Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 408 - 5 aprile 2021

anno XLVIII - [ Pdf ]

Indice dei numeri

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Aggiornato all’11 aprile 2021

organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Scioperi del SICobas a Piacenza e a Prato: Come rispondere alla dura repressione dell’apparato statale borghese
Covid-19 - Il ricatto del capitalismo: Avidità benefica? - In Italia, Una eloquente necrologia
L’Antropocene? Ma è il Comunismo! - Canale di Suez e dintorni
PAGINA 2 Le false promesse della democrazia in Indocina: Il fronte nemico al proletariato in Birmania - Lotte di potere fra borghesi in Thailandia
Per il sindacato di classe L’intervento del partito nelle lotte operaie: La lotta alla Texprint di Prato - Per l’unità d’azione dei lavoratori del sindacalismo di classe - Entro l’Usb - Lo sciopero in Amazon - Repressione sui portuali genovesi del CALP e dell’USB
Prato, 20 marzo, Saluto agli operai in lotta nel distretto tessile pratese Prato, Saturday 20 March, Greetings to the workers fighting in the Prato textile district – سلام ان مزدوروں کو جو جدوجہد کر رہے ہیں پراتو ٹیکسٹائل ضلع میں
– Genova, 5 marzo - Viva lo sciopero dei portuali!
– Amazon - “Contare solo sulla nostra forza”: Per un sindacato di classe al magazzino Amazon di Bessemer! - Contro il sindacalismo collaborazionista!
– Istanbul: Municipali in lotta contro i dirigenti socialdemocratici
– Spagna: Sindacalismo di classe contro padroni, Stato e sindacati di regime
– Pakistan: I dipendenti statali scioperano e bene si difendono
PAGINA 5 8 Marzo 2021: Per la liberazione delle donne - Per il comunismo!
– Accordi commerciali fra gli Stati del Pacifico, Dietro gli affari la guerra: L’attrazione cinese - India Giappone Australia - TPP in versione ridotta - L’UE si accoda - Una competizione globale
PAGINA 6 Il comunismo vive nella nostra scienza rivoluzionaria incorrotta e nel tenace e organico lavoro del partito, al fianco della classe operaia, che ci si riconoscerà nelle battaglie di oggi e nella internazionale sua insurrezione emancipatrice - Riunione generale del partito in video-conferenza del 29-31 gennaio [RG 139]:
(2/3 - Continua il resoconto dal numero scorso). Il concetto e la pratica della Dittatura: I Soviet - Rapporto della sezione venezuelana - Origini del PCdC e primo Congresso dei comunisti e delle organizzazioni rivoluzionarie dell’Estremo Oriente - Per una storia dello schiavismo negli USA - La questione militare: La guerra civile in Russia
PAGINA 7 – GameStop: Come il 99% si fa fregare da l’1%
PAGINA 8 Il concetto di dittatura rivoluzionaria e la sua pratica - Con Lenin (18): 15. Ancora Marx e Lenin sullo Stato e oltre lo Stato: Una rivoluzione pacifica? - Dogmi e teorie - Per uno Stato accentrato - Contro gli anti-autoritari - Capitalismo monopolistico e socialismo di Stato

 

 

  


PAGINA 1

Scioperi del SI Cobas a Piacenza e a Prato
Come rispondere alla dura repressione dell’apparato statale borghese

Il volantino che segue – anche tradotto in francese e inglese – è stato distribuito alla manifestazione nazionale convocata a Piacenza dal SI Cobas sabato 13 marzo, in risposta all’azione repressiva statale di cui si legge nel testo.

La manifestazione è riuscita, con un migliaio di partecipanti. Un buon risultato, considerata la crisi sanitaria che dissuade dal partecipare, anche se era lecito sperare in una mobilitazione più numerosa, data la gravità di quanto accaduto.

È infatti la prima volta – sicuramente da diversi decenni – che abitazioni di operai vengono perquisite e sindacalisti posti agli arresti, nel quadro di una indagine scaturita non per reati legati al terrorismo, giustificazione con cui negli anni ‘70 e ‘80 erano compiute simili operazioni poliziesche, bensì dallo sgombero di un picchetto con la conseguente reazione dei lavoratori, insomma nel quadro di uno sciopero.

Sgomberi di picchetti in scioperi nella logistica, in questi ultimi dieci anni, se ne sono contati oltre il centinaio. Quasi sempre i lavoratori hanno opposto una resistenza passiva. Questa volta la vigliaccheria e la brutalità dell’aggressione poliziesca hanno provocato la reazione degli operai, con un lancio di pietre. Le forze dell’ordine avevano lanciato e fatto esplodere i lacrimogeni in mezzo alle gambe dei lavoratori, pacificamente seduti in una sessantina di fronte al cancello dell’azienda.

La reazione ha costretto la polizia a desistere dal proposito di far uscire i veicoli con la merce dal magazzino, ragione per la quale da due giorni i blindati stazionavano entro il sedime aziendale, un po’ come se si trattasse di una polizia privata della Fedex Tnt, il che in fondo è vero, trattandosi del corpo di difesa dell’intera classe borghese.

L’azione repressiva dispiegata il 10 marzo dalla procura piacentina si profila perciò anche con i caratteri di una vendetta, per lo schiaffo subito la notte del 1° febbraio, perché questa volta, diversamente da decine di altre, i lavoratori hanno reagito, violando la legge: la violenza dev’essere monopolio dello Stato borghese.

Naturalmente è oltre la vendetta che mira l’azione repressiva, per quanto il regime borghese non trascuri questo piano che potremmo definire “emotivo”, dei rapporti fra le classi: a uno schiaffo preso deve sempre rispondere rincarando la dose.

Gli ulteriori obiettivi sono da un lato colpire e indebolire il movimento operaio nella logistica, organizzato in questi anni dal SI Cobas – e da altri sindacati di base in misura minore ma non trascurabile – intimidendo i lavoratori – 5 i procedimenti di revoca del permesso di soggiorno avviati – e comminando sanzioni pecuniarie al sindacato. Dall’altro restringere la libertà di sciopero in limiti sempre più angusti, portando fuori dai confini della legalità alcuni strumenti essenziali alla sua riuscita, quali i picchetti per bloccare le merci e per scoraggiare il crumiraggio.

L’operazione, in atto da decenni, sul piano legale e “culturale”, è indirizzata a degradare lo sciopero da azione di forza, volta a piegare l’azienda in ragione del danno economico a essa procurato, a democratica manifestazione d’opinione, aggirabile dal padronato con disparati strumenti grazie ai quali il danno economico è ridotto entro limiti per esso accettabili.

È questo il terreno privilegiato del sindacalismo di regime di Cgil, Cisl e Uil: inizio e termine dello sciopero dichiarati con adeguato anticipo; durata dello sciopero generalmente non superiore alla singola giornata; blocco delle merci scoraggiato; lotta al crumiraggio attraverso il picchetto bandita, perché il “diritto” a lavorare – il giorno dello sciopero in difesa di interessi collettivi – avrebbe per costoro pari dignità di quello a scioperare.

Queste modalità permettono all’azienda di recuperare il calo produttivo prima e dopo lo sciopero; le lasciano l’arma della intimidazione contro i lavoratori, onde dissuaderli dallo scioperare, mentre agli scioperanti non è consentita analoga condotta nei confronti di chi vuol fare il crumiro; permettono alle aziende di arruolare lavoratori in sostituzione degli scioperanti aggirando i limiti di legge, in virtù... della legge, cioè degli strumenti messi a disposizione dalle successive riforme per “ammodernare” il mercato del lavoro.

È lo sciopero inteso come un “diritto”, e non come atto di forza e arma di lotta, che implica lo scivolamento sul piano inclinato in cui i diversi “diritti” si devono compendiare: quello di scioperare con quello di lavorare, in nome del quale le aziende in diverse occasioni hanno organizzato manifestazioni anti-sciopero, dalla marcia di impiegati e quadri del 1980 a Torino, a casi più piccoli e recenti, come alla Tigotà di Padova nell’ottobre 2019, o alla Texprint di Prato il 20 marzo scorso.

Il tutto nel quadro della società capitalista che sarebbe regolata dai diritti individuali, in cui inevitabilmente quelli dei più facoltosi, i borghesi, schiacciano quelli dei proletari, a maggior ragione se intesi come loro diritti collettivi.

L’obiettivo di rinchiudere la libertà di sciopero entro i limiti mortali di un diritto individuale che convive con altri diritti è emerso chiaramente dalle dichiarazioni del procuratore di Piacenza nella conferenza stampa a seguito dell’operazione repressiva del 10 marzo, secondo cui la lotta dei lavoratori della Fedex Tnt sarebbe stata “pretestuosa”, “priva di ogni valenza sindacale”, giungendo costei ad affermare: “tanto è vero che i sindacati che hanno sempre mantenuto un dialogo aperto e leale come la Cisl hanno con forza condannato il comportamento di questi facinorosi”. Un procuratore che entra nel merito delle questioni sindacali è l’emblema della democrazia che ha sussunto il fascismo!

Venerdì 26 marzo ai due dirigenti locali del SI Cobas piacentino sono stati revocati gli arresti domiciliari ma i festeggiamenti sono durati poco: tre giorni dopo, il 29 marzo, la Fedex Tnt ha annunciato la chiusura immediata del magazzino piacentino che era uno dei principali della società in Italia, con 280 lavoratori, nonché teatro della prima grande lotta vittoriosa del SI Cobas nel 2011 e un suo punto di forza.

Di fatto una serrata, come ha denunciato anche l’Usb, per liberarsi di un sindacato combattivo, e ciò in barba all’accordo siglato non più tardi del 10 febbraio dopo 13 giorni di sciopero, in cui nero su bianco l’azienda dichiarava che non avrebbe ridotto il numero di occupati nel magazzino piacentino. Tanto vale la parola padronale!

Per inciso è curioso notare come la procura abbia dichiarato un accordo firmato in prefettura “privo di valenza sindacale”! Chiedere coerenza dai borghesi è come pretendere di infilarsi le braghe dalla testa!

Ben si vede come la lotta di gennaio-febbraio, che aveva avuto per oggetto anche l’opposizione al piano europeo di 6.500 licenziamenti, e che la procura piacentina aveva definito pretestuosa, tale non era affatto. Emerge nitidamente dal quadro descritto la collaborazione di padronato, Stato borghese e sindacati di regime volta a combattere il sindacalismo di classe.


Compagni, lavoratori !

La notte fra l’1 e il 2 febbraio, al 13° giorno di sciopero, polizia e carabinieri hanno attaccato il picchetto alla Fedex Tnt di Piacenza, in modo particolarmente ignobile, lanciando i candelotti lacrimogeni nelle gambe degli operai seduti pacificamente in gruppo davanti ai cancelli. Ciò ha provocato la loro rabbia e le forze dell’ordine sono state costrette a retrocedere sotto una fitta sassaiola.

Questo affronto non poteva esser lasciato correre: in una società divisa in classi la violenza è legittimamente esercitata solo dall’apparato repressivo della classe dominante. È questa una elementare norma a difesa del suo dominio politico e del suo privilegio sociale.

Così il 10 marzo è partita una vasta operazione di rappresaglia contro gli operai del SI Cobas piacentino: multe per complessivi 13.200 euro; perquisizioni delle abitazioni dei lavoratori; due dirigenti sindacali agli arresti domiciliari; 5 divieti di dimora; 5 avvii del procedimento di ritiro del permesso di soggiorno a operai immigrati.

Questo il modo con cui lo Stato borghese cerca di spezzare la forza di questo sindacato, il SI Cobas, che in questi ultimi 10 anni ha organizzano molte delle lotte operaie più dure e che nella logistica piacentina ha una delle sue roccaforti.

Lo stesso giorno, il 10 marzo, le forze dell’ordine hanno attaccato anche un altro picchetto del SI Cobas, alla Texprint di Prato, dove gli operai sono in sciopero da oltre 50 giorni. Qui, nel distretto tessile pratese, il SI Cobas sta organizzando gli operai contro il regime di spietato sfruttamento cui sono sottoposti, tant’è che la rivendicazione è di lavorare 8 ore per 5 giorni, invece di 12 ore, spesso per 7 giorni !

Il regime borghese, mentre con la mano sinistra offre promesse e solenni impegni a tutelare i cosiddetti “diritti”, con la mano destra dispensa bastonate ai lavoratori che lottano per i loro bisogni materiali.

Il “diritto” è una menzogna che va a braccetto con quella della “democrazia”, entrambe utili a mascherare la natura oppressiva del capitalismo e il carattere dittatoriale del regime politico della borghesia. I lavoratori non hanno diritti giacché i loro bisogni sono sempre subordinati alle esigenze del profitto. Né hanno un briciolo di potere, che è tutto interamente nelle mani del grande capitale industriale, finanziario e fondiario, nazionale e internazionale.

Il fantomatico “diritto di sciopero”, per esempio, è concesso nei limiti in cui esso è esercitato senza arrecare eccessivo danno al padronato, cioè in cui esso è inefficace a difendere i lavoratori. Quando gli operai organizzano lotte coi veri mezzi utili a difendere i loro interessi – scioperi senza preavviso e senza una scadenza prefissata, picchetti per bloccare merci e crumiri – e lo fanno organizzati in sindacati che dichiaratamente fanno di questi mezzi di lotta il perno della loro azione, il regime borghese mostra il suo vero volto, togliendosi la maschera democratica e scatenando la repressione.

Finché invece i lavoratori restano controllati dai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) che organizzano scioperi rari e blandi – senza picchetti, annunciati con largo anticipo e con una durata già stabilita – il regime borghese può seguitare con la finzione di mostrarsi comprensivo delle sofferenze dei salariati, e i pagliacci dei vari partiti istituzionali possono persino fare le loro passerelle nelle mobilitazioni operaie in cerca di voti.

