Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 387 - gennaio-febbraio 2018
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Indice dei numeri
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Dove il proletariato si ribella: In Tunisia e in Sudan - In Iran - Nel Kurdistan iracheno
Il mercato dei migranti in Libia: Le migrazioni dall’Africa - I campi di concentramento
Lezioni capovolte dell’Ottobre nei reduci del ‘68
PAGINA 2 – Pienissima riunione generale a Genova - 29 settembre - 1 ottobre [RG129] - La questione militare, La Prima guerra mondiale, La campagna del Sinai e della Palestina, La rotta di Caporetto - La nostra attività sindacale - Il partito di Lenin, della Sinistra, del marxismo rivoluzionario di sempre
– Riunione regionale in Venezuela, 25-26 novembre 2017
Per il sindacato
di classe
– I sindacati di regime alla prova dello sciopero alla Amazon
Colombia: Insegnamenti dalla lunga lotta dei piloti alla Avianca
PAGINA 5 Le crisi aziendali e la richiesta delle nazionalizzazioni: Da riformismo a tradimento - La favola del neo-liberismo - Nazionalizzazioni e condizione operaia
PAGINA 6 La trappola della opposizione chavista
Rohingya piccolo popolo stretto fra gli egoismi borghesi di nazioni e di imperi: Nessuna soluzione nel capitalismo
PAGINA 7 – Dietro la sceneggiata del 19° Congresso del Partito Comunista (!) Cinese, La potenza, e le fragilità, di un grande imperialismo: Da Mao a Deng, Indipendenza nazionale e sviluppo del capitalismo - La riforma agraria - Xi Jinping e l’imperialismo cinese - La Nuova Via della Seta - Le recenti tensioni
PAGINA 8 Dopo i fatti di Charlottesville, Lettera dagli USA: Facciamo i conti con l’antifascismo

 

 

 
 


Dove il proletariato si ribella

La crisi storica del modo di produzione capitalistico sfocia inevitabilmente in esplosioni di lotta di classe: proletari spinti da fattori materiali insopprimibili scendono coraggiosamente nelle piazze sfidando le forze della repressione degli Stati borghesi, potenti bastioni della conservazione sociale.

Nelle ultime settimane abbiamo avuto manifestazioni esemplari di una riscoperta inclinazione dei proletari alla lotta in alcuni paesi arabi e del Medio Oriente.


In Tunisia e in Sudan

Ultima è stata la Tunisia, dove masse di giovani proletari senza prospettive per il futuro, hanno preso parte in molte città a violente proteste, spinti dai salari troppo bassi, dal carovita, dalla disoccupazione, dalla miseria: “pane, acqua e niente Nidaa ed Ennahda”, gridavano. I manifestanti hanno preso di mira quei due partiti di governo, uno laico l’altro islamico, che hanno approvato una legge finanziaria, d’accordo col FMI, che impone forti aumenti dei prezzi, fino al 300%, di molti generi anche di prima necessità. Per il momento non sappiamo quale saranno gli sviluppi di questa ondata di protesta sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Intanto ha dovuto fare i conti con la dura repressione da parte del democratico Stato tunisino che non ha esitato ad affiancare l’esercito alla polizia per tentare di sciogliere le manifestazioni di piazza provocando un morto, centinaia di feriti e molte centinaia di arresti. Per ora il governo di Tunisi afferma di avere ristabilito l’ordine, ma non è da escludere che le proteste continuino e si estendano.

Anche in Sudan dalla seconda settimana di gennaio manifestazioni contro il carovita sono state represse col piombo e già si contano almeno tre morti. Il governo ha tolto i sussidi per alcuni generi di prima necessità facendo impennare i prezzi, fra cui quello del pane, triplicato dall’oggi al domani.


In Iran

Oltre alla Tunisia e al Sudan nelle scorse settimane la lotta delle masse lavoratrici ha trovato nell’Iran uno scenario forse ancora più dirompente per l’ordine sociale borghese. Per circa una settimana, fra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, in decine di città del paese le folle si sono scontrate con la polizia e con le milizie della Repubblica Islamica. Le manifestazioni, alle quali hanno preso parte decine di migliaia di proletari, per lo più giovanissimi, hanno dovuto affrontare una repressione feroce. Il governo dichiara 22 morti, centinaia di feriti e oltre 1.000 arresti, mentre fonti non ufficiali parlano di circa 50 morti e 3.700 arresti. La stessa stampa legale parla di 5 “suicidi” in carcere fra gli arrestati.

Il governo per sedare la rivolta ha fatto ricorso alle milizie sciite irachene e ai pasdaran dislocati in Iraq e in Siria, che reclutano i propri effettivi fra gli sciiti afghani, promettendo loro la cittadinanza iraniana.

L’esplosione di malcontento sociale in Iran si è presentata con caratteristiche inedite rispetto ad altri sommovimenti che in passato si sono opposti al regime oscurantista e teocratico della Repubblica Islamica. Per la prima volta in quasi 40 anni, da quando cioè nel 1979 un moto di massa, egemonizzato rapidamente da una direzione borghese, portò al rovesciamento del regime dello scià Reza Pahlavi, la lotta nelle piazze e nelle fabbriche (notizie frammentarie parlano anche di numerosi scioperi spontanei un po’ ovunque nel paese) vede protagonisti un gran numero i proletari che non ne possono più di subire sulla loro pelle le sofferenze provocate dal capitalismo e che la retorica patriottica e i sermoni dei preti non riescono a lenire.

A differenza di quanto è avvenuto nel 2009, quando le proteste contro i presunti brogli nelle elezioni presidenziali videro la mobilitazione delle mezze classi, dell’intelligenza e della cosiddetta “società civile”, in questo caso quei protagonisti di ieri sono rimasti a guardare. Anche la stampa borghese ha evidenziato senza alcuna vergogna la sufficienza e talora anche lo sdegno con i quali il cosiddetto ceto medio ha guardato alla piazza che rivendicava “pane, lavoro e libertà” e protestava contro gli aumenti repentini dei prezzi dei generi di prima necessità come il pollame, principale fonte di proteine per le masse proletarie iraniane, che ora costano il 40% in più.

In occidente la stampa borghese, una volta individuata la natura di classe della rivolta, ha fatto calare il sipario anche sulle selvagge repressioni, così come è passato in secondo piano che i manifestanti in molti casi abbiano individuato con estrema chiarezza gli obiettivi contro cui scagliarsi: hanno assaltato le sedi delle milizie islamiche dei pasdaran e dei basiji e hanno preso di mira le banche delle fondazioni islamiche. Queste, in persiano “bonyad”, controllano quote assai cospicue di molti rami dell’economia iraniana, a seconda delle varie stime dal 20 al 30% del Pil del paese.

Quando si guarda all’ideologia politica della Repubblica Islamica d’Iran non bisogna farsi trarre in inganno dal costante riferimento alla religione nell’ordinamento statuale teocratico, come se fosse il portato della forza inerziale di antiche tradizioni pre-borghesi. L’oscurantismo di Stato, che si manifesta fra l’altro con una pesante oppressione di genere (le adultere e gli omosessuali sono ancora passibili della pena di morte!) e nell’umiliazione delle donne, è una conseguenza della perpetuazione del dominio sociale borghese. Tale odiosa sovrastruttura è stata l’arma ideologica con la quale la borghesia iraniana ha tenuto a bada il proletariato durante il lungo processo che ha traghettato il paese nella piena maturità capitalistica.

Infatti non sono state ragioni ideologiche o religiose a determinare queste di proteste proletarie, bensì economiche. Nelle periferie delle città grandi e piccole sono state spinte all’azione masse di mostazafan, cioè diseredati, in pochi decenni cacciati dalle campagne in un impetuoso processo di inurbamento e trasformati in un gigantesco esercito industriale di riserva. In Iran il 73% della popolazione vive oggi nelle città!

L’Iran, oltre ad essere il quarto paese produttore di petrolio del mondo, ha sviluppato un robusto apparato industriale e ha visto aumentare considerevolmente la consistenza numerica della classe operaia. Oggi il 32,5% della forza lavoro iraniana è impiegata nell’industria. Si tratta di una quota ragguardevole se paragonata a quella delle potenze industriali d’Europa: in Germania e in Italia gli addetti all’industria sono rispettivamente il 30 e 26,6% della popolazione attiva.

Nei quasi quattro decenni di continuità dell’attuale regime l’Iran è diventato la più importante potenza politica del Medio Oriente, capace anche di una proiezione espansionistica e di un attivo interventismo militare. Gli sviluppi negli ultimi mesi della guerra in Iraq e in Siria hanno visto il prevalere del fronte di cui l’Iran è parte integrante. Importanti conquiste territoriali sul campo hanno aperto di quel “corridoio sciita” che permette lo spostamento delle truppe della Repubblica Islamica e delle milizie a essa affiliate lungo un asse che, attraverso Iraq e Siria, raggiunge il Mediterraneo e i confini con Israele nella regione del Golan. Tale continuità territoriale consente anche lo spostamento in direzione contraria delle milizie alleate libanesi degli Hezbollah, le quali hanno avuto un ruolo di primo piano nella guerra in Siria.

Anche nello Yemen gli sciiti houthi, alleati del regime di Teheran, hanno resistito negli ultimi mesi all’impegno militare dell’Arabia Saudita, irriducibile nemico dell’Iran, e ai pesanti bombardamenti, ottenendo anche successi significativi, non ultimo l’eliminazione, avvenuta all’inizio dicembre, del presidente yemenita Ali Abd Allah Saleh, resosi colpevole di avere defezionato il fronte antisaudita.

Ma questi successi militari hanno avuto un costo pesante per il bilancio statale iraniano ed è fatale che, come avviene sempre sotto qualunque regime borghese, sia stato soprattutto il proletariato a farne le spese. I salari per molte categorie di lavoratori sono rimasti fermi da molti anni mentre l’inflazione galoppa a causa del venire meno del sostegno politico ai prezzi dei generi di prima necessità e dell’imposizione di nuove tasse e accise.

Questo spiega perché durante le manifestazioni siano stati scanditi slogan che, sotto l’apparenza di un orientamento nazionalistico, “né per Gaza, né per il Libano, la mia vita la sacrifico per l’Iran”, hanno manifestato insofferenza per l’impegno bellico del Paese. Nelle manifestazioni si gridava “non vogliamo la Repubblica Islamica” e “marg bar Rouhani” cioè “morte a Rouhani”, che della Repubblica è il presidente. Questo rifiuto dei proletari verso l’impegno militare all’estero è un segno di come, per una potenza borghese, i successi militari non sempre si traducano in un rafforzamento del cosiddetto “fronte interno” nei rapporti di forza fra le classi.

Ancora una volta la borghesia ha dimostrato che la bandiera della patria è sempre uno straccio per ingannare i proletari, mentre questi ultimi devono essere sempre più consapevoli di non avere una patria.


Nel Kurdistan iracheno

A maggior ragione forti perturbazioni della pace sociale si possono verificare quando un paese in guerra debba fare i conti con un andamento sfavorevole delle operazioni militari, o anche quando le ambizioni di conquista territoriale, a lungo alimentate dalla propaganda borghese, vanno incontro a cocenti frustrazioni. Questo infatti è quanto è successo nel mese di dicembre nel Kurdistan iracheno. Questo, dopo il referendum sull’indipendenza del settembre scorso, ha subito pesanti mutilazioni territoriali nel violento braccio di ferro con il governo di Baghdad, il quale ha ripreso il controllo della regione di Kirkuk, ricca di giacimenti petroliferi. Anche in quel caso migliaia di lavoratori, indignati dalla disoccupazione e dal taglio degli stipendi dei dipendenti dell’amministrazione pubblica, hanno assalito e incendiato edifici statali e le sedi dei due principali partiti curdi.

* * *

Questi segnali della ripresa della lotta di classe in Iran, in Sudan, in Tunisia e in Kurdistan vanno salutati con entusiasmo. Ma, mentre il proletariato internazionale, per ragioni storiche oggettive, non è ancora in grado di offrire il proprio sostegno alle coraggiose lotte dei proletari di questi paesi, la borghesia non risparmia alcun mezzo pur di piegare il suo mortale nemico.

La repressione e la momentanea sconfitta delle lotte proletarie certamente non spengono il fuoco della lotta di classe che, in Iran, in Tunisia, in Kurdistan come ovunque, cova sotto la cenere. Se, come afferma il marxismo, non può esistere un capitalismo senza crisi economiche e senza guerre, ne segue che questo modo di produzione è condannato a fare i conti con la serie interminabile delle eruzioni della lotta di classe determinate dall’intrecciarsi dei diversi piani, economico, politico e militare, del dilagante marasma sociale.








Il mercato dei migranti in Libia

Nella scorsa estate sono avvenuti importanti sviluppi nella questione libica, in particolare tra i governi italiano e francese, comitati d’affari dei rispettivi capitalismi, maggiormente interessati alla spartizione delle enormi risorse petrolifere del paese.

Riprendiamo la sintetica descrizione dei fatti dal nostro precedente articolo nel numero 382 di questo giornale.

L’intervento del capitalismo francese allora aveva due importanti obiettivi: il più urgente era impedire il progetto di Gheddafi di sostituire nelle ex colonie africane la moneta unica circolante, il Franco Cfa, legato e controllato dalla Banca di Francia, con una nuova moneta africana. Il secondo era spezzare il quasi monopolio della italiana Eni sugli idrocarburi libici, rafforzato dall’accordo economico tra Gheddafi e Berlusconi stilato nel 2008, mediante il quale il rais libico, già detentore del 7% delle azioni Eni, avrebbe potuto raggiungere quota 10%, fornendo così all’azienda italiana nuovi capitali freschi per intraprendere ulteriori investimenti in Libia e non solo.

Eliminare fisicamente Gheddafi fu nel 2011 infine ritenuto necessario poiché le formazioni degli oppositori e dei ribelli, sostenute da Parigi, non sarebbero mai state in grado di sconfiggere l’esercito libico. Quella politica della Francia è poi continuata. Altri attori sono stati Russia, Regno Unito, Egitto, Usa, e le petromonarchie arabe.

Sul territorio la situazione al momento si è stabilizzata su due poli: quello di Tripoli, riconosciuto dalle autorità internazionali, sotto l’effimera guida del capo islamico Fayez al-Serraj, considerato, non solo dalla sua opposizione interna ma anche da quella esterna, come una marionetta nella mani del governo italiano, e quello di Tobruk, di fatto dominato dalle consistenti milizie del generale Khalifa Haftar, su cui punta la politica della Francia per costituire un governo centrale unico sotto la sua influenza. Vi è anche la proposta francese, sostenuta dall’Onu, di unificare le varie milizie in un unico esercito, il quale sarebbe dominato dalla forte maggioranza delle truppe di Haftar.

L’Eni, secondo le ultime informazioni, detiene ancora il 48% della produzione petrolifera ed il 41% della produzione di gas naturale dai giacimenti nella Cirenaica e nel Fezzan. Ma la recente dichiarazione del governo di Tobruk di vietare l’operatività delle aziende italiane in Cirenaica, di ottenere nuovi contratti, di estendere quelli in essere e di costituire joint venture con aziende locali, mette in serio pericolo l’attività della multinazionale italiana. L’Eni è anche in difficoltà nel confinante Sudan dove detiene ancora dei giacimenti petroliferi, di difficile sfruttamento in quel territorio, controllato da tribù da sempre dedite al contrabbando e al traffico e mercato di schiavi, che si procurano catturando i migranti africani. Questi, attraversato il Sudan, cercano di raggiungere le coste libiche, nel tristemente famoso “tragitto della morte”, e di imbarcarsi sui gommoni per l’Italia.

Per di più il ministro Munir Assar del governo di Tobruk ha dichiarato all’agenzia di stampa libica Lana che la risoluzione numero 37 del 14 agosto «è stata presa a causa dell’aperta ostilità dell’Italia verso il popolo libico (...) I nostri amici che sono al nostro fianco durante questa crisi hanno più diritto a una partnership economica (…) La tecnologia non è monopolio degli italiani». Più chiaro di così!

Nel contrastare l’azione di Parigi, sostenuta da tutti i suoi soci, nella faccenda contro l’Eni, il governo italiano ha mostrato indecisioni, palesi errori di valutazione e decisioni affrettate, tutte nell’italico stile indipendentemente da chi occupa le poltrone romane. Col pretesto di voler bloccare l’immigrazione clandestina, annunciò una missione navale militare italiana, inizialmente richiesta da al-Serraj, in appoggio alla sua guardia costiera, missione che avrebbe sicuramente obbligato i francesi a rispondere adeguatamente. Haftar ha dichiarato di essere in grado di fermare il traffico dei migranti clandestini, ma ha velatamente chiesto all’Italia una decina di miliardi di euro per il servizio.

Al-Serraj, nel tentativo di proteggere la debole coesione del suo governo dagli attacchi del rivale Haftar, ma soprattutto per contrastare quanti lo accusavano di portare le navi militari italiane nelle acque territoriali davanti a Tripoli, ha ordinato alla Guardia costiera sotto il suo controllo di ostacolare gli scafisti, dopo anni di sporchi affari in comune. Questo per dimostrare che avrebbe il controllo del territorio ed efficienti forze fedeli.

Così il 5 agosto la Guardia costiera libica ha fermato due imbarcazioni che stavano uscendo dalle acque territoriali bloccando 826 disperati, riportati indietro e stipati in infernali “centri di accoglienza”, quasi ovunque gestiti dagli stessi trafficanti.

L’effetto sulla borghese “pubblica opinione” dell’Italia in vacanza fu notevole, facendola apparire una “soluzione” che “risolveva definitivamente il problema”. Ma i dati del Viminale parlano di 95.215 arrivi dal 1° gennaio al 2 agosto 2017, quasi gli stessi dei 97.892 dello stesso periodo del 2016. Ben presto le partenze si sono spostate altrove, principalmente dalla Tunisia, dove la Guardia costiera ha recentemente affondato un barcone di sventurati.

Dagli scafisti la lotta si è estesa alle varie Ong dedite al salvataggio dei migranti, alcune delle quali accusate di un qualche coordinamento con questi nel traffico.

Al-Serraj, le tribù beduine della Tripolitania e quelle del Sud sono costretti ad appoggiare la politica italiana per avere una qualche protezione dalla aggressiva politica francese: da sole verrebbero facilmente tolte di scena dalle truppe di Haftar. Questo è ben conscio che al-Serraj non è l’uomo del futuro della Libia, e si presenta, in particolare all’Italia, come il potenziale nuovo rappresentante di una Libia “laica” e unificata. Ma i suoi attuali alleati svolgono tutti una politica contraria agli interessi italiani. La crisi economica acuisce le contraddizioni tra Stati imperialisti e patti ed alleanze, anche pluridecennali, sono destinati ad essere rimessi in discussione.


Le migrazioni dall’Africa

Quella dei migranti non è un’emergenza contingente o legata alla questione libica ma un fenomeno provocato alla generale crisi mondiale del capitalismo. La borghesia italiana da anni ha fiutato l’affare delle decine di migliaia di migranti che, spinti dalla fame, dalle guerre, dalla mancanza di ogni prospettiva di vita, si spostano da varie regioni dell’Africa verso l’Europa. Lo scopo non è certo rendere sicura la civile migrazione di popoli in questa parte del pianeta, ma di farsi attribuire i fondi comunitari e tenere il mercato del lavoro italiano ben rifornito di mano d’opera a basso costo.

