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Tra le tante terribili guerre che infuriano alle periferie delle cittadelle capitalistiche, con il sanguinoso seguito di rovine, stragi senza nome e profughi disperati, pare che il capitalismo ce ne propini una nuova, forse non meno cruenta e foriera di terribili conseguenze: l’arresto, se non la fine, della timida ma promettente ripresa economica, che finora allieta politici e capitalisti.
Finalmente il capitalismo, precipitato dal 2008 nella sua più lunga recessione conosciuta, si stava riprendendo, ma ora uno sconsiderato, dicono, eletto a capo del più potente impero, con le sue improvvide esternazioni e decisioni politiche ed economiche, minaccerebbe quel virtuoso percorso. È la fine della libertà commerciale, la fine della lodevole globalizzazione, che avrebbe permesso a tutti benessere e buoni affari. È la guerra commerciale, la guerra dei dazi.In effetti i motivi presi a giustificazione di questa stretta sul libero transito di merci un fondamento lo hanno. Se guardiamo i secchi numeri dei saldi commerciali tra gli Stati Uniti d’America e le principali controparti mondiali appare evidente lo squilibrio sistematico tra volumi di importazioni ed esportazioni; commercialmente l’economia statunitense segna con tutte un deficit rilevante.
Ben altro peso, rispetto al deficit del saldo commerciale, almeno sul lungo termine, presenta il volume enorme e crescente del debito pubblico, la situazione finanziaria verso il resto del mondo, che finanzia il grande impero tramite l’acquisto di Buoni del Tesoro americani. L’amministrazione statunitense di questa dinamica endemica però non se ne cura, anzi la pratica con assoluta continuità.
Ma questo è un altro discorso. Qui si parla non di capitali ma di merci, cose tangibili che circolano traverso i confini degli Stati, e devono realizzare il plusvalore in essi cristallizzato.
Questa “guerra dei dazi” ha in realtà diversi aspetti, e non è soltanto limitata alla pretesa di contenere la dinamica di un disavanzo che non cessa di crescere, preso a pretesto per l’apertura delle ostilità commerciali. Gli USA, primo esportatore globale al mondo, sono anche il maggior importatore. A fine 2017 (dati di U.S.Census Bureau), Cina, Canada e Messico, in quest’ordine decrescente presentano con gli USA un volume di import-export rispettivamente di 630, 582 e 557 miliardi di dollari, e comportano per gli USA un saldo passivo di 505,6, 300 e 314 miliardi.
La Cina, l’economia col maggior volume di scambio, a fronte di 130 miliardi di importazioni dagli USA, esporta per 505,6. Il Giappone importa per 67,7 ed esporta per 204,2, mentre Germania, Corea del Sud, Regno Unito, Francia India ed Italia si limitano a saldi commerciali positivi per loro a due cifre: la Germania importa per 53,5 miliardi ed esporta per 136,5, l’Italia per 50,0 contro 68,3.
L’imperialismo più forte si pone quindi sulla scena mondiale come primo importatore di merci e come primo esportatore di capitali. E non è un caso che in entrambe le posizioni venga a corrispondergli il colosso asiatico, che detiene il volume maggiore sia dell’attivo commerciale sia del debito statale USA.
Questi sono i numeri, inconfutabili, che hanno dato formale giustificazione alle decisioni americane di introdurre tariffe doganali limitatrici all’importazione per costituire barriere “antidumping”.
Ma è da vedere verso chi, su quali prodotti ed in che misura, perché questi saldi commerciali così aggregati non evidenziano la situazione per tipo di merci. Se per ora il motivo di scontro si concentrerebbe principalmente sulla siderurgia e sull’alluminio, le “ritorsioni” americane si estenderebbero ad altre categorie merceologiche: dalle auto, ai semiconduttori, venendo a costituire un grave problema per alcuni capitalismi d’Europa e dell’estremo oriente.
In una vera guerra commerciale, le economie più deboli possono solo risultare soccombenti. Basta considerare che Germania, Francia, Regno Unito hanno economie fondate sull’esportazione, al contrario degli USA che esportano per una parte piccola del loro PIL (il 12%), per rendersi conto che il problema principale sarebbe per questi Stati, più che per chi ha annunciato in pompa magna le restrizioni. Ma credere che la svolta protezionistica, per quanto agitata e solo parzialmente applicata, possa in qualche modo contribuire non ad annullare ma solo a ridurre l’enorme deficit commerciale americano è un’idea priva di fondamento. E non per la possibilità di “controdazi” che gli Stati interessati potrebbero applicare verso gli USA. Perché il deficit commerciale della super potenza è intrinseco alle sue dimensioni produttive, alla sua potenza finanziaria, alla forza della sua moneta che è, almeno fino ad oggi, il riferimento per ogni specie di transazione. Quindi i provvedimenti, che non hanno avuto ancora un seguito conseguente, avranno poca efficacia reale, prima di tutto per i “posti di lavoro” che sarebbero messi in crisi dai prodotti importati, secondo la demagogia dei governanti di turno.
Ovviamente noi comunisti comprendiamo bene che le imposizioni americane, che sembrano violare platealmente i fondamenti del “libero mercato” e la tanto adorata “globalizzazione”, in nome della quale i briganti imperialistici si contendono il dominio dei mercati, hanno un fondamento non commerciale, la riduzione del deficit, ma politico e strategico.
Ma parlare in questa fase genericamente di “guerra” suona più come un’affermazione ad effetto che come un fatto reale. Benché ogni guerra si inizi cercando gli alleati; e la minaccia alle capacità produttive di alleati e vassalli della NATO o della SEATO, e di avversari come Russia e Cina, è uno degli strumenti in questo riassestamento strategico.
Un obbiettivo è l’Unione Europea, in particolare la Germania, perché operi misure restrittive verso Russia e Cina. Il contenimento, se non addirittura il blocco della vendita di gas da parte della Russia giocherebbe un ruolo strategico per gli USA. Per l’Europa, dove primeggia la Germania, ottavo fornitore di acciaio agli USA, altro obbiettivo americano è far accollare ai riottosi alleati NATO il costo della comune difesa e disarticolare una faticosa Unione che già per conto proprio tende a sgretolarsi. Si rende necessario riallineare gli alleati sul piano militare, proseguendo la politica imperialistica così come si sta sviluppando in questo millennio, rompendo un’alleanza che li porrebbe isolati nei confronti del dominus d’oltre oceano.
Da parte loro Messico e Canada sono coinvolti nella revisione del NAFTA, il trattato per il libero scambio nel Nord-America, e la minaccia dei dazi gioca la sua parte in un contratto leonino come hanno in mente gli Stati Uniti.
È sicuro che la guerra prima o poi dovrà davvero scoppiare, in prima fase sul piano commerciale, e sarà sicuramente a tutto detrimento per i paesi la cui economia e i commerci sono minacciati di dazi, Cina compresa. Anche se oggi, in effetti, dopo una prima fase di proteste, le posizioni di tutti i contendenti si sono ammorbidite e sono ripresi, discretamente, i negoziati.
Le indicazioni di questa “decisione unilaterale”, che pare annullare la base stessa della finta globalizzazione e si articola su piani diversi ma concorrenti, sono chiare.
Innanzi tutto segnano una nostra nuova vittoria teorica: finalmente stanno sgombrando il campo da ogni infingimento di mediazioni che garantirebbero la pace perpetua tra i briganti imperialistici, le cui immani produzioni di merci mai potranno compensarsi nemmeno in un mercato globale senza vincoli e tariffe.
Poi perché mostrano quale sia in questo momento il livello di frizione tra i blocchi imperiali e quanto gli effetti della decennale crisi capitalistica stiano spingendo gli Stati verso un futuro, forse non troppo lontano, conflitto dispiegato. Questa nuova ulteriore tappa verso la guerra non ci giunge inattesa. Che i mostri imperiali non potessero in alcun modo “coesistere”, nemmeno sul piano commerciale, lo sapevamo fin dall’alba della nostra dottrina, anche se il sogno di un capitalismo “ragionevole”, di un “commercio equo ed onesto”, di una concorrenza “virtuosa” continua a guidare le illusioni dei piccolo borghesi, e vergogna somma, dei proletari ubriachi di democrazia e di “onestà” boghese. Come se il male del capitalismo fosse la “disonestà”, la truffa, il ladrocinio.
Ben vengano quindi queste feroci, sprezzanti decisioni del più forte verso i più deboli. La ripresa di classe passa anche da qui.
Per la ripresa della lotta di classe I proletari non si devono sottomettere al cretinismo del rito elettorale, che rappresenta solo un ingannevole teatrino per mascherare l’oppressione economica e politica della classe borghese su di essi, ma lavorare all’organizzazione della loro forza indipendente di classe, sia sul piano sindacale sia su quello politico.
Il proletariato deve mettersi in grado, tramite le sue organizzazioni economiche, di difendere le sue condizioni di vita e di lavoro ogni giorno sotto attacco da parte della borghesia, dei proprietari fondiari, del loro Stato.
Il partito comunista rivoluzionario, che oggi non può che essere internazionale, non ha nulla da spartire con questa democrazia borghese e considera che i governi democratici sono altrettanto reazionari, antiproletari e controrivoluzionari quanto lo sono i governi apertamente fascisti.
L’antifascismo a cui si richiamano tutti i partiti dell’arco parlamentare, e anche quelli sedicenti extraparlamentari, è un vecchio arnese che la borghesia usa per cercare di abbellire la sua logora democrazia e lo screditato sistema parlamentare.
Democrazia e fascismo sono due forme dell’oppressione borghese contro il proletariato. Non si può combattere il fascismo senza combattere il regime del capitale, senza abolire il regime del lavoro salariato, della merce, del profitto.
Non si può combattere il militarismo senza lottare per l’abbattimento del capitalismo! Sono le più grandi democrazie del mondo, in proficua collaborazione con gli Stati apertamente dittatoriali, che seminano guerre e distruzioni dall’Africa al Medio Oriente all’Asia centrale, con il solo scopo di assicurarsi mercati e materie prime, che investono enormi capitali nella produzione di armi per fare profitti sullo scempio dell’umanità intera. Sono essi che costringono milioni di uomini ad abbandonare i loro paesi per sfuggire alla fame e alla disperazione trasformandoli in mano d’opera a basso prezzo. Sono essi che si preparano ad un nuovo scontro bellico generalizzato per cercare di uscire dalla crisi economica che condanna questo sistema ad una catastrofica fine.
I lavoratori più combattivi, i giovani che non hanno futuro in questa società in putrefazione, i disoccupati, gli immigrati costretti al lavoro nero, alla clandestinità, a vendersi per un tozzo di pane, hanno un interesse comune che li unisce, costruire un fronte unico sindacale di classe in grado di respingere l’offensiva del padronato, spalleggiato dallo Stato, dai sindacati collaborazionisti, dai partiti opportunisti, per difendere e migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro!
È combattendo su questa strada che si prepara la rivoluzione comunista, internazionale, dittatoriale, diretta dal Partito che ha fatto suo il programma storico del comunismo rivoluzionario!
In tutti i paesi imperialisti, la crisi del capitalismo costringe la borghesia ad attaccare il proletariato. Ovunque la lamentela della borghesia è la stessa: costo del lavoro troppo alto, mercato del lavoro non sufficientemente flessibile, oneri sociali troppo alti per le imprese, necessità di riformare l’assicurazione contro la disoccupazione, con il fine di spingere i lavoratori ad accettare qualsiasi condizione di retribuzione e di lavoro e di portare l’età pensionabile a 67 anni.
In questo la Germania è un modello: la borghesia, col governo di coalizione SPD-Verdi, guidato da Schröder, fin dal 2000 vi ha adottato misure radicali, oggi il 25% della forza lavoro è precaria e impoverita, (in Giappone è il 30%), contro il 15-20% in altri paesi europei. Ma la borghesia francese vuole eguagliare il suo compare e rivale tedesco.
Gradualmente, ma inesorabilmente, ha modificato il Codice del Lavoro, con il sostegno dei sindacati di regime, rendendolo più adatto ai bisogni dell’accumulazione di capitale. Una profonda svolta in questo senso è avvenuta sotto il governo di sinistra di Jospin nel 2000: una legge, in cambio della settimana basata su 35 ore, ha permesso una grande flessibilità nell’orario; è diventato possibile aumentarlo senza pagare gli straordinari e ridurlo quando la richiesta diminuisce, compensando le ore lavorate in più nei mesi precedenti. A questo si è aggiunto una impennata del lavoro precario, grazie a contratti a tempo determinato. Si è inoltre prevista, come ovunque, una disoccupazione strutturale e una importazione di manodopera straniera per tener bassi i salari.
Tuttavia, per resistere alla concorrenza internazionale in continua crescita, tutte queste misure al padronato non sono sufficienti. In passato i vari governi hanno tentato più volte di imporre “riforme” più incisive, ma ogni volta, per la mobilitazione degli operai, hanno dovuto fare marcia indietro. Tre grandi lotte hanno contrastato la borghesia: lo sciopero nelle ferrovie del 1986 e poi del 1995 e il movimento anti-CPE di gennaio-marzo 2006. Questo movimento si oppose al progetto del governo di Villepin che voleva sostituire i contratti a tempo indeterminato e determinato con un unico contratto chiamato Contratto di Primo Impiego, che non aveva scadenza temporale ma consentiva al datore di lavoro di licenziare quando voleva: il padrone quando ne avesse avuto bisogno avrebbe assunto o licenziato. Più o meno quanto realizzato in Italia tra il 2014 e il 2015 dal governo Renzi con il “Jobs Act”.
Tuttavia i successivi governi, con la complicità dei sindacati riformisti, sono riusciti a imporre una serie di misure, le due più importanti delle quali sono l’innalzamento dell’età di pensionamento a 62 anni, poi a 67, e la legge El-Khomri, che intende introdurre una profonda riforma del Codice del Lavoro. Le misure che il governo vuole oggi varare riguardano una ulteriore modifica al Codice per facilitare il licenziamento e ridurne i costi, e rafforzare la contrattazione a livello d’impresa a scapito delle trattative nazionali di categoria. Si intende poi ridurre la durata dell’indennità di disoccupazione e del suo costo introducendo l’obbligo per il disoccupato di accettare qualsiasi offerta di lavoro scegliendo tra due proposte. Per andare in pensione con un salario che permetta un tenore di vita decente si dovrà lavorare fino a 67 anni. Non sarà in alcun modo garantito il mantenimento del posto di lavoro. Per non parlare dello smantellamento dei servizi pubblici che verranno privatizzati, il che porterà a prezzi più alti per gli utenti e a grossi profitti per la borghesia.
Tutte queste misure, che mirano a rendere l’industria francese più competitiva e quindi a consentire l’aumento dell’accumulazione di capitale, provocheranno un disastro sociale. Da due anni a livello internazionale si registra una leggera ripresa della produzione industriale; ma durerà poco, e quando tornerà la recessione queste misure produrranno un’esplosione della disoccupazione e un aggravamento della precarietà e della miseria, che già non è poca con oltre il 14% della popolazione che in Francia vive con meno di 850 € al mese. Ma è possibile bloccare queste misure, come dimostrano i lunghi e aspri scioperi e le dimostrazioni del 1986, del 1995 e del 2006, e della sanità del 1988, lotte che all’epoca hanno fermato l’attacco del governo e della borghesia.
Non è però con scioperi programmati, che permettono al padronato di organizzarsi per contrastarli, o organizzando manifestazioni separate che si potrà costringere la borghesia e il suo governo ad arretrare!
Per costringerlo a ritirare queste misure sarebbe necessario indire un duro e unitario sciopero dei lavoratori delle ferrovie, della sanità, che pure sono sotto attacco, e dei vari servizi pubblici che sono pronti a lottare. E organizzare manifestazioni unitarie perché la lotta è la stessa e questo è un attacco generale contro tutti i lavoratori! Ma per condurre una seria lotta contro la borghesia, è necessario che i lavoratori escano dai sindacati di regime, che fanno solo finta di organizzare la lotta, e si organizzino per costituire un vero sindacato di classe che tenda all’unione di tutte le categorie di lavoratori e non abbia paura di guidare lotte dure e lunghe, se necessario, come quella delle ferrovie nel 1986 e del 1995 e della sanità nel 1988.
Una vera organizzazione sindacale di classe si rende sempre più necessaria perché nei prossimi mesi la situazione della classe lavoratrice andrà peggiorando e nuove lotte sono destinate a scoppiare.
Il modo di produzione capitalistico non ha ormai motivo di esistere, è un modo parassitario di produzione che è sopravvissuto fino ad oggi solo attraverso i macelli e le distruzioni di due guerre mondiali alle quali hanno fatto seguito una serie infinita di atroci conflitti regionali, dalla guerra di Corea, all’Algeria, al Viet Nam, al Medio Oriente.
La seconda guerra mondiale, con le sue massicce distruzioni e i suoi massacri, ha permesso al capitalismo mondiale di ricominciare un ciclo di accumulazione quasi senza crisi dal 1945 al 1975, ma il capitalismo ritorna regolarmente in crisi di sovrapproduzione seguendo un ciclo di 7-10 anni e ad ogni ciclo le sue contraddizioni economiche si accumulano. Questo significa che sta per esplodere una nuova crisi storica di sovrapproduzione peggiore di quella del 1929.
