|
|||||
|
|
PAGINA 1
Il cambiamento di governo avvenuto negli Stati Uniti lo scorso gennaio ha portato i commentatori borghesi a riflessioni sulle conseguenze che la sostituzione del “grande timoniere”, ovvero di un “timoniere pazzo”, potrà avere sulla politica estera della maggiore potenza imperialista nel mondo.
Di fatto, durante i quattro anni di presidenza Trump, col motto “l’America per prima”, ha prevalso la sincerità dei capitalisti statunitensi costretti ad ammettere di doversi chiudere al resto del mondo, di dover difendere le loro aziende con una politica protezionista imponendo dazi doganali sulle merci dei concorrenti, in primo luogo la Cina; hanno proclamato, invece di farlo soltanto, di chiudere le frontiere agli immigrati; si sono ritirati da molti organismi internazionali che avrebbero potuto imbrigliare le politiche economiche americane con pretesti ambientali. Sul piano diplomatico, commerciale, militare, hanno cercato di stabilire rapporti unilaterali con i singoli Stati in modo da far valere al meglio la loro superiorità, non più in condizioni di imporsi contro tutti assieme.
Questa politica non è stata inventata da Trump e dai suoi altrettanto eccentrici collaboratori, è il riflesso della relativa perdita di potenza dell’economia statunitense, che da tempo non è più la massima potenza industriale mondiale, né la massima potenza commerciale, anche se continua a mantenere una indiscussa prevalenza sul piano militare.
Ma la linea “moderatamente isolazionista” seguita per qualche anno, così come il ritiro militare parziale da alcune aree e scenari bellici, vanno intesi come un “prendere la ricorsa” per tentare nuovi ritorni e interventi sulla scena internazionale: il nuovo presidente non potrà fare altro che proseguire il lavoro dal predecessore. Quanti si aspettano, in un atteggiamento fideistico, che il democratico Joe Biden rinuncerà alla contesa economica con le altre potenze e adotterà una politica “più pacifica” rispetto al repubblicano Trump non potranno ricevere altro che cocenti smentite.
Il nuovo presidente Biden aveva indicato le linee della nuova amministrazione già in un articolo pubblicato su Foreign Affairs del marzo aprile 2020. Quei temi hanno costituito la base della Piattaforma 2020 approvata in agosto dal Partito Democratico. Il titolo era già molto esplicativo: “Perché l’America deve guidare di nuovo - ripristino della politica estera degli Stati Uniti nel dopo‑Trump“. Biden sintetizzava così il suo programma di politica estera: «il presidente Trump ha sminuito, indebolito e abbandonato alleati e partner, e abdicato alla leadership americana; come presidente farò immediatamente passi per rinnovare le alleanze degli Stati uniti e far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo». Si tratterebbe dunque per la nuova amministrazione di riportare gli Stati Uniti al ruolo di prima potenza mondiale, di restaurarne il ruolo dominante.
Facile a dirsi! La nuova amministrazione si trova a fronteggiare una situazione internazionale complessa, nella quale gli USA non sono più incontrastati. Ormai Pechino si oppone al dominio americano in vaste aree del mondo, in una situazione resa più tesa dalla crisi economica incrociata con quella della pandemia.
È evidente che la politica estera statunitense, ma potremmo estendere questo giudizio a molti Stati, dimostra una continuità sostanziale nel lungo periodo, che travalica il colore politico dei governi.
Si può affermare che la politica estera di Washington è espressione di un partito “trasversale” ai partiti ufficiali, la cui esistenza è dimostrata dal fatto che le decisioni fondamentali di politica estera, anzitutto quelle relative alle guerre, vengono prese in accordo tra Democratici e Repubblicani.
Va rilevato poi che Trump negli ultimi tempi del suo mandato ha ottenuto successi diplomatici di un certo rilievo minimizzati nella caricatura “liberal” del presidente squilibrato animato da furia distruttiva. Il riconoscimento di Israele da parte di Emirati Arabi Uniti e del Bahrein (cui in seguito si sono aggiunti anche Sudan, Marocco e Qatar) nell’ambito degli Accordi di Abramo, vede un rilancio degli Usa arbitro regionale, una funzione negli ultimi anni offuscata dall’attivismo della Russia. Difficile pensare che Biden in questo campo venga a disfare quanto compiuto dal predecessore.
Ma la restaurazione del dominio statunitense nel “mondo libero” di cui parla Biden avrà un costo alto, soprattutto per la spesa militare, che grava sempre più pesantemente sul bilancio statale. La rivista Analisi Difesa osserva come «nella politica internazionale degli Usa un ruolo rilevante lo svolge il Pentagono, ovvero la più grande fabbrica d’armi del pianeta. Un’industria che rappresenta una delle componenti del suo sviluppo economico: indirettamente per la supremazia militare che assicura e per gli incrementi del PIL. E questo non da oggi appartiene alla consapevolezza strategica dei gruppi dirigenti. Già nel 1950 nell’amministrazione Truman si teorizzava non solo la piena compatibilità tra burro e cannoni, welfare state e warfare state, ma la loro stretta interdipendenza: la crescita dei secondi avrebbe alimentato quella del primo, in una spirale virtuosa potenzialmente illimitata».
Ma se è vero che la spesa statale in armamenti contribuisce all’aumento del PIL, gli Stati Uniti, nonostante primi produttori di armamenti e il paese che ne vende di più, sono forse l’unico industrializzato al mondo dove la speranza di vita si sta riducendo, un chiaro segno della decadenza del loro “welfare state”.
È evidente che essi non potranno continuare a lungo a dominare il mondo intero e dovranno fare delle scelte e delle rinunce, una cosa a cui nessuno Stato borghese è mai preparato.
Questo ci porta ad affermare che la politica estera degli Stati Uniti nelle sue linee sostanziali non subirà grandi variazioni.
Nella sua prima intervista al New York Times da presidente eletto Joe Biden ha affermato, ad esempio, riguardo alla politica verso la Cina, che non rimuoverà per il momento i dazi imposti da Trump. I punti cardine che informeranno la strategia statunitense verso la Cina nei prossimi anni saranno due: impedire a Pechino di sottrarre agli Stati Uniti il primato di potenza mondiale e imbastire coalizioni contro di essa. Biden ha inoltre affermato «Voglio assicurarmi che combatteremo all’ultimo sangue investendo prima di tutto in America. Non entrerò in alcun nuovo accordo commerciale finché non avremo fatto importanti investimenti qui a casa e sui nostri lavoratori».
Un discorso che riecheggia certamente il motto trumpiano “l’America prima di tutto“, anche Biden si preoccupa di guadagnare i lavoratori statunitensi a un gretto nazionalismo che giustifichi il costante peggioramento delle loro condizioni, attribuendone la responsabilità ai lavoratori degli altri paesi, ai cinesi, invece che ai loro padroni.
In consonanza con queste parole di Biden sono le prese di posizione del nuovo segretario di Stato Anthony Blinken e le sue dichiarazioni anche recenti su fondamentali nodi di politica internazionale, in particolare sui rapporti con la Cina. «Credo che il presidente Trump avesse ragione, non sono molto d’accordo con il modo con cui ha affrontato la questione cinese in una serie di settori, ma il principio di base era quello giusto e penso che sia utile alla nostra politica estera», e ha aggiunto che la Cina è l’avversario principale con il quale «è necessario assumere una posizione di forza».
La Cina resterà dunque il nemico principale degli USA, sul piano commerciale, diplomatico e militare. Nel Pacifico gli USA continueranno a dispiegare il loro massiccio potenziale militare, una strategia già impostata da Obama, per non perdere il vantaggio che hanno nell’area e cercheranno di rafforzare il blocco anti‑cinese attraverso una ribadita alleanza con Taiwan, il Giappone, la Corea del Sud, l’India e l’Australia, oltre che con alcuni paesi minori dell’Indocina, le Filippine ecc., come è stato fatto anche dalla precedente amministrazione repubblicana.
Anche i rapporti tra USA e Unione Europea potranno nella forma essere più “cordiali” e improntati a “rispetto reciproco”. Ma l’Unione Europea resta a un grande concorrente commerciale degli USA, mentre una traduzione sul piano politico della sua potenza economica sarebbe una minaccia planetaria. Washington continuerà ad avvalersi della mancanza di un’unica politica estera europea per privilegiare i rapporti con i singoli paesi. Questo divide et impera potrà essere portato alle estreme conseguenze, come è avvenuto con due guerre mondiali giocate sul tema dell’unificazione europea, mentre una costante degli ultimi anni è stato il tentativo di contrastare la coesione dell’UE, una politica che ha visto un primo sostanziale successo con la vicenda della Brexit.
Oggetto della chiara condanna di Blinken è stato anche l’accordo commerciale fra Pechino e Unione Europea raggiunto a fine 2020, che faciliterà gli investimenti industriali europei in Cina.
Strumento primario per tenere sotto controllo gli Stati europei è la Nato e la nuova amministrazione americana punterà a rafforzarla, anche per opporsi ai flebili tentativi europei di costituire un esercito sovranazionale. A tal fine Biden ha promesso che farà gli investimenti necessari perché gli Stati uniti mantengano «la più potente forza militare del mondo» e, allo stesso tempo, farà in modo che «i nostri alleati Nato accrescano la loro spesa per la Difesa» secondo l’impegno assunto su pressione statunitense durante il Summit di Cardiff del 2014, in piena presidenza Obama, di dedicare almeno il 2% del PIL per la Difesa e almeno il 20% del budget della Difesa alla ricerca, sviluppo e acquisizione di nuovi sistemi d’arma.
Nella lista degli avversari, dopo la Cina viene la Russia, ma è di un avversario molto minore, contrastato in quanto secondo maggiore esportatore di armi nel mondo dopo gli USA e come esportatore di idrocarburi, soprattutto verso l’Europa.
Ma i rapporti con la Russia sono ambivalenti, essa infatti potrebbe avere una funzione di contenimento di un’Europa sotto egemonia germanica, mentre i dissidi con la Cina portano a non escludere una distensione delle relazioni fra Washington e Mosca. Per ora si tratta per gli Usa di impedire la collaborazione tra Germania e Russia, punto fermo della diplomazia statunitense anche della nuova amministrazione. In questo quadro rientrano gli sforzi per impedire la realizzazione nel Mar Baltico del gasdotto North Stream 2 che permetterà alla Russia di rifornire di gas la Germania.
La Gran Bretagna, uscita dalla Comunità Europea e in crisi economica e sociale, non potrà che cercare riparo sotto l’ombrello statunitense offrendosi come prima linea nel contrasto alle infiltrazioni russe e cinesi verso l’Atlantico lungo la rotta artica, ma anche contro ogni tentativo di più stretta unione dell’Europa, soprattutto sul piano militare.
Gli accordi che hanno messo fine alla guerra nel Nagorno Karabak tra Azerbaijan e Armenia attraverso il pesante intervento della diplomazia di Mosca hanno messo in evidenza la debolezza di quella statunitense da una parte e il crescente ruolo militare della Turchia dall’altra.
L’aggressività mostrata dalla Turchia sarà un altro dei dossier che il presidente Biden dovrà affrontare. Negli ultimi anni i rapporti di Washington con Ankara si sono fatti più tesi, non solo sul fronte siriano, dove la Turchia combatte contro le milizie curde alleate degli Stati Uniti, ma anche perché Ankara, sorda ai richiami statunitensi, si è dotata del sistema antimissile russo S400. Inoltre il presidente Erdoğan ha accusato gli Stati Uniti di aver partecipato all’organizzazione del golpe che ha tentato di spodestarlo. Gli impegni militari crescenti, dalla Siria, alla Libia, al Mediterraneo orientale, stanno certamente pesando fortemente sul bilancio dello Stato turco mentre il Paese sta attraversando una grave crisi economica: la lira turca è in caduta libera e i disoccupati, che sono il 30% della forza lavoro, stanno ricevendo la misera indennità giornaliera di 38 lire turche, circa 4 dollari. Il governo cerca di aumentare ulteriormente la pressione sui lavoratori facendo passare una nuova legge che favorisca il lavoro flessibile e i contratti temporanei.
In questa situazione Ankara, che dispone dell’esercito più numeroso nella Nato dopo quello degli Stati Uniti, non può permettersi di rinunciare all’appoggio di Washington, ma le contraddizioni sono tante, a partire dallo scontro aperto con la Grecia, anch’essa membro della Nato e alleato di ferro degli Stati Uniti.
In Medio Oriente è probabile che, in contrasto con quanto fatto da Trump, la nuova amministrazione cerchi di riallacciare i rapporti con l’Iran, riformulando l’accordo sull’energia atomica Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), ma anche di rivedere i rapporti di forza in Iraq e in Siria, di fronte alla necessità, che preoccupa sia Washington sia Teheran, di disporre in quell’area di una forte presenza militare a difesa delle classi al potere e impedisca i rivolgimenti sociali causati dalla pesante crisi che attraversa tutta la regione, fino al Libano.
Blinken da parte sua ha dimostrato di non credere troppo nella possibilità di dare vita a un nuovo patto a breve sul nucleare iraniano dopo che Trump nel 2018 era uscito in dall’accordo del 2015. Secondo il segretario di Stato un eventuale ritorno al tavolo della trattativa con l’Iran sarà preceduto da un giro di colloqui con Israele e i paesi del Golfo. Inoltre qualsiasi negoziato sul nucleare dovrà comprendere anche il programma missilistico iraniano e la fine del sostegno alle milizie sue alleate attive in molti paesi del Medio Oriente.
Ora l’Iran potrebbe essere più vicino a dotarsi dell’arma atomica e questo potrebbe spingere Biden a cercare di ridimensionare le aspirazioni di questa potenza regionale continuando a stringerla d’assedio rafforzando la rete delle sue alleanze a geografia variabile. Mosca rientra nel gioco grazie al fatto che, al di là dell’alleanza strategica con la Siria e di quella meno organica ma comunque di lunga data con l’Iran, incentrata soprattutto (ma non soltanto) sulla guerra siriana, intrattiene buone relazioni anche con Israele e con alcune delle cosiddette “petromonarchie” del Golfo. Biden eredita una situazione in cui i risultati della diplomazia trumpiana lo pongono in un percorso già avviato di rinnovato protagonismo statunitense nell’area mediorientale dal quale non sarà agevole recedere. Il tentativo sarà impedire che si affermi il predominio di un’unica potenza regionale.
Ma il difficile sarà contenere le inevitabili esplosioni sociali in un Medio Oriente colpito dalla crisi.
In Asia centrale gli Stati Uniti hanno diminuito l’influenza sul Pakistan, a favore della Cina, e sono stati sconfitti militarmente in Afghanistan, da cui probabilmente continueranno il loro ritiro. Negli ultimi mesi stanno cercando di stringere una inedita alleanza con l’India in funzione anti‑pakistana, e soprattutto anti‑cinese e anti‑russa. Un processo che non potrà che continuare.
Nel continente africano gli Stati Uniti sembrano trovarsi in una situazione di debolezza e di ritardo rispetto all’iniziativa della Francia, ma anche della Cina e della Russia. Durante l’amministrazione Obama si rafforzata la presenza militare, attraverso l’Africa Command (Africom), in Sahel – risale al 2015 la costruzione di una base di droni ad Agadez, in Niger – e nel Corno d’Africa, ma «nei quattro anni di amministrazione Trump il disinteresse degli Stati Uniti nei confronti dell’Africa è sembrato evidente», scrive la rivista Analisi Difesa. È ipotizzabile che la nuova amministrazione cercherà di riprendere l’iniziativa in quel continente, così importante soprattutto per le materie prime.
Anche in America latina, nel loro “cortile di casa”, gli Stati Uniti sono costretti a subire l’invadenza della Cina. Secondo dati riportati da Limes, Pechino ha investito in America Latina poco più di 7 miliardi di dollari tra il 1990 e il 2009, ma tra il 2010 e il 2015 ha sborsato oltre nove volte tanto, 64 miliardi. Imprese cinesi hanno costruito centrali idroelettriche in Patagonia e nella selva amazzonica, miniere sulle Ande, raffinerie in Costa Rica, Venezuela, Bolivia, Brasile, Ecuador, una modernissima centrale nucleare in Argentina e vie ferrate tra Brasile, Argentina, Paraguay e Cile.
Ma è evidente che Washington non può rinunciare a riaffermare la sua influenza sull’America centro‑meridionale anche se negli ultimi anni la sua presenza “fisica” si è ridotta. La necessità del controllo dei flussi migratori ne è un esempio evidente, come anche la necessità di attingere alle materie prime.
La crisi economica che sta squassando alle fondamenta l’economia capitalistica, aggravata dalla pandemia, aumenta le tensioni tra i maggiori Stati imperialisti per la conquista di nuovi mercati, l’acquisizione di materie prime a buon mercato, l’occupazione di posizioni strategiche importanti per la difesa delle vie di comunicazione, ecc.
Nei prossimi anni queste tensioni sono destinate ad acuirsi aprendo la strada ad uno scontro militare generale.
Le Monde Diplomatique osserva giustamente che «il passaggio di testimone dell’egemonia mondiale si effettua raramente senza una guerra generale».
Il sistema capitalistico sta conducendo l’umanità verso un nuovo grande macello, che potrà segnare un passaggio di testimone tra Stati imperialisti, oppure, se la forza rivoluzionaria del proletariato, sotto la guida del suo partito, saprà intervenire a impedirlo, potrà portare a un diverso passaggio: quello da una classe borghese imperante all’affermazione comunistica di una classe proletaria finalmente vittoriosa.
La rivolta del 6 gennaio al Campidoglio di Washington è stata una convulsione di un sistema sociale morente. La profonda crisi del capitalismo è diventata una crisi politica al centro di tutto il mondo borghese. Non vi si era visto un fatto simile dallo scoppio della guerra civile nel 1861, prima che gli USA diventassero la maggiore potenza mondiale. La profondità della caduta da quel tempo lontano sembrava impossibile. Ma, come osservavano Marx ed Engels, sotto il capitalismo «tutto ciò che era stabile si dissolve nell’aria, tutto ciò che era santo è profanato, e l’uomo è finalmente costretto ad affrontare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti» (“Manifesto del Partito Comunista”).
È tempo di smaltire la sbornia, dunque.
Quello che è avvenuto il 6 gennaio è stato descritto come un tentativo di colpo di Stato. Valutazione certo eccessiva, ma è la prova, in piccolo, che la democrazia è ormai solo una figura di cartapesta, pronta a farsi calpestare e che nessuno in realtà è interessato a difenderla.
Gli
Stati Uniti possiedono l’apparato di sicurezza più sofisticato del
mondo, ma questo non ha impedito a una folla per lo
più disarmata di fare irruzione durante una sessione del Congresso.
Come ha potuto consentirlo quello Stato di polizia?
La risposta è evidente visti i video degli agenti che aprivano i cancelli per permettere ai “rivoltosi” di entrare e con loro si mettevano in posa per le foto. Una ben differente presenza della polizia rispetto a quella che si è da sempre vista alle manifestazioni contro il razzismo, per esempio.
Allo Stato borghese per la sua difesa è utile attingere alle ideologie del razzismo, del sessismo, dell’imperialismo e dell’anticomunismo dichiarati. Per la sceneggiata del 6 gennaio ha mobilitato quindi alcuni noti imbonitori fascisti, che su internet sostengono “azioni armate” e vi sbandierano l’anticomunismo. “Il comunismo è il nemico invisibile”, si leggeva, su un’altra immagine Trump decapitava Carlo Marx e si vedevano comunisti gettati fuori dagli elicotteri di Pinochet.
Ma è possibile, e storicamente verificato, che il fascismo dello Stato borghese – sempre anti‑comunista e anti proletario – si presenti “di sinistra”, e perfino “proletario” e “comunista”: lo stalinismo ce ne ha dato numerosi squallidi esempi di questo “socialismo reale”.
Intanto – solo perché il fantasma della democrazia è utile per illudere la classe operaia e la piccola borghesia rovinata – i media borghesi prendono le distanze dai “disordini”. Come per ogni genitore, sarebbe arrivato il momento per lo Stato borghese di disciplinare i suoi figli ribelli. E chiedono la condanna dei “rivoltosi”. Trump avrebbe di nuovo tradito i valori democratici e la civiltà politica borghese. I “liberal” a destra e a manca deprecano questa farsa come “un attacco alla nostra democrazia”. I peggiori demagoghi si prostrano davanti all’orgoglio nazionalista ferito di una “cittadella incontaminata della democrazia”.
Tutto uno sforzo per depoliticizzare la vicenda, per ridurla a un “estremismo”, contro cui dovrebbe battersi lo Stato, “buono”, appoggiato da tutti i partiti, di destra e di sinistra. La presunta “sinistra”, quella socialista-democratica, è la prima a fare appello allo Stato borghese perché schiacci la minaccia fascista, cosa che non farà mai !
Perfino presunti “marxisti”, anche quando riconoscono che la rivolta è nata dalle caratteristiche fondanti dello Stato americano, in particolare il razzismo, gli rimangono sottomessi, benché lo riconoscano reazionario.
Noi comunisti rivoluzionari non siamo l’altro “opposto estremismo” rispetto ai fascisti che si sono visti il 6 gennaio: tutti loro di questo Stato vogliono esser parte; noi lo vogliamo abbattere!
* * *
Il tempio della democrazia statunitense, e occidentale, è stato profanato. La guardia pretoriana ha accompagnato una banda di raccogliticci nei locali del Parlamento consentendo per ore devastazioni e sottrazione di documenti e archivi.
Ovviamente l’impresa non ci commuove né ci stupisce. Tanto meno ci dispiace o la deprechiamo. Quelle sale mai hanno accolto l’espressione di una volontà popolare, e ormai nemmeno quella dei borghesi. Non sono più che il cadente simulacro della democrazia. Il potere reale dello Stato passa per altri ambienti, meno visibili, dove si affrontano le grandi lobby, industriali, finanziarie, militari, con gli strumenti della corruzione, dei ricatti, delle intimidazioni mafiose. Il penoso e vile spettacolo delle votazioni è ammannito per ingannare i proletari, e sicuramente serve, se le classi dominanti vi investono miliardi.