Ne uscirono gli accordi del 2014 fra il governo Renzi e l’Unione Europea. In un’intervista del 7 luglio scorso Emma Bonino, all’epoca dell’accordo ministro degli Esteri, riferiva: «Nel 2014-2016, quindi durante il governo Renzi (...) siamo stati noi a chiedere che gli sbarchi avvenissero tutti in Italia, anche violando Dublino (...) che il coordinatore fosse a Roma, alla Guardia Costiera, e che gli sbarchi avvenissero tutti quanti in Italia, lo abbiamo chiesto noi, l’accordo l’abbiamo fatto noi». In particolare si riferiva all’operazione europea Triton, partita nel 2014. Concepita non come operazione di salvataggio bensì di controllo delle frontiere, prevedeva per le navi dei paesi europei in azione nel Mediterraneo lo sbarco dei migranti nei porti italiani. Sarebbero state le navi delle Ong ad operare i soccorsi in mare, all’interno di quegli accordi.

Tutti finsero di non vedere che si trattava solo di un tentativo di razionalizzare questa moderna tratta di esseri umani.

In quella situazione l’Unione Europea propose all’Italia e a Malta di diventare porti franchi per i migranti, in cambio di sostegno finanziario e di un’equa ripartizione degli stranieri all’interno dell’Unione mediante un sistema di quote. Malta rifiutò, invece il governo di Renzi decise di rischiare. Di fatto il sistema si inceppò in breve tempo, per tre principali cause: la prima perché Bruxelles lesinò i finanziamenti; il sistema delle quote incontrò forti ostacoli all’interno dell’Unione, con la chiusura a tempi alterni delle frontiere nel 2016 di Francia ed Austria e di quelle dei paesi nell’area slavo-danubiana di recente adesione all’Unione. La terza perché la pressione dei diseredati che si mettono in viaggio è aumentata, e non certo per responsabilità delle organizzazioni “criminali” dei passatori, che solo rispondono a una domanda effettiva.

Quindi si sono riproposti i respingimenti, senza curarsi della sorte di quelle migliaia di disperati sottoposti ad ogni forma di violenze.


I campi di concentramento

La “soluzione” proposta dalla logica del capitalismo, sostenuta anche dalle varie organizzazioni dell’Onu, è, ovviamente, peggiore del male: costituire dei “centri di accoglienza” dei migranti in Libia, da cui prelevare alla bisogna la forza lavoro necessaria al capitalismo europeo, una sorta di “magazzini” di raccolta e stoccaggio di forza lavoro a bassissimo costo, appena fuori dai paesi europei. Diciamolo: campi di concentramento permanenti in cui si ripete la triste esperienza degli innumeri campi profughi che sorsero durante gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila in Africa a seguito delle molte crisi locali, fomentate dagli spietati interessi delle grandi Corporations internazionali, che hanno al loro soldo le fameliche classi dominanti locali.

Questi “campi di lunga permanenza” hanno provocato e provocano danni immensi: hanno distrutto intere generazioni, relegate nelle tendopoli da cui è di fatto impossibile uscire. Decine di migliaia di uomini e donne vengono ammassati in spazi ridottissimi, costretti all’inedia e alla fame, falcidiati dalle privazioni, dalle sevizie e dalle malattie, impediti ad ogni integrazione sociale con la popolazione autoctona. La sola prospettiva di sfuggire a questo tragico destino è quella di vendersi alle organizzazioni criminali che hanno facile arruolamento tra questi disperati.

Questi campi di concentramento non sono una novità. Solo tra Kenya, Tanzania e Uganda vi sono 4 milioni di profughi da guerre dimenticate nei vicini Burundi, Congo e Sud Sudan. Significativo il caso del campo profughi più grande al mondo, quello di Dadaab in Kenya, che ospita ben 350.000 disperati, sorto nel 1991 come soluzione temporanea per quanti con intere famiglie abbandonavano la Somalia a causa della guerra civile. Oggi è diventato una città con tende, casupole, scuole, stazioni di polizia. Qualcuno vive lì da vent’anni. Il 9 febbraio 2017 è stata bloccata dall’Alta Corte di giustizia del Kenya la decisione del governo di chiudere il campo, in cui affermava ci fossero basi di al Shabaab, sanguinario gruppo estremista somalo legato ad al Qaida. Spostare gli occupanti avrebbe comportato un costo eccessivo!

Questi ed altri numeri ci dicono che i proletari che dall’Africa cercano di raggiungere l’Europa sono solo una piccola parte dei senza riserve imprigionati all’interno del continente: altro che invasione!

La seconda “soluzione” al dramma dell’immigrazione prospettata dalle borghesie europee è quella, demagogica, di “aiutarli a casa loro”: investire nei paesi d’origine dei flussi migratori allo scopo di eliminare la causa che origina le ondate migratorie, la miseria del sottosviluppo. Questo programma di un “capitalismo dal volto umano” noi sappiamo che è impossibile: è proprio dall’intervento del capitalismo nel continente africano, col suo seguito di guerre per l’ accaparramento delle risorse naturali di cui è ricco, con la conseguente distruzione delle economie locali più arretrate, che è iniziato per i popoli dell’Africa il drammatico ingresso nell’inferno capitalistico dello sfruttamento, della fame, della guerra permanente. L’unico vero volto del capitalismo è infatti quello del profitto e del profitto ad ogni costo; crescita ed arricchimento per il capitale significano miseria per il proletariato. E se si avrà sviluppo del capitalismo nel continente africano, come sicuramente si avrà, questo non avverrà tramite la “collaborazione” tra i rapaci imperialismi mondiali, europei, statunitense, russo e cinese, ma dal loro scontro violento, sulla pelle del proletariato indigeno.

Solo la rivoluzione internazionale, proletaria e comunista, con la distruzione del potere dei borghesi e della forma economica proprietaria, eliminerà alla base le condizioni di ogni miseria, della guerra e delle migrazioni per necessità. Verranno abbattute le artificiali frontiere nazionali e tutti gli umani saranno nella possibilità di spostarsi liberamente nel pianeta, all’interno di un vasto piano per la più completa e sana realizzazione dell’intera specie umana.







Lezioni capovolte dell’Ottobre nei reduci del ‘68

I cento anni della Rivoluzione d’Ottobre sono stati celebrati, ciascun tipo di traditore a modo suo, per molti una possibilità di rilancio personale, o di far soldi, riempiendo pagine di giornali, pubblicando e ripubblicando libri, introvabili una volta finita la moda del sinistrismo anni Settanta.

Passata la paura, peraltro ingiustificata nell’ultimo mezzo secolo, di un ripetersi del grande sconvolgimento che per la prima volta mise nelle mani dalla classe operaia e del suo partito un intero, immenso paese, oggi la borghesia può guardare all’Ottobre con lo sguardo pacato di chi si sente al sicuro: tutti gli strumenti di controllo del proletariato funzionano alla perfezione, mezzi di comunicazione, polizia ed esercito, clero, intellettuali più o meno radicali e, soprattutto, partiti della sinistra borghese (tutti) e sindacati ufficiali.

Tra i tanti eventi nazionali ed internazionali brilla un Forum Internazionale tenutosi a Mosca il 5 novembre 2017, intitolato: “Ottobre, Rivoluzione, Futuro”. Non vale certo la pena di riferire dell’evento: sarebbe il resoconto di un funerale.

Ci sembra però interessante qualche perla dalla relazione di Luciana Castellina, uno degli ultimi superstiti di quel gruppo del Manifesto (mai nome fu più usurpato) che nel 1969 fu espulso dal PCI, sollevando ingiustificate speranze del risorgere di una sinistra rivoluzionaria, mentre si trattava soltanto di un tentativo borghese di raccogliere quanto a sinistra il PCI perdeva di militanti e di seguito tra gli operai, con un occhio a studenti e intellettuali. In un corposo documento, articolato in ben 200 Punti, si rimasticarono tutte le deviazioni dal marxismo, che i nostri maestri hanno da un secolo e mezzo battuto ferocemente in mille scritti. Il nostro partito rispose in “Duecento punti per rappezzare un cadavere” col disprezzo dei comunisti per questi politicanti che solo mescolavano banalità stantie a “novità” antimarxiste e velleitarie.

Non varrebbe la pena di parlarne se non fosse che hanno ancora la faccia tosta di definire il loro quotidiano “comunista”, un giornale nel quale si può leggere di tutto, meno che la difesa della sana dottrina marxista e rivoluzionaria. Un movimento nato “extraparlamentare” ma che si è ben presto coinvolto nell’agone elettorale finché, vista la scarsa presa sul mercato dei voti, è ripiegato sull’editoria “di sinistra”.

L’articolo, del 7 novembre, inizia con una domanda: «Quale il soggetto che può svolgere un ruolo rivoluzionario?». Credevamo fosse il proletariato, la classe operaia. Macché! Troppo ovvio: «La classe proletaria non esiste più nelle forme che conoscevamo; quella classe è stata sconfitta, è stata frantumata socialmente, economicamente, culturalmente»; e questo a causa del precariato, del diradarsi dei contratti collettivi, che rende i lavoratori individualisti.

Strano. Marx, Engels e Lenin hanno svolto le loro analisi teoriche, e dove possibile agito, in presenza di una classe operaia alle origini senza sindacati e senza partiti, alla mercé di borghesi e fondiari, con tutte le risorse dello Stato unite contro di loro. Per alcuni aspetti come oggi. È forse peggiore la situazione attuale rispetto a quella del proletariato inglese o francese di metà Ottocento, o di quello russo a cavallo del secolo? Anche allora imperversavano teorici ed agitatori ispirati ad un “socialismo reazionario”, a un “socialismo borghese”, o “utopista” che cercavano di conquistarsi seguito all’interno della classe operaia.

Anche oggi si frappone tra la classe e la sua direzione rivoluzionaria l’ideologia borghese, quella, per intenderci, della Castellina, che propone soluzioni “nuove” davanti a situazioni “nuove”, che, a leggere bene, sono gli stantii utopismi e riformismi combattuti dai nostri maestri nei vari Proudhon, Bakunin, Dühring, Bernstein, Martov, Turati, Gramsci, Stalin e compagnia.

Parlare di opportunismo è ormai insufficiente. Ma nemmeno tradimento è adeguato: tradisce chi è stato da una parte per passare dall’altra. Il PCI, e la sua figliolanza, dagli anni Trenta del secolo passato hanno abbandonato la trincea del proletariato, passando ad assecondare gli interessi della borghesia nazionale: immolazione del proletario internazionale alla Seconda Guerra imperialista, adesione alla Resistenza partigiana interclassista, sottomissione della classe operaia alla Ricostruzione nazionale post-bellica, controllo tramite il PCI e i sindacati delle rivendicazioni operaie nel momento di forza contrattuale negli anni ’60 e ’70, cancellazione di qualsiasi tradizione e coscienza rivoluzionaria.

«I parlamenti ormai non decidono più nulla», se ne è accorta perfino la Castellina! Perché, se decidessero ancora qualcosa sarebbe un vantaggio per il proletariato? Bene se non decidono nulla! Il parlamento è uno degli organi dello Stato borghese che, con Lenin, i comunisti intendono abbattere e disperdere. Inorridisce invece la Castellina. No! «Occorre un partito», perché «c’è bisogno di forme di organizzazione permanenti della democrazia»...

Non ci dilunghiamo in questa critica, troppo facile. Il tragico è che questa maestra della falsificazione a sostegno dei suoi sofismi porta addirittura Lenin di “Stato e Rivoluzione”, che è nostro e solo nostro. E non si tratta di un errore, gli è che da decenni questi specialisti della borghesia sono deputati a stravolgere nel senso della conservazione tutta la letteratura marxista, in questo figli diletti di Giuseppe Stalin.

 

 

 

 


PAGINA 2


Pienissima riunione generale a Genova

29 settembre - 1 ottobre 2017

[RG129]

 

Sommario


La questione militare, La Prima guerra mondiale
- La campagna del Sinai e della Palestina

Il capitolo sulla Campagna di Sinai e di Palestina concludeva l’esposizione del più vasto fronte Mediorientale e Caucasico iniziato nella precedente riunione di Torino. Fu considerato un fronte secondario.

Un breve richiamo complessivo al più vasto fronte bellico di tutta la prima guerra mondiale evidenziava il quadro strategico militare e politico nell’area.

I comandi tedeschi spinsero gli ottomani ad attaccare le forze inglesi in Egitto, sostenute da quelle locali, per due importanti obiettivi: il primo, occupare e chiudere il Canale di Suez a tutti i traffici inglesi, soprattutto militari, che dalle loro colonie facevano affluire enormi quantità di rifornimenti al loro apparato bellico e produttivo; il secondo, impegnare ulteriori forze inglesi su più fronti allo scopo di ridurre la loro pressione sul fronte europeo.

Sul piano politico l’imperialismo britannico, in combutta con quello francese, con spudorato doppiogiochismo vanificarono tutte le speranze di realizzare uno Stato arabo indipendente e unificato a guida araba, che era l’obiettivo della rivolta nazionalista scoppiata nel 1916 nella regione dello Hegiaz, la fascia costiera sul mar Rosso della penisola arabica. L’emiro Feysal, sceriffo della Mecca, era alla guida delle diverse formazioni tribali locali e gli furono promessi alla fine della guerra, come ricompensa per l’appoggio contro gli ottomani e i tedeschi, territori che invece i due briganti europei si erano già spartiti tra loro con gli accordi di Sykes-Picot, suffragati poi coll’istituzione del Mandato britannico sulla regione da parte della Società delle Nazioni. L’emiro Feysal, alla fine di tormentate vicende diplomatiche, fu nominato nel 1921 primo re dell’Iraq, appena inventato dai britannici, e suo fratello fu nominato re di quello che poi divenne regno di Giordania.

La campagna di Sinai e Palestina ha luogo dal 28 gennaio 1915 al 28 ottobre 1918 in più riprese estendendosi successivamente anche in Siria, coinvolgendo da parte ottomana un totale di 650.000 uomini diretti da consiglieri militari tedeschi, contro un insieme misto di truppe inglesi e quelle dello Anzac (australiane e neozelandesi) per un totale di 550.000 effettivi.

All’epoca il Sinai era un’enorme distesa desertica priva di strade e rifornimenti d’acqua che ostacolava seriamente le manovre di un esercito moderno.

Una prima offensiva ottomana parte il 2 febbraio 1915 ma fallisce in soli due giorni perché gli inglesi, tramite le loro spie, sono a perfetta conoscenza dei piani nemici. Riconosciuta l’importanza e il pericolo strategico del Canale, gli inglesi rafforzano le difese prelevando truppe dal fronte di Gallipoli e richiedono più impegno alle forze egiziane, mal armate e mal addestrate.

Il fronte si raffredda per oltre un anno perché su quelli di Gallipoli, in Mesopotamia e nel Caucaso, considerati più importanti, lo scontro si infiamma e richiede maggiori energie.

Nel luglio 1916 una seconda offensiva ottomana viene respinta dagli inglesi, che in seguito a ciò decidono di spostare più in avanti la linea del fronte nel Sinai. L’obbiettivo strategico inglese di proteggere il Canale occupando una buona porzione di territorio nemico è raggiunto con successo senza particolare sforzo.

A Londra il nuovo governo di Lloyd George dà un ulteriore impulso alla guerra e senza fornire adeguati rinforzi impartisce ordini all’armata in Egitto per una vigorosa offensiva nel settore, sia per sostenere la Rivolta araba, distraendovi forze ottomane, sia per ottenere un prevedibile facile successo a compensare le infruttuose offensive negli altri settori.

Le forze ottomane nel frattempo si sono attestate su una linea fortificata che dalla fortezza di Gaza sul Mediterraneo si sviluppava fino a Beersheba, capolinea della linea ferroviaria per Damasco. L’attacco aggirante inglese del 26 marzo 1917 si risolve in un fallimento e la fortezza di Gaza non è conquistata. Ciò nonostante Londra ordina di procedere alla conquista di Gerusalemme fornendo alle truppe i nuovi carri armati e gas asfissianti. Ma anche il secondo attacco il mese successivo finisce in una sconfitta.

Al nuovo comandante inglese Allenby sono forniti nuovi aerei bombardieri e truppe fresche e ben addestrate con l’ordine di prendere Gerusalemme entro quel Natale 1917 sfruttando il fatto che buona parte delle truppe ottomane sono state spostate in Mesopotamia e Arabia.

Il nuovo piano inglese fa credere agli ottomani, tramite spie e infiltrati, che è imminente un attacco su Gaza mentre questo è portato con successo su Beersheba.

Il 7 novembre gli ottomani di Gaza per evitare di essere tagliati dalle loro retrovie abbandonano la città. Cedono le ultime linee di difesa ottomana ed il 9 dicembre gli inglesi entrano in Gerusalemme dando all’imperialismo britannico un grande successo politico ed uno dei pochi successi militari dopo 3 anni di guerra.

Si spera che l’impero ottomano si ritiri dalla guerra mentre invece già prepara una controffensiva. La Francia ha approntato un piano per la conquista della Siria che deve accantonare perché nel settore occidentale ha da sostenere una potente offensiva tedesca; per questo motivo anche le truppe inglesi sono trasferite sul fronte europeo.

Il 19 settembre 1918 parte un’improvvisa offensiva inglese; dopo la vittoriosa battaglia di Megiddo inizia la ritirata generale ottomana le cui colonne sono pesantemente bombardate dall’aviazione al punto che solo dopo una settimana la Settima Armata ottomana cessa di esistere come unità operativa. Si libera la strada per Damasco, la cui guarnigione si arrende senza combattere e che è presa il 1° ottobre 1918.

Chiusa la campagna di Palestina quella di Siria dura ancora un mese per la resistenza ottomana. È la capitolazione della Bulgaria, col reale pericolo di eserciti nemici sotto le mura di Costantinopoli, che convince i turchi a chiedere la fine delle ostilità con l’armistizio di Mudros il 30 ottobre 1918. Si conclude così il dominio ottomano, durato 600 anni, nel Vicino e Medio Oriente passato ora sotto il controllo dell’imperialismo inglese e francese.

- La rotta di Caporetto

Nella stessa riunione un altro compagno ha continuato l’esposizione delle vicende belliche ma sul fronte italiano e relativamente agli accadimenti dell’anno “critico”, il 1917.

Nella primavera riprendono le operazioni dell’esercito italiano sull’altipiano di Asiago, con l’idea strategica di aggirare da nord lo schieramento austroungarico sull’altipiano con 300.000 soldati ed un imponente schieramento di artiglierie per un fronte di 14 km. L’operazione si svolge dal 10 all’11 giugno, poi è sospesa e ripresa dal 19 fino al 25 giugno. L’obiettivo è il monte Portule, ma le offensive sono stroncate sulla piana della Caldiera e sul monte Campigoletti, con un bilancio tragico di 25.000 caduti per pochi chilometri di guadagno territoriale: l’Ortigara è in una posizione quasi inespugnabile, e gli attacchi sono votati al disastro per il concetto di attacco in massa contro posizioni scaglionate e non ben individuate.

L’attività torna quindi a spostarsi ad est, sul fronte dell’Isonzo, con la decima offensiva, dal 12 al 28 maggio, dove la 2° Armata opera da Plava a Gorizia per forzare la linea montana Kuk-Vodice fino all’altopiano della Bainsizza. La battaglia si protrae sino al 22 maggio e porta all’ampliamento della testa di ponte di Plava; sono raggiunte soltanto le alture del Kuk e del Vodice al prezzo di 112.000 caduti. Il prolungamento dell’offensiva sul Monte Santo fallisce, l’avanzata si arresta, con il fallimento degli attacchi verso l’ultimo crinale.

