siria. Gli Stati Uniti li sostennero di nuovo dando luogo ad una collaborazione sempre più stretta tra le forze speciali statunitensi e i guerriglieri del PKK, nonostante le proteste di Ankara, che rispose mandando alcuni reparti del suo esercito ad appoggiare i peshmerga di Barzani nella lotta contro lo Stato Islamico, per far evacuare 100.000 profughi yazidi.
Il 17 febbraio 2016 il PKK ha fatto saltare nel tratto in Turchia il gasdotto che trasporta il gas iracheno e curdo verso il porto mediterraneo di Ceyhan. Ha così fatto perdere al governo regionale del Kurdistan, in preda ad una grave crisi economica, circa 300 milioni di dollari. Questo sarà dunque costretto a trattare con il PKK o a trovare altre vie per vendere il suo petrolio, magari rivolgendosi all’Iran. Il PKK, al soldo degli interessi russi e, se questo gli venisse utile, degli americani, è utilizzato per mantenere la pressione sulla Turchia. Infatti il PYD nel febbraio 2016 ha potuto aprire a Mosca il suo primo Ufficio di rappresentanza all’estero.
La battaglia di Aleppo
La situazione ad Aleppo nel gennaio e febbraio 2016 ha dimostrato un riavvicinamento tra PKK-PYD e il regime siriano. Le truppe dell’YPG, con l’appoggio di ”consiglieri” statunitensi, hanno assediato i quartieri tenuti da quegli stessi ribelli che gli occidentali affermano di aiutare in funzione anti-Assad. Ma ormai è evidente che tutti i campi borghesi vogliono sbarazzarsi dei gruppi ribelli anti-Assad.
Le truppe siriane, appoggiate dall’aviazione russa, e i combattenti sciiti iraniani, iracheni e libanesi a fine luglio del 2016 erano riuscite a tagliare una delle due strade che permettono ai ribelli islamisti di al-Nusra e ai gruppi salafiti di congiungere Aleppo con la frontiera turca. La battaglia di Aleppo è stata un vero pantano di interessi contrapposti. L’aviazione di Mosca ha bombardato centri di soccorso, ospedali, riserve alimentari, provocando le grida d’indignazione del campo americano e dei suoi sbirri. Nel frattempo gli Stati Uniti si occupavano della città di Mosul, in Iraq, e quando bombardano gli ospedali lo fanno, a sentire John Kirby, il rappresentante del commercio degli USA in Medio Oriente, “in conformità col diritto internazionale” e proteggendo i civili!
Mentre scriviamo la battaglia di Mosul è ancora in corso, anche se i miliziani dell’Isis controllano soltanto alcuni quartieri della parte occidentale della città. Il 19 marzo le truppe regolari irachene sono arrivate a poche decine di metri dalla Moschea di Nouri, dove nel giugno del 2014 Ibrahim al-Baghdadi proclamò solennemente il “califfato” dello Stato Islamico e nominò sé stesso califfo, assumendo il nome di Abu Bakr, il primo successore del profeta Maometto.
Sulla frontiera turco-siriana
La cooperazione tra l’Esercito siriano e le truppe dell’YPG è stata molto fruttuosa per il regime di Damasco, come per i curdi siriani, la cui ambizione di autonomia politica e amministrativa necessita che le tre province di Afrin, di Kobanê e di Jazira si congiungano lungo tutto il confine settentrionale, progetto che fa infuriare Ankara. Tutto sembra contraddittorio: la Turchia gioca su più tavoli. All’inizio del 2016 si riavvicina alla Russia, che manovra il PKK, nemico del regime turco. Gli Stati Uniti sostengono egualmente il PKK-PYD siriano, considerato ufficialmente un’organizzazione terroristica, e cooperante con l’Esercito siriano, sotto la protezione dei russi.
La carta curda è nuovamente utilizzata da tutti gli attori della politica mediorientale, il cui unico scopo è quello di spartirsi la regione e impedire ogni possibilità di insurrezione armata autonoma della popolazione.
Il PYD ha sempre avuto un orientamento non particolarmente conflittuale verso il regime di Assad, ha sostenuto l’intervento russo in Siria, all’inizio del 2016 ha profittato dei bombardamenti russi sui dintorni di Aleppo per conquistare nuovi territori a detrimento delle forze dell’opposizione islamica e dell’Esercito Siriano Libero. In breve, il fine dell’autonomia giustifica ogni mezzo, ogni alleanza e tradimento.
Nel marzo 2016 il PKK-PYD, che insieme ad alcune fazioni arabe controlla ormai la quasi totalità della frontiera turco siriana tra l’Eufrate e la frontiera irachena proclama la creazione di una regione federale nel Nord della Siria, a cui si oppongono i gruppi anti-Assad, il regime di Damasco, gli USA e, ovviamente, la Turchia.
Intanto in Iraq l’esercito di Baghdad, con l’appoggio di milizie sciite, aiutate dal sostegno aereo della coalizione occidentale e delle milizie iraniane, incomincia la riconquista della città sunnita di Falluja, vicino a Baghdad, che era nelle mani dello Stato Islamico dal gennaio 2014 e che sarà ripresa totalmente dalle truppe governative a fine giugno.
Dall’estate del 2016 l’esercito turco interviene dunque in Siria, senza collaborare apertamente con le truppe russe, iraniane e gli hezbollah libanesi, che sostengono il regime di Bashar al-Assad. Erdoğan ormai non insiste più per le immediate dimissioni del dittatore siriano, ma l’Iran resta per la Turchia una potenza regionale concorrente.
Gli interventi turchi in Siria puntano soprattutto contro i gruppi curdi legati al PKK, mentre il governo Erdoğan e i suoi uomini d’affari intrattengono eccellenti relazioni con i curdi iracheni di Barzani. Il suo riavvicinamento con la Russia è anch’esso di circostanza. Questo riavvicinamento turco-russo della metà del 2016 non può farsi che a detrimento dei curdi siriani.
In precedenza, nel novembre 2015, la distruzione di un aereo da caccia russo da parte dell’aviazione turca, nei pressi della frontiera siriana in una zona controllata dalle milizie dei turcomanni alleati di Ankara, aveva provocato una crisi diplomatica tra i due Paesi, con ritorsioni economiche russe sulle importazioni di frutta e verdura dalla Turchia. Ma un riavvicinamento era ricercato da Mosca, anche se i due Paesi avevano opposte posizioni sul mantenimento o meno al potere di Bashar al-Assad. In cambio del sostegno militare turco in Siria, Putin ha dovuto promettere di non sostenere più il PKK e la sua emanazione siriana, il PYD-YPG, che per la Turchia restano nemici da abbattere.
Per i protagonisti più potenti, i russi e gli americani, è necessario mettere un freno alle ambizioni autonomiste del PKK, rafforzati dalla vittoria della loro azione ad Aleppo e nel Kurdistan siriano. Per questo i russi stanno per lasciare il posto alla Turchia, mentre negli negli ultimi tempi gli USA stanno giocando con grande spregiudicatezza la carta curdo-siriana.
Lo “Scudo sull’Eufrate”
A fine agosto 2016 l’esercito turco, con la copertura aerea degli Stati Uniti, interviene direttamente nel Nord della Siria per cacciare dalla regione prossima ai suoi confini le milizie dello Stato Islamico. Per Ankara si tratta soprattutto di impedire che il PKK-PYD unisca i differenti cantoni della regione del Rojava, con l’obbiettivo di creare una regione cuscinetto lungo tutta la sua frontiera. Il PKK-YPG è così stato rigettato ad oriente dell’Eufrate grazie alla pressione del suo “amico” americano.
Nell’ottobre 2016 Russia e Turchia firmano un accordo sulla realizzazione del gasdotto Turkstream, sotto il Mar Nero; la Russia riprende la costruzione di 4 reattori nucleari nella provincia di Mersin, sulla costa in Cilicia, e la Turchia è nuovamente autorizzata ad esportare la sua frutta e le sue verdure in Russia. In contropartita la Turchia accetta di mantenere al potere Assad, rinuncia ad appoggiare i suoi oppositori islamisti, gli stessi sostenuti da Arabia Saudita, Qatar, USA, Gran Bretagna e Francia.
La Turchia minaccia anche di ritirarsi dalla coalizione anti-Stato Islamico, il che significherebbe il divieto di utilizzo della sua base aerea di Incirlik, principale base operativa delle forze aeree della coalizione ed utilizzata da Stati Uniti, Germania ed Arabia Saudita per bombardare obbiettivi in Iraq e in Siria. L’altra base aerea utilizzata dalla coalizione è quella di al-Azraq, in Giordania, dove sono dispiegati aerei del Bahrein, dei Paesi Bassi, del Belgio, della Francia e degli Usa. Evidentemente la Turchia intende proseguire le sue incursioni aeree sul territorio curdo siriano contro le truppe dell’YPG, che sono sostenute dagli USA, dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla Germania.
Nell’ottobre 2016 comincia l’offensiva “comune” verso Mosul in Iraq, condotta dall’esercito iracheno con la sua “divisione d’oro”, composta dall’80% di sciiti, equipaggiata ed addestrata da consiglieri statunitensi per il combattimento urbano, da reparti dell’esercito iraniano e dai peshmerga curdi di Barzani. Ma ognuna di queste componenti combatte per i suoi scopi e diffida degli alleati.
Nell’aprile 2016 si erano verificati scontri tra milizie sciite irachene e l’Unione Patriottica del Kurdistan Iracheno (UPK). Nel novembre al parlamento iracheno i deputati sciiti e curdi votano una legge che ufficializza le milizie sciite e dà loro una immunità quasi assoluta, malgrado l’opposizione dei deputati sunniti. In questo modo ancora una volta ogni speranza di riconciliazione nazionale viene sepolta. I partiti borghesi sunniti iracheni hanno perduto, dopo quella di Saddam Hussein, la carta dello Stato Islamico. Immediatamente le milizie sciite hanno organizzato delle rappresaglie contro la popolazione sunnita; questi episodi sono stati denunciati da Amnesty International ma negati dalle autorità di Baghdad e di Erbil. Quanto ad Ankara, che si presenta come protettrice dei sunniti, il suo obbiettivo primario resta quello di lottare contro la sua bestia nera del PKK.
Nel febbraio 2017 lo Stato Islamico, che ha perduto terreno su molti fronti, in Iraq, in Siria, in Afghanistan e in Libia, chiama i suoi seguaci ad effettuare attentati nei paesi occidentali e rafforza la sua presenza in Africa occidentale e nel Sahel, in Nigeria, nel Niger, in Burkina Faso.
Nuovi elementi di instabilità si aggiungono in una situazione di caos globale determinato e alimentato dalla crisi mondiale del capitalismo.
I negoziati di Astana
Per Putin e Trump si tratta di negoziare in segreto un accordo politico globale e una nuova spartizione della regione. Le potenze regionali come l’Iran, la Turchia e l’Arabia Saudita cercano anch’esse di fare il loro gioco, mentre l’elemento curdo, la cui efficienza guerriera viene utilizzata su tutti i fronti, non ha mai pesato nei mercanteggi interimperialisti e sarà ancora una volta abbandonato al suo destino e le promesse fatte saranno ancora una volta tradite. Lo stesso discorso vale d’altronde per le truppe ribelli siriane.
Fatto sta che ai negoziati tenutisi ad Astana, la capitale del Kazakistan, il 23 e 24 gennaio 2017, tra Russia, Turchia, Iran e Governo siriano, hanno preso parte alcuni gruppi scelti dell’opposizione siriana: capi di gruppi combattenti vicini alla Turchia e all’Arabia Saudita, alcune unità dell’Esercito Libero Siriano sostenute dagli USA, l’Esercito dell’Islam (Jaysh al-Islam, un gruppo salafita filo-saudita), ma nessun rappresentante della società civile né dei dissidenti in esilio, né alcun rappresentante del PKK-PYD; mentre gli USA, l’UE e l’ONU erano presenti come osservatori. Le Forze Democratiche Siriane (SDF), una coalizione curdo araba guidata dal PYD, non è stata invitata per non offendere la sensibilità di Ankara.
Intanto Ankara e Baghdad si erano già riavvicinate, in senso ostile al PKK. Il primo ministro turco il 7 gennaio 2017 si era recato in visita ufficiale a Baghdad e a Erbil allo scopo di risolvere il contenzioso tra i due paesi riguardante la presenza militare turca nel Nord dell’Iraq e la presenza di formazioni armate organizzate dal PKK e dal PYG sul monte Sinjar. Il governo Barzani ha dato assicurazione all’emissario turco che anch’egli desidera che il PKK abbandoni quelle zone.
I negoziati di Astana, che anticipano quelli di Ginevra organizzati dall’ONU, previsti per il 23 marzo, sono rivelatori dei nuovi rapporti di forza. Ne risulta che la Russia è determinata a mantenere uno Stato centrale siriano suo alleato e a rafforzare l’asse Mosca-Teheran-Damasco. Teheran rinnova il suo sostegno incondizionato a Damasco, suo alleato in Medio oriente e indispensabile tramite verso gli Hezbollah libanesi. L’Iran tenta così di rafforzare la sua posizione per poi mercanteggiare con gli USA e Israele. La Turchia allarga l’influenza diretta sul Nord della Siria ed ottiene l’arresto dell’avanzamento del PYD.
Il progetto di Costituzione siriana elaborato dal Cremlino lascerebbe alla componente curda un ruolo importante nel futuro politico del Paese. Federalista, prevede una forte decentralizzazione, con riferimenti espliciti a una “autonomia curda”, e il ritiro dell’aggettivo “araba” dalla denominazione della Repubblica. Questo evidentemente non è accettato dalla componente araba dell’opposizione al regime, né la legalizzazione dell’insegnamento delle lingue regionali, come il kurmanji dei curdi di Siria. Ma questo progetto dovrà ottenere l’avallo sia dei negoziatori di Ginevra, sia del governo di Bashar al-Assad, che vorrà basarsi sulle componenti demograficamente maggioritarie, dopo che la fuga della popolazione siriana sunnita, a causa dei combattimenti, ha cambiato la situazione precedente la guerra.
Attorno a Mosul si accentuano le tensioni per il controllo delle zone liberate dallo Stato Islamico. Così le milizie del signore della guerra Atheel al-Nujaifi, ex governatore di Ninive e vicino alla Turchia, le cui truppe si trovano a nord di Mosul, hanno ricevuto l’ordine dell’esercito iracheno di abbandonare le funzioni di polizia su queste zone.
Ad oggi
Lo scacchiere del Medio Oriente rappresenta il teatro complesso e instabile della lotta tra i grandi Paesi imperialisti per dividersi il mondo. Per la spartizione strategica ed economica della regione Mosca e Washington si danno spallate tramite questi combattimenti dalle componenti variabili, con trattative diplomatiche, manipolando formazioni islamiste e curde, con minacce militari ed economiche più o meno discrete sulle potenze secondarie e rivali tra loro come la Turchia, la Siria, l’Iraq e l’Iran, prese tra due fuochi.
Nella fornace siriana sembrerebbe che il campo russo abbia rafforzato la sua posizione in Medio Oriente, facendosi indispensabile interlocutore degli Stati Uniti per la spartizione della Siria; la sua “alleanza”, benché fragile, con la Turchia è anche una minaccia per il controllo americano sulla regione.
Resta prioritario per la Turchia dotarsi di una fascia di sicurezza nel nord della Siria, liberata dai jihadisti e dai separatisti curdi del PYD; sia la Russia sia gli Stati Uniti mantengono un atteggiamento ambiguo al riguardo.
Se in un primo tempo Mosca ha giocato la carta della destabilizzazione della Turchia, sostenendo attivamente il PKK, l’alleanza con Ankara è ad essa favorevole in ragione degli interessi economici comuni e della sua posizione strategica. Da parte sua la Turchia tenta di giocare la carta russa a causa dell’avvenire incerto, ormai fortemente improbabile, del processo di integrazione della Turchia nell’Europa (aggravato dalle critiche dell’UE e degli USA riguardo alla repressione attuata da Erdoğan dopo il colpo di Stato militare del luglio 2016) e come mezzo di pressione verso lo schieramento euro-americano. La Turchia non pensa di lasciare la NATO e la sua strategia di contenimento dell’influenza russa, né può rinunciare ai suoi legami economici con l’Europa, con la quale ha in progetto la costruzione dell’oleodotto dall’Asia centrale per l’Azerbaijan evitando la Russia. Un vero rompicapo per la diplomazia turca!
I clan curdi si ritrovano così una volta ancora utilizzati, manovrati, ingannati da promesse che non vengono mantenute, da parte di borghesie imperialiste che usano e abusano delle loro imponenti forze militari ed economiche quando si cerca di venire a patti con esse.
L’8 marzo ad Antalya si è tenuta una riunione alla quale hanno partecipato i vertici militari di Stati Uniti, Russia e Turchia e si sono definiti i termini dell’attacco finale alla principale roccaforte dello Stato Islamico in Siria, il quale è stato affidato a forze curdo-siriane e statunitensi, mentre ai russi è stata lasciata carta bianca nella lotta alle forze jihadiste nelle regioni nord-occidentali del paese. Un accordo che prefigura una spartizione della Siria in due sfere di influenza russa e americana.
L’attacco contro Raqqa è iniziato a metà marzo. Alla testa dei 30 o 40.000 uomini della coalizione a guida curda delle Forze Democratiche Siriane, si trova un battaglione di artiglieri dei marines americani di circa 400 uomini. Gli Stati Uniti forniscono anche la copertura aerea. Gli aerei della coalizione il 22 marzo colpiscono una scuola nei pressi di al-Mansoura, nella zona controllata dall’Isis, uccidendo una trentina di bambini. Negli stessi giorni l’aviazione statunitense ha ripreso ad attaccare gli uomini di Ahrar al-Sham, cioè i vecchi alleati di ieri, dimostratisi inservibili nell’attuale fase di sparigliamento delle carte, nella quale l’amministrazione americana fa assegnamento soprattutto sulle forze curde. Il 16 marzo nei pressi di Idlib decine di fedeli sono morti fra le macerie di una moschea bombardata dall’aviazione statunitense in un’operazione che il comando americano ha affermato fosse mirata a colpire un edificio in cui si trovavano non meglio precisati “uomini di al-Qaeda”: un altro indizio che l’obiettivo del raid erano gli ex alleati di Tahrir al-Sham.