I lavoratori di Piacenza e di Prato organizzati dal SI Cobas hanno ben capito di poter contare solo sulle loro forze; di non avere amici o alleati al di fuori della classe lavoratrice.

In loro difesa, e per far crescere questa consapevolezza nella classe operaia, tutto il sindacalismo conflittuale – sindacati di base e opposizione di classe in Cgil – deve reagire unitariamente a questo attacco, che non è solo contro il SI Cobas bensì contro tutto il sindacalismo di classe e contro tutti i lavoratori. Una risposta adeguata sarebbe organizzare uno sciopero nazionale unitario in tutta la logistica da parte di SI Cobas, Adl Cobas, Usb, Cub, Sgb e opposizione in Cgil.

È lungo questa strada, quella dell’unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo conflittuale, che la classe lavoratrice ritroverà fiducia nelle sue forze, liberandosi del controllo dei sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil).

La sua parte più combattiva aderirà al partito comunista rivoluzionario, necessario per abbattere il potere politico della classe dominante e aprire la via alla futura società comunista, senza classi né sfruttamento.

 

 

  


Covid-19
Il ricatto del capitalismo


Avidità benefica?

In un momento di sincerità al primo ministro britannico è sfuggito quel che pensa: sarebbe stata l’avidità del capitalismo a stimolare lo sviluppo dei vaccini e così a salvarci tutti dal virus.

Peccato che il capitalismo e l’avida caccia al profitto abbiano invece ritardato la messa a punto dei vaccini, a causa delle barriere di segretezza aziendale e delle leggi che difendono la “proprietà intellettuale”, che hanno impedito una condivisione aperta, e non avida, delle conoscenze scientifiche dei vari laboratori delle imprese che operano nel settore altamente redditizio delle bio-scienze.

È così che assistiamo allo indegno mercato tra i produttori, i distributori e gli acquirenti delle varie “marche” di vaccino, ognuna delle quali emana un proprio fetore di imperialismo nazionale. “Una libbra di carne!” è scritto nei patti segreti stipulati dagli Stati con il Capitale, la carne di centinaia di migliaia, forse milioni di uomini, il ricatto per imporre qualunque aumento dei prezzi. Gli avvocati specializzati in commercio internazionale avranno poi da disquisire per anni.

Il comunismo – libero dalla imposizione del profitto – avrà come solo suo obiettivo la cura razionale della vita umana, in un rapporto armonioso e reciprocamente vantaggioso con la natura, la salute umana nel senso più ampio, compresa quella degli anziani, così colpiti dall’attuale pandemia.

I vaccini non avranno più un valore commerciale, da contemperare in una graduatoria di bisogni e di redditività aziendale, ma solo date proprietà utili per la umana comunità mondiale. Per il capitale sono invece solo una merce, una come tutte le altre, utili o dannose che siano al bene dei viventi, al pari di carri armati e pistole.

Lo sviluppo dei vaccini è stato il risultato dei grandi progressi del pensiero scientifico e tecnico, non della avidità del capitalismo. Il capitalismo, nella società presente, ha solo sottomesso quella enorme potenza della forza lavoro umano alla sua avidità. Nella ricerca scientifica come in tutti i campi della produzione.

E buona parte delle energie delle grandi compagnie farmaceutiche viene dissipata per celare i segreti aziendali, e per comprarsi spazio nei media e far spiegare ai loro “informatori scientifici” che dei vaccini il loro è “il migliore”: “efficace all’85%! al 90%! Se ne compri tre uno è gratis!.

Naturalmente nel capitalismo chi non paga non mangia. Tanto peggio per i proletari dei paesi più poveri, che il vaccino non se lo potranno permettere: colà l’avranno solo le caste privilegiate.

La ipocrita borghesia inglese – così ben impersonata dal suo primo ministro, “vecchia volpe vestita da orsacchiotto” – che è retrocessa alla vana utopia della Brexit, misero sostituto del perduto impero, si dimostra incapace di ogni respiro universale, “globale”, o anche solo europeo.

Il partito dell’establishment conservatore britannico si trova per altro di fronte alla più insipida delle “opposizioni”. Sir Keir Starmer, capo del Partito Laburista ed ex direttore delle Procure, è uno di quelli che ti fa premere il tasto muto appena appare al telegiornale. Appoggia il governo in tutto, per tema di non sembrare un patriota, afferma il contrario di ogni ultima quisquilia, ma sempre sull’attenti alle note del “God Save the Queen”. Il precedente dirigente laburista invece aveva fatto la sparata di dichiararsi “marxista”, in uno squallido riverbero di stalinismo.

Fuori da queste miserie c’è la realtà di un proletariato che, in particolare sotto la pandemia, continua ad incassare colpi, mentre il capitalismo sempre più si impantana nelle questioni sociali, ambientali, militari, di fatto in ogni campo, nonostante la sua insistente, inesorabile ripetizione che il suo mondo è “naturale” ed “eterno”.

Le lezioni del marxismo, e del Partito, uniche si impongono come in linea con l’esperienza, con la realtà, mentre sempre più l’ideologia dominante appare falsa e impotente, benché martellata giorno dopo giorno, tanto quanto apertamente dichiarata quanto subdolamente accennata.

Boris Johnson ha infine ritrattato il suo parere sulla benefica avidità del capitalismo, sottacendo però il suo sostegno, per esempio, all’altrettanto benefico programma di riarmo nucleare del certamente sempre avido capitalismo della “non-più Great-misera Britannia”.


In Italia - Una eloquente necrologia

Pare che in Italia l’unico dato veramente attendibile sugli effetti del Covid, al riparo dalle comprovate manomissioni interessate dei borghesi, sia quello della grande giustiziera sorella Morte. A far sparire i cadaveri, per ora, non ci sono arrivati.

I dati ISTAT pubblicati a marzo 2021 in merito alla mortalità in Italia nel 2020 e fino al 30 settembre (cioè nella prima ondata dell’infezione) ci informano che i decessi nella penisola risultano essere stati 527.888, ovvero 43.453 in più rispetto alla media nello stesso periodo nel 2015-19, con un aumento del 9%. Tale percentuale cresce al 16,14% nei soggetti con più di 65 anni, risultando per questi, nello stesso periodo, i deceduti 369.068 rispetto ai 317.787 con un incremento di 51.281.

Il fenomeno raggiunge il massimo nelle regioni settentrionali. In Lombardia si registra nella provincia di Bergamo +364,3%, a Cremona +292,3% a Lodi +235,3 % a Brescia +222,7%. In Emilia Romagna nella provincia di Piacenza +196,7%. Una strage.

L’epidemia colpisce dove più il capitalismo è moderno ed efficiente.

Dai dati del rapporto Istat sul “Benessere Equo e Sostenibile” (questo ormai il linguaggio dei borghesi!) pubblicati sempre ai primi di marzo e aggiornati al secondo trimestre 2020, quindi comprensivi della prima ondata del Covid-19, risulta che l’aspettativa di vita degli italiani, nel periodo analizzato, ha perduto in un anno i progressi dei dieci anni precedenti: da 83,6 anni del 2019 agli 82,0 del 2020.

Forti le differenze territoriali e di genere. Nel Nord da 83,6 a 82,0. Nel Centro da 83,1 a 81,9 del 2010. Nel Mezzogiorno da 82,2 a 81,1.

La flessione minore al Centro e al Sud è dovuta all’impatto minore della prima ondata in queste regioni.

Viene omessa una puntuale analisi in relazione all’incidenza della regressione fra le classi sociali.

Estrapolando questi dati per i mesi mancanti del 2020, il calo della speranza di vita raggiunge non meno di un anno e sei mesi. Nelle quattro province lombarde e a Piacenza potrebbe arrivare fino ai quattro anni in meno.

Da questi dati dell’Istat si evince che il tasso di fecondità è stimato per il 2020 in 1,13 figli per donna, quindi al di sotto del minimo storico per l’Italia di 1,19 registrato nel 1995. Il saldo demografico nelle previsioni a fine 2020 dovrebbe essere negativo, con circa 300.000 decessi in più rispetto alle nascite: circa 400.000 nascite contro circa 674/700.000 decessi. La popolazione italiana scenderebbe sotto i sessanta milioni. Il 2020 porterebbe dunque una diminuzione della incidenza della popolazione anziana solo di circa uno 0,2%. L’epidemia non lascia quindi in eredità una popolazione più giovane e la tendenza all’invecchiamento viene solo rallentata.

 

 

 

 

 



L’Antropocene? Ma è il Comunismo!
Canale di Suez e dintorni

È di questi giorni il caso della portacontainer Ever Given incastratasi di traverso nel canale di Suez a causa di “una folata di vento”. Solo per ridurre i costi di trasporto la borghesia, con zelo idiota, costruisce navi grandi come una piccola città, lunghe 400 metri e capaci di caricare 18.300 container. Per una settimana il blocco della via d’acqua, in cui passa il 12% del commercio mondiale, ha dimostrato come la circolazione delle merci, controfigura artificiale del ricambio naturale degli organismi viventi, possa mettere in crisi il capitalismo mondiale. I danni si stimano in 10 miliardi di dollari al giorno, per il ritardato smercio di tutta quella inutile paccottiglia.

L’enorme nave, quella incagliata montagna di acciaio, ci piace prenderla a simbolo di tutto il moderno capitalismo e della sua follia iper-produttiva.

Il capitalismo impegna l’umanità lavoratrice a una dissipazione idiota di energie per saturare il mondo di merci inutili. La classe borghese solo al fine della conservazione diffonde senza posa la ideologia reazionaria dell’ecologismo, fatta di “sviluppi sostenibili”, “transizioni green”, quando invece il capitale non può né potrà mai arrestare o solo porre un freno alla folle corsa della produzione fine a se stessa.

Ora in Italia è stato istituito anche un ministero ad hoc “per la transizione ecologica” che promette nuovi investimenti in infrastrutture, ancora colate di cemento, ma sicuramente “green”. Dall’altra parte dell’Atlantico negli Stati Uniti sentiamo Biden cantare la stessa canzone con il nuovo piano “Build back better”, ricostruire meglio, il quale prevede di investire 2.000 miliardi di dollari in infrastrutture, di cui 650 miliardi soltanto per strade, ponti e porti.

Ma la ideologia dell’ecologismo cerca appoggi più nobili delle chiacchere da reclame e trova adepti fra gli specialisti delle scienze naturali. In questo campo da tempo si propone l’aggiunta nella stratigrafia geologica di una nuova Età, quella attuale, denominata antropocene, nella quale la specie umana influenzerebbe ormai in misura determinante il divenire della crosta terrestre, delle acque, dell’atmosfera e dei viventi, la cosiddetta biosfera.

Noi manteniamo un forte scetticismo di fronte alla pretesa scienza di quest’epoca di putrefazione sociale, e non siamo affatto proclivi a considerare come dovuta alla specie umana l’opera di devastazione che è invece imposta dal modo di produzione capitalistico. A determinare tale sfacelo sono le necessità di valorizzazione del capitale, nel suo agire caotico al solo fine di produrre un profitto, e non certo per dare risposta ai vitali bisogni della specie.

La teoria marxista ci insegna che il capitale è un rapporto fra gli uomini, che non si identifica con la capacità produttiva della specie, con la sua dotazione tecnica, con le conoscenze scientifiche e con le forze della natura, oggi tutte assoggettate alla riproduzione del capitale. Ogni volta che si pone l’urgenza di fare i conti con gli effetti devastanti per la natura della folle corsa all’accumulazione del plusvalore, guardiamo con forte sospetto quanto viene prodotto in termini di analisi “scientifica” o, peggio ancora, di incongrue proposte dal ceto politico borghese, solo interessato al suo spicchio del prodotto sociale.

Ma che siamo entrati nell’antropocene è tesi nostra! L’antropocene è il comunismo! quella èra della nostra storia di specie nella quale lo sviluppo delle capacità dell’uomo è giunto a poter influenzare la vita intera del pianeta. È una forza nuova ed immensa. Basta ora toglierla dalle artritiche ma ancora rapaci mani del Capitale. Domani la società comunista, soffocata la odierna nauseante, moralistica, terroristica, commerciale retorica “green”, e non più resa sorda e cieca dal suo interno conflitto fra opposti interessi, potrà vedere, sapere e prevedere dei lunghissimi cicli che regolano in grandiosi delicati e complessi equilibri la vita sulla nostra Terra. E, con cautela, provare sapientemente a intervenire, in un progetto esteso a tutto il globo e a più generazioni.


* * *

Assecondando invece la moda attuale, anche un recente studio effettuato da una università israeliana, il Weizmann Institute of Science di Rehovot, è giunto alla “angosciante” conclusione che la massa storicamente accumulata dei minerali lavorati dall’uomo, esclusi quindi i prodotti dell’agricoltura, avrebbe superato quella degli organismi viventi sul pianeta, anche esclusa l’acqua che contengono.

Non garantiamo affatto della serietà di questi “studi” universitari, che sappiamo ormai sempre più mossi da interessi mercantili e di carriera, specialmente oggi che gli esangui finanziamenti sono contesi con i metodi più indecenti. Non possiamo quindi valutare quanto i dati utilizzati nella ricerca siano attendibili, o addirittura falsificati, né se gli estensori almeno mostrino di sapere di quali grandezze stiano parlando.

Resta però il fatto che noi non sentiamo alcun bisogno di ulteriori studi, in quanto lo sapevamo da prima. Siamo infatti ben convinti del problema della progressiva mineralizzazione della biosfera. Ferro o grano? Al di là di errori di calcolo, data l’immensa mole di dati da raccogliere e correlare, non neghiamo una certa verosimiglianza delle conclusioni raggiunte con le nostre tesi. Se cioè il sorpasso della massa dei prodotti minerali lavorati dalla nostra specie, definita nello studio come massa antropogenica, su quello della biomassa vivente complessiva, che secondo la ricerca si sarebbe verificato già nel 2020, non fosse stato ancora raggiunto lo sarà certo in capo a pochi anni.