Per la 3ª Armata la lotta doveva riprendere contro i monti Stol ed Hermada, veri capisaldi del sistema difensivo austriaco, per aprire la strada verso Trieste. La III Armata arriva a 2,5 chilometri dal monte Hermada ma il 4-5-6 giugno la controffensiva austriaca nella conca di Flondar rioccupa le posizioni perdute. Questi risultati tattici erano stati raggiunti con un sistema di infiltrazione e aggiramento, concettualmente lo stesso schema di Caporetto.

Durante questi combattimenti avvenne forse l’unica ribellione con una minima forma di organizzazione spontanea: il 15 e 16 luglio a S.Maria la Longa scoppia la rivolta della brigata “Catanzaro”, che già aveva subito delle decimazioni sull’altipiano di Asiago nel maggio del ’16. Ribellione soffocata nel sangue.

Dopo una pausa di riorganizzazione, dal 17 agosto al 10 settembre si sviluppa la 11ª offensiva, ma con un cambio di strategia. Per l’esercito italiano il problema di fondo sul Carso era la forzatura di linee di difesa continue, una dietro l’altra. Si cerca ora di realizzare una sorpresa tattica: massima concentrazione di forze, obbiettivo la caduta della testa di ponte di Tolmino, irruzione sull’altopiano della Bainsizza ed aggiramento delle posizioni sul Carso. La 3ª Armata a sud prosegue le sua strategia destinata a manovra aggirante per prendere al rovescio il formidabile Hermada, comunque mai “accostato” in un attacco diretto. Sono ora differenti i criteri di impiego delle artiglierie: preparazione breve, controbatteria e interdizione. L’offensiva si prolunga per un mese.

La 2ª Armata si addentra per svariati chilometri all’interno dell’Altopiano della Bainsizza. Anche il Monte Santo viene conquistato il 24 agosto. Ma nei giorni seguenti l’avanzata si interrompe bruscamente: l’Altopiano della Bainsizza si dimostra essere un terreno molto difficile da attraversare e l’esercito impiega diversi giorni per spostare gli armamenti pesanti. Stimando non più possibile l’avanzata sulla Bainsizza, la 2ª Armata riprende la spinta verso Tolmino, ma l’ultimo obiettivo di questa operazione, il Monte San Gabriele, malgrado 20 giorni di attacchi e 25.000 caduti non è conquistato.

Unico successo tattico la Bainsizza: per l’esercito austriaco controffensive di contenimento, difesa del S.Gabriele e infine ritiro su posizioni maggiormente difendibili; ma lo sfondamento sarebbe diventato una questione di risorse e di tempo. La strategia di attacco e consumo di risorse condotta dall’esercito italiano sta, a costi terribili, raggiungendo il suo obiettivo. L’esercito italiano si ferma in una posizione falsamente difensiva, con la grave criticità delle conche di Plezzo e Tolmino. La 2ª Armata resta organizzata in modalità offensiva.

L’attacco austro-tedesco inizia il 24 ottobre, alle 2 di notte, con violenta preparazione di artiglieria. All’alba, la 12ª divisione germanica, sboccata da Tolmino, sfonda la linea italiana, risale la valle dell’Isonzo, a tergo della difesa avanzata, raggiunge Caporetto alle ore 15. Al seguito di questa divisione, il corpo alpino tedesco nella giornata conquista tutta la regione orientale del monte Kolovrat, caposaldo della difesa di seconda linea italiana. L’impiego mirato di gas tossici permette lo sfondamento anche nella conca di Plezzo.

Conoscenza perfetta delle disposizioni logistiche, del posizionamento delle artiglierie, delle localizzazioni dei comandi, ecc. da parte degli attaccanti. L’Evidentzburo surclassa l’intelligence italiana, subordinata ai pensieri di Cadorna, che non è in grado di strutturare la battaglia difensiva o addirittura controllare l’esecuzione dei suoi ordini, con mancanza di schieramenti in profondità e organizzazione di riserve significative.

L’ala sinistra della 2ª Armata è travolta, posizionata in uno spiegamento totalmente offensivo, sorpresa dall’offensiva nemica.

Badoglio, al comando del 27° Corpo di Armata, investito dalla puntata principale a Tolmino, scomparse nelle fasi cruciali dell’attacco.

Il 25 ottobre gli austro-tedeschi allargano notevolmente loro manovra oltrepassando l’Isonzo a Saga e spingendosi verso Monte Maggiore. La resistenza dell’esercito italiano sulle alture lungo l’Isonzo è forte, ma assolutamente slegata. A nord, la 10ª Armata austriaca muove verso il Tagliamento. L’ala sinistra del dispositivo di attacco punta dal monte Kolovrat sulle strade di Cormons e di Cividale. Infine, superate, nella giornata del 26, quasi tutte le posizioni difensive montane, 14ª Armata, sbocca in pianura e punta su Cividale.

L’intera struttura di comando italiana, fossilizzata nella dimensione offensiva, cede di schianto sotto un assalto che non è preparata a sostenere. Alle ore 2 del 27 ottobre il Comando Supremo italiano ordina il ripiegamento generale. Un milione e mezzo di soldati abbandonano le aree per cui hanno combattuto per due anni. Il tentativo di resistenza sulla linea del Tagliamento non risulta possibile, perché nulla è stato predisposto per questo. La rotta vede 280.000 prigionieri, 350.000 sbandati, 40.000 morti e feriti, 400.000 civili in fuga.

Il “fucilatore” Andrea Graziani è nominato ispettore generale del movimento di sgombero ed inizia subito il suo mestiere.

Dal 1° novembre la 10ª Armata di von Krobatin muove contro il Cadore. Il 5 novembre cade Cortina. Il 9 novembre è conquistato l’intero Cadore. Il grosso della 4ª Armata retrocede, sono fatti 11.500 prigionieri.

Infine l’avanzata austro-tedesca inizia a rallentare. Proseguire è sempre più difficile per l’esercito austro tedesco.

Dal 9 novembre Armando Diaz sostituisce Cadorna. Si delineano le condizioni per la Battaglia di Arresto.


La nostra attività sindacale

Abbiamo diviso il resoconto dell’attività sindacale in tre settori: l’intervento in manifestazioni con nostri volantini; la redazione di articoli per la nostra stampa nelle varie lingue; l’attività all’interno dei sindacati.

Fra la riunione generale di fine maggio e quella di fine settembre siamo intervenuti in tre manifestazioni con nostri volantini:

- a quella degli operai delle acciaierie di Genova e Novi Ligure, minacciati di licenziamenti in massa in occasione del passaggio di proprietà degli stabilimenti, compreso quello maggiore di Taranto;

- per lo sciopero nazionale del settore dei trasporti (aeroportuali, ferrovieri, tranvieri) e della logistica del 16 giugno, proclamato da quasi tutti i maggiori sindacati di base, tranne l’Usb;

- in Francia a Parigi alla manifestazione del 12 settembre contro la nuova riforma del lavoro.

Questi volantini sono stati pubblicati sulla nostra stampa. Quello francese è stato presentato da un cappello di spiegazione ed entrambi tradotti per la stampa italiana. Quello sullo sciopero del 16 giugno introdotto da una nota che ha spiegato il comportamento delle varie organizzazioni sindacali, in specie quelle cosiddette di base, prima, durante e dopo di esso.

Oltre a questo sulla stampa italiana sono stati pubblicati: un ampio commento dell’USB al suo secondo congresso nazionale; una valutazione della vicenda del doppio sciopero “generale” del sindacalismo di base; il testo per esteso di quanto esposto alle conferenze, tenute dal partito a Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma, sul tema del fronte unico sindacale di classe.

Ma il piano che più ci ha impegnati in questi mesi è stato quello dell’attività in seno alle organizzazioni sindacali. Abbiamo continuato a seguire l’attività dell’Usb e del SI Cobas, partecipando a manifestazioni, presidi e picchetti.

Dopo lo sciopero nazionale dei trasporti e della logistica del 16 giugno, subito commentato sul nostro giornale, gli stessi sindacati che lo avevano promosso, l’8 luglio proclamarono uno sciopero generale di tutte le categorie per il successivo 27 ottobre. A seguito di questa indizione i nostri compagni hanno collaborato a redigere un documento a nome del “Coordinamento Iscritti Usb per il Sindacato di Classe” intitolato “Problemi dello sciopero del 27 ottobre”, pubblicato il 4 agosto, nel quale, sottolineata l’importanza della mobilitazione, ne venivano evidenziati alcuni limiti, al fine di superarli. Un certo interesse ed apprezzamento del documento ha permesso di stabilire contatti con alcuni militanti sindacali di varie organizzazioni e di redarre con questi un “Appello per la formazione di un Fronte Unico Sindacale di Classe, per un’azione generale di lotta di tutta la classe lavoratrice, in difesa della libertà di sciopero”.

Della intensa attività seguita alla pubblicazione di questo documento abbiamo reso conto nell’articolo “Il percorso accidentato ma segnato verso un fronte unico sindacale di classe”.


Il partito di Lenin, della Sinistra, del marxismo rivoluzionario di sempre

Il partito rivendica totale continuità con la più pura tradizione rivoluzionaria della classe operaia, a partire dal Manifesto dei Comunisti del 1848, alla Prima Internazionale e attraverso le espressioni teoriche di ortodosso marxismo della Seconda, restaurate e confermate nella Terza; si proclama erede della Corrente di Sinistra alla direzione del Partito Comunista d’Italia alla sua fondazione nel 1921, con il quale vanta anche una continuità fisica, di organizzazione e di uomini, difensori nel corso di quasi un secolo della incorrotta tradizione del comunismo rivoluzionario di sinistra.

Pur non perdendo il contatto con la classe operaia e con le sue lotte quotidiane, abbiamo riconosciuto necessario dedicare molte energie, pur in tempi nei quali mancano le condizioni per l’attacco rivoluzionario, allo studio delle basi teoriche del nostro modo di esistere e di operare, sia per riappropriarcene, sia per continuare nel lavoro di scolpimento delle nostre posizioni in dottrina e in tattica; il che non significa “arricchimento”, “aggiornamento” o, peggio, revisione, ma la messa in evidenza di sempre più chiare e circostanziate conferme della correttezza del nostro modo di intendere il processo rivoluzionario.

Il partito è allo stesso tempo il custode della dottrina e l’organo che in base a questa dovrà svolgere un’azione di guida della classe rivoluzionaria. È quindi importante per noi dedicare particolare attenzione a questo strumento, organo della classe operaia anche quando questa, nella stragrande maggioranza dei suoi componenti, non ne ha coscienza, come nel momento attuale.

Il Partito Comunista Internazionale non è solo l’erede, una invenzione o scoperta della Sinistra Italiana: è nostra ferma convinzione che non esistano differenze sostanziali tra il nostro modo di intendere il partito e quello di Lenin, ovviamente dopo aver valutato in modo appropriato le differenze storiche e ambientali tra le situazioni nelle quali le due organizzazioni si sono trovate ad operare. Il rapporto presentato alla riunione generale ha inteso appunto leggere l’esperienza di Lenin e del suo partito per individuarne le caratteristiche di valore generale, da confrontare con quelle del piccolo movimento di oggi.

Per comprendere cosa significasse il partito comunista per Lenin, ed interpretare correttamente le sue prese di posizione, è indispensabile avere chiaro il contesto in cui operava. Il rapporto nella prima parte presentata a questa riunione si è concentrato sul periodo in cui prese forma quello che sarebbe stato il partito bolscevico, prima e dopo il II congresso del Partito Operaio Social-Democratico Russo (POSDR).

È negli anni intorno al 1880 che il marxismo penetra in Russia, dove si era sviluppato il movimento populista. Intorno alla teoria marxista e a giuste proposizioni sulla tattica del proletariato nella doppia rivoluzione si costituisce all’estero il gruppo Emancipazione del lavoro.

Nella prima epoca, 1880-1898, la lotta dei marxisti si svolge soprattutto contro il populismo divenuto ormai una dottrina reazionaria piccolo-borghese che difendeva una specie di socialismo rurale basato sulla comunità rurale russa. A liquidare i conti con questa dottrina intervengono non solo gli autentici marxisti, ma anche tutta una serie di elementi per i quali la critica del populismo significa passaggio alla democrazia borghese. È l’epoca del Marxismo Legale. La lotta viene perciò condotta su due fronti: contro il populismo e contro il marxismo piccolo borghese.

In quest’epoca i marxisti russi sono ridotti ad un piccolo gruppo. È importante ciò che scrive Lenin nel Che fare?: questo gruppo di intellettuali aveva già appreso tutto dal marxismo europeo: non aveva da aspettare per apprenderlo il movimento delle masse di Russia.

Le prime, notevoli agitazioni operaie si ebbero nel 1896, e quel gruppo di intellettuali si gettò nella lotta indicando al movimento non solo i suoi compiti immediati, ma anche la prospettiva fino al socialismo.

Gli effetti di questo movimento e dei successivi furono i seguenti: 1) il partito si legò alle masse; 2) il partito si separò nettamente dal marxismo legale; 3) si costituì l’organizzazione di partito (1898).

Lenin afferma in tutte le sue opere, compreso il Che fare?, che dal 1896 in poi il proletariato russo non fu mai più statico. La situazione fu di inadeguatezza dell’organizzazione di partito a guidare il vivacissimo movimento delle masse operaie. Così viene posta la questione nel Che fare?, dove il problema cruciale è proprio questo: come rendere il partito adatto a guidare il movimento operaio? È di fronte a questo esuberante movimento operaio che la deviazione economicista si manifesta.

Dopo una disamina dei rapporti tra le classi in Russia agli inizi del XX secolo, l’esposizione ha descritto il percorso fino al II congresso del POSDR, quello in cui furono gettate le basi del partito, derivate dalla intensa attività teorica ed organizzativa del gruppo facente capo alla rivista “Iskra”, attività di recupero delle giuste posizioni marxiste da parte principalmente di Lenin.

L’anima opportunista del partito, presente anche nella stessa redazione dell’Iskra, riesce a spaccare il partito, su questioni solo apparentemente marginali. Il congresso fu un’arena di lotta. Man mano che i bolscevichi ponevano avanti i loro postulati si manifestavano delle contrapposizioni. E dove, necessariamente? Nella questione organizzativa! Tutti quelli che prima erano stati avversari dell’Iskra sul piano teorico, programmatico e tattico, ora gridavano contro il centralismo e la disciplina, erano per l’autonomia e la democrazia dell’organizzazione. Salvo poi guidare una scissione in barba ai risultati del meccanismo democratico.

La narrazione è continuata sino al 1906, quando si realizzò una temporanea riunificazione. Lenin, in tutto il percorso di quegli anni, si dimostrò sempre disposto a superare piccoli ostacoli per raggiungere l’unità di azione del partito, fino ad accettare obtorto collo il meccanismo democratico. Ma vi sono aspetti sui quali non era disposto a transigere: sul piano teorico, una ortodossa applicazione della dottrina di Marx ed Engels, accettata in blocco, senza distinguo, validissima pur in presenza di una prospettiva di doppia rivoluzione; sul piano organizzativo, una chiara caratterizzazione del militante, distinto dalle nebbie di affini, simpatizzanti, compagni di strada, e l’affermazione dei cardini: centralizzazione assoluta e severa disciplina.


(Fine del resoconto della riunione)







Riunione regionale in Venezuela
25-26 novembre 2017

L’incontro del partito in Venezuela si è svolto con la presenza dei compagni delle varie sezioni. I punti affrontati sono stati:

1. Si è dato lettura della esposizione di Marx sulla trasformazione del denaro in capitale, dal 1° volume del Capitale, con la circolazione semplice delle merci (M-D-M) e del capitale (D-M-D’).

2. Lettura del resoconto dei 51 giorni di sciopero in Colombia dei piloti di Avianca.

3. Il funzionamento delle sezioni viene mantenuto anche se rileviamo la necessità di riunioni più regolari. La interruzione della stampa del giornale ha influito sul lavoro di organizzazione e nel rapporto con diversi compagni con i quali siamo in contatto. La diffusione della stampa è stata effettuata via e-mail, ma la pubblicazione su carta continua a essere uno strumento di maggiore impatto e utilità pratica. Abbiamo quindi riesaminato le possibilità di riprendere le pubblicazioni della propaganda stampata. Il centro verrà informato a riguardo.

Abbiamo mantenuto alcuni contatti con attivisti sindacali di base nell’azienda dove un nostro compagno è stato licenziato, e cercheremo di dargli più continuità. Stiamo anche in collegamento con i lavoratori pensionati dei tribunali.

Abbiamo predisposto la partecipazione di compagni della sezione ad una delle riunione generale del partito nel 2018. È stato fissato lo schema generale degli argomenti da trattare nelle prossime riunioni regionali e abbiamo infine raccolto dai militanti le quote di autofinanziamento.

 

 

 

 

 

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

I sindacati di regime alla prova dello sciopero alla Amazon

Venerdì 24 novembre sono scesi in sciopero per la prima volta dalla sua costruzione i lavoratori del gigantesco magazzino logistico Amazon di Castel San Giovanni, a Piacenza.

L’area piacentina per la sua collocazione geografica è un crocevia fondamentale per il traffico delle merci ed il settore logistico vi ha avuto un notevole sviluppo, come d’altronde in tutta l’Emilia e più in generale nella Pianura Padana. Non è un caso quindi che il gigante statunitense del commercio elettronico l’abbia individuata per impiantarvi il proprio stabilimento, nato una decina di anni fa e che oggi occupa 1.800 dipendenti diretti e una quota variabile di lavoratori assunti tramite agenzie interinali, che nei periodi di picco produttivo raddoppiano la forza lavoro presente in magazzino, che può raggiungere le 3.500 unità.

Non è nemmeno un caso che l’area piacentina sia stata una delle prime in cui ha messo radici il movimento di lotta operaia del settore logistico, che mosse i suoi primi passi nel 2008 e che qui vide il sindacato SI Cobas condurre una prima grande battaglia nel magazzino della TNT nel luglio 2011. Oggi nel magazzino piacentino della TNT lavorano circa 320 operai (di cui una novantina con contratto a tempo determinato), quasi tutti iscritti al SI Cobas, dopo che con le lotte sono riusciti a conquistare notevoli miglioramenti. Oltre che alla TNT il SI Cobas si è diffuso in vari altri magazzini nella provincia, come alla GLS e alla Tranconf di Montale, alla XPO di Le Mose e di Pontenure, al magazzino Le Roy Merlyn di Castel San Giovanni, a pochi metri da quello di Amazon.

Le ragioni dello sviluppo del movimento di lotta operaia nel settore logistico in questi anni ci sembrano riducibili alle seguenti:
     - l’elevato grado di sfruttamento dei lavoratori del settore, superiore a quello medio della classe lavoratrice in Italia (va però notato che tale grado di sfruttamento si riscontra anche in altri settori) che ha generato rabbia e disponibilità alla lotta;
     - la presenza di magazzini in cui sono concentrati da decine a centinaia di operai, offrendo a questi la forza del numero;
     - l’efficacia degli scioperi che hanno condotto ad effettivi miglioramenti nelle condizioni di lavoro;
     - la crescita economica del settore;
     - l’assenza del ricatto della chiusura e delocalizzazione degli stabilimenti, data la natura e la funzione del magazzino logistico;
     - l’assenza d’iniziativa da parte dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) che in questo settore sono ancor più compromessi col padronato, attraverso il sistema delle cooperative, di quanto lo siano in genere nei posti di lavoro.