Gli è che lo stato pre‑agonico del capitale, mondiale, e statunitense in particolare, in sala di rianimazione, richiede delle terapie di urgenza, provvedimenti emergenziali, irrispettosi di tempi, riti, procedure, formalismi legali.
Ma non è facile far cambiare passo da una stagione all’altra all’enorme, gigantesca macchina dello Stato. Seppure creatura e strumento fedele ed esclusivo della classe dominante, ha le sue rigidità, la sua inerzia, le sue rivalità e contraddizioni interne. Reti di interessi particolari e inveterate abitudini condizionano le tre armi dell’esercito, nelle loro complesse gerarchie, le magistrature, i servizi segreti, e fino alle sovrastrutture di cultura e di chiacchiere, mediatiche, universitarie, pseudo-parlamentari, che in tutto irreggimentano milioni di uomini.
Gli strappi sono inevitabili, necessari al capitale per ritardare il tracollo della sua crisi.
La menzogna della separazione dei poteri all’interno dello Stato borghese cede il posto alla aperta dittatura del potere esecutivo, delle cancellerie.
Il fascismo, che ormai è maturato e fatto proprio nella sua essenza da ogni istituzione statale borghese del mondo, esprime la forza del capitale, il suo monopolio di fatto di tutto il potere, riflesso della concentrazione delle forze produttive e finanziarie in poche grandissime unità; ma allo stesso tempo esso, nello scomposto annaspare tradisce la sua debolezza mortale che lo porta a presentarsi tramite personaggi comici, irriverenti e distruttivi delle sue stesse menzognere idealità e superstizioni.
Il proletariato stia lontano da questi burattini, che si presentino come clown o come onest’uomini, e dalle loro fallaci promesse e guardi al suo storico programma rivoluzionario, al suo partito.
Tutti gli Stati hanno risposto al Covid‑19 con ciò che può essere definito solo come negligenza criminale, mettendo gli interessi dei capitalisti e della finanza davanti a qualsiasi preoccupazione per la popolazione, sacrificando centinaia di migliaia di vite, prime fra tutte quelle dei lavoratori, a cominciare con quelli della sanità e dell’assistenza. L’indegno mercato per procurarsi le forniture porta ulteriore infamia sul sistema capitalista a fronte del grande lavoro in tutti i paesi di scienziati, tecnici ed operai per la messa a punto, lo sviluppo e la produzione dei vaccini.
La pandemia, e come gli Stati capitalisti del mondo la stanno combattendo, mostra una volta di più la natura brigantesca e anti‑umana del capitalismo, tesa al profitto, alla difesa delle aziende nazionali e completamente refrattaria, anzi ostile a una collaborazione sul piano internazionale per venir fuori dalla difficilissima situazione che investe le popolazioni di tutta la Terra.
Nonostante gli enormi progressi tecnologici che hanno reso possibile sviluppare il vaccino contro il coronavirus, la pandemia si presenta come un’altra classica catastrofe del capitalismo: i borghesi arraffano ogni dollaro come topi che fuggono da una nave che affonda, lasciandovi il proletariato ad affogare. Infine recuperano il relitto, rivendono i rottami, e vantano la loro grande ingegnosità nel farlo. Questo è il capitalismo, che ha sempre agito così in ogni occasione.
Nonostante le centinaia di migliaia di morti che segnano il progredire dell’epidemia i propagandisti del capitalismo si dannano a sostenere che il rapido sviluppo dei vaccini dimostra come questo sia il migliore dei sistemi possibili. Ma il capitalismo è il sistema di produzione, accumulazione e consumo che si fonda sullo sfruttamento, sulla produzione di merci e la realizzazione del loro valore sul mercato. Non può violare questa sua regola, che comporta la necessità della concorrenza tra imprese e fra borghesie nazionali. Su questo si plasmano i loro comportamenti verso rimedi e azioni comuni, e soprattutto, verso la realizzazione del profitto che questi rimedi comportano. Solo il profitto importa al capitalismo.
Quando è stata annunciata l’efficacia del vaccino della Pfizer ed è salito il prezzo delle sue azioni, il suo amministratore delegato ne ha vendute per 5,6 milioni di dollari, molto più di quanto un lavoratore guadagni in tutta la vita. I dirigenti di Moderna, produttore di un altro vaccino, hanno venduto più di 100 milioni di dollari delle azioni della loro azienda.
Alla fine di dicembre gli Stati Uniti hanno somministrato solo il dieci per cento delle dosi di vaccino Covid‑19 che avevano promesso per la fine dell’anno: il governo federale aveva promesso che 20 milioni di dosi sarebbero state somministrate entro la fine dell’anno, ma al 28 dicembre erano solo 2,1 milioni. Nessuno ha indicato la ragione di questo ritardo, che sicuramente costerà migliaia di vite.
Malgrado la presenza di un organismo internazionale che dovrebbe sovraintendere al controllo delle malattie e alla gestione dei rimedi, l’OMS, la pressione della concorrenza ha impedito che fosse fatto uno sforzo sovranazionale per produrre un vaccino unico, facendo collaborare tutti gli istituti di ricerca e unendo gli sforzi per la sua produzione.
Da una parte le aziende si sono tenute ben stretti i brevetti, condizionando così il mercato, dall’altra gli Stati hanno acquistato e distribuito ciascuno per proprio conto, senza alcun coordinamento nel gestire i piani di vaccinazione. Questo miserabile mercato ha inoltre escluso la gran parte del mondo che non ha le risorse finanziarie per la vaccinazione di massa.
Nello stesso modo con cui si scatena la concorrenza tra le ditte farmaceutiche produttrici dei vaccini parimenti una sorta di guerra dei vaccini si combatte tra gli Stati.
Venerdì 29 gennaio l’Unione Europea ha annunciato che avrebbe bloccato l’esportazione di vaccini in Irlanda del Nord. All’inizio della stessa settimana il gigante farmaceutico AstraZeneca (AZ) ha informato l’UE che non poteva mantenere la promessa di consegnare 100 milioni di dosi entro marzo ma solo 31 e si aspettava ulteriori ritardi nella consegna delle altre 200 milioni ordinate, adducendo “problemi” nel suo impianto di produzione in Belgio. L’UE ha chiesto allora che AZ dirottasse parte della sua produzione da due stabilimenti britannici. Il Regno Unito ha risposto che aveva firmato un accordo con AstraZeneca tre mesi prima della UE. Tutto questo ha scatenato un’ondata di sciovinismo nei media britannici contro la “burocrazia di Bruxelles”.
Tuttavia il sospetto è che l’azienda stia vendendo altrove a prezzi maggiori quanto destinato al mercato europeo. Di fatto il Regno Unito aveva accettato di acquistare i vaccini a un prezzo più alto di quello dell’UE. Altri paesi stanno pagando ancora di più. Secondo il British Medical Journal «un alto funzionario della sanità del Sudafrica ha rivelato che 1,5 milioni di dosi del vaccino di Oxford e AstraZeneca è costato 5,25 dollari a dose, più del doppio di quanto paga l’Unione Europea, 2,15 dollari. La cifra dell’UE è nota perché il segretario al bilancio del Belgio ha inavvertitamente rivelato su Twitter il prezzo contrattato dalla UE. La UE si era impegnata a non comunicare il prezzo pattuito in cambio di sconti».
Anche Pfizer ha annunciato a dicembre che non sarà in grado di consegnare entro la fine dell’anno i 12,5 milioni di dosi di vaccino promessi alla UE. E alla fine di gennaio Moderna, che avrebbe consegnato il 20% di dosi di vaccino in meno di quanto concordato con l’Italia.
L’Ungheria si è allora rivolta alla Cina e alla Russia, rompendo le file della politica comune di approvvigionamento europea.
Ritardi e interruzioni, e conseguenti tensioni tra gli Stati nazionali, sono inevitabili man mano che queste imprese contrattano, competono e si accordano per aggiustare i prezzi. Ci saranno vincitori e vinti, fra i fornitori e fra gli acquirenti.
Tutta questa contesa, tutte queste meschinità nazionaliste di fronte a una epidemia globale, tale che nessuno sarà al sicuro finché non lo sarà tutta la popolazione del mondo.
Al di fuori dell’industria farmaceutica chi dispone di capitali non vede l’ora che arrivi il giorno in cui il “normale” sfruttamento del lavoro possa riprendere. L’alto prezzo dei futures a breve termine indica che la borghesia sta scommettendo sul ritorno dei profitti. I capitalisti possono realizzare enormi guadagni anche sull’aspettativa di una ripresa post‑pandemia.
Il vaccino sarà presentato come la panacea, la cura non solo per il Covid‑19 ma contro ogni fallimento del capitalismo. Passato il lutto nazionale, sepolti i cadaveri, ci verrà detto di dimenticare tutto questo e di essere contenti d’esser vivi e di quello che abbiamo: posti di lavoro (con salari più bassi di prima), libertà (di farsi liberamente sfruttare), e nuova ricchezza (per i borghesi). Questo è quanto successo dopo il macello delle guerre mondiali.
Il comunismo è l’unica cura per tutte le ferite che il capitalismo infligge al mondo. Proprio come il corpo umano viene curato dalla malattia eliminandone un agente patogeno, il corpo sociale sarà curato dall’abolizione della classe borghese e del suo Stato.
Salutiamo quindi, con tutti i limiti che abbiamo detto, i nuovi vaccini, prodotto del lavoro umano e non del capitale, non perché vogliamo tornare al capitalismo “di prima”, ma perché vogliamo vivere per combattere e vedere domani realizzato il nostro futuro comunista.
Oltre a dimostrare l’assurdità di applicare i principi commerciali capitalisti in risposta a una pandemia globale, la “guerra dei vaccini” ha esacerbato la guerra commerciale tra l’Unione Europea e il Regno Unito successiva alla Brexit.
Gran parte della borghesia britannica aveva poco da guadagnare dalla Brexit, anche se nemmeno molto da perdere. Ciò che temevano era una uscita “no‑deal”, che avrebbe significato commerciare alle condizioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, le cui tariffe avrebbero imposto costi considerevoli, cancellando qualsiasi guadagno proveniente dalla deregolamentazione.
Al contrario, le medie imprese sono state colpite da barriere commerciali non tariffarie, come il pagamento dell’IVA, le dichiarazioni di garanzia finanziaria T1 e, in alcuni settori, le lunghe ispezioni veterinarie. A gennaio, l’impatto pratico è stato la cessazione o ritardi delle esportazioni di pesce, carne e altri prodotti alimentari. Nel principale porto di pesca della Gran Bretagna, Peterhead in Scozia, cumuli di pesce sono stati lasciati a decomporsi sulla banchina. Le società di pesca hanno aumentato le quote di pescato europeo, ma hanno perso il loro maggiore mercato. Un’ironia, visto che i pescatori erano stati sfruttati come ariete propagandistico dai primi esponenti della Brexit, come Nigel Farage.
Alla fine del mese, circa il 55% dei camion che lasciavano il Regno Unito per l’UE erano vuoti. Il Guardian ha riferito il 20 gennaio che molti vettori europei stavano rifiutando ogni trasporto in Gran Bretagna. «Transporeon, una società di software tedesca che lavora con 100.000 fornitori di servizi logistici, ha detto che gli spedizionieri hanno rifiutato di muovere merci da Germania, Italia e Polonia verso la Gran Bretagna». «Un operatore della logistica ha detto che un camion con un carico del valore di 200.000 sterline avrebbe bisogno per la sola IVA, in contanti o di un documento di garanzia finanziaria T1, di 40.000 sterline, un impegno significativo per aziende di trasporto con più camion diretti nel Regno Unito».
Nel frattempo il meccanismo bizantino del protocollo per l’Irlanda del Nord sta mettendo a rischio posti di lavoro in Gran Bretagna e nella Provincia stessa. Anche se l’Irlanda del Nord formalmente appartiene al Regno Unito, rimane parte dell’unione doganale dell’UE, il che significa che le merci che attraversano il Canale del Nord, che le divide, sono soggette a verifiche e controlli. È questa evidentemente una situazione insostenibile, anche se un’Irlanda unita rimane una prospettiva lontana.
Un’ulteriore tensione esiste in Scozia, dove la popolazione – e le classi al potere – sono divise a metà tra coloro che vogliono rimanere nel Regno Unito e coloro che vogliono rientrare nell’Unione Europea come Scozia indipendente. Ovvio che nessuno dei due risultati offre alcuna prospettiva per la classe operaia.
Una parte significativa della borghesia britannica oggi al comando vede il suo futuro al di fuori della UE, dove ha difficoltà a competere con l’economia tedesca in particolare. Spera in una riduzione dei vincoli normativi imposti dall’Unione Europea, come la direttiva sull’orario di lavoro, sognando di trasformare il Regno Unito in una “Singapore sul Tamigi”.
Naturalmente questi interessi sono stati minimizzati dalla stampa popolare, che si è data a un’orgia di xenofobia ben prima del referendum sulla Brexit del 2016. Oltre al dar la colpa di tutto a “Bruxelles” i media britannici andavano rumorosamente proclamando che i lavoratori britannici godevano delle migliori condizioni del mondo, ignorando il fatto che l’operaio medio britannico lavora 1.670 ore all’anno, rispetto alle 1.354 della media tedesca. (Una nota: la media più alta nel mondo industrializzato è a Singapore, con 2.238 ore, dove la morte sul lavoro e i suicidi sono comuni).
Mentre gli investimenti stranieri sono riusciti ad aumentare la produttività in alcuni settori dell’economia britannica, la prospettiva della Brexit è di aumentare la competitività liberandosi dalle norme della UE, attaccando le condizioni di lavoro e i sindacati, oltre a schivare gli standard internazionali come nella regolamentazione finanziaria.
La quotidiana demonizzazione degli stranieri e degli immigrati, e l’incessante invocazione dei miti della guerra mondiale – rafforzata nel popolo con la rievocazione di film come “L’ora più buia, Dunkirk” e “1917” – ha convogliato nella Brexit uno slancio irrazionale al di là degli stessi interessi economici interni alla classe capitalista, guadagnando un’ampia base nella piccola borghesia e nel sottoproletariato.
La Brexit, che è un sintomo delle rivalità inter‑imperialiste, avrà dure conseguenze sui lavoratori in tutta Europa.
Sull’altra sponda della Manica il presidente francese Emmanuel Macron ha colto l’occasione a dicembre per imporre un blocco di 48 ore sui movimenti di merci dalla Gran Bretagna. Questo si diceva a causa del diffondersi di una nuova “variante britannica” del Covid‑19, ma in realtà le autorità francesi stavano mostrando i muscoli. La Gran Bretagna è molto dipendente dal movimento delle merci, soprattutto dal porto di Dover, dove si imbarca nei traghetti il 22% dei camion. Qualsiasi minaccia a questa via sarebbe devastante anche per l’Irlanda, che sta investendo in rotte marittime per il continente alternative al ponte terrestre del Regno Unito.
Inoltre la Gran Bretagna dipende dalle importazioni di energia dalla UE. Il Regno Unito è tornato ad essere un importatore netto di energia nel 2004 e ora è un importatore netto di tutti i principali tipi di carburante. Nel 2019, il 35% dell’energia utilizzata nel Regno Unito è stata importata. Il Regno Unito è fortemente dipendente dalle importazioni da Francia, Paesi Bassi e Belgio, che contribuiscono a circa un decimo della energia elettrica britannica. Il presidente Macron ha lasciato cadere allusioni al fatto che se il Regno Unito si discostasse dai suoi obblighi nell’ambito dell’accordo sulla Brexit la Francia sarebbe pronta a interrompere le forniture di energia.
La guerra dei vaccini, e la guerra commerciale che sta prendendo piede, mettono in mostra la bancarotta di un ordine economico basato sul capitalismo e la divisione in nazioni dell’economia mondiale. Si dice spesso che una guerra commerciale è il preludio di una vera guerra; sembra che i colpi di apertura siano arrivati sotto la forma di un virus.
PAGINA 2
Le condizioni di vita degli operai e di tutti i lavoratori salariati sono da anni, decenni, in continuo peggioramento, sottoposte, in perfetta continuità, agli attacchi di tutti i successivi governi. Al di sopra delle alchimie parlamentari ogni governo dello Stato borghese è necessariamente avverso agli operai.
Questo perché il vero detentore del potere non è il governo di turno, bensì quelli che oggi, con ipocrita pudore, chiamano i “poteri forti”, e che altro non sono che la borghesia industriale, finanziaria e fondiaria, nazionale e internazionale.
I partiti dell’arco parlamentare sono bande che si atteggiano a rappresentanza elettorale degli interessi di ceti e classi in contrasto, ma i fili di questi burattini sono nelle mani del grande Capitale: oltre certi limiti le dispute per spartirsi il plusvalore estorto alla classe operaia non possono andare e debbono disciplinarsi alla tutela dell’interesse comune di tutta la classe dominante, quello di garantire il mantenimento del sistema produttivo fondato sullo sfruttamento della classe lavoratrice.
La vicenda dell’insediamento di Mario Draghi a capo del governo ne è la patente conferma. Chi meglio di quel banchiere internazionale può impersonare le attuali stringenti esigenze generali della borghesia italiana?
Urge l’ora, e tutti i guitti e mestieranti del politicantismo mediatico-parlamentare devono farsi da parte o inginocchiarsi e ubbidire, pagliacci utili solo alla messinscena di un’apparente democrazia, recitata solo per mascherare il fascismo che, dietro le quinte, è vivo e imperante ovunque.
La classe operaia non è quindi interessata a schierarsi pro o contro la formazione di questo governo. La democrazia, maschera della dittatura del capitale, non va difesa, ne va denunciato il ruolo e messo a nudo il vero volto del nostro nemico. Il nuovo governo – tecnico o politico che sia – si adopererà contro le condizioni di vita della classe salariata, in perfetta continuità con i precedenti.
Ciò che invece è necessario è ricostruire la forza di un vero sindacato di classe per dispiegare dei veri scioperi. Questo è l’unico mezzo che hanno i proletari per frenare il peggioramento delle loro condizioni.
La firma, il 5 febbraio, del nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici è la conferma di questa urgente necessità. Fiom, Fim e Uilm in 12 mesi di vertenza hanno chiamato la categoria a sole 4 ore di sciopero nazionale, ottenendo infine un aumento salariale ben al di sotto di quanto da loro richiesto: 82 euro su 153.
Cgil, Cisl e Uil sono sindacati collaborazionisti e di regime che impediscono ai lavoratori di tornare a lottare. D’altro canto i sindacati di base non rappresentano ancora una valida alternativa, anche in ragione delle loro divisioni, conseguenza della piccineria delle loro dirigenze.
Per questo il compito ineludibile dei comunisti e dei lavoratori combattivi sui posti di lavoro e nel movimento sindacale è oggi quello di battersi per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale – sindacati di base e opposizione in Cgil – per vincere l’opposizione delle attuali dirigenze opportuniste, primo passo pratico verso la rinascita di un vero sindacato di classe, fuori e contro i sindacati di regime.
Solo sulla base di un rinato movimento operaio, sempre più numerosi lavoratori torneranno a militare nel partito comunista rivoluzionario, che è l’arma fondamentale della classe per l’abbattimento del capitalismo e del suo regime politico, insieme a ogni suo fetido figurante.
In India il primo caso dell’infezione da Covid‑19 è stato registrato il 30 gennaio. Nei mesi si è diffusa nelle grandi città, in particolare nei quartieri poveri fatti di baracche dove si accampano 65 milioni di uomini, in condizioni precarie, spesso senza acqua corrente, senza servizi igienici e senza un’adeguata raccolta dei rifiuti. Dal 25 marzo, a seguito delle misure di distanziamento sanitario decretate dal governo, milioni d’indiani sono rimasti senza lavoro. Costretti a tornare in uno degli oltre 600.000 villaggi del Paese, hanno portato con sé il virus che si è diffuso velocemente nelle zone rurali dove le strutture sanitarie sono molto carenti.
Oggi l’India è il secondo paese al mondo dopo gli Stati Uniti per contagiati, oltre 10 milioni, numero sottostimato secondo alcune organizzazioni non governative. Non risulta evidentemente corrispondente alla realtà il numero dei morti, secondo il governo 140.000. Nelle aree rurali non tutti i decessi sono registrati, in alcune regioni gli ospedali sono rari e i malati muoiono a casa per "causa non definita".
Cinica l’imposizione dal governo indiano del social distancing: nelle baracche di Dharavi, non distante dal centro di Mumbai, in un area di 1.7 km² sopravvivono dai 600.000 al milione di abitanti: 2 metri quadri a testa.
Benché le misure di contenimento del virus imposte dal governo in questi mesi siano state gradualmente allentate il gigante asiatico si trova di fronte ad una grave crisi economica. Secondo dati non ufficiali di aprile e maggio in cento milioni avrebbero perso il lavoro. I media borghesi, pur prospettando una futura pronta ripresa, ammettono che la produzione è in recessione, per la prima volta dal 1947, anno dell’indipendenza dal Regno Unito. Secondo le Nazioni Unite 260 milioni di indiani finiranno in povertà entro la fine dell’anno.
Il Central Statistics Office, l’ente di statistica statale, dichiara che la produzione industriale a primavera si è contratta di un terzo, poi di un ulteriore quarto in estate. In autunno c’è stata una debole ripresa, ma il dato annuale rimarrà negativo. Secondo le stime della Banca Centrale il PIL del 2020 scenderà del 9,5%, mentre il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato un calo del prodotto interno lordo del 10,3%, la più forte contrazione fra i grandi Paesi “emergenti”.
Il grande sciopero
In questo quadro, che ha visto milioni di proletari perdere il lavoro e altri costretti a ritmi infernali pur di mantenerlo, il 26 novembre scorso si è avuto uno sciopero generale indetto dalle seguenti 10 grandi centrali sindacali: Indian National Trade Union Congress (INTUC), ala sindacale del partito del Congresso; All India Trade Union Congress (AITUC), la più antica federazione sindacale indiana legata al sedicente Communist Party of India; Centre of Indian Trade Unions (CITU), nato nel 1970, il sindacato dell’organizzazione politica Marxist Communist Party of India, scissione del CPofI; All India United Trade Union Centre (AIUTUC), che organizza i lavoratori per conto del Socialist Unity Centre of India; Trade Union Coordination Centre (TUCC), legato al partito di sinistra nazionalista All India Forward Bloc; All India Central Council of Trade Unions (AICCTU), braccio sindacale del Marxist-Leninist Liberation Communist Party of India; United Trade Union Congress (UTUC), che organizza i lavoratori per conto del Revolutionary Socialist Party; Labour Progressive Federation (LPF) legato al partito Dravida Munnetra Kazhagam; Hind Mazdoor Sabha (HMS) sindacato molto forte tra i ferrovieri e i portuali, e, infine, l’organizzazione delle donne Self‑Employed Women’s Association (SEWA).