In seguito gli USA colpivano anche la base aerea dell’aviazione siriana di Shayrat. Si trattava di dare un avviso al regime di Damasco il quale, dopo la riconquista di Aleppo, non doveva tentare di trarre ulteriori vantaggi dall’indebolimento del fronte ribelle dell’Esercito Libero Siriano e dei suoi alleati jihadisti. Il bombardamento della base avveniva con modalità che lasciano spazio a qualche perplessità: al di là del baccano mediatico che voleva dare ad intendere che si trattasse di una ritorsione per il bombardamento di Khan Shaykhun del 4 aprile, in cui alcune decine di persone sarebbero morte a causa della dispersione di gas letali (non sappiamo se lanciati dall’aviazione di Damasco o fuoriusciti dai depositi di armi chimiche in loco appartenuti alle forze ribelli), i danni del bombardamento apparivano limitati nonostante l’uso di 59 missili Tomahawk lanciati da unità navali nel Mediterraneo. Poche ore dopo il bombardamento gli aerei di Damasco riprendevano a utilizzare la base la cui pista era rimasta intatta per compiere nuovi attacchi contro le postazioni dei ribelli, comprese quelle di Khan Shaykhun. La base era stata in gran parte evacuata poco prima dell’attacco e non sono stati colpiti aerei o militari russi: evidentemente i comandi russi e statunitensi si scambiano informazioni in uno scontro che è sempre più evidente una guerra contro il proletariato.
Un altro aspetto è la rivalità fra gli Hezbollah e l’Iran da una parte e Israele dall’altra. Il 27 aprile l’aviazione dello Stato ebraico ha compiuto un raid contro un deposito di armi e munizioni degli Hezbollah nei pressi dell’aeroporto di Damasco provocando una fortissima esplosione. Un fatto questo che fa seguito alle frequenti incursioni israeliane in Siria volte a colpire l’organizzazione degli sciiti libanesi alleata dell’arcinemico Iran.
Anche il fronte interno palestinese, con un cambio di alleanze, sembra muoversi in una direzione che spariglia ancora le carte, in un gioco in cui la somma finale sembra essere sempre la conferma sostanziale degli equilibri regionali. Hamas ha reso nota la rottura del suo legame con i Fratelli Musulmani rendendo possibile un riavvicinamento con l’Egitto del generale al-Sissi.
Intanto nel momento in cui scriviamo sul fronte settentrionale la annunciata avanzata delle forze curde e statunitensi su Raqqa, la capitale siriana della Stato Islamico, sembra ancora in attesa. Pesa il complesso gioco delle alleanze e l’opposizione turca a un’operazione che creerebbe un’ampia zona a egemonia curda. Mentre sembra che la Turchia stia ammassando truppe al confine con la Siria, la questione pare che sia stata affrontata anche nell’incontro fra il presidente statunitense e quello turco svoltosi a Washington il 17 maggio durante il quale Trump avrebbe confermato l’intenzione statunitense di continuare a considerare le milizie dell’YPG come alleate, richiamando all’ordine le velleità interventiste di Erdoğan.
Mettendosi agli ordini degli imperialismi, i gruppi armati e i partiti curdi, che rappresentano interessi borghesi, si schierano nella lotta delle classi dominanti curde e mondiali contro il proletariato, fonte della loro potenza e della loro ricchezza, e non per l’emancipazione del “loro” popolo e della “causa nazionale” dei curdi.
La sola uscita da questo combattimento ineguale è la realizzazione dell’unione delle forze delle classi sfruttate a scala internazionale, e non il loro raggrupparsi in illusorie identità culturali, razziali o religiose, o peggio ancora nazionali, miti tenuti in vita solo dalla propaganda borghese. La storia non la fanno più le nazioni ma è matura la lotta tra le due grandi classi nemiche, la borghesia e il proletariato, di cui l’una vive come parassita del sangue e del sudore dell’altra. La sola chiave del dramma siriano e del medio oriente è la lotta di classe!
In Venezuela lo scontro tra fazioni borghesi allontana la classe operaia dalla lotta per i suoi veri obbiettivi
Lo scontro politico fra il governo e i partiti e i movimenti che lo appoggiano, da un lato, e l’opposizione e i vari partiti e movimenti che gli si mettono contro da l’altro, si è acutizzato fino a tornare ai livelli di violenza cui si arrivò alcuni anni fa con le cosiddette “guarimbas”, barricate e blocchi stradali, con assalti e incendio di mezzi di trasporto e a sedi di diverse istituzioni.
Dopo che negli scorsi due anni si erano avuti alcuni tentativi di dialogo fra i due fronti, con la intermediazione degli ex presidenti e poi anche del Vaticano, l’opposizione ha mobilitato le masse, composte principalmente da settori della piccola borghesia. Chiedono la tenuta immediata delle elezioni presidenziali, che spacciano come condizione per l’uscita dalla crisi economica, che si manifesta con gli effetti evidenti dell’inflazione e della caduta del salario reale, con la mancanza di prodotti di base, la disoccupazione e l’insicurezza del lavoro.
Lo scopo dell’opposizione è costringere ad anticipare le elezioni, prima che il chavismo abbia tempo per recuperare il favore degli elettori.
L’opposizione ha influenza su settori della classe operaia e sugli strati poveri della popolazione, però è la “classe media” la sua base e che si mobilita.
Ma anche all’interno dell’opposizione si combatte una lotta interna fra dirigenze che propendono per una tattica che prevede l’uso della violenza, chi spera nell’intervento a loro favore degli organismi internazionali e chi con la mobilitazione di strada vuol imporre le elezioni.
Il governo e i partiti del chavismo, mentre cercano di mobilitare altri strati della piccola borghesia e della classe operaia e dei poveri, rispondono all’opposizione con argomenti legali e costituzionali. La situazione di crisi è venuta ad indebolire la forza elettorale del chavismo, che reagisce con un insieme di provvedimenti di tipo demagogico, la fornitura di prodotti alimentari tramite i Comitati Locali di Rifornimento e Produzione, con la Carta della Patria, una tessera elettronica personale per accedere ai servizi sociali (ed essere controllati) e la continuazione dei programmi sociali del chavismo, le Missioni. Il governo ha inoltre investito importanti risorse in una strategia mediatica diretta a presentarsi con la facciata di “governo del popolo” e vanta i gran “successi” delle sue Missioni.
Anche il chavismo ha le sue contraddizioni interne con lo scontro fra i suoi dirigenti per il controllo delle risorse e delle posizioni di potere del governo.
Così la crisi in Venezuela, pur sulla base della crisi economica capitalista, è principalmente una crisi politica determinata dallo scontro fra due compositi fronti e frazioni borghesi.
Il chavismo per stringere alleanze a rafforzare il suo potere ha condiviso le sue decisioni direttamente con i capitalisti, senza dare spazio ai partiti politici di opposizione. Ne è un esempio il Consiglio Nazionale dell’Economia dove il governo arriva a mediazioni con gli imprenditori, mentre diffonde ipocrite dichiarazioni altisonanti contro di essi.
Di fronte al montare delle violenze, in sacche isolate di alcune città e principalmente nelle aree residenziali della piccola borghesia, il governo ha risposto non solo con la mobilitazione dei suoi seguaci ma anche con la repressione che ha fatto un numero di morti, feriti e arrestati.
La mossa politica ultima del governo è stata la convocazione di una Assemblea Nazionale Costituente, meccanismo, previsto dalla Costituzione vigente. Mentre con questo il governo vorrebbe presentarsi aperto al dialogo, l’opposizione afferma che sarebbe solo un pretesto per effettuare un colpo di Stato, e subito ha dichiarato che non avrebbe partecipato alla Costituente, non necessaria per l’avvio delle elezioni presidenziali. Il governo ha già informato i rappresentanti di diversi settori della società e avviarsi all’elezione dei costituenti. È scontato che con questa Costituente il governo cerca solo di guadagnare tempo per recuperare appoggio elettorale, distrarre le masse con l’aspettativa che da lì deriverebbero soluzioni alla crisi ed estendere il suo spazio di conciliazione e trattative con i settori imprenditoriali che gli si sono messi contro.
Il lavoratori si sono mantenuti alla coda dei due fronti borghesi in lotta. Le masse operaie, disorientate, non si muovono per i propri interessi e finiscono per far proprie le consegne di uno o dell’altro schieramento. Quando qualche sindacato o dirigente sindacale ha preteso di avvicinare la lotta rivendicativa in appoggio di uno dei due fronti, il governo li ha repressi con l’accusa di terrorismo, nel silenzio complice dell’opposizione.
Solo i lavoratori salariati potrebbero sbloccare la situazione, quando riuscissero a dare le spalle tanto ai chavisti e al governo quanto agli oppositori, quando torneranno a battersi come classe per le loro rivendicazioni immediate, organizzati autonomamente in sindacato e in partito comunista.
Riunione generale del partito
Firenze, 27‑29 gennaio [RG127]
(Sommario)
Il PCd’I e la guerra civile in Italia
Gli Arditi del Popolo
Nella precedente riunione avevamo descritto la nascita e lo sviluppo dell’arditismo in tempo di guerra e la sua successiva riorganizzazione; avevamo messo in evidenza l’ideologia piccolo borghese dominante quel movimento: indefinibile e contraddittoria oscillando tra l’aperta reazione antiproletaria ed un nazionalismo ultrasinistro.
La continuità degli Arditi del Popolo con l’arditismo di guerra era confermata dallo stesso fondatore, Argo Secondari, nell’intervista apparsa sull’Ordine Nuovo. Gli Arditi del Popolo erano nati da una costola di quel movimento e i loro dirigenti durante la guerra vi avevano fatto parte.
Già dal novembre 1920 il terrore fascista si era abbattuto su organizzazioni politiche e sindacali proletarie e su amministrazioni comunali socialiste, aveva compiuto innumeri uccisioni di dirigenti e semplici militanti, etc.; ma questo scenario drammatico non aveva indotto gli Arditi a scendere in campo, armi alla mano, contro il fascismo. Eppure all’indomani dei fatti di Bologna la loro azione avrebbe avuto molta più risonanza e riscosso molto più favore da parte delle classi vittime del terrore bianco, quando i socialisti immobilizzavano il proletariato ed il partito comunista non era ancora sorto.
L’anno successivo, a gennaio, si scindeva il Partito Comunista, con un netto programma rivoluzionario ed internazionalista. Quel partito già ai primi di marzo lanciava al proletariato la parola d’ordine di «accettare la lotta sullo stesso terreno su cui la borghesia scende, rispondere con la preparazione alla preparazione, con l’organizzazione all’organizzazione, con l’inquadramento all’inquadramento, con la disciplina alla disciplina, con la forza alla forza, con le armi alle armi». E la prova che non si trattava soltanto di parole veniva dalla approntata organizzazione militare del partito che, in più occasioni, aveva risposto con le armi alle armi, difendendosi e pure attaccando.
Quindi gli Arditi del Popolo nascevano nel luglio 1921 non tanto perché sentissero la necessità di scongiurare la violenza fascista, quanto di scongiurare la direzione comunista alla riscossa proletaria. Fino a quando il Partito Socialista predicava e praticava la rassegnazione gli Arditi non si erano posti il problema della difesa proletaria.
Lo stesso fondatore degli Arditi del Popolo confessava che «in un primo tempo il fascismo appariva a noi ispirato da patriottismo: ad arginare cioè le cosiddette violenze rosse».
Al di là ed al di sopra delle lotte tra borghesi bande rivali, un solo scopo accomunava fascisti, arditi, arditi del popolo, dannunziani e socialisti di tutte le tinte, quello di impedire il moto rivoluzionario delle masse operaie sotto la guida del Partito Comunista. Che alcuni, di fronte al terrore bianco, predicassero pace e rassegnazione ed altri la risposta violenta non cambiava affatto il loro scopo: riportare e mantenere la “pace interna”, l’ordine borghese.
Quindi nessuna velleità rivoluzionaria albergava negli Arditi del Popolo, anzi, in caso di risoluta lotta operaia non avrebbero esitato a dar man forte al fascismo, “ispirato da patriottismo”, per arginare la “violenza rossa”.
Gli Arditi del Popolo, nacquero improvvisamente e con impressionante rapidità si organizzarono e si estesero in tutta Italia. Si calcola che nell’estate del 1921 avessero 144 sezioni con circa 20 mila aderenti.
Molti che non erano disposti a subire passivamente la violenza fascista, ma a questa violenza intendevano opporsi con la forza, impulsivamente vi aderirono e promossero la formazione di sezioni locali. Vi si inquadrarono comunisti e repubblicani, anarchici e cattolici, socialisti e senza partito.
Che i proletari abbiano aderito volontariamente a questa organizzazione è un dato di fatto, ma non è assolutamente possibile che una struttura militare di tale ampiezza possa sorgere, nel giro addirittura di giorni, su iniziativa di una frazione tra le più disastrate delle sezioni degli Arditi d’Italia, e spontaneamente si sia potuta diffondere ed affermare a livello nazionale. Per realizzare un tale apparato era necessario che un organismo ben strutturato, e ben impiantato all’interno della struttura statale, a livello nazionale ne avesse preso l’iniziativa. Tutto quanto non poteva che essere molto, ma molto, sospetto; ed altrettanto sospetto fu il fatto che questa milizia armata, così come era improvvisamente sorta, altrettanto improvvisamente si dissolse.
Ma andiamo per ordine. La Centrale del PCd’I dette decisamente la disposizione che l’organo di inquadramento militare del partito dovesse restare del tutto indipendente dagli Arditi del Popolo, pur lottando al fianco di questi, come molte volte avvenne, quando si fossero trovati di fronte le forze del fascismo e della reazione. Le ragioni di questo atteggiamento furono essenzialmente pratiche, dettate da un attento esame della situazione e delle eventualità a cui il partito sarebbe potuto andare incontro.
Anche in base ad informazioni riservate, assunte con i mezzi di cui disponeva, il partito era venuto a conoscenza che l’organizzazione non muoveva dal basso, ma da un centro politico ben determinato: un consistente settore della borghesia, di cui Nitti era rappresentante, riteneva conveniente frenare il fascismo che, per il suo enorme sviluppo, minacciava di oltrepassare quei limiti che la democrazia gli aveva assegnato.
Inoltre gli scopi su cui era sorta l’organizzazione degli Arditi del Popolo erano comuni a quelli del socialpacifismo: arrivare ad un governo che rispettasse la libertà delle organizzazioni proletarie sulla base del diritto comune, evitando la fase della lotta contro lo Stato, anzi prendendo posizione contro chiunque turbasse la cosiddetta civile lotta d’idee tra i partiti.
Quindi, nel caso che si fosse formato un ministero di colore nittiano, gli Arditi del Popolo sarebbero divenuti una forza illegale al servizio del governo legale, e non per tener a freno le squadre fasciste, ma per intervenire contro il proletariato quando questo avesse intrapreso una azione rivoluzionaria contro lo Stato governato dal ministero di sinistra, e magari di collaborazione coi socialisti.
Del tutto opposti a quelli degli Arditi del Popolo erano gli scopi dei comunisti, tendenti a condurre la lotta proletaria fino alla vittoria rivoluzionaria. I comunisti negavano (e negano) che in regime borghese vi possa essere un assetto normale e pacifico della vita sociale e pongono la netta antitesi tra dittatura della reazione borghese e dittatura della rivoluzione proletaria.
Durante l’esposizione del rapporto, tra gli altri documenti presentati, è stato letto un articolo, scritto da Umberto Terracini per la “Correspondance Internationale” del 31 dicembre 1921 intitolato: “Gli Arditi del Popolo, una audace manovra della borghesia italiana”. Qui ci basti riportarne solo brevi citazioni: «”Il Paese” (...) organo di Nitti, raddoppiò i suoi attacchi contro il governo accusato di non far altro che fomentare la guerra civile. Il governo Giolitti cadde. Nel frattempo il mistero della formazione dei primi Arditi (del popolo) si chiarì. Si apprese infine che altro non erano che una manovra diretta da Nitti che si riprometteva di farne un movimento antifascista, diretto soprattutto contro Giolitti (...) Non c’è quindi da meravigliarsi se caduto Giolitti gli Arditi del Popolo si siano rapidamente disgregati. Creati non per combattere il fascismo, ma per influenzare l’opinione pubblica contro la politica di Giolitti, non avevano più ragione di esistere (...) La creazione degli Arditi del Popolo non è stata che una manovra interessata da parte di certi elementi della borghesia allo scopo di deviare a loro vantaggio una parte delle energie proletarie risvegliate dagli attentati fascisti (...) Fu la stampa borghese a creare la leggenda che presentava gli Arditi del Popolo come una organizzazione proletaria. Questa confondeva con gli Arditi del Popolo ogni organizzazione che aveva degli scontri con i fascisti».
La direttiva della Centrale del partito fu che i comunisti non potevano né dovevano partecipare ad iniziative sorte al di fuori del partito stesso, perché la preparazione e l’azione militare esigevano una disciplina almeno pari a quella politica del partito comunista. Non sarebbe stato possibile ubbidire a due distinte discipline, la politica e la militare. I comunisti, dunque, non potevano accettare di dipendere da altre organizzazioni d’inquadramento a tipo militare.
L’inquadramento militare proletario veniva giustamente considerato come l’estrema e più delicata forma di organizzarne della lotta di classe, nella quale si doveva realizzare il massimo della disciplina. E questo comportava che fosse a base di partito e dipendesse strettamente dalla politica del partito di classe, che per definizione si propone di inquadrare e dirigere l’azione rivoluzionaria delle masse. Da qui l’evidente incompatibilità.
In quegli anni cruciali del primo dopoguerra vi erano tanti movimenti che che si presentavano con la qualifica di rivoluzionari, ed altrettanti erano i loro programmi di “rivoluzione”; ma, come sottolineava il partito, era proprio l’esistenza di troppe specie di rivoluzionari che rendeva difficile la rivoluzione, che richiede una chiara impostazione della lotta. La conclusione a cui giungeva il partito comunista era che tutti quei progetti “rivoluzionari” altro non erano che piani per la migliore difesa e conservazione delle istituzioni borghesi: introdurvi modifiche esteriori per lasciare sussistere il contenuto essenziale, ossia il capitalismo ed il meccanismo democratico dello Stato, ossia il parlamentarismo. Ogni tentativo diretto a far convergere l’attenzione e lo sforzo proletario in quei programmi, per i comunisti doveva essere considerato come controrivoluzionario.
Il partito metteva in guardia i suoi militanti ed il proletariato tutto dalla impazienza rivoluzionaria, dalla mania di battere il record dell’estremismo, e dalla pericolosa tesi semplicistica e facilona secondo la quale, pur che si cominci ad agire, bisogna accettare tutte le alleanze, senza guardare troppo per il sottile alle differenze dei temporanei alleati.
L’escludere intese organizzative non impediva che si svolgessero azioni nelle quali le forze comuniste e gli Arditi del Popolo si trovassero dalla stessa parte del fronte di combattimento. Tuttavia il partito ribadiva la necessità di conservare il pieno controllo delle proprie forze per il momento in cui si sarebbe imposto il problema rivoluzionario e le alleanze del periodo precedente si sarebbero tragicamente spezzate.
L’azione per la difesa del proletariato contro la reazione non poteva essere concepita che come un’azione del proletariato per rovesciare il regime. Per questo motivo i comunisti rifiutarono categoricamente di partecipare ad intese politiche aventi carattere “difensivo” contro i crimini del fascismo, ma con lo scopo di ristabilire “l’ordine”. Per i comunisti questo non era altro che disfattismo; gli stessi fascisti avevano come obiettivo quello di “ristabilire l’ordine”.