La “globalizzazione”, vale a dire lo sviluppo del capitalismo nei paesi in via di sviluppo, in particolare in Asia e soprattutto in Cina, ha permesso ai grandi paesi imperialisti di rimandare questa crisi per almeno 30 anni. Ma l’accumulazione del capitale in questi paesi ha prodotto le stesse crisi economiche dei vecchi Stati imperialisti. La Cina nel 2015-2016 ha accusato una recessione nell’industria pesante. Anche in Cina infatti sono presenti tutti i sintomi di una prossima grave crisi di sovrapproduzione come nei vecchi paesi imperialisti: un forte rallentamento della crescita industriale, un debito pubblico e privato molto elevato, speculazione terriera e mercato azionario frenetico, ecc. ecc...
Il capitalismo ha adempiuto al suo ruolo storico: socializzare le forze produttive, cioè sviluppare la base economica del comunismo. Rimane solo un compito da assolvere, difficile ma necessario: rovesciare con la forza la borghesia e il suo Stato, espropriarla e passare a una gestione comunista della produzione e della distribuzione abolendo i rapporti di produzione capitalistici, il salario, il capitale, il mercato.
Per fare ciò, non basta organizzarsi in veri sindacati di classe per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro, ma anche prepararsi politicamente alla lotta finale contro la borghesia e i proprietari fondiari che sono classi totalmente parassitarie e non hanno più alcun ruolo economico. A questo fine è necessario unirsi ai ranghi del Partito Comunista Internazionale.
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Seduta del sabato |
La rivoluzione ungherese |
Modi di produzione: variante germanica |
L’attività sindacale del partito |
Corso della crisi economica |
La questione militare, Fase finale sul fronte occidentale [resoconto esteso] |
Storia dell’India, fra le due guerre mondiali |
Il PCd’I e la guerra civile in Italia |
Seduta della domenica |
Il partito organico in Lenin |
Ricapitolando sulla questione cinese |
Il concetto di dittatura - Prima di Marx: Blanqui |
Resoconto della sezione venezuelana |
Gli scontri di classe in Iran |
Riferiamo qui della riunione che abbiamo tenuto a Firenze da venerdì 26 a domenica 28 febbraio alla presenza di una molto nutrita rappresentanza di tutte le nostre sezioni.
Al solito, venerdì pomeriggio e sabato mattina sono dedicati al resoconto del centro sull’attività nei trascorsi mesi, all’organizzazione della riunione e al riscontro del lavoro dei vari gruppi incaricati di specifiche ricerche, di intervento nei sindacati e nelle lotte operaie, della propaganda.
Le sedute varie si sono svolte nel consueto ordine e attenzione, avendo cura che gli argomenti delle esposizioni, sempre impegnativi, venissero presentati in forma e tempi tali da essere ben comprensibili da tutti i compagni.
* * *
Teniamo ben presente lo scopo di tutto questo nostro lavorare
Nelle Tesi di Napoli, del 1965, si afferma:
«Nella evoluzione che i partiti
seguono può contrapporsi il cammino dei partiti formali, che presenta continue
inversioni ed alti e bassi, anche con precipizi rovinosi, al cammino ascendente
del partito storico. Lo sforzo dei marxisti di sinistra è di operare sulla curva
spezzata dei partiti contingenti per ricondurla alla curva continua ed armonica
del partito storico».
Per questo la Sinistra italiana, finché lo stalinismo non venne a soffocare nell’Internazionale ogni relazione e collaborazione comunista, ha sempre considerato e trattato “da compagni” tutte le sue componenti, come impegnate tutte nella ricerca della giusta via alla rivoluzione in Europa. Noi oggi, almeno dal 1952, facciamo riferimento alla Sinistra italiana in quanto riconosciamo che prima, con maggiore chiarezza e completezza delle altre correnti, ha tratto il necessario, inevitabile, bilancio della grandezza e delle debolezze della Terza Internazionale e dell’assalto rivoluzionario nel primo Novecento in Europa. Alcune formulazioni della nostra Sinistra, riconosciamo, sono “dette meglio” rispetto alle altrui, e talvolta anche di Lenin. Benché Lenin resta un gigante ed è tutto e solo nostro.
Questo non toglie che oggi, per esempio, con “leninisti”, “trotskisti” o con “luxemburghisti”, traditori di Lenin e di Rosa, e che sono “rimasti indietro” rispetto alle non ignorabili gravi lezioni della storia, non possiamo, come partito, marciare insieme.
Noi oggi, piccolo partito, proseguiamo quel lavoro di continua approssimazione del vivente organo politico della classe operaia alla sua impersonale, scientifica, coscienza di sé e della storia. Non abbiamo più correnti al nostro interno, non perché siano proibite da un regolamento, con conseguenti espulsioni, ma perché non ce n’è motivo: l’accordo fra di noi, non solo su cosa siamo e su cosa vogliamo, ma anche su come arrivarci è sufficientemente fondato sui fatti trascorsi da non poter più ingenerare dissensi di fondo.
* * *
Qui si susseguono i resoconti delle numerose relazioni esposte alla riunione generale, rimandando per il testo completo alla loro pubblicazione su Comunismo.
La rivoluzione del 1919 in Ungheria
Abbiamo proseguito l’esposizione del lavoro con il capitolo sulla Repubblica dei Soviet. Il racconto del compagno si è concentrato sui primi giorni.
Il 21 marzo 1919 si costituì il governativo Consiglio Rivoluzionario, che subito proclamò la Repubblica dei Consigli.
Abbiamo dato lettura di alcuni radio comunicati con i quali il 21 marzo Bela Kun
informa Lenin a Mosca:
«L’unificazione fra il Partito Comunista e il PSDU è avvenuta nelle seguenti
circostanze: dopo aver ricevuto a mezzogiorno, nella prigione, la visita dei
rappresentanti dell’ala sinistra del PSDU, il centro e la sinistra
socialdemocratici hanno accettato la piattaforma da me proposta. Tale
piattaforma sta saldamente alla base della dittatura proletaria del sistema
sovietico. Essa è perfettamente confacente ai principi formulati nel programma
di Bucharin ed è perfettamente in linea con le tesi di Lenin sulla dittatura.
L’ala destra della socialdemocrazia ha lasciato il partito senza trovare
seguito.
«Le migliori forze di cui ha mai disposto il movimento operaio ungherese
partecipano al governo, il quale, non essendoci ancora dei veri soviet degli
operai e dei contadini, mantiene il potere come a suo tempo hanno fatto in
Russia i comitati militari rivoluzionari. È stato formato il direttorio dei
membri del governo: per il Partito Comunista io e Vágo, per l’estrema sinistra
Landler e Pogány; infine Kunfi, il quale è qualcosa come il vostro Luna?arskij.
La mia influenza personale sul Consiglio governativo rivoluzionario è tale da
assicurare una salda dittatura proletaria; le masse mi seguono».
Il 22 marzo l’apparecchio telegrafico di Csepel chiama Lenin:
«Dopo aver
conquistato il potere, combattendo il comune nemico, l’imperialismo
capitalistico internazionale, il proletariato ungherese continua a rivolgere i
propri sforzi in vista della vittoria del proletariato internazionale (...)
Annunciamo la nostra adesione al primo Congresso della III Internazionale. Noi
abbiamo fermamente il potere nelle nostre mani (...) In questi giorni siamo
riusciti a prendere il potere senza spargimento di sangue, ma ora siamo
minacciati dagli imperialisti della Intesa. Davanti a questo pericolo
incombente, tutta la classe operaia ungherese si è schierata dalla parte della
dittatura del proletariato».Il 23 marzo Lenin invia un radiogramma a Béla Kun:
«Vi prego di comunicarmi
quali garanzie effettive avete che il nuovo governo ungherese sarà realmente
comunista, e non semplicemente socialista, cioè socialtraditore. I comunisti
hanno la maggioranza al governo? Quando si terrà il congresso dei Soviet? In che
consiste concretamente il riconoscimento della dittatura del proletariato da
parte dei socialisti? È del tutto sicuro che la pura imitazione della nostra
tattica russa in ogni particolare, date le condizioni originali della
rivoluzione ungherese, sarebbe un errore».
Il Consiglio Rivoluzionario si mise ad attuare con la massima energia il piano rivoluzionario immediato. In breve tempo svolse un lavoro complesso, radicale ed esteso.
Contemporaneamente alla distruzione degli organi dell’oppressione politica del capitalismo, si iniziarono le prime serie riforme nel senso della collettivizzazione dell’economia: fabbriche e banche nelle mani del proletariato; giornata lavorativa di 8 ore per gli adulti e 6 per i giovani, unificazione dei salari; ferie pagate; castelli padronali trasferiti ai Consigli contadini; nazionalizzazione delle terre. Inoltre studi gratuiti per i figli dei lavoratori.
La prostituzione fu proibita. Con l’esproprio delle case in affitto decine di migliaia di famiglie proletarie furono sollevate dal pagamento dei fitti. I sanatori di lusso furono trasformati in ospedali comunali. Nei palazzi aristocratici furono ospitati asili per invalidi e anziani. Nelle dimore di lusso sul lago Balaton furono alloggiati migliaia di bambini proletari ammalati.
Abbiamo poi riportato la descrizione fatta da Béla Szánto di altri provvedimenti
della dittatura del proletariato:
«Circa i salari la dittatura dei Consigli si limitò a parificarli. Furono
stabilite le seguenti categorie a) operai istruiti e specializzati; b) non
qualificati; c) ausiliari; d) apprendisti. Per ciascuna si stabilì una scala di
salari. I salari in generale non furono rialzati, ma solo unificati (...)
Speciali mercedi per il lavoro femminile. Alle lavoratrici fu assegnato lo
stesso salario dei lavoratori della stessa categoria (...)
«Alla direzione delle fabbriche stava il Consiglio di Fabbrica, che, col
Commissario di Fabbrica, dirigeva la gestione d’accordo col Consiglio
dell’Economia Popolare e coi sindacati (...)
«Dopo che la dittatura ebbe socializzato le banche, le fabbriche, le miniere, il
terreno agrario, passò a sopprimere lo sfruttamento esercitato sul proletariato
dai padroni di casa. Anzitutto ordinò la generale riduzione del 20 per cento
sulle pigioni delle piccole abitazioni, e quindi intraprese la socializzazione
delle case d’affitto (...) Anzitutto furono prese di mira le abitazioni lasciate
vuote dalla borghesia. Ma in tal modo la penuria di abitazioni per i lavoratori
non poteva mitigarsi sensibilmente, e quindi furono sottoposte a ripartizione le
comode abitazioni borghesi, le pretese d’abitabilità della borghesia furon
ridotte a una misura minima (...)
«Uno dei primi provvedimenti della dittatura fu la proibizione dell’alcool.
Sotto il capitalismo l’alcool serviva a istupidire le masse, per mantenerle
abuliche schiave del salario (...)
«Fu istituita la Cassa generale per gli ammalati. L’obbligo d’assicurazione fu
esteso a tutti i lavoratori (...) L’assicurazione per la maternità e la
protezione dell’infanzia trovò la sua soluzione nei quadri dell’assicurazione
operaia (...) La statizzazione del servizio sanitario fu quasi completamente
attuata».
La successione dei modi di produzione
La variante germanica
Con questo capitolo, essendosi conclusa la parte dedicata al modo di produzione secondario, il relatore si è soffermato – non tanto sulla descrizione particolareggiata dei caratteri distintivi della variante germanica, operazione che sarebbe stata, peraltro, decisamente ardua a causa della scarsità delle fonti dirette – quanto sui motivi del declinare dello schiavismo e sulla transizione al feudalesimo.
A questo proposito si sono analizzate le cause economico-sociali del collasso
dell’impero romano utilizzando una lunga citazione tratta dall’insuperabile
lavoro di Engels sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello
Stato:
«Lo Stato romano era divenuto una macchina gigantesca e complicata,
esclusivamente per lo sfruttamento dei sudditi».
Da qui la tesi marxista secondo la quale ad un certo punto del loro sviluppo i rapporti di produzione si trasformano in un freno per il progresso ulteriore delle forze produttive e vanno abbattuti.
Il collasso dell’unità statale e dei suoi gangli vitali costituiti dalle grandi città, sparse sull’immenso suo territorio, causò una crescente ruralizzazione dei rapporti sociali. Il primato passò alla singola ed autonoma unità produttiva. La terra comune affianca la proprietà privata della parcella di terra. La comunità, pur avendo un’esistenza economica propria nei terreni comuni, esiste solo quale assemblea e i terreni comuni sono utilizzati da ogni singolo produttore non in quanto rappresentante della comunità ma in quanto proprietario individuale.
Nella variante germanica, dove i capi famiglia si stabiliscono in abitazioni separate divise le une dalle altre da vasti spazi, la comunità si deve presentare essenzialmente come riunione – non come unione – di soggetti autonomi, quali proprietari fondiari; la comunità non esiste come Stato in quanto non esiste come città. Perché possa acquistare un’esistenza reale i produttori devono tenere un’assemblea; mentre ad Atene e Roma la comunità esiste oltre ad essa ed ha manifestazione tangibile nella schiera di funzionari stipendiati dall’erario.
La forma ultima del modo di produzione secondario ha celebrato la vittoria della proprietà privata nei riguardi della proprietà comunitaria. Mentre nella variante asiatica non esiste proprietà del singolo ma solo possesso; mentre nella variante antico classica esiste una forma antitetica di proprietà fondiaria pubblica e privata, con la seconda mediata dalla prima; nella variante germanica il contadino non abita nella città e alla sua base c’è l’abitazione isolata: qui è l’agro pubblico ad essere mediato dalla proprietà privata parcellare.È difficile sapere come i germani siano passati dal comunismo primitivo a questa variante del modo di produzione secondario. Possiamo certamente affermare che fino ai tempi di Cesare vivevano organizzati in gentes con possesso comune di tutti i mezzi di produzione. Ma quando la produttività divenne tale per cui ogni singola unità produttiva poté bastare a se stessa gli antichi legami comunitari vennero rotti e nacque la proprietà privata come esigenza economica e l’interesse familiare si venne a sovrapporre a quello della comunità. A questo punto il compagno ha dato una breve descrizione del periodo di penetrazione dei cosiddetti barbari nel morente Impero romano, portando ancora una volta l’attenzione su di una tesi base del comunismo scientifico: i conquistatori sono costretti ad assorbire i progressi dei vinti, cosicché gli organi della costituzione gentilizia dovettero trasformarsi ben presto in organi di un potere statale ed il capo militare assumere le vesti del monarca. La vecchia gerarchia militare non fu in grado di sostituirsi alle complesse soprastrutture giuridiche romane e dovette appoggiarsi alla nobiltà autoctona. È da questo mescolarsi di elementi germanici e latini che avranno origine i regni romano-barbarici. Lo spezzettamento fondiario operato dai romani ha a questo punto termine e si verifica l’opposto processo di concentrazione della terra nelle mani dei signori da cui si svilupperà il rapporto di servaggio.
Dopo aver esposto le caratteristiche comuni alle tre varianti dello schiavismo e i rispettivi tratti distintivi, il relatore è passato alle conclusioni e ad analizzare i germi del feudalesimo che lentamente erodevano i precedenti rapporti sociali e preparavano le condizioni, nei secoli di transizione, al successivo modo di produzione. Se da un lato il collasso della potente unità statale romana ha liberato i singoli proprietari fondiari dal peso di un’imposizione fiscale divenuta oramai insostenibile, dall’altro ciò li espose a continui saccheggi e devastazioni: la soluzione non poté essere che alienare una parte della propria libertà ai signorotti locali in cambio di protezione militare.
Progressivamente la terra comunitaria venne usurpata ai contadini dai signori; per accedervi furono prima costretti a fornire loro un sopralavoro, per poi diventare, come classe di servi della gleba, semplici appendici di una terra che più non gli apparteneva: una forma di produzione caratterizzata da una “alleanza” tra il piccolo ed isolato produttore e la grande nobiltà cavalleresca.
Il PCd’I e la guerra civile in Italia
Il rapporto continuava ricordando il caso del capitano dei carabinieri Aldo Soncelli che, per incarico del governo Nitti, nel 1919, si era introdotto all’interno di quel poco di apparato illegale organizzato dal PSI. Recatosi nell’Ungheria di Bela Kun aveva preso contatto con Isacco Schweide, che fungeva da riferimento per i socialisti italiani. Da questo, senza la minima verifica, venne creduto sulla parola, fu messo al corrente di tutto quanto concerneva l’organizzazione ed ottenne perfino un appannaggio per l’opera che avrebbe dovuto svolgere per il trionfo della rivoluzione internazionale.
Il passo successivo fu il suo accreditamento presso il partito socialista italiano. Gli vennero affidati delicati compiti di attività illegale, tra i quali il reperimento di armi e, caduta la Repubblica dei Consigli, l’espatrio clandestino dei comunisti ungheresi. In cambio di un certo numero di pistole, il capitano dei carabinieri ottenne due importantissimi risultati: la conoscenza di tutti i militanti impegnati nell’attività illegale e la partecipazione ai lavori della direzione socialista in quanto responsabile militare.
In seguito venne scoperto ma il danno causato fu enorme, non fosse altro per avere provocato l’arresto di tutti i profughi ungheresi che lui stesso introduceva clandestinamente in Italia. Tutto questo a causa della criminale dabbenaggine e superficialità dei socialisti. Questo episodio ci aiuta a comprendere l’atteggiamento di estrema severità, di naturale e giustificata diffidenza, adottato dal PCd’I nei confronti di casi e personaggi non ben sperimentati o che presentavano anche un minimo sospetto o ambiguità. Le organizzazioni periferiche del partito ed i singoli compagni venivano avvertiti che «tutti coloro che si presentassero come rappresentanti dell’Internazionale Comunista, del Consiglio dei Sindacati Rossi, o di partiti comunisti esteri, senza essersi prima posti in rapporto col C.E. del P.C.I. ed essere da questo accreditati, debbono essere considerati come elementi sospetti e rigorosamente diffidati» (“Il Comunista”, 13 marzo 1921).