Lo sciopero, seppur contenuto in una sola giornata, è sicuramente riuscito, e forse può essere considerato come il più numeroso di sempre: si stima vi abbiano preso parte oltre duecento milioni di lavoratori, benché non tutti salariati. In diversi Stati – Kerala, Puducherry, Odisha, Assam, Telangana Jharkhand e Chattisgarh – il blocco è stato pressoché totale. In molti altri le adesioni sono state significate con una notevole riduzione di molte attività lavorative, anche nelle regioni governate dal partito di Modi, il Partito Popolare Indiano, Bharatiya Janata Party, o dalla coalizione di centro destra denominata Alleanza Nazionale Democratica (NDA).
Le centrali sindacali hanno redatto un testo rivendicativo basato su 12 punti: la riduzione delle giornate lavorative annue, aumenti salariali, un salario minimo garantito, l’interruzione della privatizzazione del settore pubblico (compreso quello bancario) e del sistema pensionistico, un contributo di 7.500 rupie (circa 84 euro) per le famiglie più povere, una fornitura mensile di 10 kg di alimenti ai nuclei bisognosi e l’ampliamento delle politiche di assistenza alle masse colpite dalle ricadute economiche della pandemia.
Estese manifestazioni si sono svolte in decine di città. In molte sedi di lavoro gli scioperanti hanno organizzato picchetti per non permettere ai crumiri di entrare.
Ma, oltre la della volontà di diversi settori operai di battersi in una lotta efficace e duratura per rispondere agli attacchi dei padroni, la conduzione dello sciopero dettata dai sindacati promotori si è dimostrata inefficace, atteggiandosi soprattutto a difesa della democrazia e utile solo a rafforzare il bacino elettorale dei partiti d’opposizione. Non è un caso che sia stato indetto proprio per il 26 novembre, data in cui ricorre l’adozione della borghese costituzione indiana nel 1949.
Le nuove leggi
Allo sciopero si è affiancata la All India Kisan Sangarsh Coordination Committee, una confederazione panindiana che unisce oltre 250 organizzazioni contadine. È stata aggiunta allora alle rivendicazioni dei salariati la richiesta di abrogazione di tre leggi promulgate lo scorso settembre dal governo Modi che andrebbero a peggiorare le già precarie condizioni della maggioranza dei contadini nelle campagne indiane.
Sono la legge sulla promozione e l’agevolazione degli scambi e sulla facilitazione del commercio di prodotti agricoli (The Farmers’ Produce Trade and Commerce Promotion and Facilitation Act), la legge sull’accordo relativo alle garanzie dei prezzi e ai servizi agricoli (The Farmers Empowerment and Protection Agreement on Price Assurance and Far Services Act), e una legge che modifica quella del 1955 che autorizzava il governo centrale a controllare la produzione, l’approvvigionamento, la distribuzione, e il commercio di determinati prodotti (The Essential Commodities Amendment Act).
Questi testi legislativi di fatto vanno ad eliminare il sistema di determinazione dei prezzi dei prodotti agricoli da parte del governo, istituito a metà anni ’70 del secolo scorso, smantellando l’attuale intermediazione commerciale tra produttori e acquirenti statali e privati, modificando le norme relative alla vendita, all’immagazzinamento e al trasporto delle merci agricole.
Una delle preoccupazioni maggiori dei contadini verte sul fatto che le leggi non prevedono il mantenimento del prezzo minimo di sostegno (MSP) fissato dal governo due volte l’anno per 23 prodotti agricoli. Oggi l’acquisto direttamente dall’agricoltore avviene da parte dei mercati statali, gli Agricultural Produce Market Committee (APMC), che permettono una certa tutela dei produttori nei confronti della pressione al ribasso dei prezzi attuati dalla grande distribuzione. Oggi esistono circa 2.500 mercati regolamentati e quasi 5.000 “sottomercati”, che verrebbero aboliti o “ridefiniti” dalle nuove leggi.
Gli agricoltori portano l’esempio della sperimentazione nello Stato del Bihar dove i contadini lo scorso anno avrebbero venduto il riso a 1.000 rupie al quintale, circa la metà del prezzo precedente.
Anche la terza legge, l’Essential Commodities Act, si pone contro i piccoli produttori non tutelando più determinati prodotti agricoli “essenziali”, nei quali il governo ha investito fino ad ora miliardi di dollari. Secondo dati del Ministero delle Finanze indiano, lo Stato investirebbe 32 miliardi di dollari ogni anno in sussidi agli agricoltori, per tenere bassi i prezzi dei prodotti ritenuti indispensabili per alimentare la popolazione.
Mentre scriviamo la Corte suprema dell’India ha sospeso “fino a nuova comunicazione” l’entrata in vigore delle tre leggi, per non inasprire la mobilitazione sociale. Quel più alto organo giurisdizionale dell’India, criticando l’operato del governo Modi, ha sospeso le leggi in attesa che un “comitato di esperti” si consulti con funzionari governativi e con le associazioni degli agricoltori alla ricercare di una soluzione.
Al di là di quanto accadrà a breve, la borghesia indiana, stretta dalla crisi, ha la strada segnata. E anche il borghese partito del Congresso Indiano, che oggi mostra di opporsi, domani confermerà questa politica per difendere gli interessi di sua maestà il capitale.
L’agricoltura indiana
La forza lavoro in India è composta da circa 500 milioni di lavoratori, tra salariati e autonomi, così suddivisa: 42% nell’agricoltura, 26% nell’industria, 33% nei servizi. Un rapido declino quello dell’agricoltura: solo 10 anni fa, nel 2010, la percentuale era al 52%. Essa resta però la principale fonte di reddito per circa la metà dell’1,3 miliardo di indiani.
L’agricoltura continua a occupare gran parte della forza lavoro, ma contribuisce al PIL solo per il 15%. Nel vasto scenario internazionale delle esportazioni agricole il gigante asiatico rimane marginale. Per esempio l’India è seconda nella produzione mondiale di grano, ma solo 34esima nelle esportazioni; è al secondo posto per la produzione di frutta ma scivola al 23esimo come esportatore; per le verdure occupa il terzo posto come produttore ma si colloca 14esima nell’export.
Negli ultimi tre anni vi è stata una significativa diminuzione della domanda interna di macchine agricole. È un dato allarmante per la classe dominante indiana perché denuncia la crisi della parcellare conduzione della terra dove milioni di piccoli contadini, molti di loro già indebitati, non possono più investire una rupia nell’ammodernamento delle tecniche agriarie.
In India più della metà dei contadini sono senza terra (nel 1951 erano il 28%), indice di una lenta proletarizzazione delle campagne, mentre tra i coltivatori che la posseggono, l’86% ha al massimo due ettari, sono cioè aziende a conduzione familiare da cui spesso non si riesce a ottenere neppure un reddito sufficiente al sostentamento, tanto meno per l’incremento della produttività della terra.
Da quando la Compagnia delle Indie si installò nel subcontinente nel XVII secolo, importandovi il sistema di produzione capitalistico, nonostante le innumerevoli riforme in campo agricolo e oltre il loro impatto immediato, la situazione del contadiname non ha fatto che peggiorare.
Dall’indipendenza ad oggi si registra inoltre un declino continuo di disponibilità di terra per le coltivazioni dovuto alla occupazione di suolo per le industrie e per le infrastrutture. La deviazione di corsi d’acqua a scopi industriali ha provocato l’inaridimento di vaste aree agricole e l’abbandono di molti villaggi. Per il processo di desertificazione, che ha varie origini, ogni anno migliaia di ettari di terreno diventano improduttivi.
Nell’India borghese, dopo millenni di agricoltura, oltre la metà dei terreni coltivati, 140 milioni di ettari, per l’irrigazione risulta ancora dipendente dai capricci del monsone: entrambe le due stagioni, l’umida e l’arida, possono compromettere i raccolti.
Dal 2014 inoltre il brusco aumento del prezzo del carburante e dei fertilizzanti ha aggravato la crisi.
La drammatica condizione del contadiname
Più della metà della popolazione rurale non può permettersi un pasto sufficiente e la maggioranza dei contadini risulta malnutrita. Ogni anno più di mezzo milione agricoli sono costretti ad abbandonare il lavoro nei campi per trasferirsi in città in cerca di un salario.
Molti piccoli contadini sono costretti in alcuni periodi dell’anno a fare i braccianti. Altri che ricevono denaro dai figli che lavorano in città ricorrono al lavoro a costo minimo di migranti
Spesso si coltivano le cosiddette “terre in comune”. Queste, common property resources, retaggio di precedenti modi di produzione, sono utilizzate dai contadini senza terra. Ma, costituendo circa un decimo del territorio agricolo nazionale, non sfuggono nemmeno alla rapacità delle grandi aziende, dei fodiari e dei contadini ricchi.
La situzione del contadino povero, oppresso dai debiti con le banche e con gli strozzini, è talmente disperata da indurlo al suicidio. Stimano che 12.000 contadini ogni anno decidano di farla finita, la maggior parte tra i piccoli proprietari, i mezzadri e i braccianti, in particolare negli Stati Andhra Pradesh, Madhya Pradesh, Maharashtra e Karnataka.
Questo mentre i grandi capitalisti stanno accumulando enormi ricchezze, e anche in questi mesi di pandemia.
Le contraddizioni
del movimento contadino
Il 5 novembre scorso, poco dopo l’approvazione delle leggi, centinaia di organizzazioni hanno radunato un gran numero di contadini per manifestazioni simultaneamente in tutto il paese, in particolare nel Punjab, nell’Haryana e nell’Uttar Pradesh.
Nei giorni precedenti lo sciopero generale, decine di migliaia di contadini provenienti dagli Stati del nord si sono diretti verso Nuova Delhi per aderire alla marcia “Delhi Chalo”, Andiamo a Delhi.
La protesta sarebbe dovuta arrivare il 26 novembre nel parco di Jantar Mantar, nel centro della metropoli. La polizia ha negato l’accesso alla città, schierata in forze ha respinto gli agricoltori con cannoni ad acqua e lacrimogeni. Il giorno dopo una parte dei manifestanti è stata fermata nelle principali arterie dai blocchi e dal filo spinato. La protesta si è quindi spostata nelle periferie, dove i contadini hanno bloccato le principali strade allestendo degli accampamenti. Nel tentativo di bloccare altri contadini diretti verso Delhi si sono verificati scontri tra manifestanti e polizia al confine tra gli Stati del Punjab, dell’Uttar Pradesh e dell’Haryana.
I successivi colloqui tra il governo federale e i dirigenti degli agricoltori non hanno portato ad alcun accordo, pertanto l’8 dicembre scorso è stato indetto un nuovo sciopero dei contadini, proclamato dalla Bharat Kisan Union (BKM), che ha visto l’adesione di oltre 400 organizzazioni e l’appoggio di 24 partiti politici, in maggioranza di opposizione ma anche filo governativi.
Quello in atto in questi giorni è un movimento molto esteso, principalmente nelle regioni del nord, nel fertile bacino alluvionale limitato dall’Himalaya e irrorato dal Gange e dai suoi affluenti, dove da millenni vi si pratica una produttiva agricoltura. Ma il movimento attraversa tutto il subcontinente.
Forse potrebbe avere la forza di imporre alcune rinunce al governo. Tuttavia solo superficialmente è unito e coerente nei fini. Se è vero che il suo nucleo è costituito dai piccoli contadini minacciati dal nuovo sistema che farà precipitare i prezzi, è altresì vero che alcune delle associazioni che lo alimentano sono referenti dei contadini medi e ricchi che, insieme con i grandi proprietari fondiari, in alcune aree del paese, dominano il lavoro nelle campagne. Questi contadini agiati, insieme a commercianti, prestatori di denaro e personale burocratico regionale, riescono attraverso l’attuale circuito di mercato calmierato a ritagliarsi un sostanzioso compenso come intermediari commerciali, di magazzinaggio e trasporto delle derrate. Essi temono quindi che attraverso queste nuove leggi le grandi aziende agricole possano imporre i prezzi. Ma anche che riescano a introdurre nuovi rapporti con i milioni di braccianti e di contadini semi‑salariati, strappandoli dall’isolamento e al supersfruttamento a cui sono sottoposti nel ristretto ambito del villaggio.
Inoltre, mentre le associazioni dei piccoli contadini mettono al primo posto la cancellazione del debito, che da anni li opprime ed uccide, i medi e grandi proprietari ne sono contrari e chiedono al governo che questa rivendicazione non venga presa in considerazione, a meno che non sia il governo stesso a prendersene carico.
È in questo scenario di crisi e miseria per milioni di proletari e contadini che si stanno svolgendo queste manifestazioni e scioperi, la cui direzione però resta nelle mani di organizzazioni politiche e sindacali borghesi ed opportuniste.
Una delle parole d’ordine più abusate infatti è quella dell’unità tra lavoratori salariati e il mondo contadino nel suo insieme, contro il reazionario governo Modi. Si tratta di una parola d’ordine menzognera e opportunista. Se il proletariato comprende in sé i salariati braccianti agricoli, e può trarre dalla sua parte anche la gran parte dei contadini poveri e senza terra, esso non ha nulla da spartire con i contadini piccoli e medi che non sono affatto ceti rivoluzionari, nonostante le loro minacciate condizioni economiche. Le strutture sindacali e politiche che dirigono sia il movimento operaio sia quello contadino dimostrano in questo modo il loro opportunismo politico che punta tutto sulla dinamica elettorale.
L’economia capitalistica ha bisogno di una agricoltura che produca a basso costo i prodotti necessari alla sussistenza del proletariato. A questo fine è necessario per il capitale che anche nelle campagne prevalga una conduzione di tipo moderno, meccanizzata, basata sulla monocultura e su grandi estensioni.
Ma la piccola proprietà contadina disperatamente resiste nella difesa del campicello coltivato da generazioni.
Il processo di concentrazione della proprietà fondiaria, che pure è scritto nella evoluzione storica dell’economia capitalistica, procede quindi con lentezza, in alcuni periodi ostacolato anche dallo stesso Stato borghese, che teme la rivolta dei piccoli contadini espropriati e che essa si estenda al proletariato rurale e urbano.
Però, di fronte all’acuirsi della crisi economica lo Stato non ha le risorse per aiutare la piccola proprietà contadina a reggere la concorrenza dell’agricoltura industrializzata. Da qui la necessità anche per Nuova Delhi di varare queste nuove leggi, che spalancano la strada alla liberizzazione dei prezzi e condannano a morte la piccola proprietà.
La sola via d’uscita non sta nella difesa della piccola proprietà ma nella abolizione della piccola come della grande e nel passaggio alla produzione socializzata, liberando i piccoli contadini da un titolo di proprietà che non rappresenta una ricchezza ma una vera e propria schiavitù.
I contadini poveri, come classe, non possono avere coscienza di questo, e cercano di difendere la loro attuale situazione, nonostante sia spesso disperata. Solo quando si ergerà dinanzi a loro il movimento operaio liberato dall’influenza dell’opportunismo politico e sindacale, essi riconosceranno in questa forza l’unica via per la loro emancipazione.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Riunione generale di gennaio
Il tradizionale e netto indirizzo del partito nella relazione del suo gruppo
sindacale
L’attività sindacale in Italia è stata incentrata sul lavoro e la battaglia per il fronte unico “dal basso”, cioè il fronte unico sindacale di classe. Ciò è avvenuto in due ambiti: il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA) e la Assemblea Lavoratori Combattivi (ALC).
Il CLA è un piccolo organismo costituito da militanti di diversi sindacati di base e della opposizione classista in Cgil, che non gode del sostegno di alcuna dirigenza sindacale, né di quelle dei sindacati di base né di quelle delle opposizioni in Cgil. È nato a gennaio 2019, anche quale risultato del lavoro svolto negli anni precedenti dal nostro partito a sostegno dell’unità d’azione del sindacalismo di classe, per quanto i nostri compagni siano una minoranza dei militanti sindacali in esso presenti. In questo lavoro avevamo auspicato e indicavamo, per meglio condurre tale battaglia, la costituzione di un organismo permanente a tale scopo. Questo obiettivo, risultato prematuro negli anni precedenti, a settembre 2018 venne abbracciato dal gruppo che ha dato vita al CLA.
È bene precisare che il fatto che i nostri compagni sono una minoranza fra gli aderenti al CLA – pur alla scala delle piccole dimensioni di questo organismo e alla bassa intensità della lotta di classe oggi – conferma che l’indirizzo sindacale comunista è suscettibile, in quanto coincide con le sue esigenze, di trovare seguito nel movimento operaio al di fuori del perimetro organizzativo del partito e anche fra militanti sindacali aderenti ad altri partiti operai. È per questa via che entra in funzione la cosiddetta “cinghia di trasmissione” fra il partito comunista e la classe lavoratrice, che permette al partito comunista rivoluzionario di svolgere una funzione di direzione del movimento delle masse proletarie, che solo in parte, e in genere in piccola parte, sono comuniste.
La ALC è invece un organismo costituito nel luglio 2020 per iniziativa di un fronte politico denominato “Patto d’Azione Anticapitalista – Per un Fronte Unico di Classe” (PAA‑FUC), di cui le principali forze sono la maggioranza della dirigenza del SI Cobas, un’organizzazione politica giovanile stalinista denominata Fronte della Gioventù Comunista (FGC), un partito trozkista chiamato Partito Comunista dei Lavoratori (PCL) e il piccolo Slai Cobas per il Sindacato di Classe, che è sostanzialmente il sindacato di un gruppo politico maoista.
La ALC dichiara di perseguire lo stesso obiettivo del CLA: l’unità d’azione.
Unica forza che aderiva alla ALC ma non al PAA era il Sindacato Generale di Base (SGB) – più piccolo del SI Cobas e più grande dello Slai Cobas per il SdC – che però ne è uscito dopo l’assemblea nazionale del 29 novembre, che abbiamo commentato nel precedente numero di questo giornale (“Un finto sciopero generale per non prepararne uno vero”).
A parte le dirigenze dei sindacati promotori – come detto il SI Cobas e il piccolo Slai Cobas per il SdC – gli altri sindacati di base non hanno aderito alla ALC, e nemmeno le opposizioni in Cgil.
Le dirigenze sindacali che hanno spiegato questa decisione – fra queste l’area di opposizione in Cgil “Riconquistiamo tutto” e, significativamente, dell’ADL Cobas, che è sempre andato al fianco del SI Cobas nelle mobilitazioni nella logistica – lo hanno fatto sostenendo che l’iniziativa della ALC fosse strumentale al sostegno del summenzionato fronte politico, il cosiddetto Patto d’Azione Anticapitalista.
Questo è vero, con ogni evidenza. Tuttavia occorre precisare che di per sé non è un elemento risolutivo. Se i promotori della ALC – i gruppi politici che dirigono il PAA – impostassero questo organismo secondo i criteri corretti che abbiamo più volte ribadito e che andremo più avanti a enunciare, e altrettanto facessero per ciò che riguarda i rapporti fra ALC e PAA, ciò renderebbe la prima uno strumento utile per la costruzione dell’unità d’azione dei lavoratori, con fini analoghi a quelli del CLA.
Il problema non risiede nel fatto che un sindacato o un fronte sindacale sia diretto da una forza politica o da un fronte di forze politiche. Ciò è, in linea generale, inevitabile perché l’ambito sindacale deve essere organizzativamente distinto da quello partitico, ma non può esserne indipendente, non può non subirne l’influenza. Il problema è come la direzione politica del movimento sindacale viene esercitata: per quali obiettivi e con quali mezzi.
Noi sosteniamo che solo il partito comunista ha la facoltà di dirigere il movimento sindacale con indirizzi di lotta ed organizzativi che favoriscono appieno il suo sviluppo e che invece tutti gli altri partiti operai non possano che finire per assicurarsi la posizione direttiva del movimento con mezzi che lo danneggiano.
Quindi, oltre alla evidente constatazione del dato per cui le intenzioni dei gruppi politici dirigenti il PAA siano quelle di usare la ALC per dare sostegno a quel fronte politico, noi spieghiamo anche che ciò avviene con mezzi che vanno a discapito dell’obiettivo proclamato – l’unità d’azione dei lavoratori – e che sono quindi dannosi per il movimento operaio.
L’abbandono della ALC da parte dell’unica forza sindacale che non fa parte del PAA – l’SGB – lo dimostra. Così pure la mancata adesione dell’ADL Cobas che, ripetiamo, ha sempre scioperato insieme al SI Cobas nelle vertenze sindacali della logistica.
Tuttavia – quale nostra condotta invariante entro gli organismi proletari – noi prendiamo per buone le dichiarazioni di intenti delle dirigenze e le sfidiamo a dimostrarsi coerenti e conseguenti con esse, al fine di dimostrare ai lavoratori inquadrati in tali organismi il loro opportunismo e la corretta linea di posizioni della frazione sindacale del partito.
Sicché, se pur parzialmente corretta era stata la critica rivolta da diverse dirigenze del sindacalismo conflittuale alla ALC, noi abbiamo affermato essere sbagliata la loro conclusione pratica di non voler aderire a essa e abbiamo dato l’indirizzo pratico opposto: partecipare alla ALC e battersi affinché adottasse quei caratteri necessari a farne un organismo effettivamente utile all’unità d’azione dei lavoratori, facendo conoscere l’esempio del CLA e favorendo un rapporto con esso.
Va anche detto che, se le dirigenze del sindacalismo conflittuale, pur partendo da una critica in parte corretta sono giunte a una indicazione pratica sbagliata, ciò era dovuto a un opportunismo politico-sindacale non minore e non diverso da quello dei gruppi dirigenti promotori della ALC. Quanto meno per la maggior parte di esse, l’evidente vizio d’origine della ALC è stato un pretesto per non impegnarsi in modo conseguente sul terreno dell’unità d’azione dei lavoratori.