La biomassa sulla Terra si attesterebbe attorno 1.100 gigatonnellate, relativamente costante in un ampio arco geologico (un “giga” è un 1 seguito da 9 zeri). Viceversa la massa antropogenica ha conosciuto una rapidissima evoluzione negli ultimi 120 anni: ancora agli inizi del XX secolo non superava il 3% della biomassa disidratata. Inoltre la corsa della massa antropogenica ha conosciuto una formidabile accelerazione negli ultimi decenni, raddoppiando ogni 20 anni.

È evidente che nemmeno i capitalisti, anche se lo volessero, e nemmeno se associati hanno la benché minima possibilità di arginare questa infernale eruzione. Lo dimostra il diluvio di prolusioni di eminenti politici e di capi di Stato nelle ultime due decadi, di raduni mondiali dedicati alle chiacchiere ecologiche e agli “storici” trattati che avrebbero dovuto porre un argine ai “cambiamenti climatici” e “difendere l’ambiente”.

Altre conseguenze che il capitale non può controllare sono quelle dell’agricoltura, del disboscare e degli allevamenti, tutte attività antiche ma oggi attuate a grandissima scala, aiutate dall’enorme sviluppo dei mezzi di produzione, che però a questa società non danno forza e ricchezza ma solo generano nuovi squilibri e nuove crisi, oltre che la miseria dei proletari che vi lavorano. Lo stesso dicasi per le attività minerarie, vera rapina dei beni del sottosuolo.

La biomassa vegetale è stimata in 900 gigatonnellate mentre quella degli edifici e delle infrastrutture a 1.100. Urbanistica e capitalismo, e rendita fondiaria, peggio se piccola e frazionata, sono incompatibili fra loro. Si pensi alle città e paesi “fantasma”, antichi o nuovi dei piani di governi costretti a fare i conti con l’anarchia capitalistica, e avidi di ingenti profitti e rendite degli appalti edilizi. Per non parlare della miriade di stabilimenti industriali abbandonati a causa dei capriccioso mutare del tasso del profitto fra settori e regioni produttive del mondo: ruderi che in ogni angolo del pianeta segnano una mostruosa civiltà incapace di provvedere anche soltanto alla propria sopravvivenza e che ingombra lo spazio con i suoi cadaveri.


* * *

Il capitalismo catapulta immani quantità di merci in quegli snodi del mercato mondiale che si chiamano città. Di qui il forsennato giganteggiare di ciclopiche agglomerazioni cementizie, templi dell’investimento immobiliare, strumento di solidificazione di capitali altrimenti evanescenti. Nessun piano può limitare l’espansione delle città oltre le “mura”, esorbitando disordinatamente nelle campagne. In questo orribile mondo colonizzato ovunque dal capitale si consuma l’agonia della vita associata. Una civiltà che solo distrugge il lavoro dei morti né sa né si cura di recuperare quanto ereditato dalle passate generazioni. Nello squallore vive la specie Homo sapiens sapiens: come la storia si fa gioco delle parole!

«Base dell’analisi economica marxista è la distinzione tra lavoro morto e lavoro vivente. Noi definiamo il capitalismo non come titolarità sui cumuli di lavoro passato cristallizzato, ma come diritto di sottrazione dal lavoro vivo ed attivo. Ecco perché l’economia presente non può condurre a una buona soluzione che realizzi, col minimo di sforzo di lavoro attuale, la razionale conservazione di quanto ci ha trasmesso il lavoro passato, e le basi migliori per l’effetto del lavoro futuro. Alla economia borghese interessa la frenesia del ritmo di lavoro contemporaneo, ed essa favorisce la distruzione di masse tuttora utili di lavoro passato, fregandosene dei posteri» (Omicidio dei morti, “Battaglia Comunista”, 1951, n.24).

Questo lo scrivevamo 70 anni fa, prima che la parola ecologia venisse da alcuno agitata e ovunque, anche nell’est stalinista, si immolava sugli altari del produttivismo.

Le conseguenze sono devastanti per tutto il regno animale, in un ambiente sempre più artificiale e meno adatto alla loro riproduzione. La massa di tutti gli animali dicono rappresenti una piccola frazione della biomassa planetaria, meno di 4 parti per mille dato che complessivamente non superano le 4 gigatonnellate, mentre assai minore è la massa degli uomini, che assomma soltanto lo 0,01% delle specie viventi.

Le materie plastiche presenti sul pianeta sono stimate in circa 8 gigatonnellate, il doppio di tutti gli animali terrestri e marini. Pare che molta finisca a costituire delle grandi isole galleggianti nell’Oceano Pacifico. Perché se ne produce tanta? Perché il tasso del profitto nella sua produzione è sufficientemente alto. Esiste un rimedio? In questa società, no. Anche in questi tempi di pandemia, nessun governo è disposto a rinunciare allo “sviluppo”. Tutti gli assembramenti sono proibiti, tranne che nelle fabbriche!

Al proletariato soltanto spetterà il compito di salvare sé stesso e la specie umana se sarà capace di sopprimere la dominazione asfissiante del capitale e la sua demente infinita riproduzione.

 

 

 

 





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Le false promesse della democrazia in Indocina

Il fronte nemico al proletariato in Birmania

Una continuità di fondo accomuna l’economia e la società della Birmania al di sopra del cambiamento dei governi

Le imprese che fanno capo ai militari sono cresciute per decenni, ben prima che la spinta alla “democratizzazione” del paese si esprimesse nel governo della Lega Nazionale per la Democrazia, hanno continuato mentre questa fingeva di ignorare i trasferimenti forzati nelle regioni di frontiera, e prima che, all’inizio del febbraio scorso, la giunta militare senza gran fatica rovesciasse il governo guidato dalla LND. I peccati degli uni sono quelli dell’altro, mentre l’insieme della borghesia nazionale ha continuato a trarre profitto dalla situazione, prima e ora.

Il colpo di Stato in Birmania non ha interrotto il silenzioso trasferimento sistematico delle minoranze etniche nelle terre di frontiera, attività che il precedente partito al governo ha appoggiato attraverso il finanziamento di progetti di infrastrutture e di investimenti. Mentre la borghesia liberale ha contribuito al saccheggio delle ricchezze del paese e a tormentare quelle genti, i militari hanno accumulato enormi capitali in grandi conglomerati, che esportano in tutto il pianeta. Queste corporazioni hanno radici in ogni settore dell’economia, dall’industria mineraria e manifatturiera al commercio all’intrattenimento e al turismo.

Anche le altre borghesie della regione vi vedono opportunità di buoni affari, al di là delle lacrime ipocrite sull’incrinarsi della facciata democratica in Birmania.

L’India, sull’onda dello sviluppo economico registrato sia durante il regime dei militari sia dalla LND, cerca finalmente di dare il via ai vasti progetti infrastrutturali per collegare i due paesi, approfittando anche della cacciata del popolo Rohingya. L’India intende così contrastare i grandi investimenti della Via della Seta e i progetti che lo Stato cinese sta attuando nel nord della Birmania e lungo la costa, come la nuova strada aperta a loro uso che scende dal nord del paese. Il colpo di Stato ha gettato nuova benzina sul fuoco della competizione tra i due paesi.

Già nel governo liberale alcuni ministri erano nominati dai militari. Ma dietro i militari c’è la dominante classe borghese, che utilizza la struttura più organizzata ed efficiente dello Stato, l’esercito, per controllare il paese. L’Egitto ne è un altro esempio. I militari esercitano una posizione economica che si sono costruiti lentamente nel corso degli anni e con la quale la borghesia liberale ha potuto competere solo di recente.

Lo Stato cinese sembra osservare la situazione in modo tranquillo e calcolato. La borghesia birmana cerca di deviare la rabbia dei manifestanti verso il razzismo e contro i cinesi, piuttosto che in senso di classe. Anche se non è l’obiettivo immediato dei lavoratori, in Birmania alcuni manifestanti hanno attaccato e distrutto delle fabbriche gestite dallo Stato cinese. L’incidente ha avuto un certo risalto se la stampa ufficiale del PCC ha condannando questi incidenti, chiedendo punizioni esemplari e risarcimenti finanziari. Le aziende prese di mira sono nella zona industriale di Shwe Lin Ban, Hlaing Thar Yar Township, la maggior parte fabbriche di abbigliamento. Per la crescente instabilità, la Cina ha dato ordine ai suoi cittadini di lasciare il paese. La Cina accusa di irriconoscenza, ricordando i posti di lavoro che avrebbe creato in Birmania. Ancora una volta lo Stato cinese si comporta come un comune capitalista: fa finta di niente, o quasi, sul colpo di Stato, e solo sembra preoccuparsi per i suoi profitti, sempre ben garantiti dai militari al potere in Birmania.

Gli Stati occidentali a parole condannano i militari e ostentano la facciata democratica; l’Unione Europea si unisce alle sanzioni del governo statunitense e davanti al mondo invoca il ritorno alla legalità. Tuttavia i funzionari della UE hanno deciso di tagliare solo le donazioni ai programmi di riforma del governo birmano, sostenendo che ulteriori punizioni sarebbero ricadute sulla popolazione. L’Europa tiene le porte aperte ai militari, che non hanno motivo di preoccuparsi dei suoi rimproveri. Nonostante il colpo di Stato, le imprese australiane continuano a estrarre il gas naturale dalle enormi riserve al largo del paese, impresa che favorisce tutta la borghesia birmana.

Oltre che partecipare a questo teatrino internazionale, il governo degli Stati Uniti ne approfitta per dimostrare il suo potere: ha limitato le esportazioni di tecnologia in Birmania e ha bloccato ai militari l’accesso alle loro partecipazioni finanziarie depositate negli Stati Uniti: di fatto hanno sanzionato solo alcuni individui. E il dipartimento di Stato americano è attento a non bloccare l’importazione dei prodotti dalla Birmania richiesti dal mercato interno.

La democrazia, che il governo sia militare o civile, per la classe operaia è questione che interessa solo la borghesia. Non influenza in nulla le condizioni del proletariato e dei diseredati delle minoranze etniche, che continuano a faticare o vengono cacciati dalle loro case per le esigenze di un’economia capitalista internazionalizzata.

La reazione della classe operaia birmana, motore col suo lavoro di un’economia florida ma fragile, ha reagito con un’attività diffusa in varie categorie economiche, e contro anche gli effetti di una pandemia dilagante. I primi lavoratori a scioperare sono stati il personale sanitario, per poi rapidamente diffondersi il movimento ad altre categorie e luoghi di lavoro, come l’abbigliamento, che occupa 600.000 operai, industria questa che negli ultimi anni ha visto un serpeggiare di scioperi spontanei e sorgere di organizzazioni combattive. Ben presto, molti dei sindacati birmani si sono uniti alle proteste. Il 90% dei 30.000 ferrovieri delle Myanmar Railways sono in sciopero, si trovano in prima linea e stanno subendo un forte attacco della polizia e dell’esercito.

Anche la borghesia liberale e il suo circo di partiti si oppongono ai militari.

Le manifestazioni sono state poco organizzate ma massicce nel numero di partecipanti, simili alle proteste del BLM negli Stati Uniti, alle manifestazioni democratiche in Perù e Hong Kong, o alle proteste dei Gilet Gialli in Francia.

La classe operaia è reattiva ma inconsapevole della possibilità di un’azione su più larga scala. Rimane intrappolata, in mancanza di organizzazioni sindacali e di partito, in una attività spontanea facilmente controllabile tagliando la connessione ai media sociali: la borghesia le porta via i suoi giocattoli non appena la classe operaia pretenderebbe usarli per sé.

Tuttavia, la rabbia e la disperazione che scaturiscono dalle condizioni dei lavoratori li spingono a scendere in piazza e a protestare contro il colpo di Stato. Un conflitto che è stato sanguinoso, con centinaia di morti nelle manifestazioni.

Attualmente la classe operaia anche in Birmania si batte a difesa della “democrazia”, sotto le sue parole è incanalata gran parte della sua energia.

La democrazia è sì un travestimento del regime borghese. Ma i lavoratori birmani obiettano che se la giunta militare arrivasse alla guida incontrastata dello Stato i loro sindacati sarebbero presto proibiti, come già è stato nel recente passato. Un operaio dell’abbigliamento e organizzatore sindacale afferma: «Stiamo combattendo in tutto il paese. Se vinceranno i vertici dell’esercito non ci saranno più sindacati. E se ci saranno non saranno veri sindacati: il governo si introietterà e diventeranno solo una finzione. I lavoratori vogliono la democrazia perché sappiamo questo, e non vogliamo subirlo passivamente. Abbiamo bisogno della libertà di rivendicare i nostri diritti: protezione e difesa dei nostri interessi. Solo la democrazia ce lo può concedere».

È con questi argomenti che la borghesia liberale birmana riesce a risospingere le manifestazioni della classe operaia nelle braccia dello Stato, dal quale si illude di poter ottenere la protezione per le sue organizzazioni. Ma il proletariato non può affidarsi allo Stato borghese, come anche la storia del crescente movimento operaio in Birmania ha dimostrato.

Per decenni, benché la giunta militare sia stata in grado di spingere la rete delle organizzazioni sindacali nella illegalità, non è riuscita però a impedire alla classe operaia di agire spontaneamente in difesa delle proprie condizioni.

È vero che durante l’ondata di scioperi del 2009 lo Stato mantenne isolato il movimento nei luoghi di lavoro, impedendo al proletariato di unirsi per coordinare la propria attività a scala nazionale e fu privato della sua rappresentanza fino al ritorno al governo della borghesia liberale.

Ma anche quando prospera la borghesia liberale, o quando, come ora, fa appello al “ritorno della democrazia”, l’affluenza di disparate organizzazioni della classe operaia al movimento per la legalità illustra la forza della borghesia di controllare in ogni senso la direzione dell’azione della classe operaia. È stata sì la democrazia che ha permesso ai sindacati di diventare istituzioni legali, ma così trascinando la classe operaia al servizio della borghesia e del regime del suo sfruttamento.