Il
partito affermava che il problema della preparazione rivoluzionaria
doveva essere posto sulle seguenti basi: «Affasciare, inquadrare,
organizzare anche militarmente le forze che mirano a spostare le basi
dello Stato, ma solo quelle che concepiscono questo spostamento come
una antitesi tra due eventualità della storia: o la conservazione
dello Stato borghese, democratico e reazionario al tempo stesso, o la
costituzione dello Stato proletario fondato sulla dittatura di
classe. Le altre soluzioni agitate dai mille gruppetti (...)
alimentano in modo pernicioso il confusionismo rivoluzionario (...)
Il compito specifico del partito comunista (è quello di) agire come
un coefficiente di orientamento, di raddrizzamento, di continuità
sicura nel pensiero e nell’azione, in mezzo al caos delle mille
correnti “rivoluzionarie” (...) Altri potrà credere di avere una
via più breve. Ma non sempre la via che appare più facile è la più
breve, e per ben meritare della rivoluzione è troppo poco avere
soltanto “fretta” di “farla”» (“Il Comunista”, 7 agosto
1921).
La rivoluzione ungherese del 1919
Abbiamo proseguito l’esposizione del lavoro con il capitolo: La rivoluzione delle rose e la spartizione dell’Ungheria.
Contemporaneamente alla sconfitta sul terreno delle armate austroungariche nell’ottobre del 1918, sino da giugno scoppiano numerosi scioperi in tutta l’Ungheria: a Petrozsény le miniere sono quasi ferme, a Budapest lo sciopero in poco tempo diventa generale, tram fermi, postini e metallurgici solidarizzano con gli operai in sciopero che si rifiutano apertamente d’obbedire agli ordini delle direzioni militarizzate. Minacciano i comandanti e gli ufficiali d’una sorte simile a quella del colonnello di Pécs, che i soldati avevano ucciso a colpi di fucile. Alcuni operai sono arrestati, e questo causa uno sciopero nel bacino carbonifero più importante dell’Ungheria. In seguito ad una sparatoria in una officina delle ferrovie gli operai saccheggiano gli uffici e fra le loro rivendicazioni spicca quella di allontanare i poliziotti dalle officine.
Con questo clima in Ungheria prende piede la rivoluzione democratico-borghese, essenzialmente pacifica. Si forma un governo provvisorio, inizialmente Carlo IV, nonostante le rassicurazioni del conte Károlyi, incarica Hadik di formare il governo, ma solo 24 ore dopo, a seguito della crescente agitazione fra le truppe e i lavoratori a Budapest – il PSDU aveva dato la parola d’ordine dello sciopero generale a sostegno del Consiglio Nazionale – la situazione cambia e l’arciduca Giuseppe convoca Károlyi per definire il passaggio dei poteri da Handik al Consiglio Nazionale. Formano il governo il Partito dell’Indipendenza e del ’48, di tradizione liberale-risorgimentale, e il PSDU, a cui vengono riservati due ministeri secondari: Previdenza e Commercio.
Protagonista della rivoluzione, ancora una volta, è la classe operaia, seppur non organizzata e ancora senza il suo partito, che riesce, con le masse contadine nell’esercito, a rovesciare il potere vecchio di 4 secoli degli Asburgo. La sconfitta nella guerra è di tutta la nazione, con la borghesia rimasta sotto le rovine della vecchia Ungheria insieme a tutti gli strati semifeudali. Con la sconfitta viene meno non solo la possibilità di opprimere i popoli stranieri, ma è del tutto prevedibile che una parte notevole del popolo ungherese cada sotto dominazione straniera. L’Ungheria ha dovuto subire la resa incondizionata a Villa Giusti, mentre 47 divisioni dell’armata orientale francese sono in marcia alla volta di Budapest.
Gli accordi appena sottoscritti sono violati e gli imperialismi vincitori dell’Intesa si spartiscono territori storicamente ungheresi. Alcune mappe esposte ai compagni hanno mostrato come l’Ungheria perda due terzi dei suoi territori e alcuni milioni di magiari la loro cittadinanza.
Ai primi di dicembre tre ministri del governo Károlyi, esponenti dell’ala moderata del suo partito, tentano con le loro dimissioni di forzare i tempi per un ritorno alla piattaforma originaria del Consiglio Nazionale: sono contro la presenza dei socialdemocratici nel governo e contro i Consigli operai e dei soldati, ritenuti organismi “bolscevichi” influenzati dai comunisti, che andavano organizzandosi. Il tentativo fallisce non trovando l’appoggio sperato dei vertici militari e politici del passato regime e, soprattutto, della missione militare alleata a Budapest.
Un mese dopo un rimpasto di governo rafforza il potere di Károlyi, il quale si dimette da primo ministro per assumere la carica di capo di Stato provvisorio, vacante in attesa delle elezioni per l’Assemblea Nazionale Costituente. I socialdemocratici portano da due a quattro i loro ministri.
Il rapporto proseguiva con l’illustrazione degli avvenimenti che hanno portato alla nascita del partito comunista ungherese.
All’inizio del primo macello mondiale Béla Kun era stato spedito al fronte come ufficiale dell’esercito, e nel 1916 fu catturato e fatto dai russi. In un campo di prigionia si mette subito in contatto con l’organizzazione del partito di Tomsk e diviene membro del partito bolscevico. Fra i prigionieri un gruppo fa agitazione contro la monarchia e la guerra, al quale Kun dà un indirizzo decisamente marxista.
Alla fine del 1917 Kun si reca a Pietroburgo dove conosce Lenin e altri compagni, inizia a scrivere sulla “Pravda” articoli sulla rivoluzione russa, sul movimento internazionale, sugli ex prigionieri di guerra, ma anche sulla classe operaia e i contadini ungheresi. Redige il giornale “Nemeztkozi Szocialista” e lo propaganda fra i soldati ungheresi che si trovavano al fronte e fra i prigionieri di guerra che si sono stabiliti in Russia. Incita il proletariato e i soldati a rivolgere le armi contro gli oppressori, sull’esempio della rivoluzione russa, gli operai ad occupare le fabbriche, i contadini a prendere la terra dai latifondisti.
Il 24 marzo 1918, sempre a Mosca, Kun e i compagni ungheresi fondano il Gruppo Ungherese del Partito Comunista Bolscevico.
Lenin all’VIII congresso del PC(b)R a proposito della Federazione dei gruppi stranieri disse: «Decine di membri di questi gruppi sono stati informati sui progetti fondamentali e sugli obbiettivi politici generali al fine di dar loro un orientamento indicativo. Centinaia di migliaia di prigionieri (...) tornando in Ungheria, in Germania, in Austria hanno fatto sì che questi paesi siano ora interamente contaminati dal virus del bolscevismo. E se vi dominano gruppi o partiti solidali con noi, è grazie al lavoro (...) di questi gruppi stranieri in Russia, lavoro che ha rappresentato una delle pagine più importanti dell’attività del Partito comunista russo quale cellula del Partito comunista mondiale». Presidente della Federazione dei gruppi stranieri è Béla Kun che, insieme a Lenin, Marchlewsky, Liebknecht e Luxemburg firmano il manifesto preparatorio del Congresso di fondazione della Terza Internazionale.
«Gli internazionalisti – l’ottanta, ottantacinque per cento sono Ungheresi – combattono bene, a decine di migliaia hanno dato la vita per il potere sovietico» dice Sergej Lazo, comandante dei partigiani in estremo oriente. Partecipano a numerose battaglie nella guerra civile su tutti i fronti: nell’armata a cavallo di Budënnyj, nel Turkestan, in Crimea, lungo il Volga e in Siberia.
Il Gruppo ungherese era ben organizzato e strutturato: il suo giornale si pubblicava due volte la settimana in trenta-quarantamila copie, oltre a numerosi opuscoli rivoluzionari, con l’organizzazione del corso per propagandisti, con i libri pubblicati dalla Biblioteca Comunista.
Con un articolo apparso su “Szocialis Forradalom” il 23 ottobre 1918 Béla Kun prende decisamente le distanze dal Partito Socialdemocratico Ungherese, partito nel quale si era formato e aveva militato fin da giovane, e lo attacca senza mezzi termini nella sua politica opportunista e riformista al servizio della borghesia, dei grandi proprietari terrieri e della Chiesa al potere contro il proletariato. Enuncia la necessità per la classe operaia ungherese di un partito comunista rivoluzionario, che vedrà la sua fondazione qualche giorno più tardi, esattamente il 4 novembre 1918 a Mosca.
Alla conferenza di fondazione del Partito, Kun rimarca con forza il fatto di «non poter collaborare con il PSDU; una collaborazione del genere sarebbe impossibile, anche se i dirigenti del PSDU non avessero occupato poltrone ministeriali e non avessero concluso dei compromessi con i partiti borghesi. Le nostre rivendicazioni non potrebbero essere soddisfatte neanche dalla democrazia più radicale e dal governo più popolare. Noi non vogliamo dalla borghesia delle concessioni particolari. Ciò che vogliamo è il potere, perché solo il suo possesso offre i mezzi per liberare il proletariato. La dittatura del proletariato esistente in Russia da più di un anno non lascia più dubbi al riguardo (...)
«Riunita nel pomeriggio del 4 novembre 1918 all’Hotel Dresden di Mosca, la conferenza dei comunisti originari del territorio del vecchio Stato ungherese dichiara che, a conferma del proclama di principio contenuto nell’appello adottato il 25 ottobre scorso, è fondata la sezione ungherese del Partito Comunista Internazionale. Il nome di questa sezione è Partito dei Comunisti d’Ungheria. Esso adotta lo statuto del Partito Comunista di Russia. La conferenza dichiara che, in attesa della fondazione della Terza Internazionale della classe operaia e della Repubblica Internazionale dei Consigli, il C.C. del PCR viene considerato il rappresentante della classe operaia internazionale e che, per la politica generale, essa si attiene alle risoluzioni e alle decisioni di questo Comitato (...)
«Ogni membro del PCR che sia originario dell’Ungheria lasci al più presto (secondo le possibilità) il territorio della repubblica dei Soviet di Russia, per mettersi al servizio della rivoluzione internazionale in Ungheria. Viene creato un ufficio estero (...) Ai membri del PCR ungheresi si indica di trasferire la loro attività in Ungheria e là, conformemente ai principi del partito, servire la causa delle rivoluzione proletaria».
Il
6 novembre 1918 Béla Kun insieme a Kàroly Vàntus e altri due
compagni lasciano Mosca alla volta di Budapest.
Relazione dei compagni venezuelani
Nella riunione generale di partito d’inizio anno abbiamo ascoltato un resoconto sulla difficile condizione materiale in cui versa il proletariato del paese. La borghesia cerca di sviare la rabbia crescente della classe operaia con la democrazia, con la propaganda elettorale fra fronti borghesi falsamente opposti. Ma né l’attuale governo borghese chavista né uno diretto dai partiti politici oggi all’opposizione risolverà la crisi a favore dei lavoratori. La loro è una alternativa solo apparente sulla quale la classe dominante fa affidamento per continuare a sfruttare la classe operaia, divisa e disorganizzata.
La gran maggioranza dei sindacati attuali anche in Venezuela non mobilita i lavoratori, sono conciliatori verso i padroni e sacrificano le rivendicazioni operaie agli interessi delle imprese e dell’economia nazionale.
A gennaio e febbraio i nostri compagni sono intervenuti nelle fabbriche e fra i lavoratori dei tribunali in agitazione.
Hanno collaborato alla stesura di un documento del sindacato di fabbrica. Fra l’altro, vi si legge: «Le rivendicazioni dei lavoratori in Venezuela e nel mondo unificano la classe operaia senza distinzione di razza, religione, credo politico, sesso, settore produttivo. Oggi più che mai dobbiamo affratellarci per lottare contro i padroni – siano essi pubblici o privati – così come i loro governi che hanno un unico fine: garantire loro i margini di profitto tramite lo sfruttamento della classe operaia. I lavoratori non devono farsi distrarre dalle schermaglie fra i fronti borghesi bensì lottare per i loro interessi economici immediati. Al coro controrivoluzionario si uniscono i falsi dirigenti operai che solo ambiscono a prendere parte alle trattative fra borghesi offrendo in cambio pacchetti di voti per i nemici della nostra classe».
Seguono una serie di rivendicazioni, da propagandare fra tutti i lavoratori e le organizzazioni sindacali: riduzione dell’età pensionabile a 50 anni per le donne e a 55 per gli uomini; riduzione della giornata lavorativa a 6 ore a parità di salario; assunzione stabile di tutti i lavoratori precari e abolizione delle attività esternalizzate, obbiettivi da imporre col ritorno al pieno utilizzo dell’arma dello sciopero, senza preavviso né limiti legali.
Fine del resoconto della riunione
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Crisi
Alitalia
Necessaria
la riorganizzazione e la lotta di tutta la classe operaia
L’ennesima crisi di Alitalia emersa in questi mesi ed il No dei lavoratori all’accordo tra sindacati confederali, padroni e Stato, ci permette di fare alcune riflessioni sui punti fondamentali della tattica sindacale comunista, l’unica che sarà in grado di difendere i lavoratori dai nuovi ed inevitabili attacchi della classe dominante e del suo Stato.
La lunga crisi
Le ultime stime dicono che Alitalia chiuderà il 2016 con una perdita di più di 500 milioni di euro. Un deficit che la pone a rischio di fallimento per la terza volta in dieci anni.
Nel 2009, con la società in piena crisi, il governo Berlusconi bloccò la vendita di Alitalia ad Air France-KLM organizzando di fatto una cordata di imprenditori italiani che acquistò, a buon mercato, la compagnia. Un atto che ne avrebbe dovuto risollevare le sorti e preservarne la “italianità”. La cordata denominata CAI - Compagnia Aerea Italiana - era una società presieduta dall’imprenditore Roberto Colaninno e composta dai diversi gruppi capitalistici italiani, tra cui: Benetton, Riva (la famiglia proprietaria dell’ILVA), Marcegaglia, Ligresti, Caltagirone, Gavio e da Marco Tronchetti Provera. Inoltre vi erano due banche, Unicredit e Intesa Sanpaolo, il cui amministratore delegato era Corrado Passera divenuto qualche anno dopo, grazie al governo Monti, ministro dello sviluppo economico e delle infrastrutture e trasporti.
La CAI in realtà rilevò solo la parte “sana” della compagnia, acquistando Alitalia per 700 milioni di euro in meno rispetto all’offerta che era stata fatta da Air France-KLM. Debiti e personale in esubero furono trasferiti verso una cosiddetta “bad company”, che rimase a carico dello Stato. 7.000 dipendenti furono licenziati, concedendo loro sette anni di cassa integrazione; a chi rimaneva veniva tagliato lo stipendio dal 7 al 15%. Ai precari era concesso di... rimanere precari. Alla fine i patrioti “capitani coraggiosi”, così erano stati chiamati, non pagarono neanche quanto stabilito ma solo 300 milioni.
La privatizzazione non risolse nulla, anzi, la situazione si andò ad aggravarsi. Nel 2014, con i conti in rosso, il nuovo giovane rappresentante della borghesia italiana, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, salutò con grande enfasi l’entrata in scena della Etihad degli Emirati Arabi Uniti, che aveva acquistato il 49 per cento di Alitalia. Mentre i più dei “coraggiosi capitani” erano fuggiti a gambe levate, a tenere alto il tricolore rimanevano le banche: Unicredit e Banca Intesa. Ma la situazione, già evidentemente critica, peggiorò. La soppressione della manutenzione e la sua esternalizzazione portò con un aggravio di costi del 30 per cento. Inoltre, mentre il carburante scendeva di prezzo, Alitalia lo pagava più caro di qualsiasi altra compagnia, grazie a contratti di assicurazione che favorivano le banche azioniste.
In questo scenario, oramai permanente, con una perdita di più di un milione di euro al giorno, lo scorso 15 marzo Alitalia annunciò un “piano quinquennale 2017-2021” che prevedeva circa 1.800 esuberi. L’obiettivo ovviamente era quello di ridurre di un terzo le spese per il personale, risparmiando circa un miliardo in tre/quattro anni.
Il preaccordo con i confederali
A seguito di questi annunci, e nonostante l’apertura del tavolo delle trattative con i sindacati, vi erano state diverse manifestazioni e scioperi: tra le più partecipate quella del 27 febbraio e gli scioperi del 20 marzo e del 5 aprile, con protagonisti i sindacati di base.
Il ministero dello Sviluppo Economico aveva stabilito il termine ultimo delle trattative alla mezzanotte del 13 aprile. I sindacati confederali, il giorno dopo, firmarono un preaccordo che prevedeva, in sintesi, una riduzione dei tagli a 980 dipendenti, a cui sarebbe stata garantita la cassa integrazione straordinaria per due anni. I 500 precari non sarebbero stati confermati. Per quanto riguarda il personale di bordo, leggiamo: «scatti di anzianità triennali con il primo scatto nel 2020, un tetto di incremento retributivo in caso di promozione pari al 25%, l’applicazione ai neoassunti dei livelli retributivi Cityliner (compagnia regionale sussidiaria di Alitalia) indipendentemente dall’aeromobile d’impiego». Inoltre, era prevista la riduzione di un assistente di volo negli equipaggi a lungo raggio e una riduzione dei riposi dai 120 annuali a 108 con minimo di 7 al mese. Il salario sarebbe stato decurtato dall’8 ad oltre il 20% percento.
Il No dei lavoratori al referendum
Questo preaccordo è stato respinto dai lavoratori con il 67% dei voti nel referendum tenuto il 24 aprile. Determinante è stato il personale navigante; piloti e assistenti di volo, da cui sono arrivati la maggioranza dei No; ma anche tra il personale di terra, seppur per pochi voti, ha prevalso il voto contrario. Alta l’affluenza registrata: l’87%, 10.000 lavoratori su 12.000.
Il No dei lavoratori Alitalia all’ennesimo peggioramento delle loro condizioni va salutato positivamente perché li pone contro sindacati confederali, padroni e governo. Ma non può essere più di un segnale. Il metodo referendario non basta di certo. Spesso è dannoso. Al voto vanno tutti, crumiri, delegati venduti, lavoratori impauriti nel loro isolamento individuale, ed il loro voto ha lo stesso peso di quello dei lavoratori più combattivi che meglio rappresentano i bisogni e la reale capacità di mobilitazione della massa nel suo insieme.
L’unico No che potrà difendere i lavoratori Alitalia dai nuovi imminenti attacchi che la classe padronale sta preparando sarà quello della lotta di classe, dello sciopero, tanto più forte ed efficace quanto più partecipato ed esteso. Uno sciopero che dovrà coinvolgere tutte le categorie di lavoratori ed anche quei proletari che, pur lavorando negli stessi ambienti dei lavoratori Alitalia, non ne fanno parte. E questo sarà un compito che il sindacalismo di base si dovrà porre se non vorrà essere condannato all’impotenza.