Il magazzino Amazon, il più grande impianto logistico d’Italia, è rimasto però una fortezza inespugnabile per il SI Cobas, nonostante in quelli tutt’attorno sventolino le sue bandiere. Questo sindacato può contare solo su un piccolissimo gruppo di iscritti, troppo debole per un’azione di lotta.

Amazon opera diversamente dalle altre aziende logistiche per due circostanze: non applica il Contratto nazionale Logistica, Trasporto Merci e Spedizioni ma quello del Commercio; in secondo luogo non utilizza il sistema dell’appalto e del subappalto attraverso cooperative e consorzi di cooperative ma assolda la forza lavoro temporanea attraverso le agenzie interinali.

Questi fattori, insieme al rigidissimo controllo e terrore interno e all’elevato grado di sostituzione del personale (turn over) devono aver contribuito a mantenere sinora la pace sociale all’interno dell’impianto.

Ma paradisi aziendali senza sfruttamento e lotta di classe non esistono e quest’anno il baraccone ha iniziato a scricchiolare.

I lavoratori però in questo caso hanno trovato parziale ascolto ed uno strumento organizzativo nei sindacati di regime i quali, diversamente da quanto in genere accade nel settore logistico, hanno assunto l’iniziativa dell’azione di lotta. Forse le rispettive categorie del commercio – Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs e Ugl Terziario – sono un poco “meno peggio” di quelle, corrottissime, del settore logistico (Filt Cgil, Fit Cisl, Uil Trasporti, Ugl Trasporti)?

Fatte le assemblee coi lavoratori questi sindacati hanno così deciso di promuovere lo sciopero e di farlo in un giorno del tutto particolare, di picco produttivo, ossia nel cosiddetto “black friday”, una giornata tradizionalmente dedicata agli acquisti negli Stati Uniti e che col tempo si sta diffondendo anche in Europa ed in Italia.

La principale rivendicazione da parte dei lavoratori e dei sindacati era quella del riconoscimento di un premio di produzione, così da aumentare il salario complessivo.

Un’azione coraggiosa, sarebbe dunque sembrato, da parte di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, ma, come si suol dire, buon sangue non mente. La natura collaborazionista di questi sindacati si è palesata nell’aver sì organizzato lo sciopero nella giornata del black friday ma di averlo voluto fare rifiutandosi di dispiegare un picchetto che dissuadesse i crumiri dall’entrare a lavorare, che desse ai lavoratori somministrati la scusa per giustificare il loro eventuale mancato ingresso in azienda fornendo loro un escamotage per la partecipazione allo sciopero ed infine, fattore fondamentale, che bloccasse l’ingresso e l’uscita dei camion. Cgil, Cisl, Uil e Ugl – com’è loro costume – si sono limitati ad organizzare un innocuo presidio dinanzi lo stabilimento, anche abbastanza nutrito, con oltre un centinaio di lavoratori, a dimostrazione che vi era da parte di questi la disponibilità a lottare.

Così organizzato lo sciopero si è risolto in un fallimento, nel senso che non ha interferito con l’attività produttiva. Secondo fonte sindacale avrebbe infatti aderito circa il 50% dei dipendenti diretti. Gli altri, insieme agli interinali, hanno sopperito all’assenza degli scioperanti, permettendo all’azienda di affermare che non vi sarebbero stati ritardi nelle consegne.

La radicalità nella scelta del giorno dello sciopero è stata così completamente vanificata dalla modalità con cui lo sciopero è stato dispiegato davanti ai cancelli.

La logica dell’azione dei sindacati di regime è sempre la stessa: con lo sciopero non intendono danneggiare l’azienda ma solo accreditarsi ad essa quali interlocutori in un sistema di consultazioni – la cosiddetta “concertazione” – dal quale dovrebbero cadere alcune briciole per i lavoratori. Solo che queste briciole sono sempre più piccole, impercettibili.

Da parte sua il SI Cobas in questo frangente ha dimostrato ancora una volta di essere una spanna al disopra del livello medio del sindacalismo di base. Infatti, nonostante lo sciopero fosse proclamato da sindacati che esso stesso – giustamente – condanna come al servizio dei padroni, non lo ha boicottato bensì ha dato ai lavoratori indicazione di aderirvi. E non si è limitato ad un’adesione verbale ma, nell’arco di circa 36 ore, ha organizzato la partecipazione di un centinaio di suoi operai a un presidio dinanzi Amazon. Ha cioè applicato nel modo più coerente e conseguente il principio dell’unità d’azione dei lavoratori, portando il suo sostegno alla lotta, a prescindere dai sindacati che l’avevano promossa, visto che questi ancora controllavano, e controllano, la maggior parte dei lavoratori del magazzino.

Significativamente, un ingente schieramento poliziesco si è schierato fra il presidio dei lavoratori inquadrati nei sindacati di regime e quello del SI Cobas, a dare pratica esecuzione alla strategia padronale di dividere i lavoratori.

Altro elemento che ha provato una buona dose di intelligenza sindacale da parte del SI Cobas è stato quello di rispettare la volontà dei lavoratori di non operare il blocco delle merci, limitandosi a denunciare l’erroneità di tale scelta durante il presidio.

D’altronde i fatti successivi hanno parlato chiaramente ai lavoratori, con l’azienda che si è fatta apertamente beffe delle loro rivendicazioni e dell’azione dei sindacati collaborazionisti. Dopo lo sciopero, a fine novembre, l’azienda ha chiesto ai sindacati di fare slittare l’incontro successivamente alle festività natalizie, intorno al 18 gennaio per affrontare il tema delle condizioni dei lavoratori in condizioni “più serene e sgombre da pregiudiziali”! Questo nonostante i sindacati di regime avessero ulteriormente calato le braghe offrendo la disponibilità di sospendere lo stato di agitazione purché si iniziasse il confronto entro il 6 dicembre.

In tutta risposta Amazon si era detta disponibile ad incontrare i lavoratori... singolarmente! mettendo da parte il sindacato.

Poi, svoltosi effettivamente un incontro il 10 dicembre, quello successivo del 19 dicembre è stato disertato all’ultimo momento dall’azienda, il cui rappresentante non si è presentato, affermando esservi “troppa tensione”! Si trattava di una ripicca per non aver ricevuto soddisfazione da parte dei sindacati alla richiesta di non svolgere ulteriori assemblee retribuite interne nei giorni precedenti il Natale e di spostarle successivamente, per non intaccare l’attività produttiva. Cgil, Cisl, Uil e Ugl non hanno accettato e di, fronte alla diserzione dell’incontro da parte di Amazon, hanno risposto con uno sciopero ancor più blando del precedente, del 24 novembre: 2 ore a fine turno, al solito con presidio, cioè senza blocco.

Questo balletto fra le parti ancora dura e vedremo per quanto durerà: da un lato un’azienda poco interessata a ricorrere ai metodi del collaborazionismo sindacale per mantenere l’ordine produttivo e la sottomissione operaia nello stabilimento; dall’altra lo stuolo di sindacati di regime che finge d’organizzare la lotta ma lo fa accuratamente evitando di procurare eccessivo danno all’azienda.

L’alternativa sindacale per i lavoratori Amazon è vicina e visibile e, presto o tardi, la imboccheranno ed anche questo fortino padronale sarà espugnato dalla lotta operaia.






Colombia
Insegnamenti dalla lunga lotta dei piloti alla Avianca

Le rivendicazioni dei piloti della colombiana Avianca erano: la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore mensili, un aumento del 50% dello stipendio, due settimane di riposo al mese, biglietti illimitati in prima classe per i famigliari, benefici per tablet, computer e telefonia mobile, l’estensione dei servizi sanitari alle famiglie con copertura totale della polizza assicurativa.

Le trattative tra il sindacato Associazione Colombiana degli Aviatori Civili (ACDAC) e la Compagnia sono iniziate il 23 agosto e si sono prorogate per 20 giorni, non arrivando ad un risultato. Il 15 settembre l’ACDAC ha deciso allora l’inizio di uno sciopero, che ha avuto un notevole risalto nella stampa nel paese e fuori.

Inizialmente si supponeva che lo sciopero sarebbe durato una settimana, dal 20 a il 27 settembre. Non essendo però stato raggiunto alcun accordo, nonostante l’intervento del Ministro del Lavoro, lo sciopero è proseguito per durare fino a 51 giorni.

Avianca ha denunciato la soppressione di 14.000 voli ed una perdita giornaliera di 300.000 dollari, ma si è fatta forte di una crescita nel terzo trimestre del 2017 del 9% delle vendite e del 28% del profitto.

La stampa borghese ha lavorato come sempre per schierare la popolazione contro lo sciopero e al fianco della compagnia, del governo e dei tribunali.

Il 6 ottobre lo sciopero è stato dichiarato illegale dal Tribunale Superiore di Bogotà e, come ci si aspettava, le argomentazioni sono state: 1) Avianca svolge un servizio pubblico essenziale; 2) il sindacato ha condotto lo sciopero con una minoranza dei suoi iscritti: hanno votato solo 259 piloti, meno della metà dei 700 iscritti allo scrutinio. Il giudice ha decretato che: «il diritto al lavoro, alla sicurezza, all’educazione e agli spostamenti sono pilastri fondamentali per assicurare una vita dignitosa». Naturalmente i tribunali si preoccupano di assicurare la “vita dignitosa” alla borghesia e il funzionamento ottimale delle loro aziende.

Lo sciopero come principale forma di lotta proletaria quanto più accresce la sua efficacia tanto più viene dichiarato illegale dal regime borghese, in quanto pone in pericolo l’accumulazione capitalista. Per questo il giudice ha dichiarato che «in uno Stato sociale di diritto non si può permettere che gli interessi di una minoranza di pochi sindacati influenzi gli interessi della maggioranza della popolazione». Pare di sentire i nostri Renzi o Delrio all’indomani dello sciopero del 16 giugno scorso, o in altre occasioni analoghe.

Dietro lo scudo ideologico della “maggioranza della popolazione” viene protetta la minoranza privilegiata dei padroni capitalisti e il loro interesse a massimizzare i profitti, derivanti dallo sfruttamento del lavoro salariato.

Con l’appoggio del Tribunale, i padroni hanno così fatto pressione sui lavoratori. Avianca ha indicato il 16 ottobre come termine perché i piloti in sciopero riprendessero il lavoro, pena azioni disciplinari nei loro confronti. Per riprendere i voli dal primo novembre ha iniziato a reclutare piloti di altri paesi.

Le continue pressioni padronali e alcune diserzioni tra gli scioperanti hanno portato la maggioranza dei lavoratori, nella notte del 9 di novembre, a votare per porre fine allo sciopero. Ad ogni modo questa è stata una grande prova di lotta, determinazione e coesione.

Ma ha anche messo in evidenza i suoi limiti. Sebbene i piloti abbiano ottenuto dimostrazioni di sostegno da parte dei controllori del traffico aereo e della Confederazione Generale del Lavoro (CGT) della Colombia, lo sciopero è rimasto isolato dal resto della classe. La CGT ha convocato una manifestazione nel pomeriggio del 9 ottobre a Bogotà «per rendere pubblico il sostegno dei lavoratori colombiani alle giuste rivendicazioni dei piloti di Avianca ed esprimere il rigetto delle decisioni dei giudici».

Ma il suo presidente, Julio Roberto Gómez, ha respinto la sentenza emessa dalla Corte Superiore di Bogotà con l’argomento che «nessuno muore, né l’economia nazionale è danneggiata perché si può viaggiare sugli stessi itinerari con altre compagnie aeree». Con queste parole Gomez ha condiviso la regola borghese sui servizi minimi durante gli scioperi e con ciò ha escluso in solidarietà ed appoggio ai piloti Avianca l’estensione dello sciopero all’intera categoria, condannando la lotta a restare chiusa nel perimetro aziendale e ad essere così sconfitta. Una tipica azione da sindacato di regime. D’altronde nemmeno l’ACDAC ha mai cercato la solidarietà di classe e l’estensione dello sciopero.

Nonostante la combattività dei lavoratori nella lotta sarà difficile ottenere quanto rivendicato se non estendendo l’agitazione e lo sciopero verso i lavoratori di altre compagnie cercando una unione di classe.

L’esperienza di questa lotta e di altre simili deve portare a rompere con il sindacalismo padronale e promuovere le seguenti pratiche:
     - Organizzazione sindacale di base non solo all’interno dell’azienda ma anche territoriale, che consenta di raggruppare i lavoratori di diverse aziende.
     - Riunioni e assemblee regolari, informative e per analizzare le situazioni e prendere decisioni.
     - Organizzare un fondo per gli scioperi e una rete di contatti con altri sindacati e gruppi di lavoratori per attuare la solidarietà con gli scioperanti.
     - Fare agitazione e propaganda dentro e fuori l’azienda, prima, durante e dopo uno sciopero. Organizzare picchetti ai cancelli.
     - Una volta iniziato lo sciopero, dichiararlo ad oltranza e sospendere i servizi minimi, con quelle sole eccezioni che il movimento considera convenienti per l’avanzata della lotta.
     - Promuovere l’estensione dello sciopero ad altre aziende nello stesso ramo di attività economica.








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Le crisi aziendali e la richiesta delle nazionalizzazioni

La nazionalizzazione delle grandi aziende è uno dei cavalli di battaglia dell’opportunismo politico e sindacale, una sua parola d’ordine agitata in mezzo ai lavoratori costantemente, e in modo crescente con l’avanzare della crisi economica mondiale del capitalismo. Negli ultimi mesi è tornata ad essere invocata da alcuni sindacati di base, dall’Usb e dalla Cub, con riguardo all’Ilva e all’Alitalia, ma è certamente condivisa dalla maggioranza del sindacalismo di base nel suo insieme, ed anche dalle correnti di opposizione di sinistra nella Cgil.

Invece, avanzare la rivendicazione della nazionalizzazione reca un danno alla classe proletaria sia sul piano politico, puntellando il riformismo e mistificando il comunismo, sia su quello sindacale, ostacolando lo sviluppo dell’unità d’azione dei lavoratori – sul piano nazionale e su quello internazionale – e rallentando l’abbandono da parte del movimento operaio dei metodi d’azione estranei e dannosi alla lotta di classe, riducibili al credere di poter avere alleati all’interno dell’assetto istituzionale capitalista, che chiamano democratico.

Da riformismo a tradimento

Quando è agitata in campo sindacale, la nazionalizzazione rimanda immediatamente al campo politico, come di fatto è per ogni rivendicazione, ma in questo caso, per i suoi caratteri, in modo diretto ed esplicito.

Nella visione tipica del riformismo socialdemocratico – che secondo Lenin e il marxismo rivoluzionario è passato irreversibilmente nel campo borghese dall’agosto 1914 – un capitalismo opportunamente regolato da un intervento dello Stato, potrebbe funzionare senza lo sfruttamento della classe operaia, o quanto meno limitandolo.

I modelli storici a sostegno di questa tesi, a cui si rifanno i vari partiti della cosiddetta “sinistra” – tutti parte della sinistra borghese – variano, a seconda delle sfumature ideologiche, dai regimi socialdemocratici delle democrazie del centro e nord Europa, a quelli del falso socialismo della Russia e dei paesi suoi satelliti, passando per il sistema italico delle aziende statali e a partecipazione statale, che ha avuto il suo apogeo nel secondo dopoguerra e di cui oggi costoro hanno persino nostalgia.

Il capo della questione dal punto di vista teorico – da tenere stretto in mano per non perdere il filo della matassa da dipanare – è nel fatto che l’opportunismo, come tutta l’ideologia borghese e preborghese, pone a perno della spiegazione dei fenomeni storici, politici e sociali, la sfera ideologica, in modo opposto al marxismo, che vi pone la struttura economica.

Secondo l’ideologia del riformismo socialdemocratico, che in Italia ebbe nel secondo dopoguerra quale maggiore esponente il falso partito comunista, da Togliatti in poi, una certa “politica” sarebbe in grado di usare la macchina dello Stato per “regolare” il capitalismo, attraverso la proprietà di importanti industrie ed infrastrutture, finanziando un esteso ed articolato sistema di assistenze statali, infine garantendo così benessere e progresso per la classe lavoratrice.

Solo successivamente, in Italia e nel Mondo – sempre secondo questa stessa lettura antimarxista della storia – avrebbe preso il sopravvento una ideologia presunta opposta, quella del cosiddetto neoliberismo che, fedele ai suoi precetti, ha operato privatizzazioni, smantellato lo Stato assistenziale, non ha impedito o persino provocato la crisi economica, ed ha riportato nella povertà i lavoratori. Il riformismo socialdemocratico avrebbe avviato un processo di emancipazione della società dagli eccessi barbari del capitalismo originario, mentre il neoliberismo starebbe oggi riportando indietro la ruota della storia.

Il marxismo autentico mette in evidenza la falsità di questa interpretazione.

Innanzitutto va notato come l’acquisizione da parte dello Stato della proprietà di industrie ed infrastrutture, solo riferendoci al Novecento, non sia stata affatto una prerogativa di governi a guida socialdemocratica o che si pretendevano socialisti bensì di tutti i regimi borghesi, vuoi a governo apertamente totalitario, quali quello dell’Italia fascista e della Germania nazista, vuoi democratico. La politica di intervento dello Stato nell’economia e nella società è andata ovunque crescendo con l’approdare il capitalismo alla sua fase ultima dell’imperialismo, ed è un fattore di maggior oppressione sulla classe operaia, e non sul capitale, tanto meno di emancipazione di quella da questo.

L’interventismo statale nella prima metà del secolo scorso trovò progressivo impulso con l’avanzare della crisi economica mondiale del 1929, e con quello i vari capitalismi nazionali cercarono di reagire, usando mezzi che – lungi dall’essere una soluzione, che allora come oggi non esiste, sul piano della politica economica – consentirono di continuare per alcuni anni a contenere la ribellione della classe operaia, a disciplinare e raccogliere le cosiddette “forze produttive nazionali” per rilanciare e puntare tutto, come in una sorta di gioco di azzardo, nella partita decisiva che tutti i regimi borghesi sapevano approssimarsi, cioè il secondo conflitto mondiale.

Fu quella guerra, la più disastrosa nella storia umana, e non le politiche d’intervento pubblico nel campo economico, a sanare la crisi di sovrapproduzione, come da tempo ammettono candidamente gli stessi economisti borghesi, e fingono di ignorare gli opportunisti d’ogni risma.

Si pensi, in Italia, all’Istituto per la Ricostruzione Industriale, fondato nel 1933, ma che aveva avuto origine nel Consorzio Sovvenzioni istituito nel 1913, divenuto Istituto Liquidazioni nel 1926, che giunse ad aver oltre 200 mila dipendenti nel 1938 ed oltre 550 mila nel 1980! Una continuità che non trova spiegazione nello schema ideologico socialdemocratico.

Del resto, forma nazionalizzata o forma privata della proprietà dei mezzi di produzione e della terra sono entrambe pienamente compatibili con il capitalismo. Il capitale è sempre una pubblica e anonima forza sociale; è dato in proprietà collettiva privata alla classe borghese nel suo insieme, la quale si presenta come una grande società per azioni, sia esso intestato allo Stato, ad una Società Anonima, ad una banca, ad un Donald qualsiasi. È il capitale che sempre più si emancipa dai borghesi e nelle sue colossali incontrollabili dimensioni diventa “proprietario” ed arbitro assoluto dei capitalisti e dei loro Stati.

Ne consegue che né l’una né l’altra forma di proprietà del capitale possa dirsi più vicina all’economia socialista, essendo questa maturità legata ai parametri oggettivi dello sviluppo tecnico e sociale, e non giuridici formali.