Ma questo atteggiamento di massima serietà e severità, adottato dal Partito Comunista d’Italia non era sempre ottemperato dagli organi dell’Internazionale. Infatti il 7 novembre 1921 il C.E. del PCd’I protestava nei confronti dell’Internazionale per il fatto che nella Kommunistische Internationale era stato pubblicato un articolo sull’organizzazione militare a firma “Ardito Rosso”, redatto da Vittorio Ambrosini, individuo assai losco e sospetto. La protesta del partito italiano era dovuta, oltre a che in un organo dell’Internazionale venissero pubblicati articoli in netto contrasto con quella che era la sua posizione al riguardo, al fatto che un simile personaggio fosse accreditato sulla parola, senza interpellare il partito del paese di provenienza. Nella medesima lettera il C.E. del nostro partito esponeva in maniera dettagliata e puntuale la genesi, la funzione e gli scopi dell’organizzazione degli Arditi del Popolo, chiusi nella lotta serrata tra i contrapposti schieramenti dei partiti borghesi; motivo per cui l’Esecutivo del partito aveva ordinato ai comunisti di rimanere fuori da tale organizzazione.
La famosa risposta dell’Internazionale, che non spiegava il caso Ambrosini, fu di condanna della posizione presa dal PCd’I giungendo ad affermazioni che forzavano la realtà: gli Arditi del Popolo erano definiti una organizzazione di massa proletaria che si ribellava spontaneamente contro il terrorismo fascista; quindi il PCd’I avrebbe dovuto entrarvi e prenderne la direzione e, nel caso in cui si fossero posti obiettivi inconciliabili con quelli del partito, i comunisti ne sarebbero allora usciti.
Non è qui che possiamo esporre il punto di vista del partito sulla partecipazione o meno a milizie illegali quali gli Arditi del Popolo: l’argomento è stato ampiamente trattato in un precedente rapporto e riassunto negli scorsi numeri di questo giornale. In attesa della sua pubblicazione integrale ci limitiamo a questa chiarissima citazione: «Quel dirigente di partito che in omaggio all’ “andar alle masse” concedesse che una centrale politica anonima e incontrollabile come quella degli Arditi del Popolo diramasse ordini diretti alle sezioni comuniste, rovinerebbe per sempre la organizzazione e l’indipendenza del partito (...) E trattandosi di una centrale militare la cosa si aggrava, se per poco si pensi che diritto di dirigenza militare significa conoscenza di mezzi di preparazione e di armamento, controllo e disposizione su questi» (“Il Comunista”, 21 marzo 1922). È vero che compito del partito rivoluzionario è influenzare e conquistare sempre più larghi strati della classe proletaria, ma il fronte unico non è una tattica generale da applicare meccanicamente in tutti i campi perché un suo errato impiego, anziché segnare passi in avanti, può provocare arretramenti e sconfitte. Se la lotta tra tendenze opposte è logica ed utile nel sindacato, e sarebbe paralizzatrice nel partito, diviene addirittura inammissibile in un organismo militare dove la concordia, la disciplina e l’accentramento devono essere assicurate al massimo grado.
Per il partito nato a Livorno non si trattava di avere più o meno fretta di “fare” la rivoluzione, ma di approntare le condizioni della vittoria proletaria. Quindi netto rifiuto di unità sul piano politico e militare, massimo impegno per l’unità delle organizzazioni economiche: è in questo caso che l’unità pone il proletariato sulla via della rivoluzione.
A questo scopo fin dall’estate del 1921 il PCd’I, aveva lanciato la proposta di una azione generale contro l’offensiva padronale e l’intensa campagna condotta dal partito e dal Comitato sindacale comunista permise di far breccia all’interno di quelle masse proletarie controllate da altri partiti politici ottenendo una serie di successi, e la costituzione dell’Alleanza del Lavoro fu il risultato di questa mobilitazione. I comunisti avevano ben chiaro quali fossero i punti deboli di tale organismo, limiti che misero bene in evidenza nella stampa di partito e nella propaganda tra gli operai, ma il valore dell’Alleanza del Lavoro risiedeva non nelle deliberazioni prese, ma in quanto era l’indicatore di una necessità che andava rapidamente maturando.
Il proletariato comprese il valore della parola d’ordine che i comunisti
lanciavano in tutte le assemblee e convegni, che non vi erano altri mezzi e
altre possibilità per opporre una efficace resistenza al padronato. Il
“Sindacato Rosso” poteva orgogliosamente scrivere:
«Questo fatto importantissimo
dimostra come il nostro Partito sia divenuto, per lo sviluppo stesso delle cose,
il caposaldo di orientamento verso il quale convergono le masse, e dimostra
anche come esso sia il solo partito della classe lavoratrice. Difatti mentre
tutti gli altri partiti e aggruppamenti politici e sindacali sono interessati
nel mantenere diviso il proletariato perché dalla sua fusione temono il loro
spodestamento, il Partito Comunista trova nella realizzazione organica del
fronte unico il suo terreno migliore di rassodo e di sviluppo. Il suo interesse
di partito combacia e si identifica perfettamente con quello della massa
operaia» (25 febbraio 1922).
Il rapporto ha messo in evidenza come i bonzi sindacali, che avevano acconsentito a dar vita all’Alleanza costretti dalla pressione proletaria, immediatamente, assieme ai socialdemocratici, tentarono di usarla a scopi puramente parlamentari.
Di contro, le direttive comuniste conquistavano sempre maggiori masse proletarie. Era ancora il “Sindacato Rosso” a scrivere: “Le compatte forze comuniste sono ormai entrate vivamente e gagliardamente nell’agone della politica proletaria la quale è ormai volta esclusivamente verso la nostra azione» (15 luglio 1922).
Da parte loro socialisti ed anarchici facevano blocco per impedire l’egemonia del PCd’I sul proletariato italiano, e l’espulsione dei comunisti si verificava sia nella CGL in mano ai riformisti, che nel Sindacato Ferrovieri in quella degli anarco-sindacalisti.
Si giunse finalmente alla proclamazione dello sciopero generale che, se non fosse stato sabotato dai vertici sindacali, avrebbe costituito l’ultima occasione per un grande urto in cui si sarebbero anche potute battere le squadre fasciste.
I fascisti, informati dello sciopero prima delle Camere del lavoro, mobilitarono
tutte le loro forze e lanciarono il loro ultimatum:
«Diamo 48 ore di tempo allo
Stato perché dia prova della sua autorità (...) Scaduto questo termine il
fascismo rivendicherà piena libertà di azione».
La riuscita dello sciopero fu dapprima parziale; le masse proletarie furono sorprese dagli ordini imprevisti dopo che alcuni giorni prima proprio i capi sindacali le avevano disarmate di fronte alle spietate offensive fasciste ed avevano sabotato ed annullato tutti gli scioperi in corso. Il secondo giorno il movimento aveva toccato il culmine, le masse aderirono in grande misura e la lotta si generalizzò. Il terzo giorno quando lo sciopero prometteva di divenire travolgente venne bloccato dall’Alleanza del Lavoro.
Lo sciopero “legalitario”, secondo l’appellativo datogli da Turati, sabotato dai
suoi stessi dirigenti, è passato alla storia come l’ultima, clamorosa sconfitta
del proletariato che avrebbe aperto la strada alla presa del potere da parte del
fascismo. La valutazione dei comunisti fu alquanto diversa: negammo che lo
sciopero fosse stato un fallimento perché rappresentò una esperienza preziosa
per il proletariato italiano dandogli rinata fiducia nell’azione generale di
classe. Lo sciopero chiarì al proletariato le idee fondamentali della lotta di
classe.
«Non sciopero pacifico o legalitario che si perde nel miraggio che il
proletariato si salvi dalla reazione a mezzo di un diversivo parlamentare;
sciopero invece di avanzata su posizioni ulteriori di lotta e di combattimento
per il sempre migliore inquadramento e armamento politico e militare delle
masse. Malgrado la bravata fascista e la viltà socialista, il proletariato è in
piedi: il proletariato non è battuto. Esso saprà troppo tardi il valore della
prova che ha dato; esso continua la lotta su due fronti, per la sua vittoria
immancabile» (“Il Comunista”, 4 agosto 1922).
Fu messa alla prova la preparazione, anche militare, dei nuclei comunisti e la
loro corrispondenza nella grande combattività mostrata dalle masse, che
avrebbero potuto assicurare la vittoria una volta sconfitto l’indegno sabotaggio
socialdemocratico.
«Malgrado tutti i coefficienti sfavorevoli, gettammo nella
lotta tutte le nostre forze, e affermiamo che si deve al nostro Partito se nella
battaglia è stato salvato l’onore della bandiera proletaria e il mezzo per
ricostruire, facendo tesoro delle sanguinose esperienze, le schiere del fronte
unico rosso per le lotte di domani» (“Il Comunista”, 25 agosto 1922).
Nei prossimi rapporti relazioneremo sulle eroiche battaglie proletarie combattute in quell’agosto 1922.
Il rapporto ha affrontato le caratteristiche della struttura e del funzionamento del partito di Lenin come si costituì negli anni a cavallo del 2° congresso del POSDR del 1903. Caratteristiche che sono molto chiare nei testi preparatori, tra i quali fondamentali sono il Che fare? e Un passo avanti e due passi indietro. L’intenzione del lavoro è dimostrare come, partendo dalle stesse premesse teoriche del marxismo, Lenin e la Sinistra italiana siano arrivati a prevedere e a far vivere lo stesso tipo di partito, conformato nel suo modo di lavorare nel centralismo organico, anche se Lenin non usa questo termine.
Alla base di tutto sta l’aderenza incrollabile, “granitica”, al marxismo, totale, senza indulgenze verso pretesi “fatti nuovi”, e quindi verso esigenze di lotta, di “democrazia” interna. Questi ultimi sono invece gli argomenti dei falsificatori della dottrina che si sono susseguiti nei decenni, allievi della scuola di Stalin. Il relatore ha fornito alcuni esempi di falsificazioni, nascoste in ossequi servili e ipocriti alla grandezza di Lenin, presentato come “innovatore” mentre nei suoi scritti ha sempre vantato la totale aderenza alla immutabile dottrina di Marx.
È proprio contro la “libertà di critica” e di “interpretazione” del marxismo che il Che fare? esordisce, rifiutando le “bastarde correzioni vaghe e opportunistiche” dei revisionisti dell’epoca, anticipando la critica allo stalinismo che sarà al centro del lavoro della Sinistra dopo la sua morte. Quindi, in tutta la sua letteratura, Lenin non esita mai a utilizzare a piene mani citazioni di Marx ed Engels a sostegno delle posizioni che difende dentro e fuori il partito, e questo non solo nella fase di nascita dell’organizzazione, ma nel corso di tutta la sua vita: basti leggere “Stato e Rivoluzione”. Ma nemmeno nei suoi primi lavori le citazioni sono carenti.
Nello scorrere i testi di Lenin il rapporto ha messo in evidenza tanti aspetti del suo modo di intendere il partito che coincidono con il nostro metodo, che sin dal 1922 definimmo di “centralismo organico”. Così il disprezzo per la democrazia, usata solo per l’arretratezza del movimento e mai ritenuta veramente utile ad individuare le scelte tattiche appropriate. Così il rifiuto della fretta nel lavoro e della ricerca delle vie facili per raggiungere un risultato: noi, con lui, siamo per seguire le vie più difficili e laboriose, noi non cerchiamo, come il borghese, di ottenere il massimo profitto con il minimo investimento.
Nel rapporto emerge anche la comunanza di visione nei riguardi del rapporto tra partito e classe, della valutazione da dare alla spontaneità, importantissima come forma embrionale di coscienza ma non tale da determinare le posizioni del partito, perlomeno non direttamente. La coscienza giunge alla classe dall’esterno, dal partito che dispone degli strumenti adeguati; il proletariato può al massimo arrivare a una coscienza “tradeunionistica”.
Lenin chiarisce anche il ruolo della coscienza e della volontà nel divenire storico: il partito è prodotto della storia della lotta di classe, ma può anche esserne fattore, secondo un meccanismo che più tardi la Sinistra chiamerà “rovesciamento della prassi”. Il rapporto dialettico risiede nel fatto che in tanto il partito rivoluzionario è un fattore cosciente e volontario degli eventi, in quanto è anche un risultato di essi e del conflitto che essi contengono tra antiche forme di produzione e nuove forze produttive. Una funzione che cadrebbe se si interrompessero i legami materiali con l’ambiente sociale e della lotta di classe.
Un altro aspetto fondamentale affrontato è stato la necessità che la teoria sia continuamente ribadita nel partito attraverso i periodici incontri, nei quali si espone il livello raggiunto di studio, di “scolpitura” della teoria e della tattica, in modo che l’organizzazione ne sia sempre padrona in tutti i suoi punti. È nostra antica convinzione che il partito forte è quello i cui militanti, in una data situazione, si comportano tutti nello stesso modo anche se privi di possibilità di comunicare tra loro e con il Centro. Questo voleva anche Lenin, pur se più spesso è dovuto intervenire, anche solitario, in situazioni in cui i suoi compagni avevano perso la bussola.
Concetto e pratica di dittatura - Prima di Marx
Blanqui nel 1848
Il 27 febbraio il governo creò gli Ateliers Nationaux, una scadente imitazione degli Ateliers Sociaux di cui parlava Blanc nel 1839; in realtà erano solo i vecchi Ateliers de Charité, per sottrarre alla piazza 100.000 operai, pagati la metà del salario normale, finché il governo non si fosse rafforzato contro di essi. Blanc accettò subito, con l’appoggio di Albert, la presidenza di una Commissione per i Lavoratori con sede al palazzo del Lussemburgo, divenuta poi proverbiale per la sua inutilità.
A partire da febbraio sorsero oltre 100 club solo a Parigi. I più importanti erano la Società Repubblicana Centrale, creata da Blanqui il 25 febbraio appena arrivato a Parigi, il Club degli Amici del Popolo di Raspail, la Società Fraterna Centrale di Cabet, il Club della Rivoluzione di Barbès, e il Club dei Montagnardi di Ledru-Rollin.
Il 5 marzo il governo provvisorio fissava la data delle elezioni al 9 aprile. Blanqui si oppose subito chiedendo un aggiornamento indefinito delle elezioni, mostrando di non avere nessuna fiducia nel suffragio universale, che avrebbe portato all’inevitabile vittoria della reazione, in un popolo abbrutito da decenni di propaganda borghese, notabile e clericale. Una ventina di club seguirono Blanqui su queste posizioni tra cui il club di Raspail e quello di Cabet, chiedendo però non un aggiornamento indefinito ma solo un posticipo delle elezioni al 31 maggio, cosa che non cambiava certamente lo scenario.
Il 14 marzo, su invito della Società Repubblicana Centrale, 15 società si unirono in un Comitato Centrale, a cui si unirono circa 300 organizzazioni operaie. Il governo provvisorio organizzò una manifestazione di 30.000 guardie nazionali borghesi, alla quale rispose una manifestazione di 200.000 repubblicani, proletari e non.
Blanqui, pur rendendosi conto dell’insensatezza della richiesta del solo posticipo elettorale, partecipò alla manifestazione del 17 marzo per non rompere il fronte rivoluzionario e non isolarsi dai proletari. Il governo provvisorio comprendeva bene la minaccia rappresentata da Blanqui, dal suo club, e dal suo tentativo di unire le forze rivoluzionarie e proletarie. Il 21 marzo, grazie ai denari del Ministero degli Interni, era sorto il Club della Rivoluzione, ossia il Club Barbès, già collega di Blanqui nel tentativo insurrezionale del 1839, e già da allora ambiguo nei comportamenti. E all’indomani del 17 marzo, con i fondi segreti del Ministero degli Interni, fu creato un Club des Clubs, che il giorno 26 raccoglieva già oltre 70 club, e che ebbe per presidente Hubert, da anni agente di polizia infiltrato nelle file repubblicane e socialiste.
Il 16 aprile ci fu una manifestazione organizzata da Ledru-Rollin che mobilitò 40 o 50.000 uomini della Guardia nazionale contro un’inesistente congiura comunista. I manifestanti operai, disarmati, furono dispersi al grido di “Morte ai comunisti! Morte a Blanqui! Morte a Cabet!”. In un resoconto del Club di Blanqui del 16 aprile leggiamo che la lezione da trarre era di non scendere nelle strade senza armi, e che la Società Repubblicana Centrale, data la repressione, doveva organizzarsi sulla base delle vecchie società segrete.
Le condizioni della classe operaia erano terribili: il fratello di Blanqui, ormai da tempo liberale, pubblica un’inchiesta sulla situazione della classe operaia francese dandone un quadro molto preciso, così come aveva fatto, in maniera diversa, Dickens per il proletariato inglese.
Il 23 aprile si tennero le elezioni con il risultato previsto da Blanqui. Seguirono gravi disordini. A Rouen la guardia nazionale sparò su una manifestazione di operai. Il giorno dopo l’esercito con i cannoni fece 34 morti fra gli operai, oltre ai feriti e agli arrestati. Alcune sezioni di club si preparavano alla lotta armata. Blanqui era contrario ad azioni ingiustificate dai rapporti di forza.