La chiusura aziendale della lotta operaia
Oggi l’orizzonte della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani, inclusi quelli di Alitalia, rimane circoscritto al recinto aziendale, che in un periodo di crisi come quello odierno è il terreno ideale per la classe dominante ed il suo Stato, in quanto priva i lavoratori di ogni strumento di difesa, facendo loro mancare la solidarietà degli altri lavoratori, della classe nel suo insieme.
Una debolezza di fronte alla classe nemica di cui la principale responsabilità risiede nel definitivo rigetto della lotta di classe da parte del sindacalismo confederale, Cgil compresa, come conferma l’ennesimo accordo a perdere in Alitalia. È da tempo che Cgil, Cisl, Uil sono organizzazioni di regime, veri agenti della classe padronale in seno alla classe lavoratrice. La forza a questi sindacati non proviene dalle lotte dei lavoratori, ma dagli industriali, dalla finanza, dai loro governi di ogni colore e dal loro Stato. Non è un caso che, al di là dei teatrini televisivi, sempre meno convincenti, tutto il regime del capitale tuteli ed alimenti queste organizzazioni, che costituiscono un indispensabile strumento per frenare la lotta di classe.
I padroni non hanno paura di un No tracciato su un pezzo di carta, ma hanno paura e faranno di tutto per impedire che i lavoratori abbandonino la disciplina ai sindacati di regime.
Nel 1979 in Alitalia lo fecero gli assistenti di volo con scioperi numerosi e duri, inquadrati in trasversali comitati di lotta di cui si erano dotati, al di là della tessera sindacale che avevano in tasca, che minacciarono di scavalcare pericolosamente i sindacati di regime e furono di esempio a tutta la classe operaia italiana.
La debolezza dei sindacati di base
È infatti alla fine degli anni Settanta che molti lavoratori, di fronte all’impossibilità di lottare in difesa delle proprie condizioni all’interno delle confederazioni ufficiali, ne uscirono per fondare diversi sindacati di base. Oggi, a distanza di quarant’anni, questa necessaria reazione non è ancora riuscita nel suo compito, mettere insieme un’organizzazione unitaria difensiva della classe, idonea a rispondere alle offensive padronali e ad organizzare una lotta adeguata. Questo a causa della flaccidità della crisi capitalistica in occidente e, nelle famiglie proletarie, delle residue riserve, ormai in esaurimento, frutto del sopralavoro nei decenni precedenti di euforia capitalistica.
Una situazione che si è riflessa in gravi incertezze e continui arretramenti e deviazioni del sindacalismo di base.
Una illusoria nazionalizzazione
Un esempio, emerso anche nella vicenda Alitalia, di queste false strade proposte alle organizzazioni sindacali di base da diversi partiti della “sinistra” è quello della parola d’ordine della nazionalizzazione. Vi sarebbe una contrapposizione fra proprietà “pubblica” e “privata” delle aziende. La questione non è impostata correttamente. Il capitale è sempre “pubblico”, di tutta la classe dei capitalisti nel suo insieme, e per la classe operaia è sempre “privato”, del quale la classe operaia è “privata”, separata ed opposta.
Non vi potrà mai essere uno Stato borghese “vicino” alla classe operaia, e uno Stato della classe operaia vi sarà solo dopo l’abbattimento con la forza del potere della borghesia. Finché resterà in vita, l’economia del capitale non potrà esser modificata, concordata, “gestita”. Non ha senso contrapporre una “buona” proprietà statale ad una “cattiva” proprietà privata. È il Capitale impersonale, appartenente allo Stato, a singoli capitalisti o a gruppi di capitalisti, che impone le sue leggi di funzionamento anche allo Stato, oltre che a tutta la classe borghese, al fine del perpetuare lo sfruttamento della classe lavoratrice.
In questo modo viene diffusa tra i lavoratori l’illusione che non sia necessario abbattere il capitalismo, che è crisi sfruttamento e guerra, ma basterebbe tinteggiare di rosso il trono statale di sua maestà il Capitale, inganno nel secolo passato, messo in atto a scala colossale e purtroppo riuscito.
La questione sta nella pratica capacità dei lavoratori di difendersi dagli attacchi alle loro condizioni di lavoro e di vita, contro il padronato, pubblico o privato che sia, nella loro forte organizzazione e nel loro corretto indirizzo d’azione.
Peggio ancora se si rivendica la nazionalizzazione come condizione per una compartecipazione operaia alla gestione delle aziende, con la quale i lavoratori si farebbero gli sfruttatori di se stessi.
Che fare all’Alitalia
Intanto l’organizzazione, fuori e contro i sindacati di regime, è la premessa perché la classe possa difendersi. Organizzazione dapprima in Alitalia, ma che tenda ad abbracciare tutti i lavoratori della categoria, che è per sua natura internazionale. I sindacati di base, ed i lavoratori più combattivi che in parte hanno condotto questa lotta devono spingerla al di fuori dei recinti di Alitalia coinvolgendo altri lavoratori, unendosi ad altri salariati in lotta, se non vorranno anch’essi esser soffocati. Lavoratori che dovranno lottare per un’organizzazione sindacale tendenzialmente di tutta la classe operaia, che dovrà tornare ai suoi principi e metodi, senza farsi carico di quello che viene chiamato “bene del paese”, che altro non è che il bene del capitalismo. Un’organizzazione sindacale che potrà in parte rinascere dal miglior sindacalismo di base.
Un
sindacato di classe che oggi sarebbe intervenuto in difesa dei
lavoratori Alitalia, come di quelli di Almaviva, usando l’unica
vera risposta all’attacco generale dei padroni, lo sciopero
generale, chiedendo con forza:
-
Salario ai lavoratori licenziati, a carico dello Stato!
-
Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario!
-
Forti aumenti salariali maggiori per le categorie peggio pagate!
Il SI Cobas contro i trasferimenti FCA a Cassino
All’ingresso del primo turno del 6 marzo il SI Cobas ha organizzato un volantinaggio davanti allo stabilimento FCA di Cassino per promuovere una opposizione al trasferimento di 500 operai dallo stabilimento di Pomigliano. L’iniziativa è stata ostacolata dall’intervento della polizia che ha trattenuto i mezzi con quali i militanti del sindacato, provenienti da Pomigliano, seguivano i pullman degli operai. Così la maggior parte di loro sono arrivati quando molti operai erano già entrati in fabbrica. Al loro arrivo i militanti del SI Cobas hanno trovato un dispositivo poliziesco davanti all’ingresso 1. I nostri compagni hanno collaborato al volantinaggio e distribuito la stampa del partito.
Il trasferimento degli operai di Pomigliano a Cassino è causa di malcontento fra i lavoratori. A Pomigliano la rabbia per l’atteggiamento collaborazionista dei sindacati tricolore, e in particolare della Fiom, si è manifestata nel voto a favore di una mozione del SI Cobas contraria al trasferimento. Nella mozione si denunciava come la maggiorazione in busta paga promessa dall’azienda non compensasse certo le due ore al giorno in più spese per raggiungere il posto di lavoro.
A Cassino si lavora, per ora, soltanto su un turno ma, per incentivare la produzione dei modelli Stelvio e Alfa Giulia, entro breve tempo si aggiungeranno altri 1.200 operai (500 provenienti da Pomigliano e 700 con nuove assunzioni) e verrà istituito un nuovo turno di lavoro.
Nelle settimane successive il SI Cobas ha distribuito altri volantini alla fine del turno di lavoro. In uno di questi si afferma che l’efficacia per i padroni del piano industriale non fa parte delle rivendicazioni sindacali. Una posizione tanto corretta quanto misconosciuta anche dal sindacalismo di base. Nel volantino inoltre il SI Cobas rivendicava di rallentare i ritmi di lavoro alle linee di montaggio, il ritiro del trasferimento degli operai di Pomigliano, il rientro in fabbrica degli operai di Cassino in cassa integrazione e di non sottoporre i lavoratori anziani o con patologie a massacranti ritmi di lavoro.
Voucher e precariato
I voucher sono stati introdotti nel 2003 con la legge Biagi e progressivamente ne sono stati ampliati gli ambiti di utilizzo alleggerendo i requisiti riguardo aziende e lavoratori: nel 2008, ad esempio, su pressione di Confagricoltura, sono stati introdotti per la raccolta nei campi, con la scusa del contrasto al lavoro nero.
In realtà l’intenzione era evitare alle imprese le pesanti sanzioni introdotte nel 2006 contro il lavoro irregolare, non inferiori ai 3.000 euro, pur continuando a pagare al nero le ore lavorate in più, oppure non pagando tutte le ore lavorate.
Agri- col- tura |
Com- mer- cio |
Giardi- nag- gio e pulizie |
La- vori dome- stici |
Ser- vizi |
Turi- smo |
Altre atti- vità |
Totale | |
2008 | 535 | 0 | 0 | 0 | 0 | 0 | 0 | 535 |
2009 | 1.239 | 253 | 99 | 14 | 229 | 193 | 264 | 2.747 |
2010 | 1.686 | 1.185 | 903 | 219 | 1.144 | 631 | 2.222 | 9.699 |
2011 | 2.013 | 2.027 | 1.676 | 369 | 1.995 | 1.081 | 3.954 | 15.347 |
2012 | 2.208 | 3.723 | 2.574 | 601 | 3.073 | 1.836 | 6.858 | 23.813 |
2013 | 2.166 | 7.922 | 2.952 | 1.168 | 5.864 | 4.978 | 12.438 | 40.787 |
2014 | 2.017 | 14.522 | 4.201 | 1.811 | 10.463 | 11.299 | 20.120 | 68.518 |
2015 | 2.067 | 17.539 | 4.586 | 4.590 | 13.026 | 16.532 | 45.577 | 108.049 |
2016 | 1.461 | 18.676 | 5.668 | 4.252 | 15.272 | 19.896 | 63.059 | 133.827 |
La propagandata “regolarizzazione” ha avuto pesanti ripercussioni sulla già precaria condizione dei lavoratori precari spostando verso il basso le retribuzioni: i giovani proletari sono stati sempre più pagati con voucher invece che con altre forme contrattuali più stabili.
L’utilizzo dei voucher è cresciuto velocemente. La tabella, con dati in migliaia, lo conferma: dal 2008, quando ne furono venduti circa 535 mila, si è passati ai 108 milioni del 2015 e ai 133 milioni nel primo semestre del 2016, quando si fermano le statistiche. Secondo i dati Istat nel 2016 la riscossione dei voucher è stata effettuata da 1.765.810 lavoratori circa il 10% dei lavoratori dipendenti in Italia.
Anche i settori di utilizzo sono aumentati e se nel 2008 sono stati consumati solo nel settore agricolo con il passare degli anni hanno interessato tutti i settori.
Agri- col- tura |
Com- mer- cio |
Giardi- nag- gio e pulizie |
Lavori dome- stici |
Eventi spor- tivi e cultu- rali |
Servizi | Turi- smo |
Altre attività |
|
2008 | 99,9 | 0,1 | 0 | 0 | 0 | 0 | 0 | 0 |
2009 | 45,1 | 9,2 | 3,6 | 0,5 | 16,5 | 8,3 | 7 | 9,6 |
2010 | 17,4 | 12,2 | 9,3 | 2,3 | 17,6 | 11,8 | 6,5 | 22,9 |
2011 | 13,1 | 13,2 | 10,9 | 2,4 | 14,5 | 13 | 7 | 25,8 |
2012 | 9,3 | 15,6 | 10,8 | 2,5 | 12,3 | 12,9 | 7,7 | 28,8 |
2013 | 5,3 | 19,4 | 7,2 | 2,9 | 8,1 | 14,4 | 12,2 | 30,5 |
2014 | 2,9 | 21,2 | 6,1 | 2,6 | 6 | 15,3 | 16,5 | 29,4 |
2015 | 1,9 | 16,2 | 4,2 | 4,2 | 3,8 | 12,1 | 15,3 | 42,2 |
2016 | 1,1 | 14 | 4,2 | 3,2 | 4,1 | 11,4 | 14,9 | 47,1 |
La seconda tabella ci descrive come è cambiato il peso di ogni singolo settore. Se nel 2008 il 99,9% dei buoni era stato utilizzato in agricoltura, nel 2016 la quota dell’attività nei campi rappresenta l’1,1% del totale, mentre ben il 47,1% rientra nella categoria “altre attività”, il 14,9% nel turismo, il 14,0% nel commercio e l’11,4% nei servizi.
Anche l’Ufficio parlamentare di bilancio, ha ammesso che è diventata marginale la posizione delle attività per le quali i voucher erano stati originariamente pensati: piccoli lavori domestici, tra cui baby sitting e assistenza agli anziani, ripetizioni scolastiche pomeridiane, giardinaggio, manifestazioni sociali, sportive, culturali, etc.
Eppure le imprese possono utilizzare due tipologie contrattuali che permettono di assumere forza lavoro in forma flessibile: la “somministrazione di lavoro”, attraverso le agenzie interinali, e il “contratto a chiamata”, detto anche “ad intermittenza”. La tabella spiega perché il voucher ha avuto questa impennata di utilizzo.
Acces- sorio |
Sommi- nistra- zione |
Intermittente | ||
senza Dispo- nibilità |
con Dispo- nibilità |
|||
Netto | 7,50 | 7,50 | 7,50 | 9,0 |
Lordo | 10,00 | 8,38 | 8,38 | 8,38 |
Disponibilità | 0,00 | 0,00 | 0,00 | 1,68 |
Ratei | 0,00 | 1,40 | 1,40 | 1,40 |
INPS Cto Azienda | 1,80 | 2,91 | 2,91 | 3,41 |
INAIL Cto Azienda | 0,70 | 0,35 | 0,35 | 0,40 |
T.F.R. | 0,00 | 0,72 | 0,72 | 0,85 |
Magg. Agenzia | 0,00 | 1,81 | 0,00 | 0,00 |
TOTALE COSTO | 10,00 | 15,56 | 13,75 | 16,11 |
Con i voucher quindi il costo della forza lavoro per le imprese era inferiore.
La Cgil ha “mobilitato” (si fa per dire!) tutta la sua struttura sulla campagna ”Con 2 Si” che prevedeva nientemeno la raccolta delle firme per due referendum, uno dei quali sull’abrogazione dei voucher.
Ma la Cgil è stata anticipata dal governo che a marzo, con un decreto legge, ha deciso di abrogare questa forma di pagamento. Le aziende che hanno acquistato i voucher prima dell’entrata in vigore del decreto potranno utilizzarli entro la fine dell’anno.
Vedremo come normative ben peggiori si riverseranno sulla classe operaia.
(continua al prossimo numero)
Contro l’agente unico
La mobilitazione dei ferrovieri inglesi
Le Southern Rail (SR), che gestiscono in concessione circa un quinto della rete ferroviaria inglese, operano nel trasporto passeggeri dalla costa sud-est all’area di Londra. L’intenzione delle SR di passare il controllo della chiusura delle porte ai macchinisti, modificando il mansionario del personale viaggiante, fin dall’aprile 2016 ha incontrato la resistenza degli iscritti al sindacato Rail Maritime Transport (RMT).
L’introduzione sui treni dell’agente unico a bordo, richiesto dai capi delle SR, è visto come una anticipazione di quello che faranno le altre Società sulle loro linee, in particolare quelle del Nord e delle Midlands.
In giugno RMT proclamò due azioni di sciopero che avrebbero interessato la Scotrail e le SR. Una serie di scioperi alla Scotrail fu preannunciata per giugno-luglio, ma poi furono rimandati ad agosto, e successivamente revocati per consentire ulteriori trattative fra la Scotrail e la dirigenza RMT. I dirigenti della Compagnia imbastirono campagne pubblicitarie sui social media e con l’invio di lettere ai singoli lavoratori allo scopo di far pressione su di loro, il che ha ottenuto solo di aumentare i voti a favore dello sciopero.
RMT rassicurò che non intendeva accettare l’agente unico su tutte le tratte e servizi e che il personale viaggiante vi avrebbe mantenuto l’incarico del controllo delle porte, denunciando che l’agente unico avrebbe ridotto o annullato ogni garanzia di sicurezza. I capi sindacali si trovavano costretti a dar voce all’opposizione alla riforma: è chiaro che era il personale viaggiante quello sotto minaccia e la base spingeva contro l’introduzione dell’agente unico.
Fu indetto per il 21 giugno lo sciopero alle SR del personale viaggiante del RMT contro l’adozione del nuovo mansionario, che dal 21 agosto li avrebbe inquadrati nella funzione di “controllori a bordo” (OBS). Il passaggio di funzioni fra macchinisti e personale viaggiante era già avvenuto, su altre linee, sui treni di nuova costruzione, ed era già stato accettato da ASLEF, il sindacato dei macchinisti. Ma la maggior parte dei treni di SR sono tutt’altro che nuovi.
I macchinisti sono bene organizzati nel loro sindacato di mestiere qualificato, l’ASLEF. Questo ha una buona tradizione nella difesa degli iscritti, senza remore, se necessario, a svantaggio di altri lavoratori delle ferrovie.
Pare che RMT abbia offerto un piano in sette punti per mantenere il personale viaggiante ma nella funzione di controllori: questi dovrebbero individuare i passeggeri che escono dalle stazioni senza aver pagato l’intero biglietto (per errore o altro) o che intendono pagarlo all’arrivo.
Il 7 luglio RMT propose di differire ogni sciopero per tre mesi se i padroni avessero ritirato l’applicazione dei cambiamenti sulla procedura di chiusura delle porte, per dare spazio alle trattative. Questo fu rifiutato dalle ferrovie, e le SR confermarono il piano di adozione del nuovo regolamento di bordo per il 21 agosto con passaggio del personale nei nuovi ruoli, il che, dissero, avrebbe mantenuto tutti i posti di lavoro e portato vantaggi ai passeggeri della rete meridionale.
Il conflitto cominciò ad estendersi dalle ferrovie privatizzate a quelle a gestione pubblica degli enti locali. Anche Merseyrail, nella zona di Liverpool, annunciò che voleva introdurre l’agente unico, specialmente con l’introduzione dei nuovi treni di moderna concezione.
In estate fu annunciato l’introduzione del sevizio notturno nella metropolitana di Londra e il nuovo sindaco laburista, Sadiq Khan, se ne assunse tutto il merito in un discorso alla stazione di Brixton della metropolitana.
Fu indetta una votazione fra gli iscritti al RMT e ad ASLEF per aprire una vertenza. Infatti il servizio notturno sarebbe stato introdotto in agosto con macchinisti reclutati con un contratto apposito. Ai conduttori del servizio notturno sarebbe preclusa la possibilità di far domanda di assunzione presso la London Underground per 18 mesi. Con un impegno prestabilito di impiego di 16 ore la settimana non avrebbero riscosso alcuna maggiorazione per il lavoro notturno, che spetta agli altri dipendenti. Questo fu denunciato dai dirigenti dello RMT come “evidente discriminazione”. I dirigenti dell’ASLEF aggiunsero che: «la gran maggioranza dei conduttori della metropolitana notturna accettarono il lavoro perché vi vedevano un primo passo verso l’assunzione, e non per passare anni ed anni a lavorare le notti del venerdì e del sabato».