Conferma di tale valutazione è data dal fatto che nessuna di tali dirigenze del sindacalismo conflittuale abbia sinora aderito al CLA, nonostante esso abbia dimostrato di avere quei caratteri necessari alla costruzione di un organismo effettivamente utile alla battaglia per l’unità d’azione dei lavoratori che mancano alla ALC.
A tal proposito va messo in evidenza che la dirigenza del SI Cobas aveva inizialmente dato mostra di aderire al CLA. Ma i suoi militanti ben poco hanno partecipato realmente all’attività di questo coordinamento – se non per un tentativo, presto abbandonato, di costruire un coordinamento dei lavoratori della sanità – e lo hanno invece utilizzato come un mero ambito di propaganda per il loro sindacato. Ciò spiega la successiva decisione di abbandonare il CLA e promuovere la ALC. Che ragione vi era di costituire un nuovo organismo apparentemente analogo? Evidentemente i caratteri del CLA non corrispondevano alle aspirazioni dei dirigenti del SI Cobas.
Simile valutazione deve esser fatta per le altre forze politico-sindacali nella ALC. I militanti sindacali del PCL mai hanno mostrato interesse per il CLA e hanno invece aderito alla ALC in quanto fanno parte del cosiddetto Patto d’Azione Anticapitalista e hanno perciò in comune con i dirigenti del SI Cobas l’interesse a che la ALC agisca da puntello di quel fronte politico. Lo stesso vale per il piccolo Slai Cobas per il Sindacato di Classe: fa parte del PAA e per sostenere quel fronte politico aderisce alla ALC. Il comune denominatore opportunista delle scelte di questi gruppi politici è la subordinazione della costruzione di un fronte unico sindacale di classe a quella di un fronte politico, che irrimediabilmente impedisce la realizzazione del primo.
Per quanto concerne l’associazione giovanile stalinista denominata Fronte della Gioventù Comunista, questa aveva cercato un confronto con il CLA. In modo corretto e rigoroso il “gruppo di lavoro” di questo coordinamento rispose loro che il CLA vuol essere un organismo costituito da soli lavoratori – cioè di natura sindacale, distinto dall’ambito partitico – e che perciò non desiderava relazionarsi col FGC nella sua interezza bensì era interessato a rapportarsi solo coi militanti del FGC che fossero lavoratori.
Questo rigido criterio – che è fondamentale per mantenere distinti l’ambito partitico da quello sindacale, al fine del sano sviluppo di entrambi – è bastato a indirizzare il FGC verso la ALC. Infatti, in quest’ultima si è presto palesato come la proclamata natura di organismo di soli lavoratori venga dai suoi dirigenti derogata col volervi includere gli studenti (e perché no in futuro i movimenti cosiddetti “sociali”). Questo per permettere una maggior partecipazione del FGC alla ALC ed onorare in tal modo il sodalizio stretto all’interno del PAA.
Quello della inclusione di settori estranei alla classe lavoratrice negli organismi sindacali è un tipico metodo attraverso il quale le dirigenze sindacali opportuniste cooptano elementi politici ad esse fedeli nel sindacato, onde garantirsi su di esso un maggior controllo. Ad esempio, nell’Usb ciò avviene con la cosiddetta Federazione del Sociale (“L’USB al suo secondo Congresso nazionale. La Federazione del sociale”).
Ribadiamo dunque i due caratteri essenziali affinché un organismo si ponga davvero sulla strada per perseguire l’unità d’azione dei lavoratori.
Il primo è che esso sia formato da soli lavoratori, occupati e disoccupati, perciò sia organizzativamente distinto dall’ambito politico-partitico. Questo carattere ad oggi in Italia viene fatto proprio solo dal CLA mentre tutte le altre iniziative simili – che dichiarano cioè di perseguire l’obiettivo dell’unità d’azione dei lavoratori – mescolano nello stesso ambito organismi sindacali con partiti, gruppi politici, associazioni e movimenti di natura interclassista.
È interessante rilevare – in quanto dimostra il loro opportunismo – come le dirigenze del sindacalismo conflittuale trovino facilmente l’unità d’azione all’interno di mobilitazioni a carattere interclassista, in cui vi è una presenza marcata, se non preponderante, di gruppi politici e movimenti sociali – come nel caso del movimento No Tav e del cosiddetto “sciopero femminista” dell’8 marzo – mentre ad esse appaia impresa quasi impossibile fare altrettanto nel campo che è peculiare delle organizzazioni sindacali, dove sono in gioco gli interessi immediati dei lavoratori.
Il secondo carattere da ritenersi necessario a lavorare in modo adeguato per l’obiettivo dell’unità d’azione della classe lavoratrice è quello di perseguirlo non solo proclamandone l’esigenza direttamente ai lavoratori, ma anche negli organismi del sindacalismo di classe, battendosi al loro interno perché vi si adeguino nella loro azione.
Entrambe queste vie – l’appello diretto ai lavoratori e il lavoro nei sindacati – sono necessarie e nessuna delle due da sé è sufficiente a raggiungere lo scopo. Il ruolo dei sindacati nel movimento operaio è fondamentale e la loro condotta è un problema ineludibile. Per questo il lavoro al loro interno è un compito imprescindibile del partito.
I promotori della ALC, che dichiarano di voler perseguire l’unità d’azione dei lavoratori superando anche le divisioni fra sigle sindacali, si appellano solo ai lavoratori, affinché aderiscano alle mobilitazioni convocate dalla ALC stessa, oppure al sindacalismo conflittuale in modo generico e solo dopo aver già organizzato e proclamato lo sciopero, senza coinvolgere nella sua preparazione gli altri sindacati.
Tale condotta non differisce sostanzialmente da quella della maggioranza delle dirigenze degli altri sindacati di base, le quali anch’esse, tranne rare eccezioni, proclamano scioperi ignorando le altre organizzazioni. La differenza è che queste ultime non hanno la sfacciataggine di chiamare gli altri sindacati ad aderire a scioperi da esse proclamati senza alcun loro preventivo coinvolgimento e di voler per questo apparire autentiche sostenitrici dell’unità d’azione dei lavoratori.
Il CLA ritiene invece che nel convocare una mobilitazione – sia essa aziendale, territoriale, categoriale o intercategoriale – i sindacati che ne prendono l’iniziativa debbano precedentemente invitare alla sua organizzazione tutte i sindacati conflittuali presenti fra quei lavoratori.
Questo modo di procedere all’unità d’azione dei lavoratori non prevede un lavoro di diplomazia fra le dirigenze sindacali, tesi con cui i promotori della ALC concordano, ma che portano a giustificare il loro limitarsi all’appello diretto ai lavoratori. Al contrario: il tentativo di coinvolgere tutti gli organismi del sindacalismo di classe, invitandoli alla costruzione di una mobilitazione unitaria, è un atto contro le dirigenze opportuniste, in quanto le si sfidano alla coerenza – di fronte ai proletari e ai loro iscritti in particolare – col principio dell’unità d’azione dei lavoratori nella lotta economica.
Il tentativo di coinvolgere tutte le forze sindacali di classe è inoltre una condotta che aiuta i gruppi minoritari che entro ciascun sindacato lottano contro le loro dirigenze opportuniste. Infatti, ogni dirigenza sindacale non chiamata da altri sindacati alla preparazione di uno sciopero ha buon gioco a giustificare coi suoi iscritti e con i suoi delegati la sua mancata partecipazione per essere stata ignorata dai promotori. Il mancato coinvolgimento nella preparazione e organizzazione delle azioni di lotta è un favore che le dirigenze sindacali opportuniste si fanno reciprocamente, nel quadro di una implicita intesa prodotto dell’interesse comune a non organizzare scioperi unitari di tutto il sindacalismo conflittuale.
Evidentemente, l’invitare gli altri sindacati alla costruzione di una mobilitazione, offre ai lavoratori che al loro interno si battono per l’unità d’azione, un valido strumento polemico e di battaglia contro la propria dirigenza, nella eventualità in cui essa rigetti l’invito allo sciopero unitario.
In conclusione, i gruppi dirigenti sindacali opportunisti, che si proclamano sostenitori dell’unità d’azione dei lavoratori, ma che la perseguono scavalcando le altre organizzazioni sindacali nell’appellarsi direttamente ai lavoratori, e presentano tale condotta come rigetto della diplomazia fra dirigenti, sono quelli che in realtà compiono un gioco diplomatico fra gruppi politici – nella fattispecie quelli aderenti al PAA – che si traduce in una guerra contro altri sindacati – quelli le cui dirigenze non aderiscono al PAA – condotta con azioni di lotta separate e quindi dividendo il movimento sindacale della classe lavoratrice. Fanno cioè l’esatto contrario di ciò che proclamano di fare: diplomazia da un lato, divisione dell’azione dei lavoratori dall’altro.
Il corretto indirizzo sindacale comunista, sul piano che stiamo affrontando, è quindi quello di rivolgersi sia alle dirigenze sindacali, sia agli iscritti ai sindacati, sia all’intera classe lavoratrice.
Le dirigenze opportuniste – soprattutto in fasi in cui la lotta della classe operaia è montante, diversamente dall’attuale – non possono rigettare appelli all’unità d’azione, pena il discredito di fronte ai lavoratori. Ma è certo che all’accettazione formale di un piano di lotta unitario non ne seguirà da parte loro una condotta coerente e conseguente, bensì esitante, tentennante, spesso giungendo al sabotaggio dell’iniziativa unitaria.
Nel corso di questa battaglia il partito comunista rafforza ed estende la sua influenza e autorevolezza nel movimento sindacale e nella classe lavoratrice.
È l’esperienza storica della Alleanza del Lavoro, organismo ottenuto nel 1922 grazie alla battaglia del Partito Comunista d’Italia per un fronte unico sindacale di classe, condotta fin dai primi giorni dalla sua costituzione nel gennaio 1921. Le dirigenze sindacali non poterono allora rifiutare di far parte di quel fronte unico “dal basso” – cioè di organismi economici e non politici – ma operarono per sabotarlo, per non farlo funzionare.
Da precisare è che nella costruzione di un fronte unico sindacale di classe il partito non esclude un accordo fra la propria frazione sindacale e quelle di altri partiti operai.
Intanto va detto che, pur se riteniamo solo il partito comunista dotato degli strumenti, derivanti dalla dottrina marxista, necessari per mantenersi in modo continuo sulla corretta linea di indirizzo d’azione, rivendicativo e organizzativo nel campo sindacale, nemmeno escludiamo che altri partiti, nel loro oscillare contraddittorio fra alterni e contraddittori indirizzi pratici, conseguenza delle loro dottrine non marxiste, in dati momenti e per certi periodi possano temporaneamente attestarsi su posizioni corrette e analoghe a quelle del nostro partito. Solo sappiamo che presto o tardi si troveranno irrimediabilmente a decampare e sbandare.
In secondo luogo va chiarito che, se è assolutamente corretto e necessario che gli organismi sindacali inquadrino i lavoratori senza discriminanti di natura politica, al fine di acquisire la massima forza, è altrettanto certo che il ruolo dei partiti entro il movimento sindacale è determinante. Una parte considerevole dei militanti sindacali sono anche e dapprima militanti politici, spesso i più combattivi e devoti alla causa. Per altro anche i più impegnati militanti sindacali senza partito finiscono di frequente per abbracciare una causa e una organizzazione politica, assurgendo alla consapevolezza del fatto che la lotta sindacale si limita a porre argini agli effetti del problema sociale della condizione operaia ma che solo la lotta politica può incidere sulle cause.
È perciò in contrasto con la natura delle cose sostenere che il movimento sindacale possa e debba essere indipendente dai partiti politici.
Esso come organizzazione deve essere separato dall’ambito partitico nonché indipendente dai partiti politici borghesi, pena decadere nel sindacalismo di regime, collaborazionista. Ma esso è inevitabilmente, e giustamente, un campo di battaglia fra le organizzazioni politiche operaie, in cui ciascuna, attraverso la sua frazione sindacale, propone ai lavoratori il suo indirizzo pratico di lotta, che discende dalla sua teoria e dal suo programma politico.
Tutti i partiti operai – cioè tutti quei partiti i quali ritengono che la classe operaia abbia un interesse immediato e politico peculiare nella società e in contrasto con la borghesia – legittimamente aspirano a dirigere il movimento sindacale, nella convinzione di poter dare ad esso il miglior sviluppo.
Il nodo del problema risiede nella verifica della coerenza fra l’indirizzo pratico sindacale e la teoria e il programma politico dei partiti, e se il primo si dimostri favorevole o dannoso allo sviluppo del movimento operaio.
Caratteri entrambi che noi sosteniamo essere privilegio del solo partito autenticamente marxista. Solo i comunisti “non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato” (“Il manifesto” del 1848). Tutti gli altri partiti operai debbono, prima o dopo, o abbracciare indirizzi pratici incoerenti con la loro ideologia, o preservare tale coerenza propugnando indirizzi d’azione che danneggiano il movimento operaio.
Questa impossibile coerenza fra l’indirizzo pratico sindacale e la teoria politica dei partiti operai opportunisti è all’origine dell’inevitabile sbandamento nella loro base operaia e della crescita dell’autorevolezza e dell’influenza nel campo sindacale e fra la classe lavoratrice del partito comunista. È la ragione per cui, in determinati risvolti storici, si assiste alla base operaia dei partiti opportunisti che scende in sciopero a dispetto e contro le indicazioni delle loro dirigenze e al seguito dei comunisti.
Da queste premesse consegue e si comprende come nella costruzione di un fronte unico sindacale di classe possa aver luogo o un accordo esplicito o una intesa implicita fra la frazione sindacale del nostro partito e quella di altre organizzazioni politiche.
Esempio di ciò fu l’appello del Partito Comunista d’Italia per la costruzione di un fronte delle sinistre sindacali al fine della ricostruzione dell’Alleanza del Lavoro, dopo il suo abbandono da parte delle dirigenze sindacali all’indomani dello sciopero dell’agosto 1922.
* * *
Nel quadro di quanto sino a qui descritto si è sviluppata la recente attività sindacale del partito in Italia, che, nonostante la condizione di forte limitazione delle mobilitazioni sindacali in ragione della pandemia, è stata intensa.
– Domenica 27 settembre, ultimo giorno della scorsa riunione generale del partito, un nostro compagno è intervenuto a Bologna, in nome del CLA, alla seconda ALC nazionale.
– Sabato 3 ottobre, siamo intervenuti in una manifestazione nazionale a Modena, convocata del SI Cobas, contro la repressione padronale, antioperaia e antisindacale, diffondendo sia un volantino del CLA, insieme ad altri suoi militanti, sia un volantino del partito.
– Domenica 18 ottobre è stata organizzata per la prima a volta a Genova, con l’apporto dei nostri compagni, l’assemblea nazionale del CLA, che ha avuto un esito soddisfacente.
– Sabato 24 ottobre, a Roma e a Milano, alle piccole manifestazioni promosse dalla ALC, come stabilito nell’assemblea nazionale del 27 settembre, abbiamo diffuso un volantino del partito che spiegava in modo molto chiaro la distinzione fra il fronte unico politico e quello sindacale, deprecando il primo e indicando ai lavoratori il secondo.
– Nel giornale uscito il 9 novembre abbiamo reso conto dall’assemblea nazionale dei Lavoratori Combattivi del 27 settembre alle piccole manifestazioni fino al 24 ottobre. Nell’articolo riportavamo un episodio esemplare circa la natura dei rapporti fra il fronte politico denominato PAA e la ALC e circa la voluta confusione fatta dai dirigenti dei due organismi fra fronte unico politico e fronte unico sindacale, chiaramente allo scopo di perseguire il primo a discapito del secondo: il comunicato nazionale del SI Cobas che tre giorni dopo commentava l’esito della giornata del 24 ottobre, dichiarava che le manifestazioni erano state indette dal Patto d’Azione, intestando quindi a questo fronte politico una mobilitazione che era stata decisa dall’Assemblea Lavoratori Combattivi del 27 settembre.
– Nello stesso numero di giornale abbiamo pubblicato un articolo che sviluppa una critica alle rivendicazioni della tassa patrimoniale e delle nazionalizzazioni, entrambe da noi considerate dannose per il movimento operaio in quanto deviano le lotte dalle loro vere rivendicazioni di classe su obbiettivi illusori. La patrimoniale è rivendicazione centrale del PAA e di conseguenza della ALC. È sostenuta dalla dirigenza del SI Cobas. I trozkisti in seno al PAA e alla ALC spingono affinché i due organismi abbraccino anche la seconda rivendicazione.
– L’11 novembre abbiamo partecipato alla manifestazione degli operai dell’acciaieria di Genova contro tre licenziamenti per ragioni disciplinari; per il CLA è stato redatto un comunicato di solidarietà; lo stesso per Coordinamento provinciale dell’Usb Vigili del Fuoco; entrambe iniziative che hanno ricevuto apprezzamenti da alcuni lavoratori metallurgici.
– Il 25 novembre è stato pubblicato un comunicato del CLA sull’ennesimo sciopero dell’Usb nella sanità, organizzato in piena solitudine.
– Il 29 novembre due nostri compagni sono intervenuti nella terza ALC nazionale, uno a nome del CLA, l’altro come lavoratore aderente al CLA e alla ALC. Il 5 dicembre un altro compagno è intervenuto nella ALC romana.
– Nel numero scorso di questo giornale, del 28 dicembre, siamo tornati sulla questione della patrimoniale e vi abbiamo commentato la ALC nazionale del 29 novembre e il corso di questo organismo. Quell’assemblea ha deciso, votando, e con ciò spaccandosi, di indire uno “sciopero generale” per venerdì 29 gennaio. Una decisione grottesca – giacché la massima mobilitazione della classe lavoratrice non è nemmeno lontanamente alla portata di questo organismo – e che palesa la concezione velleitaria tipica del movimentismo piccolo-borghese del gruppo dirigente della ALC. Inoltre, l’aver imposto la dirigenza del SI Cobas tale decisione ricorrendo al voto, il cui esito era scontato vista la preponderanza numerica del SI Cobas, ha prodotto l’abbandono della ALC da parte del SGB, unica forza sindacale che non fa parte del PAA. Ciò conferma come i dirigenti di quel fronte politico siano disposti all’impiego di ogni mezzo pur di garantirsi l’obbedienza della ALC, sia esso dannoso o meno per l’Assemblea stessa, e, a maggior ragione, per il movimento operaio nel suo complesso.
L’esito del cosiddetto “sciopero generale” è stato quello prevedibile: riuscito solo nella logistica, e anche in questa categoria indebolito della mancata partecipazione dell’ADL Cobas e del SGB e dal carattere politico dato alla mobilitazione “generale”, nonostante questa categoria sia interessata dal rinnovo del contratto collettivo nazionale. Sarebbe stato assai più proficuo, invece, proseguire nella mobilitazione per tale rinnovo contrattuale, cercando di unificarla – per verificare se ne esistevano le condizioni – con l’azione di altre categorie anch’esse in attesa del nuovo contratto (pubblico impiego, ferrovieri, autoferrotranvieri, marittimi, operatori sociali). Per i dirigenti del SI Cobas invece lo “sciopero generale” sarebbe riuscito “pur se minoritario”: un evidente ossimoro, per un’azione quale lo sciopero, nella quale primo fattore è la forza del numero.
Il 6 gennaio la “giustizia” si è beffata ancora una volta dei lavoratori, delle vittime delle stragi del profitto, dei loro parenti e cari.
Undici anni e mezzo fa, la notte del 29 giugno del 2009, a Viareggio il deragliamento di un treno che trasportava propano liquido (gpl) provocò, da uno dei vagoni cisterna, una vasta fuoriuscita di gas che subito invase la stazione, il suo sedime e l’abitato adiacente. L’esplosione e l’incendio che dopo pochi attimi ne scaturirono arsero vive 32 persone, fra cui tre bambini colti nel sonno nei loro letti e quattro ragazzi. Decine i feriti gravi che porteranno le conseguenze delle terribili ustioni per tutta la vita.
La IV Sezione della Corte di Cassazione, ribaltando le sentenze di primo e secondo grado, ha cancellato l’aggravante di violazione delle norme di sicurezza sul lavoro, determinando l’assoluzione di tutte le Società coinvolte e la caduta in prescrizione delle accuse di omicidio colposo plurimo, derubricate a semplice “disastro ferroviario”.
Possiamo immaginare la rabbia dei parenti delle vittime, che si sono costituiti nell’associazione “Il mondo che vorrei”. Alcuni di questa associazione hanno partecipato attivamente alle assemblee del CLA (Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe) che tra i suoi obiettivi mette in primo piano la lotta sui temi della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro e contro la repressione di chi denuncia situazioni di rischio, nella guerra quotidiana tra capitale e lavoratori.
Il messaggio della sentenza è chiaro: le aziende possono tagliare i costi sulla sicurezza per garantirsi migliori profitti, al prezzo della vita e della salute di lavoratori e popolazione, ma saranno tutelate in sede processuale. I dirigenti saranno eventualmente colpiti da pene le più miti possibile. Assai più spesso lo saranno i lavoratori, indicati quali responsabili coi loro “errori umani”. Lavoratori e parenti delle vittime si guardino dall’avviare procedimenti giudiziari essendo più che plausibile conclusione di questo quadro il pagamento delle spese processuali.
Pregna di significato politico la vicenda. Mauro Moretti all’epoca della strage era Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato. Ingegnere, entrò in ferrovia come ispettore nel 1978, divenendo presto dirigente. Alla carriera aziendale affiancò quella nel maggior sindacato di regime italiano, la Cgil, arrivando a entrare nella segreteria nazionale della Filt Cgil, dal 1986 al 1990. Erano gli anni in cui il sindacalismo di base dava filo da torcere all’azienda, quasi sopravanzando i sindacati di regime, organizzando duri scioperi, a cui la borghesia, col pieno sostegno di Cgil Cisl e Uil, rispose con la legge “antisciopero” 146 del 1990, che è ancora oggi uno dei principali baluardi che il ritorno alla lotta della classe lavoratrice dovrà abbattere.