Il 4 maggio nasceva la Repubblica. Il 6 Raspail propose una manifestazione a
favore della Polonia, accettata con entusiasmo da molti club. L’organizzazione
fu affidata a Hubert che fissò la data al 15 maggio. Blanqui si mostrò subito
diffidente intuendo la provocazione poliziesca mirante ad una dura repressione.
La Società Repubblicana Centrale decise a grande maggioranza di aderire alla
manifestazione, e Blanqui, pur non essendo d’accordo, accettò la decisione,
scrivendo anni dopo:
«Mi arresi dunque. Non si comanda alle masse popolari come
a un reggimento».
Funzionari di polizia, camuffati da operai, li spinsero a irrompere
nell’Assemblea Nazionale. Hubert ne chiese lo scioglimento, a cui si oppose de
Flotte, collaboratore di Blanqui; quest’ultimo si limitò a parlare della Polonia
e dei massacri di Rouen. Scrive lo storico Danvier:
«Blanqui fu tra gli ultimi
ad uscire dall’Assemblea. Barbès, Albert, Borme e Thomas furono i primi a
correre all’Hotel de Ville dove improvvisarono un nuovo governo composto da loro
stessi. Due ore dopo l’Hotel de Ville fu circondato da migliaia di Guardie
nazionali (...) Alla sera molti capi della sinistra erano già in carcere.
Blanqui, che non partecipò alla farsa dell’Hotel de Ville, fu arrestato il 26
maggio».
Nel dicembre 1848, alle elezioni del Presidente della repubblica, alla
candidatura piccolo-borghese di Ledru-Rollin si opposero alcuni socialisti
rivoluzionari che, consigliati da Blanqui, sostennero la candidatura nettamente
socialista di Raspail. Per la prima volta in queste elezioni il proletariato si
separò nettamente dal partito democratico. Il 7 marzo 1849 cominciò il processo
di Bourges, dove Blanqui venne condannato a 10 anni di carcere, e liberato poi
da un’amnistia il 16 agosto 1859. Nel 1851, in carcere scrive:
«Traditori
sarebbero i governanti che, portati sugli scudi proletari, non procedessero
immediatamente: 1. Al disarmo generale delle guardie borghesi; 2. All’armamento
e all’organizzazione di tutti gli operai in milizia nazionale (...) Non deve
rimanere nemmeno un fucile in mano alla borghesia».
Nel giugno 1852, in una lettera di risposta a Maillard, seguace di Barbès,
scrive:
«Voi vi dite repubblicano rivoluzionario. Guardatevi dall’accontentarvi
delle parole e farvi abbindolare. Coloro che non sono né rivoluzionari né forse
nemmeno repubblicani (...) assumono questo titolo in opposizione a quello di
socialista. Mi dite: non sono né borghese, né proletario, sono un democratico
(...) Cos’è dunque un democratico? Ecco una parola vaga, banale, senza un senso
preciso, una parola elastica. Quale opinione non riuscirebbe a trovar rifugio
sotto questa insegna? Tutti pretendono essere democratici, specialmente gli
aristocratici (...) Non si vuole che i due campi opposti si chiamino coi loro
veri nomi: proletariato, borghesia. Ma non ne hanno altri».
È noto che Blanqui, senza affatto disprezzare la teoria, la considera un momento secondario rispetto all’azione. Se da un lato c’è la giusta volontà di sottrarsi alle lunghe e inutili discussioni tra le varie scuole, dall’altro è evidente che la sua dialettica, non inesistente ma molto rudimentale, non gli permette di cogliere il nesso tra teoria e prassi. Al suo sano materialismo difettano, come già detto, e la scienza e la dialettica.
Blanqui viene nuovamente arrestato per partecipazione a società segreta e condannato, nel giugno 1861, a 4 anni di prigione. Qui si forma una sorta di partito blanquista. Il 27 agosto 1865 Blanqui evade e si reca a Bruxelles. Nel 1866 è a Ginevra dove si deve svolgere il primo congresso dell’Internazionale, dando ai suoi l’ordine di non partecipare. Tre di loro non gli danno ascolto dando luogo a divisioni a cui mette termine la polizia arrestando i militanti blanquisti. Data la repressione poliziesca viene decisa la formazione di raggruppamenti di dieci membri, con un’organizzazione ispirata al sistema delle decurie e centurie creato da Buonarroti nel 1814. Gli effettivi ammontano a circa 2.500 uomini.
In uno scritto del 1867 Blanqui tuona contro la cooperazione e le altre parole
d’ordine proudhoniane, intravvedendo il pericolo della formazione di
un’aristocrazia operaia staccata dal resto della classe e divenuta sua
irriducibile nemica. Ma nello stesso scritto leggiamo:
«Nelle attuali condizioni
politiche sarebbe utile agli operai una società di mutua assistenza per la
salvaguardia dei diritti del lavoro e per la resistenza al capitale (...)
L’operaio, con la forza dell’unione, cessa di subire la volontà dei suoi antichi
dominatori (...) può fermare la svalutazione del salario, tenere in scacco lo
sfruttamento, discutere le condizioni di lavoro, invece di subirle».
Non mancavano anche allora, come oggi, coloro che consideravano l’attività sindacale un intralcio alla rivoluzione, che un materialismo volgare fa tralasciare. Questa la risposta di Blanqui: «Lasciamoli dire questi moralisti austeri, afflitti da 50.000 franchi di rendita. Lasciamo i Simeoni stiliti predicare il digiuno e il cilicio, schiena al caldo e stomaco pieno. Lasciamo i campioni pasciuti della politica estera, gli anacoreti della pancia obesa, tuonare santamente contro le dottrine materialistiche».
La concezione di Blanqui del sindacato e dello sciopero è sicuramente valida.
Dallo scritto citato leggiamo:
«Malgrado i suoi inconvenienti, lo sciopero è il
mezzo naturale, alla portata di tutti, al quale tutti partecipano (...) Lo
sciopero è la sola arma veramente popolare nella lotta contro il capitale.
Appoggiate provvisoriamente allo sciopero come mezzo difensivo contro
l’oppressione del capitale, le masse popolari devono concentrare tutti i loro
sforzi verso i cambiamenti politici, i soli riconosciuti capaci di operare una
trasformazione sociale e la ripartizione dei prodotti secondo giustizia».
La scarsa dialettica di Blanqui è comunque superiore a quella di quanti ancora oggi si definiscono marxisti e comunisti, ma le cui posizioni sono affini, più che a Blanqui, a quelle di Blanc, Ledru-Rollin o Hubert.
(Fine del resoconto al prossimo numero)
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Il 23 ed il 24 febbraio sono state due giornate di mobilitazione del sindacalismo di base in Italia.
Il 23 sono scesi in sciopero nel settore pubblico i lavoratori della scuola, della sanità e i vigili del fuoco e nel settore privato i lavoratori della logistica.
Lo sciopero dei lavoratori della scuola è stato convocato da tutti i sindacati di base – Confederazione Cobas, Cub, Unicobas, Usb, Sgb – e ad esso si sono unite anche le correnti di opposizione di sinistra nella FLC Cgil. Inoltre è stata organizzata una unica manifestazione nazionale, venerdì 23 a Roma, ben riuscita, alla quale i nostri compagni hanno distribuito questo volantino. Come vi è scritto questa unità d’azione del sindacalismo di base e conflittuale, molto positiva, avrebbe dovuto essere messa in atto però assai prima, non a firma del contratto nazionale già avvenuta (il 9 febbraio).
Nel comparto pubblico della sanità d’altronde non si è riusciti ad ottenere nemmeno questo risultato. Lo sciopero è stato proclamato dalla Confederazione Cobas Pubblico Impiego, dalla Cub, da Usb e dal SI Cobas, ma non dall’Usi Ait, dall’Sgb, né dalla Confederazione Cobas Sanità e Ricerca, che a novembre 2016 aveva rotto il legame associativo con la Confederazione Cobas. Né è stata organizzata alcuna manifestazione unitaria nazionale. L’Usb ha indetto per conto suo una manifestazione sotto il ministero della sanità, alla quale non hanno partecipato nemmeno tutte le strutture provinciali del sindacato nel settore, come ad esempio quella di Genova, e che si è risolta in un inoffensivo presidio.
Nei vigili del fuoco l’unico sindacato di base presente, l’Usb (a parte la Cub che organizza però solo alcuni cosiddetti “discontinui”, cioè precari), che pochi giorni prima aveva preso la giusta decisione di non firmare la parte economica del rinnovo contrattuale, ha proclamato lo sciopero ma non ha organizzato alcuna manifestazione.
Certamente la scelta migliore sarebbe stata quella di organizzare una manifestazione unitaria del sindacalismo di base e dei lavoratori dei tre comparti pubblici in sciopero, per unire le forze deboli e frammentate per luoghi di lavoro e settore, ma sono mancate le energie e, soprattutto, la volontà in tal senso.
Nella logistica i lavoratori sono stati mobilitati dal SI Cobas e dal piccolo ADL Cobas. Anche qui lo sciopero è stato proclamato all’interno della vertenza per il rinnovo del contratto nazionale, scaduto il 31 dicembre 2015. Va premesso al riguardo che il Ccnl 2013-15, firmato da Cgil, Cisl e Uil, oltre ad essere, come norma generale degli ultimi decenni, peggiorativo, molto spesso non viene applicato nei magazzini, con la complicità degli stessi sindacati di regime firmatari, ed il SI Cobas si è in moltissimi casi ritrovato a dover lottare per far rispettare un contratto che non condivide e non ha firmato. Laddove ha sviluppato una ragguardevole forza – come nei gruppi Bartolini, GLS, TNT, ed SDA – è invece riuscito a siglare accordi nazionali migliorativi rispetto al contratto nazionale. Va puntualizzato anche il fatto che tali accordi debbono essere poi applicati magazzino per magazzino, la qual cosa non è scontata, ma sempre dipende dai rapporti di forza.
A fine ottobre i sindacati tricolore (Cgil, Cisl e Uil) hanno proclamato due giornate di sciopero nazionale a sostegno della vertenza per poi proclamarne altre due a dicembre.
Il SI Cobas, diversamente da quanto fatto in altri frangenti, ad esempio durante lo sciopero il 24 novembre presso il magazzino Amazon a Castel S. Giovanni (PC), ha boicottato questi scioperi ed ha proclamato quattro giornate di astensione dal lavoro, divise per gruppi di imprese, dal 4 al 7 novembre. Non ci pare da biasimare questa scelta, dato il grado di corruzione e complicità col padronato raggiunto da Cgil, Cisl e Uil in questa categoria di lavoratori e per il fatto che in essa la forza raggiunta dal SI Cobas è comparabile se non maggiore a quella dei sindacati di regime. Questo sindacato di base è quindi in grado di organizzare scioperi che non risultano minoritari e colpiscono realmente l’attività produttiva.
Analogo indirizzo è invece sbagliato in quelle categorie in cui il sindacalismo di base è ancora minoritario. In questi casi l’indirizzo sindacale del nostro partito è di aderire agli scioperi promossi dal sindacalismo di regime, arrecandovi le corrette rivendicazioni classiste, e non organizzare scioperi separati, fortemente minoritari, che non fanno alcun danno al padrone.
Significativamente, la notte del 3 novembre Cgil, Cisl e Uil hanno siglato il rinnovo contrattuale, revocando le giornate di sciopero previste per dicembre.
Le 4 giornate di sciopero organizzate dal SI Cobas sembrano essere andate bene, anche meglio di analoghe, e comunque riuscite, giornate di lotta nazionali proclamate negli anni passati a sostegno della lotta per il rinnovo contrattuale di categoria. Tuttavia la forza messa in campo – per quanto vi siano non pochi segni di preoccupazione da parte di padronato, sindacati di regime e regime politico borghese – non appare ancora sufficiente a far saltare il sistema di relazioni sindacali fra aziende e sindacati di regime, che hanno potuto ancora una volta andare avanti per la loro strada.
Formalmente Filt Cgil, Fit Cisl e Uil Trasporti hanno firmato la notte del 3 novembre il nuovo Ccnl “con riserva”, affermando di scioglierla solo dopo aver svolto le assemblee fra i lavoratori, entro il 1° febbraio. In realtà ben poche sono state le assemblee svoltesi e si è trattato del consueto vuoto formalismo per dare il suggello della democrazia ad un contratto peggiorativo.
Il SI Cobas avrebbe avuto quindi quasi tre mesi di tempo, dal 7 novembre al 31 gennaio, per cercare di fermare il rinnovo contrattuale organizzando un nuovo sciopero. Ha invece atteso fino al 23 febbraio, quando la riserva era stata sciolta da quasi un mese.
Questa attesa si spiega in parte con l’organizzazione per il giorno successivo lo sciopero, sabato 24 febbraio, di una manifestazione nazionale a Roma, di carattere più politico che sindacale, non a caso a ridosso del giorno delle elezioni, il 4 marzo. Il carattere politico della manifestazione si denota, anche, nel titolo del comunicato di convocazione – “Per un fronte di lotta anticapitalista” – diverso, e che si contrappone, all’indirizzo pratico del nostro partito che è “Per un fronte unico sindacale di classe”.
La posizione politica che caratterizzava la manifestazione era l’indirizzo astensionista, per altro formulato in termini equivoci, come evidenzia la frase finale del comunicato: “Le conquiste e i diritti si strappano con la lotta; in sua assenza il voto non può che portare illusioni e delusioni”. Dal che se ne dovrebbe dedurre che, quando la classe operaia tornerà a lottare, sarà invece utile partecipare alle elezioni.
Come scritto in un altro nostro volantino, quello che qui riportiamo in prima pagina, distribuito il 24, è legittimo che la dirigenza di un sindacato esprima la propria appartenenza politica. Non lo è – in quanto dannoso – che usi il sindacato, le sue strutture organizzative, le sue energie – di militanti, iscritti e finanziarie – a sostegno di un partito o di un fronte di gruppi e partiti, quando la classe non abbia maturato questo orientamento e schieramento, venendosi a determinare una grave divisione all’interno della base del sindacato stesso e del generale movimento operaio.
Il caratterizzarsi del sindacato in senso partitico non favorisce il suo sviluppo e un rafforzarsi del movimento operaio. Un sindacato non è “ancora più” “di classe” perché si fa portavoce e sostenitore del comunismo rivoluzionario, ma in quanto sa tradurre le posizioni politiche del comunismo rivoluzionario nell’adeguato indirizzo pratico di lotta sindacale.
La manifestazione è stata un successo, con una ottima partecipazione, segno della fiducia dei lavoratori in questo sindacato e delle sforzo organizzativo dispiegato. Ma ciò non inficia la validità di quanto affermiamo. Se ad oggi i lavoratori iscritti al SI Cobas dimostrano fiducia ne loro sindacato, col tempo questa caratterizzazione in senso partitico genererà inevitabilmente divisioni, disagio, malumori. Determina poi un problema nel rapporto col resto della classe la cui adesione ad esso più facilmente può essere inibita dalle organizzazioni sindacali di regime le quali hanno buon gioco a dipingere il SI Cobas come un’organizzazione manovrata da gruppi politici per i propri scopi. Insomma, è un’azione destinata, nella misura in cui si perseveri con essa, a puntellare l’isolamento del sindacato.
L’iniziativa inoltre è stata presa dalla dirigenza del SI Cobas anche per rispondere alla decisione della dirigenza dell’Usb di dare sostegno al cartello elettorale Potere al Popolo, nel quale è confluita la cosiddetta Piattaforma Sociale Eurostop. La manifestazione è stata quindi convocata mescolando le parole d’ordine sindacali con quelle politiche per rendere più attraente la mobilitazione per gli iscritti, che meno invogliati sarebbero stati a mobilitarsi dietro a parole d’ordine prettamente politiche.
In maniera analoga si comportò l’Usb: proclamò lo sciopero generale il 10 novembre puntando però tutti i suoi sforzi sulla manifestazione nazionale del cartello Eurostop il giorno successivo a Roma. Si volle dare a bere ai lavoratori che quella fosse la manifestazione dello sciopero. Invece li si faceva marciare dietro a parole d’ordine interclassiste e nazionaliste quali l’uscita dell’Italia dall’Euro e dalla NATO.
Questi metodi delineano una pericolosa guerra fra partiti-sindacati che va a danneggiare la classe lavoratrice e il movimento sindacale, ostacolando la sua emancipazione dal sindacalismo di regime.
Il 23 ed il 24 febbraio sono state due giornate di mobilitazione del sindacalismo di base in Italia.
Il 23 sono scesi in sciopero nel settore pubblico i lavoratori della scuola, della sanità e i vigili del fuoco e nel settore privato i lavoratori della logistica.
Lo sciopero dei lavoratori della scuola è stato convocato da tutti i sindacati di base - Confederazione Cobas, Cub, Unicobas, Usb, Sgb - e ad esso si sono unite anche le correnti di opposizione di sinistra nella FLC CGIL. Inoltre è stata organizzata una unica manifestazione nazionale, venerdì 23 a Roma, ben riuscita, alla quale i nostri compagni hanno distribuito questo volantino. Come vi è scritto questa unità d’azione del sindacalismo di base e conflittuale, molto positiva,avrebbe dovuto essere messa in atto però assai prima, non a firma del contratto nazionale già avvenuta (il 9 febbraio).