La favola del neo‑liberismo

Per quanto riguarda invece l’atteggiamento da tenersi nelle lotte immediate dei lavoratori è da sfatare il mito di una preferenza da concedere ad una delle due forme di proprietà per poter ottenere migliori condizioni di vita per la classe operaia.

I partiti opportunisti, ignorate le nazionalizzazioni compiute da regimi corporativi dell’interguerra, vantano i pretesi effetti di quelle successive a quell’immane macello di proletari e contadini: invece fu la guerra a ridare temporanea giovinezza all’economia capitalistica e a permettere i successivi decenni di forte crescita dell’accumulazione. Fu questa condizione economica di crescita, oltre a favorire le nazionalizzazioni delle imprese meno redditizie, a consentire l’estensione del cosiddetto Stato sociale, in Italia e in altri paesi, e poco migliori condizioni di vita alla classe operaia, conquistate comunque a prezzo di dure lotte, costate anche la vita a decine di lavoratori uccisi dalla forza pubblica della repubblica democratica, antifascista e dotata della “più bella Costituzione del mondo”.

Terminato a metà degli anni Settanta il ciclo postbellico di crescita ed apertosi quello attuale di lunga crisi, la politica borghese ha mostrato di cambiare registro e linguaggio, senza nulla aver voluto né inventato, naturalmente, ma solo adattandosi al corso delle cose, trascinata, per miseria, ad abbracciare l’ideologia “neoliberista”. “La festa [per i borghesi diciamo noi] è finita!», ammetteva la Thatcher. Non c’erano più soldi per finanziare le ferrovie, benché fosse stato ben utile per il capitale nazionale far viaggiare merci e salariati a basso prezzo. Non se lo potevano più permettere, la morsa della crisi del capitalismo sgretola tutti i loro piani e velleità mentre conferma le rigorose diagnosi del marxismo.

Ma questo clamore non ha significato nella realtà alcun ritorno alla società liberale e alla non intralciata competizione mercantile. Si sono sì sostituite regole a regole, ma le nuove ancor più adatte delle antiche ad esprimere l’oppressione dei capitali giganti sui piccoli e, principalmente, del capitale grande e piccolo sulla classe operaia.

In Italia i due grandi partiti che avevano cogestito il cosiddetto sistema delle “partecipazioni statali”, la DC e il PCI – in modo azzeccato si parlò di “repubblica cattocomunista” – in un trapasso in cui hanno giocato un ruolo anche fattori internazionali della crisi, si sono dissolti e la maggior parte del loro personale politico, ricollocatosi nelle nuove organizzazioni partitiche, è presto passato ad abbracciare il nuovo credo ideologico. Solo una minoranza del vecchio PCI ha continuato a vestire il logoro abito riformistico tentando ad ogni tornata elettorale di rappezzarlo, in una serie di insuccessi crescenti. Dopo aver illuso per decenni la classe operaia che in Russia, in Cina, a Cuba ecc. vi fosse il socialismo e che in Occidente il capitalismo sarebbe progressivamente e stabilmente migliorato grazie alla democrazia ed alla loro politica socialdemocratica, nella attuale condizione di crisi economica mondiale va raccontando che quella stessa politica economica sarebbe oggi in grado di invertire il ciclo economico del capitalismo! Alle menzogne neoliberali l’opportunismo replica con le ancor più crasse menzogne socialdemocratiche, cui i lavoratori – inevitabilmente e per fortuna – credono sempre meno, provocando comportamenti fino all’isteria nello sconsolato “popolo della sinistra”.

I regimi borghesi, a livello internazionale, nascondono oggi l’incagliarsi e l’infrangersi dei loro rapporti ed accordi dietro la maschera delle politiche neoliberiste, costrettivi dall’avvitarsi della crisi, che non spinge verso la “libertà”, seppure borghese, ma verso la disgregazione e il caos. Diciamo che oggi parlare apertamente di interventismo, visti i suoi pessimi risultati, è “inopportuno” ed è il caso di mantenere in ombra la reale dittatura del capitale sullo Stato. Dittatura che i traditori socialdemocratici si facevano vanto di aver rovesciato con la forza e l’azione della classe operaia.

Non sarà dunque l’inevitabile ridimensionamento dei precedenti “carrozzoni” statali, para-statali o quasi-statali, vedi Fiat, a consentire alla classe dominante di evitare la crisi economica del capitalismo, che si confermerà anche irrisolvibile e che continuerà ad avanzare attraverso periodici balzi in avanti che condurranno al bivio storico “o guerra o rivoluzione”.

Non è affatto da escludere, infine, che con il precipitare della crisi i regimi borghesi possano ritenere utile tornare apertamente alle politiche di intervento statale in economia, a restaurare lo Stato sociale per gestire la povertà in cui progressivamente sarà ricacciata la classe lavoratrice, il tutto accompagnato da politiche protezionistiche in campo economico e dalla propaganda sciovinista. Questo scenario, analogo a quello degli anni Trenta del secolo passato, è ben probabile, anche se non obbligato, e rivendicare la nazionalizzazione delle industrie cosiddette “strategiche” sul piano politico serve solo a preparare il terreno all’azione della classe dominante volta a tradurre la classe salariata sul treno che la condurrà al fronte di guerra. Per chi sono strategiche queste industrie se non per la borghesia nazionale?

Nazionalizzazioni e condizione operaia

È falso che una presenza maggiore dello Stato nella proprietà della fabbrica andrebbe a tutela delle condizioni di vita dei suoi lavoratori. Lo dimostrano i casi in cui lo Stato è ancora proprietario. Un esempio è quello di Fincantieri, di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, cioè del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Riesce ad essere prima azienda mondiale nel settore della costruzione delle enormi navi da crociera perché sottopone gli operai ad uno sfruttamento infame, usando ampiamente il sistema degli appalti e dei subappalti, la cui forza lavoro, nei periodi di picco produttivo, arriva ad essere l’80% di quella presente in cantiere. Un altro esempio è quello del corriere espresso SDA, indirettamente di proprietà statale in quanto appartenente al gruppo Poste Italiane, controllato per circa il 60% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. In questa azienda si è sottoposti all’altissimo grado di sfruttamento del settore della logistica e contro cui in questi anni si sono battuti i lavoratori organizzati nel SI Cobas. L’azienda ha risposto all’ultimo sciopero del settembre scorso con la serrata e assecondando i vari capetti e padroncini nel sistema di cooperative da essa utilizzato che hanno organizzato una spedizione di un centinaio di crumiri per attaccare all’arma bianca il picchetto di Milano.

Ma è negli stessi volantini in cui i sindacati di base invocano la nazionalizzazione che si riscontra il contrasto di questo indirizzo con il reale stato delle cose. Leggiamo dal comunicato del 3 dicembre scorso della Cub Trasporti e di Air Crew Commitee (un comitato del personale viaggiante federatosi alla Cub): «Con 900 mln versati, il Governo ha nazionalizzato Alitalia con un investimento superiore a quello che hanno versato i capitani coraggiosi ed Etihad insieme». Si spiega cioè come l’amministrazione straordinaria in atto da maggio 2017 ed il cosiddetto “prestito ponte” siano una nazionalizzazione di fatto, anche se, nelle intenzioni del governo, temporanea. E come opera il padrone statale nei confronti dei lavoratori? Lo spiegano i comunicati precedenti e successivi della stessa Cub in cui, correttamente, si denuncia come l’amministrazione commissariale non stia facendo altro che proseguire il lavoro del precedente padrone privato (Ethiad). Curiosamente la Cub Trasporti ha tenuto a rimarcare in modo particolare questo aspetto, volendo distinguersi in ciò dall’Usb che invece ha teso a riporre fiducia nell’opera dei tre commissari governativi.

Come si risolverebbe quindi il problema di rivendicare la nazionalizzazione mentre si constata che quando essa è applicata opera contro i lavoratori? Basta affermare che ci vorrebbe un padrone pubblico che “faccia il suo dovere!” Quindi il problema non sarebbe solo la nazionalizzazione bensì anche quello di imporre alla macchina statale di far funzionare l’azienda bene e senza sfruttare troppo i lavoratori. Giocoforza questa illusione non può che essere alimentata prospettando l’esistenza di possibili alleati politici nel campo istituzionale.

Si cade così in una serie di equivoci ed illusioni. Innanzitutto nella superstizione borghese dello “Stato al servizio dei cittadini”: mentre si constata come esso opera a sostegno degli interessi del Capitale, ci si ostina a credere e ad illudere i lavoratori che ciò potrebbe non avvenire. Lo Stato o è della borghesia o della classe lavoratrice, e il secondo può nascere solo sulle macerie del primo, per opera di una rivoluzione.

In secondo luogo si cade nell’aziendalismo, cioè nel credere ed affermare che lo sfruttamento dei lavoratori non sia insito al capitalismo ed alle sue leggi di funzionamento ma conseguenza di una cattiva gestione dell’azienda. Il problema sarebbe il Calenda, il Riva o il Marchionne di turno. La difesa dei lavoratori passerebbe di conseguenza attraverso la lotta per ottenere un “buon padrone”, in questo caso statale, in grado di portare all’affermazione dell’azienda nel mercato, e non per l’unità dei lavoratori al fine di contrastare la concorrenza al ribasso dei salari e delle altre condizioni d’impiego imposte dal capitalismo.

Il trasporto aereo è un settore per sua natura internazionale, in cui ancor più di altri vi è la necessità di un’adeguata organizzazione internazionale dei lavoratori per riuscire ad imporre un contratto collettivo di lavoro, diciamo europeo, in grado di contrastare la spinta al ribasso nelle condizioni salariali e normative. Per far ciò occorre rompere le divisioni fra compagnie e Stati nazionali.

Il 31 luglio scorso Cub Trasporti, Air Crew Committee e Sud Aérien si incontrarono a Roma per confrontarsi sullo sviluppo delle vertenze in Air France ed Alitalia. Ma l’indirizzo della nazionalizzazione, per tornare ad avere una “compagnia aerea di bandiera”, non è un modo per avvicinarsi all’unità internazionale dei lavoratori. Questa potrà essere ottenuta solo con la forza di scioperi internazionali per obiettivi comuni. Le compagnie, nazionali o private, operano nella direzione opposta, lottando le une contro le altre nella concorrenza capitalistica. Bisognerebbe innanzitutto cominciare ad organizzare scioperi di solidarietà quando a scendere in lotta sono lavoratori di singole compagnie, in particolare di quelle in cui più alto è il grado di sfruttamento, come ad es. è successo per la Ryanair.

I lavoratori di Alitalia da soli, nella dura vertenza che stanno affrontando, non possono compiere questo percorso, questo è certo. Ma indicare loro l’obiettivo della nazionalizzazione non fa fare un passo in avanti in questa direzione ma indietro, puntella la chiusura della loro visione dei problemi nell’orizzonte aziendale.

D’altronde, che sia nazionalizzazione o privatizzazione, il contenuto di questa o di quella, in termini di condizioni d’impiego, sarà determinato solo dal grado di forza che i lavoratori saranno in grado di dispiegare, non da altro.

Il sindacato, il sindacalismo di classe, si deve attestare sulla difesa dei bisogni dei lavoratori – salario, orario, ritmi e carichi di lavoro, numero di addetti, sicurezza e salute – non aver voce nel campo gestionale dell’azienda, illudendosi di poter difendere i lavoratori consigliando il padrone. Questo è il tipico approccio del sindacalismo di regime che imposta la sua azione secondo il motto per cui “la protesta non basta, ci vuole la proposta” e richiedendo “piani industriali”, come se questi di per sé implicassero la tutela dei lavoratori.

Oltre a dividere la classe lavoratrice sul piano internazionale e a non garantire la tutela delle condizioni di vita dei salariati delle aziende interessate, la rivendicazione della nazionalizzazione danneggia l’unificazione del movimento operaio nazionale. Essa infatti va a riguardare solo i lavoratori di alcune grandi imprese, separandoli negli obiettivi dal resto della classe. I lavoratori delle grandi aziende per il fatto d’essere in maggior numero e concentrati in grandi stabilimenti, già godono di rapporti di forza relativamente più favorevoli rispetto a quelli delle aziende medie o piccole. Lo sforzo che deve operare un autentico sindacato di classe è quello di volgere questa maggior forza a giovamento di tutta la classe coinvolgendola in rivendicazioni e in un movimento di lotta comune.

Per altro è ampiamente dimostrato come tali rapporti di forza relativamente più favorevoli ai lavoratori delle grandi aziende, non siano per nulla sufficienti a garantirli da attacchi alle loro condizioni di lavoro o dal licenziamento e come l’apporto del resto della classe lavoratrice sarebbe necessario anche per loro. Questo reciproco sostegno, che altro non è che il rafforzamento dell’unità di classe, può avvenire solo sulla base di una lotta per i bisogni reali e comuni dei lavoratori, quali la difesa del salario, la riduzione dell’orario di lavoro, la riduzione dell’età pensionabile, servizi sociali gratuiti per la classe lavoratrice.

Al contrario una lotta dei lavoratori delle aziende che l’opportunismo definisce “strategiche”, al fine di ottenerne la nazionalizzazione, non può che rafforzare l’indifferenza del resto della classe alle loro sorti, anche prestando il fianco alla propaganda padronale che li descrive come “privilegiati”.

Le lotte dei lavoratori dell’Alitalia, dell’Ilva, delle acciaierie di Piombino, ecc. devono essere condotte col fine dei loro obiettivi reali e sostanziali: contro i licenziamenti e i peggioramenti delle condizioni di lavoro. A questo scopo va ricercata e costruita l’unità innanzitutto coi lavoratori dell’indotto e poi più in generale del territorio interessato e della categoria a livello nazionale (nei casi in questione degli aeroportuali e dei siderurgici). Una strada difficile, come lo è sempre la lotta di classe.

Ma l’illusione di poterla sostituire percorrendo presunte scorciatoie, appoggiandosi non al resto della classe lavoratrice ma a soggetti istituzionali, anche nell’ipotesi, comunque niente affatto garantita, che porti risultati temporanei e parziali a quel determinato gruppo di lavoratori, non fa avanzare di un passo il lavoro di costruzione dell’unità di classe, e quindi non crea i presupposti necessari per affrontare da posizioni di maggior forza le battaglie future.

 

 

 

 

 

 
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La trappola della opposizione chavista

In Venezuela, Rafael Ramírez, uno dei dirigenti chavisti e, per molto tempo, ministro del petrolio, fino a dicembre 2017 ambasciatore presso le Nazioni Unite e ora minacciato di essere indagato e incarcerato per corruzione, ha deciso di candidarsi alla presidenza criticando il governo Maduro. Ramírez sostiene che l’attuale governo, non ascoltando le sue critiche, si sia allontanato dall’ideologia politica di Hugo Chávez. Il tutto è riassunto in un articolo pubblicato sulla pagina aporrea.org intitolato “La trappola”.

Ma qual’è la trappola? La trappola, diciamo noi, è tutta la falsa “rivoluzione” del chavismo. Ramírez è stato uno degli attori secondari nello sceneggiato “Il socialismo del XXI secolo”, e ora vuole rientrare in scena come antagonista “duro e puro”.

Le masse sono come quella signora che credeva che le telenovelas fossero storie vere e che rimase sorpresa quando apparve un attore il cui personaggio era morto nella puntata precedente, o che cattivo diveniva il buono. Sia la destra sia la sinistra borghesi, nazionali e internazionali, partecipano a questa messinscena. Come ai tempi della “guerra fredda” si trasmette al popolo l’idea di trovarsi nel mezzo di uno scontro tra capitalismo e socialismo, rinforzando il tutto con messaggi patriottici e nazionalistici. Molti danni e confusione questo imbonimento ha recato e continua a portare al proletariato in tutto il mondo.

Sta emergendo dallo stesso chavismo un’alternativa elettorale. Che prenda effettivamente vigore e conquisti o meno posizioni nel governo o nel parlamento, sarebbe una alternativa per il ricambio politico borghese, come il chavismo è stata l’opzione borghese a sostituire il bipartitismo. Una destra “rinnovata”, di ricambio nel caso del declino della popolarità di chavismo.

Contro Ramírez e altri “chavisti critici” saranno lanciate campagne mediatiche diffamatorie, tipiche del chavismo, per mantenere il controllo delle istituzioni statali, ma anche per “vivacizzare” la contesa elettorale. Importante per la borghesia è che un “alternativa” appaia a portata di mano alle masse, che non sfuggano alla trappola: ogni scelte elettorale garantisce la continuità della borghesia al potere.

C’è una tale abbondanza di droghe democratiche e parlamentari (“Il socialismo è democrazia o non è socialismo”, dicono gli opportunisti) ad addormentare le masse salariate, elezioni dopo elezioni, per far loro seguire il carro della borghesia sfruttatrice, difendendo false conquiste “rivoluzionarie” o additando i “nemici” della destra per sviare il malcontento.

Ramírez cerca quindi, come qualsiasi politico, di guadagnarsi una parte dell’elettorato e per questo si presenta come coerente erede di Hugo Chavez. I proletari dovranno ancora passare attraverso dolorose scoperte, non solo che Ramírez è un opportunista, cosa che la propaganda ufficiale già proclama, ma che lo sono altrettanto quelli che oggi lo accusano; e, cosa più difficile, che il chavismo, e Chavez come sua espressione fisica, è un movimento opportunista e controrivoluzionario, che dietro i suoi discorsi nasconde la difesa degli interessi della borghesia e dell’imperialismo.

Questa comprensione non arriverà da sola né sarà spontanea, anche se la crisi capitalista e i suoi effetti sociali sui lavoratori diventano più acuti. Ci vorrà la ripresa della lotta di classe delle masse salariate al di fuori del parlamentarismo e della stantia contrapposizione tra sinistra e destra e, soprattutto un fattore chiave, il partito comunista rivoluzionario. Questo si è indebolito quantitativamente dopo decenni di controrivoluzione e di inganni come quello vissuto oggi in Venezuela.

La trappola in cui le masse salariate si trovano in tutto il mondo è ben più robusta di quello dei media borghesi e delle finte contrapposizioni parlamentari. La rivoluzione è stata sconfitta nel primo quarto del secolo scorso, né esiste un governo che si diriga verso o “costruisca” il socialismo: i governi che oggi si proclamano socialisti sono capitalisti e borghesi. Il proletariato non può stringere alleanze con alcuna borghesia nazionale né combattere un fronte imperiale alleandosi con l’altro.

L’uscita dalla trappola borghese può essere solo la rivoluzione proletaria. Per questo bisogna lavorare, senza volontarismi e senza cadere nell’attivismo che conducono sempre nel campo opportunista.

In Venezuela nel 2018 la crisi economica peggiorerà.

La partecipazione di diversi organi militari nel controllo delle aziende interessa circa il 70% dell’economia, e questa centralizzazione del potere borghese si rafforzerà. La crescita dell’inflazione continuerà a ridurre il salario reale dei lavoratori, che è già diminuito di almeno il 60% nel 2017; la crescita dei prezzi continuerà e sarà più evidente l’incapacità del governo di controllarli, nonostante i suoi costanti annunci; la crisi darà spazio alla speculazione, ai licenziamenti e al deterioramento delle condizioni di sicurezza ed igiene.

Ogni protesta sarà repressa. Anche se Nicolas Maduro, che ha annunciato che il 2018 sarà “l’anno della pace”, cercherà di distribuire qualche briciola clientelare a fini elettorali, dovrà fare ricorso alla repressione, che il chavismo tiene pronta da sempre.