Dall’altro lato della barricata – in azienda, nel sindacato, fra le classi – nel giugno 2013 il ferroviere viareggino Riccardo Antonini – militante e dirigente dell’area di opposizione sindacale di classe in Cgil, oggi fra gli animatori del CLA – vide confermato dal tribunale di Lucca il suo licenziamento per “rottura del vincolo fiduciario tra azienda e dipendente”, avendo egli agito come consulente dei familiari delle vittime nel processo.
Nel 2014, Moretti passò dalla sedia di Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato a quella – sempre di Amministratore Delegato – di Finmeccanica (ora Leonardo).
Oggi, la sentenza della Cassazione – depotenziando l’impianto accusatorio e rinviando a un ulteriore processo di appello – offre ulteriori garanzie di protezione a questo bonzo sindacale divenuto manager statale.
Non solo questo quadro mostra con perfetto nitore l’inquadramento definitivo della Cgil nel regime politico borghese.
Mostra anche quanto sia vuota e mistificante l’idea che vuole nell’interventismo statale in economia capitalista uno strumento di tutela dei lavoratori.
Questa ideologia è ben radicata in tutto il sindacalismo conflittuale – dalla opposizione in Cgil, alla Cub, all’Usb – e ha origini lontane, fin dai bonzi della CGdL rossa (1906‑1927), Rigola e D’Aragona, che finirono per liquidare il sindacato e abbracciare il corporativismo fascista, soprattutto dal primo considerato – a ragione – il più coerente e conseguente realizzatore di quell’ideologia riformista che, dopo la cesura storica della prima guerra mondiale e del tradimento della Seconda Internazionale, non poteva mai più essere un’ala della autonoma politica della classe proletaria ma solo una articolazione del partito unico borghese.
Un bonzo sindacale, nemico giurato del sindacalismo di classe, diviene massimo dirigente di un’azienda statale, ne organizza la ristrutturazione, i tagli dei costi, i licenziamenti, cause di innumerevoli incidenti mortali. Lo Stato lo promuove, lo premia (di 9 milioni e 400mila euro la “buonuscita” da Federmeccanica nel 2017), lo difende con la sua magistratura.
La macchina statale borghese è il baluardo dello sfruttamento dei lavoratori nel capitalismo e meglio lo difende finché riesce a mascherarsi la dittatura borghese con la democrazia. Per emanciparsi dal capitalismo va distrutta e sostituita.
Con essa è baluardo dello sfruttamento l’ideologia del “diritto”: la verità materiale e storica è che tutti i supposti “diritti” dei lavoratori – a un salario adeguato, alla salute, all’istruzione… – sono temporanei e revocabili di fronte al solo vero “diritto” permanente, che non può esser messo in discussione nella società del Capitale, quello del Profitto a realizzarsi, ad ogni costo.
I proletari hanno solo dei bisogni da realizzare a discapito degli interessi padronali e, infine, sul cadavere del capitalismo. Non hanno diritti da difendere in questa società.
Il lungo elenco di incidenti e infortuni, spesso mortali, nel settore del trasporto su rotaia, è un segnale dell’acuirsi della lotta tra capitali in competizione, frutto dell’avanzante inesorabile crisi dell’economia capitalistica, che si traduce in taglio dei costi e aumento dei ritmi di lavoro, per garantire profitti e distribuzione di dividendi tra gli azionisti.
Il giorno prima della sentenza un operaio di una ditta moriva schiacciato da un carrello alla stazione di Jesi (Ancona). Il 7 gennaio era anche il sedicesimo anniversario dell’incidente ferroviario a Crevalcore (Bologna), nel quale morirono 17 persone, fra cui 5 ferrovieri. Nel processo la colpa fu data al macchinista, deceduto nell’incidente (comunicato del CLA).
Nel suo comunicato a commento della sentenza dell’8 gennaio il CLA ha indicato la necessità di una risposta unitaria del sindacalismo conflittuale, nel quadro di una lotta per la salute e la sicurezza sui posti di lavoro. Quale obiettivo di lotta sindacale ha suggerito l’abolizione del cosiddetto “obbligo di fedeltà” all’azienda dell’art. 2105 del Codice Civile del 1942, in virtù del quale tanti lavoratori e militanti sindacali sono stati colpiti da ritorsioni aziendali, spesso da licenziamenti, come abbiamo visto essere accaduto anche nella vicenda della strage di Viareggio e come accaduto nel quadro dell’epidemia ancora in corso.
Questa indicazione ci pare più aderente alla realtà materiale dei problemi dei lavoratori e del movimento sindacale rispetto alla proposta avanzata dalla dirigenza dell’Usb di una legge che introduca il reato di “omicidio sul lavoro”.
Intanto, battersi per abolire una legge antioperaia è cosa meno aleatoria dal farlo per la introduzione di una legge che dovrebbe difendere i lavoratori attraverso… il procedimento giudiziario, circa la cui natura tutto quanto sin qui scritto esprime il nostro giudizio, che è quello del marxismo ortodosso. Ciò senza entrare nel merito del processo legislativo e parlamentare necessario alla approvazione di una simile legge, nonché alla definizione del suo testo.
Proposte come quella avanzata dalla dirigenza dell’Usb appaiono velleitarie se non sensazionalistiche, figlie di un riformismo fuori tempo e fuori dalla storia, che illude i lavoratori di poter difendere i loro bisogni appellandosi ai “Diritti”, alla “Democrazia”, al bene del “Paese”, tutti termini rigorosamente scritti con le iniziali maiuscole e tutti parte di quell’armamentario ideologico antimarxista che la vicenda di Viareggio, e tante altre, smentiscono senza appello.
La strada da seguire è un’altra, quella che tenta con pazienza di sostenere l’unità dei lavoratori in lotta e di operare per la realizzazione di un fronte unitario del sindacalismo di base e conflittuale, contro l’opportunismo dei rispettivi gruppi dirigenti, che antepongono gli interessi delle proprie microscopiche organizzazioni a quelli della lotta di classe.
Su questa strada e per questo scopo si è costituito e interviene nelle lotte dei lavoratori il CLA. E su questa strada si batterà il proletariato per combattere la guerra di classe contro il capitale.
PAGINA 4
Il 31 dicembre scorso 75 lavoratori arabi palestinesi della fabbrica Yamit Filtration & Water Treatment sono entrati in sciopero ad oltranza, organizzati col sindacato MAAN. La fabbrica si trova nella zona industriale presso la città di Tulkarm, nella Cisgiordania nordoccidentale, a 5 km dal confine con Israele. I lavoratori arabi palestinesi sono operai addetti alla produzione ma la fabbrica impiega anche lavoratori israeliani, che hanno incarichi amministrativi, impiegatizi, e non hanno aderito allo sciopero.
Agli operai palestinesi l’azienda nega il contratto collettivo di lavoro, pretendendo di assumerli con contratti individuali.
L’amministratore delegato della fabbrica ha dichiarato: «So che la terra d’Israele appartiene solo al popolo ebraico e se la legge mi forzasse a farlo, non farò più lavorare questi operai».
Ciò che questo esponente della borghesia ha inteso ricordare – oltre a ricorrere alla ideologia nazionalista con cui la sua classe sociale in ogni paese ama dare una veste di dignità ai suoi loschi affari – è che l’azienda sarebbe legittimata ad assumere individualmente gli operai in base a una legge giordana del 1966, e che se fosse costretta ad applicare ai lavoratori fosse la legge israeliana li licenzierebbe.
Per ogni borghese, il lavoro salariato va sempre bene, di ogni razza e religione, fintantoché i lavoratori si lasciano sfruttare, ma nel momento che si organizzano e lottano in difesa delle proprie condizioni ecco che subito diventano palestinesi o israeliani, arabi o ebrei, ecc. ecc. Il razzismo è sempre servito a dividere e a distogliere la classe operaia dall’affrontare i suoi veri nemici, che sono di classe e non di razza o di religione.
Gli operai della Yamit non erano rappresentati da alcun sindacato quando furono assunti e firmarono i loro contratti, ma nel gennaio 2020 si sono organizzati nel MAAN (termine che in arabo significa “uniti” e in ebraico “a favore”) e hanno rivendicato un contratto collettivo.
La dirigenza aziendale ha tenuto un primo incontro sulla questione a febbraio, poi le trattative sono state rinviate col pretesto della pandemia e sono riprese solo durante l’estate. A settembre le due parti concordarono che, per accelerare le trattative, il sindacato avrebbe presentato una bozza di contratto collettivo, che fu poi effettivamente consegnata. I colloqui a quel punto si sono fermati, con l’azienda che affermò di incontrare problemi finanziari a causa della pandemia.
Il MAAN, nato formalmente come una ONG, è un piccolo sindacato in crescita che nei territori occupati sta assumendo spesso un ruolo di direzione delle lotte dei proletari palestinesi nelle aziende israeliane. Opera però anche all’interno del territorio israeliano, soprattutto nell’edilizia, in difesa della sicurezza dei lavoratori, che a centinaia perdono la vita ogni anno in questo settore. Dichiara di organizzare i lavoratori senza distinzione di nazionalità, religione, etnia, sesso. È forse l’unico sindacato che effettivamente agisce per un’organizzazione congiunta dei proletari su entrambi i lati della barriera di separazione. Organizza prevalentemente lavoratori arabi palestinesi e in parte minore israeliani. Ha già condotto diverse lotte vittoriose, come quella nel febbraio 2017 alla Zarfaty Garage, nella zona industriale Mishor Adumin in Cisgiordania a 20 km da Gerusalemme, con cui 75 operai ottennero il contratto collettivo di lavoro, e che ebbe un grande impatto per tutti i proletari in condizioni analoghe.
Non mancano debolezze e opportunismi in questo sindacato: il ricorso ai tribunali borghesi è considerato dalla dirigenza strumento centrale dell’azione sindacale, cui corrisponde uno scarso ricorso agli scioperi, ai picchetti, all’unità fra le lotte delle diverse aziende e categorie. Il MAAN è diretto da un partito della sinistra borghese che in origine si richiamava a un vago marxismo di marca socialdemocratica, veste ideologica oggi abbandonata.
Tuttavia, per la prima volta si sta assistendo a un movimento di lotta degli operai palestinesi impiegati nelle aziende israeliane nei territori occupati e, di fatto, questi per lottare stanno utilizzando questo sindacato.
In contemporanea a quella degli operai alla Yamit sono in corso altre 5 lotte, fra cui alla Tamar Tov, alla Mia Food Company, alla Green Net.
Queste lotte operaie sono un raggio di luce in una situazione di completa pace sociale in atto, complice la pandemia, sia nei Territori occupati sia in Israele. L’esempio di questi proletari palestinesi dev’essere portato a tutti i lavoratori, arabi e ebrei, indicando che l’unica azione efficace contro lo sfruttamento sarà soltanto l’unità internazionale della classe operaia.
La lotta dei lavoratori ha bisogno, soprattutto qui, della stretta collaborazione tra la classe proletaria palestinese e quella israeliana, senza distinzione di razza, lingua o religione. Quando ciò accadrà, si potrà vedere la luce in fondo ad un tunnel lungo quasi 100 anni, e si potrà porre fine a una guerra che non è, e non è mai stata, della classe lavoratrice ma è sempre stata, e sempre sarà, contro di essa.
Per questo esprimiamo tutta la nostra solidarietà a questi coraggiosi proletari, affermando che una loro vittoria sarà una vittoria di tutti i lavoratori!
• Solidarietà ai lavoratori della Yamit!
• Per la lotta internazionale del proletariato! - Stesso lavoro, stesse condizioni d’impiego e salariali per tutti i lavoratori!
PAGINA 5
CRESCE IL DEBITO
Dal 2002 al 2007 l’accumulazione frenetica di capitale è avvenuta a costo di un debito pubblico e privato colossale. Come minimo in questo periodo il debito mondiale è cresciuto del 73%. L’indebitamento privato è generalmente superiore a quello pubblico. L’indebitamento è inoltre aggravato dalla speculazione, che fa salire i prezzi delle materie prime, degli immobili e di tutti i titoli in generale. Inoltre, in tempi di saturazione dei mercati, l’unico modo per continuare l’accumulo di capitale è stato il credito, quindi l’indebitamento.
Dopo la crisi del 2009‑10, la montagna del debito ha continuato a crescere, più lentamente, ma a tassi comunque elevati, tanto che alla fine del 2019 sarà triplicata rispetto ai primi anni 2000. Sulla Tabella si vede che il debito mondiale è passato da 74.000 miliardi di dollari nel 1997 a 280.806 miliardi nel 2019!
Se guardiamo all’indebitamento nei principali paesi imperialisti del settore non finanziario, che comprende il debito delle imprese, delle famiglie e degli Stati, espresso in percentuale del PIL, notiamo tre gruppi: in cima c’è il Giappone con un debito del 381% del PIL annuo, seguito dalla Francia con il 327%, poi Inghilterra, Cina, Italia e Stati Uniti, il cui indebitamento si aggira intorno al 260% del PIL. Molto più in basso abbiamo, come era da aspettarsi, la Germania con un debito di solo, per così dire, il 180%: la virtuosa Germania è indebitata per quasi il doppio del suo PIL. Questi indebitamenti oggi, a causa dell’aggravarsi della crisi, sono stati abbondantemente superati.
In termini assoluti, ovviamente, tutto cambia: gli Stati Uniti sono in testa con un debito di più di 54.000 miliardi di dollari, seguiti dalla Cina con 37.000 miliardi, poi il Giappone con più di 19.000. L’indebitamento di queste tre nazioni rappresenta più della metà del debito mondiale, il che significa che la loro quota di debito è superiore al loro peso nelle produzioni. Per gli altri grandi paesi industrializzati il debito varia da poco meno di 9.000 miliardi per la Francia a poco più di 1.700 miliardi per il Belgio. Dati gli attuali tassi di accumulazione asmatica del capitale è assolutamente impossibile che queste nazioni possano mai sperare di ripagare il loro debito, tanto più che questo tende a esplodere con la crisi.
La nostra soluzione è molto semplice, nei paesi a capitalismo maturo, non appena prenderemo il potere, con l’esproprio della borghesia e il passaggio alla gestione fisica della produzione e della distribuzione, annulleremo tutti i debiti pubblici e privati. Questo porterà al dissolversi del capitale finanziario internazionale, il che è proprio il nostro scopo!
Ciò che colpisce, se si guarda alla Tabella in termini assoluti, è la crescita quasi esponenziale del debito della Cina dal 2007, passato da 5.384 miliardi di dollari a 36.765, sette volte! Questo l’effetto della crisi, è a questo prezzo che il capitalismo cinese è riuscito a mantenere la crescita. Ma il capitalismo cinese è alla fine del suo slancio giovanile e una crisi di sovrapproduzione, legata alla folle accumulazione del capitale bussa alla porta a metter fine al gioco, una crisi che farà impallidire la tragica crisi del Grande Balzo in Avanti degli anni Sessanta!
Il grafico dell’indebitamento in percentuale del PIL delle società non finanziarie mostra che nel 2019 le più indebitate sono quelle di Cina, Belgio e Francia, al 150%. Giappone e Corea del Sud sono i secondi, con il 104%, seguiti da Inghilterra, Italia e Stati Uniti con circa il 75% del PIL. Infine la Germania con un “modesto“ 59%. Quello che sarebbe apparso enorme prima della crisi del 1974‑75, oggi sembra modesto se confrontato con i livelli di indebitamento delle aziende di altri Paesi.
Nei valori assoluti tutto cambia: l’indebitamento delle aziende cinesi, in crescita dal 2007 come quello totale, è alle stelle, passato da 3.000 miliardi di dollari a più di 21.000, anche qui con un aumento di sette volte. A questo prezzo il capitalismo cinese è riuscito a mantenere l’accumulo di capitale ed evitare una grave recessione.
Per le imprese francesi l’indebitamento non deriva tanto da investimenti, che sono piuttosto piccoli, almeno in patria, quanto da riacquisto di azioni. Le società si indebitano per riacquistare le proprie azioni al fine di sostenerne il prezzo e pagare sostanziosi dividendi agli azionisti.
Riguardo ai disavanzi pubblici peggiore non è l’Italia ma il Giappone che, con un debito del 204% del PIL, sta battendo tutti i record. Poi c’è l’Italia con il 135%, non quanto il Giappone ma comunque impressionante. Seguono Francia, Inghilterra, Belgio e Stati Uniti con poco meno del 100%. Infine la Germania con il 60%.
In fondo abbiamo la Russia che, dopo il suo fallimento nel 1989, riparte con un minuscolo 14,5%: grazie alla rendita ricavata dalle esportazioni di gas e petrolio è riuscita a ridurre drasticamente il debito. Ma con la crisi che sta facendo crollare il prezzo delle materie prime, soprattutto del petrolio, il debito dello Stato russo non può che tornare a crescere e presto si troverà in compagnia di tutti gli altri.
Per un confronto, nel 1978, dopo la crisi del 1975, il debito del governo francese era del 21%! Possiamo misurare con questo ordine di grandezza gli effetti delle successive crisi di sovrapproduzione e del declino dell’accumulazione di capitale.
A seguito del forte peggioramento della recessione a causa del coronavirus, il rapporto debito/PIL è certo salito, ma è troppo presto per avere dati attuali. È però previsto che il rapporto debito/PIL dello Stato francese salga dal 100% nel 2019 al 120% nel 2020, quello degli Stati Uniti dal 100% al 137%, quello italiano dal 136% al 150%.
Siamo però stati in grado di costruire una Tabella a partire dai dati IIF che mostra che il rapporto debito/PIL dei Paesi industrializzati è passato dal 380% del PIL nel 2019 al 392% nel primo trimestre del 2020, aumento ancora modesto, ma non c’è dubbio che nei mesi di marzo, aprile e maggio il debito è salito fortemente.
LA VECCHIA TALPA
Dopo aver interrotto il “quantitative easing” nel 2014, la FED nel 2015 ha timidamente alzato il tasso di interesse dello 0,25% e di nuovo nel 2016: i due tassi base sono così passati da 0% e 0,25% a 0,50% e 0,75%. Con la ripresa economica del 2017‑18 ha preso coraggio, con successivi ritocchi dello 0,25%, all’inizio del 2019 ha raggiunto il 2,25% e il 2,50%. Da ottobre 2017 ha addirittura iniziato a ridurre il suo indebitamento, prevedendo di tornare a una situazione “normale“ nell’arco di 5 anni. Questo sembrava ragionevole. All’epoca noi avevamo previsto che non avrebbe avuto il tempo di farlo perché prima sarebbe arrivata la crisi. E i fatti ci hanno dato ragione.
In Europa la BCE a partire dall’aprile 2018 ha iniziato a ridurre gradualmente il “quantitative easing”, per cessare definitivamente nel dicembre 2018. Ha persino previsto di iniziare ad aumentare l’interesse dall’estate del 2019.
Il rallentamento a metà del 2018, poi la recessione nel 2019 hanno smentito tutti questi bei piani. Come si legge su “Les Échos”, «La speranza di un ritorno alla “normalità” che era apparsa negli ultimi due anni, dopo i violenti shock del 2008‑2009 e del 2011‑12, è svanita». Già a marzo 2019 i tassi obbligazionari hanno cominciato a scendere, come i valori bancari sui mercati finanziari, per non parlare del mini‑crollo del mercato azionario dell’inverno 2018‑19.
Il segnale della marcia indietro fu dato dalle Banche Centrali di Australia e Nuova Zelanda, che hanno iniziato ad abbassare i loro tassi di riferimento a fronte della nuova minaccia di recessione. Seguirono presto le Banche Centrali dell’India, della Turchia, ecc., infine la FED.
«Una dozzina di banche centrali ha abbassato i tassi negli ultimi mesi nel tentativo di stimolare la crescita lenta e l’indebolimento dell’inflazione sullo sfondo delle guerre commerciali e tecnologiche. Come nel 2008 l’ondata ha preso forma per la prima volta nel Pacifico e ha guadagnato forza e altezza. Questi sono indici di un movimento che continuerà tra le banche centrali», ha detto a giugno Christopher Dembik, un economista della Saxo Bank.
La FED ha poi iniziato a riacquistare i buoni del tesoro. Finora i titoli del Tesoro e i mutui ipotecari in scadenza non erano stati sostituiti, consentendo alla FED di ridurre il proprio debito. A partire dalla metà del 2019, oltre a sostituire le obbligazioni in scadenza con nuovi acquisti, il rimborso dei titoli ipotecari scaduti è stato utilizzato per l’acquisto di un importo equivalente in buoni del Tesoro. La composizione dello stato patrimoniale è stata quindi modificata a favore dei buoni del tesoro. Si è attuata così una normalizzazione della politica monetaria; i tassi d’interesse sono risultati appena positivi in termini reali e il debito è stato quasi cinque volte superiore a quello precedente la crisi del 2008‑2009.
La BCE ha rimandato il rialzo dei tassi di interesse previsto per l’estate del 2019 e da giugno 2019 ha iniziato a “parlare” di un nuovo alleggerimento quantitativo. Dal 2020, con la chiusura delle frontiere a marzo‑aprile e il confinamento sanitario a seguito dell’epidemia, la situazione economica è diventata particolarmente desolante.
Ci si può chiedere come questo modo di produzione riesca a mantenersi in piedi, che ha adempiuto al suo ruolo storico di socializzazione delle forze produttive e che è diventato totalmente obsoleto e parassitario. Come abbiamo affermato più volte, il capitalismo monopolistico funziona meglio del capitalismo liberale dell’epoca di Marx. Non che le leggi economiche del modo di produzione capitalistico siano cambiate, no, sono esattamente le stesse. La fase suprema del capitalismo, l’imperialismo, cioè l’era dei monopoli, come la chiamava Lenin, non è altro che una sovrastruttura. Ma che gli permette di superare i limiti imposti dalla proprietà privata utilizzando una piccola parte dei mezzi offerti dalla socializzazione delle forze produttive.
È così che le banche centrali del sistema‑euro, di Inghilterra, Stati Uniti, Giappone e Cina, con i loro interventi convenzionali e non convenzionali, impediscono il collasso dell’intero sistema mantenendo la circolazione dei capitali, del credito e riacquistando a loro volta i buoni del tesoro e le obbligazioni societarie, e abbassando i tassi di interesse che altrimenti sarebbero insostenibili per molti Stati e imprese.