Ma un previsto sciopero di 24 ore fu revocato nell’attesa di trattative. Il sindaco di Londra lodò la sospensione dello sciopero: «le trattative possono ora riprendere senza inutili disagi per gli utenti».
Mentre l’ASLEF decideva uno sciopero dello straordinario, che ha portato alla cancellazione di molti treni, il personale viaggiante continuava a resistere alla riforma. In una dichiarazione pubblica denunciava le conseguenze della mancanza del secondo addetto dell’equipaggio, per esempio sull’accesso dei passeggeri disabili, specialmente nelle stazioni non presenziate.
A metà dicembre l’ASLEF ha dato il preavviso al governo di dieci giorni di scioperi ed agitazioni nelle ferrovie. Il 13 dicembre la rete delle SR si è fermata per lo sciopero dei macchinisti, coinvolgendo 300 mila pendolari nel Sud-Est dell’Inghilterra.
Il 14 dicembre RMT iniziò una campagna “Treni sicuri per tutti”, denunciando che altre compagnie avevano intenzione di introdurre l’agente unico, e che avrebbero approfittato dell’occasione per riduzioni di personale.
La vertenza per adesso si svolge fra l’ASLEF e i dirigenti delle SR, con questi che insistono sulla sicurezza dei treni con l’agente unico (anche grazie alle telecamere a bordo) e non si parla di ammodernamento dei treni.
Il 22 dicembre le SR decisero di scavalcare la dirigenza dell’ASLEF mandando per lettera a tutti i macchinisti una loro offerta, rifiutata dalla dirigenza sindacale.
L’8 gennaio l’ASLEF ha proclamato lo sciopero dello straordinario sulle SR: circa un quarto dei treni si è fermato per mancanza del macchinista. Due giorni dopo SR era praticamente ferma per lo sciopero. Il giorno seguente un altro sciopero di 1.000 macchinisti ha portato alla cancellazione di quasi tutti i 2.242 treni. Un altro sciopero era programmato per il 13 gennaio e tre per il 24, 25 e 27 gennaio.
Jaremy Corbin, il segretario del Partito Laburista, ha appoggiato l’ASLEF, ma ha taciuto sullo RMT, che non è affiliato al Partito Laburista: ASLEF versa soldi al Partito e lo RMT no.
Il 18 gennaio lo ASLEF revoca i tre giorni di sciopero e il blocco dello straordinario, in modo da poter intraprendere le trattative con le SR. Trattative segrete hanno luogo nella sede del Trade Union Congress per undici giorni, con questo che svolge il ruolo di arbitro fra i padroni e i dirigenti dell’ASLEF. Significativamente i rappresentati dello RMT non sono stati invitati.
Il 21 febbraio lo ASLEF annuncia che la fine della vertenza è vicina dopo aver ottenuto dalle ferrovie “significative concessioni”. Ma i dettagli dell’accordo con i capi sindacali sono segretissimi, benché i quasi 1.000 macchinisti iscritti allo ASLEF saranno chiamati a votare sui termini dell’accordo sponsorizzato dal TUC. I dirigenti dello RMT dichiararono che si trattava di un “inimmaginabile tradimento”.
Come i termini di questo accordo segreto fra le ferrovie e l’ASLEF cominciarono a trapelare ci fu grande indignazione nella base degli iscritti. I dirigenti si appellarono a “circostanze eccezionali” nelle quali i treni avrebbero potuto partire senza il secondo agente a bordo. Avevano accettato l’assenza dell’attuale presenza di personale viaggiante dove soltanto fosse previsto in turno il secondo membro dell’equipaggio, benché di fatto non presente per ragioni di malattia, ritardo, persa coincidenza da altro treno o lasciato accidentalmente alla stazione.
Il 16 febbraio uscirono i risultati del voto segreto fra gli iscritti all’ASLEF: avevano votato almeno tre quarti degli iscritti, rigettando l’accordo col 54% dei voti.
Nuove trattative si prospettano fra SR e la direzione dell’ASLEF. Sembra certo che RMT anche stavolta non sarà invitato.
La solidarietà istintiva fra macchinisti e personale viaggiante delle ferrovie, e la resistenza agli attacchi alle condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti della Metropolitana di Londra, sono le premesse per un movimento di base, tendente a sorpassare le divisioni di mestiere e di industria, strappando la conduzione delle lotte ai dirigenti sindacali che stanno dalla parte dei padroni e del loro Stato.
Irlanda
Il
duro sciopero delle autolinee
In Irlanda lavoratori di Bus Éireann, un’azienda per metà statale, in risposta alla decisione unilaterale del padrone di ridurre la paga e peggiorare le condizioni di lavoro, hanno proclamato uno sciopero generale dal 24 di marzo, bloccando le linee in tutto il paese, ed alcune verso l’Irlanda del Nord.
La National Bus and Rail Union, Nbru, uno dei principali sindacati degli autisti, già da alcune settimane aveva dato indicazione di voto ai propri membri per entrare ufficialmente in stato di agitazione, notificando la decisione alla direzione. Secondo le leggi antisciopero dello Stato irlandese vi è l’obbligo, infatti, di comunicare gli scioperi con sette giorni di anticipo.
I picchetti sono stati forti sin dall’inizio, le azioni più importanti si sono tenute di venerdì, il giorno con il maggior traffico.
Vi sono stati lamentele negli ambienti governativi contro i cosiddetti “picchetti secondari”, quelli disposti al fine di allargare lo sciopero, costringendo altri lavoratori a scioperare, o in altri servizi per danneggiare il lavoro nell’azienda o azioni simili. Diageo e Coca Cola nel passato ricorsero ai tribunali per ottenere ingiunzioni contro i picchetti secondari nelle proprie sedi, non essendo direttamente interessate all’agitazione. In Irlanda questi picchetti sono illegali a meno che il datore di lavoro che subisce i picchetti secondari abbia previsto la cosa in specifici accordi sindacali. In questo caso non poteva essere applicata la legge perché Dublin Bus e Iarnrod Éireann non avevano subito ripercussioni sul loro normale servizio. I primi picchetti la prima mattina di sciopero ebbero però effetti sul servizio di alcuni treni intercity delle Iarnród Éireann, le Ferrovie irlandesi.
La crisi di Bus Éireann
Bus Éireann ha annunciato perdite finanziarie per 9 milioni di euro lo scorso anno e 50.000 al giorno questo gennaio. La crisi è peggiorata ma è quasi permanente, con lo Stato irlandese che emette biglietti gratuiti e offerte molto convenienti per i turisti, lasciando alle tre società statali di trasporto pubblico (Bus Éireann, Dublin Buses e Irish Railways) di far quadrare i conti. E Bus Éireann ha pensato bene di farlo attaccando i salari e le condizioni di lavoro dei dipendenti.
Il Governo irlandese ha subito smentito le voci che vorrebbero una privatizzazione della società di trasporti pubblici su gomma. La Irish National Transport Authority (Nta) paga una sovvenzione di 125.000 euro ogni giorno lavorativo e di 75.000 per i fine settimana. Ma ora la Nta intende multare Bus Éireann di oltre 1 milione per le linee non effettuate a causa dello sciopero.
I sindacati hanno indetto sciopero contro la ventilata manovra di Bus Éireann di abbattimento dei costi, presa senza il loro consenso. 2.600 lavoratori Bus Éireann sono scesi in sciopero nonostante i dirigenti dell’azienda avvertissero che avrebbero peggiorato la situazione finanziaria, già “rischiosa”.
I picchetti “ufficiali”, approvati dal sindacato, si sono tenuti davanti alle stazioni degli autobus utilizzate da Bus Éireann, mentre le compagnie non interessate dallo sciopero spostavano le fermate, specialmente a Dublino, per non dover attraversare i picchetti dei due sindacati principali: Siptu (Services, Industrial, Professional and Technical Union) e Nbru. La funzione del picchetto è duplice: sia impedire l’impiego di autobus della Bus Éireann rompendo lo sciopero, sia tenere mobilitati e disciplinati gli scioperanti.
Picchetti non ufficiali a Dublino
Il primo giovedì di sciopero, Mr. O’Leary dell’Nbru ha detto che «è sempre più chiaro che il montare della frustrazione e della tensione fra i nostri iscritti sta raggiungendo proporzioni vulcaniche e che potrebbe, nonostante la nostra ferma contrarietà, diventare la madre di tutti i conflitti del trasporto pubblico».
Il giorno successivo, venerdì 31 marzo, sono iniziati i picchetti secondari, ben organizzati con i militanti di base che sono riusciti a prepararli mantenendone all’oscuro i padroni e il loro Stato, oltreché le burocrazie sindacali. I picchetti alla Bus Éireann sono iniziati già alle 4 del mattino e quando arrivarono al lavoro i dirigenti della Dublin Bus trovarono tutte e sette le rimesse bloccate. Gli scioperanti allinearono dei picchetti anche davanti agli uffici della Bus Éireann, molti dei quali si trovano in prossimità di stazioni ferroviarie, così gli iscritti della Nbru si rifiutarono di attraversarli e alcuni, anzi, vi parteciparono. Fuori alla stazione di Limerick Colbert i picchetti sono iniziati alle sei del mattino circa, poco dopo la partenza dei primi treni: la maggior parte dei transiti da questa stazione, snodo importante per il sud est e per la costa occidentale, si sono bloccati fino a mezzogiorno.
Quasi tutti i picchetti sono stati rimossi verso le 10 del mattino col ritorno alla normalità pressoché di tutti i servizi.
Sono quindi iniziate le ritorsioni. Mr.Ross, il ministro dei trasporti, ha definito gli scioperi «una protesta ingiustificata e irregolare» e ha detto che i picchietti «non hanno nulla a che vedere con la giusta condotta degli scioperi». Dublin Bus e Irish Rail hanno comunicato alla Nbru che stanno prendendo provvedimenti legali per recuperare le perdite causate dagli scioperi “selvaggi” di ieri: i servizi Irish Rail, Dublin Bus e Dart erano sono stati pesantemente danneggiati la mattina precedente a causa dei picchetti alle stazioni. Anche il primo ministro irlandese Enda Kenny si è espresso contro questo tipo di picchetti: «queste azioni selvagge portate avanti nel fine settimana sono riprovevoli, e hanno disturbato centinaia di migliaia di persone».
Il ministro della Protezione Sociale, Leo Varadkar ha dichiarato alla rete Rté che Bus Éireann è una azienda importante ma non indispensabile, giacché il grosso di quello che fa può essere assegnato a aziende private. Più tardi un portavoce del Sinn Féin ha affermato proprio quanto Mr.Ross e Mr.Varadkar volevano sentirsi dire: «Si deve tener conto del servizio offerto da Bus Éireann ai cittadini su linee poco redditizie in cui degli operatori privati non andrebbero (...) Devono queste persone essere sacrificate per il programma di privatizzazione del Governo?». È chiaro che la sorte degli autisti e delle loro famiglie non rientra nelle loro preoccupazioni.
I funzionari sindacali riprendono il controllo
I media riportano avvertimenti di alcuni funzionari sindacali che lo scontro alla Bus Éireann potrebbe diffondersi alla Irish Rail e alla Dublin Bus, accusando l’Nbru di essere coinvolto.
Ripreso il controllo sui picchetti ufficiali i capi sindacali hanno subito accettato di sottoporre lo sciopero alla Commissione Arbitrale Aziendale, che si è convocata il 5 aprile. Condizione per aprire le trattative sarebbe che lo sciopero continuasse e i picchetti restassero al loro posto, questo sarebbe una prova di combattività, oltre che per tenere in riga gli scioperanti.
Un funzionario Siptu dichiarò che non si sarebbero potuti tirare fuori dallo sciopero ed era escluso che si tornasse semplicemente al lavoro. Questo perché dei lavoratori erano stati trasferiti a Munster ed altri avevano subito consistenti tagli al salario.
La Siptu ha così iniziato a manifestare le sue intenzioni collaborazioniste, sulla testa dei propri membri: «Sappiamo che in Bus Éireann ci sono delle inefficienze che possono essere rimosse, e noi siamo pronti a fare la nostra parte», queste le parole di Willie Noone, portavoce del sindacato. E continua: «Una delle questioni essenziali è che l’equità deve prevalere, noi crediamo che il numero di dirigenti deve essere tagliato, pensiamo che sia sbilanciato». E ancora: «Crediamo che, se ci debbono essere dei tagli nelle paghe, i dirigenti sono quelli che devono dare di più».
Lo sciopero alla Bus Éireann è terminato il 14 aprile. È stato revocato dai sindacati dopo che la Corte di Arbitraggio ha sentenziato che l’azienda era insolvente. Il tribunale ora emetterà le sue raccomandazioni e all’inizio di maggio i lavoratori Bus Éireann voteranno le proposte.
Al momento alla Bus Éireann si è tornati al lavoro, ma sia gli autisti della Dublin Bus, sia, il 28 aprile, quelli di Iarnród Éireann (Ferrovie), sia degli scuola-bus hanno votato per unirsi agli autisti Éireann se questi decideranno di tornare a scioperare.
Sciopero generale in Brasile contro l’aumento dell’età pensionabile e l’estensione del lavoro precario
In Brasile sono state indette e svolte una serie di mobilitazioni contro la riforma pensionistica e il prospettato aumento del ricorso al lavoro in affitto.
Le proteste sono state organizzate da movimenti sociali e sindacati fra i quali la Central Unica dei Lavoratori, CUT, la prima confederazione sindacale del paese, la cui maggioranza è legata al Partito dei Lavoratori (PT), formazione degli ex presidenti Luiz Inácio Lula da Silva e Djlma Rousseff, destituita lo scorso agosto e sostituita da Temer.
La proposta di modifica costituzionale presentata da Temer al congresso nel dicembre scorso, poi ammorbidita, stabilisce, tra l’altro, che gli uomini potranno andare in pensione solo a 65 anni di età e a 62 le donne, i lavoratori agricoli a 60 anni gli uomini e a 57 le donne, con grave peggioramento per gran parte dei salariati. Inoltre la riforma eliminerebbe i trattamenti migliori finora in vigore per settori della scuola e dell’agricoltura e svincolerebbe l’importo delle pensioni dal salario minimo.
In parallelo con la riforma dei requisiti pensionistici, il governo borghese spinge, per una legge del lavoro che estenda la possibilità di ricorso al lavoro precario, che permetterebbe alle imprese di ridurre i costi della mano d’opera con impieghi precari e a tempo determinato. In Brasile i lavoratori in appalto lavorano 3 ore in più alla settimana, ricevono un salario inferiore del 25% rispetto al resto dei lavoratori e, in media, restano nello stesso impiego per 2 anni e mezzo meno degli altri. Per contro accusano l’80% degli incidenti sul lavoro.
Il numero dei disoccupati in Brasile è arrivato alla cifra di 13,5 milioni, la più alta dal 2012, nel 2017 cresciuta di altre 225.000 unità.
Tutta la mobilitazione dispiegata dai movimenti e dalle centrali sindacali in opposizione al governo di Temer ha portato allo sciopero generale del 28 di aprile, indetto con molta propaganda e iniziative.
Il 28 aprile era l’anniversario dei 100 anni dal primo sciopero generale del Paese. Ma i politicanti che hanno indetto lo sciopero cercano solo di incanalare la protesta ed utilizzarla per le loro aspirazioni di tornare al governo.
Lo sciopero generale si è tenuto il 28 aprile con grande partecipazione nei trasporti pubblici, fra i lavoratori del petrolio, le poste, la scuola, gli aeroporti, le banche, la vigilanza, i servizi pubblici, la nettezza urbana.
I lavoratori brasiliani devono organizzarsi dalla base e mobilitarsi ben oltre la mobilitazione del 28 aprile, per avanzare verso uno sciopero ad oltranza e senza servizi minimi, che rivendichi un aumento generale dei salari, la riduzione della giornata lavorativa e della età per la pensione e nelle imprese la trasformazione dei contratti a tempo indeterminato.
Perché questo sia possibile, i lavoratori devono rompere con i partiti di entrambi i fronti borghesi che si contendono il timone dello Stato e con la loro pretesa di spacciare le elezioni presidenziali come una via di uscita dalla crisi. Non vi sarà uscita dalla crisi capitalista, in Brasile e nel resto del mondo, senza la ripresa della lotta operaia di classe.
Fuori dalla partecipazione al voto nelle elezioni presidenziali e parlamentari, la lotta di classe culminerà nell’unire le esigenze e le rivendicazioni economiche con la lotta per l’abbattimento della borghesia e l’instaurazione della dittatura del proletariato, sotto la guida del partito marxista rivoluzionario.
Organizzazione e mobilitazione dei lavoratori alla base. Contro la borghesia e i suoi politicanti al governo e all’opposizione. L’uscita dalla crisi non passa né per le elezioni né sostituendo un governo borghese con un altro. Per la rivoluzione sociale, la dittatura del proletariato, il comunismo.
La situazione in Guyana e la sua storia
La Guyana fa parte dei “territori non metropolitani” della Francia, che si estendono su 120.000 kmq con una popolazione superiore a 2,7 milioni, il 4% della popolazione francese complessiva. Sono territori retaggio dell’antico impero coloniale, in America, in Oceania, nell’Oceano Indiano e nell’Antartide: Mayotte, Guadalupa, l’Isola della Riunione, la Guyana, la Martinica, Saint Martin nei Caraibi, Saint Pierre e Miquelon, la Polinesia francese, la Nuova Caledonia, ecc. La situazione sociale non è prospera in alcuno di essi.
Lo Stato francese si impossessò della Guyana nel XVII secolo. La colonizzazione da parte di europei, poco abituati alle difficili condizioni di vita e di clima, fu presto rimpiazzata da schiavi africani. Colbert vi fece introdurre la cultura della canna da zucchero. La classe dominante francese, prima l’aristocrazia poi la borghesia, vi mantenne una economia di tipo schiavista fino al 1848, data della seconda abolizione dello schiavismo, dopo quella imposta dalla Rivoluzione nel 1794, ma abrogata da Napoleone nel 1804. Divenne un dipartimento francese nel 1797. Fu poi progressivamente trasformata in colonia penale e con Napoleone III divenne un bagno penale con una rete di campi e di penitenziari lungo la costa dove venivano deportati i condannati per reati comuni e politici, fra cui molti comunardi nel 1871. I prigionieri erano condannati ai lavori forzati nell’”inferno verde” della foresta tropicale. Terminata la pena pochi diventavano coloni, a danno della formazione di una borghesia locale.
Gli inizi del XX secolo furono segnati dalla corsa all’oro, che tolse braccia all’agricoltura. Il bagno della Caienna fu chiuso dopo la Seconda Guerra mondiale e la Guyana ridiventò un dipartimento francese nel 1946, come la Guadalupa, la Martinica e la Riunione, con l’abolizione del codice dell’indigenato e del lavoro forzato. In seguito alla nascita di un movimento indipendentista nelle Antille e in Guyana, a partire dal 1960 Parigi vi istallò un apparato repressivo militare e giuridico che favoriva il trasferimento di antillani e guianesi verso la metropoli.