Nel comparto pubblico della sanità d’altronde non si è riusciti ad ottenere nemmeno questo risultato. Lo sciopero è stato proclamato dalla Confederazione Cobas Pubblico Impiego, dalla Cub, da Usb e dal SI Cobas, ma non dall’Usi Ait, dall’Sgb, né dalla Confederazione Cobas Sanità e Ricerca, che a novembre 2016 aveva rotto il legame associativo con la Confederazione Cobas. Né è stata organizzata alcuna manifestazione unitaria nazionale. L’Usb ha indetto per conto suo una manifestazione sotto il ministero della sanità, cui non hanno partecipato nemmeno tutte le strutture provinciali del sindacato nel settore, come ad esempio quella di Genova, e che si è risolta in un inoffensivo presidio.
Nei vigili del fuoco l’unico sindacato di base presente, l’Usb (a parte la Cub che organizza però solo alcuni cosiddetti “discontinui”, cioè precari), pochi giorni prima aveva preso la giusta decisione di non firmare la parte economica del rinnovo contrattuale, ha proclamato lo sciopero ma non ha organizzato alcuna manifestazione.Certamente la scelta migliore sarebbe stata quella di organizzare una manifestazione unitaria del sindacalismo di base e dei lavoratori dei tre comparti pubblici in sciopero, per unire le forze deboli e frammentate per luoghi di lavoro e settore, ma sono mancate le energie e, soprattutto, la volontà in tal senso.
Nella logistica i lavoratori sono stati mobilitati dal SI Cobas e dal piccolo ADL Cobas. Anche qui lo sciopero è stato proclamato all’interno della vertenza per il rinnovo del contratto nazionale, scaduto dal 31 dicembre 2015. Va premesso al riguardo che il Ccnl 2013-15, firmato da Cgil, Cisl e Uil, oltre ad essere, come norma generale degli ultimi decenni, peggiorativo, molto spesso non viene applicato nei magazzini, con la complicità degli stessi sindacati di regime firmatari, ed il SI Cobas si è in moltissimi casi ritrovato a dover lottare per far rispettare un contratto che non condivide e non ha firmato. Laddove ha sviluppato una ragguardevole forza – come nei gruppi Bartolini, GLS, TNT, ed SDA – è invece riuscito a siglare accordi nazionali migliorativi rispetto al contratto nazionale. Va puntualizzato anche il fatto che tali accordi debbono essere poi applicati magazzino per magazzino, la qual cosa non è scontata, ma sempre dipende dai rapporti di forza.
A fine ottobre i sindacati tricolore (Cgil, Cisl e Uil) hanno proclamato due giornate di sciopero nazionale a sostegno della vertenza per poi proclamarne altre due a dicembre.
Il SI Cobas, diversamente da quanto fatto in altri frangenti, ad esempio durante lo sciopero il 24 novembre presso il magazzino Amazon a Castel S. Giovanni (PC), ha boicottato questi scioperi ed proclamato quattro giornate di astensione dal lavoro, divise per gruppi di imprese, dal 4 al 7 novembre.
Non ci pare da biasimare questa scelta, dato il grado di corruzione e complicità col padronato raggiunto da Cgil, Cisl e Uil in questa categoria di lavoratori e per il fatto che in essa la forza raggiunta dal SI Cobas è comparabile se non maggiore a quella dei sindacati di regime. Questo sindacato di base è quindi in grado di organizzare scioperi che non risultano minoritari e colpiscono realmente l’attività produttiva.
Analogo indirizzo d’azione è invece sbagliato in quelle categorie in cui il sindacalismo di base è ancora minoritario. In questi casi l’indirizzo sindacale del nostro partito è di aderire agli scioperi promossi dal sindacalismo di regime, arrecandovi le corrette rivendicazioni classiste, e non organizzare scioperi separati, fortemente minoritari che non fanno alcun danno al padrone.
Significativamente, la notte del 3 novembre Cgil, Cisl e Uil hanno siglato il rinnovo contrattuale, revocando le giornate di sciopero previste per dicembre. Le 4 giornate di sciopero organizzate dal SI Cobas sembrano essere andate bene, anche meglio di analoghe, e comunque riuscite, giornate di lotta nazionali proclamate negli anni passati a sostegno della lotta per il rinnovo contrattuale di categoria. Tuttavia la forza messa in campo – per quanto vi siano non pochi sintomi testimoni del fatto che preoccupi padronato, sindacati di regime e regime politico borghese – non appare ancora sufficiente a far saltare il sistema di relazioni sindacali fra aziende e sindacati di regime, che hanno potuto ancora una volta andare avanti per la loro strada.
Formalmente Filt Cgil, Fit Cisl e Uil Trasporti hanno firmato la notte del 3 novembre il nuovo Ccnl “con riserva”, affermando di scioglierla solo dopo aver svolto le assemblee fra i lavoratori, entro il 1° febbraio. In realtà ben poche sono state le assemblee svoltesi e si è trattato del consueto vuoto formalismo per dare il suggello della democrazia ad un contratto peggiorativo.
Il SI Cobas avrebbe avuto quindi quasi tre mesi di tempo, dal 7 novembre al 31 gennaio, per cercare di fermare il rinnovo contrattuale organizzando un nuovo sciopero. Ha invece atteso fino al 23 febbraio, quando la riserva era stata sciolta da quasi un mese.
Questa attesa si spiega in parte con l’organizzazione per il giorno successivo lo sciopero, sabato 24 febbraio, di una manifestazione nazionale a Roma, di carattere più politico che sindacale, non a caso a ridosso del giorno delle elezioni, il 4 marzo. Il carattere politico della manifestazione si denota, anche, nel titolo del comunicato di convocazione – “Per un fronte di lotta anticapitalista” – diverso, e che si contrappone, all’indirizzo pratico del nostro partito che è “Per un fronte unico sindacale di classe”.
La posizione politica che caratterizzava la manifestazione era l’indirizzo astensionista, per altro formulato in termini equivoci, come evidenzia la frase finale del comunicato: “Le conquiste e i diritti si strappano con la lotta; in sua assenza il voto non può che portare illusioni e delusioni”. Dal che se ne dovrebbe dedurre che, quando la classe operaia tornerà a lottare, sarà invece utile partecipare alle elezioni.
Come scritto in un altro nostro volantino, quello che qui riportiamo in prima pagina, distribuito il 24, è legittimo che la dirigenza di un sindacato esprima la propria appartenenza politica. Non lo è – in quanto dannoso – che usi il sindacato, le sue strutture organizzative, le sue energie – di militanti, iscritti e finanziarie – a sostegno di un partito o di un fronte di gruppi e partiti, quando la classe non abbia maturato questo orientamento e schieramento, venendosi a determinare una grave divisione all’interno della base del sindacato stesso e del generale movimento operaio.
Il caratterizzarsi del sindacato in senso partitico non favorisce il suo sviluppo e un rafforzarsi del movimento operaio. Un sindacato non è “ancora più” “di classe” perché si fa portavoce e sostenitore del comunismo rivoluzionario, ma in quanto sa tradurre le posizioni politiche del comunismo rivoluzionario nell’adeguato indirizzo pratico di lotta sindacale.
La manifestazione è stata un successo, con una ottima partecipazione, segno della fiducia dei lavoratori in questo sindacato e delle sforzo organizzativo dispiegato. Ma ciò non inficia la validità di quanto affermiamo.
Se ad oggi i lavoratori iscritti al SI Cobas dimostrano fiducia in questo sindacato, col tempo questa caratterizzazione in senso partitico genererà inevitabilmente divisioni, disagio, malumori. Determina poi un problema nel rapporto col resto della classe la cui adesione ad esso più facilmente può essere inibita dalle organizzazioni sindacali di regime le quali hanno buon gioco a dipingere il SI Cobas come un’organizzazione manovrata da gruppi politici ai propri scopi. Insomma, è un’azione destinata, nella misura in cui si perseveri con essa, a puntellare l’isolamento del sindacato.
L’iniziativa inoltre è stata presa dalla dirigenza del SI Cobas anche per rispondere alla decisione della dirigenza dell’Usb di dare sostegno al cartello elettorale Potere al Popolo, nel quale è confluita la cosiddetta Piattaforma Sociale Eurostop. La manifestazione è stata quindi convocata mescolando le parole d’ordine sindacali con quelle politiche per rendere più attraente la mobilitazione per gli iscritti, che meno invogliati sarebbero stati a mobilitarsi dietro a parole d’ordine prettamente politiche.
In maniera analoga si comportò l’Usb: proclamò lo sciopero generale il 10 novembre puntando però tutti i suoi sforzi sulla manifestazione politica nazionale del cartello Eurostop il giorno successivo a Roma.
Si volle dare a bere ai lavoratori che quella manifestazione politica fosse la manifestazione dello sciopero. Invece li si faceva marciare dietro a parole d’ordine politiche, reazionarie, quali l’uscita dell’Italia dall’Euro e dalla NATO.
Questi metodi delineano una pericolosa guerra fra partiti-sindacati che va a danneggiare la classe lavoratrice e il movimento sindacale, ostacolando la sua emancipazione dal sindacalismo di regime.
Roma, venerdì 23 febbraio
Oggi il sindacalismo di base ha chiamato allo sciopero nazionale i lavoratori di quattro categorie: una del settore privato, la logistica (SI Cobas e ADL Cobas), e tre del settore statale: scuola, sanità e vigili del fuoco (Usb).
È un fatto molto positivo che nella mobilitazione dei lavoratori della scuola – e parzialmente anche della sanità pubblica – tutti i sindacati di base (Confederazione Cobas, Cub, Usb, Sgb, Unicobas, SI Cobas, Usi-Ait) abbiano ritrovato l’unità d’azione organizzando uno sciopero in una unica data, superando le misere contrapposizioni fra le loro dirigenze che l’autunno scorso hanno impedito uno sciopero generale unitario. Nella scuola ciò ha permesso l’adesione anche della opposizione di sinistra in Cgil, consentendo un ulteriore rafforzamento dello sciopero.
Un altro elemento positivo è che l’Usb, unico sindacato di base ad aver accesso al tavolo di trattativa nazionale nella categoria dei vigili del fuoco, non ha firmato il rinnovo contrattuale, così come precedentemente non aveva firmato per quello del comparto delle Funzioni Centrali, siglato dai Confederali il 23 dicembre scorso.
Tutti i quattro scioperi infatti sono stati convocati riguardo al rinnovo contrattuale delle categorie, nonostante che per tre su quattro – logistica, scuola e vigili del fuoco – i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) abbiano già apposto la loro firma su contratti “a perdere”, che avallano l’ulteriore diminuzione di potere d’acquisto dei salari, in atto da anni.
Per gli statali – che hanno subìto per 8 anni il blocco contrattuale – la Cgil non ha vergogna d’affermare di “aver riconquistato il diritto al contratto”, volendo dare a bere che non fosse già intenzione dello stesso padronato in veste statale procedere a tali rinnovi, naturalmente alle sue condizioni.
Per il contratto nazionale della logistica è da sottolineare come questi sindacati tricolore – in linea con quanto fatto almeno dalla fine degli anni settanta – si siano premurati di sottoscrivere una ulteriore limitazione della libertà di sciopero, inserendo una parte delle lavorazioni del settore nell’insieme delle attività che debbono sottostare alle leggi anti-sciopero 146/1990 e 83/2000, che già colpiscono tutto il pubblico impiego, con l’evidente intento di fermare la forza crescente del movimento operaio in questa categoria, sviluppatasi in questi anni grazie al sindacato SI Cobas.
Se questo sciopero non riuscirà a riaprire i tavoli negoziali esso servirà in ogni caso a propagandare fra i lavoratori delle categorie coinvolte che vi sono dei sindacati che non hanno accettato e che rigettano con la lotta questi schifosi rinnovi contrattuali.
L’unione nello sciopero di quattro differenti categorie e, in questa giornata, del sindacalismo di base sono un piccolo passo avanti verso l’unità d’azione della classe lavoratrice e verso un fronte unico sindacale di classe, due condizioni necessarie e fondamentali affinché i lavoratori tornino ad avere la forza per difendersi.
Ma su questa strada vi è ancora molto da fare e molti errori, e nemici, da superare e sconfiggere.
Scioperi unitari del sindacalismo di base per i lavoratori del pubblico impiego – di comparto e generali – avrebbero dovuto essere organizzati prima della fase finale di rinnovo dei contratti nazionali. Ciò non è stato possibile – in questi otto anni di blocco contrattuale – per le divisioni fra le dirigenze delle varie organizzazioni che vengono superate solo allorquando la gravità della situazione lo rende inevitabile, ma riaffiorano puntualmente dopo, a sconfitta subita, impedendo la costruzione di un movimento che si muova per tempo e sviluppi la forza adeguata a rispondere all’azione concertata del padronato e dei sindacati di regime.
Anche nella giornata di oggi una compiuta unità d’azione si è avuta solo per i lavoratori della scuola, con l’organizzazione, oltre allo sciopero unitario, di una manifestazione nazionale comune. Nella sanità invece non è stata organizzata una manifestazione unitaria e vi sono state alcune defezioni dallo sciopero, di parte della Confederazione Cobas e dell’Usi-Ait.
Inoltre, in questi due comparti, ma non solo, gli scioperi non dovrebbero limitarsi ad impegnare solo i dipendenti pubblici ma dovrebbero coinvolgere anche i sempre più numerosi lavoratori degli istituti privati di questi settori, per spingere a una equiparazione delle condizioni d’impiego a quelle di miglior favore.
Infine, l’impegno delle organizzazioni sindacali in fronti unici politici o elettorali – anche quando si pretendono anticapitalisti – è una fattore di freno e arretramento, niente affatto di avanzamento, sulla strada dell’unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo conflittuale, base necessaria e fondamentale per la costruzione di un fronte unico sindacale di classe. La dirigenza di un sindacato può infatti legittimamente dichiarare di aderire ad un partito ed esprimere la sua preferenza per un dato fronte di partiti, ma non deve impegnare il sindacato, le sue energie e le sue strutture a sostenerlo, perché va così ad aprire una divisione all’interno del sindacato, con gli iscritti che a quella parte politica non appartengono, ed eleva un ostacolo all’adesione di altri lavoratori al sindacato, che facilmente ravvedono in esso lo strumento di un partito e non della generale difesa della classe. Si va poi ad imboccare una strada opposta a quella del fronte sindacale di classe: quella della guerra fra ibridi sindacati-partiti, che è quanto oggi avviene nel sindacalismo di base.
La lotta in difesa delle condizioni di vita e d’impiego della classe lavoratrice è in sé anticapitalista e tendenzialmente rivoluzionaria, e tanto più quanto sviluppa l’unità d’azione dei lavoratori. L’autentico partito comunista rivoluzionario persegue questo obiettivo col suo peculiare indirizzo sindacale classista – che preconizza il fronte unico sindacale di tutta la classe – e denuncia le alchimie politiche tipiche dell’opportunismo, fatte di fronti unici fra partiti e gruppi, e il suo vizio connaturato di mettere al loro servizio – danneggiandoli – il movimento operaio e le sue organizzazioni sindacali.
FCA è la più grande azienda esportatrice di beni della Serbia. La lotta era iniziata l’estate scorsa alla Magneti Marelli, dove 60 dei 100 operai dello stabilimento che produce i paraurti per FCA avevano scioperato per ottenere un salario uguale a quello degli operai FCA, infine conquistandolo.
In seguito a questa vittoria, il 27 giugno si sono mobilitati 2.000 operai della FCA per ottenere un aumento salariale da 38.000 (320 €) a 50.000 dinari mensili (420 €), quindi di circa il 30%, migliori condizioni di lavoro e un trasporto aziendale gratuito per gli operai del turno notturno.
Il contratto collettivo serbo prevede l’immediata apertura delle trattative in caso di sciopero ma FCA ha ignorato le agitazioni sino al 19 luglio. Quel giorno un alto dirigente italiano del gruppo ha informato il governo serbo che avrebbe aperto la trattativa soltanto se gli operai avessero cessato lo sciopero. La maggioranza dei lavoratori si schierarono per continuare lo sciopero contro le indicazioni dei sindacati, il CATUS e il TUC-nezavisnost.
Il governo serbo chiese agli operai FCA di «dare prova di amore per la Serbia nelle proprie rivendicazioni», giacché lo sciopero stava provocando gravi perdite al PIL, intimando loro di interrompere lo sciopero. Del resto lo Stato serbo detiene il 33% delle azioni di FCA-Serbia ed aveva già iniziato le trattative al decimo giorno di sciopero.
Quindi il 19 luglio, contro la volontà di due terzi degli operai in lotta e nonostante il fatto che fosse stata pianificata una protesta al comune di Kragujevac, entrambi i sindacati hanno interrotto lo sciopero per aprire la trattativa.
Il 25 luglio Zoran Markovic, presidente del comitato di sciopero e rappresentante del sindacato CATUS ha firmato un accordo con il direttore generale di FCA-Serbia, alla presenza del Ministro dell’Economia per aumenti salariali pari al 9,54%, con aggiustamenti possibili legati al tasso di inflazione.
Altre lotte operaie in SerbiaCi sono stati altri scioperi importanti nel periodo fra marzo e agosto del 2017. Invece di coordinarli i sindacati si sono limitati a formali dichiarazioni di solidarietà e nei fatti hanno lavorato a dividere le lotte, promuovendo la competizione fra gli operai nel difendere la “loro” lotta: hanno messo gli operai di Gosa contro quelli FCA, gli operai FCA delle sedi distaccate contro quelli della fabbrica centrale. Sono questi sindacati, con la loro azione disgregante, a rendere debole, e quindi a mantenere invisibile, l’intera classe operaia.
Una unificazione delle lotte operaie dovrebbe guardare anche al di là dei confini nazionali. Nell’Europa centrale, ad esempio, vi sono stati importanti scioperi all’Audi in Ungheria, alla Skoda nella Repubblica Ceca e alla Volkswagen in Slovacchia.