Così la classe operaia ha sofferto ugualmente sotto la “protezione” della borghesia liberale.

Quando nel marzo del 2020 la borghesia democratica ha tenuto il suo periodico convegno con le “parti sociali”, i rappresentanti dei lavoratori e dei padroni, le richieste dei sindacati di chiudere le fabbriche per impedire la diffusione del Covid, mantenendo i salari, sono state respinte e il governo ha utilizzato queste “libere” riunioni solo per garantire che la produzione continuasse indisturbata. Che si tratti dei militari o della LND, entrambe le fazioni sono fedeli al capitale e alla sua fonte di ricchezza.

Una sorgente di ricchezza mantenuta copiosa da un rapporto di sottomissione sempre dei lavoratori alle classi dominanti. Questo rapporto, che implica il dispendio e il sacrificio di vite umane per la creazione di profitti e l’espansione infinita del capitale, è attuato da tutte le borghesie di ogni paese del pianeta. Al mantenimento di questa soggezione tutti i settori della borghesia birmana sono uniti.

Impegnare la classe nella lotta per la democrazia al fianco di una fazione della classe dominante è una attività di Sisifo che ha il solo scopo ed effetto di sfiancarla, riportandola ogni volta alle condizioni di un conflitto inter-borghese. Le diverse fazioni della borghesia continuano i loro finti duelli, preoccupate solo di come spartirsi il frutto dell’umanità lavoratrice.

Quello che è successo dopo il 2009 in Birmania potrà quindi succedere anche dopo queste proteste. Una vera ed efficace azione di classe può essere raggiunta solo attraverso un’organizzazione coordinata. È questo qualcosa che va contro gli interessi sia della borghesia liberale sia dei militari, e va anche contro gli interessi di tutta la borghesia internazionale. La classe operaia potrà esprimere la sua forza solo quando scenderà in piazza senza riporre la sua fiducia nelle macchina dello Stato borghese.

La classe operaia birmana si batte in modo ammirevole, e lo fa perché sa che qualcosa deve cambiare. Ma il cambiamento non può trovarsi nella democrazia del governo ma in un’azione internazionale unita e coordinata che rovesci il dominio del capitale in tutto il pianeta. Il coordinamento necessario per sfidare questa situazione, non si trova a livello delle nazioni, ma a dimensione internazionale. Si trova nel partito di classe del proletariato, alla testa della lotta internazionale per il comunismo.


Lotte di potere fra borghesi in Thailandia

La falsa alternanza tra un regime politico democratico e uno autoritario o fascista è utilizzata dalla borghesia di ogni latitudine per mantenere il suo dominio di classe, ricorrendo in ogni crisi sociale alla soluzione opportuna. Non diversamente si svolge l’attuale cambio di governo che ormai da più di un anno agita la Thailandia.

Contro il potere dei militari, che vantano anch’essi il consenso popolare, l’opposizione democratica è protagonista di grandi manifestazioni per ottenere una riforma costituzionale, la limitazione dei poteri della monarchia e le dimissioni del governo. Il che mantiene la lotta sociale in corso entro i limiti dell’ordine borghese.

A differenza dei vicini, la Thailandia non ha mai subito la colonizzazione straniera e, nonostante le concessioni ai predatori europei, il Regno del Siam, questo il vecchio nome del paese, è riuscito a mantenersi indipendente. La borghesia locale non fu quindi mai impegnata nella lotta rivoluzionaria per cacciare lo straniero e fondare il proprio Stato nazionale. Dedita ai propri affari, ha lasciato la direzione dello Stato nelle mani della monarchia prima e dei militari dopo.

Dalla fine della seconda guerra mondiale si è posta sotto la protezione dell’imperialismo americano, cui occorreva un fedele alleato, da coprire di dollari, per contenere l’espansione dei suoi nemici nell’area che sventolavano la bandiera del falso comunismo.

Questa ristretta classe capitalista di mercanti e industriali, che controlla buona parte dell’economia nazionale, è rimasta sempre leale ai regimi militari, e alla monarchia, e per ben quattro decenni, tutto il periodo della cosiddetta guerra fredda, è restata al servizio dell’imperialismo americano. Questo ha garantito alla Thailandia una certa stabilità politica, preservando il paese dalle tragedie che hanno sconvolto la penisola indocinese, e permettendo una notevole crescita economica, ma di cui hanno beneficiato in maniera esclusiva poche famiglie della grande borghesia.

I militari, dal 1932, quando un colpo di Stato impose una costituzione alla monarchia, svolgono un ruolo politico centrale. Da allora si contano ben 13 colpi di Stato. Ma i tentativi di conversione democratica dei vari governi militari che si sono succeduti hanno sempre comportato soltanto un cambio di forma nella gestione del potere, sempre garantendo gli interessi economici, le prerogative istituzionali e i privilegi di militari e monarchia, pronti sempre a intervenire con un nuovo colpo di Stato a salvaguardia delle proprie posizioni.

Gli interessi dei militari sono strettamente legati sia a quelli dell’apparato dello Stato e di Corte, sia dell’industria. I dollari americani tramite la casta dei generali hanno finanziato l’istallazione nel paese di fabbriche di marchi del capitalismo USA, e molti di loro a fine carriera, dismessa l’uniforme, si sono trasformati in uomini d’affari, mantenendo solidi legami con i vecchi compagni dell’esercito.

Ma, verso la fine degli anni Novanta, con le trasformazioni subite anche dall’economia thailandese, si è fatto strada un nuovo tipo di borghese, ben rappresentato dalla figura di Thaksin Shinawatra che, da ufficiale di polizia, divenne un grande magnate delle telecomunicazioni. Attorno alla sua figura si sono radunati i settori della borghesia thailandese in contesa con le vecchie élite. In questo scontro tra fazioni borghesi, il nuovo partito fondato da Shinawatra, il Thai Rak Thai, si proponeva come referente anche per tutti i settori e strati della società thailandese finora esclusi dallo sviluppo del paese, in particolare la piccola borghesia e i contadini delle regioni più povere. Una serie di promesse elettorali, basate su progetti di sviluppo e piani di welfare, servirono per costruire il sostegno popolare attorno al nuovo partito, che vinse le elezioni nel 2001.

Ovviamente, questa vasta coalizione di interessi diversi non andava a minare le fondamenta del capitalismo. Furono solo adottati dei provvedimenti che introducevano dei benefici economici per la piccola borghesia e i contadini, prestiti agevolati agli agricoltori, ai villaggi e alle piccole e medie imprese e alcune elementari forme di assistenza sociale, finora quasi sconosciute nel paese, favorendo, per esempio, l’accesso ai servizi sanitari a prezzi ridotti.

Il Thai Rak Thai consolidò così il proprio consenso soprattutto tra i contadini, la cui produzione di riso fu comprata, a prezzi bassi, e poi esportata, andando a costituire la principale entrata economica del paese, sostenendo l’industrializzazione. Ma il partito si radicò in aree fino ad allora dimenticate dai governi di Bangkok, come nel povero e popoloso nord-est, da sempre serbatoio di manodopera a basso costo affluita a Bangkok e nelle altre industriose città centro-meridionali. Fu così che il Thai Rak Thai ottenne una seconda vittoria elettorale nel 2005, con percentuali altissime in alcune regioni del nord.

Questa politica di riforme mise in allarme sia l’alta borghesia di Bangkok, insidiata nei suoi consolidati vasti interessi economici, sia l’apparato militare e la monarchia, la cui legittimità era minacciata da un governo democraticamente eletto e dal forte consenso popolare. Un colpo di Stato nel settembre del 2006 pose fine al governo di Shinawatra.

Contro il colpo di Stato nacque una coalizione di forze politiche, il Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura, che guidò il vasto movimento popolare delle “camicie rosse”. Questo era espressione del malessere degli strati piccolo borghesi e contadini, in particolare del nord e nord-est, ma anche operai, che già si erano schierati a sostegno del governo di Shinawatra.

I ceti rivali reagirono sostenendo la formazione del movimento delle “camicie gialle”, dalla ideologia ultra-monarchica e conservatrice, già attive contro il governo di Shinawatra. Ne scaturì un periodo di instabilità politica, caratterizzato da violenti scontri tra le due fazioni, che alla fine si concluse con il colpo di Stato del 2014.

Questo ennesimo pronunciamento sanciva il fatto che anche in Thailandia, pur “vinte” le elezioni, facendo promesse alla popolazione contadina e operaia, non si riesce a governare senza l’appoggio della grande borghesia. Nel momento in cui sale la tensione, nel paese intervengono i militari, con la monarchia a dare copertura.

L’esperienza del movimento delle “camicie rosse” insegnava che i movimenti di protesta contro il regime militare, espressione del malessere sociale della piccola borghesia urbana e rurale e del proletariato, sono diretti da ceti borghesi in opposizione alle vecchie caste, quindi incanalati entro un orizzonte, formalmente democratico, tutt’altro che mosso a scardinare le basi dell’oppressione sociale. In un contesto di lotta tra fazioni borghesi per la spartizione del potere, il proletariato è utilizzato da questa o quella banda per interessi non propri.

Quest’ultimo colpo di Stato del 2014 ha portato al potere il generale Prayut, il cui regime dura tuttora. Il governo ha pure utilizzato, nel 2019, lo strumento elettorale per garantirsi una parvenza di legittimazione democratica, ma si era preparato il terreno con una precedente riforma costituzionale che prevedeva 250 senatori nominati direttamente dai vertici dell’esercito. Per la maggioranza nell’altra Camera ha provveduto la Commissione Elettorale, nominata anch’essa dai militari, che ha ribaltato il risultato elettorale, favorevole alle opposizioni, con un “riconteggio” dei voti. Tra i partiti dell’opposizione oltre sei milioni di voti li aveva ottenuti il neonato Partito del Futuro Nuovo: è stato sciolto dalla Corte Costituzionale il 21 febbraio 2020.

Da qui l’inizio delle prime proteste con richieste come lo scioglimento del Parlamento, nuove elezioni, la fine della repressione e un effettivo ripristino delle libertà personali, modifiche alla Costituzione e radicale riforma della monarchia con tagli ai privilegi del re. In breve, la richiesta della democrazia con la fine dell’ingerenza dei militari. Questa prima ondata di proteste ha avuto luogo quasi esclusivamente nelle università. Un po’ come il movimento di Hong Kong, anche qui lo studentame non va oltre le parole d’ordine democratiche, e d’altronde non può farlo dato che non rappresenta una classe ma uno strato sociale che non ha un proprio programma.

In questo scenario ha fatto irruzione la crisi economica che sta colpendo il capitalismo mondiale. La sua avanzata, aggravata dalla pandemia, dal secondo trimestre del 2020 ha colpito particolarmente la Thailandia. Le chiusure per l’emergenza pandemica hanno gettato nella miseria una parte consistente della popolazione, borghesi e proletari colpiti dal cessare dei flussi turistici, che costituiscono una importante risorsa nel paese, con i lavoratori ad ingrossare la massa dei disoccupati.

Era inevitabile che il malessere sociale ingrossasse il movimento contro il regime. A partire dallo scorso luglio le proteste hanno avuto molto più seguito di quelle della prima ondata di fine febbraio, con decine di migliaia di manifestanti, e anche più radicali nelle forme. Ma non ne è mutata la direzione piccolo borghese che contro la crisi economica del mondo del capitale si limita a diffondere la convinzione che un diverso governo, di stampo democratico, possa risolvere i problemi che sempre attanagliano ogni società borghese.

Una terza ondata di proteste è iniziata nel febbraio 2021, dopo che una serie di misure per fronteggiare la pandemia avevano fermato il movimento, ma con partecipazione decisamente minore rispetto ai mesi precedenti. Permane il carattere e l’indirizzo democratico del movimento, che si scaglia solo contro il regime militare, il sistema politico corrotto e la decadente monarchia.

Però, oltre le aspirazioni democratiche dei cosiddetti giovani e degli studenti, è il deteriorarsi della situazione economica che mette in moto le classi sociali. Nel 2020 la Thailandia ha registrato la peggiore recessione nel paese dai tempi della crisi asiatica nel 1997-98. Secondo uno studio della Banca Mondiale, nel 2020 almeno 1,5 milioni di thailandesi sono finiti in povertà, andandosi ad aggiungere ai 3,7 milioni registrati nel 2019, portando i bisognosi a quasi un decimo della popolazione. Particolarmente difficile è la condizione dei giovani proletari tra i 15 e i 24 anni, dei quali circa la metà sono senza lavoro. A rendere incerte le stime della futura ripresa c’è anche l’incognita delle misure di contenimento della pandemia che potrebbero determinare un minore afflusso di turisti.

Queste difficoltà potrebbero andare a rafforzare la penetrazione economica e politica della Cina, che mantiene nel paese forti interessi e che col regime vanta buone relazioni diplomatiche e militari. La Cina accrescerebbe la sua influenza tramite gli investimenti legati alla Via della Seta, ai quali si è aggiunta l’importante intesa commerciale asiatica, il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), cui aderiscono tanto la Cina quanto la Thailandia. Questa strategia, come in tutta l’area, tende a sostituirsi alla presenza americana.

Per questo le manifestazioni contro il regime hanno assunto anche toni anticinesi. Il movimento thailandese si pone sulla stessa strada battuta a Hong Kong, sfidando il governo anche per i legami con la Cina, con l’obiettivo di combatterne l’influenza. Contro Pechino si muove la cosiddetta Milk Tea Alliance, una sorta di rete transnazionale che lega attivisti in lotta contro i rispettivi governi, quello cinese e quello thailandese, e per la democrazia. Un movimento, quindi, a finalità borghesi, che si schiera apertamente con un fronte imperiale contro l’altro.