Nel 1964 si decise di costruirvi una base spaziale, a rimpiazzare quella nel Sahara algerino. La Guyana aveva allora 30.000 abitanti, contro i 260.000 di oggi, e pochissime infrastrutture. Si aprì così un grande cantiere per gli industriali francesi. La costruzione del Centro Spaziale Guianese, o CSG, su una superficie di 96.000 ettari, con l’esproprio di 641 famiglie di diversi centri urbani, all’inizio fomentò il nazionalismo, poi lo acquietò grazie alle ricadute economiche.
Una fedeltà al nazionalismo si manterrà nel sindacato UTG, che si separerà dalla CGT della metropoli nel 1967.
Fra il 1973 e il 1975, in un contesto di crisi economica mondiale, la proposta di trasferire in Guyana la Legione Straniera e l’arrivo di agricoltori europei e di hmong (originari della Cina, del Laos e del Vietnam, in fuga dalla guerra degli anni ’70, che diventeranno tenaci agricoltori in villaggi isolati nella foresta) aumentò il seguito popolare alle idee nazionaliste sostenute dall’UTG.
Gli indipendentisti mantennero legami stretti con gli autonomisti antillesi. Nel 1974 fu messa la museruola alla stampa e furono arrestati numerosi indipendentisti fra cui i sindacalisti dell’UTG. Saranno liberati nel gennaio del 1975 sotto la pressione di manifestazioni di piazza, ma il movimento nazionalista aveva perduto ormai il suo fascino.
Ci vorranno una cinquantina d’anni, di lotte operaie e popolari e di reiterate rivendicazioni di eguaglianza, perché la Guyana, similmente agli altri dipartimenti d’oltremare, arrivi a beneficiare, in linea di massima, dello stesso trattamento sociale della popolazione metropolitana.
La Guyana, “la terra delle acque abbondanti” in una lingua amerinda, si estende per 83.534 kmq di cui il 98% foresta tropicale umida. Si divide nelle terre basse lungo le coste e nel Massiccio della Guyana, che si estende anche in Brasile e nel Suriname. L’agricoltura occupa soltanto il 4% della superficie del paese. Conta 260.000 abitanti, con una densità di 3 per kmq, ma con un tasso di natalità elevato con 3,5 figli per ogni donna, contro 1,98 nella metropoli. I minori di 20 anni sono il 43% della popolazione, contro il 24% della metropoli. L’origine degli abitanti è molto eterogenea: 40% creoli, 12% francesi metropolitani e il resto amerindi (2%), asiatici, libanesi, brasiliani, surinamesi, haitiani, ecc.
La Guyana possiede una specificità unica rispetto agli altri territori francesi: la terra appartiene quasi interamente al demanio statale. Le parcelle forestali demaniali vengono cedute in enfiteusi per 30 anni, o attribuite dallo Stato per una superficie di 5 ettari a un agricoltore che ne fa richiesta; il successivo trasferimento di proprietà è condizionato all’effettivo utilizzo agricolo del terreno. Ma la superficie coltivata è rimasta stabile: gli agricoltori sono scoraggiati, malgrado gli aiuti, dai costosi lavori preliminari di deforestazione e di sistemazione e dal ritardo nella produzione di profitti, che può superare i cinque anni.
Ma la Guyana è oggi soprattutto il paese del Centro Spaziale Francese ed Europeo, uno delle principali imprese mondiali per la messa in orbita di satelliti commerciali. La località fu scelta, negli anni ’60, in considerazione della posizione geografica prossima all’equatore, che permette di profittare al massimo della velocità di rotazione della terra: circa il 15% in più rispetto a Capo Kennedy in Florida. Dal centro spaziale di Kourou partono vettori pesanti come Arianna, ma dal 2011 sono impiegati anche i missili leggeri italiani Vega. La sicurezza del centro spaziale è assicurata da reggimenti dell’esercito, della gendarmeria e della Legione Straniera. In genere si effettuano uno o due lanci al mese. Il centro spaziale è la principale attività economica della Guyana: nel 2015 vi lavoravano 1.700 dipendenti, con l’indotto 9.000, il 15% degli occupati in Guyana.
Tuttavia la Guyana, all’eccezione di Mayotte, resta la regione francese più povera. L’economia si regge grazie al sostegno pubblico. Un occupato su tre lavora nel pubblico impiego, il 31% della popolazione attiva, contro il 18,7% nella metropoli. La remunerazione dei pubblici dipendenti è del 40% più elevata che nella metropoli.
Le importazioni sono otto volte maggiori delle esportazioni, basate sulla pesca e soprattutto sull’attività spaziale. Ciò produce un deficit commerciale colossale: 1,2 miliardi di euro di importazioni contro 138 milioni di esportazioni nel 2015. I finanziamenti pubblici rappresentano il 90% del PIL, spesi in investimenti, spese assistenziali, salari dei dipendenti pubblici.
La popolazione guianese vive in condizioni di precarietà, anche per l’accesso all’acqua potabile e all’elettricità, senza parlare della disoccupazione. Il tasso di disoccupazione è del 20,7%, contro il 10% della metropoli. In un dipartimento in cui la metà degli abitanti hanno meno di 25 anni, la quota di chi vive col Reddito di Solidarietà è del 16%, mentre è del 13% a Seine-Saint-Denis, una delle periferie più povere della metropoli
Tuttavia la Guyana è molto più ricca rispetto ai paesi che la circondano, esercitando un forte attrattiva migratoria, soprattutto fra gli haitiani, i brasiliani e i surinamesi, accrescendo i problemi socioeconomici della regione.
La legge del 1905 sulla separazione della Chiesa dallo Stato non si applica ancora alla Guyana che resta sotto il regime dell’ordinanza reale di Carlo X del 27 agosto 1828: il clero cattolico, ed esso solo, è pagato dal Consiglio Generale!
Nel 2014 il PIL della Guyana è aumentato del 4%, ma con una popolazione che è cresciuta del 2,1%.
Oltre al settore spaziale la seconda attività è la pesca, industriale e artigianale, praticata nella vasta piattaforma continentale ricca di molte varietà di pesce: Caienna è il quarto porto della Francia per la pesca. Il legname è uno dei prodotti della Guyana, trattato da grandi società. Anche la produzione d’oro è considerevole. Ma tutte queste attività hanno scarso impatto sull’occupazione e le ricadute sulla popolazione autoctona sono minime.
Il “patto per l’avvenire” fra la Francia e la Guyana, che nel 2013 prevedeva stanziamenti per due miliardi, non è mai stato attuato del tutto. Ciò ha alimentato il risentimento della popolazione. Nel dicembre del 2015 una modifica istituzionale ha fatto di questo dipartimento, così come della Martinica, una Collettività Territoriale, dotata di una Assemblea unica, con la soppressione dei Consigli Regionale e Generale.
Il malcontento della popolazione intanto montava. La Guyana non è alla prima manifestazione di rivolta. Nel 1996 un movimento di studenti rivendicava un rettorato indipendente da quello della Martinica: scoppiarono dei tumulti ai quali seguì la repressione con l’arresto di militanti sindacali dell’UGT. Successivamente, nel 2008, si ebbe una nuova fiammata, che però ebbe scarsa eco nei media.
Nel 2008, dopo l’annuncio di un nuovo rincaro dei carburanti, si ebbe uno sciopero dei trasportatori. Nell’ottobre nacque un “Collettivo consumatori arrabbiati”, sostenuto del padronato e dai parlamentari locali, che aprì una trattativa con i poteri pubblici. L’inconcludenza di questa riaccese la miccia e il paese si bloccò per un mese. Trasportatori, pescatori, agricoltori, tassisti, personale ospedaliero, sindacati operai, associazioni di ogni tipo, consumatori, genitori di studenti, associazioni religiose e culturali, amministrazioni comunali sindaci compresi, giovani, di cui più della metà disoccupati, tutti protestavano contro il prezzo dei carburanti (il doppio di quelli della metropoli) e dei prodotti alimentari. Ma era un’imprenditrice, Joelle Prévost Madère, che era anche la presidente della Confederazione delle piccole e medie imprese, a prendere la testa del movimento. Di fronte alla determinazione dei guianesi, il prefetto cedette sul prezzo dei carburanti. L’amministrazione Sarkozy stabilì un aiuto alle famiglie bisognose e altri aiuti furono sbloccati.
Ma nel 2010 si tenne un referendum sull’autonomia della Guyana e della Martinica, e il NO vinse largamente con il 78,9% in Martinica e il 69,8% in Guyana.
Quelle concessioni non saranno mai attuate, generando l’attuale sfiducia rispetto ai poteri centrale e locale.
Il movimento del 2008 beneficiò del sostegno delle Antille, Guadalupa e Martinica, le quali sono per molti aspetti nelle stesse condizioni della Guyana. Anche lì si ebbero manifestazioni contro il carovita, condotte nella Guadalupa da un “Collettivo contro uno esorbitante sfruttamento” che raggruppava una cinquantina di organizzazioni sindacali, associative, politiche e culturali. Lo sciopero generale in Guadalupa incominciò il 20 gennaio del 2009 e in Martinica il 5 febbraio, paralizzando entrambe le isole per un mese e mezzo in tutti i settori privati e pubblici. Nel marzo del 2009 il governo, in un accordo definito “storico”, accrebbe i salari, con un aumento di 200 euro di quelli più bassi.
Ma la situazione sociale nel 2016 non è affatto migliorata e anche oggi lo Stato teme che il movimento si estenda alle Antille.
Il movimento di quest’anno
La Guyana ha conosciuto una fiammata di proteste contro l’immigrazione dai paesi limitrofi nel 2016. Ma il movimento attuale è innescato dall’ultima rettifica alla legge finanziaria che viene a privare la regione del finanziamento di milioni di euro. «Ci riprendete con una mano ciò che ci date con l’altra», hanno protestano i deputati locali a Parigi.
Il 21 marzo del 2017 lo sciopero dei lavoratori della società Endel Énergie, che opera nel campo della manutenzione nel settore gas, elettricità e nucleare, ha avuto come conseguenza il rinvio del lancio di un missile Arianne. Nello stesso tempo il lavoratori dell’EDF sono entrati in sciopero lamentando che la rete, obsoleta, costringe a continui interventi di riparazione: rivendicano nuove assunzioni per coprire dei vuoti in organico e investimenti in un territorio in cui i blackout sono frequenti e a migliaia di abitanti non arriva l’elettricità. Viene poi il turno dei trasportatori, dei portuali, degli impiegati della Collettività Territoriale, della prefettura e dell’aeroporto, degli agricoltori, che lamentano di non ricevere gli aiuti ai quali hanno diritto, e i padroni delle piccole e medie imprese.
Una parte del malcontento dei trasportatori e dei piccoli padroni è dovuta al fatto che temono di venire esclusi dagli appalti per il cantiere della futura Ariane-6. Sembra che la grossa società Eiffage, il terzo gruppo francese nel settore delle costruzioni, si sia appropriata dell’intero affare: così il porto è stato bloccato dai trasportatori per impedire lo sbarco dei camion provenienti dalla metropoli.
Agli scioperanti si sono uniti parecchi “Collettivi cittadini” che protestano contro la degradazione della situazione economica e sociale, ma anche contro la mancanza di sicurezza. Un aspetto questo che fa della Guyana il territorio più pericoloso di Francia: vi si conta in media un omicidio alla settimana.
La mobilitazione popolare si organizza attorno a una moltitudine di Collettivi che si sono costituiti da un capo all’altro del paese: di commercianti, di agricoltori, di trasportatori, di avvocati, contro l’insicurezza, per denunciare le insufficienze e il ritardo strutturale del settore sanitario, che reclamano un commissariato a Kourou, e altri ancora su base professionale, per città, villaggio o quartiere, degli studenti. Molti di questi Collettivi sono dei piccoli imprenditori locali, accanto a quelli dei poveri e della popolazione dei quartieri popolari; o pure degli amerindi, doppiamente lasciati ai margini. Anche i sindaci hanno formato un collettivo e hanno sfilato con la fascia tricolore e la bandiera guianese in testa, a lusingare il sentimento regionalista generale, come è nella temperie del momento.
Le organizzazioni padronali bloccano di tanto in tanto gli edifici amministrati e il porto commerciale al fine di rivendicare un piano massiccio di investimenti e il pagamento immediato delle sovvenzioni agricole europee, attese da due anni. La MEDEF guianese, l’organizzazione sindacale del padronato, li appoggia. Il movimento ricorda quello dei “berretti frigi” bretoni del 2013 in cui i piccoli imprenditori, appoggiati dai loro operai, avevano guidato la lotta contro le tasse.
Si deve notare che i parlamentari della regione questa volta sono stati tenuti da parte, certamente a causa della sfiducia nei confronti delle promesse mai mantenute dalla Repubblica, fra le quali quella del partito socialista, che aveva promesso un radioso avvenire con la “legge per l’uguaglianza con la metropoli per le popolazioni d’oltremare”, e per il quale i guianesi aveva votato in massa.
In quanto ai “500 Fratelli contro la delinquenza”, questo collettivo di un centinaio di uomini in nero col capo incappucciato che si vedono un po’ ovunque e durante le manifestazioni, essi sono stati creati nell’ottobre del 2016 per reagire alla mancanza di sicurezza, ai furti, agli assassinii. Negano di essere una milizia, anche se ne hanno tutte le caratteristiche e sono diretti da un poliziotto in aspettativa. All’inizio avevano preso di mira gli immigrati, oggi, con il coinvolgimento della popolazione immigrata nel movimento e nei picchetti, surinamesi, brasiliani e haitiani, i “500 Fratelli” hanno rinunciato alle rivendicazioni contro gli immigrati e ci sarebbero anche immigrati nei loro ranghi. Hanno anche intimato ai commercianti di chiudere i negozi in atto di solidarietà. Sono vicini alla polizia e godono della benevolenza della prefettura.
Ma i primi picchetti sono stati costituiti grazie all’iniziativa dei lavoratori in sciopero sostenuti dal principale sindacato del paese, l’Unione dei Lavoratori Guianesi (UTG). Vi facevano parte anche i lavoratori del centro medico-chirurgico di Kourou, minacciato di chiusura.
L’UGT è nata nel 1935 come affiliata della CGT. Nel 1967, successivamente all’ondata di tumulti e di manifestazioni operaie a Caienna represse dallo Stato nel 1964, essa si proclamò indipendente dalla centrale francese. Ma la CGT prevede che i suoi iscritti trasferiti in Guyana aderiscano all’UGT, e l’UGT che i suoi, residenti nella metropoli, passino alla CGT. La parola d’ordine dell’indipendenza nazionale era presente nello statuto del sindacato fino al 1981 (anno dell’arrivo del partito socialista al governo!).
I 37 sindacati riuniti nella UGT hanno votato alla quasi unanimità lo sciopero generale a partire da lunedì 27 marzo 2017, «per proteggere i lavoratori», ha precisato l’UGT. La CGT della metropoli, FSU e Solidaires hanno sostenuto il movimento di «sciopero illimitato» in Guyana, denunciando l’assenza di «autentiche politiche pubbliche» e hanno reclamato che il governo apra «veri negoziati» con gli scioperanti. La CGT della metropoli apporta «il proprio totale sostegno ai salariati guianesi» e fa appello al governo affinché risponda alla richiesta degli scioperanti e apra una vera trattativa.
Le manifestazioni e i blocchi hanno costretto a rimandare un lancio del razzo Ariane e a partire dal 4 aprile per diversi giorni le manifestazioni hanno occupato il Centro Spaziale di Kourou. Mentre i parlamentari guianesi sono stati a lungo assenti dalla mobilitazione, alcuni di loro hanno preso parte all’occupazione del Centro Spaziale. Il rettorato ha deciso la chiusura delle scuole a tempo indeterminato. La popolazione ha messo in atto blocchi stradali, principalmente nelle rotatorie, nelle città e nei villaggi. Martedì 28 marzo, questi blocchi sono stati parzialmente tolti per permettere lo svolgimento di grandi manifestazioni a Caienna e a Saint-Laurent-du-Maroni, manifestazioni particolarmente partecipate: con 15.000 manifestanti sono state le più grandi della storia della Guyana.
Sabato 1 aprile il Collettivo Pou Lagwiyann Dekolé (“Per la Guyana che decolla”), creato a fine marzo e che raggruppa l’insieme dei movimenti di protesta – dai collettivi contro la delinquenza e per il miglioramento dell’assistenza sanitaria, l’UGT, i trasportatori, le categorie professionali, gli agricoltori, gli insegnanti, gli avvocati, ecc, – prende la testa delle trattative con i due ministri venuti da Parigi, quelli dell’Oltremare e dell’Interno. Le rivendicazioni presentate sono ben 428, degli innumeri collettivi, dei sindacati operai e dei piccoli imprenditori, di tutte le professioni e attività e anche dei deputati locali, in breve di tutto il “popolo” guianese, di tutte le classi confuse fra loro. Il Collettivo Pou Lagwiyann Dekolé ha chiesto uno statuto particolare per la Guyana, un’autonomia di gestione che faccia capo alla Collettività Territoriale.
Dopo solo un’ora di discussione i rappresentanti del Collettivo hanno risposto con un netto rifiuto al piano d’emergenza presentato dai due ministri e avallato da Matignon, cioè da un governo in sospeso a causa delle prossime elezioni presidenziali. Delle 428 rivendicazioni del Collettivo soltanto 30 sarebbero state accolte: quelle riguardanti la sanità, la sicurezza, l’educazione, la giustizia, la popolazione amerinda, l’agricoltura, le imprese edili, l’ambiente. Il governo ha annunciato investimenti per un miliardo, mentre il collettivo ne reclamava tre. Si mantiene dunque la mobilitazione.
Ma il fronte dei collettivi incomincia essere attraversato da fratture interne. Il presidente della Confederazione industriali, sebbene membro del Collettivo Pou Lagwiyann Dekolé, il 6 aprile ha chiesto che vengano tolti i blocchi, prendendo atto dei “passi avanti significativi” ottenuti col governo e vorrebbe che nelle imprese il lavoro riprendesse.
Il ricordo alla repressione contro i lavoratori è evidentemente già all’ordine del giorno. Le rivendicazioni dei lavoratori guianesi vengono dunque affossate da quelle dei collettivi “cittadini” e dei piccoli imprenditori, sommersi dal corso ineluttabile del sistema capitalistico.
Noi marxisti sappiamo bene che la lotta dei piccoli imprenditori è senza speranza perché la marcia della concentrazione del capitale verso il monopolio è inesorabile. I lavoratori guianesi si debbono quindi preparare una loro autonomia organizzativa e di movimento necessaria per ritrovare il cammino della lotta di classe, ben distinta da quella dei loro datori di lavoro e nella solidarietà internazionale della classe.