Gli attuali sindacati manterranno la loro complicità con la borghesia, frenando la protesta e l’organizzazione di base degli operai. Faranno coro col governo e il padronato a chiedere aumenti della produzione e della produttività.

Un movimento di opposizione di classe deve porre alla sua base:
     1. Ripresa della lotta operaia. Una piattaforma rivendicativa che comprenda: aumenti dei salari, riduzione della giornata lavorativa (passare a 30 ore settimanali con turni lavorativi di 6 ore), eliminazione dei buoni spesa da incorporare nel salario, riduzione dell’età della pensione a 50 anni per entrambi i sessi, passaggio a contratti a tempo indeterminato nelle aziende, l’eliminazione del lavoro straordinario; per gli insegnanti massimo di 15 studenti per classe; miglioramento delle condizioni di igiene negli ambienti di lavoro; sostegno alle donne lavoratrici con asili nido, lavanderie e mense industriali.
     2. Inquadramento dei lavoratori al di fuori degli attuali sindacati. Organizzazione locale nello stesso sindacato di lavoratori di diverse aziende, industrie e mestieri.
     3. Promuovere l’agitazione e la mobilitazione sindacale con l’indirizzo dello sciopero generale.
     4. Rifiuto delle soluzioni borghesi, della illusione di trovare l’uscita dalla crisi con le elezioni presidenziali o con l’azione golpista di qualche gruppo militare. Rifiuto della difesa della patria e dell’economia nazionale.








Rohingya piccolo popolo stretto fra gli egoismi borghesi di nazioni e di imperi

Dalla fine di agosto all’elenco di atrocità e violenze che quotidianamente caratterizzano l’attuale e mondiale sistema sociale, il capitalismo, va aggiunto quanto accaduto in Myanmar, la ex Birmania, dove l’esercito del nuovo democratico governo ha scatenato la pulizia etnica contro i rohingya, una popolazione che risiede nella regione del Raknhine – una volta chiamata Arakan – Stato occidentale della Birmania che si affaccia sul golfo del Bengala.

I rohingya, di religione islamica sunnita, sono circa un milione e mezzo, presenti, oltre che in Myanmar, anche in Arabia Saudita, Pakistan, Thailandia, Malesia ed India.

La loro provenienza è incerta, per alcuni storici sono presenti in Birmania dal XII secolo. Sicuramente presenti nel 1785, anno dell’invasione birmana quando, insieme ad altre popolazioni indigene, dovettero abbandonare la regione, che rimase praticamente disabitata fino all’arrivo della colonizzazione inglese, nel 1824. Da allora, e con il passare degli anni, l’impero Britannico, avendo bisogno di manodopera agricola, favorì il ripopolamento, in particolare attingendo dal vicino Bengala: migliaia di rohingya si stabilirono così in Raknhine. Censimenti inglesi antecedenti la Prima Guerra mondiale riportano che circa 200.000 musulmani furono impiegati in Arakan. Sempre in quegli anni vi vennero deportati anche molti indiani, aumentando i conflitti nella regione.

Durante la Seconda Guerra mondiale, con l’invasione giapponese, gli inglesi armarono i rohingya, che però vennero sconfitti e in parte scapparono a Chittagong, oggi grande città del Bangladesh.

Prima della indipendenza della Birmania, avvenuta nel 1948, provarono, senza successo, a separarsi per unirsi al Bangladesh, allora Pakistan orientale.

Con la dichiarazione di indipendenza, iniziarono scontri fra governo centrale e comunità rohingya in un crescendo che arrivò ad un massimo negli anni ‘70. Già allora circa 200.000 rohingya dovettero fuggire in Bangladesh, con sofferenze immaginabili.

Scontri e violenze si sono susseguiti negli anni, tanto sotto il governo democratico quanto sotto il regime militare che, preso il potere nel 1962, discriminò duramente i rohingya dichiarati “individui alieni al Myanmar”.

In Birmania oggi sono presenti e riconosciute circa 130 etnie, ma non quella rohingya. Per una legge del 1982 non possono avere la cittadinanza birmana e non è consentito loro possedere terreni né viaggiare senza un permesso ufficiale. Di fatto in Birmania, con il 90% della popolazione buddista, sono considerati immigrati bengalesi irregolari.

Negli anni, per sottrarsi alle persecuzioni, in migliaia sono fuggiti in Bangladesh, Malesia e Thailandia. Nel febbraio 2009 un gruppo di profughi, salvato dalle autorità indonesiane, ha raccontato le violenze subite e l’abbandono in mare aperto di diverse di imbarcazioni. Nel 2015 circa 25.000 rohingya cercarono di fuggire via mare, per dirigersi verso Malesia ed Australia; si verificarono diversi episodi di “imbarcazioni fantasma” su cui trafficanti senza scrupoli ammassavano intere famiglie prima di lasciarle in balia delle onde.

Nel 2013 è nato il movimento Arakan rohingya salvation army (Arsa) costituito prevalentemente da giovani che hanno imbracciato le armi. Adeguatamente equipaggiati nel loro primo attacco, nel 2016, hanno ucciso 9 poliziotti. Nel corso degli anni ARSA, che richiede una generica indipendenza, ha stretto legami con gruppi terroristici pakistani. Alcuni rohingya combattono in Kashmir al fianco dei ribelli pakistani.

In ritorsione ad una serie di attacchi a stazioni di polizia di frontiera effettuati dall’ARSA, nell’ottobre 2016 è iniziata una campagna militare che ha raggiunto il suo apice a partire dal 25 agosto scorso. Da quel giorno l’esercito ha bruciato circa trecento villaggi e ucciso centinaia di civili.

Nel confinante Bangladesh, con il passare delle settimane, sono arrivati oltre cinquecentomila profughi, circa la metà di quella popolazione. Stimata in quanto i rohingya sono stati esclusi anche dall’ultimo censimento fatto dal governo birmano nel 2014. Il Bangladesh che li accoglie in precari campi profughi, attualmente non è disposto a concedere loro la cittadinanza.

La borghese “comunità internazionale” non ha tardato a riempire le pagine dei giornali fingendo di scandalizzandosi, da lontano, per le atrocità commesse dall’esercito birmano.

L’azione dalle forze armate di Min Aung Hlaing, comandante dell’esercito birmano, che di fatto controlla ancora il paese, sono state tollerate e difese da Aung San Suu Kyi, già idolo e grande paladina borghese della non violenza e della democrazia, nominata nel 1991 Nobel per la pace! Altri membri del governo del partito della paladina ex-martire dei “diritti umani”, hanno raccontando che a bruciare i loro villaggi sarebbero stati gli stessi rohingya!

La Birmania è un paese buddista. Quel buddismo, dal 1961 proclamato religione di Stato, che dagli scimuniti piccolo-borghesi occidentali è ritenuto “di pace”, “compassionevole” e “tollerante”. Invece la realtà vuole che ogni religione, in qualsiasi latitudine, si plasmi ad immagine e difesa della classe dominante, ed oggi a sostegno del capitalismo. Ovunque le religioni sono un prezioso strumento di conservazione e di propaganda nazionalista. Non ci stupisce quindi che in Myammar chiese buddiste ispirino e formino squadracce in panni arancione che, in proprio o insieme all’esercito e alla polizia, partecipano alle persecuzioni e a terrorizzare gli “infedeli”, nonostante le buone, sagge e rassicuranti parole del Dalai Lama in mondovisione.

Lo stesso Papa cattolico, francescano, che a molti sinistri piace, quando in terra birmana ha accettato di non pronunciare la parola rohingya in quanto «l’esercito non avrebbe gradito»: d’altra parte era lì per difendere “i suoi”, mica gli altri!

In Birmania, di questi santi bonzi sono tra i fondatori del Movimento 969 mutatosi Ma Ba Tha, Comitato per la Protezione della nazionalità, che predica l’osservanza religiosa, chiede la proibizione dei matrimoni misti e il boicottaggio dei negozi dei musulmani. Uno dei capi riconosciuti, il monaco Ashin Wirathu, col sistematico uso delle reti sociali semina odio tra la popolazione, affermando che «il Paese diventerà musulmano se ci mostreremo deboli, i musulmani controllano l’economia e mirano a cancellare il buddismo e la cultura birmana in pochi anni». Questa incessante propaganda ha dato i suoi frutti: la maggioranza della popolazione birmana teme i rohingya, essendo riuscita così la classe dominante a rinchiudere i proletari e i diseredati dentro il nazionalismo, ferrea prigione per gli oppressi di tutto il mondo.

Se questioni etniche, storiche e di religione hanno sicuramente un peso anche negli odierni avvenimenti, spesso volutamente enfatizzato, le cause veramente agenti vanno ricercate in ineluttabili ragioni economiche, e negli innumerevoli scontri che suscitano tra potenze regionali e tra gli imperialismi, oltre che tra le classi.

Myanmar possiede petrolio, gas ed altri minerali. Nell’ultimo decennio, nonostante la crisi internazionale, è riuscito ad incrementare il suo sviluppo economico soprattutto grazie ad investimenti di capitale straniero, attratti dalle risorse minerarie, agricole e in particolare il legname. I militari hanno espropriato diverse terre, tra cui molte ai rohingya, attraverso una legge ad hoc, la Foreign Investment Law, emanata nel 2012, che ha permesso l’acquisizione di terreni da parte di grandi capitali stranieri.

Inoltre è in una posizione strategica in particolare per l’imperialismo cinese, che da tempo ha messo gli occhi sul Rakhine, poco sviluppato, pertanto più appetito dai capitali. Ma determinante è il fatto che la Nuova Via della Seta passa proprio su quest’area che apre allo Yunnan, provincia cinese che confina con la Birmania, lo sbocco all’Oceano Indiano. La Cina all’interno del suo grande progetto One Belt One Road, ha stipulato un accordo con la Birmania per il porto di Kyauk Phyu, sulla Baia del Bengala, sempre nel territorio dei rohingya. Un’infrastruttura faraonica che permetterà un percorso alternativo per le importazioni di gas e petrolio dal Medio Oriente, evitando lo stretto di Malacca. Quella che una volta veniva chiamata “Burma road” è un percorso terrestre, già oggi percorribile da convogli ferroviari, decisamente più breve e meno costoso del percorso via mare.

La Cina già oggi è il più grande investitore nel paese, anche dopo l’elezione della democratica Aung San Suu Kyi che, contrariamente alle aspettative americane, ha rafforzato i legami con la Cina. Non è un caso che negli ultimi anni diverse compagnie cinesi abbiano vinto numerosi appalti in settori strategici come quello energetico.

Non c’è da stupirsi quindi se la Cina si sia schierata ufficialmente a fianco del governo di Myanmar dichiarando che non voterà alcun tipo di sanzione o provvedimento in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alla borghesia cinese si è accodata la russa, coscienti azioni queste a difesa dei rispettivi interessi imperialistici.

Anche il primo Ministro indiano Narendra Modi si è detto disposto a deportare i circa 40 mila Rohingya residenti in India. La costa dello Stato del Rakhine è infatti di interesse anche della borghesia indiana, che anni fa vi ha finanziato la costruzione del porto di Sittwe, terminale del progetto Kaladan Multi-Modal Transit Transport Project (KMTTP), un’infrastruttura che, completata, collegherà via mare il porto di Calcutta in India con quello di Sittwe nello Stato di Rakhine, poi fino a Paletwa sul fiume Kaladan ed infine su strada fino al Mizoram, Stato dell’India nordorientale senza sbocco al mare, stretto tra il Bangladesh e la Birmania.

Ma anche gli Stati Unti hanno cercato di accrescere la loro influenza nel Paese intervenendo attivamente a sostegno di Aung San Suu Kyi, per cercare di controllare, quantomeno parzialmente, la crescente influenza cinese. Da quando, nel 1988, il Myanmar ha riaperto la possibilità di accogliere capitale straniero, gli Usa hanno investito oltre 300 milioni di dollari in decine di progetti. Tuttavia, l’interesse principale degli Stati Uniti sembra esser oggi prevalentemente di carattere strategico, considerando che la Repubblica di Myanmar si trova in un contesto geopolitico importante, in mezzo a due Nazioni che hanno uno sviluppo determinante per gli equilibri regionali e mondiali del capitalismo.

Nessuna soluzione nel capitalismo

È quindi più che evidente che all’interno del capitalismo non solo non vi sono soluzioni per i disperati rohingya.

Quanto sta accadendo in Myanmar non è una eccezione ma la ineluttabile regola posta da questo sistema sociale che è sofferenza e morte per milioni di esseri umani. È sempre più evidente come il capitalismo non può assicurare un reale miglioramento delle condizioni di vita ai suoi “schiavi proletari”, siano essi nel più povero paese africano, nella ricca Los Angeles o sul golfo del Bengala. Il mito borghese e democratico di una crescita graduale ma continua del benessere all’interno della società capitalistica è evidentemente una menzogna, è miseria e guerra permanente. E attende solo guerra mondiale, salvifica per il Capitale.

La forza oggettiva del Comunismo, nuova forma di produzione, preme nel ventre di questo sistema sociale e impone la storia davanti al consueto bivio: o guerra o rivoluzione, l’alternativa che il secolo passato ha posto al proletariato mondiale e che si ripresenterà inevitabilmente nel nuovo.

 

 

 

 


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Dietro la sceneggiata del 19° Congresso del Partito Comunista (!) Cinese
La potenza, e le fragilità, di un grande imperialismo

I commenti della stampa borghese al 19° Congresso del Partito Comunista Cinese sono concordi nell’esaltare la conferma del potere del presidente cinese Xi Jinping, consacrato terzo più potente nella storia della Repubblica Popolare dopo Mao Zedong e Deng Xiaoping. Il compassato The Economist gli ha dedicato la copertina, “l’uomo più potente del mondo”.

Ancora una volta l’impotenza borghese dimostra di aver bisogno di sognare grandi capi. Senza distinzione di parte politica tutti concordano nell’attribuire influenze determinanti sugli eventi passati e sui futuri all’opera e alle personali qualità dei mutevoli Presidenti. Per la borghesia e i suoi pennivendoli i processi storici sarebbero governati da capi geniali, perfidi o illuminati, e si esaltano e si prostrano in reverente ammirazione dinanzi a qualche personaggio in realtà più che banale. Più la società capitalistica è in putrefazione più si diffonde la religiosa convinzione che solo da questi grandi uomini bisogna attendere salvezza, o rovina. A determinare la storia sarebbero gli “uomini del destino” nel loro alternarsi al vertice degli Stati, non importa se attuato col metodo americano, russo o cinese.

Per noi questi grandi leaders sono solo “battilocchi”, «un tipo che richiama l’attenzione e nello stesso tempo rivela la sua assoluta vuotaggine». Il marxismo ha da sempre individuato la funzione degli uomini all’interno del processo sociale e in particolare sul ruolo di determinate grandi personalità. Scrive Engels: «Che un dato grand’uomo, e proprio quello, sorga in quel determinato tempo e in quel determinato luogo, è naturalmente un puro caso. Ma, se lo eliminiamo, c’è subito richiesta di un sostituto, e questo sostituto, bene o male, si trova, alla fine si trova». Il marxismo individua il vero motore della storia nelle necessità economiche materiali delle classi all’interno di un determinato modo di produzione e nella loro lotta sociale. Sono le circostanze che richiedono l’apparizione e il successo di determinati individui, è la storia che gioca con questi “superuomini”, non il contrario.

Già nel 1924, quasi un secolo fa, affermammo che «la nostra teoria del capo è molto lungi dalle cretinerie con cui le teologie e le politiche ufficiali dimostrano la necessità dei pontefici, dei re, dei “primi cittadini”, dei dittatori e dei duci, povere marionette che si illudono di fare la storia».

Fa quindi parte delle necessità del capitalismo in Cina che la “visione politica” di Xi Jinping sia stata aggiunta nella Costituzione del Partito come “pensiero di Xi Jinping”, il che fino ad ora era stato riservato solo a Mao Zedong; nel 1997 era entrata a far parte della Costituzione del Partito la “teoria di Deng Xiaoping”, che però era già morto. Mao, Deng e ora Xi, celebrati “grandi timonieri”, per la concezione marxista non rappresentano altro che tre diverse fasi della storia della nazione cinese.

Da Mao a Deng
Indipendenza nazionale e sviluppo del capitalismo

La Cina, che oggi si profila come potenza capitalistica mondiale, capace di competere con le vecchie potenze arrivate ad esserlo da secoli, all’inizio del Novecento si presentava in condizioni miserevoli a causa delle imposizioni degli Stati imperialisti, che arrivarono alla vergogna delle Guerre dell’Oppio.

A differenza dell’India e di altri paesi coloniali, la Cina era entrata nella storia moderna come la “colonia di tutti”. Ben presto l’esportazione di capitali in Cina prevalse su quella dei prodotti industriali, e per proteggere i loro investimenti le grandi potenze si accordarono per la spartizione del paese in sfere d’influenza. A Pechino l’insieme del corpo diplomatico disponeva delle finanze dello Stato.

Il dominio imperialistico, che prima aveva indebolito la dinastia imperiale per poi eliminarla completamente, aveva prodotto in Cina lo smembramento del territorio che, privo di un potere centrale, si trovava diviso in varie regioni sottomesse al dominio dei cosiddetti Signori della Guerra, capi militari assoldati dalle potenze imperialistiche e che detenevano il potere fondandosi su eserciti mercenari formati da contadini senza terra. Il controllo di una regione da parte di un Signore della Guerra corrispondeva alla sfera d’influenza della potenza straniera che lo sosteneva. I Signori della Guerra proteggevano gli interessi dell’imperialismo e della borghesia compradora sfruttando il proletariato delle città e delle campagne e appropriandosi di ogni ricchezza del paese. La debole borghesia nazionale, pur conscia della necessità di liberarsi dall’oppressione imperialista e di ristabilire l’unità territoriale della nazione, non disponeva delle forze necessarie per ottenere i suoi scopi.

La Cina di inizio secolo, gravida della rivoluzione borghese, aveva dunque di fronte a sé non solo l’imprescindibile compito di conquistare l’indipendenza nazionale, ma anche quello di attuare la riforma agraria, premessa dello sviluppo industriale. Restava in sospeso se a realizzare questi compiti sarebbe stata la borghesia o il proletariato.

Nel 1911 una rivoluzione dall’alto aveva abbattuto la dinastia imperiale ed instaurato la repubblica borghese sotto la presidenza di Sun Yat-sen. Ma ben presto ne emerse l’inconsistenza; la neonata Repubblica fu immediatamente affossata dall’intervento dei Signori della Guerra, sollecitato dalla stessa borghesia, che così dimostrava di non essere in grado di assolvere neppure i compiti della propria rivoluzione borghese. Questo principalmente nel timore di non poter controllare le potenti forze dei proletari e dei contadini che inevitabilmente il processo rivoluzionario avrebbe messo in movimento. La borghesia dunque era contro i Signori della Guerra ma nello stesso tempo era legata ad essi e se ne serviva nella repressione del movimento proletario. Nel 1911 Sun Yat-sen infatti spontaneamente abbandonò il potere nelle mani dei Signori della Guerra. Era chiaro che, come in Russia, la borghesia nazionale con le proprie forze non sarebbe stata in grado di condurre a buon fine la sua rivoluzione.