In questo contesto, per ora, il grande assente è il proletariato. In Thailandia non mancano certamente quelle sostanze infiammabili che potrebbero far tremare le fondamenta della società. Ma fino a quando il proletariato non si darà propri strumenti di lotta, indipendenti dalle fazioni borghesi e svincolati dalle mezze classi, finché i proletari non si organizzeranno in sindacati classisti e troveranno la guida del Partito e del programma rivoluzionario, le proteste che scuotono la pace sociale, benché partecipate e radicali, avranno un epilogo borghese, con la vittoria di una fazione della classe dominante sull’altra. Fazioni che, anche se temporaneamente rivali, restano ovunque entrambe decise a mantenere il proletariato in catene per la sopravvivenza del capitalismo.

 

 

 

 

 


Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale


L’intervento del partito nelle lotte operaie

Qui di seguito alcuni volantini distribuiti dai compagni del partito in diverse mobilitazioni operaie in Italia a marzo.

La lotta alla Texprint di Prato

Il primo volantino qui di seguito pubblicato è stato distribuito sabato 20 marzo a Prato, in occasione di una assemblea pubblica alla presenza di 150 lavoratori e militanti sindacali, di fronte alla stamperia tessile Texprint, ove gli operai, in gran parte pakistani, sono in sciopero da oltre due mesi. Il volantino è stato tradotto e distribuito anche in urdu.

Tenendo a mente quanto scritto in merito all’azione della procura piacentina, sono interessanti alcuni stralci di una lettera della Texprint pubblicata dal Corriere Fiorentino domenica 28 marzo e intitolata “Non trattiamo con chi commette reati contro di noi”.

Le rivendicazioni sindacali sono definitive “richieste estorsive”. Si ricordi come la procura di Modena avviò il processo al Coordinatore nazionale del SI Cobas con l’accusa di “estorsione”, che poi non resse.

L’interesse, e la psicologia, padronale gli fa apparire la lotta per obiettivi economici condotta con lo sciopero e con i picchetti come una estorsione, perciò illegale. Potremmo opporre che per la classe operaia è parimenti una estorsione costringere un proletario ad un duro lavoro e mal retribuito pena la morte per fame.

La lettera prosegue informando della denuncia fatta dall’azienda nei confronti degli scioperanti definiti “gruppo di facinorosi” per reati fra i quali: violenza privata, sequestro di persona, resistenza a pubblico ufficiale. Tutti legati solo al picchetto dinanzi la fabbrica. La lettera conclude: “Il diritto di sciopero e la tutela dei diritti sono principi fondamentali del nostro Ordinamento e non devono essere oggetto di mistificazioni da parte di soggetti protagonisti di reiterate e gravissime condotte”. Si vede bene quanto lo sciopero, concesso in astratto come un “diritto”, se attuato diventi una “condotta gravissima”.

A fronte dell’attacco padronale alla libertà di sciopero il nostro partito indica quale unica strada per opporvisi quella dell’estensione del suo utilizzo a una platea crescente di lavoratori, unendone le azioni al di sopra delle divisioni fra aziende e categorie e nella pienezza dei mezzi di lotta.

A questo scopo consideriamo fattore favorevole l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale – sindacati di base e opposizioni classiste in Cgil – e di questo coi lavoratori mobilitati dal sindacalismo collaborazionista e di regime.

Questo nostro indirizzo d’azione sindacale è l’unico che meriti l’appellativo di “comunista”.

Unità d’azione della classe operaia, capace di un suo autonomo movimento, non dipendente dal riporre fiducia in forze ad essa esterne. Le dirigenze del sindacalismo di base invece, ogni qual volta si verificano episodi di repressione padronale, ricercano in primo luogo la solidarietà nel mondo degli intellettuali, dello spettacolo, di quello giuridico, nelle istituzioni e nei partiti borghesi, in una parola nella democrazia.

La solidarietà, se sincera, va accolta ma il sindacalismo di classe è tale se dedica ogni suo sforzo a suscitare e cercare quella degli altri lavoratori – delle altre aziende, categorie, organizzazioni sindacali – perché è questa l’unica che conti davvero, in grado di aumentare la forza del movimento di lotta operaia.

Emblematico in tal senso il titolo posto dal SI Cobas a un suo appello a seguito dei fatti di Piacenza: “Firmano le figure più prestigiose dei giuristi democratici, Moni Ovadia e altri intellettuali”.

Anche a Prato, gli sforzi del SI Cobas sono diretti in parte non trascurabile a cercare il sostegno nell’ambito politico istituzionale, tant’è che all’assemblea del 28 marzo è stato fatto intervenire persino un rappresentante del Movimento 5 Stelle.

Alla manifestazione piacentina del SI Cobas del 13 marzo una debolezza è risultata evidente: l’assenza del resto del sindacalismo conflittuale, se non per poche bandiere dell’Adl Cobas e per pochi militanti di altre organizzazioni, presenti però senza le rispettive insegne sindacali.

Questa grave assenza di sostegno è sì da imputarsi alla maggioranza delle dirigenze del sindacalismo conflittuale. Ma ivi compresa quella del SI Cobas, che in questi ultimi anni ha spiccato per condotta ostile e concorrenziale verso le altre organizzazioni sindacali conflittuali, coi suoi dirigenti che in svariate occasioni hanno ripetuto che “il sindacalismo di base è morto”, naturalmente tranne il loro!

Queste condotte dei dirigenti del SI Cobas isolano i lavoratori di questo sindacato e sono di ostacolo alla solidarietà e all’unità fra lavoratori.


Per l’unità d’azione dei lavoratori del sindacalismo di classe
Entro l’Usb

Alcuni segnali positivi si sono avuti nell’Usb. Il secondo volantino che qui pubblichiamo è stato distribuito dai nostri compagni al presidio dei portuali dell’Usb di Genova venerdì 5 marzo, in occasione dello sciopero proclamato da Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrapsorti.

Come evidenziato nel testo, l’Usb – insediatasi fra i portuali genovesi da pochi mesi, dopo che diversi delegati e componenti del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali hanno abbandonato la Cgil – ha aderito allo sciopero, portandovi, com’è corretto, le proprie rivendicazioni.

Purtroppo questo passo nella direzione dell’unità d’azione dei lavoratori è stato compiuto a metà: i portuali dell’Usb infatti non si sono presentati alle cinque del mattino ai varchi insieme ai lavoratori mobilitati dalla triplice ma si sono dati appuntamento direttamente sotto la sede di Confindustria alle 8, dove per le 9 sarebbero dovuti convergere anche gli altri portuali. Ma Cgil Cisl e Uil, la notte prima dello sciopero, hanno deciso di restare ai varchi. Il risultato è stato così una divisione dei lavoratori in sciopero. Per altro l’Usb, al battesimo della sua prima mobilitazione fra i portuali, è riuscita a portare in piazza un bel gruppo di lavoratori e perciò avrebbe avuto solo da guadagnare dall’unirsi agli altri lavoratori ai varchi, mostrando loro di rappresentare una forza reale.

Un altro segnale positivo è stata la pubblicazione, il 18 marzo, di un comunicato del Coordinamento Nazionale dell’Usb Vigili del fuoco, in solidarietà coi lavoratori e i militanti del SI Cobas piacentino. Un atto non di poco conto, considerati i pessimi rapporti fra le due dirigenze confederali e che si è trattato di un comunicato di una intera struttura di categoria. Inoltre il comunicato non è stato “furbesco”, come altri della Usb Logistica, in quanto ha citato esplicitamente il SI Cobas riportando anche uno stralcio di un suo comunicato.

Terzo elemento positivo da segnalare, è stata la decisione dell’Usb di aderire al primo sciopero nazionale dei lavoratori Amazon e della filiera promosso da Cgil, Cisl e Uil per lunedì 22 marzo. L’Usb è il primo sindacato nel magazzino Amazon di Pomezia, dopo che alcuni mesi fa il principale delegato della Cgil ha lasciato quel sindacato.


Lo sciopero in Amazon

Qui il SI Cobas, invece, ha tenuto una posizione ambigua: non ha aderito allo sciopero, asserendo in un comunicato che “è e sarà al fianco di tutti i lavoratori Amazon che vogliono liberarsi dall’oppressione ... indipendentemente dalla loro sigla sindacale di appartenenza. Ma non intende legittimare in alcun modo i tentativi dei vertici confederali di ricrearsi una verginità”. Poi, presumibilmente per voci discordanti al suo interno, ha presenziato con alcuni suoi militanti ai presidi in alcuni magazzini.

Amazon in Italia ha oggi 24 magazzini, 10 mila dipendenti diretti e 30 mila indiretti, assunti cioè dalle aziende (una novantina) cui è affidata in appalto la distribuzione. I dipendenti diretti sono inquadrati con tre diversi contratti nazionali – commercio (ad esempio a Castel S. Giovanni), logistica e multiservizi – e la maggioranza sono assunti a tempo determinato, poi a tempo indeterminato e in somministrazione.

I confederali avevano proclamato lo sciopero l’11 marzo. Il 14 marzo, il SI Cobas ha confermato la decisione di proclamare lo sciopero nazionale di categoria della logistica, insieme all’Adl Cobas, per il 26 marzo.

Il modo migliore per sostenere lo sciopero in Amazon – considerata la presenza ridotta del SI Cobas in questa azienda – sarebbe stato anticipare la mobilitazione nazionale di categoria, per intervenire nei picchetti, portare la solidarietà e relazionarsi coi lavoratori mobilitati da Cgil Cisl e Uil. A Milano è quanto ha fatto il Sol Cobas, riuscendo a radicalizzare il picchetto.

I dirigenti del SI Cobas hanno invece preferito mantenere la data del 26, già indicata alcune settimane prima, privilegiano l’unità d’azione col movimento dei riders (fattorini). Un fatto positivo, ma ci sembra che la ricerca dell’unità coi lavoratori di Amazon sarebbe stata più importante.

Inoltre, una mobilitazione nazionale di categoria nella logistica dovrebbe oggi coinvolgere tutti i sindacati di base presenti in essa, non solo l’Adl Cobas, ma anche Cub, Usb, Sgb, Cobas Lavoro Privato e Sol Cobas, mettendo da parte le passate controversie e quindi la pratica della concorrenza per tesserare lavoratori, anche attraverso accordi aziendali solo per gli iscritti.

La Cub di Torino si è unita alla mobilitazione nazionale del 26 marzo, chiamando allo sciopero per quel giorno i lavoratori del polo logistico AF di Nichelino, che hanno aderito al completo, ottenendo un accordo con alcuni miglioramenti contrattuali.

I sindacati di regime, dal canto loro, hanno svolto la loro parte nel dividere i lavoratori. Il 18 marzo, 4 giorni dopo che il SI Cobas lo aveva proclamato per il 26 marzo, hanno dichiarato un loro sciopero nazionale della logistica per lunedì 29.

Lo sciopero in Amazon è andato in maniera differente nei 24 magazzini presenti in Italia. Per quanto ci è stato possibile sapere, abbastanza bene a Milano, Genova, Castel San Giovanni (Piacenza), Pisa e Firenze. Male a Colleferro, al confine fra la provincia di Rieti e quella di Roma, insieme a quello piacentino il più grande magazzino in Italia.

L’azione sindacale in Italia si inserisce in una serie di agitazioni a livello internazionale: dagli USA, alla Germania, alla Polonia, all’India.

Negli Stati Uniti, a partire da febbraio sono state avviate le votazioni nel magazzino di Bessemer in Alabama, per la formazione di un sindacato. Il 20 febbraio sono state organizzate decine di piccole manifestazioni in giro per il paese a sostegno di questa iniziativa. I nostri compagni hanno distribuito in cinque di esse il volantino qui pubblicato.


Repressione sui portuali genovesi del CALP e dell’USB

Il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali è un organismo di lotta formato 10 anni fa da alcuni portuali, la maggior parte dei quali erano iscritti e delegati della Cgil. Alcuni sono soci lavoratori della CULMV (Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie) – la storica cooperativa dei “camalli”, sorta per gestire l’offerta di lavoro sulle banchine imponendone il monopolio onde difendere i salari – gli altri sono dipendenti dei terminalisti presenti nello scalo genovese.

A fine ottobre 2020 è stato annunciato il passaggio di buona parte dei portuali del CALP dalla Cgil all’Usb. I delegati della CULMV sono rimasti in Cgil. Come qui sopra scritto, il 5 marzo vi è stato l’esordio di lotta dell’Usb in porto, con l’adesione a uno sciopero proclamato da Cgil, Cisl e Uil, contro l’attacco del mondo padronale portuale alla CULMV.

Il 21 marzo i portuali del CALP hanno denunciato di aver subito un’azione repressiva da parte della procura genovese. Ciò era accaduto già il 24 febbraio: la polizia politica ha perquisito gli armadietti negli spogliatoi in porto e le abitazioni. Ciò è accaduto in relazione a due episodi: lo sciopero antimilitarista in porto contro il carico di materiale bellico su una nave saudita il 20 maggio 2019 e gli scontri con la polizia a latere del tentativo di un gruppo fascista di svolgere un comizio nella città.

Il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati per l’Unità della Classe (CLA) ha pubblicato un comunicato di solidarietà – intitolato “La nostra solidarietà ai portuali genovesi del CALP, iscritti e delegati dell’USB, colpiti dalla repressione di Stato” – in cui l’episodio genovese è messo in relazione con quanto accaduto a Piacenza e Prato, ed è inquadrato nel contesto nazionale delle relazioni fra governo, padronato e sindacati di regime.

 

 




Prato, sabato 20 marzo
Saluto agli operai in lotta nel distretto tessile pratese


Operai della Texprint,

la vostra lotta è un grande esempio per tutti i lavoratori, italiani e immigrati, e di tutte le categorie! Le condizioni di lavoro a cui siete sottoposti, voi e tutti i lavoratori tessili pratesi, sono la dimostrazione di come il capitalismo si fondi sullo sfruttamento della classe operaia.