Il problema del Pacifico e il fallimento della Conferenza di Londra
Nuova presentazione
Nel quadro del lavoro che il partito sta affrontando sulla questione dell’attuale confronto tra i maggiori Stati imperialisti, vogliamo ripubblicare un articolo del 1936 tratto da “Bilan”, “Bollettino teorico mensile della Frazione italiana della Sinistra comunista”, che affronta lo scontro tra gli imperialismi nell’area del Pacifico nel periodo che precede lo scoppio della Seconda Guerra mondiale.
L’importanza del Pacifico si pone storicamente solo nell’epoca dell’imperialismo ed in particolare con l’entrata in scena di Stati Uniti e Giappone. La Prima Guerra mondiale non aveva cambiato di molto gli equilibri tra le potenze nell’area: di rilevante solo che il Giappone aveva ottenuto per sé la precedente concessione tedesca in Cina e un mandato sulle colonie tedesche del Pacifico.
Oltre al Giappone e agli Stati Uniti a contendersi la supremazia su quelle acque c’era la Gran Bretagna. Il problema del Pacifico e, quindi, dell’Asia era una controversia a tre. Sarà la Seconda Guerra mondiale che decreterà la supremazia incontrastata degli Stati Uniti. Ma fra le due guerre i giochi non erano ancora fatti. In quei venti anni di pace si preparava il secondo macello mondiale.
Noi marxisti sappiamo che in regime capitalistico la guerra è inevitabile e consideriamo la pace imperialista come un periodo di preparazione della guerra successiva. Per questo motivo non ci illudiamo, come non ci siamo mai illusi, con i sogni piccolo-borghesi dei pacifisti sul disarmo e sulla capacità di perseguire con dei trattati la pace e il controllo degli armamenti: gli accordi di pace tra gli imperialisti non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra.
È su queste solide basi marxiste che la Frazione italiana della Sinistra comunista diede il suo giudizio su quelle che furono le conferenze per il disarmo navale: Washington 1922 e Londra 1930 e 1936.
* * *
Ancora nella seconda metà degli anni Trenta la Gran Bretagna è a capo del più vasto impero mondiale. Nei territori coloniali del Sud-Est asiatico ha milioni di sudditi e possiede ricche ed importanti basi e regioni: l’India, la Malesia, la Birmania, Hong Kong, Singapore...
Con il possesso della Malesia, oltre alle sue immense ricchezze naturali, la Gran Bretagna può controllare la base navale di Singapore, fulcro del sistema difensivo britannico in Estremo Oriente. I lavori di costruzione della base, iniziati nel 1923, si sono conclusi nel 1938.
Importante era anche il controllo della Birmania. L’amministrazione coloniale britannica vi esercitava un potere quasi illimitato su un territorio di 680.000 chilometri quadrati, con una popolazione di 17 milioni di abitanti. Oltre che per le sue risorse, la Birmania serviva alla Gran Bretagna per proteggere da un’invasione via terra il fianco orientale della grande colonia indiana. Il paese divideva 1.600 chilometri di confine con la Cina e altrettanti con l’India.
L’India con i suoi 384 milioni di abitanti concentrati su 4 milioni di chilometri quadrati era il più importante possedimento coloniale britannico, e le sue frontiere orientali saranno il luogo di uno dei conflitti più violenti della Seconda Guerra mondiale.
Per questo stato di cose la Gran Bretagna si troverà al centro dei combattimenti che scoppieranno nel Pacifico alla fine del 1941, ma, in ragione della maggiore vicinanza geografica al pericolo tedesco, la guerra in Asia non sarà mai una priorità per i britannici.
Gli Stati Uniti per motivi storici non avevano potuto partecipare alla prima fase della colonizzazione in Asia; erano intervenuti in modo abbastanza marginale nel processo di inserimento coatto dell’Asia orientale nei meccanismi del mercato mondiale, utilizzando soprattutto strumenti giuridici ed economici che estendevano a tutte le potenze i vantaggi ottenuti da chi per primo aveva portato l’attacco.
Impegnati dalla guerra di Secessione e dalle sue conseguenze economiche, non avevano potuto sfruttare appieno il successo iniziale del commodoro Perry, che nel 1853 aveva imposto al Giappone di aprire alcuni suoi porti al commercio statunitense.
Ma la colonizzazione della costa occidentale dell’America, alla metà del secolo XIX, li aveva fatti una potenza affacciata sul Pacifico.
Già Marx nel 1850 aveva previsto che lo sviluppo della costa occidentale americana avrebbe comportato uno spostamento dei traffici che avrebbero fatto del Pacifico il centro del mondo.
«In America è accaduto qualcosa di più importante della rivoluzione di febbraio (1848): la scoperta delle miniere d’oro in California. Sebbene siano passati appena diciotto mesi, già è possibile prevedere che tale avvenimento avrà effetti più sconvolgenti della scoperta stessa dell’America.
«Per trecentotrenta anni tutto il commercio diretto nel Pacifico era stato condotto, con commovente e sofferta pazienza, attorno al Capo di Buona Speranza o da Capo Horn. Tutti i progetti di praticare un’apertura nell’istmo di Panama erano falliti a causa delle rivalità e delle invidie meschine tra le Nazioni commercianti. Diciotto mesi dopo la scoperta delle miniere d’oro in California, gli yankee avevano già cominciato a costruire una ferrovia, una grande strada e un canale sul Golfo del Messico. E già esiste una linea regolare di battelli a vapore da New York a Chagres, e da Panama a San Francisco, mentre il commercio con il Pacifico si sta concentrando su Panama, rendendo obsoleta la rotta di capo Horn. Il vasto litorale della California, di 30 gradi di latitudine, uno dei più belli e più fertili del mondo, quasi disabitato, si sta per trasformare presto in un ricco Paese civilizzato, densamente popolato da uomini di tutte le razze, yankee e cinesi, negri, indios e mulatti, creoli e meticci, europei. L’oro californiano scorre abbondante per l’America e lungo la costa asiatica del Pacifico, e sta spingendo i riluttanti barbari al commercio mondiale e alla civilizzazione.
«Per la seconda volta il commercio mondiale cambia direzione. Quello che erano nell’antichità Cartagine, Tiro, Alessandria, nel Medio Evo Genova e Venezia, e attualmente Londra e Liverpool, cioè gli empori del commercio mondiale, saranno nel futuro New York e San Francisco, San Giovanni del Nicaragua, e Leon, Chagres e Panama. Il centro di gravità del mercato mondiale era l’Italia nel medioevo, l’Inghilterra nell’era moderna, e la parte meridionale dell’appendice Nord-Americana oggi.
«Grazie all’oro californiano e all’inesauribile energia degli yankee, i due lati del Pacifico saranno in breve tempo tanto popolati e tanto attivi nel commercio e nell’industria quanto la costa da Boston a New Orleans. L’Oceano Pacifico svolgerà nel futuro lo stesso ruolo che ha svolto l’Atlantico nella nostra era, e che era del Mediterraneo nell’antichità: una grande via marittima del commercio mondiale, e l’Atlantico sarà al livello di un mare interno, come oggi è il caso del Mediterraneo» (“Neue Rheinische Zeitung”, 2 febbraio 1850).
Nel 1867 gli Stati Uniti acquistarono dai russi l’Alaska, poi sottomisero al loro controllo le Hawaii completandone l’annessione nel 1898 e intervennero anche nella grande corsa per la spartizione della Cina nel 1899. Ma la vera svolta avvenne con la guerra contro la Spagna che gli Stati Uniti combatterono nel 1898 per assicurarsi il predominio nei Caraibi: un effetto della vittoria fu la conquista statunitense delle Filippine.
In Asia ora gli Stati Uniti controllavano le Hawaii, Guam e le Filippine.
Durante la Prima Guerra mondiale, e soprattutto dal 1916 in poi, gli Stati Uniti avevano notevolmente potenziato la loro flotta da guerra, e continuarono a farlo dopo. Inevitabilmente le altre due potenze, Gran Bretagna e Giappone, che si sentivano minacciate dal riarmo americano, iniziarono a loro volta una corsa agli armamenti, tanto che già pochi anni dopo la fine dell’ultima guerra sembrava imminente lo scoppio di un’altra. La Prima Guerra mondiale aveva dato conseguenze quasi esclusivamente in Europa, nell’area del Pacifico era rimasto quasi tutto immutato: una nuova spartizione era inevitabile.
Gli Stati Uniti, in quel tempo, temevano una possibile alleanza tra la Gran Bretagna e il Giappone, e ciò li spinse a proporre una tregua degli armamenti per qualche anno. Così si arrivò alla conferenza di Washington del 1922. Il suo vero significato era stato magnificamente colto dall’Internazionale Comunista, che non era caduta nel tradimento staliniano. Nel novembre del 1922 il Quarto Congresso del Comintern approvava le Tesi sulla questione orientale. Ne riportiamo alcuni passi dalla tesi VII, “I compiti del proletariato nei paesi del Pacifico”.
«L’esigenza di dare forma organizzata al fronte unico antimperialista è dettata dal continuato ed ininterrotto aggravarsi delle rivalità imperialistiche. Queste sono ormai giunte a un tale grado di intensità da rendere inevitabile una nuova guerra mondiale, che avrà il Pacifico come campo di battaglia, a meno che non venga preventivamente impedita dalla rivoluzione internazionale. La conferenza di Washington ha rappresentato un tentativo di scongiurare il pericolo incombente, ma in effetti essa non ha che approfondito ed aggravato le contraddizioni imperialistiche (...) La nuova guerra da cui il mondo è minacciato coinvolgerà non soltanto il Giappone, l’America e l’Inghilterra, ma anche altri Stati capitalistici (Francia, Olanda ecc.). Essa minaccia distruzioni persino maggiori di quelle della guerra del 1914-18».
Nel 1930 una nuova conferenza, a Londra, fu rivolta alla limitazione del riarmo navale. Il trattato navale di Londra fu un accordo tra Regno Unito, Giappone, Francia, Italia e Stati Uniti d’America, firmato il 22 aprile 1930, che regolava la guerra sottomarina e limitava la costruzione di armamenti navali.
Ma nel corso degli anni Trenta, mentre il Giappone iniziava una politica sempre più aggressiva in Asia, gli Stati Uniti e anche la Gran Bretagna, a causa della crisi del 1929 e di una distensione nelle loro relazioni reciproche, avevano rallentato il ritmo delle costruzioni navali. Ma nel 1934 il Giappone denunciava i trattati sulle limitazioni navali: la conferenza di Londra del 1936 non poté che rivelarsi un completo fallimento.
Lo scoppio di un conflitto in Asia ormai era inevitabile. Mentre Stati Uniti e Gran Bretagna avevano bisogno di tempo per prepararsi allo scontro, il Giappone aveva tutto l’interesse ad una guerra in tempi brevi. Poiché, come sottolineato nell’articolo, il tempo poteva solo favorire i suoi avversari, fu il Giappone ad iniziare una nuova spartizione delle regioni asiatiche.
Alla fine del 1929 arrivarono in Giappone le conseguenze della grande crisi, aggravate dai dazi del 23% imposti dagli Stati Uniti nel 1930 sulle merci giapponesi. In Giappone furono travolti i settori più deboli e in primo luogo l’agricoltura. La disperazione dei contadini, dovuta al crollo del prezzo del riso e già afflitti dalle pesanti condizioni di affittanza e dalla mancanza di terra, aumentava in quanto sulle campagne ricadevano le conseguenze della chiusura delle fabbriche col ritorno ai campi dei lavoratori licenziati.
Anche il settore industriale subiva pesanti perdite. Crollavano i prezzi delle merci, le esportazioni si dimezzavano e si susseguivano i fallimenti. I disoccupati salirono a circa 3 milioni.
Per far riprendere l’economia fu molto aumentata la spesa pubblica. Gli interventi di stimolo all’economia consentirono al Giappone di uscire dalla crisi prima degli altri paesi capitalistici e segnarono una tappa decisiva nella trasformazione del Giappone, che solo negli anni Trenta acquisì le strutture di un paese moderno: la produzione industriale, fatto 100 il 1930, era a 205 nel 1936, ma aveva mutato caratteristiche perché il tessile (al 50% nel 1929, al 35% nel 1937) aveva ceduto il posto all’industria pesante.
Il fattore trainante di questa ripresa economica furono le spese militari. Queste avevano sempre gravato sul bilancio statale giapponese: erano state ridotte dal 40% del 1922 al 30% del 1925; dopo la crisi ripartirono in fretta, dal 37,6% nel 1932 al 39,2% nel 1933, al 44,2% del 1934, al 46,8% del 1935, e continuarono a salire negli anni seguenti. Il riarmo divenne il principale obiettivo dello Stato.
Inoltre il Giappone aveva anche un problema demografico da risolvere: a metà degli anni Trenta contava circa 70 milioni di abitanti e tra il 1935 e il 1940 venne registrato un elevato tasso di aumento della popolazione, pari al 5,6% annuo. Una politica estera sempre più aggressiva, oltre ad essere l’unica via d’uscita dalla crisi economica, serviva ad attenuare le tensioni sociali effetto della crisi, aggravate dalla crescita demografica.
All’inizio degli anni Trenta il Giappone, toccato duramente dalla grande crisi a causa dei legami con l’industria americana, spostava progressivamente la sua attenzione verso i mercati asiatici, considerati come propria sfera d’influenza.
L’espansionismo giapponese affonda le sue radici nel periodo Meiji: 1879 annessione del regno delle isole Ryukyu; 1895 trattato di pace di Shimonoseki, che riconosce l’occupazione di Taiwan sottratta all’agonizzante impero cinese.
Con la vittoria del 1905 sulla Russia zarista il Giappone acquisisce un indiscutibile prestigio e ruolo in tutta l’Asia. E con la fine della Prima Guerra mondiale conquista una posizione ancora più forte, che gli dava diritto a un posto di pari importanza a quello delle maggiori potenze mondiali.
Ben presto tale ruolo si mutò in una politica annessionistica che iniziò dalle pretese avanzate sulla Manciuria e dal dislocamento di truppe nell’area a partire dal 1919. Dal 1910 il Giappone aveva assorbito la Corea facendone praticamente una colonia e avviando una decisa politica di assimilazione. Nel settembre del 1931 il Giappone si impossessò della Manciuria. Indifferente alle risoluzioni della Società delle Nazioni, che chiedevano l’immediata evacuazione della regione, il Giappone decideva nel marzo del 1933 di uscire dall’organismo internazionale.
Col 1931 iniziava lo smembramento della Cina: l’aggressione giapponese si abbatteva sulla Manciuria, sulle quattro province cinesi del nord-est e su Shanghai. Nel febbraio del 1932 la campagna militare giapponese si concludeva, e da essa nasceva lo stato fantoccio del Manchukuo. Cinque anni dopo, nel luglio del 1937 il Giappone cercò di estendere il suo dominio all’intera Cina: nell’arco di due mesi, da luglio a settembre, le truppe giapponesi sul territorio cinese passarono da 10 mila a 200 mila uomini. Nella tragica occupazione di Nanchino il militarismo giapponese massacrò circa 250 mila abitanti, un primo esempio dei massacri che negli anni successivi, durante la Seconda Guerra mondiale, coinvolsero milioni di civili su tutti i fronti. Con l’invasione della Cina il Giappone diede inizio alla guerra in Asia Orientale, che in pochi anni si allargherà in guerra del Pacifico.
Se al momento della conferenza di Londra del 1936 il Giappone era avanti nel riarmo, e ciò gli permetterà di espandersi abbastanza velocemente nelle regioni asiatiche, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ben presto lo seguiranno. Nell’articolo viene individuato nel 1942 l’anno in cui Stati Uniti e Gran Bretagna saranno in grado di realizzare in pieno il proprio riarmo. Se fino al 1942 i giapponesi avranno una supremazia netta nelle acque del Pacifico, conquistando le Filippine, l’Indocina, la Birmania, la Malesia, l’Indonesia, Singapore, dalla metà di quell’anno inizierà la controffensiva degli Alleati, soprattutto degli Stati Uniti. Il primo successo degli Alleati si verificò con le battaglie navali del Mar dei Coralli (maggio 1942) e delle Midway (giugno 1942), cui seguirono numerose altre vittorie sulle forze terrestri e navali giapponesi, che porteranno nel 1945 alla completa disfatta del Giappone sancita dal bombardamento atomico su Hiroshima e su Nagasaki da parte degli Stati Uniti.
* * *
Nel 1936, al tempo della conferenza di Londra, per i nostri compagni era chiaro che il problema del Pacifico, e quindi dell’Asia, poteva essere risolto solo mediante un conflitto che avrebbe coinvolto le maggiori potenze imperialistiche presenti nell’area: Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone.
Il riarmo, in particolare quello navale, delle potenze imperialiste di cui si parla nell’articolo, doveva servire «per prepararsi meglio alla seconda deflagrazione mondiale», perché solo una guerra poteva risolvere il problema di una nuova spartizione delle colonie e dei mercati.
Questo ci porta a delle considerazioni sulla situazione attuale nell’area del Pacifico. Nelle acque del Pacifico si svolge ormai gran parte del commercio mondiale, e controllare quelle rotte diviene un importante fattore strategico. Per gli stretti di Malacca e della Sonda transita il 40% del commercio mondiale. Il controllo degli arcipelaghi o delle isole poste lungo queste rotte è il principale obiettivo. Ciò sta facendo salire la tensione tra gli Stati che si affacciano su quelle acque, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale.
Scrivevamo nel 1936: «Ogni guerra, navale o terrestre, è una questione di posizioni, soprattutto quando si tratta di un enorme teatro come quello del Pacifico».
Oggi questa guerra di posizionamento è ritornata e sta facendo scricchiolare gli equilibri nelle acque dei mari cinesi. Nei numeri precedenti del giornale abbiamo parlato di questa guerra di posizionamento (Isole Paracel, Scarborough, Isole Spratly, Senkaku), in un confronto faccia a faccia tra briganti vecchi, USA e Giappone, e nuovi, la Cina.
La Rotta Imperiale britannica, di cui si parla nell’articolo, mostra una certa affinità con il Filo di Perle cinese: istallare basi militari nei punti critici per proteggere le rotte commerciali e per interesse strategico. E come in quel periodo anche oggi gli Stati Uniti e la Cina stanno rinforzando e creando nuove basi militari nel Pacifico. E il riarmo descritto nell’articolo è anche oggi all’ordine del giorno: abbiamo riportato i dati sul riarmo nell’area del Pacifico, dove protagonisti sono, non solo i maggiori briganti imperialisti, USA e Cina prima di tutto, e il Giappone, ma anche gli altri Stati della regione, dal Vietnam all’Australia.
La situazione ha delle caratteristiche sicuramente diverse rispetto a quella degli anni Trenta, ma il problema di fondo del capitalismo rimane invariato: il riarmo anticipa una nuova guerra, che è l’unica via d’uscita dalla sua crisi. Questo riarmo annuncia una nuova spartizione mondiale e il Pacifico sarà il principale teatro del prossimo scontro tra gli imperialismi.