In Serbia come in tutta Europa i sindacati di regime cercano il dialogo con le istituzioni, questo comitato di affari della borghesia, al preciso scopo di minare lo spirito combattivo della classe.
Gorenje Valjevo, gli operai scavalcano i sindacati di regimeLa Gorenje Valjevo è una fabbrica di frigoriferi e freezer della città di Valjevo che impiega circa 1.500 operai.
Il 12 luglio a Valjevo circa 600 operai del secondo turno hanno organizzato uno sciopero di qualche ora, costituendo una squadra negoziale di circa 15 operai. Lo sciopero rivendicava aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro, giacché molti operai erano costretti a operare ad alte temperature. L’azienda inoltre obbligava gli operai a lavorare il sabato e a prendere le ferie soltanto nel mese di dicembre.
Gli operai rivendicavano un aumento salariale mensile di 41 €. Il sindacato locale prese le distanze dallo sciopero, firmando un accordo per avere riconosciuti dei buoni. 700 operai hanno disconosciuto l’opera del sindacato riprendendo lo sciopero il 14 luglio. Dopo 4 giorni di lotta l’azienda ha acconsentito un aumento salariale di 33 € mensili e un buono pasto del valore di 8 €
Gosa, un esempio di intransigente lotta operaiaIn seguito al suicidio di un operaio presso la Carrozzeria ferroviaria Gosa è iniziato uno sciopero durato mesi per protestare contro ritardi nel pagamento dei salari che andavano avanti da quasi 5 anni. L’azienda doveva sino a 4.960 € per lavoratore.
Il 15 maggio, dopo diversi mesi di sciopero, gli operai hanno ottenuto una vittoria completa. Tuttavia già alla prima transazione, l’azienda ha pagato soltanto 578 € sugli 826 concordati. Gli operai sono così rientrati immediatamente in sciopero.
Poiché l’azienda e le autorità locali sembravano ignorare la lotta, il 5 luglio gli operai decisero di occupare per 3 ore il passaggio ferroviario internazionale che collega Belgrado a Salonicco e pochi giorni dopo una autostrada che porta alla città di Topola. Ad entrambi i blocchi hanno partecipato delegazioni sindacali di organizzazioni operaie metalmeccaniche di Bulgaria, Romania e Ungheria. La lotta è terminata nel mese di settembre, quando ciascun operaio ha ricevuto circa 250 €.
Dopo vari scioperi “di avvertimento” che hanno avuto inizio il 4 gennaio nello stabilimento di Zuffenhausen della Porsche, e culminati con la proclamazione dello sciopero di 24 ore che ha visto coinvolti oltre 250.000 lavoratori di oltre 250 siti produttivi, nella notte tra il 5 e il 6 febbraio, a seguito di “una lunga trattativa”, è stato firmato un accordo tra IG Metall, il sindacato più grande dei metallurgici tedeschi, e l’associazione dei datori di lavoro Sudwestmetall. Il nuovo contratto collettivo, che durerà fino al 31 marzo 2020, riguarda 900 mila metalmeccanici del Länder del Baden-Württemberg ed è considerato come un accordo-pilota per l’intero settore e dovrebbe essere esteso a tutti i 3,9 milioni di lavoratori della categoria dell’intera Germania.
La stampa borghese gli ha dato ampio risalto facendolo passare come una grande vittoria per i lavoratori del settore. ”Metalmeccanici, in Germania vince la classe operaia. E gli altri?”, titola il Fatto Quotidiano dell’8 febbraio. Al pari delle altre testate, si esalta l’accordo riportando gli aumenti del salario del 4,3% e il diritto, per i dipendenti più anziani, di ridurre la settimana lavorativa a 28 ore, per un periodo massimo di 24 mesi. Nell’articolo è riportato il tasso di disoccupazione, che sarebbe passato dal 10,5% del 2003 al 5,1% di oggi, mentre il numero dei disoccupati nello stesso periodo si sarebbe ridotto da 4,4 milioni a 2,57. Gli occupati sono invece saliti dell’11,4%.
Ci sembra opportuno riportare integralmente alcuni passi dell’articolo in quanto
mette in luce alcuni dati sulla forza lavoro in Germania e ci permette di capire
chi sarebbero gli “altri” menzionati nel titolo. «Dietro ai numeri, però, c’è
una realtà molto diversa e composita, come non manca di sottolineare il
sindacato Ver.di, l’altro grande sindacato tedesco, quello dei servizi. In
effetti, a fronte di un aumento dell’11,4% degli occupati tra il 2003 e il 2016,
le ore lavorate sono salite solo del 6,36%. Ci sono quindi più occupati ma
lavorano per meno ore e con meno garanzie, molto spesso con mini-job da 450 euro
al mese, che prevedono oneri sociali molto ridotti per il datore di lavoro». Su
questo si veda anche la nota apparsa sul numero 361 di questo giornale.
«Nel Duemila, i lavoratori a tempo indeterminato erano il 63,4% della forza
lavoro tedesca. Nel 2016 sono scesi al 55%. Nel frattempo è salita la
percentuale dei contratti a tempo determinato e del lavoro interinale: oggi
oltre un terzo dei lavoratori tedeschi è assunto con contratti atipici, come
sottolinea l’analisi “Stabilità attraverso una forte domanda interna”,
pubblicata dal sindacato Ver.di nel febbraio del 2017. Siamo di fronte a una
società profondamente divisa, sia a livello regionale sia a livello di settori
industriali.
«Chi vive nel sud della Germania e lavora nel settore metalmeccanico (e in
genere nel settore industriale) ha visto migliorare il proprio tenore di vita
negli ultimi anni, mentre per i lavoratori dei servizi (logistica, mense,
pulizie, ecc.) il lavoro è diventato sempre più precario ed è aumentato il
rischio di povertà. La percentuale dei tedeschi a rischio di povertà è passata
in media dall’11% al 16% negli ultimi vent’anni ma in alcuni settori il rischio
è molto più elevato. Come ad esempio nel commercio al dettaglio, dove la
percentuale dei lavoratori remunerata in base a un contratto collettivo
negoziato con i sindacati è scesa dal 41% del 2010 al 30% del 2014. L’uscita
progressiva delle imprese dai contratti collettivi per i lavoratori del
commercio sta portando a salari sempre più bassi in un settore che impiega oltre
cinque milioni di persone, buona parte delle quali donne».
Gli “altri” evidentemente sono una parte integrante e cospicua della classe operaia, una parte del proletariato che deve fare i conti con condizioni economiche più sfavorevoli, con lavori più precari e con maggiore ricattabilità, ma pur sempre fratelli di classe la cui difesa potrebbe passare solo dalla solidarietà di chi starebbe “meglio”.
Torniamo quindi a chi avrebbe vinto.
Dal punto di vista salariale l’accordo precedente a quello appena firmato, del febbraio 2015, sottoscritto nella stessa regione del Baden-Württemberg, prevedeva un aumento delle paghe del 3,4% mentre quello attuale prevede una percentuale del 4,3%. Secondo Eurostat l’indice dei prezzi al consumo è stato dello 0,1% nel 2015, dello 0,4% nel 2016 e del 1,7% nel 2017; mentre, secondo l’IFO Institut di Monaco di Baviera, i prezzi al consumo aumenteranno dell’1,9% nel 2018 e del 2,2% nel 2019. Se queste previsioni si riveleranno corrette è ben evidente che l’attuale aumento è addirittura inferiore al precedente: si deve parlare quindi, al massimo, di un recupero dell’inflazione, in barba a tutta la propaganda borghese su questo accordo. Del resto, la stessa richiesta del IG Metall, che ricordiamo è un sindacato legato anche finanziariamente agli interessi dell’economia tedesca, era di un aumento del 6% in 12 mesi mentre l’accordo prevede il 4,3% a partire dal 1° aprile quindi per un totale di 27 mesi. Per i mesi da gennaio a marzo del 2018 sarà pagata un compensazione di € 100, 70 per gli apprendisti. È prevista una somma una-tantum di € 400, 200 per gli apprendisti, alla quale va aggiunta una parte variabile fino al 27,5% del salario, che sarà erogata entro il mese di luglio 2019, ma a discrezione delle aziende, che potranno revocarla in caso di cali di lavoro.
Anche per quanto riguarda l’orario di lavoro a 28 ore settimanali, anch’esso sbandierato come una vittoria, non è proprio così. L’accordo prevede la possibilità di accorciare l’orario di lavoro per periodi da sei a ventiquattro mesi per la cura di familiari anziani o bambini. Tuttavia, se non vi è alcuna sostituzione per un lavoratore con qualifiche chiave durante il periodo pertinente, il datore di lavoro può respingere la richiesta. In secondo luogo, le richieste possono essere rifiutate a seguito di picchi di lavoro superiori al 10%.
Questa individuale riduzione di orario, che non è a parità di salario, ha come contropartita che il padronato può aumentare le ore lavorative da 35 ore a 40 per il 50% della forza lavoro. Una nuova accelerata alla flessibilità senza costi aziendali, se non addirittura a costi inferiori, visto che i lavoratori che lavoreranno 40 ore settimanali dovranno produrre anche per quelli che usufruiranno delle 28 ore.
Possiamo concludere che questo è un ennesimo accordo a perdere per i lavoratori.
Il 3 marzo mille lavoratori della fabbrica di borse Simone Handbag Limited, nel distretto Panyu di Canton, il 70% dei quali donne, sono scesi in sciopero rivendicando il pagamento di alcune indennità arretrate. Canton è la capitale del Guandong, la provincia più popolosa ed industrializzata della Cina.
L’azienda, coreana, è proprietaria di sei fabbriche fra Cina, Cambogia e Vietnam e gli operai dello stabilimento di Canton temono una sua delocalizzazione, dato che il costo del lavoro negli altri paesi è inferiore a quello cinese; già l’occupazione vi si è ridotta dai 5 mila lavoratori che erano.
Questo timore però non li ha frenati dallo scendere in lotta per ottenere il salario arretrato. L’azienda ha cercato di sabotare lo sciopero. Dagli altoparlanti nella fabbrica, ad esempio, ha fatto risuonare ripetutamente un discorso nel quale definiva lo sciopero illegale.
Dopo nove giorni di sciopero consecutivi, il 13 marzo è stato sottoscritto un accordo che prevede il pagamento dell’assicurazione sociale e delle indennità di alloggio, rispettivamente il 31 luglio ed il 31 dicembre. In teoria un successo, in pratica bisognerà vedere se l’azienda ottempererà all’impegno, cosa non sicura dato che sono emersi contributi ai lavoratori non pagati risalenti persino al 1999.
Lo sciopero ad ogni modo è stato un esempio di compattezza operaia, anche se i lavoratori si sono affidati al sindacato ufficiale, e questa forse è una delle ragioni della parzialità del risultato ottenuto, visto che gli operai volevano essere pagati il 31 marzo. L’azienda, al solito, si è giustificata con problemi tecnici.
La classe operaia cinese è un gigante con una grande tradizione di lotta – ricordiamo la Comune di Canton del dicembre 1927 – cresciuta numericamente in questi ultimi decenni e che inizia ora ad affrontare i problemi della crisi di sovrapproduzione di merci che rigurgitano anche in quel paese.
Allorquando, forte del suo numero, saprà dotarsi dei suoi strumenti di lotta, di veri sindacati di classe, suonerà l’ora della riscossa operaia a livello mondiale.
Secondo la Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi, 28,5 milioni di latinoamericani e caraibici nel 2010 risiedevano in paesi diversi da quelli di nascita, il 4% della popolazione totale. In quell’anno il Messico aveva il maggior numero di emigrati, 12 milioni, veniva poi la Colombia con 1 milione.
Il flusso dalla Colombia è avvenuto in tre fasi: negli anni ‘70 verso gli Stati Uniti, negli anni ‘80 verso il Venezuela e negli anni ‘90 verso altri paesi come la Spagna e l’Ecuador. Il censimento del 2009 rivelava che si trovavano all’estero 3.378.345 colombiani, il che fa della Colombia uno dei paesi con la maggiore emigrazione in America Latina. Le destinazioni dei colombiani secondo il Dipartimento Nazionale di Statistica erano: Stati Uniti (34,6%), Spagna (23,1%), Venezuela (20,0%), Ecuador (3,1%), Canada (2,0%), Panama (1,4%), Messico (1,1%), Costa Rica (1,1%) e percentuali minori in Australia, Perù e Bolivia.
Quindi, storicamente, il Venezuela era stato finora la destinazione di notevoli ondate di lavoratori immigrati, provenienti da Europa, Asia e America Latina, fra questi in particolare colombiani, ampiamente sfruttati in agricoltura, nel commercio e nei servizi, approfittando dello status illegale della loro maggioranza.
Ma a partire dal 2017 l’esodo dei lavoratori venezuelani è aumentato in modo significativo, proprio con la Colombia a principale destinazione. Sono lavoratori nella maggior parte con bassa qualifica e senza permessi. Secondo uno studio dell’Università Simón Bolívar, nel 2017 ben 2,5 milioni venezuelani hanno lasciato il paese a causa della crisi sempre più acuta che il paese sta attraversando. Lo studio prevede che potrebbero aumentare fino a 3-3,2 milioni entro la fine del 2018. Uruguay, Perù, Colombia, Brasile ed Ecuador hanno registrato nel 2017 il maggiore aumento di venezuelani rispetto al 2016.
È nell’ultimo decennio che si è avuta questa emigrazione, inizialmente prevalentemente di imprenditori in crisi, professionisti e tecnici, poi, negli ultimi due anni, di lavoratori qualificati e non qualificati, in parte come clandestini. Fino al 2015, i paesi preferiti dagli emigrati venezuelani erano Stati Uniti, Spagna, Colombia, Cile e Messico.Molti oggi vanno in Colombia, che ha un lungo confine con il Venezuela. Nonostante la crisi anche in quel paese, gli imprenditori colombiani per risparmiare sui costi assumono venezuelani in settori come il commercio, i servizi e le costruzioni. In altre regioni colombiane i venezuelani sono assunti per la raccolta del caffè, senza alcun diritto e pagati giornalmente secondo i chili raccolti. Naturalmente questo è lo stesso trattamento che ricevono gli emigrati di tutte le nazionalità, compresi i colombiani quando si spostano in altri paesi, tra cui il Venezuela, dove si trova un grande numero di lavoratori colombiani! Anche il Brasile è una destinazione per molti venezuelani. Benché la disoccupazione non vi receda e il governo da solo nel 2017 abbia eliminato quasi 21 mila posti di lavoro, gli agricoltori e gli allevatori brasiliani hanno iniziato a sfruttare la manodopera avventizia e a basso costo degli immigrati venezuelani.
Né in Colombia né in Brasile è stata segnalata alcuna sanzioni nei confronti di agricoltori e allevatori per lo sfruttamento illegale degli immigrati e lo stesso si verifica in Venezuela, Perù, Cile, Argentina, Uruguay, Messico, Stati Uniti, ecc.
Al super sfruttamento cui sono sottoposti i lavoratori clandestini si aggiunge il loro impiego nel traffico di droga, nel commercio sessuale, oltre a trarne guadagni finanziari taglieggiando le loro rimesse nel paese di origine.
Assistiamo oggi ad uno scontro mediatico sia tra il governo venezuelano e la sua opposizione interna, sia tra quello e i governi di Colombia, Brasile, Perù, Cile e Stati Uniti, con esposizione di cifre esagerate circa la presenza di colombiani in Venezuela e di venezuelani in altri paesi. Su questo terreno propagandistico e politicantesco, gli oppositori al governo venezuelano hanno preteso esistesse una “crisi umanitaria” in Venezuela e i governi di Colombia e Brasile ci hanno visto l’opportunità di farci un business: hanno chiesto assistenza e sostegno finanziario per impiantare “campi profughi” dedicati ad accogliere l’esodo dei venezuelani che attraversano i loro confini. Il governo degli Stati Uniti si è detto disposto a fornire alla Colombia e al Brasile assistenza “tecnica e umanitaria” a soccorso degli immigrati venezuelani. Il governo venezuelano invece nega questa crisi e insiste che sono invenzioni funzionali alla guerra economica orchestrata dagli Stati Uniti, i quali avrebbero essi provocato artificialmente carestia e speculazioni.
Ma è evidente che, con un salario minimo nominale di $ 9 al mese, secondo il cambio ufficiale, e $ 2,5 al mercato nero, e con i prezzi di beni e servizi convertiti in bolivar in base a quest’ultimo, e rispetto a un costo solo per gli alimenti di circa $ 125, senza considerare gli altri beni e servizi di base, gran numero di lavoratori venezuelani, qualificati e non, dovranno volgersi all’emigrazione per poter sopravvivere. Di fatto, anche se non esistono statistiche ufficiali, una massa di lavoratori sta lasciando il Venezuela alla ricerca di una opportunità di lavoro e di un salario da inviare alle famiglie. Primi sono gli immigrati che vivevano in Venezuela, che tornano nei paesi di origine, Colombia, Perù, Cile, ecc. E tutti questi spostamenti avvengono in condizioni di illegalità, circostanza che è sempre stata sfruttata dal mondo capitalista in tutto il mondo.
Con l’aggravarsi della crisi del capitalismo i vari governi borghesi in tutto il mondo impongono l’aumento della flessibilità, bassi salari, ritardo dell’età pensionabile, intensificazione del lavoro, riduzione dei costi in materia di salute e della sicurezza sul lavoro, aumento degli straordinari, ecc. Intanto favoriscono la mobilità dei lavoratori fra diversi paesi e il libero sfruttamento degli immigrati.