Sono condizioni analoghe a quelle dei braccianti, dei facchini della logistica, degli operai dei macelli e di migliaia di fabbriche, a cui la borghesia condurrebbe tutta la classe lavoratrice se solo non avesse paura di risvegliarne la rabbia, la lotta e l’enorme e invincibile forza.

Per questo, da anni, la classe dominante agisce gradualmente, attaccando la classe operaia con grande accortezza, per indebolirla e frantumarne sempre più l’unità e la forza.

In tutti i paesi, a tal scopo, uno degli strumenti fondamentali dei regimi capitalisti è la divisione dei lavoratori fra autoctoni e immigrati, sia attraverso apposite leggi discriminatorie sia fomentando il razzismo, così da sottoporre a un più intenso sfruttamento i lavoratori immigrati e peggiorare per questa via le condizioni dell’intera classe lavoratrice.

Il fatto che le vostre condizioni di sfruttamento sussistano da decenni per una parte consistente della classe operaia, e che esse tendano a estendersi e ad aggravarsi, dimostra quanto sia carta straccia la tanto decantata carta costituzionale, che funziona sempre laddove sancisce i diritti dei padroni e mai dove dovrebbe tutelare i lavoratori.

La repressione poliziesca degli scioperi organizzati dal SI Cobas, a Prato come a Piacenza e in tutta Italia, è la dimostrazione di quanto la democrazia sia un perfido inganno contro i lavoratori. I lavoratori possono contare solo sulla loro forza, sulle loro organizzazioni sindacali di classe e sul loro partito comunista. Dalle istituzioni democratiche riceveranno solo promesse per ingannarli e bastonate per piegarli.

Il fatto che le condizioni di sfruttamento nel distretto tessile pratese e in tanti altri posti di lavoro e settori produttivi si perpetuino e si aggravino da anni senza che Cgil, Cisl, Uil abbiano mai mosso un dito, dimostra che questi sono sindacati del regime capitalista, inutilizzabili dalla classe lavoratrice per la sua difesa.

Il SI Cobas, che a Prato è riuscito a organizzare gli operai di diverse fabbriche tessili conducendo duri scioperi, ha compiuto un’opera ammirevole e importantissima, dando ai lavoratori uno spiraglio di luce, una via lungo la quale combattere lo sfruttamento.

Per rafforzare la vostra lotta, il vostro sindacato, è necessario spezzare le divisioni imposte dalla borghesia, unendo i lavoratori al di sopra delle divisioni etniche, nazionali, religiose. A Prato è fondamentale riuscire a coinvolgere nella lotta e nella organizzazione sindacale gli operai di tutte le nazionalità, dagli italiani, ai pakistani, ai bengalesi, ai cinesi.

È un compito molto difficile ma assolutamente necessario.

Per i cinesi – che rappresentano la maggioranza dei lavoratori del settore tessile – è ostacolato dai legami che li tengono rinchiusi e oppressi nella galera della loro “comunità nazionale”, che giova solo ai loro padroni.


Compagni, operai,

la lotta sindacale e un vero sindacato di classe sono assolutamente necessari per porre un freno allo sfruttamento e come base per la lotta politica necessaria a eliminarlo del tutto.

A questo scopo è necessario il partito politico della classe lavoratrice: l’autentico partito comunista, che indica come dalla lotta sindacale sia necessario salire alla lotta per la rivoluzione e la dittatura del proletariato, sola via per l’abbattimento del capitalismo e la liberazione della società comunista, senza classi e senza sfruttamento, di cui è già gravida la morente società del capitale.

Proletari di tutti i paesi unitevi!


* * *

Prato, Saturday March 20
Greetings to the workers fighting in the Prato textile district


Texprint workers,

your struggle is a great example for all workers, Italians and immigrants, and of all categories! The working conditions to which you and all the textile workers of Prato are subjected are proof of how capitalism is based on the exploitation of the working class.

These conditions are analogous to those of laborers, logistics porters, slaughterhouse workers and thousands of factories, to which the bourgeoisie would lead the whole working class if only it were not afraid of awakening its anger, struggle and enormous and invincible power.

For this reason, for years, the ruling class has been acting gradually, attacking the working class with great prudence, to weaken it and increasingly shatter its unity and strength.

In all countries, for this purpose, one of the fundamental tools of capitalist regimes is the division of workers between natives and immigrants, both through specific discriminatory laws and by fomenting racism, so as to subject immigrant workers to more intense exploitation and worsen in this way the conditions of the entire working class.

The fact that your conditions of exploitation have existed for decades for a substantial part of the working class, and that they tend to expand and worsen, demonstrates how waste paper the much vaunted constitutional charter is, which always works where it enshrines the rights of the bosses and never where it should protect workers.

The police repression of the strikes organized by SI Cobas, in Prato as in Piacenza and throughout Italy, is the demonstration of how much democracy is a perfidious deception against the workers. The workers can only count on their strength, their class trade union organizations and their revolutionary party. From democratic institutions they will only receive promises to deceive them and beatings to bend them.

The fact that the conditions of exploitation in the Prato textile district and in many other jobs and production sectors have been perpetuating and worsening for years without Cgil, Cisl, Uil ever lifting a finger, demonstrates how these are trade unions of the capitalist regime, unusable by the working class for its defense.

SI Cobas, which in Prato managed to organize the workers of various textile factories by conducting harsh strikes, has done an admirable and very important work, giving workers a glimmer of light, a path along which to fight exploitation.

To strengthen your struggle, your union, it is necessary to break the divisions imposed by the bourgeoisie, uniting the workers above ethnic, national, religious divisions. In Prato it is essential to be able to involve workers of all nationalities, from Italians to Pakistani, Bengalis, Chinese, in the struggle and in the trade union organization.

A very difficult task, hampered for the latter – who represent the majority of workers in the textile sector – by the ties that keep them locked up in the jail of the "national community", which obviously benefits only their bosses, but absolutely necessary.


Comrades, workers,

the trade union struggle and a true class union are absolutely necessary to put a stop to exploitation and as a basis for the political struggle necessary to eliminate it. For this purpose the political party of the working class is necessary: the authentic communist party, which indicates how from the trade union struggle it is necessary to rise to the struggle for the revolution and the dictatorship of the proletariat, the only way for the overthrow of capitalism and the liberation of a communist society, without classes and without exploitation, with which the dying society of capital is already pregnant.


Proletarians of all countries unite!

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سلام ان مزدوروں کو جو جدوجہد کر رہے ہیں پراتو ٹیکسٹائل ضلع میں


ٹیکسٹ پرنٹ مزدوروں
 
آپ کی جدوجہد ایک زبردست مثال ہے سب محنت کشوں کے لئے, ثا ھے وہ اطالوی یہ تارکین وطن,اور سب اقسام کے مزدور! آپ اور باقی سب پراتو کے ٹیکسٹائل مزدوروں کے کام کرنے کےحالات جو ريے گے ہیں وہ اس کا ثبوت ہیں کہ سرمایہ داری نظام محنت کش طبقے کا استحصال پر قائم ہے۔

یہ کام کرنے کے حالات مطابق ہے دیگر مزدوروں, لاجسٹک پورٹرز, ذبح خانہ ورکرز اور ہزاروں فیکٹریاں, یہ حالات مَتوَسط طَبقَہ سب محنت کش طبقے پر نافذ کر د يتا اگر وہ خوفزدہ

نہ ہوتے محنت کش طبقے کے غصے ، جدوجہد اور بے حد اور ناقابل تسخیر طاقت کو بیدار کرنے سے۔

اس وجہ سے, حکومت کرنے والوں کا طبقہ برسوں سے آہستہ آہستہ حملہ کر ر ہا ہے محنت کش طبقے کے اوپر بڑی سمجھداری سے, اسے کمزور کرنے کے لیے اور اس کے اتحاد اور طاقت کو تیزی سے چکنا چور کر ر ہ ہے۔

سب ممالک میں, اس مقصد کے لئے, سرمایہ دارانہ حکومتوں کا ایک بنیادی ذریعہ ہیں مقامی اور تارکین وطن کے مابین مزدوروں کی تقسیم, دونوں مخصوص امتیازی قوانین کے ذریعے اور نسل پرستی کو ترغیب دینے سے تاکہ تارکین وطن ورکرز کا مزید شدید استحصال کیا جاسکے اور اس طرح سا رے محنت کش طبقے کے حالات زیادہ بد تر کیے جا ءيں۔

یہ حقیقت ہے کہ آپ کے استحصال کے حالات دہائیوں سے محنت کش طبقے کے کافی حصے کے لئے موجود ہیں, اور یہ کہ ان کی توسیع اور بدتر ہوتی ہے, اس سے یہ ظاہر ہوتا ہے کہ اس متنازعہ آئینی چارٹر میں کتنا ضائع کیا گیا ہے۔

ہڑتالوں پر پولیس کا جبر ہڑتالیں جو SI Cobas ایس آئی کوباس نے منعقد کیں, پراتو میں جیسے پیاچنزا اور پورے اٹلی میں, یہ اس بات کا مظہر ہے کہ پورٹرز کے خلاف جمہوریت کتنی دھوکہ دہی ہے. پورٹرز صرف اپنی طاقت پر بھروسہ کرسکتے ہیں, ان کی کلاس ٹریڈ یونین تنظیمیں اور ان کی انقلابی پارٹی۔ جمہوری اداروں سے انہیں صرف دھوکہ دینے کے وعدے اور انہیں جھکانے کی پاداش میں مبتلا ہوں گے۔

یہ حقیقت کہ پراٹو ٹیکسٹائل ڈسٹرکٹ میں اور دیگر بہت سے ملازمتوں اور پیداوار کے شعبوں میں استحصال کے حالات سالوں سے مستقل اور خراب ہوتا جارھا ہے

نے بغیر انگلی اٹھائے یہ ظاہر کیا کہ یہ سرمایہ دارانہ حکومت کی ٹریڈ یونینیں ہیں جو اپنے دفاع کے لئے مزدور طبقے کے لئے ناقابل استعمال ہیں۔ Cgil, Cisl, Uil

SI Cobas

جس نے پراٹو میں مختلف ٹیکسٹائل فیکٹریوں کے ورکرز کو سخت ہڑتالوں کے ذریعہ منظم کرنے میں کامیاب رہا نے ایک قابل تعریف اور انتہائی اہم کام کیا ہے, جس سے ورکرز

کو روشنی کی چمک ملی, اس راستے پر استحصال کا مقابلہ کیا جاسکے۔

اپنی یونین,جدوجہد کو مضبوط کرنے کے لیے ضروری ہیں مَتوَسط طَبقَہ کی طرف سے مسلط تقسیم کو توڑ نا، ورکرز کو کو نسلی ، قومی ، مذہبی فرق سے بالا تر کرنے کے لئے متحد کرنا۔

پراتو میں یہ ضروری ہے کہ تمام قومیتوں کے مزدوروں کو شامل کیا جاسکے, اطالوی سے چینی تک, پاکستانیوں کو ، بنگالیوں کو, جدوجہد میں اور ٹریڈ یونین تنظیم۔ ایک بہت ہی مشکل کام ،لیکن بالکل ضروری ہے۔ جو بعد کے لوگوں کے لئے رکاوٹ ہے - جو ٹیکسٹائل کے شعبے میں اکثریت کے مزدوروں کی نمائندگی کرتا ہے - ان تعلقات کی وجہ سے جو

انہیں "قومی برادری" کی جیل میں بند رکھتے ہیں ، جو ظاہر ہے کہ ان کے مالکان کو صرف فائدہ پہنچاتا ہے۔

ساتھی ، مزدوروں,

ٹریڈ یونین کی جدوجہد اور ایک حقیقی کلاس یونین بالکل ضروری ہیں استحصال کو روکنے کے لئے اور اس کے خاتمے کے لئے ضروری سیاسی جدوجہد کی اساس کے طور پر۔ اس مقصد کے لیے محنت کش طبقہ کی سیاسی جماعت ضروری ہے: مستند کمیونسٹ پارٹی, جو اس بات کی نشاندہی کرتا ہے کہ کس طرح ٹریڈ یونین کی جدوجہد سے انقلاب کے لئے جدوجہد کرنا ضروری ہے اور پرولتاریہ کی آمریت, سرمایہ داری کے خاتمے کا واحد راستہ اور ایک کمیونسٹ معاشرے کی آزادی, جس میں کوئی کلاس نہیں ہے اور استحصال کے بغیر ہے، جس سے مردہ سرمایہ دارانہ معاشرہ پہلے ہی سے حاملہ ہے۔

دنیا بھر کے مھنت کشو ايک ہو جاؤ!

پراتو، ہفتہ بیس (20) مارچ 2021









Genova, venerdì 5 marzo
Viva lo sciopero dei portuali !

I lavoratori portuali genovesi sono sotto attacco da parte di tutto il mondo padronale che realizza i suoi profitti con lo sfruttamento del loro lavoro.

La fame di profitto delle imprese è sempre più grande perché la competizione nel capitalismo mondiale è sempre più agguerrita a causa della crisi economica di sovrapproduzione.

Non c’è più spazio, se mai c’è stato, per padroni “buoni”. Né per governi che non siano, più apertamente di quanto non siano sempre stati, anti-operai.

Governi, Stato, padroni e sindacati di regime debbono costantemente concertare e ordire misure per ottenere sempre più produttività, spremere sempre più profitto dal lavoro.

Dicono, per giustificarsi, che ciò sarebbe necessario per il bene dell’azienda e del “nostro” paese, che è il modo con cui la borghesia vuol fare apparire i suoi interessi di classe dominante e privilegiata come comuni alla classe sfruttata dei salariati. Infatti il bene dell’azienda e del paese coincide sempre più con le sofferenze dei lavoratori.