Intanto un fatto nuovo iniziava ad avere una influenza determinante sugli eventi mondiali. La Prima Guerra mondiale aveva prodotto in Russia la rivoluzione, e la vittoria del proletariato nell’Ottobre del 1917 aveva letteralmente sconvolto il mondo, ponendo tutti i paesi di fronte all’alternativa: rivoluzione comunista o controrivoluzione borghese. Il senso di tutte le Tesi dell’Internazionale Comunista sulla questione coloniale è collegare la lotta di classe nelle metropoli alle rivoluzioni nazionali nelle colonie, con la Russia comunista al centro, in una unica strategia mondiale che, in un ciclo complesso, si sarebbe conclusa solo con il rovesciamento in tutto il mondo del capitalismo. Come in Russia la classe operaia, in alleanza con i contadini poveri, si era strappata dal collo la catena del potere dei capitalisti e dei fondiari e aveva posto fine alla guerra imperialista, mentre in Occidente si poneva all’ordine del giorno la questione della pura rivoluzione proletaria, nei paesi arretrati come la Cina si sarebbe potuto e, per i comunisti rivoluzionari dovuto, ingaggiare direttamente la lotta per una doppia rivoluzione diretta dai comunisti nella forma di un regime di soviet.

L’abbattimento dal suo interno del potere proletario in Russia, con l’affermazione dello stalinismo, mise fine a questa prospettiva. La controrivoluzione trionfante nel mondo e in Russia consegnò anche il proletariato cinese nelle mani della borghesia. Nel periodo dal 1923 al 1927 lo stalinismo, che si ergeva a forza dominante in Russia e nell’Internazionale, impose che il Partito Comunista Cinese si sottomettesse alla direzione del partito nazionalista borghese, il Kuomintang, perdendo così ogni possibilità di lotta indipendente, necessaria per la vittoria rivoluzionaria.

I generosi tentativi rivoluzionari degli operai e dei contadini cinesi furono soffocati nel sangue. Il tragico epilogo si ebbe nel 1927. Nel marzo di quell’anno il proletariato di Shanghai, la città portuale più importante della Cina, dal punto di vista industriale e commerciale, particolarmente numeroso e combattivo, era riuscito con una insurrezione a prendere il potere nella città. Per la posizione dominante di Shanghai nella vita economica della Cina, questo episodio avrebbe potuto imprimere alla rivoluzione cinese, dato lo sviluppo che il movimento rivoluzionario operaio e contadino andava assumendo, una direzione decisamente antiborghese. Il Partito Comunista e le organizzazioni operaie che avevano in mano il potere, invece, sottomettendosi alle direttive di Mosca, lo cedettero a Chiang Kai-shek, che poco dopo spezzò l’alleanza con i comunisti e passò alla repressione aperta, imprigionando e massacrando comunisti e operai, distruggendo le loro organizzazioni politiche e sindacali. I massacri di Shanghai erano solo l’inizio di altri massacri che si abbatterono sugli operai e sui contadini in rivolta.

Il 1927 rappresenta la vittoria della controrivoluzione e e la sconfitta del movimento proletario rivoluzionario in Cina.

Un movimento rivoluzionario riprenderà solo dopo la seconda guerra mondiale, partendo dalle zone agricole e più arretrate della Cina, con un carattere di classe del tutto diverso, nazionalista ed antimperialista, non comunista.

Fu da quelle regioni che le armate contadine di Mao dilagarono a conquistare le città. Gli avvenimenti successivi e il carattere stesso della rivoluzione cinese, che nel 1949 porterà alla costituzione della Cina in Stato nazionale indipendente, si spiegano solo alla luce dei tragici avvenimenti degli anni Venti. Infatti la sconfitta del proletariato cinese e la repressione a cui fu sottoposto favorirono il trasferimento del moto rivoluzionario delle città alle campagne e il completo rovesciamento del suo carattere dal punto di vista di classe. Il successivo movimento rivoluzionario in Cina vede il proletariato completamente assente e si qualifica come un movimento piccolo borghese e contadino, chiuso nell’ambito della rivoluzione nazionale. Il partito che diresse questo movimento, anche se continuò a chiamarsi Partito Comunista, di comunista non aveva più nulla: era diventato nelle sue parole stesse il “vero Kuomintang”, cioè il vero rappresentante degli interessi della borghesia e della piccola borghesia nazionalista cinese. La base sociale del PCC era costituita da contadini e il suo principale obiettivo divenne la realizzazione dell’unità e dell’indipendenza nazionale, in nome non della dittatura proletaria, ma del “Blocco delle quattro classi”, cioè dello sviluppo borghese.

Benché noi definiamo reazionario il partito di Mao per aver abbandonato la tattica della rivoluzione doppia e la linea maestra che avrebbe portato all’affermazione storica del proletariato, la vittoria finale del PCC sul Kuomintang e l’instaurazione della Repubblica Popolare Cinese ha costituito un passo essenziale dal punto di vista dell’instaurazione del moderno capitalismo, che ha permesso, in un lungo e tormentato processo, l’enorme sviluppo dell’economia cinese e dunque di un moderno proletariato potente ed accentrato, futuro affossatore della società borghese.

La rivoluzione nazionale cinese fin dall’inizio dovette assolvere al suo compito storico di sviluppare il capitalismo, di favorire il commercio e l’industrializzazione dell’immenso paese, dominato da uno sconfinato ed arretrato mondo rurale. Sebbene traditori e falsificatori abbiano annunciato la “costruzione del socialismo” in Cina e altrove, il nostro Partito ha sempre ribattuto che tale “socialismo” altro non poteva significare che l’accumulazione del capitale e l’estensione di un’economia di mercato.

Sottolineammo però la grande portata storica di quegli eventi, e la figura di Mao rientrava in questo grandioso processo storico. Il “pensiero di Mao” non era nient’altro che l’espressione della rivoluzione democratico-borghese in Cina e della controrivoluzione proletaria mondiale.

Il processo di accumulazione del capitale in Cina aveva come necessarie premesse materiali l’unificazione nazionale, la costituzione di un mercato interno per lo scambio mercantile tra città e campagna, lo sviluppo di rapporti economici capitalistici, appunto basati sul lavoro salariato, associato e meccanizzato, nella prospettiva della vera e propria industrializzazione. Quindi il programma economico di Mao sostanzialmente consisteva nella statalizzazione delle grandi aziende e delle banche e nell’attuazione di una riforma agraria. Nonostante l’estremismo del verbo maoista, che esaltava la via cinese al socialismo saltando la fase capitalistica, era un programma che corrispondeva esattamente al programma della rivoluzione democratico-borghese. Il programma maoista si differenzia leggermente da quello del Kuomintang, aggiungendo ai “tre principi del popolo” di Sun Yat-sen (nazionalismo, democrazia e benessere) alcune misure come la giornata lavorativa di otto ore e una riforma agraria che veniva definita “radicale”.

La riforma agraria

Il primo importante atto della Repubblica Popolare Cinese fu infatti la Legge Agraria del giugno 1950. Questa riforma era perfettamente compatibile con il regime borghese, ne citiamo il primo articolo che non lascia alcun dubbio al riguardo: «Il regime del possesso della terra da parte dei contadini sarà instaurato allo scopo di liberare le forze produttive nelle campagne, di accrescere la produzione agricola e di preparare il cammino dell’industrializzazione della nuova Cina».

La riforma parve inizialmente realizzare il sogno millenario di una ripartizione egalitaria delle terre. La nuova Legge garantiva a ogni individuo che avesse compiuto i 16 anni un minimo da 2 a 3 mu di terra (un mu equivale a circa un quindicesimo di ettaro) a seconda delle regioni. In pratica, una famiglia di cinque persone doveva quindi poter disporre di un ettaro circa. Le attribuzioni di terra davano al nuovo proprietario anche i diritti di acquisto, di vendita e di affitto. La distribuzione della terra fu fatta innanzitutto a detrimento dei proprietari fondiari, le cui terre, animali da tiro, materiale agricolo, eccedenze di grani e di costruzioni rurali vennero confiscate senza compenso (essi conservavano tuttavia il diritto di ricevere come tutti da 2 a 3 mu di terra). Salvo in casi eccezionali le terre dei contadini ricchi, coltivate da loro stessi con l’aiuto di manodopera salariata, ed anche gli altri loro beni, erano protetti e non potevano essere toccati, così come protetti erano tutti i piccoli lotti di terra da loro posseduti e dati in affitto. Mentre le terre dei contadini medi compresi i più agiati di loro, erano inviolabili senza eccezione alcuna. In questo modo quasi la metà della superficie coltivata (47 milioni di ettari) fu ripartita fra 300 milioni di contadini, poco più di 0,15 ettari a testa, appunto 2,3 mu.

Ma la ripartizione della terra non poteva costituire per la Cina la soluzione della questione agraria. Da secoli la campagna cinese era estremamente parcellizzata: infatti la terra, anche se posseduta da un esiguo numero di proprietari fondiari, era data in affitto in piccoli lotti ai contadini. La terra era dunque già divisa, ed una sua ulteriore massiccia ripartizione non avrebbe risolto alcun problema. Per questo fino al 1927 la rivendicazione del proletariato rivoluzionario era stata quella della nazionalizzazione, che avrebbe facilitato la formazione di grandi aziende statali condotte da lavoratori salariati e con l’impiego di mezzi tecnici moderni. La parola d’ordine della ripartizione era la tipica rivendicazione dei contadini medi, cioè di quei contadini che già coltivavano un piccolo lotto di terra e che volevano liberarsi del pesante affitto dovuto al proprietario. Con la riforma l’affitto fu sostituito da una tassa statale che ammontava al 17-19% del valore del raccolto.

Se la riforma agraria aveva eliminato i proprietari terrieri e parte dei contadini ricchi, con la distribuzione di tutta la terra dei primi e parte della terra dei secondi, liberando così i contadini affittuari dalla necessità di pagare il canone al proprietario fondiario, tali innegabili vantaggi non potevano realizzare alcuna minima modifica dei rapporti di produzione nelle campagne, proprio per l’eccessiva parcellizzazione della conduzione agricola e per l’estrema arretratezza della struttura tecnica e delle modalità produttive agrarie che cozzavano con le esigenze di accumulazione di capitale.

La divisone delle terre, se portò ad un miglioramento immediato delle condizioni di vita dei contadini, non provocò nessun accrescimento delle forze produttive e non mise a disposizione eccedenze agricole. I contadini si preoccuparono soprattutto di raggiungere un tenore di vita migliore e la conduzione dei piccoli appezzamenti rimase ai metodi arretrati in uso da millenni. Così quando lo Stato borghese batté cassa, le campagne non solo non risposero, in quanto il surplus agricolo (valutato in circa 30 milioni di tonnellate di cereali) venne assorbito dai contadini. Già erano però apparsi significativi segni di polarizzazione sociale, con la compra-vendita di terre, l’usura ecc.

La sconfinata piccola produzione familiare contadina era divenuta la palude che bloccava i progetti di rapida industrializzazione. La bassa produttività della conduzione agricola parcellizzata era incapace di assolvere pienamente al compito schiettamente borghese di formazione e sviluppo del mercato nazionale, non era in grado di fornire alle città plusvalore e eccedenze di prodotti agricoli necessari all’industrializzazione ed a sfamare un accresciuto esercito di proletari. L’industrializzazione veniva frenata dalla campagna arretrata, senza macchine e capitali.

Sia per ovviare a questi sfavorevoli fatti materiali, sia per timore di non riuscire a controllare le differenze sociali che si manifestavano nelle campagne, verso la metà degli anni Cinquanta il regime lanciò il movimento delle cooperative e delle Comuni. Le sconvolgenti campagne di massa che furono organizzate si ispiravano ai vecchi principi sempre presenti nella millenaria storia cinese: la collettività è superiore all’individuo e la supremazia incontestabile spetta allo Stato centrale. Ma il punto fondamentale su cui si basavano queste iniziative era nell’aver individuato l’unica ricchezza dell’arretrata Cina nei suoi milioni di uomini. Si fece dunque leva sulle energie e sugli interessi diretti delle masse contadine, che si invitarono ad assolvere ad un nuovo immenso compito: non fornire allo Stato centrale plusvalore e maggiori derrate per lo sviluppo del settore industriale, ma surrogarlo con una piccola industria di villaggio che avrebbe utilizzato le risorse tecniche ivi disponibili e la forza lavoro eccedente il lavoro nei campi e nelle stalle.

Ma le fatiche delle comunità contadine per rispondere a questi nuovi compiti non solo non produssero capitali eccedenti ma giusero spesso ad un completo fallimento. Anche per le cattive condizioni meteorologiche e climatiche, si risolsero in un disastro che provocò nuova fame e miseria. Le forze produttive, che non si fanno dominare dalla volontà dei governi né dalla personalità di uomini più o meno grandi, imposero il loro passo; un brusco contraccolpo scosse un regime che fino ad allora si era mantenuto stabile al potere. Il fallimento di queste gigantesche campagne di massa, il Grande Balzo in Avanti e il movimento delle Comuni, ebbe come conseguenza una prima aspra crisi nel regime di Pechino che però, forse ancora per la forza e il prestigio della grande vittoria di un decennio prima, riuscì a mantenere integra e salda la propria struttura di Partito e di Stato. Mao Zedong dovette lasciare la carica di Presidente della Repubblica a Liu Shaoqi, il che non era una semplice sostituzione di uomini, al contrario era la iniziale manifestazione dello scontro di enormi forze sociali che per quasi vent’anni, con vicende più o meno cruente e spettacolari, tra cui la cosiddetta Rivoluzione Culturale, avrebbero percorso gli immensi spazi della Cina.

Il fallimento di quella prima mobilitazione maoista ridette forza a tesi già prospettate negli anni Cinquanta e bollate come di “destra”. Il problema più profondo e certo più minaccioso per la crescita e lo sviluppo della Cina fin dalla fondazione della Repubblica era una struttura della società ancora prevalentemente agricola. In essa dominavano forme di autosufficienza alimentare e artigianale di villaggio, che impedivano la fluidità necessaria nel rifornire di materie prime l’industria. All’industria occorreva che aumentasse la produttività del mondo agrario e che questo producesse per il mercato e non per il consumo diretto. D’altra parte l’industria nazionale, a causa del suo insufficiente sviluppo, era impotente a fornire alle campagne gli strumenti necessari a quella meccanizzazione e modernizzazione, che avrebbe potuto permettere un aumento della produttività.

Il superamento del ritardo dello sviluppo industriale in Cina aveva tra i suoi presupposti l’espropriazione di decine di milioni di contadini, costretti ad abbandonare la terra, e, privati dei mezzi di sostentamento, a riversarsi nelle periferie delle città avviando così la loro proletarizzazione. Ma un rapido processo in questo senso, terrorizzava il Partito Comunista al potere per la difficoltà di gestirlo e controllarlo evitando di mettere in pericolo l’ordine costituito.

Per risolvere questo problema, già a partire dagli anni Cinquanta si erano distinte due tendenze principali all’interno del PCC: una più decisa a venire rapidamente a capo della questione agraria procedendo alle riforme necessarie ad introdurre il sistema capitalistico anche nell’agricoltura; l’altra più preoccupata per gli effetti che queste avrebbero potuto provocare, più conservatrice e meno frettolosa di attuarle. Quest’ultima tendenza non dimenticava che la recente ascesa al potere del PCC era stata possibile per l’appoggio deciso dei contadini, di cui non poteva perdere il sostegno. Questa aveva cercato con il Grande Balzo in Avanti di raggiungere il traguardo dell’industrializzazione per la strada “contadina”, attraverso mobilitazioni forzate e gratuite di forza lavoro, mobilitazioni che richiedevano, non per pose estetiche ma per intima necessità, una società fortemente egualitaria e assolutamente collettiva, che combattesse ogni “individualismo” ed evitasse la polarizzazione sociale.

La tendenza cosiddetta di “destra”, quella più aperta alla necessità di introdurre riforme, sosteneva che, poiché lo Stato non era in grado di finanziare l’introduzione di capitali nelle campagne se non in misura del tutto insufficiente, sarebbe dovuta essere una parte dei contadini stessi ad assolvere questo compito storico arricchendosi di terre, macchine e capitali. Si sarebbe dunque dovuto invitare i contadini a commerciare ed arricchirsi in modo che lo Stato, attraverso le tasse e i prelevamenti potesse a sua volta irrobustire il suo apparato di controllo e mantenere nelle sue mani le formidabili leve del monopolio del commercio dei cereali e dei permessi di residenza e di spostamento della popolazione per impedire eccessivo ed incontrollato urbanesimo.

Le due linee che si scontravano, benché fossero definite di sinistra e di destra, corrispondevano entrambe alle esigenze dell’economia nazionale, alla necessità di sviluppare il capitalismo ed erano entrambe linee borghesi. Nonostante le differenze, concordavano sulla necessità di destinare ogni risorsa alla riproduzione ed alla accumulazione di capitale. Posteriormente possiamo affermare che la cosiddetta linea di “destra” intravvedeva una prospettiva più sicura e veloce di industrializzazione, decisa a precipitare velocemente buona parte dell’immensa classe contadina nel girone infernale della proletarizzazione e del lavoro salariato. Singificava tornare senz’altro all’azienda privata nelle campagne, con piena libertà di vendere la terra, di comprarla, di darla in affitto, per favorire una relativamente rapida rovina ed espropriazione della maggioranza dei contadini, con una finale formazione di un’agricoltura moderna, meccanizzata, fondata su grandi aziende a conduzione privata.

La Rivoluzione Culturale nella seconda metà degli anni Sessanta significò invece il tentativo delle linea più conservatrice di frenare i riformisti, che si videro espulsi dai loro posti di direzione. Le affermazioni propagandistiche e le frasi celebri devono essere decifrate nel contesto della lotta fra le forze economiche in atto: fu detta Rivoluzione Culturale perché erano gli ambienti piccolo borghesi studenteschi e degli insegnanti quelli che meglio accolsero e si fecero mobilitare dalla frazione maoista del partito e dello Stato.

Per l’affermazione definitiva della linea “riformista” la Cina dovette aspettare l’XI Congresso del PCC dell’agosto 1977, che sancì la scalata al potere di Deng Xiaoping. Si concludeva così l’epopea romantica della rivoluzione nazionale cinese che per oltre 60 anni aveva scosso l’immenso paese, e si aprivano allora per la Cina pagine ben più pragmatiche. Riposti miti e illusioni, si affermò il solo imperativo categorico del produrre di più, dello sviluppo delle forze produttive, della riduzione dei tempi e dei costi di produzione, dell’estensione costante e sicura del capitale nel mondo rurale, immenso e per buona parte da sovvertire e proletarizzare. Questa tappa ha rappresentato, in assenza di un vittorioso movimento proletario in Paesi capitalisticamente maturi, un necessario passaggio per la rottura di quei rapporti di produzione e forme di proprietà precapitalistiche che erano di ostacolo ad un ulteriore sviluppo delle forze produttive; ma tutto ciò al prezzo di un tragitto grondante dolore e sangue per le generazioni proletarie che lo hanno subito.

Xi Jinping e l’imperialismo cinese

La Cina di oggi ha concluso questo grandioso processo di sviluppo delle forze produttive, è diventata la “fabbrica del mondo”, il maggiore esportatore mondiale. Oggi la Cina può proiettare la sua forza economica e militare ben oltre i confini nazionali, e si presenta sul mercato mondiale come un brigante tra i briganti, in cerca di materie prime e di nuovi mercati. Ha iniziato a ridefinire i rapporti con gli altri Stati, non solo con quelli vicini, basta citare le tensioni nel Mar Cinese meridionale e orientale, ma minaccia direttamente il primato del massimo imperialismo mondiale: gli Stati Uniti d’America. L’imperialismo cinese prova a ridefinire gli equilibri mondiali, ad espandersi, ed è inevitabile che questa potente forza si traduca in riflessi ideologici e richieda la teorizzazione di nuove formulazioni per il Partito Comunista al potere in Cina.