Durante la crisi dalla fine del 2008 al 2009, a seguito del crollo di Lehman Brothers e AIG, la FED ha inondato il settore finanziario con 1.100 miliardi di dollari e ha prestato 600 miliardi di dollari alle banche centrali di altri Paesi che ne avevano bisogno. Poi è arrivato il “quantitative easing 1”, che ha riacquistato 600 miliardi di dollari in obbligazioni del Tesoro e ipotecarie. Poiché questo non bastava, un “quantitative easing 2” ha ripetuto l’operazione, questa volta con 1.100 miliardi, poi ne è stato lanciato un terzo, preceduto dalla “operazione twist”, che consisteva nello scambio di titoli a breve e molto solvibili con titoli a lunga scadenza, più difficili da incassare. Di conseguenza, il bilancio della FED è passato da 929 miliardi di dollari alla fine del 2007 a 4.500 miliardi a fine esercizio 2014.
A titolo di confronto dal 1945 al 1985 il bilancio della FED in dollari costanti 2011 ha oscillato intorno a poco più di 400 miliardi. Dal 1985 al 2007 è raddoppiato fino a raggiungere gli 800 miliardi nel 2007, prima della crisi. E da allora è esploso.
Interessante è il meccanismo di questi acquisti che mostra come il capitalismo monopolistico riesca, in una certa misura, a superare i limiti della proprietà privata. Una banca convenzionale per prestare denaro apre un conto in cui registra un debito, che le frutta interessi, e, a fronte, un credito per la somma prestata. Per prestare questo denaro usa la leva finanziaria: la banca ha un capitale proprio assai piccolo, di solito il 4‑5% dei suoi attivi più i depositi dei clienti e i prestiti da altre banche. Il fido che mette a disposizione dei clienti è un semplice gioco di scritture, in altre parole si tratta di denaro puramente virtuale che la banca ha appena creato. Finché il flusso di denaro in uscita non supera l’afflusso, tutto va bene. Le banche che hanno bisogno di denaro in prestito attingono sul mercato interbancario da quelle che ne hanno troppo. Si dice che i depositi fanno i crediti e i crediti fanno i depositi. È così che le banche creano il denaro. Ecco come si crea uno “schema Ponzi”. Tutto va bene, purché gli interessi siano pagati regolarmente. Ma tutto questo rovina all’avvento della crisi e dell’aumento delle insolvenze!
Le banche centrali operano allo stesso modo, con in più il diritto di coniare denaro per conto proprio. Oltre al proprio capitale, che è costituito da valuta e oro, ma che rimane limitato, hanno i depositi dei loro clienti, cioè i depositi di tutte le altre banche. Per la BCE si tratta dei depositi delle banche centrali dell’area dell’euro, che insieme costituiscono l’Eurosistema. Ma naturalmente, come per una banca convenzionale, questi depositi sono molto inferiori del totale dei prestiti. In Francia, a esempio, i depositi totali nelle banche nel 2020 ammontano a 2.487 miliardi di euro, mentre le attività delle sole sei banche principali raggiungono 8.684 miliardi, ovvero 3,5 volte i depositi. E più grande è il bilancio della banca, maggiore è la leva finanziaria: l’effetto leva può essere fino a 30 volte, come nel caso di Lehman Brothers prima del fallimento. A partire dagli accordi di Basilea II e III si è cercato di attenuare questi effetti di leva finanziaria, in particolare imponendo un requisito di copertura patrimoniale del 7% del bilancio. Ma l’accordo non tiene conto delle voci fuori bilancio!
Quando le banche centrali mettono in circolazione il denaro, sia prestando direttamente alle banche sia riacquistando sui mercati finanziari titoli di Stato e obbligazioni societarie, guadagnano interessi. Nel caso della FED, gli interessi che riceve dall’acquisto di buoni del tesoro e obbligazioni vanno direttamente al Tesoro. In altre parole, nel caso degli Stati Uniti, il governo americano presta denaro a sé stesso. Questo non è possibile per tutti gli Stati. La Banca del Giappone fa la stessa cosa, a suo modo. In Europa le banche centrali dell’Eurosistema non possono pagare gli interessi al proprio Stato, né possono acquistare i buoni del tesoro direttamente dagli Stati, devono riacquistarli “sul mercato secondario”, da banche e istituzioni finanziarie. Questo è uno dei limiti imposti dal Consiglio europeo alla Zona Euro, che molti sovranisti trovano angosciante, ma che è il risultato di un compromesso fra borghesie.
Tornando alla FED, questo meccanismo significa che, insieme ai Fondi di investimento americani, essa è il primo detentore di titoli del Tesoro, 4.445 miliardi di dollari nel maggio 2020, il 63% del suo colossale bilancio, che oggi supera i 7.000 miliardi di dollari. L’importo detenuto dai Fondi di investimento americani, in particolare dai Fondi pensione, è dello stesso ordine di grandezza. Molto indietro la Cina con 1.185 miliardi, poi il Giappone con 1.061 miliardi, e molto più indietro la Russia con 102 miliardi, meno di un terzo di quello che detiene lo stato irlandese. Gli importi detenuti da Cina e Giappone sono molto stabili nel tempo.
Per quanto colossale il bilancio della FED possa essere, in rapporto al PIL degli Stati Uniti rimane uno dei minori rispetto a quello della BCE e soprattutto del Giappone. Il bilancio del BoJ alla fine del 2018 ha superato il 100% del PIL e oggi il 116%.
La Banca Centrale Svizzera è una delle poche banche centrali che può permettersi quel tale privilegio. La piccola-grande Svizzera non solo gode di un comodo surplus commerciale, ma anche, e soprattutto, di un surplus dei flussi finanziari (delle “partite correnti”) molto elevato. Questo è ben lungi dall’essere il caso, per esempio, della Francia, che assomiglia in questo alla Grecia!
Alcune correnti “sovraniste”, soprattutto in Italia, sognano un ritorno a una, cosiddetta, sovranità nazionale, dove la Banca Centrale potrebbe concedere prestiti allo Stato e alle imprese nazionali a tassi molto bassi. Dimenticano un punto importante, ovvero che la Banca Centrale Italiana non ha le dimensioni e il peso dell’Eurosistema. In caso di uscita dall’euro e ritorno alla divisa nazionale i fondi speculativi, come gli “hedge fund”, attirati dall’odore del denaro a basso prezzo, attaccherebbero la lira speculando sulla sua svalutazione. E con mezzi ben superiori a quelli di cui dispone la BCI. Dopo un’emorragia di divise estere, la BCI sarebbe messa al tappeto.
Questo è quello che stava per accadere alla Banca di Francia nel 1992. I vari Stati europei, tra cui il Regno Unito, avevano appena raggiunto un accordo per mantenere le loro valute in un rapporto di parità fisso con una piccola banda di fluttuazione; questo era lo SME (Sistema Monetario Europeo), il preludio alla moneta unica. Ma poi l’Europa entrò di nuovo in recessione e la Germania, per attirare capitali, alzò i tassi di interesse. Immediatamente, gli “hedge fund” si sono precipitati nella breccia gettando marchi contro altre valute. Sono partiti dall’anello più debole, la lira, che ha dovuto presto cedere. Poi sono passati alla sterlina: l’attacco è stato così violento che in una mattina la Banca d’Inghilterra è stata messa in ginocchio e la sterlina dovette uscire dallo SME. Si volsero quindi verso il franco. Dopo difficili trattative con i dirigenti della BuBa, la banca centrale tedesca, i funzionari del governo francese riuscirono a far abbassare i tassi d’interesse alla Germania mentre la Francia alzava i propri. Questo tagliò fuori gli speculatori rovinandoli. Alla fine l’attacco finì, ma la Banca di Francia fu costretta a un enorme esborso delle sue riserve. Era sul punto di cedere: a parere del suo governatore all’epoca, se gli speculatori avessero continuato ancora per un’ora o due si sarebbe trovata senza divise e avrebbe dovuto abbandonare la lotta. E forse non ci sarebbe più stata la moneta unica.
Mentre i sovranisti di tutti i tipi continuano a sognare, nel frattempo la borghesia italiana, pragmatica e abituata a vendersi al miglior offerente, ha aperto i porti di Trieste e Genova all’imperialismo cinese e non passerà molto tempo prima che uno di questi due porti cada interamente nelle mani di Pechino.
Ancora sulle Banche Centrali. La BCE, di fronte alla mancata ripresa economica, dopo due massicci prestiti alle banche europee, ha intrapreso a sua volta una campagna di “quantitative easing”. In quattro anni, da marzo 2015 a dicembre 2018, ha acquistato titoli di Stato per un valore di 2.550 miliardi di euro e alcuni titoli di imprese. L’obiettivo dell’operazione era duplice: abbassare i tassi di interesse e costringere le banche e le istituzioni finanziarie a concedere prestiti alle imprese e alle famiglie. Il risultato è stato un calo spettacolare dei tassi d’interesse, anche per gli Stati fortemente indebitati. In questo periodo ha riacquistato circa 3/4 delle emissioni governative. Di conseguenza, al termine del suo alleggerimento quantitativo, deteneva circa il 21% del debito pubblico europeo. Dopo il Covid‑19, dovrebbe essere superiore al 30%.
a parte sua la BoJ sta facendo la stessa cosa, ma su scala ancora più ampia, cosicché oggi i tassi di interesse sono molto bassi, anche negativi. Oggi nel mondo circa 10.000 miliardi di obbligazioni sono a tassi negativi, cioè gli investitori pagano per prestare, per loro è più economico che pagare le commissioni di gestione. Di questi finanziamenti a tasso negativo beneficiano principalmente i governi giapponese, tedesco e francese.
Quindi il capitalismo nell’era dei monopoli funziona meglio? Sì, in un certo senso, riesce a spingere un po’ indietro i limiti imposti dalla proprietà privata, mantenendo i tassi di interesse a livelli molto bassi o addirittura negativi, mantenendo in vita gli Stati e le imprese finanziarie, commerciali e industriali, che altrimenti sarebbero costrette a dichiarare fallimento. Ma, come diceva Lenin, nell’era dei monopoli il capitalismo sta marcendo in piedi! E questo è ciò a cui assistiamo oggi in modo spettacolare. Perché questo mantenimento artificiale in uno stato di sopravvivenza è al prezzo di un debito che sta diventando sempre più colossale, di una crescita immane del bilancio delle banche, che prima o poi può solo crollare.
Riportiamo qui il bilancio delle banche centrali:
E tutto questo con quale risultato? Perché il capitalismo non ce l’ha fatta a uscire dalla crisi iniziata alla fine del 2007? Perché invece di una crisi acuta, come nel 1929, c’è una lunga agonia?
Perché non basta abbassare i tassi per far ripartire l’accumulazione di capitale. Gli imprenditori non investono secondo il tasso d’interesse, ma secondo il portafoglio ordini. E in tempi di sovrapproduzione gli ordini languono.
Le banche centrali possono inondare il mercato finanziario e le banche di dollari o di euro, ma questo non cambia il problema fondamentale, ovvero che questo modo di produzione non ha più senso storico, ma viene mantenuto artificialmente in uno stato di sopravvivenza. È solo nell’interesse della grande borghesia, che trae immensi privilegi dallo sfruttamento del proletariato, cioè dei lavoratori dipendenti.
Che ne è di questa montagna di soldi, che non viene investita nella produzione? In paesi come la Turchia o l’Argentina, l’eccesso di liquidità si traduce in iperinflazione. In Argentina, ad esempio, la base monetaria è passata da 200 miliardi di pesos nel 2012 a 1.250 nel 2019, e il tasso di cambio nello stesso periodo da 5 pesos per dollaro a 58: un tasso di inflazione dell’1.160%.
Nei paesi imperialisti non c’è inflazione per due motivi: in primo luogo la sovrapproduzione, e la conseguente guerra commerciale stanno esercitando una forte pressione deflazionistica, che viene contrastata, per il momento, da vagonate di liquidità che mantengono artificialmente il valore dei titoli e dei prezzi. In secondo luogo, gran parte di questo denaro viene sterilizzato dalla borghesia, che investe in cosiddetti titoli sicuri, come immobili, oro, titoli indicizzati in oro, ecc. Così dal 2012 al 2019 il prezzo degli immobili residenziali è aumentato del 33% nei Paesi OCSE e del 44% per gli immobili commerciali (uffici, negozi). E questa è solo una media, ma i prezzi delle case in città come Parigi, Londra, New York, Berlino, ecc. sono alle stelle.
La situazione attuale ricorda la fine dell’Impero Romano, una agonia durata secoli. Fortunatamente nell’era del capitalismo tutto va molto più veloce. La crisi in corso dura già da mezzo secolo, a partire dalla prima grande crisi internazionale, quella del 1975.
Ci volle la violenza rivoluzionaria dei barbari tedeschi per liberare l’Europa dal marciume che lo Stato romano e la società degli schiavi erano diventati, e permettere così il passaggio al modo di produzione feudale, che, a suo tempo, aprirà un nuovo sviluppo alle forze produttive.
La forza rivoluzionaria oggi è quella del proletariato, il cui ruolo è rovesciare la borghesia, abolire i rapporti capitalistici di produzione e permettere la nascita della società comunista. Abbiamo i primi accenni di un futuro rinnovarsi della lotta di classe con le esplosioni sociali in tutto il mondo, ma siamo ancora lontani da una vera ripresa e con un’avanguardia del proletariato che tende ad aderire al partito.
Quanto può durare uno stato del genere? Finché la situazione non diventa incontrollabile e insopportabile.
Con il drammatico peggioramento della crisi dobbiamo aspettarci entro la fine dell’anno un’esplosione di precarietà e di fallimenti aziendali. Lo vediamo attualmente con l’aumento della disoccupazione e di chi è costretto a ricorrere alle mense per i poveri. E ai fallimenti aziendali e all’aumento della disoccupazione si accompagnerà un’esplosione di debiti non pagati.
Nel 2016 i crediti in sofferenza delle banche della Zona Euro ammontavano a 1.180 miliardi di euro. Quelli delle banche italiane erano 360; si sono ridotti nel 2019 a 680 miliardi. Le banche italiane li rivendevano mescolati a titoli di migliore qualità e facendoli passare per buoni investimenti. Un’altra parte, sotto la pressione della BCE, è stata venduta agli “hedge fund”, che li riacquistano a prezzi molto bassi e pensano loro a tirarci fuori il possibile.
La conseguenza sarà il crollo di molte istituzioni finanziarie e grandi banche, come la Deutsche Bank, che da anni si trova in pessime condizioni. Senza dimenticare i giganti bancari cinesi, crivellati da questi crediti in sofferenza. E che dire della “finanza ombra”, che è fuori controllo e ha assunto proporzioni gigantesche?
Per mostrare la fragilità del sistema ricordiamo qui un episodio significativo del settembre 2019. Le quotazioni nei mercati azionari mondiali erano in calo dalla fine di settembre 2018, a seguito del rallentamento, poi della recessione economica, dell’aumento dei tassi di interesse e della riduzione del bilancio della Fed, che aveva reso il denaro più costoso. Un’altra conseguenza era che il bilancio in contrazione della Fed significava che il denaro stava diventando meno abbondante. Nel 2014, al termine dell’alleggerimento quantitativo, le banche statunitensi disponevano di 3.000 miliardi di dollari in contanti in deposito presso la Fed, importo che è stato successivamente ridotto alla fine del 2019, a seguito, tra l’altro, del ritiro della Fed e della riduzione del suo bilancio a 1.300 miliardi di dollari.
In questo contesto si è verificato un incidente che ha costretto la Fed ad intervenire. Gli istituti finanziari e in particolare le banche si rifinanziano quotidianamente, come già detto, sul mercato interbancario in funzione del loro fabbisogno di liquidità. Nel 2008 questo mercato si bloccò a seguito della recessione e del crollo della banca Lehman Brothers, costringendo la Fed a intervenire per ripristinare la circolazione interbancaria e il credito.
A fine di settembre 2018 lo stesso incidente si è ripetuto, riportando ricordi spiacevoli per i dirigenti della Fed. A seguito di una maggiore richiesta di liquidità rispetto al solito, i tassi di interesse hanno iniziato a salire al 6% e poi al 10%, paralizzando il mercato di giorno in giorno. Per ripristinare il flusso di denaro tra le istituzioni finanziarie, la Fed è stata costretta a intervenire per quattro giorni consecutivi, iniettando denaro per un totale di 278 miliardi di dollari.
Questo “incidente” dimostra la debolezza del sistema bancario e la mancanza di fiducia reciproca tra le banche. Tutti sanno che poche di loro potrebbero affrontare una grave recessione, data l’esiguità del capitale proprio. Ciò è vero per gli Stati Uniti e forse ancora di più per l’Europa, il Giappone e la Cina. In Europa le banche del Nord preferiscono pagare commissioni elevate depositando il loro surplus presso la BCE piuttosto che prestarlo a banche italiane, spagnole e portoghesi. Negli ultimi anni, le banche francesi e tedesche hanno pagato 7 miliardi di euro di commissioni alla BCE per i loro depositi. E che dire dei finanzieri italiani, spagnoli e portoghesi che preferiscono depositare i loro soldi presso le banche tedesche e lussemburghesi piuttosto che in un conto bancario nel proprio paese?
Tutto ciò dimostra ancora una volta che questo sistema viene mantenuto in vita artificialmente. Senza l’intervento delle banche centrali tutto crollerebbe!
Quindi, se la nostra instancabile vecchia talpa fa bene il suo lavoro, possiamo aspettarci, con l’aggravarsi della crisi, il crollo delle grandi istituzioni finanziarie, come nel 2007 con AIG e Lehman Brothers. Il crollo della Deutsche Bank sarà un duro colpo anche per lo Stato tedesco. Se due o tre grandi istituzioni crollano tutte le dighe cederanno.
Sarà allora la classica grande crisi, con deflazione, cui seguirà la ripresa della lotta di classe. Solo quando si muoverà il proletariato un’aura di vita tornerà a soffiare su questa putrida società.
PAGINA 6
Riunione generale del partito
in video-conferenza
29‑31 gennaio
[RG. 139]
SEDUTA DEL VENERDÌ 29 | ||
Organizzazione e preparazione della riunione | ||
SEDUTA DEL SABATO 30 | ||
Introduzione del Centro | Introduction of the centre | |
Storia della Internazionale Sindacale Rossa | ||
Aspetti militari della rivoluzione tedesca | ||
Su concetto e pratica di Dittatura: Lenin | The concept of dictatorship: in Soviet Russia | |
Resoconto dal Venezuela | ||
Questione Militare: la guerra civile nella rivoluzione russa |
The Military Question: The October Revolution | |
L’attività sindacale del partito | The Party’s Trade Union Work | |
La rivoluzione ungherese del 1919 | The Hungarian revolution of 1919 | |
SEDUTA DELLA DOMENICA 31 | ||
Corso della crisi economica mondiale | ||
Origini del Partito Comunista di Cina | Origins of the Communist Party of China | |
Disamina delle lotte di classe in Turchia | ||
Storia dello schiavismo negli USA | The Black Question in the United States | |
Sintesi, accordi organizzativi, conclusioni |
Il marxismo è la presentazione di una teoria della storia che, dalla descrizione di come è nata ed evolve la società del capitale, col suo materiale approssimarsi al comunismo, e con le sue crisi sempre più vaste e profonde, arriva a ipotizzare ineluttabile la rivoluzione politica di una classe operaia, numericamente crescente, che in tutti i paesi venga ad abbattere il potere dei detentori dei mezzi di produzione.
Questa nostra rimarrà solo una ipotesi, fintanto non venga empiricamente confermata dalla storia. Anche i borghesi ormai ammettono che la loro società è in dissesto, se non in rovina, che non ha futuro né riesce ad immaginarsene se non di catastrofici. Negano però che il movimento stesso della storia porti al comunismo.
I comunisti, al contrario, lavorano su questa ipotesi. Lo fanno su basi scientifiche fin dal Manifesto del 1848, e anche da prima, sulle generose intuizioni degli utopisti.
Ma il partito comunista non può dare a nessuno, né ai suoi militanti né alla classe, la garanzia del comunismo entro una data scadenza.
Dà però la certezza e la dimostrazione provata che per il comunismo si può lottare. Dà ai suoi militanti questo privilegio, la grande soddisfazione e gioia di potersi per esso battere. Il che ci trasporta già nella dimensione del comunismo, certi che a quel fine ci si può aggregare in una compagine militante che sa quel che vuole e qual’è la via per ottenerlo, il programma ormai secolare del marxismo rivoluzionario.
Stretto come a un monolite al blocco unico di una dottrina sociale definitiva in ogni sua parte, che è il marxismo, il piccolo partito di oggi ambisce a iscriversi fedelmente nel flusso incandescente della serie dei partiti formali della classe operaia, successivamente emersi dal sottosuolo sociale, anche se talvolta per breve tempo: dalla Lega dei Comunisti di Marx fino alla Terza Internazionale. Oggi noi rivendichiamo e ci impegniamo a difendere tutta la tradizione storica del nostro partito.
Quella tradizione si erge davanti a noi con l’imponenza di una catena di montagne, e potrebbe intimorire le nostre poche forze, a fronte specialmente di quelle dei nostri grandi maestri, quelle di un Marx, di un Engels, di un Lenin.
Ma sappiamo che quelle vette di scienza, di conoscenza, di esperienza non sono per il partito inviolabili: nel sano ambiente del partito, qualunque cordata di compagni di normali capacità, con passione, tempo e diligenza, può arrivarci in cima. Certo per quello che Marx poteva scrivere in una notte o Lenin in un pomeriggio a noi ci vogliono tre compagni e tre anni di lavoro, ma alla fine il partito, fatto questo paziente viaggio all’indietro nella storia, ne può sapere quanto Marx e quanto Lenin. E forse, in qualche dettaglio, più di Marx e più di Lenin. Ovviamente mai contro Marx o contro Lenin.
Perché di tutta questa scienza rivoluzionaria avrà bisogno la classe operaia per abbattere il morente, ma scaltro, perfido e velenoso potere borghese, come accadde nell’Ottobre di Russia, dove gli insorti proletari, contro un molteplice fronte di reazionari, trovarono pronte nel partito comunista tutte le risposte, le giuste risposte, tutti gli insegnamenti circa i loro nemici e su come sopraffarli per liberare la strada al comunismo.