Oggi lo sciopero dei portuali è una prima positiva risposta all’attacco padronale. Proclamato unitariamente da Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti vede l’adesione, con sue proprie rivendicazioni, dell’unico sindacato conflittuale da poco presente in porto, l’Unione Sindacale di Base (Usb).

La scelta dei delegati portuali di Usb è importante perché va nella giusta direzione dell’unità d’azione dei lavoratori, rompendo con l’errata tradizione del sindacalismo di base di boicottaggio degli scioperi promossi dai sindacati collaborazionisti.

Infatti è dall’unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo conflittuale – dei sindacati di base con l’opposizione di classe in Cgil – che nasceranno le condizioni per spezzare il dominio del sindacalismo di regime sui lavoratori e per la rinascita di un autentico sindacato di classe.

Gli atteggiamenti proditori di cui ha dato mostra il padronato nel voler attaccare i lavoratori della Compagnia Unica e tutti i portuali mostrano quale sarà la durezza dello scontro che va profilandosi. Ai lavoratori portuali e al sindacalismo di classe spetta il compito di essere all’altezza di questo scontro.

Tutto sta nel costruire l’unità di lotta dei lavoratori, nel saper abbattere i limiti posti ad essa. Dall’unità dei portuali genovesi si dovrà approdare a quella coi portuali degli altri paesi, se non si vuole essere piegati dalla competizione fra scali messa in atto dalla borghesia internazionale. “Proletari di tutti i paesi unitevi” è la prima e sempre più attuale parola d’ordine dei lavoratori. Una pratica sindacale coerente con essa è il tratto che distingue l’autentico partito comunista dai partiti operai opportunisti.

Nella loro lotta i portuali genovesi e il sindacalismo di classe dovranno confidare tutto nell’unità operaia, da quella sul posto di lavoro a salire fino a quella internazionale, e nulla nel fantomatico aiuto dello Stato, che difenderà sempre gli interessi padronali, essendo questa la macchina statale della classe dominante che i lavoratori dovranno spezzare e sostituire con una loro propria, per liberarsi davvero definitivamente dallo sfruttamento.

 

 

 

 

  



Amazon
“Contare solo sulla nostra forza”
Per un sindacato di classe al magazzino Amazon di Bessemer!
Contro il sindacalismo collaborazionista!

Qui di seguito il volantino che i nostri compagni hanno distribuito in alcune delle piccole ma numerose manifestazioni organizzate negli Stati Uniti il 20 febbraio scorso a sostegno della campagna di sindacalizzazione nei magazzini Amazon, in particolare in quello di Bessemer, in Alabama.

Il titolo originale – “There Will Be No Justice – There is Just Us!” è uno slogan già usato dai lavoratori Amazon in sciopero nel Regno Unito: “Non ci sarà giustizia – Ci siamo solo noi!”. Gioca sulle parole “Justice” e “Just us” e contrappone alla attesa di una “giustizia” – che mai verrà – dall’esterno della classe lavoratrice, secondo la tipica ideologia statolatra del riformismo, la realtà dell’unità e della forza della lotta quale unica arma della classe proletaria.

* * *

Vi si dice che una vittoria dei lavoratori a Bessemer segnerebbe un nuovo inizio per il movimento operaio negli Stati Uniti. Noi ci auguriamo che ciò sia vero e che accada. Ma un secolo e mezzo di esperienza di lotta della classe operaia ci dice che debbono esservi determinate condizioni affinché il sindacato vinca.

Mai abbandonare le armi di lotta della classe lavoratrice, prima fra tutte lo sciopero!

Una reale vittoria può aversi solo se i lavoratori di Bessemer avranno il controllo del loro sindacato e manterranno la libertà e la capacità di scioperare.

Scioperare – con un sindacato, senza un sindacato o contro un sindacato collaborazionista – ha permesso nel 2020 di ottenere sul posto di lavoro più protezioni dalla pandemia. Quando i lavoratori hanno smesso di scioperare e hanno iniziato a credere di ottenere “giustizia” alle elezioni politiche borghesi, i padroni hanno iniziato a revocare i provvedimenti a tutela della salute sui posti di lavoro, con conseguenze fatali.

I lavoratori di Amazon non possono permettersi di limitare la loro lotta. Non può limitarsi al singolo magazzino; né alla singola città, regione o Stato. La lotta operaia non esiste solo in un magazzino. Né nella sola Amazon. Lavoratori di altri magazzini, autisti, portuali, aeroportuali, i salariati dell’intero settore logistico sono in un’unica grande lotta contro i padroni, che li vogliono condannare a una vita in povertà. Per lottare bisogna agire uniti senza alcuna limitazione.

Trasformare le dimostrazioni di solidarietà in azioni di lotta!

I lavoratori possono essere la più grande forza nella società se sanno essere uniti. La formazione di un sindacato in qualsiasi magazzino Amazon, come quello di Bessemer in Alabama, sarebbe un importante passo in avanti verso la trasformazione della forza potenziale dei lavoratori in una reale azione di classe. Ma sarebbe solo il primo passo. La lotta non termina con la formazione del sindacato, in un posto di lavoro, o anche in una singola azienda. Nemmeno si ferma ai confini nazionali. È la lotta della classe lavoratrice internazionale per la sua liberazione, alla quale ora anche i lavoratori di Amazon stanno dando un grande contributo. Per aver successo, hanno bisogno di un sindacato diretto solo dai e per i lavoratori, che li guidi nella lotta per i loro interessi immediati senza compromessi. In una parola i lavoratori in Amazon hanno bisogno di un sindacato di classe.

Costruire un sindacato di classe

In un sindacato di classe gli iscritti prendono le decisioni collettivamente, come lavoratori in una lotta comune. Non c’è posto per autoproclamati dirigenti che decidono per tutti, siano burocrati dei sindacati di regime, scribacchini del Partito Democratico o carrieristi di qualche ONG di sinistra.

Internazionalizzare la lotta: far causa comune coi lavoratori Amazon di Canada, Germania, Italia, Regno Unito

La campagna di sindacalizzazione nei magazzini Amazon negli Stati Uniti è parte di una lotta internazionale che sta crescendo all’interno del gruppo industriale. Lavoratori Amazon in Polonia, Germania, Regno Unito, e Italia hanno già ingaggiato azioni di lotta. I lavoratori Amazon negli Stati Uniti devono stringere legami coi loro compagni negli altri paesi. Ciò permetterà di scambiare esperienze e accrescere la forza nella lotta comune. Ancor più importante, permetterà di condurre lotte unitarie e simultanee al di sopra dei confini nazionali. Amazon è un’azienda internazionale e la lotta operaia deve esserlo altrettanto!

 

 

 

 



Istanbul
Municipali in lotta contro i dirigenti socialdemocratici

Un minuto dopo la mezzanotte del 16 febbraio, a Kadiköy, una delle municipalità di Istanbul, duemila e seicento lavoratori organizzati nella Sezione Anatolica numero 1 del sindacato Genel-Íş (Sindacato Generale dei Lavoratori dei Servizi) – che fa parte della DÍSK (Confederazione dei Sindacati dei Lavoratori Progressisti) – sono entrati in sciopero, dopo sette mesi di infruttuose trattative con la dirigenza.

Il sindacato Genel-Íş non è tollerato nelle municipalità guidate dalla destra, dove è consentita solo la presenza del sindacato Hizmet-Íş, appartenente alla Hak-Íş, la Confederazione dei Sindacati Reali Turchi. Di conseguenza, il Genel-Íş tende a essere presente nelle municipalità guidate dalla sinistra borghese, soprattutto in quelle amministrate dal Partito Popolare Repubblicano, che gioca un ruolo importante entro la DÍSK, molti dei cui dirigenti diventano – terminata la carriera nel sindacato – parlamentari per questo partito.

I lavoratori municipali di Kadiköy hanno perciò dimostrato la loro combattività e determinazione scendendo in sciopero in queste condizioni.

Le dirigenze amministrative delle municipalità di Istanbul guidate dai socialdemocratici hanno dato subito mostra della loro solidarietà di classe fra borghesi, inviando immediatamente netturbini in sostituzione degli scioperanti così da indebolire e spezzare lo sciopero.

I municipali di Kadiköy in sciopero hanno spiegato a questi netturbini mandati per sostituirli che in gioco c’erano gli interessi di tutti i lavoratori comunali, anche visto che almeno altre tre municipalità erano interessate dal rinnovo del contratto di lavoro: Maltepe, Ataşehir e Kartal. Una manifestazione dei lavoratori di tutte le municipalità interessate dal rinnovo contrattuale sarebbe stata un’azione non solo necessaria ma anche a portata di mano.

La notte del 18 febbraio il sindacato ha dichiarato di aver raggiunto un accordo e ha fermato lo sciopero. Un importante dirigente del Partito Popolare Repubblicano era intervenuto per fermare lo sciopero, manovrando con la dirigenza del Genel-Íş per forzare la Sezione Anatolica n. 1 a prendere questa decisione.

Il segretario della sezione sindacale ha spiegato ai lavoratori – in lacrime, letteralmente – i contenuti dell’accordo, presentandolo come una vittoria, sovrastimando e manipolando le cifre, a fronte di un avanzamento salariale assai ridotto.

Pur tradita, la lotta di Kadiköy ha ispirato 1.500 lavoratori della municipalità di Maltepe a seguirne l’esempio. Il loro sciopero è proseguito caparbiamente, superando i tentativi dell’amministrazione comunale di fermarlo, anche con attacchi fisici, fino a che la dirigenza della Sezione Anatolica n. 2 del Genel-Íş anche qui ha siglato un accordo insoddisfacente alle spalle dei lavoratori, per poi intimidirli ammonendoli che se avessero continuato con lo sciopero questo sarebbe divenuto illegale.

Nel frattempo anche i lavoratori delle municipalità di Ataşehir, Kartal e Beşiktaş hanno annunciato l’intenzione di scendere in sciopero entro marzo.

In una dichiarazione di un gruppo di lavoratrici di Kadiköy si legge: «Quanto accaduto ha mostrato chiaramente qual’è la linea del sindacato (...) Il nostro sindacato ha ignorato la volontà dei lavoratori che rappresenta in ragione delle direttive provenienti da un partito politico. Lo sciopero di Kadiköy aveva la potenzialità di diventare un esempio, mettendo in movimento tutti i lavoratori delle municipalità amministrate dal Partito Popolare Repubblicano. Per questa ragione una vittoria dei lavoratori era molto temuta e vi è stato un intervento tempestivo dall’alto per fermare lo sciopero prima possibile».

I dirigenti della DÍSK non sono solo pronti a far diventare questa confederazione sindacale un ulteriore sindacato di regime ma si comportano come se già fosse tale, in linea con gli interessi dei politici socialdemocratici invece che con quelli dei lavoratori.

Tuttavia la DÍSK e gli altri sindacati diretti dalla sinistra borghese rimangono per ora nella gran parte dei casi le uniche organizzazioni cui i lavoratori combattivi possono rivolgersi. Vedremo se riusciranno a impedire che questi sindacati diventino anch’essi definitivamente collaborazionisti e di regime.

Ciò che conta allo stato attuale è che i lavoratori si battano contro l’influenza dei partiti borghesi entro questi sindacati e che ricerchino l’unità d’azione con gli ancora piccoli e deboli sindacati di base presenti in Turchia. Questa è la strada verso la rinascita del grande sindacato di classe di domani.

 

 

 



Spagna

Sindacalismo di classe contro padroni, Stato e sindacati di regime

Nella Spagna, colpita dalla pandemia, il governo ha istituito un confinamento abbastanza rigido durato fino a maggio. Questo ha avuto pesanti conseguenze economiche. Circa 4 milioni di lavoratori – su un totale nazionale di 20 milioni – sono stati messi a riposo “temporaneo”, ma per 800 mila di questi è stato definitivo. Il governo ha istituito un blocco dei licenziamenti, che però, naturalmente, le aziende sono spesso riuscite ad aggirare.

Da maggio le misure di confinamento sono state progressivamente allentate, fino al ritorno alla normalità il 21 giugno. Ciò ha contribuito ad una seconda ondata della pandemia, che ha avuto il suo picco a ottobre. Questa volta le misure di confinamento sono state più morbide: coprifuoco dalle undici di notte alle 6 del mattino, una certa restrizione alla mobilità, limiti agli assembramenti. Il governo ha poi cercato di salvaguardare la stagione commerciale natalizia, altro fattore che ha contribuito a una nuova recrudescenza della pandemia, dopo una parziale flessione a novembre.

I musei e le attrazioni turistiche considerate non essenziali sono stati chiusi durante la prima chiusura e i lavoratori posti temporaneamente a riposo. Alla Sagrada Familia di Barcellona già precedentemente al virus vi era scontento fra i lavoratori, che si erano così organizzati in buon numero in un piccolo sindacato di base, il SUT, Solidaridad y Unidad de los Trabajadores. Il Comitato di Impresa – una sorta di consiglio di fabbrica che in Spagna è previsto per i posti di lavoro con più di 50 lavoratori – era però tutto in mano al sindacato di regime UGT, Union General de Trabajadores.

Anche in Spagna nel sindacalismo di base vi è un dibattito circa la partecipazione o meno a questi organismi di rappresentanza aziendale dei lavoratori. Ad esempio la CNT, Confederaciòn Nacional de Trabajo, a guida anarco-sindacalista, non vi partecipa; il SUT invece sì, pur ritenendo, correttamente, che il centro della vita sindacale non dev’essere l’azienda.

Fra le ragioni principali dello scontento dei lavoratori della Sagrada Familia vi erano i contratti a tempo determinato di tre anni – in violazione della stessa legge – la mancanza di una programmazione dei turni, spesso comunicati o cambiati all’ultimo momento – in violazione al contratto collettivo di categoria – il pagamento del lavoro festivo senza maggiorazione, il costante ritardo nel pagamento dei salari, il divieto per i lavoratori di poter sedersi per l’intero turno di 6 ore.