Il proletariato è una classe internazionale e la direzione delle sue lotte non può essere lasciata alle reazionarie correnti patriottiche, nazionaliste, regionalistiche, che negano la lotta di classe anticapitalista e promuovono la concorrenza e lo scontro fra lavoratori, del quale approfitta la borghesia con il sostegno dei suoi governi e suoi sindacati di regime.
Il proletariato si deve riorganizzare partendo dal rifiuto di ogni demagogia contro gli immigrati, respingendo ogni divisione fra lavoratori per ragioni di nazionalità. I lavoratori autoctoni e gli immigrati devono essere considerati come una sola classe che deve affrontare lo sfruttamento dei capitalisti. I sindacati di classe raggrupperanno assieme lavoratori attivi e disoccupati, indipendentemente dalla nazionalità, dal credo religioso, dall’opinione politica o dal colore della pelle; organizzati per località tenderanno a unificare lavoratori di diverse aziende e rami di attività economica; rifiuteranno la separazione fra stabili e precari. Su questa strada arriveranno a lottare per la trasformazione rivoluzionaria della società, diretti dal Partito comunista internazionale.
Il contratto a perdere dei lavoratori del petrolio
Queste le clausole socio-economiche del contratto: a) incremento salariale del 180%, al quale si somma l’aumento del 58% decretato dall’Esecutivo Nazionale; b) l’ammontare della Tessera Economica Alimentare (TEA) passa da 1.650.000 a 2.800.000 bolivares; c) un Buono di due volte e mezzo il salario base settimanale.
Il contratto firmato riflette la persistenza della strategia padronale di mantenere bassi i salari e manipolare i lavoratori attraverso lo strumento dei Buoni, che si sommano al salario andando a formare quello che chiamano reddito mensile integrale. Fatti i conti il salario base si riduce al 19,4% del totale, l’80,6% essendo buoni; pertanto, al momento del licenziamento o del pensionamento (così come per le ferie) l’ammontare per il calcolo delle prestazioni sarà ridotto in quella proporzione.
Durante tutta la discussione del contratto i sindacati hanno mantenuto smobilitati i lavoratori e non hanno tenuto le assemblee. Hanno solo fatto circolare messaggi sui telefonini, senza avviare la discussione fra i lavoratori, men che meno organizzando mobilitazioni per fare pressione sui padroni. Se è vero che i lavoratori sono rimasti passivi, ciò in buona parte è dovuto al timore per la repressione interna e la costante minaccia di licenziamento. Ai lavoratori manca l’orientamento critico e classista necessario per intraprendere la lotta rivendicativa.
Giovedì 22 febbraio un fatto straordinario è occorso nel West Virginia: uno sciopero illegale di oltre 22.000 insegnanti e altri lavoratori della scuola. Tutte le scuole pubbliche sono state chiuse e dopo una settimana i lavoratori hanno deciso di continuare lo sciopero. Nonostante le minacce delle autorità dello Stato di intraprendere non ben precisate azioni repressive, nella sua seconda settimana lo sciopero è andato crescendo e rafforzandosi. Uno scioperante intervistato ha detto: “Cosa possono fare, licenziarci tutti? E chi troverebbero per rimpiazzarci?”. Infatti, con i salari fra i più bassi negli Stati Uniti, l’amministrazione statale già non è stata in grado di coprire 700 posti di insegnante.
Poiché le paghe dei lavoratori della scuola sono stabilite da una legge dello Stato, gli scioperanti hanno organizzato diverse manifestazione a Charleston, la capitale, per andare a protestare rumorosamente davanti alle porte, sbarrate, del Senato in seduta.
Lo sciopero si è autorganizzato, cominciando l’anno scorso quando alcuni lavoratori hanno creato un gruppo Facebook per discutere come affrontare l’amministrazione ed ottenere miglioramenti salariali e della protezione sociale. “Questo è un movimento nato quasi completamente dal basso, i sindacati ci hanno seguito”, hanno detto gli insegnanti, organizzando poi una manifestazione ufficiale. Ma ormai “il gatto era scappato dalla gabbia” e si sono tenute votazioni per lo sciopero in ogni contea.
I lavoratori della scuola del West Virginia hanno infine accettato l’offerta dello Stato e sono tornati al lavoro con un aumento del 5% delle paghe. È stato un successo? Come tutti gli scioperi, si e no. L’aumento deve far fronte ad attacchi alle condizioni di vita di tutti i lavoratori del West Virginia: tagli nelle sovvenzioni scolastiche e nell’assistenza sanitaria.
Nonostante i tentativi dell’amministrazione statale di denigrarlo, l’emozione suscitata da uno sciopero condotto dalla base ha attraversato il paese. Gli insegnati dell’Oklahoma forse sciopereranno all’inizio di aprile, organizzando le loro attività su Facebook. Anche i lavoratori dell’Arizona e del Kentucky stanno usando i metodi degli scioperanti della scuola del West Virginia.
Di certo è già una vittoria che si stia diffondendo un movimento di sciopero condotto direttamente dai lavoratori.
Per quanto riguarda il “trumpismo”. Ci siamo ritrovati uno sciopero illegale di massa in uno Stato nel quale la vittoria elettorale di Trump è stata particolarmente schiacciante (68,7%), uno dei due soli Stati in cui “The Donald” ha prevalso in tutte le contee. Da materialisti non ne siamo sorpresi: le elezioni sono solo una frottola e i lavoratori, quando scoprono di averne la forza, prendono la loro strada a prescindere da quello che hanno votato alle elezioni.
Il partito chiama alla costruzione di un Fronte Unico Sindacale di Classe: coordinare i sindacati che lottano davvero per la classe lavoratrice, a livello locale e federale, e i gruppi operai di base come quello che sta conducendo questo sciopero. Un tale coordinamento darà la forza ai lavoratori per vincere in tante future battaglie in difesa dei loro interessi economici.
Nelle fabbriche e nei magazzini ai lavoratori sono imposti ritmi di lavoro disumani. Il decrepito modo di produzione capitalistico sopravvive solo sulla spremitura della forza lavoro. Alla Amazon ogni trenta secondi si deve confezionare un pacco, a Porcia, nelle catene di montaggio della Electrolux, passa una lavatrice ogni 38 secondi. Questo massacrante e disumano sfruttamento porta i lavoratori allo sfinimento fisico e mentale, con il ricatto perenne del licenziamento. E non sarà certo la “quarta rivoluzione industriale”, così definita dai piazzisti della borghesia, ad eliminare lo scontro capitale-lavoro e le condizioni di super-sfruttamento.
Anche in Europa sono stati stanziati svariati milioni di euro per le aziende che acquisteranno macchinari che rientrano nel progetto denominato “Industry 4.0”. In Italia per queste aziende lo Stato ha previsto lo sgravio dalle tasse del 250% della spesa, un premio di volta e mezzo il costo della macchina. Una enormità coperta con “soldi pubblici”, ovvero per la stragrande maggioranza sottratti alle buste paga dei salariati. Per la classe operaia una triplice fregatura: con i propri soldi vengono agevolate le aziende; lo Stato avrà meno soldi da destinare a quel poco che rimane del salario differito, il cosiddetto welfare; infine i lavoratori verranno in parte sostituiti dalle nuove macchine, in parte vedranno peggiorare le loro condizioni di lavoro.
Si tratta di un ulteriore sistema di controllo e imposizione ai lavoratori di ritmi di lavoro disumani e massacranti attraverso l’adozione di specifici programmi informatici. Lo spiega un articolo del Sole 24 Ore, “Lavorare con l’algoritmo, ecco la fabbrica che verrà”:
L’alienazione totale, giusta Marx che nei Manoscritti economici-filosofici del
1844, descrivendo scientificamente il capitalismo poteva ben prevedere tutte le
sue conseguenze, anche “informatiche”, di oggi:
«L’operaio diventa tanto più
povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione
cresce di potenza e di estensione. L’operaio diventa una merce tanto più vile
quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del
mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle
cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce sé stesso e l’operaio come
una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le
merci».
«In che cosa consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel
fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e
quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto,
infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il
suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si
sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non
lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario,
ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un
bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare altri bisogni. La sua estraneità si
rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o
qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro
esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se
stessi, di mortificazione. Infine l’esteriorità del lavoro per l’operaio appare
in ciò che il lavoro non è suo proprio, ma è di un altro. Non gli appartiene, ed
egli, nel lavoro, non appartiene a sé stesso, ma ad un altro».
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Quello che esce dal voto nelle urne elettorali, ben diretto dai potenti e rintronanti media borghesi, è sempre e comunque quanto deciso dai massimi mestatori della internazionale classe dominante, i quali non sono eletti e non siedono in parlamento, ma nei consigli direttivi delle banche e delle grandi industrie.
La rissa in Italia di questi giorni fra Lega, M5S e PD è solo una pantomima senza alcun contenuto né politico né programmatico né sociale. Il loro riferirsi a ceti e a classi è solo apparente, di marketing elettorale, perché tutti sono ubbidienti allo Stato borghese e da questo sono stipendiati. Recitano.
Perché, in questi tempi di crisi economica del modo di produzione capitalistico, sempre sul punto di diventare anche sociale e politica, la borghesia deve continuare a trincerarsi dietro il mito democratico e i suoi inganni, solo una maschera delle istituzioni statali, strumento di cui la classe dominante si serve per conservarsi al potere. Non è dunque un caso se continua, nonostante tutto, lo stanco rito dell’appello al “popolo”, entità sovrana che sarebbe in grado di sanare il decrepito e barcollante baraccone del potere, in realtà nelle salde mani della classe dei capitalisti. Lo sforzo del ceto politico a servizio della classe dominante è di dare a intendere a quella dominata che lo Stato borghese sia neutrale, al di sopra di tutte le classi sociali, la cui imparzialità sarebbe sancita dalla Costituzione, testo sacro a garanzia dei “diritti” di ciascun “cittadino”, senza distinzione di condizione economica.
E l’idolatria verso i feticci della democrazia è animosamente condivisa da tutte le anime belle della cosiddetta “sinistra radicale”, anche di quella che si vuole “antagonista” e “antisistema”, che all’infinito ne riscopre le pretese virtù purgative di ogni pubblica corruttela, nel rito lustrale delle elezioni politiche. A tempo utile sorgono “a sinistra” nuovi partitini a riportare nell’alveo della democrazia e della “competizione elettorale” quei proletari che manifestino avversione nei confronti del politicantismo parlamentare.
Per iniziativa di un Centro Sociale “alternativo” napoletano, nelle scorse elezioni ha perfino concorso una nuova lista dal nome altisonante quanto vuoto di “Potere al popolo”. Il nome già dice tutto. Cosa è mai infatti il popolo per noi marxisti se non un amalgama indistinto di classi nemiche e in lotta fra loro? Fare appello al popolo non significa quindi porsi sul piano del più aperto interclassismo? I comunisti non fanno appello al popolo, che esprime l’unità della nazione borghese, ma si rivolgono soltanto ai lavoratori, alla classe dei lavoratori.
Sappiamo bene e in anticipo la traiettoria e l’esito finale di tale genere di operazioni, le quali, dopo avere suscitato effimeri entusiasmi, si concludono col disvelare il loro saldo ancoraggio al campo politico borghese, in verità mai negato sin dall’inizio. Il che non viene smentito dal loro modestissimo risultato elettorale, rimasto ben lontano dalla soglia del fatidico 3% per entrare in parlamento. Ma “Potere al popolo” ha comunque assolto alla funzione di “differenziare l’offerta” spingendo alle urne molti proletari fra quanti se ne sarebbero tenuti lontani.
Per di più l’adesione alla lista di ben nove partitini di “estrema sinistra” in una grande ammucchiata fra posizioni in teoria opposte, dai trotskisti agli stalinisti, conferma che tutti loro perseguono gli stessi fini nell’agone politico borghese, che nulla hanno a che fare con la lotta di classe e con l’emancipazione del proletariato.
Lo conferma il programma elettorale di questi “rappresentanti del popolo”. Al primo punto “difesa e rilancio della costituzione nata dalla Resistenza”. Si ignora che la tanto incensata carta costituzionale è stata il quadro giuridico all’interno del quale si sono consumati ben 70 anni di dominio della classe borghese in Italia. Guardano anche con vivo rimpianto alle “forze della sinistra” che hanno allora contribuito a sostenere il regime del capitale ingannando i lavoratori con impercorribili “vie italiane al socialismo” o “alternative di sinistra”.
Peggio ancora, quando si avanzano demagogiche rivendicazioni che si vorrebbero a favore della classe lavoratrice, per sostenerle non le si prospetta altra strategia che quella di chiedere voti.
Tutto ciò non ci stupisce affatto. La nostra critica dell’elettoralismo ha radici lontane e parte dalla constatazione che, nei paesi ove il potere borghese e la forma democratica di governo sono ben affermati, le campagne elettorali sono per la classe dominante il migliore antidoto per prevenire il manifestarsi e il generalizzarsi della lotta di classe.
Lo scorso 15 febbraio il presidente iraniano Hassan Rouhani si è recato per tre giorni in India, dopo dieci anni che un capo di Stato iraniano non vi andava in visita ufficiale.
Ad Hyderabad è stato accolto dal ministro indiano dell’Elettricità e dai governatori degli Stati dell’Andhra Pradesh e del Telangana. Dopo le formalità di benvenuto, è intervenuto davanti ad una platea di guide religiose, intellettuali e studiosi islamici, dove, da buon diplomatico borghese, ha espresso apprezzamenti per la “diversità culturale” in India e la “coesistenza pacifica” di fedi diverse, “museo vivente di scuole di pensiero”. Dopo il solito cerimoniale nei giorni successivi si è passati ai fatti concreti, e di una certa rilevanza.
Il presidente della Repubblica Islamica è infatti riuscito a stringere importanti rapporti commerciali con lo Stato indiano, accordandosi con Narendra Modi, Primo ministro dell’India, da che il suo partito – il Partito Popolare Indiano (BJP) all’interno della coalizione Alleanza Nazionale Democratica – vinse le elezioni indiane nel 2014. Non scontati e significativi risultati da ambo le parti. Il più importante è l’assegnazione a Delhi della gestione e sviluppo del porto di Chabahar (ex Bandar Beheshti) nel golfo di Oman, nel sud est dell’Iran.
Già nel 2016, quando Modi andò a Teheran, India, Iran ed Afghanistan firmarono un Memorandum d’Intesa Trilaterale per la creazione di una rete di trasporto che collegasse Chabahar all’Afghanistan, nell’intento di aprire una nuova via verso l’Asia Centrale evitando il Pakistan, di fatto in alternativa ad una parte del progetto cinese della Nuova Via della Seta, detto anche One Belt One Road. I capitalisti indiani, attraverso questo nuovo tracciato, potranno trasportare merci evitando lo storico nemico pakistano, via mare da Kandla, in Gujarat, o da Monbay, a Chabahar, per proseguire su ferrovia. Il porto e la ferrovia sono già parzialmente attivi e vi si trasferiscono diverse merci, in particolare grano esportato dall’India in Afghanistan.
Un percorso che sarebbe approssimativamente parallelo a quello aperto tra Cina e Pakistan e che già collega lo Xinjiang al porto di Gwadar. È un corridoio commerciale di fondamentale importanza, tanto che la Cina si è assicurata i diritti sul porto pakistano per i prossimi 40 anni. La seconda base militare cinese al di fuori dei confini, dopo Gibuti nel corno d’Africa, potrebbe esser proprio Gwadar.
I primi contatti ufficiali tra i due paesi per lo sviluppo di questo porto risalgono a ben 15 anni fa. Solo oggi sono andati a buon fine per il gioco dei vari attori, non solo quelli regionali, per i rapporti di forza tra gli imperialismi e le loro mutevoli alleanze.
Gli Stati uniti da tempo sono in contrasto con l’Iran sciita, ma se è vero che con la nuova presidenza Usa i rapporti non sono migliorati – Trump ha rotto l’accordo sul nucleare firmato anche dagli Usa nel luglio 2015 – è altresì probabile che dietro a questo importante accordo commerciale tra India ed Iran vi sia anche il via libera di Washington, o quantomeno la sua non opposizione, determinato da una parte per contenere l’espansionismo cinese nell’area, dall’altra per imporre un ennesimo controllo economico sul martoriato Afghanistan. Un quadro quindi non certo granitico che oggi vede Islamabad sempre più legata a Pechino, mentre gli Usa provano a rafforzare i rapporti con l’India in chiave anti-cinese valorizzando il peso del gigante asiatico meridionale che indubbiamente ha una certa influenza in tutta la regione e sull’Oceano Indiano. Il capitalismo, oggi imperialismo, è anche questo, alleanze pronte a rompersi ed indiretti aiuti a paesi considerati nemici o addirittura Stati canaglia.