Questo il senso del lavoro comunista che continuamente tutti noi assieme apprendiamo sempre meglio a svolgere e che in queste nostre riunioni generali trova un punto di collegamento. Del resto i comunisti, rappresentanti della classe dei lavoratori, si caratterizzano anche perché sanno lavorare più e meglio di tutti gli altri.
* * *
Anche questa riunione generale si è tenuta tramite collegamento video, sia per le precauzioni contro la diffusione dell’epidemia sia per la maggiore estensione geografica del partito. Questo è uno strumento che si dimostra utile a conoscerci e a lavorare assieme a gruppi e singoli lontani.
Alcuni compagni si sono dedicati nelle settimane e nei giorni precedenti all’approntamento delle traduzioni delle relazioni in italiano, inglese e spagnolo, lette poi in contemporanea, e ad anticipare a tutti le istruzioni dettagliate per il funzionamento tecnico della riunione.
Ma è la comunanza dei fini e la identità di principi e di programma che ci rende facile superare le barriere di lingua e di esperienze che spontaneamente vengono a fondersi in questi nostri incontri.
Abbiamo tenuto tre sedute. Quella del venerdì, dalle ore 17 alle 23 ora di Roma,
dedicata alla preparazione della riunione e alle relazioni dei compagni impegnati nelle diverse attività del partito. Quelle del sabato e della domenica per l’esposizione dei rapporti, ai quali abbiamo dato una durata approssimativa di 30 minuti ciascuno. A chiusura di riunione siamo tornati a una ricapitolazione generale dei nostri impegni di ricerca, di propaganda e di intervento esterno e nel movimento sindacale.
La Internazionale Sindacale Rossa (1)
Una fra le più importanti questioni che agitarono il Congresso di fondazione del Profintern fu quella delle relazioni con il movimento sindacale italiano.
Nel giugno 1920 a Mosca si ebbero le prime riunioni sindacali internazionali allo scopo di fondare una Internazionale Sindacale rivoluzionaria, da contrapporre a quella collaborazionista di Amsterdam. Come primo passo per la costituzione della futura organizzazione venne costituito il “Soviet Internazionale provvisorio dei Sindacati Operai”.
Trovandosi a Mosca, i dirigenti italiani della CGL firmarono tutti quanti i deliberati, sicuri che, tornati in Italia, li avrebbero disattesi.
Il primo passo per svincolarsi dagli impegni presi da parte dei bonzi della CGL fu quello di affermare che l’aver sottoscritto l’impegno di uscire da Amsterdam non significava che il distacco dovesse essere immediato, e quindi avrebbero deciso loro il momento.
Fecero poi intendere a Mosca che la CGL fosse già uscita da Amsterdam per il fatto stesso di essere legata, con un patto di azione, al PSI, allora aderente al Komintern. All’epoca la Direzione massimalista del PSI dichiarava che il boicottaggio dell’Internazionale gialla fosse cosa “scontata” sia per il Partito sia per la Confederazione sindacale.
Alle sollecitazioni di Mosca di rompere con Amsterdam e di porre fine alla loro tattica ambigua, i caporioni della CGL rispondevano che i compagni russi non erano informati della realtà italiana, e che loro si erano sempre opposti all’Internazionale gialla, ma che non sarebbero usciti da un organismo di tale importanza, senza tentare di formare nel suo seno una minoranza combattiva che propugnasse il metodo della lotta di classe e l’instaurazione del socialismo. Arrivavano ad affermare che stavano proprio mettendo in pratica le direttive di Mosca che stabilivano il criterio secondo cui le minoranze combattive devono cercare di penetrare negli organismi più restii ad accettare i principi e i metodi rivoluzionari.
Naturalmente la cosa non stava in questi termini: una cosa era la tattica di lavorare e penetrare in tutti i sindacati, anche in quelli diretti dai peggiori riformisti, organizzandovi gruppi comunisti per guadagnarne la direzione. La cosa cambiava quando si trattava di una Internazionale Sindacale, legata a doppio filo alla imperialista Società delle Nazioni e quindi non conquistabile.
A novembre la CGL partecipò al congresso di Londra dell’Internazionale gialla, dove presentò un documento dal quale risultava evidente che essa riconosceva Amsterdam come la legittima unione sindacale mondiale. Naturalmente a Londra gli italiani si atteggiarono a “sinistri”, fecero “opposizione” contro lo spirito sciovinista che regnava nel congresso e si astennero dal votare una risoluzione contro l’Internazionale Sindacale rossa.
A febbraio 1921 la CGL tenne il suo Congresso Nazionale. I dirigenti sindacali tentarono di presentarsi al proletariato italiano come dei veri rivoluzionari proclamando la loro adesione a Mosca, ma a certe condizioni. Se nessun rappresentante del Soviet dei Sindacati rossi era presente al congresso, il delegato dell’Internazionale di Amsterdam, prendeva posto alla presidenza. Questi, da consumato opportunista, si presentò come portavoce dei milioni di lavoratori di tutti i paesi molti dei quali rivoluzionari, organizzati nella Internazionale di Amsterdam e concluse l’intervento dicendo: «e voi e noi marceremo insieme verso il fine comune per il bene del proletariato».
La mozione presentata dai comunisti a quel Congresso Nazionale ribadiva
l’importanza dei sindacati nell’azione rivoluzionaria e il compito delle
minoranze comuniste di lavorare e lottare al loro interno, allo scopo di
conquistarne la direzione. Riconosceva indispensabile la creazione di una
Internazionale di sindacati rivoluzionari; e chiedeva:
a) il distacco immediato dall’Internazionale Sindacale di Amsterdam;
b) la rottura del patto d’alleanza col Partito Socialista Italiano;
c) la adesione incondizionata all’Internazionale Sindacale di Mosca;
d) ispirare a queste direttive i suoi rapporti col Partito Comunista d’Italia,
unica sezione italiana della Terza Internazionale.
Dato il modo truffaldino dell’attribuzione dei voti, il Congresso della
Confederazione deliberò a larga maggioranza:
«1. L’adesione incondizionata alla iniziativa per la creazione
dell’Internazionale dei Sindacati rossi, con l’impegno comunque di conservare i
rapporti della Confederazione col Partito socialista e purché venga riconosciuto
per l’Italia il principio dell’unità sindacale confederale.
«2. Il distacco dall’Internazionale dei Sindacati di Amsterdam, in seguito ai
deliberati che saranno presi al Congresso sindacale di Mosca».
Si tratta solo di due brevi frasi nelle quali però è condensata tutta la malizia dell’opportunismo per ingannare il proletariato.
La mozione non parlava di adesione alla Internazionale sindacale rossa, ma solo alla iniziativa per la sua creazione, e, comunque conservando i legami con il PSI, ossia: o tutti e due a Mosca, oppure nessuno. Inoltre, nel caso, rivendicava il principio dell’unità sindacale, di modo che Mosca avrebbe dovuto sconfessare l’USI.
Inoltre il distacco dalla Internazionale di Amsterdam veniva rinviato a dopo il congresso di Mosca, e solo se avesse accettato le condizioni dettate dai bonzi italiani.
Non solo, da parte dei capi confederali non c’era alcuna intenzione di abbandonare l’Internazionale gialla, del Comitato direttivo della quale l’italiano Baldesi faceva parte. Comitato direttivo che, riunitosi a maggio, dopo avere accusato la III Internazionale di rappresentare il pericolo reazionario e scissionista del proletariato internazionale, deliberava l’espulsione dalla loro Internazionale di ogni sindacato che avesse aderito alla Internazionale rossa. Dichiarando incompatibile la presenza comunista nelle loro file di fatto smascheravano l’ipocrisia dei capi della CGL che fingevano di voler organizzare nel seno della Internazionale di Amsterdam una frazione di sinistra facente capo a Mosca.
In Italia questa opera di epurazione era già iniziata, e un ordine del giorno del Comitato Direttivo della CGL, approvato all’unanimità, dichiarava di voler mettere fuori dei quadri quelle organizzazioni e quei gruppi che avessero agito in contrasto alle direttive sindacali; ossia liberare i sindacati dai comunisti.
Ma veniamo ora al congresso di fondazione del Profintern.
A luglio 1921, contemporaneamente allo svolgimento del III Congresso dell’I.C., si tenne a Mosca quello di fondazione dell’Internazionale sindacale rossa. Ma la CGL già ai primi di giugno aveva richiesto che la sua data fosse rinviata e che il congresso si tenesse non a Mosca, ma in Estonia o in Svezia. Questo quando i tre quarti dei delegati sindacali erano già arrivati a Mosca.
Naturalmente a questa domanda provocatoria, palese tentativo di sabotaggio, venne risposto in modo negativo.
Non possiamo qui raccontare le menzognere giustificazioni date dai dirigenti sindacali a sostegno delle loro richieste. Ci basti dire che Baldesi ammetteva che la CGL non aveva nessuna intenzione di uscire dall’internazionale gialla: «I nostri rappresentanti sono andati in Russia col preciso mandato d’invitare tutte le organizzazioni rappresentate ad entrare nella internazionale di Amsterdam, per combattervi lì la battaglia socialista». Dunque la CGL andava a Mosca con il preciso intento di sabotare la nascita dell’Internazionale sindacale rossa.
Ai bonzi italiani Bianchi ed Azimonti, arrivati a congresso iniziato, venne contestato il comportamento tenuto dalla CGL: l’anno precedente avevano firmato un accordo per l’organizzazione dell’Internazionale rossa dei sindacati, ma poi non avevano preso parte ai lavori del “Soviet internazionale provvisorio” mentre avevano partecipato a tutti i lavori dell’Internazionale di Amsterdam.
I bonzi italiani vollero subito chiarire che loro erano lì esclusivamente a livello “informativo”, semplici spettatori perché non era stato spiegato cosa, al congresso di fondazione, si sarebbe fatto.
«Di che volete informarvi, compagni? – replicò giustamente Lozovski – Volete sapere se siamo per la rivoluzione sociale e per la dittatura proletaria? Credo che ormai lo sappiate. Ma non siete venuti a fare un’inchiesta sulla situazione della Russia, bensì al Congresso costitutivo dell’Internazionale Sindacale Rossa. Quali informazioni volete dunque attingere a questo Congresso?».
Invece il bonzo Azimonti, si permise di dare il suo aut‑aut a Mosca: «Da parte nostra non si può aderire a Mosca finché il Partito Socialista è fuori della III Internazionale. Noi non saremo uniti dal punto di vista internazionale che quando il PSI entrerà nella III Internazionale. E quando ciò sarà fatto, la CGL che dipende dal Partito, entrerà automaticamente nella Internazionale Sindacale Rossa».
Sulla questione italiana molti furono i delegati stranieri che intervennero, tutti quanti censurando il comportamento dei dirigenti della Confederazione italiana che partecipavano come osservatori al congresso di fondazione del Profintern, mentre a pieno titolo partecipavano ai congressi dell’Internazionale gialla.
Il nostro compagno Repossi dichiarò di parlare a nome della minoranza della CGL solo in virtù del metodo truffaldino con il quale era stato votato al congresso, se il voto avesse rispecchiato i veri rapporti delle forze in seno al proletariato d’Italia, di certo avrebbe rappresentato la maggioranza.
Repossi ribadì che il proletariato italiano in ogni conferenza, riunione o congresso si era espresso per l’adesione a Mosca e l’uscita da Amsterdam.
Ricordò inoltre tutto l’impegno e tutti i tentativi dei comunisti per l’unità della classe operaia e non mancò di confutare, una ad una, tutte le affermazioni dei bonzi italiani.
Il primo Congresso del Profintern, nella seduta del 13 luglio 1921, approvava all’unanimità una “Risoluzione sulla questione italiana” in cui si affermava che il proletariato italiano non era responsabile della politica ambigua e controrivoluzionaria dei dirigenti della CGL italiana, che tendevano a isolare il proletariato italiano dai sindacati rivoluzionari di tutti i paesi. Quindi si rivolgeva ai proletari rivoluzionari d’Italia, a tutti i sindacati locali, a tutte le Camere del Lavoro e alle Federazioni nazionali, chiedendo di pronunciarsi se aderire alla Internazionale della lotta rivoluzionaria, oppure all’Internazionale della collaborazione di classe. E concludeva auspicando che al prossimo Congresso Internazionale, la CGL italiana avrebbe occupato il posto che il proletariato rivoluzionario d’Italia si meritava: assieme ai sindacati rivoluzionari.
La rivoluzione in Germania
L”Armata Rossa della Ruhr
Questo rapporto iniziale descrive le prime due fasi dell’insurrezione operaia nel distretto tedesco della Ruhr, in risposta al colpo di Stato di Kapp‑Lüttwitz, tentato il 13 marzo 1920.
La presenza comunista nella Ruhr era debole e con poco seguito. Un mese prima del golpe Heinrich Brandler aveva scritto: «In generale non abbiamo ancora un partito, lo dico dopo aver visitato la Ruhr, dove non c’è movimento comunista».
Il Centro del KPD di Berlino commise un errore disastroso, rilasciando una dichiarazione contraria allo sciopero generale scoppiato in tutta la Germania, per ribaltare questa posizione solo due giorni dopo. Ma a quel punto i lavoratori scesi in campo si stavano già armando.
Prima fase, 13‑17 marzo 1920
La Reichswehr era stata estromessa dalla Ruhr occidentale in forza del Trattato di Versailles: il comando più vicino aveva base a Münster. Lo comandava il generale Watter, favorevole al colpo di Stato ma che aspettava di vedere come sarebbe andata prima di appoggiare la repubblica o i golpisti, a seconda di quale dei due avesse dimostrato le migliori possibilità di ripristinare l’ordine borghese. Nominalmente sotto Watter c’erano tre divisioni di Freikorps, comandate dal generale Lichtschlag.
Il 14 marzo, il trasferimento della prima divisione del Freikorps Lichtschlag, comandata dal capitano Hasenclever, fu ostacolato dai ferrovieri. Hasenclever riuscì a raggiungere Watter solo la mattina successiva.
Nelle trattative con i politici locali, si lasciò sfuggire di sostenere il golpe, affermando che «stava con Watter e Watter con Lüttwitz». Queste parole, secondo Adolf Meinberg (KPD), provocarono «tutto il montare dell’azione armata». Più di 1.500 operai presero d’assalto la stazione ferroviaria e uccisero Hasenclever in un combattimento corpo a corpo. Questa piccola schermaglia fu la prima vittoria militare della classe operaia dopo tutte le sconfitte del 1919 ed ebbe un effetto dirompente. Le armi pesanti caddero nelle mani degli operai che fecero anche molti prigionieri.
Il ministro degli Interni, il socialdemocratico Severing allora ordinò che le autorità cittadine «non dovessero in nessun caso negoziare con i consigli dei lavoratori». Ai tribunali militari fu dato il potere di processare i soldati operai e di farli fucilare.
Una seconda divisione, sotto il capitano Lange, fu fermata a Herdecke vicino a Dortmund ove ben presto emersero dei rappresentanti degli operai.
Lange nascose il suo sostegno al golpe. Fu dichiarata una tregua iniziale e i politici locali cercarono di persuadere i lavoratori a disarmarsi, ma altri arrivarono in appoggio dalle città circostanti e quando Lichtschlag minacciò di unirsi alle truppe a Herdecke, circa 6.500 operai circondarono i 350 Freikorps e Lange fu costretto ad arrendersi. Un’altra vittoria.
Nel frattempo gli Ussari di Paderborn comandati da Erich von Manstein avevano subito una sconfitta a Unna, a nord di Dortmund. Watter inviò un distaccamento perché lì era stato formato un Consiglio dei lavoratori. Quando Manstein prese alcuni ostaggi gli operai del distretto circondarono gli Ussari con 2.000 uomini e alla fine Manstein fu costretto a rilasciare gli ostaggi. Il capo della Guardia Cittadina promise a Manstein libero passaggio, ma non aveva più alcuna autorità sugli operai, che il giorno successivo attaccarono. Gli Ussari non ebbero possibilità di vittoria. Il terzo distaccamento di Freikorps Lichtschlag fu sbaragliato da 10.000-12.000 operai.
Intanto era iniziato lo sciopero generale. Masse di scioperanti scesero in piazza. Adolf Meinberg, recentemente uscito di prigione, tenne un ardente discorso. I manifestanti continuarono a riversarsi nella piazza scontrandosi con la polizia e la locale Sicherheitswehr. Sei operai furono uccisi e 30 gravemente feriti. I lavoratori presero allora d’assalto il quartier generale della polizia.
I partiti di governo a questo punto lanciarono un appello congiunto con USPD e KPD che si appellava ai “diritti delle persone” e alla “democrazia”, aggiungendo confusione tra le file dei lavoratori.
Lo sciopero fu annullato a Dortmund.
Ma gli operai non si lasciarono ingannare così facilmente. Il 15 marzo una delegazione di ferrovieri annunciò che non si sarebbe prestata a ulteriori trasporti di truppe. Severing, allora dichiarò «il movimento si sta spostando a sinistra: dobbiamo inviare truppe nella regione della Ruhr». I Freikorps intendevano ora attaccare da nord la città di Hagen (a sud di Dortmund); il Freikorps Schulz avrebbe fornito appoggio da sud‑ovest; un consigliere locale dell’SPD si offrì di far da guida alle truppe.
Le illusioni sulla SPD dei suoi iscritti si dissolsero.
Gli operai attaccarono le postazioni dei Freikorps con le mitragliatrici. Lichtschlag occupò il birrificio Kronenburg. Ci furono diversi tentativi di mediare un cessate il fuoco, ma i ferrovieri divelsero i binari lasciando Lichtschlag bloccato a sud della città. Cominciò a formarsi un esercito di 12.000 operai che attaccarono nelle prime ore del mattino disarmando la polizia. Il potere esecutivo fu consegnato al Comitato d’Azione dei lavoratori.
Il 14 marzo il generale von Gillhausen ricevette da Münster l’ordine di schierare la Polizia di Sicurezza (SiPo) e i Freikorps per occupare Elberfeld (ora sobborgo di Wuppertal) nella smilitarizzata Bergisches Land. Ma il quartier generale di Gillhausen fu circondato da una folla decisa. I Freikorps spararono sulla folla e lanciarono bombe sui fuggitivi. Altri operai arrivarono dalla città siderurgica di Solingen, allora sotto l’occupazione britannica. Ad Hahnerbeg si scontrarono con la SiPo, che aprì il fuoco con le mitragliatrici. Morti e feriti giacevano ovunque. Anche gli Arbeiter-Samariter-Bund furono oggetto del fuoco.
Fu imposta la legge marziale, ma ci furono ripetute dimostrazioni e tentativi delle folle di impossessarsi delle armi. A Barmen la polizia aveva arrestato dei lavoratori, ma una folla ostile si riunì fuori lanciando pietre; questa nel ritirarsi sparò uccidendo il figlio di un consigliere dell’USPD.
Gli operai attaccarono con armi pesanti, costringendo Gillhausen a ripiegare. Watter ordinò il ritiro dal Bergisches Land. Nella ritirata abbandonarono molte munizioni e l’artiglieria. Prima della mezzanotte i lavoratori avevano preso il potere a Elberfeld.
Ma la ritirata era solo tattica: Gillhausen cercò la battaglia decisiva a Remscheid e la ottenne. 20.000 operai, coordinati con il Comando di Hagen, attaccarono e 1.000 soldati non ebbero altra scelta che fuggire a Colonia, dove furono internati dagli inglesi. Un’altra vittoria per i lavoratori.
Lo sciopero generale e soprattutto l’armamento degli operai nella regione della Ruhr fu in gran parte spontaneo e senza una chiara guida. I lavoratori presero le armi dalla polizia e dalle guardie cittadine borghesi. Ma il movimento fu localizzato e difensivo. Dove apparivano i Freikorps, la Reichswehr e la SiPo gli operai si riunivano in migliaia pronti a darsi da fare.
La conquista di Dortmund ebbe uno straordinario effetto psicologico. Gli iscritti di base dei socialdemocratici disobbedivano ai loro capi e scoprirono in Severing un nemico di classe. Tuttavia lo stato d’animo prevalente nei bacini carboniferi era solo quello di difendere quanto guadagnato – molto poco – nella rivoluzione del 1918.
Negli scontri per Elberfeld-Barmen ci furono segni più chiari di pianificazione e direzione militare e a Remscheid gli operai riuscirono a circondare in modo ordinato un formidabile nemico.
Le truppe erano spesso divise tra chi sosteneva il putsch e chi la Repubblica, il che inizialmente giocò a vantaggio degli operai. Per ora alla reazione mancava un’ampia base sociale.
Il 17 marzo il golpe fallì del tutto. I quattro principali partiti borghesi, e molti nella direzione dell’SPD, decisero ora che la principale minaccia per la Repubblica di Weimar era il bolscevismo, e si dettero il compito prioritario di “riconquistare” quegli ufficiali che avevano sostenuto il colpo di Stato.
Seconda fase: 17‑23 marzo 1920
Lo sciopero generale non si concluse subito al crollo del putsch. Il 18 marzo i sindacati ne chiesero la continuazione fino a quando le loro richieste non fossero state soddisfatte. I lavoratori della Ruhrgebiet pretendevano garanzie che non ci sarebbero state rappresaglie. Per garantirlo la neonata Armata Rossa della Ruhr si preparò a conquistare l’intera regione. Ad Hagen, una direzione si formò sotto l’USPD e KPD.
L’Armata Rossa era formata da tre unità. Nel sud, nel Bergisches Land, controllava il Remscheid. Nel nord si doveva agire contro Münster, base della Reichswehr. Ma la spinta principale era a ovest.
L’unità a nord arrivò a controllare il fiume Lippe. Ad Hamm la Guardia Civica fu trasformata in Guardia dei Lavoratori. Circa 1.000 operai raggiunsero Recklinghausen, entrarono in città disarmati e formarono un Comitato di Azione locale. Il controllo dei ponti sul Lippe e delle comunicazioni stradali e ferroviarie interruppe completamente i rifornimenti alla roccaforte del Reichswehr a Wesel, mentre riprendeva il traffico ferroviario da Haltern verso la roccaforte dell’Armata Rossa a Herne.