Ma in quest’area, oggi, c’è un gigante che può fermare la prossima carneficina: nelle metropoli dell’Asia una forza proletaria sterminata e compatta, unita al proletariato internazionale, potrà rigettare ogni appello alla difesa nazionale e alzare la bandiera del disfattismo rivoluzionario e della rivoluzione proletaria mondiale.
Bilan,
n. 27, gennaio‑febbraio 1936
(Le
problème du Pacifique et la faillite de la Conférence de Londres)
Nei secoli passati l’Oceano Pacifico fu teatro delle guerre di pirati, la “guerra di Corsa” degli Olandesi e soprattutto degli Inglesi contro l’Impero coloniale della Spagna. Nessun paese si sognava in quell’epoca di occupare effettivamente quelle isole che furono scoperte quasi tutte nella seconda metà del XVIII secolo.
Anche nel continente australiano le prime installazioni inglesi furono delle colonie penitenziarie, come fece più tardi la Francia nella Nuova Caledonia. Quando nel XIX secolo si passò all’occupazione definitiva delle isole del Pacifico, furono solo le potenze europee, Inghilterra in testa, ad approfittarne.
Il problema del Pacifico non si pose nella sua interezza che con l’entrata in scena di due grandi potenze rivierasche del Pacifico, gli Stati Uniti e il Giappone. I primi con l’annessione dichiarata unilateralmente delle isole Hawaii nel 1898, con l’occupazione delle isole Filippine e dell’isola di Guam, nell’arcipelago delle Marianne, dopo la sua vittoria sulla Spagna nel 1898. Il secondo che aveva occupato solo Bonin nel 1876 e Vulcan nel 1891 (piccolo isolotto nel Pacifico settentrionale) dopo la sua vittoria contro la Cina, nel 1894-95 e contro la Russia nel 1904-1905 che gli portò Formosa con le Pescadores, la metà meridionale di Sakhalin e l’occupazione effettiva della Corea. L’apertura del Canale di Panama nel 1914 rappresentò soprattutto la possibilità per gli Stati Uniti di allargare le loro pretese nel Pacifico.
La guerra mondiale non fece che accentuare in Estremo Oriente i vantaggi acquisiti da questi due paesi extra europei, soprattutto quelli del Giappone che ottenne in proprio la concessione tedesca in Cina e un mandato sulle altre colonie tedesche nel Pacifico: le isole Caroline, le Marshall e le Marianne, arrivando così ad insinuarsi tra i possessi nord americani delle Hawaii e delle Filippine.
A causa di questi avvenimenti si acuirono i contrasti, fino ad allora latenti, tra queste due potenze. I primi segnali di questo scontro si erano già manifestati negli anni precedenti la guerra mondiale con l’ostilità degli Stati Uniti per l’immigrazione giapponese alle Hawaii e in California e con il principio della politica della “Porta aperta” affermata nel 1899 dal segretario di Stato americano John Hay al fine di impedire ogni pretesa di monopolio del Giappone sulla Cina.
L’Inghilterra appoggiava il Giappone perché nella contesa anglo-americana per la supremazia dei mari, essa trovava nel Giappone un alleato contro le minacce americane e anche contro quelle della Russia sovietica che, con la sua politica verso la Persia e l’Afghanistan, sembrava minacciare la potenza di Londra nelle Indie. Ma la rivalità anglo-americana restò l’antagonismo più acuto nell’immediato dopoguerra.
Durante la guerra questo conflitto aveva preso la forma di un contrasto tra gli Stati Uniti, che sostenevano la libertà di commercio dei paesi neutrali con i belligeranti, e l’Inghilterra che vi si opponeva. Nel 1916 il Congresso americano si era pronunciato per “una flotta superiore a tutte le altre” e aveva adottato un programma navale che prevedeva la costruzione di 156 unità di tutti i tipi compresi i “dreadnoughts” di un tonnellaggio e di un armamento superiore a quelli delle altre flotte. Per questo programma era stata stanziata una somma pari a 100 milioni di dollari.
L’entrata in guerra degli Stati Uniti, nel 1917, a fianco dell’Intesa fece aggiornare questo programma, ma già nel 1919 nello stesso tempo in cui rifiutavano di ratificare il Trattato di Versailles e di partecipare alla Società delle Nazioni, gli Stati Uniti decisero di proseguire la realizzazione del programma del 1916 aumentando di 52 unità il numero delle navi previste.
Tutto questo si spiega col fatto che gli USA dovevano mantenere la loro supremazia acquisita durante la guerra mondiale, non soltanto per lo sviluppo del loro apparato economico ma soprattutto per la formazione di una potente flotta capace di tener testa agli altri imperialismi.
Nella fase imperialista, ogni volta che una potenza aumenta i suoi armamenti, automaticamente i capitalismi che si sentono minacciati rispondono allo stesso modo; è quello che fecero l’Inghilterra e il Giappone. L’Inghilterra si sentì direttamente minacciata nella sua tradizionale supremazia navale. Il Giappone comprese che la nuova flotta risolveva il più importante dei problemi per l’imperialismo americano, cioè il controllo del Pacifico. Di conseguenza, per non parlare che delle unità più potenti, mentre l’Inghilterra metteva in cantiere 12 navi di cui 4 gigantesche, di più di 50.000 tonnellate, il Giappone da parte sua decideva la costruzione di 8 grosse navi, di un tonnellaggio uguale e anche superiore a quello degli americani. Per conseguenza, nel corso dell’estate del 1921, si assistette ad una vera corsa agli armamenti in confronto alla quale la corsa simile tra l’Inghilterra e la Germania prima della guerra, non era stata che un gioco da ragazzi.
E la situazione continuò ad aggravarsi a tal punto che due anni dopo la fine dell’“ultima guerra” nuove minacce di un altro conflitto mondiale già si profilavano.
Ogni guerra, navale o terrestre, è una questione di posizioni, soprattutto quando si tratta di un enorme teatro come quello del Pacifico. Le navi devono poter essere rifornite e riparate; d’altra parte ogni potenza deve essere sicura delle sue basi di operazioni e della libertà delle sue comunicazioni. Per garantirsi da possibili interruzioni alle sue linee di comunicazione verso l’Oriente, la Gran Bretagna dispone della “Rotta Imperiale” che si appoggia su Gibilterra, Malta, Porto Said, Aden, Ceylon e Singapore.
Gli Stati Uniti, già prima della Conferenza di Washington, avevano rinforzato le loro basi delle isole Hawaii e Samoa e ne avevano create delle nuove all’isola di Guam e alle Filippine. Ma furono soprattutto i tentativi che essi fecero nei confronti della Cina per l’ottenimento di una base continentale sulle coste del Fu-Kien che dovevano allarmare il Giappone, che avrebbe risposto trasformando le isole “sotto mandato” in basi militari.
Tuttavia, benché le spese navali americane siano triplicate dopo la fine della guerra, e che in poco tempo essi abbiano speso più della Germania per la sua flotta nel corso dei 25 anni che avevano preceduto la guerra mondiale, gli Stati Uniti non erano ancora certi di aver sorpassato nella corsa agli armamenti l’Inghilterra e il Giappone. Al contrario sussisteva il rischio di vedere queste due flotte unite contro di loro, a dispetto delle riserve in loro favore previste nel Trattato di alleanza Anglo-Giapponese.
A tutto questo bisogna aggiungere il problema del Canale di Panama di cui parleremo in seguito.
Tutte queste ragioni convinsero gli Stati Uniti a proporre una tregua degli armamenti per qualche anno. Fu, dunque, la Conferenza di Washington che doveva permettere alle potenze navali di prepararsi al meglio per il prossimo conflitto.
Si cominciò con la limitazione degli armamenti navali perché la guerra navale era considerata come decisiva per il prossimo conflitto e perché si trattava del problema più complesso. La Gran Bretagna, La Francia e l’Italia, cioè i “paesi vittoriosi” erano spossati mentre l’intera Europa usciva vinta dal conflitto rispetto all’America.
La Gran Bretagna doveva, d’altra parte, tener conto dell’opinione dei Dominions che avevano partecipato alla grande guerra, come l’Australia che temeva l’organizzazione militare del Giappone e il Canada, orientato verso gli Stati Uniti e che si oppose ad un’alleanza che avrebbe potuto trascinare l’Inghilterra in un conflitto a fianco del Giappone contro gli Stati Uniti.
Da parte sua la Francia, con i suoi possedimenti in Oceania, particolarmente l’Indo-Cina, aveva ogni interesse a vedere regolare la situazione del Pacifico.
E in tutti i Paesi, durante questa battaglia imperialista, il proletariato stava dalla parte dell’Unione Sovietica che nel 1922 non era ancora diventata il più solido appoggio alle manovre inter-imperialiste.
Per arrivare ad un accordo per la limitazione degli armamenti navali gli Stati Uniti convocarono una conferenza delle cinque principali potenze marittime dell’epoca (Impero britannico, Stati Uniti, Giappone, Francia e Italia), Questa conferenza arrivò all’Accordo di Washington del 1922 che fissò una prima riduzione dei vascelli di linea e determinò i coefficienti 5; 5; 3; 1,7; 1,7 rispettivamente per il tonnellaggio globale delle flotte britannica, americana, giapponese, francese e italiana. Benché non limitata ai problemi del Pacifico, questa conferenza ebbe per questi imperialismi un significato decisivo a causa dell’abolizione dell’alleanza anglo-giapponese che era stata fino ad allora il fattore determinante in quei mari, attraverso la fissazione del rapporto 5, 5, e 3 per le flotte rivali degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e del Giappone.
Infine l’accordo del 1922 ebbe una certa importanza per la smobilitazione della superficie marina compresa tra le basi marittime delle isole Hawaii (Stati Uniti), Singapore (Inghilterra) e le coste del Giappone.
Inoltre il solo obbligo politico contrattato durante la Conferenza fu il trattato delle quattro potenze direttamente interessate (Impero britannico, Stati Uniti, Giappone e Francia) che si impegnarono a rispettare lo statu quo nelle loro colonie e possedimenti sotto mandato nel Pacifico: complemento del Trattato detto delle nove potenze che avrebbe dovuto garantire l’integrità della Cina sulla base della “Porta aperta” praticata dalle potenze firmatarie.
Gli accordi di Washington portarono all’attenuazione della rivalità anglo-americana per la supremazia navale con il raggiungimento di un compromesso nel quale ciascuno dei briganti imperialisti vedeva un suo personale vantaggio: gli Stati Uniti dalla fine dell’alleanza anglo-giapponese considerata pericolosa per loro, la Gran Bretagna dalla rinuncia, almeno momentanea, del programma americano di supremazia navale e il Giappone che, benché avesse ottenuto il rango di potenza di terzo ordine nella marina mondiale, si trovava favorito perché non aveva da salvaguardare che un solo fronte, quello del Pacifico mentre gli Stati Uniti dovevano proteggere due fronti oceanici e la Gran Bretagna doveva vegliare sulla sicurezza delle sue immense linee di comunicazione in tutti i mari.
Il Trattato di Washington era valido fino al 31 dicembre 1936 e rinnovabile per tacito consenso. La facoltà di denunciarlo era lasciata a ciascuna delle parti, dando un preavviso di due anni. Più tardi, nel 1930, si tenne una nuova conferenza navale a Londra, dove la Gran Bretagna e gli Stati Uniti perfezionarono il loro accordo sulla parità navale con la fissazione del tonnellaggio delle categorie inferiori che non erano rientrate nell’Accordo di Washington. Anche questo accordo supplementare veniva a scadere il 31 dicembre 1936. Ma, se con questi accordi si determinò una distensione nella rivalità anglo-americana, le rivalità nel Pacifico crescevano di continuo con l’offensiva giapponese che portò all’uscita del Giappone dalla Società delle Nazioni e con la denuncia, che ebbe luogo nel dicembre 1934, del Trattato di Washington.
La distensione raggiunta tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti e la crisi economica avevano rallentato il ritmo delle costruzioni navali consentite a queste due potenze dagli accordi suddetti. Il Giappone, invece, aveva fatto pieno uso del suo diritto a rimpiazzare i suoi vecchi navigli in modo che il rapporto di 65% che avrebbe dovuto sussistere tra il tonnellaggio della sua flotta da guerra con quella delle due potenze rivali, si trovava ad essere invalidato se si contavano i navigli realmente efficienti, ciò che era d’altronde essenziale. Una flotta sempre più potente era d’altronde indispensabile al Giappone per appoggiare la sua politica sempre più aggressiva in Estremo Oriente (presentata come la sola via d’uscita dalla crisi economica e dalla crescita demografica) traducendosi nella sua aggressione alla Manciuria, alla Cina del Nord, alla Mongolia, seguendo le direttive del famoso programma di Tanaka.
Poiché il tempo può solo favorire i suoi avversari (la Russia, la Cina attualmente impotente, gli Stati Uniti), il Giappone che ha una situazione interna delle più instabili, in crisi a causa di una esasperata industrializzazione, minacciato dalla catastrofe finanziaria, sempre di più intravede la sola via d’uscita in una guerra in tempi brevi.
Gli altri Paesi hanno, al contrario, ogni interesse a guadagnare tempo per prepararsi meglio alla seconda deflagrazione mondiale. È questo che spiega la Conferenza di Londra che si tiene attualmente e che ha già ricevuto un primo colpo con l’abbandono della conferenza da parte del Giappone.
È chiaro che, specialmente dopo lo scacco della Conferenza sul disarmo di Ginevra e della Conferenza navale a tre dell’anno passato a Londra, gli Stati Uniti, l’Inghilterra e il Giappone, dopo la sua richiesta di tonnellaggio globale uguale alle altre due potenze, hanno riattivato il ritmo della loro preparazione navale.
La risposta immediata degli Stati Uniti alla richiesta di parità navale avanzata dal Giappone, visto anche che quest’ultimo si era rifiutato, dopo la sua uscita dalla Società delle Nazioni, di restituire le colonie che erano state trasformate in basi per sottomarini, fu la “dimostrazione” del passaggio di quasi tutta la flotta americana dall’Atlantico al Pacifico: 180 navi da guerra l’hanno effettuata senza incidenti in 40 ore. Ma il Canale di Panama è esposto agli attacchi aerei e per di più è impraticabile per i colossi del mare di 10.000 tonnellate e più. Da qui la necessità di una seconda grande via di comunicazione tra il Pacifico e l’Atlantico rappresentata dal progetto del Canale del Nicaragua.
Sono cento anni che il Senato americano ha approvato la eventuale costruzione di questo canale e sono passati venti anni da quando un trattato col Nicaragua ha assicurato agli Stati Uniti il diritto perpetuo ed esclusivo alla costruzione di questo canale.
Allo stato attuale il Canale di Panama permette un transito annuale nelle due direzioni di navigli di un tonnellaggio globale di 70 milioni, l’80% della sua capacità massima, e i lavori di miglioramento progettati per 150 milioni di dollari permetterebbero di aumentare questa capacità di altri 50 milioni all’anno. Ma a causa delle necessità militari si finirà per spendere un miliardo di dollari per il nuovo canale di una capacità massima di 80 milioni di tonnellate per anno.
Ciononostante altre ragioni determinarono gli Stati Uniti e l’Inghilterra a cercare una nuova tregua di qualche anno e questo perché le loro flotte sono lontane dall’aver raggiunto i limiti massimi consentiti dai trattati. La costruzione di grandi unità richiede dai 3 ai 4 anni. Le unità inferiori richiedono da 2 a 3 anni. Così il programma di incremento navale americano, cominciato con l’esercizio 1934-35, non sarà realizzato in pieno che nel 1942. Anche la Gran Bretagna ha adottato un programma di costruzioni navali diluito su 7 anni che porterà nel 1942 ad un aumento di 296 navi per un totale di un milione e mezzo di tonnellate.
Dunque nel momento in cui la denuncia del Giappone mette fine agli accordi di Washington, mentre gli accordi di Londra scadranno nel 1937, gli Stati Uniti come l’Inghilterra si troveranno con la flotta che non avrà ancora raggiunto l’efficienza che era consentita dai trattati. Naturalmente per far fronte a tutti gli avvenimenti, cioè alla possibilità del vicino scoppio di un nuovo conflitto mondiale, tutti i Paesi stanno procedendo alla costruzione intensiva della loro flotta aerea e gli Stati Uniti, seguendo le ultime decisioni, ne possiederanno una di 4.500 apparecchi.
Ogni imperialismo resta, evidentemente a parole, partigiano del “disarmo” ma, per ciascuno di essi, disarmo significa abolizione delle specialità che sono per esso particolarmente dannose e che l’avversario possiede.
Così il Giappone sostiene la limitazione della dimensione delle navi e l’abolizione delle portaerei, per garantirsi dalla minaccia americana; gli Stati Uniti vorrebbero limitare i sottomarini, pericolosi per una grande flotta che deve agire a grande distanza dalle sue basi, l’Inghilterra, che deve proteggere le sue immense linee di comunicazione, richiede piuttosto la necessità di numerosi navigli piccoli e medi che un numero limitato di grandi navi da battaglia, il contrario di ciò che richiedono gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia. Tutte le grandi potenze navali vorrebbero l’abolizione dei sottomarini che sono l’arma delle potenze più deboli. Ma senza dubbio la Conferenza di Londra riuscirà nuovamente a trovare un compromesso su alcuni punti secondari centrati su alcune limitazioni quantitative rapportate alle dimensioni delle navi e dei cannoni, il quantitativo del tonnellaggio globale restando invariato.
La situazione generale si è modificata molto in Europa rispetto a quella che esisteva nel 1922. L’URSS, attraverso la sua entrata nel gioco della competizione imperialista, sta approntando una forte flotta nel Mar Baltico, soprattutto di sottomarini, necessari per raggiungere il mare aperto, fuori dai mari d’Europa che sono chiusi. La Germania, tramite l’accordo anglo-tedesco, ha ottenuto il 35% del tonnellaggio della flotta inglese e presto possiederà una flotta comparabile a quella dell’Italia e inferiore soltanto di un terzo a quella della Francia. Nel Mare del Nord Finlandia, Svezia e Norvegia, nel Mediterraneo Spagna, Turchia, Grecia, Iugoslavia, stanno rinforzando le loro flotte da guerra. Tuttavia la situazione in Europa è meno acuta, anche nel Mediterraneo, di quella dell’Estremo Oriente, nonostante il contrasto anglo-italiano a seguito dell’impresa africana.
Il problema più minaccioso è oggi la controversia triangolare britannico-americana-giapponese cioè il problema del Pacifico, o meglio dell’Asia.
E questo conflitto si incastra nell’altro, più generale, per la nuova spartizione mondiale delle colonie e dei mercati perché non è solo il mercato cinese che è in gioco. Se l’America riesce ad assicurarsi una base di operazioni nel continente asiatico, e questo risultato non potrà ottenerlo che schiacciando il Giappone, essa potrà passare alla fase successiva del suo programma imperialista: scacciare dall’Asia il suo grande rivale, la Gran Bretagna.