L’Iran, dal canto suo, che da sempre sfrutta l’invidiabile posizione geografica crocevia tra est ed ovest, ha altresì dichiarato di essere disposto a firmare con gli indiani accordi strategici a lungo termine per l’approvvigionamento del petrolio. Nel passato l’India era arrivata a coprire il 17% del proprio fabbisogno di petrolio importandolo da Teheran, poi, per le pressioni USA, nel 2016 la quota è scesa intorno al 10% accrescendo le forniture dell’Arabia Saudita e dell’Iraq. Valori notevoli considerando che l’India è tra i primi importatori di petrolio al mondo. L’imperialismo cinese invece da tempo rafforza le sue posizioni, oltre che in Pakistan, nei Paesi del Sud-est asiatico e stringe legami economici e politici con il Myanmar (come descritto nel numero scorso nell’articolo sui Rohingya), il Nepal, il Bangladesh, il Laos, lo Sri Lanka, accerchiando di fatto il gigante indiano. Le Maldive, paradisiaci atolli a sud del subcontinente negli stereotipi del fessume turistico, sono state investite dalle tensioni tra questi imperialismi. A febbraio il governo vi ha infatti dichiarato lo stato di emergenza e la legge marziale. L’ex presidente Nasheed, filo indiano, in carica fino al 2012 poi in esilio in Inghilterra, ha chiesto formalmente aiuto all’India, auspicando un intervento diplomatico con appoggio militare, come nel 1988 quando i militari indiani soffocarono un tentativo di golpe nell’arcipelago, e agli Stati Uniti, in modo da bloccare le transazioni di denaro verso l’attuale presidente Yameen, che invece è un protetto della Cina con la quale ha siglato diversi accordi nell’ambito della One Belt One Road Initiative. Almeno 11 navi cinesi sarebbero entrate nell’Oceano Indiano, poi richiamate nel Mar Cinese meridionale, mentre New Delhi avrebbe pattugliato l’area con otto navi. Insomma, un’altra area di crisi nella lotta tra India e Cina per assicurarsi le sfere d’influenza nella regione, e che oggi vede dominare Pechino.
Il settore del turismo, che muove un indotto annuo di oltre due miliardi di euro, ne ha ovviamente risentito. Le Maldive, dopo l’indipendenza dal Regno Unito nel 1965, sono sempre state sotto l’influenza indiana, ma da diversi anni la Cina è riuscita a ribaltare questa tendenza, grazie a forti investimenti e prestiti. L’economia indiana è in ritardo rispetto a quella cinese: l’ammodernamento dell’aeroporto di Malè, nelle Maldive, nel 2012 è stato affidato a ditte cinesi. Inoltre la Cina, che con i suo trecentomila visitatori è la prima esportatrice di “vacanzieri” nell’arcipelago, ha stanziato ingenti fondi per la costruzione di un tunnel sottomarino tra l’isolotto di Malè e il contiguo di Hulhumale.
L’India quindi ha concluso un accordo con le più lontane Seychelles, 20° più ad oriente nell’Oceano Indiano, per costruire una pista di atterraggio e ponti di attracco per la sua Marina sull’isola di Assumption. La folle insensata crescita del capitalismo ha reso anche l’Oceano Indiano un’area strategica per giganti economici come l’indiano e il cinese, che in queste acque fanno viaggiare gran parte del loro commercio e le fondamentali importazioni di petrolio. Dunque tensioni e crisi sono destinate ad inasprirsi sempre di più sotto la spinta della crisi economica e del crescente antagonismo tra gli Stati imperialisti.
Nel documento letto da Trump, presidente degli Stati Uniti dal gennaio 2017, ma scritto da James Mattis, Segretario alla Difesa, gli Stati più citati come una minaccia alla sicurezza e agli interessi politici e soprattutto economici degli Stati Uniti sono, nell’ordine, la Cina, la Russia, l’Iran e la Corea del Nord. Monta arrogante la voce del più forte che rivendica apertamente l’uso sia della sua diplomazia (sull’aggettivo “segreto” si sorvola) sia dei suoi strumenti militari ed economici. Possiamo aspettarci dalle medie e piccole potenze un valzer di corteggiamenti ed alleanze nel prossimo futuro con i grandi imperialismi in guerra per il mercato mondiale.
Il grande nemico degli Stati Uniti viene chiaramente identificato nella Cina. Del resto se la Cina avesse la stessa franchezza metterebbe Washington al medesimo posto.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, ora è chiaro che gli Stati Uniti sono lontani dal ritirarsi dalla regione, come promesso dal “pacifista” Obama. Né lui né Trump hanno ridotto la massiccia presenza militare statunitense nel Golfo, e recentemente sono state aumentate le truppe Usa in Iraq e in Siria.
L’Iran ora diventa l’obbiettivo principale della diplomazia americana in Medio Oriente. Ma già prima la diplomazia più “cortese” di Obama aveva lo stesso scopo. Si trattava e si tratta di contrastare l’azione del potente dragone cinese, che si nasconde in giro per il mondo, spesso accompagnato dal piccolo orso russo. Trump e Mattis (ex generale dei Marines nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, dal piglio arrogante) hanno denunciato l’espansione regionale dell’Iran e della sua influenza su un territorio che attraversa il Medio Oriente dal Golfo Persico al Mediterraneo: in Iraq (dove l’intervento americano ha sbarazzato l’Iran del suo nemico Saddam Hussein), in Siria (attraverso il sostegno di Teheran a Bashar Assad, con la complicità della Russia), in Libano (alleato di fatto alla milizia degli Hezbollah).
Anche dal punto di vista economico l’Iran fa sentire il suo peso nei paesi di questa sua sfera d’influenza, anche se deve fare i conti con la concorrenza di altri Stati. Significativo il caso dell’Iraq il cui principale partner commerciale è la Turchia col 22% dell’interscambio, seguita dalla Cina con il 20% e dall’Iran col 16%. Teheran è uscita vincente nella partita con Riad dato che il suo volume di interscambio con l’Iraq è il doppio di quello con l’Arabia Saudita.In Siria la città di Deir ez-Zor era stata sottratta al controllo dello Stato Islamico dall’esercito siriano con l’appoggio delle truppe russe e delle milizie dei pasdaran iraniani. Dopo tre mesi l’aviazione statunitense è intervenuta direttamente per impedire che si rafforzasse il cosiddetto “corridoio sciita”, che consente lo spostamento delle forze dei pasdaran iraniani e delle milizie sciite irachene senza discontinuità dall’Iran al Libano. Il 7 febbraio scorso i jet statunitensi hanno bombardato le truppe lealiste siriane che si erano impadronite dei pozzi petroliferi di Khusham, non lontano da Deir ez-Zor. La decisione di attaccare è arrivata dopo che l’avanzata da Nord delle Forze Democratiche Siriane, composte in prevalenza da curdi siriani e appoggiate dalle truppe e dall’aviazione statunitensi, avevano debellato le milizie del sedicente Stato Islamico. Venuta meno questa entità, che funzionava da cuscinetto, erano entrate in contatto diretto con l’esercito regolare siriano.
Nei giorni successivi alcuni organi di stampa hanno parlato della presenza di numerosi contractor russi fra le vittime del raid statunitense su Khusham. Anzi, secondo quanto riferito da alcuni media, l’obiettivo diretto dei bombardieri a stelle e strisce sarebbe stata proprio una colonna di circa 500 mercenari russi che agivano a sostegno delle truppe di Damasco. Una circostanza questa che resta tuttavia dubbia a causa delle discordanti versioni fornite dalle contrapposte macchine della propaganda delle potenze presenti sul teatro di guerra.
Secondo la dottrina militare statunitense Teheran sarebbe anche responsabile della mancata risoluzione della questione palestinese a causa del sostegno ad Hamas. La diplomazia americana manifesta apertamente il suo appoggio ad Israele, che si riconferma la fortezza degli USA in Medio Oriente, e si avvicina di nuovo a quegli Stati arabi sunniti che si sentono minacciati dall’Iran. È certo che le reazioni che hanno fatto seguito alla decisione a tutto volume di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele sono state deboli tra i governi arabi della regione, tra cui quelli dell’Arabia Saudita e dell’Egitto. In Arabia Saudita il “salvatore”, cioè il principe ereditario Mohammad bin Salman – che concede “generosamente” alcuni diritti alle donne ma imprigiona e tortura per “reati economici”, in realtà politici, numerosi elementi di primo piano della classe dominante – era in attesa di questa decisione, essendo l’Iran la potenza regionale più pericolosa per il suo Paese (i due Stati sono schierati su fronti opposti nella guerra in Yemen), superando in questo la Turchia.
Ma l’Iran ha altre risorse. In conseguenza del blocco economico saudita contro il Qatar, in ritorsione del sostegno dato da questo Stato ai Fratelli Musulmani e per colpire il canale televisivo di Al Jazeera, Teheran, e la Turchia, hanno potuto riavvicinarsi a Doha con cui l’Iran condivide lo sfruttamento del più grande giacimento di gas naturale del mondo. Inoltre Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, è stato il centro commerciale dell’Iran durante il periodo delle sanzioni ed è oggi la capitale finanziaria di quel Paese.
La questione della risoluzione del problema palestinese è sempre più secondaria per tutte le borghesie, ad eccezione di quelle rappresentate a Bruxelles che ancora persistono nel nominare uno Stato palestinese a cui loro per prime non credono, compresa una buona maggioranza dei palestinesi, stretti nella morsa della repressione esercitata da un lato dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza, e da quella israeliana dall’altro. Infine il grande gioco sulla scacchiera regionale continuava con l’entrata di truppe turche nel nord della Siria per attaccare la città di Afrin, la quale era dal 2012 sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane, vicine al PKK. Il 18 marzo scorso reparti dell’esercito turco insieme alla divisione al-Hamza dell’ala filo-turca dell’Esercito Libero Siriano (composto da miliziani arabi e turkmeni) sono entrati ad Afrin, dopo che i curdi si erano ritirati dalla città.
I primi atti simbolici delle forze di occupazione sono stati la rimozione delle insegne dell’amministrazione curda, sostituite o alle quali sono state sovrapposte le bandiere turche, e la distruzione della statua del fabbro Kawa, figura della mitologia iranica preislamica simbolo della lotta contro la tirannia, identificata in questo caso con il regime di Assad. Evidentemente i nuovi padroni di Afrin intendono far cessare quel “recupero curdo” di fittizie radici etniche iraniche: il riferimento alle componenti etniche e religiose è sempre uno strumento necessario ad alimentare la macchina della propaganda di guerra.
Lo scopo dell’intervento turco, che ha invaso il territorio della Siria in barba ad ogni principio di “diritto internazionale”, è impedire la formazione di una zona controllata dalle milizie curde sul confine siriano, un’azione per la quale certamente Erdo?an ha ottenuto l’assenso di Mosca. Aspetto questo che rende la situazione ancora più intricata: la Turchia nella presa di Afrin ha fatto assegnamento su quell’Esercito Libero Siriano che negli stessi giorni nella regione della Ghouta Orientale, alle porte di Damasco, stava subendo duri colpi dall’aviazione e dalle truppe di terra leali ad Assad, tanto che oramai le ultime sacche di resistenza si riducono a pochi gruppi nella città di Douma. Da segnalare il fatto che nell’ultima decade di marzo, molti miliziani dei gruppi ribelli della Ghouta orientale, dopo una trattativa col governo di Damasco hanno ottenuto di essere trasferiti nella regione di Idlib, ultima grande roccaforte dei gruppi che si oppongono militarmente al regime di Assad. Nei primi giorni di aprile le milizie di Jaysh al-Islam ancora presenti a Douma hanno deposto le armi e sono state trasferite anch’esse nella provincia di Idlib.
Questa tendenza a formare fragili alleanze fra le grandi potenze e le loro pedine militari sul campo, sempre più a “geometria variabile”, vale anche per la politica statunitense nella regione. Il segretario alla Difesa USA, generale Mattis, ha dichiarato che «comprende le legittime preoccupazioni di sicurezza» di Ankara. Dunque l’”alleato” statunitense che, nella riconquista di Raqqa allo Stato Islamico, aveva sostenuto il Fronte Democratico Siriano, la cui componente principale è costituita dall’YPG, non è stavolta intervenuto e ha lasciato che i curdi venissero di nuovo calpestati. Evidentemente per gli Stati Uniti si tratta di evitare una frattura con uno Stato della Nato come la Turchia. Per i clan curdi si tratta ancora una volta di prendere atto che la loro funzione di mercenari li espone ad essere da tutti sfruttati e traditi. Una considerazione che dovrebbe aprire gli occhi anche ai romantici sostenitori della cosiddetta “causa curda” che in Europa inneggiano alla lotta partigiana del Rojawa, senza vedere che una lotta priva di contenuti di classe e tutta interna a fazioni e Stati dello schieramento politico borghese, ha portato le milizie curde a schierarsi in uno dei campi imperialisti, condannandole ad un inutile macello.
Quando nel 1994 in Sudafrica venne mandato in pensione il regime dell’apartheid e l’African National Congress andò al governo, la generale speranza era che la fine dell’infame regime razzista avrebbe portato a una società egualitaria. Tuttavia oggi molti elementi confermano quanto il nostro partito aveva previsto, cioè che la fine del razzismo istituzionalizzato non avrebbe portato, di per sé, a un generale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori sudafricani, al di là delle differenze di colore della pelle.
Bastano soltanto alcuni dati per dimostrare come gli attesi progressi del Sudafrica da un punto di vista sociale siano stati sostanzialmente inesistenti. Mentre circa un terzo della popolazione vive tuttora al di sotto della soglia di povertà, le statistiche ufficiali evidenziano un tasso di disoccupazione del 25%, mentre per l’aspettativa di vita i dati sono agghiaccianti: è soltanto di 55,7 anni per gli uomini e di 59,3 anni per le donne (in Italia è di 81,3 anni per gli uomini e di 86 anni per le donne, oltre 25 anni in più!). Si tratterebbe di un bilancio assolutamente fallimentare per la classe borghese dominante e per il suo partito, che ha governato il paese in tutti questi anni, se essi non fossero in realtà i beneficiari del regime di classe erede e continuatore in Sudafrica dell’apartheid.
I processi storici si trovano gli uomini giusti. Il 17 dicembre scorso la scelta del nuovo presidente dell’African National Congress è ricaduta su Cyril Ramaphosa, che vanta un curriculum di tutto rispetto per garantire alla classe dominante sudafricana il pugno duro della repressione più spietata contro ogni futuro moto proletario. Meno di due mesi dopo, il 15 febbraio del nuovo anno, questo personaggio è stato eletto addirittura presidente del Sudafrica. Ramaphosa è stato in passato un dirigente dell’Unione Nazionale Minatori (NUM), il più importante sindacato del paese quando era ancora dominato dalla minoranza bianca, e in seguito uno dei principali negoziatori del passaggio che portò alla fine del vecchio regime razzista.
Mentre l’ANC ha governato il paese ininterrottamente negli ultimi 24 anni, il ruolo di rilievo di Ramaphosa nel partito ha trasformato il vecchio militante di ieri in un “brillante” uomo d’affari, tanto che ora è uno degli uomini più ricchi del paese con un patrimonio che ammonta a circa 600 milioni di dollari.
Entrato dalla porta principale nel Gotha della classe capitalista del Sudafrica, Ramaphosa non si è dimenticato delle miniere e dei minatori. Ma questa volta non da sindacalista, bensì dall’altra parte della barricata. E infatti di barricate e di piombo si è trattato quando il 16 agosto del 2013 a Marikana, nella provincia di Nord-Est della Repubblica Sudafricana, le forze di sicurezza sudafricane aprirono il fuoco contro i minatori in sciopero della Lonmin, una multinazionale del platino.
L’agitazione sindacale si era sviluppata quando la massa dei minatori aveva avanzato richieste di forti aumenti salariali. Tali rivendicazioni erano state sconfessate dal NUM il quale firmò un accordo in cui gli aumenti salariali venivano accordati soltanto ai livelli più alti. Questo portò alla radicalizzazione dei lavoratori che trovarono una direzione in un altro sindacato, l’Association of Mineworkers and Construction Union, la cui rappresentanza sindacale non venne riconosciuta dalla direzione aziendale. In seguito l’azienda stessa procedette al licenziamento di 17.000 lavoratori, 4.500 trivellatori cui si erano aggiunti 12.500 minatori entrati in sciopero per solidarietà. A quel punto, quando i licenziati iniziavano a picchettare gli ingressi della miniera, sopraggiunse la risposta dello Stato capitalista, quanto mai feroce: 34 lavoratori uccisi mentre altri 250 rimasero feriti, di cui 78 in maniera grave.Il più odioso e infame massacro di proletari del Sudafrica dai tempi dell’apartheid vede in Ramaphosa uno dei principali responsabili. Fu infatti l’attuale presidente dell’ANP a richiedere l’intervento poliziesco e a ordinare la feroce e spietata repressione, mentre egli stesso sedeva nel consiglio di amministrazione della Lonmin.
Il regime del capitale può presentarsi talora con il volto accattivante della democrazia (per noi è il recto di una medaglia che nel verso porta sempre l’effigie della dittatura di classe), adottare parvenze di tolleranza e di formale uguaglianza dei cittadini senza distinzioni di razza, genere, lingua, religione, ecc. Ma la sostanza resta sempre quella dell’oppressione esercitata per mezzo della violenza, o della sua minaccia, di una parte ristretta della società contro la classe proletaria. Quando la classe operaia si muove per difendere i propri interessi deve sempre sapere che la classe nemica non avrà alcuna pietà e che la sua violenza potrà sfociare in un atroce bagno di sangue ogni qualvolta lo riterrà necessario per difendere il proprio dominio.
La dolorosissima vicenda dei minatori di Marikana è lì a dimostrarlo per l’ennesima volta, così come la storia del vecchio sindacalista trasformatosi in feroce carnefice resta a monito di come siano nefasti per i lavoratori tanto il culto dei capi quanto una solidarietà di razza al di sopra delle classi. La solidarietà che devono ricercare i lavoratori e quella di classe ed essa si può esprimere appieno solo nel programma emancipatore del comunismo.