La strada per Münster era ora aperta. Ma le truppe d’assalto dell’Armata Rossa, arrivate a 7 chilometri dalla città, non riuscirono a concentrare le loro forze in questo punto critico. Le forze di Watter, fino a quel momento di non più di 15.000 uomini, furono presto di molto ingrossate con l’arrivo di truppe del Württemberg e della Baviera.
Nel Ruhrgebiet occidentale
Nella regione della Ruhr occidentale, Reichswehr, Freikorps e SiPo avevano stabilito il loro regno del terrore con poca resistenza. Come Watter, il generale Ernst Kabisch, comandante di due reggimenti dell’esercito regolare e del Freikorps Schulz, si dichiarò vagamente a favore del governo repubblicano, per chiedere una sua azione decisiva contro lo sciopero generale. Il 16 marzo il maggiore von Rudorff spostò le truppe nella Heiligenhaus e poi a Velbert, tra Essen e Düsseldorf, dove incontrarono l’opposizione degli operai. Dopo un’ora di schermaglia le truppe furono respinte: loro tre morti, i lavoratori uno. Nel frattempo il Freikorps Schulz terrorizzava Mülheim.
Una compagnia del 62° reggimento Reichswehr attaccò le acciaierie di DuisburgBeeck e gli operai dovettero fuggire di fronte a forze schiaccianti. L’esercito e la SiPo avevano ancora il controllo della regione occidentale della Ruhr. Ma infine arrivò l’Armata Rossa e in pochi giorni conquistò Wattenscheid, Gelsenkirchen ed Essen.
A Gelsenkirchen i lavoratori commisero il grave errore di non appropriarsi immediatamente dell’arsenale all’aeroporto; quando tentarono di farlo, il 18 marzo, incontrarono un camion carico di SiPo che, dopo uno scontro a fuoco, recuperò le armi e fece prigionieri.
Nel frattempo l’Armata Rossa avanzava su Essen da est e inizialmente puntò direttamente a Mülheim per sconfiggere il Freikorps Schulz. Ci furono violenti scontri nei sobborghi e gli operai vinsero dopo 16 ore di battaglia. Dopo un certo numero di schermaglie la SiPo fu costretta a ritirarsi, lasciando la maggior parte delle armi.
Ci furono scontri particolarmente sanguinosi presso l’ufficio postale principale di Essen e la torre dell’acqua prima che i lavoratori prendessero il potere. Un Consiglio dei Lavoratori di 33 membri, compresi sette operai delle acciaierie Krupp, fu eletto dai Consigli Politici di fabbrica e assunse il potere esecutivo della città. Tuttavia promise di mantenere la legge e l’ordine attraverso le autorità esistenti.
Il 61° reggimento e il Freikorps furono attaccati in un’imboscata tra Duisburg e Hamborn. Si ritirarono sotto una pioggia di proiettili. Un soldato riferì alla Düsseldorfer Zeitung che era stato peggio di quanto “persino ufficiali e sottufficiali induriti dalla guerra fossero mai passati”.
Entro il 20 marzo l’intera regione della Ruhr era nelle mani dell’Armata Rossa. Ma essa non assunse il potere politico, né il KPD lo richiese.
Nel frattempo al nemico fu permesso di riorganizzarsi nella cittadella di Wesel, dove Watter preparava la controffensiva.
Un’opportunità per la rivoluzione che abbiamo perduto ma una lezione che abbiamo appreso.
La rivoluzione ungherese
L’esposizione ha descritto le formazioni controrivoluzionarie, che tramavano contro la Repubblica dei Consigli, e gli eserciti dei bianchi. La maggiore era il cosiddetto “Governo di Szeged”, presieduto da Gyula Károlyi, con l’ammiraglio Miklòs Horthy a ministro della difesa e futuro reggente d’Ungheria. Costituito ad Arad, in Romania, era appoggiato dall’esercito meridionale francese che in breve tempo a Szeged e dintorni arrivò a contare 40.000 uomini. Esclusi gli ufficiali era composto da truppe coloniali con reggimenti senegalesi, malgasci, annamiti e spahis, appartenenti alla 76ª divisione coloniale francese. A Vienna altre tre formazioni avevano i quartieri generali.
Una cospirazione a Budapest era diretta dall’ala moderata della borghesia. Leggiamo Kun: «Espressione di queste tendenze fu un progetto “di azione“ del primo distretto di Budapest che mirava ad arrestare i membri del governo dei Consigli per sostituirlo con uno “più radicale“. Questo radicalismo, tra l’altro, avrebbe fatto di Ferenc Harrer, il precedente sindaco di Budapest, dell’ala moderata del partito borghese radicale, una figura centrale del nuovo governo dei Consigli (quelli del primo distretto pensavano di mantenermi al governo). Szamuely si orientò chiaramente contro questi colpi vigliacchi: “non andremo al fronte a combattere il nemico esterno imperialista fintanto che non avremo debellato il nemico interno“. Tibor ed io, sulla base del rapporto d’Ottó Korvin e di Ferenc Janesik, liquidammo personalmente nei locali del parlamento questo tentativo controrivoluzionario organizzato da un gruppo d’avventurieri che intendevano portare a Budapest le truppe dal fronte della Tisza, fondare un nuovo governo e aprire la strada alle truppe rumene col pretesto “di farla finita a Budapest con la borghesia“».
Il maresciallo D’Esperey, comandante generale dell’esercito interventista francese che si trovava ai confini meridionali del l’Ungheria, disponeva di 86.000 uomini delle truppe reali romene, 32.000 della forza serbocroata-slovena, 56.000 dell’esercito francese, per un totale di 174.000 uomini. Assieme all’esercito settentrionale czecho le truppe in campo si portavano a 250.000 effettivi.
Il compagno passava quindi ad illustrare i misfatti della missione militare italica.
Il ten.col. Guido Romanelli a Budapest fu di fatto l’unico rappresentante delle potenze dell’Intesa e solo interlocutore di Béla Kun. Ai primi di maggio del ’19 Romanelli si presentò a Vienna al generale Roberto Segre, capo della Missione Militare italiana, che lo inviò a Budapest con l’incarico di guidarla, da poco rientrata nella capitale ungherese, dopo la rottura delle Potenze dell’Intesa con il Governo dei Soviet. Al momento della proclamazione della Repubblica dei Soviet, tutti i rappresentanti politico-militari dell’Intesa avevano abbandonato Budapest, con l’unica eccezione del tenente inglese Freeman, del tenente americano Causey e della Missione italiana.
Questa rimase nella capitale magiara durante tutto il periodo della Repubblica e Kun e compagni la utilizzavano per comunicare con i predoni dell’Intesa. Era composta, oltre che dal Romanelli, dal ten.col. Munari, dai capitani Accame e Carbone (il quale parlava e scriveva correntemente l’ungherese), di pochi carabinieri, scritturali e corrieri, otto in tutto. Il marchese Arrigo Tacoli, commissario politico della delegazione italiana, un intrallazzatore, risiedeva a Vienna e solo passava a Budapest per un paio di giorni. Anche il principe Livio Borghese era a Budapest dove in veste non ufficiale svolgeva attività politica. Tutta la combriccola italica, ad esclusione dei soldati, risiedeva all’hotel Ritz, sede anche della Delegazione del Danubio formata del tenente inglese Freeman e dal tenente americano Causey della Food Commision, di cui abbiamo ampiamente parlato.
Un rapporto confidenziale della missione militare francese a Vienna informava Parigi della collaborazione commerciale che si era instaurata fra gli italiani ed i comunisti ungheresi: magiari fiumani con passaporto italiano, insieme ad altri magiari arrivati nella città adriatica con dei lasciapassare, contrattavano con le autorità italiane, dietro pagamento in corone austriache, forniture di arance e di tessuti di Milano, che giungevano in Croazia dove le attendevano dei commercianti di Budapest. A Budapest dall’Italia arrivavano con regolarità stoffe e viveri in treni scortati da soldati italiani. Riso e caffè nelle campagne i contadini li scambiavano con quarti di vitello e pollame. I camion italiani circolavano senza essere fermati e perquisiti ai posti di guardia alla cinta della città col permesso del governo dei Soviet alla Missione, grazie a una clausola dell’armistizio di Villa Giusti.
Romanelli ottenne dal commissario del popolo alle finanze che gli italiani che lasciavano l’Ungheria per tornare in Italia prelevassero dai loro risparmi fino a 10 mila corone. Ma la Missione italiana in realtà si occupava prevalentemente di commerci, in particolare di contrabbando. Riporta il nostro “Ordine Nuovo” del 21 giugno 1921: «Mentre tramava con i controrivoluzionari la caduta della Repubblica dei Soviet vendeva al governo sovietista armi e munizioni, viveri e manufatti, sì che l’esercito rosso ungherese era equipaggiato e vettovagliato in gran parte dall’Italia. Ora se si considera che al fronte czecoslovacco a combattere contro l’esercito rosso c’erano pure – e in gran numero – soldati italiani, scaturisce spontanea la dedizione che i nostri “amati patrioti”, mentre da una parte si facevano belli di fronte al mondo reazionario mandando le truppe italiane a combattere contro l’esercito proletario, dall’altra vendevano le armi e le munizioni che dovevano servire per combattere le stesse truppe italiane! (...) I morti che giacciono insepolti sui campi di battaglia non narrano certo con qual piombo o qual mitraglia furono uccisi!».
Fu appurato in seguito che i componenti “dell’allegra missione italica” si erano “scordati” di versare al governo regio un mezzo miliardo di lire tratto da questi traffici.
Il 24 giugno un manipolo di allievi dell’Accademia militare Ludovica guidati dal comandante tenta un putsch con la flottiglia militare sul Danubio e con l’occupazione della centrale telefonica. L’azione fallisce e gli autori sono catturati. Romanelli insiste nel richiamare Kun e i commissari del popolo alla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra. Kun risponde: «Richiamo alla memoria del Sig. Ten.Col. come a Monaco, a Riga e in vari altri luoghi dell’Ucraina e della Finlandia nessun rappresentante delle Potenze Alleate e Associate si è levato a protestare contro l’assassinio di persone realmente innocenti. Al Sig. Tenente Colonnello non è venuto in mente d’indignarsi pel fatto che uomini prezzolati hanno sparato con cannoni e mitragliatrici sui sobborghi di Budapest, sugli ospedali e sulle case dove si trovavano donne e bambini, allettati dalla promessa di consentire loro un grande pogrom subito dopo il loro avvento al potere. Il cuore del Sig. Tenente Colonnello simpatizza soltanto per coloro che combattono, prezzolati, per favorire l’oppressione dei lavoratori e il ritorno all’oziosa esistenza d’un tempo. Il Governo dei Consigli quand’anche eserciti il suo potere con estremo rigore, sarà sempre più umano di quei governi che hanno umiliato l’umanità colle barbarie d’una guerra, che affamano genti col blocco e sparano contro le inermi masse del popolo che protestano contro l’oppressione e lo sfruttamento. Non credo siano da applicare le clausole della Convenzione di Ginevra a dei banditi controrivoluzionari che preparano nuovi pogrom, che mirano ad uccidere donne, bambini ed ebrei».
Alla fine di luglio, con l’avanzata delle truppe romene su Budapest, la Repubblica dei Soviet capitola. Romanelli nel pomeriggio del 1° agosto si reca da Kun all’Hungaria offrendo la protezione della Missione per mettere a riparo da rappresaglie le mogli e i bambini dei commissari del popolo e trasferendoli per ferrovia a Vienna sotto salvacondotto italiano.
(Il resoconto della riunione prosegue al prossimo numero)
PAGINA 7
Il PCd’I e la guerra civile in Italia
Il rapporto ha esposto alcuni episodi di guerra civile accaduti a cavallo delle elezioni politiche del maggio 1921. Le cosiddette “forze costituzionali” borghesi si presentarono unite in “Blocchi Nazionali”, nei quali furono accolti anche i fascisti. Se è vero che il fascismo non era mai stato un movimento illegale, ora veniva riconosciuto di diritto, oltre che di fatto.
È stato messo in risalto da un lato l’eroismo del proletariato italiano, dall’altro la connivenza tra fascismo e Stato borghese, e l’aperto tradimento del Partito Socialista.
L’esposizione iniziava riferendo sui fatti di Pordenone, la “roccaforte del bolscevismo friulano”.
Un’avvisaglia che a breve ci sarebbe stata una invasione fascista in città si poté desumere dal fatto che la polizia aveva minuziosamente ricercato e confiscato l’armamento dei proletari: come sempre lo Stato borghese si preoccupava che i fascisti non trovassero resistenza. Provocazioni fasciste erano state già compiute nei paesi della provincia, dove il proletariato aveva ben resistito. Ma lo scopo della borghesia era la conquista di Pordenone.
La mattina del 10 maggio gruppi di studenti provenienti da Udine compirono atti provocatori in attesa dell’arrivo degli squadristi. Immediatamente gli operai abbandonarono il lavoro per predisporsi alla difesa ed accolsero con una fitta sassaiola il primo camion di fascisti che abbandonò la città; un secondo camion evitò di avvicinarsi. Nel corso di una sparatoria i fascisti freddarono un loro camerata; quella morte fu attribuita a un agguato comunista, un alibi per una vasta opera di terrore contro la “barbarie rossa”.
Nel pomeriggio i proletari si mantennero padroni della piazza mettendo in fuga gruppi di fascisti e fronteggiando le cariche militari. Intanto ingenti forze fasciste si stavano concentrando.
Il sindaco socialista, anziché organizzare la difesa, si rivolse alle autorità di Pubblica Sicurezza chiedendo la loro “protezione“ e convinse la maggior parte degli operai a tornarsene a casa. I comunisti e i proletari più coscienti ripiegarono sul quartiere operaio di Torre predisponendosi alla difesa armata.
Le forze dell’ordine lasciarono libero ingresso in città ai fascisti, che iniziarono la loro opera di devastazione a danno del municipio, della Camera del Lavoro, delle abitazioni di esponenti politici, passando poi alla bastonatura indiscriminata di quanti fossero riconosciuti come operai.
L’azione disfattista del sindaco socialista rese inerme la città: Pordenone fu occupata senza resistenza. A Torre però quella notte il proletariato non aveva dormito e si era preparato a resistere.
Vennero scavati fossati, innalzate barricate, sbarrate le vie d’accesso con reticolati e cavalli di frisia. A dare man forte giunsero proletari e contadini dalle località limitrofe. Per tutto il giorno furono respinti gli attacchi fascisti. Solo con l’intervento di nuclei di cavalleria, di alpini e di carabinieri fu possibile espugnare il quartiere proletario.
La sconfitta militare non piegò il proletariato di Pordenone che per dieci giorni scese compatto in sciopero ottenendo la quasi totale liberazione degli arrestati, con le grottesche accuse di guerra civile, devastazione e saccheggio.
È stato pure ricordato come i proletari di Pordenone, nella insana speranza di una loro difesa attraverso le istituzioni borghesi, elessero poi il loro primo deputato socialista, l’avvocato Ellero, il quale si mise subito all’opera proponendo l’infame “patto di pacificazione” con i fascisti.
A partire dal 4 giugno 1921 tutti i giornali d’Italia riportarono la notizia di un delitto consumatosi in una piccola frazione del comune di Pistoia. Un fascista, tale Urbani, da un paio di mesi non era più in circolazione. La famiglia non se ne era data gran pena, non altrettanto la polizia che arrestò un minorenne, minorato psichico, al quale, sotto tortura, fece confessare un atroce delitto. L’Urbani con l’inganno sarebbe stato attirato nella sede del Partito Comunista e lì avvelenato, poi immerso con la testa in una caldaia bollente e quindi fatto a pezzi e gettato in un pozzo.
Il giorno successivo il paese fu occupato da esercito e forza pubblica che per giorni perquisirono le abitazioni alla ricerca di prove. Quasi trenta proletari comunisti furono arrestati e per oltre due mesi sottoposti, inutilmente, a violenti interrogatori. Il Procuratore del re di Pistoia insisté allora perché fosse tolta l’occupazione militare: i fascisti avrebbero così avuto modo di intervenire a seminare distruzione, terrore e morte. A questo mirava il democratico Magistrato che minacciò la distruzione dell’abitato: vecchi e malati, donne e ragazzi, sotto l’incubo della morte si erano rifugiati nei fienili, nei boschi. Anche a Pistoia compagni e proletari furono bastonati per vendicare l’assassinio.
Passati altri due mesi nessuna prova emerse a carico dei comunisti arrestati che, malgrado le violenze, rifiutavano di confessare; arrivò anzi la ritrattazione del giovane minorato, che portava sul corpo i segni delle torture. Il fascista avvelenato, lessato e squartato riapparve il 1° agosto, vivo e vegeto: i quattro mesi li aveva trascorsi a Bologna; lo sapevano i familiari, lo sapevano i fascisti, lo sapeva la polizia.
Il proletariato pistoiese ebbe uno scatto d’orgoglio, scese in sciopero per la scarcerazione degli arrestati che il giorno dopo una grande folla acclamò all’uscita dal carcere.
Si avrà domani la vendetta del proletariato, contro la borghesia e le sue istituzioni, solo se avrà appreso la lezione di come la classe dominante combatte la guerra sociale e come sa coniugare a suo vantaggio il bastone fascista e l’inganno democratico e legale.
Così allora non fu per il traditore Partito della socialdemocrazia in Italia. Alle elezioni di maggio, malgrado il dispiegato terrore fascista, brogli e imbrogli vari, il Partito Socialista, che aveva improntato tutta la sua attività nell’azione democratico-elettorale, risultò ancora una volta il più votato con oltre 1.600.000 preferenze, conquistando 123 seggi.
Nell’entusiasmo dell’orgia elettorale l’“Avanti!” titolava: «I proletari d’Italia hanno seppellito con una valanga di schede rosse la reazione fascista». Ma sotto i titoli trionfanti di prima pagina giornalmente riportava elenchi di proletari uccisi, di case del popolo e camere del lavoro date alle fiamme. La “valanga di schede rosse“ non impediva che i fascisti scatenassero ancor più violente ondate di terrore.
Tipiche tra il giugno e il luglio 1921 quelle in Lunigiana culminanti con l’assalto alla città di Sarzana. Da tempo diversi paesi del circondario avevano subito attacchi fascisti nei quali sovversivi e semplici proletari vi avevano trovato la morte.
La notte del 12 giugno la cooperativa socialista fu saccheggiata. Il giorno successivo un camion carico di fascisti giunse in città, bastonando e sparando contro chiunque. Così fu ucciso il padre di un nostro compagno: dopo l’omicidio i fascisti risalirono sul camion e tranquillamente ripresero la strada del ritorno senza che i carabinieri intervenissero.
Dopo una tregua della durata di circa un mese ripresero le violente incursioni contro i paesi della Lunigiana. Proprio in quei giorni, mentre il fascismo seminava morte, i delegati del PSI mettevano a punto il famigerato “patto di pacificazione” con gli assassini del proletariato.
Il 18 luglio i proletari di Sarzana erano in armi e pronti allo scontro. A dare man forte erano giunti rinforzi da La Spezia. Ci fu battaglia, i fascisti furono messi in fuga e chi non riuscì a fuggire rimase sul terreno. Secondo “La Stampa” il bilancio fu di sette morti e diversi feriti. A quel punto i carabinieri arrestarono una quindicina di fascisti per salvarli dal linciaggio.
Tre giorni dopo 600 camicie nere provenienti da tutta la Toscana si erano concentrate per marciare alle prime luci dell’alba sulla città. Ma a Sarzana i proletari erano svegli, in attesa e armati. Quando i fascisti arrivarono alla stazione ferroviaria si trovarono di fronte ad una piccola pattuglia di carabinieri: quindici uomini di fronte a seicento. Ai fascisti fu sconsigliato di penetrare in città poiché la popolazione era in allerta.
A quel punto successe che, nell’eccitazione, da parte fascista fu sparato uno o più colpi di fucile e un caporale dei carabinieri fu centrato. Istintiva fu la risposta dei carabinieri al fuoco. Questo determinò il parapiglia tra i seicento eroi in camicia nera. Una metà si ammassò nel terrore davanti alla stazione, altri fuggirono nelle campagne dove i contadini armati dettero loro la caccia e quanti intercettati furono uccisi. Il “Corriere della Sera” del 22 luglio titolò: “Selvagge aggressioni comuniste - Raccapriccianti episodi di caccia al fascista”.
Anche gli asserragliati all’interno della stazione avrebbero di certo fatto una brutta fine se non fossero tratti in salvo dalle forze dell’ordine che approntarono un treno speciale per allontanarli alla svelta. Dal treno in partenza gli eroi in camicia nera aprirono il fuoco contro le abitazioni e contro le persone, ferendo e uccidendo. Ma gli operai e i contadini risposero prontamente al fuoco. I fascisti ci lasciarono una quindicina di morti e circa cinquanta feriti.
La storiografia di tutte le tendenze politiche ha poi raccontato la favola delle forze dell’ordine che a Sarzana avrebbero difeso il proletariato affrontando con le armi le bande fasciste. Niente di più falso. Gli spari di alcuni carabinieri contro i fascisti non furono altro che una risposta impulsiva alla uccisione di un commilitone, e la paura, in 15 di fronte a 600 armati.
Esercito, polizia e carabinieri non tardarono infatti a schierarsi dalla parte dei fascisti, subito procedendo al rastrellamento della campagna e all’arresto di proletari e contadini trovati in possesso di armi.
A questo proposito è vergognoso quanto riportava l’“Avanti!” del 23 luglio: «Nelle campagne si segnalano gruppi di comunisti armati e la forza pubblica procede negli arresti, che sono numerosi [...] siccome è specialmente nella campagna che si aggirano i comunisti armati». Da parte nostra con orgoglio scrivevamo su “Il Comunista” del 31: «La violenza che d’ora in poi sarà compiuta dalle masse verrà definita “violenza comunista” [...] Che i comunisti siano perseguitati e colpiti è un fatto di logica ferrea e stringente, per fascisti e socialisti [...] Ogni atto violento sarà imputato a noi. Ringraziamo fin d’ora i nostri nemici che costringeranno il vero proletariato rivoluzionario ad unirsi sotto le nostre bandiere».
Otto giorni dopo veniva firmato il “Patto di pacificazione” tra il Consiglio Nazionale dei Fasci, il Partito Socialista e la CGL, con l’intento, dichiarato, di costituire un fronte unico nazionale anticomunista.