L’ultimo congresso del PCC ha quindi confermato Xi Jinping al ruolo di guida del Partito e dello Stato, addirittura accrescendone il mito. Ma, come i suoi illustri predecessori, Xi non è altro che il prodotto di una determinata situazione sociale, di un determinato livello di sviluppo delle forze produttive alle quali, aldilà delle sue doti personali, non si può opporre. Il cosiddetto “pensiero di Xi” non può far altro che sintonizzarsi con il poderoso percorso storico che testimonia per la Cina la fine del periodo in cui era necessario “mantenere un basso profilo” e l’inizio di una nuova fase storica, la terza dopo quella di Mao e di Deng, quella dell’esplodere degli interessi dell’imperialismo cinese.

Come formulato al Congresso il pensiero di Xi è composto da “14 Principi” che esprimono chiaramente la maturazione imperialistica della Cina e la sua aspirazione a diventare una potenza mondiale. Il “sogno cinese” del “risorgimento della nazione”, retorica propria di tutti i leader cinesi a partire da Sun Yat-sen in poi, è oggi inteso come ritorno al ruolo di potenza mondiale dopo le umiliazioni subite tra il XIX e il XX secolo; intorno a tale concetto ruota il “pensiero di Xi Jinping” sul “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”.

La Nuova Via della Seta

Enorme importanza viene attribuita al progetto delle Nuove Vie della Seta (Belt and Road Initiative, BRI), le nuove rotte commerciali che dalla Cina attraverso l’Asia arriveranno nel cuore dell’Europa. Questo progetto è stato inserito esplicitamente nello Statuto del Partito, tra i “14 Principi”, per sottolinearne la rilevanza nel “sogno cinese” di “risorgimento della nazione”.

Ma la Cina di oggi non deve solo trovare mercati dove vendere l’immane quantità di merci che produce, ha anche bisogno di investire all’estero i capitali accumulati e già eccedenti. Le sue riserve di moneta estera sono stimate in circa 3 mila miliardi di dollari; il progetto BRI permetterebbe di investire parte di questi capitali nella costruzione di infrastrutture nei molti Paesi attraversati, 65, che ospitano più della metà della popolazione mondiale, tre quarti delle riserve energetiche e un terzo del prodotto interno lordo globale. L’enorme progetto secondo Morgan Stanley richiederà 1.200 miliardi di investimenti in strade, ferrovie, porti, reti elettriche... Il BRI rappresenterebbe il più grande progetto di investimento mai compiuto prima, superando, al netto dell’inflazione, di almeno 12 volte il celebre Piano Marshall. Un piano Marshall globale.

La Cina già si è dotata dei necessari strumenti finanziari con la creazione del Silk Road Fund e dell’Asian Infrastructure Investment Bank, ma qualunque entità pubblica o privata nel mondo che abbia interesse è chiamata a prendere parte al progetto (ad esempio durante la visita di Trump in Cina è stato concluso un accordo tra l’americana General Electrics e il cinese Silk Road Fund).

Oltre al collegamento terrestre fra la Cina e l’Europa del Nord, con diramazione dall’Asia Centrale al Medioriente, con lo sviluppo di una fascia commerciale attraverso tutta l’Asia, è prevista una rotta marittima, la 21st Century Maritime Silk Road, una serie di porti di appoggio che collegherà i porti cinesi a quelli dell’Europa del Sud attraverso il Mare Cinese meridionale e l’Oceano Indiano. Queste infrastrutture ridurrebbero notevolmente i tempi di trasporto delle merci Europa-Cina, attualmente di 19 giorni per ferrovia e 29-35 per mare.

Le recenti tensioni

Riuscirà la Cina a realizzare il suo progetto?

L’espansione cinese entra in contrasto prima di tutto con l’imperialismo americano. I progetti cinesi non riguardano aspetti esclusivamente economici, hanno conseguenze strategiche di grande portata in quanto gli investimenti cinesi in altri Paesi, il finanziamento di grandiose infrastrutture consente alla Cina di espandere i propri interessi economici all’estero, facendo entrare nella propria sfera di influenza politica i Paesi coinvolti. È una chiara risposta al Pivot to Asia, alla strategia degli Stati Uniti volta a contenere l’ascesa economica e militare della Cina in Estremo Oriente, che prevede il consolidamento dei rapporti con gli Stati che percepiscono la Cina come una minaccia: Giappone, India, Corea del Sud, Vietnam, Filippine, Australia.

Con i suoi progetti la Cina non si rivolge esclusivamente all’area continentale eurasiatica, ma Pechino, come abbiamo descritto in precedenti articoli, rivendica il controllo di gran parte del Mar Cinese Meridionale, contendendone la sovranità agli altri paesi rivieraschi, Vietnam, Filippine, Taiwan, Malesia, Indonesia. A tal fine la Cina sta costruendo delle isole artificiali per fini militari in queste acque, negli arcipelaghi Paracel e Spratly. L’obiettivo è proteggere la costa da possibili attacchi e controllare i transiti dei mercantili per la Cina. Una Cina in ascesa non può tollerare all’infinito l’intrusiva presenza militare degli Usa in quelle acque.

Dall’altro lato gli Stati Uniti si oppongono alla Cina nell’area sia mantenendo una consistente forza militare nelle basi del Pacifico, sia cercando di rafforzare i loro storici rapporti e alleanze con gli Stati asiatici che si sentono minacciati dalla Cina.

Nel suo viaggio in Asia dello scorso novembre, il viaggio più lungo intrapreso da un presidente americano negli ultimi 25 anni, Trump ha fatto tappa in Giappone, Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine, viaggio che ha avuto come principale obiettivo quello di rassicurare gli alleati e riaffermare l’impegno americano nella regione.

Trump ha fatto tappa anche in Cina, dove ha incontrato Xi Jinping. Ma, oltre al dispiegamento della guardia d’onore, il menù del banchetto e l’itinerario della visita alla Città Proibita, i due “grandi leader” non hanno molta altra possibilità di influire sul corso degli eventi. La regione Asia-Pacifico rappresenta il cuore pulsante dell’economia mondiale, è in quest’area che i contrasti tra gli imperialismi saranno più accesi, è qui che si scatenerà il confronto diretto tra Cina e Stati Uniti.

Al momento questi contrasti rischiano di esplodere drammaticamente con la questione nordcoreana. Gli Stati Uniti, minacciando azioni commerciali contro la Cina, cercano di costringerla a tenere a freno le ambizioni nucleari della Corea del Nord. Ma, se da un lato Pechino non può spingersi troppo nell’adottare misure drastiche contro la Corea del Nord perché non vuole un crollo di quel regime, d’altro lato Pyongyang continua i propri test missilistici e nucleari per garantire la propria sicurezza. Un ultimo test missilistico è avvenuto lo scorso 28 novembre. Il lancio, avvenuto dopo oltre due mesi dal precedente, ha fatto salire la tensione nell’area, tanto che si è parlato di guerra. Da più parti si è riferito di preparativi militari cinesi in vista di un possibile scontro tra USA e Corea del Nord. La Cina, anche se continua a promuovere il dialogo tra i due paesi, sta prendendo contromisure al confine sino-coreano. Negli ultimi mesi c’è stata un’accelerazione nelle attività cinesi in questa parte di paese, che hanno riguardato l’aumento delle truppe e lo svolgimento di esercitazioni militari. Intanto i media cinesi parlano di un possibile conflitto imminente nella penisola coreana.

La questione di fondo è che la nascita di un nuovo grande imperialismo ha sconvolto gli equilibri globali e ha messo all’ordine del giorno una nuova spartizione del mondo, nel quale l’imperialismo cinese aspira a prendere il posto degli Stati Uniti. Questo è in sostanza il “sogno cinese” e per realizzarlo i proletari cinesi saranno chiamati a versare il proprio sangue per la Patria.

I costanti allarmi di una imminente guerra in Corea lanciati dai media dei diversi Paesi coinvolti, anche se per ora potrebbero rispondere solo a propaganda, servono comunque a preparare i lavoratori al momento in cui saranno chiamati a sacrificarsi per la “salvezza della Patria” quando questa li chiamerà alle armi. I proletari cinesi come quelli degli altri paesi non hanno da schierarsi a sostegno del proprio imperialismo, il “sogno” di cui parlano i dirigenti cinesi non è che una illusione per distogliere i proletari dalla lotta per i propri interessi, per fermare le lotte rivendicative che crescono sempre di più. Essi devono al contrario continuare ad estendere la lotta per aumenti salariali, per la riduzione dell’orario di lavoro, per la libertà di associazione e di sciopero, dando impulso all’organizzazione di classe, alla rinascita di sindacati classisti, e ricollegarsi con il programma del comunismo rivoluzionario.

Il giovane proletariato cinese ha una gloriosa tradizione a cui richiamarsi, esso deve ritornare ai metodi di lotta e di organizzazione delle sue prime generazioni operaie. Negli anni Venti il proletariato cinese, nonostante la sua scarsa consistenza rispetto alle masse contadine, si pose alla testa della rivoluzione. I sindacati, quasi inesistenti in Cina prima degli anni Venti, si formarono in quegli anni, conducendo lotte e scioperi che furono delle vere e proprie guerre di classe, che hanno lasciato sul campo tanto sangue operaio ma anche un’ennesima conferma storica che il proletariato può lottare per il potere e vincere, come è accaduto per la vittoriosa insurrezione di Shanghai di novanta anni fa.

Oggi in Cina lo sviluppo del capitalismo ha disgregato le campagne cinesi e ammassato i proletari in centinaia di gigantesche metropoli industriali, creando centinaia di Shanghai. Per questi proletari il “sogno cinese” del “risorgimento della nazione” significa soltanto l’incubo dello sfruttamento per il Capitale, certi che domani la Patria li chiamerà a versare sudore e sangue.

La risposta dovrà essere come a Shanghai nel 1927: guerra di classe per l’abbattimento del regime capitalistico e la presa del potere. Di quella insurrezione la storia non ha tramandato “nessun nome” illustre da commemorare, nessun “grande capo” da idolatrare. Anonimi proletari lottarono, forti delle proprie organizzazioni di classe e del loro Partito. Questo è un insegnamento da non dimenticare. Lasciamo alla vile e impotente borghesia il culto dei suoi omuncoli. Il proletariato, per vincere, non attende la venuta di nessun grande capo. Come abbiamo più volte affermato: la rivoluzione si alzerà di nuovo, anonima e tremenda.







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Dopo i fatti di Charlottesville
Lettera dagli USA:
Facciamo i conti con l’antifascismo

Un antifascista, per quanto radicale voglia apparire, non è un comunista. I comunisti, negli anni Venti e Trenta, sono stati contro i fascisti in quanto questi rappresentavano uno dei reparti difensivi del capitalismo. Quindi, si gridi pure allo scandalo, al comunismo l’antifascismo non basta, se non è allo stesso tempo contro la democrazia borghese. Per contro abbiamo dimostrato in numerosi articoli, antichi e recenti e in molte lingue, l’efficacia anticomunista dell’antifascismo, prima e dopo la Seconda Guerra mondiale.

La tattica del Fronte Unico Politico, proposta dalla Terza Internazionale a partire dal 1921, e rifiutata dalla corrente di Sinistra, implicava di fatto un riavvicinamento del comunismo alla socialdemocrazia. In seguito per l’Internazionale Comunista combattere il fascismo divenne più importante che combattere ciò che l’aveva generato, il capitalismo. Per il Comintern divenne un dovere dei comunisti difendere i governi della sinistra borghese contro il fascismo. Anche peggio, i partiti comunisti distrussero la loro integrità organizzativa riempiendo i ranghi di strati sinistri accomunando i veri comunisti a socialdemocratici di ogni tipo. Questo opportunismo dei partiti stalinisti finì in aperta collaborazione di classe col soffocare la lotta comunista anche contro il fascismo.

Si legge invece su “Bilan” del maggio 1934: «Se realmente il proletariato è in condizione di imporre una soluzione di governo alla borghesia, perché dovrebbe limitarsi ad un tale obbiettivo invece di porre le proprie rivendicazioni centrali per la distruzione dello Stato capitalista? D’altra parte, se la sua forza non gli consente ancora di scatenare la sua insurrezione, orientarlo verso un governo democratico non significa spingerlo su di una strada che permette la vittoria al nemico?» (“L’Anti-Fascismo: formula di confusione”).

Lungi da essere “puristi” i comunisti di sinistra sostennero che la lotta contro il fascismo necessariamente doveva essere una lotta contro i partiti sia fascisti sia democratici, e non di comunisti e democratici assieme contro il fascismo.

I comunisti di sinistra erano nel giusto prevedendo che non sarebbe stato possibile attendersi che i partiti borghesi si opponessero veramente al fascismo. In realtà, quasi tutti i partiti finirono con considerare Mussolini ed Hitler non una minaccia ma una difesa contro la rivoluzione. Li difesero, e li mandarono al potere statale. E il Fronte Unico politico non solo distrusse l’indipendenza politica dei comunisti nel nome dell’antifascismo, ma nemmeno lo poteva fermare nella sua corsa al potere.

Queste le basi della nostra ostilità verso l’antifascismo.

Sì, si dirà, questo è giusto e vero, ma oggi non siamo negli anni fra le guerre mondiali, i tempi sono diversi, e inoltre c’è il problema che la classe operaia non è in movimento. Ma il capitalismo impera tanto come allora. Sì, non c’è un vasto movimento della classe operaia, e non v’è un grande seguito al partito comunista. E nemmeno ce ne sarà mai se la sua indipendenza e i suoi principi sono fin da ora sacrificati. Per costruire un movimento comunista sono i principi che contano. Non principi astratti fuori dal tempo, ma che scaturiscono 1) da ciò che il mondo è, e 2) da ciò che il mondo preme per diventare.

Gli antifascisti “di sinistra” ti rispondono che essi non sono così, che non partecipano ai giochi elettorali né si impicciano dei conflitti fra capitalisti (però, se insiti un poco, ti diranno che preferiscono i Socialdemocratici, e negli Stati Uniti, peggio ancora, i Democratici!). Non comprendono che essi sono solo una componente “militante” e “di strada” della politica borghese antifascista e interclassista, che solo grida ma non ha soluzioni: non sono per qualcosa, sono contro il fascismo. Non presentano un programma, non si organizzano in un partito politico comunista, non lavorano per l’autonomia della classe operaia. La loro attività politica non va oltre l’organizzarsi contro i fascisti. Sono quindi caduti nella trappola democrazia/fascismo, dove il fascismo è tutto quanto ad essi non piace e la democrazia sarebbe quella “vera”, senza Congresso e senza Parlamento, ma cosa realmente significhi rimane un mistero. Sia in teoria sia in pratica queste posizione antifasciste non hanno da dare alcun contributo ad una politica per la classe operaia.

È una teoria che occorre, e una tattica e una strategia da seguire.

Un articolo scritto in Italia nel 1920, intitolato “Lenin e l’astensionismo” (“Il Soviet”, 1 febbraio), tratta dell’opposizione all’elezionismo per dei principi politici, perché concorrere per il parlamento nuoce in Occidente al conseguimento dei fini comunisti. Vi si legge come il comunismo sia un bisogno innato, che ti fa aderire al partito comunista allo scopo di impegnarsi attivamente a convogliare la energia delle masse sul risoluto percorso politico del comunismo.

Naturalmente tutto questo non significa che gli ultra destri, il Ku Klux Klan, gli svariati gruppi neo-nazisti, gli identitari cristiani, o qualsivoglia gruppo razzista non siano un problema. Naturalmente lo sono, e naturalmente ci si trova a scontrarci con loro. Ma, a differenza degli antifascisti, i comunisti debbono combatterli da una prospettiva di classe, cioè dall’interno di un partito politico che spinge verso l’organizzazione di classe indipendente. Al di fuori di questa prospettiva le scazzottate di strada non servono a niente.

Recentemente a Charlottesville in un convegno di “Unire la Destra”, si sono avuti anche dei morti fra gli oppositori. Gli antifascisti richiamano questi lutti per giustificare la loro attività e la loro politica.

Ma i comunisti anche in queste occasioni debbono adoprarsi ad indicare alla classe che queste sconfitte dimostrano i limiti dell’antifascismo e il bisogno di metodi di azione puramente di classe. Si pone certo la necessità, diciamo noi, di una difesa dei lavoratori, e dei comunisti, per non parlare delle comunità a base etnica, dagli attacchi delle destre. È l’impostazione interclassista e democratica, tipica dell’antifascismo, che qui critichiamo, non il fatto che ci si deve difendere e quindi anche scontrare con questi nazisti. La risposta non è la loro, “gli antifascisti debbono essere di più”, ma piuttosto “abbiamo bisogno di una politica per la classe operaia”. Non nel senso banale di ripetere quello che crede la massa della classe operaia, ma in quello di una politica che esprima i veri interessi dei lavoratori.

I comunisti non hanno una loro “soluzione” al rapporto che si dovrebbe stabilire fra lo Stato borghese e il fascismo. Non chiedono allo Stato borghese democratico che reprima il fascismo anti-democratico. Non si pongono, per esempio, il problema se il suprematista bianco Richard Spencer debba essere cacciato dai borghesi dalla sua città.

Per contro le ideologie del razzismo e del nazionalismo saranno superate solo in una società comunista: ciò gli antifascisti non possono comprendere è che, anche se ci sarà da scontrarsi con i razzisti e i fascisti, e violentemente, non certo nel partito, ma nelle organizzazioni e nelle mutue operaie ci saranno sempre dei nazionalisti, dei razzisti ecc.. La soluzione è far comprendere loro che sbagliano, che i lavoratori di tutte le razze e paesi devono unirsi nella loro lotta comune mettendo da parte i pregiudizi razzisti. Sfortunatamente dobbiamo vivere nel mondo reale, nel quale la soluzione non è fare a botte sempre e con tutti.

È un fatto che la polizia non ha fatto niente mentre i contro-manifestanti erano colpiti ed uccisi a Charlottesville. È innegabile che la polizia è razzista e infiltrata di nazionalisti bianchi. Ed è innegabile che lo Stato passerà il potere ai fascisti appena ne avrà bisogno. A rigor di logica astratta, quindi, ogni antifascista dovrebbe essere un anticapitalista, ed ogni democratico un comunista. Ma non è questa la realtà della situazione.

Per contro Cruz, Romney e Bush hanno condannato il nazionalismo bianco e Clinton in particolare denunciò gli alternativi di destra come inaccettabili; è un fatto che l’FBI ha infiltrato e continua ad infiltrare il Ku Klux Klan. Alcuni di questi razzisti sono stati sparati poco dopo le loro prodezze a lume delle torce. Ma il comunismo infatti non vuol combattere il fascismo, vuol distruggere il capitalismo, fascista o democratico che sia.

Ideologicamente l’antifascismo è confinato ad un democraticismo militante, incline a pianificare mobilitazioni e risse. Per andare oltre, per divenire un comunista e per una vasta organizzazione e mobilitazione di classe non solo contro il razzismo ma per tutte le altre questioni della classe e infine per il comunismo, l’iniziato antifascista deve prima di tutto conoscere la nostra critica all’antifascismo e la nostra condanna delle attività estremiste degli antifascisti. Quindi dovere dei comunisti è mantenere la criticare dell’antifascismo privandolo di tutto il suo terreno ideologico.

I comunisti debbono comunque attestarsi sul dogma – provato e sempre riprovato – che la sola via per combattere il capitalismo e tutte le sue schifezze è la lotta di classe.