Alla riapertura ai visitatori le condizioni sono ulteriormente peggiorate: diversi lavoratori erano trasferiti senza alcun preavviso presso altri siti; il lavoro straordinario risultava non essere pagato; non venivano più concessi turni di ferie per permettere il riposo; di diversi errori sulla busta paga l’azienda si rifiutava di dare spiegazioni. Ma la cosa più grave era che solo una piccola porzione dei lavoratori messi a riposo erano richiamati al lavoro, con ciò determinando una pesante aumento dei carichi: per esempio prima della pandemia 40 lavoratori gestivano un afflusso di 1.500-2.000 visitatori l’ora; a settembre l’azienda aveva ridotto i lavoratori a 6 per un afflusso di mille visitatori l’ora, 4 volte tanto.

Il 26 settembre i lavoratori sono scesi in sciopero ad oltranza con tre rivendicazioni: contratto permanente, programmazione dei turni, richiamo di tutti i lavoratori in attività.

L’azienda ha risposto sostituendo gli scioperanti con personale di vigilanza privato. I picchetti sono stati costantemente minacciati dalle forze di polizia, fino a che l’ultimo giorno di apertura del sito, il 7 novembre, ne è scaturito uno scontro violento.

Ne è seguito il nuovo periodo di chiusura in ragione delle misure contro la pandemia fino a che il 16 dicembre l’azienda ha comunicato il licenziamento di 231 lavoratori e il trasferimento di altri 55 su un altro sito, il tutto sulla base di un accordo col Comitato d’Impresa, cioè con l’UGT.

Un piccolo esempio di quanto fasulla e ipocrita si dimostri la democrazia quando i lavoratori tornano alla lotta, con mezzi e strumenti propri del sindacalismo di classe, e come è necessaria una loro più vasta organizzazione.

 

 

 



Pakistan
I dipendenti statali scioperano e bene si difendono

Il 10 febbraio scorso a Islamabad è stato indetto uno sciopero del sindacato All Government Employees Grand Alliance (AGEGA), che organizza i dipendenti federali governativi, sostanzialmente richiedendo un consistente aumento del salario, un’adeguata assistenza sanitaria e ponendosi contro il processo di privatizzazioni.

I lavoratori scesi in piazza hanno marciato verso il circolo della stampa, nonostante il giorno precedente diversi capi sindacali fossero stati arrestati. La loro sede sindacale a Islamabad è stata attaccata dalla polizia che ha fatto uso di lacrimogeni nel tentativo di sgombrare i locali. I lavoratori giunti a difenderla sono stati fatti oggetto di proiettili di gomma. In diversi zone della città vi sono stati aspri scontri tra lavoratori e polizia. Alcune autostrade, come quella del Kashmir, sono state bloccate.

«Un contingente ben armato della polizia, comprese unità antisommossa e del dipartimento antiterrorismo sono stati schierati sul Viale della Costituzione e nella Zona Rossa, e truppe paramilitari negli edifici governativi», questo è quanto scrivono i giornali, e che sono stati sparati oltre mille lacrimogeni. Il ministro degli Interni, rispondendo alle domande dei giornalisti, con sarcasmo e intimidazione dichiarava: «non abbiamo mai usato così tanti gas lacrimogeni, molti altri sono pronti».

Va segnalato come in strada i dipendenti federali della capitale, se hanno trovato la dura repressione del governo, hanno saputo reagire organizzandosi e difendendosi. In duecento sono stati arrestati.

Nel campo borghese, il Pakistan Democratic Movement (PDM) un movimento politico conservatore, oggi schierato contro il governo di Imran Khan, ha cautamente preso le difese dei lavoratori in sciopero descrivendo il loro movimento come contro il “neoliberismo”. La verità è che questa, come le altre organizzazioni delle classi dominanti, non esiteranno, quando ne avranno modo e lo richiederanno le esigenze del Capitale, ad attaccare le condizioni di vita e di lavoro dei salariati.

Il giorno successivo i lavoratori hanno continuato la protesta. Gli uffici federali della capitale sono rimasti chiusi. Altri sindacati, denunciando le violenze, si sono uniti allo sciopero in diverse città del Pakistan. Adesioni si sono registrati nel Nord Waziristan, in Belucistan e nella provincia di Sindh, ma anche in diversi distretti come quello di Dasu Kohistan. In Punjab hanno aderito allo sciopero i dipendenti pubblici di vari ambiti tra cui lavoratori dell’elettricità e delle ferrovie, rappresentati dai rispettivi sindacati. Un numero consistente di scioperi e manifestazioni a favore dei lavoratori brutalmente attaccati dalla polizia che ci mostrano una significativa, quanto fondamentale, solidarietà operaia.

Il giorno dopo, con una fretta inconsueta, il governo ha approvato un aumento di stipendio per i lavoratori federali, a seguito del quale i sindacati hanno posto fine alla protesta a Islamabad. Il salario è stato aumentato fino al 25%. La richiesta iniziale era del 40%. I lavoratori che erano stati imprigionati sono stati rilasciati e le cause legali archiviate. Un risultato dovuto alla lotta e alle adesioni di solidarietà.

Queste giornate sono state una lezione importante per tutta la classe operaia del Pakistan, che dovrà sempre più comprendere quanto la loro unione nella lotta, attraverso sincere e combattive organizzazioni di classe che alimentino la solidarietà operaia, siano condizioni fondamentali per contrapporsi agli attacchi dei governi di ogni colore politico.

 

 

 

 

 


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8 Marzo 2021 - Giornata internazionale delle lavoratrici

Per la liberazione delle donne !
Per il comunismo !

La giornata internazionale delle operaie è una tradizione che risale al 1911. Proposta da Clara Zetkin al Segretariato Internazionale delle Donne dell’Internazionale Socialista come una occasione per rivendicare i diritti delle lavoratrici.

Più di un secolo dopo, la Festa della Donna è stata completamente spogliata del suo contenuto rivoluzionario. Sotto il dilagare delle idee borghesi e piccolo-borghesi, l’8 marzo è diventato una esibizione di aneddoti, dove si celebra il successo di alcune donne “eccezionali” per scaldare i cuori dei moralisti liberali! I media borghesi ci bombardano con ritratti di donne che si sono affermate in ambienti tradizionalmente maschili, fino ad occupare posizioni dirigenti. Cercano di entusiasmarci per la “parità numerica” nei governi e nei parlamenti.

In realtà, le vittorie delle borghesi non lo sono affatto per tutte le donne, tanto meno per quelle della classe operaia. Queste borghesi “eccezionali” hanno solo ottenuto lo stesso potere delle loro controparti maschili nello sfruttare la forza lavoro, delle donne e degli uomini. Il fatto che poche privilegiate siano riuscite a “sfondare” non porta a migliorare le condizioni delle donne in generale. Infatti i salari delle operaie sono sempre inferiori a quelli degli uomini, e occupano posti di lavoro più precari.

Le organizzazioni della classe operaia devono quindi difendere le rivendicazioni delle donne che lavorano, poiché le loro misere condizioni influenzano quelle di tutto il proletariato. Fin dall’inizio della grande industria i capitalisti hanno usato le donne per abbassare i salari, a scapito di tutti i lavoratori.
È solo attraverso il sindacato che le donne hanno potuto migliorare la loro sorte e ottenere lo stesso trattamento degli uomini. L’unità di tutto il proletariato e la lotta rivoluzionaria è quindi essenziale per l’emancipazione delle donne – e di tutta l’umanità.

L’attuale pandemia ha solo peggiorato il problema. Le donne di tutto il mondo sono responsabili dell’istruzione, della cura dei bambini, di garantire la sopravvivenza di tutta la famiglia, e di prendersi cura dei suoi membri anziani.

La pandemia dimostra ancora una volta la necessità della rivendicazione comunista vecchia di quasi due secoli: i lavori domestici possono e debbono essere socializzati.

Ma l’emancipazione della donna non sarà possibile senza la distruzione della famiglia borghese, nella quale la donna ha il ruolo di schiava. La famiglia è uno strumento essenziale per la difesa del sistema capitalista e della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Il movimento femminista si presenta interclassista. Ma la lotta delle donne non deve essere controllato dalla borghesia e dai suoi rappresentanti. Le minime riforme concesse dai capitalisti con la mano sinistra sono presto riprese dalla mano destra non appena giudicano che la situazione economica o sociale non le permette più.

Il primo nemico delle donne non sono gli uomini: lo è il capitale, che doppiamente le sfrutta, come carpisce il sopra-lavoro di tutti gli operai. Il femminismo borghese rivolge le sue armi contro gli uomini in generale invece di incitare le lavoratrici a unirsi contro la classe capitalista.

Compagni, lavoratori, è ora di ristabilire il carattere comunista e rivoluzionario della Giornata Internazionale delle Lavoratrici!

Le operaie sono sempre state in prima linea nelle lotte rivoluzionarie, come hanno dimostrato le eroiche esperienze della Comune di Parigi e della Rivoluzione Russa!

La lotta rivoluzionaria deve continuare fino alla vittoria finale: la dittatura del proletariato.

Solo la rivoluzione proletaria può veramente assicurare l’emancipazione dal capitale delle donne proletarie e di tutta l’umanità!

 

 

 

 



Accordi commerciali fra gli Stati del Pacifico

Dietro gli affari la guerra

Lo scorso 15 novembre, dopo ben 8 anni di trattative, è stato firmato il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un accordo economico-commerciale tra la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, i 10 Paesi dell’ASEAN (Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia, Myanmar, Malesia, Singapore, Brunei, Filippine, Indonesia), l’Australia e la Nuova Zelanda. L’accordo punta a una drastica riduzione dei dazi per le merci circolanti all’interno dell’area, creando in questo modo il blocco commerciale più grande del mondo: i 15 paesi contano 2,2 miliardi di abitanti, producono quasi un terzo del PIL e circa la metà della produzione manifatturiera mondiale. Con il RCEP l’Asia-Pacifico diventa la maggiore area commerciale mondiale, superando l’europea e la nordamericana, e pone le basi di una sua maggiore integrazione con l’aumento della quota del commercio regionale e degli investimenti tra i paesi membri. La prospettiva è quella di un’area commerciale sempre più coesa, come l’Europa o il Nord America, ma di dimensioni più ampie.


L’attrazione cinese

L’attuale crisi economica globale è stata determinante per spingere i 15 paesi asiatici e dell’Oceania alla stipulazione del RCEP. Mentre tutte le economie mondiali hanno subito una pesante recessione nel 2020, la Cina ha registrato una crescita del PIL del 2,3%, con una previsione di superare il 6% nel 2021. Questa migliore prestazione ha permesso alla Cina di incrementare le relazioni economiche con i vicini.

Nonostante l’emergenza sanitaria in corso l’integrazione economica della Cina con i paesi dell’area è evidente, in particolare con i paesi ASEAN, con i quali nel 2020 il commercio è cresciuto divenendo l’ASEAN il primo partner della Cina, superando l’UE. I paesi dell’ASEAN sono anche sempre più dipendenti dalla Cina per gli investimenti, che dal 2013 coinvolgono i paesi del sud-est asiatico nell’ambito della Via della Seta.

Ma i vantaggi di una relazione economica più stretta con la Cina hanno spinto anche le economie rivali dell’Asia orientale, come il Giappone e la Corea del Sud, a concludere accordi di libero scambio con Pechino, prima volta fra questi paesi e base per altri accordi commerciali.

Sempre nella prospettiva di una grande area asiatica di libero scambio avanza la possibilità dell’adesione cinese ad altri accordi, come il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership, CPTPP, il grande accordo commerciale per l’Asia-Pacifico precedente al RCEP, sorto dall’evoluzione del TPP, l’accordo commerciale sponsorizzato dagli Stati Uniti, che escludeva la Cina e che dopo il ritiro degli USA ha visto la sua nascita in una versione con 11 paesi, 7 dei quali ora fanno parte anche del RCEP.

Il fatto che Pechino abbia concluso l’accordo RCEP con paesi come il Giappone e la Corea del Sud, da sempre rivali economici, e non solo, è un grande successo per la Cina, e dimostra che il tentativo dell’imperialismo americano di isolare la potenza cinese non ha la strada spianata. Pechino fa intravedere ai vicini la possibilità di vantaggi economici aprendo una breccia nel muro che gli Stati Uniti vorrebbero costruirle attorno.

A tal fine i cinesi si presentano in contrapposizione alle politiche protezionistiche adottate dagli Stati Uniti negli ultimi anni facendosi alfieri del “multilateralismo” e della “globalizzazione”: il primo ministro cinese Li Keqiang ha definito con soddisfazione l’accordo come una “vittoria del multilateralismo e del libero commercio”, mentre il presidente Xi Jinping ha parlato di una Cina impegnata a “sostenere il sistema multilaterale di scambi commerciali”.

La retorica di una “globalizzazione con caratteristiche cinesi” è determinata dalle esigenze della sua economia: la riduzione delle tariffe doganali favorisce le esportazioni della forte industria cinese. Inoltre un’area asiatica di libero scambio permette a Pechino di diversificare i mercati, rendendola meno dipendente dal resto del mondo.

L’area definita dal RCEP sarà inevitabilmente fortemente influenzata dalla Cina anche perché lo sviluppo del suo consumo interno farà aumentare la quota di merci importate, facendo della Cina il principale paese importatore all’interno del RCEP: una ghiotta opportunità commerciale per tutti i paesi dell’area.

Allettando economicamente i vicini la Cina potrebbe sfruttare la sua preminenza per andare oltre le relazioni commerciali ed estendere l’influenza nell’area con gli ulteriori progetti nell’ambito delle nuove Vie della Seta, come le infrastrutture per i trasporti, l’energia, ecc. Pechino estenderebbe il suo peso politico puntando a un ordine regionale a guida cinese, estromettendo gli altri imperialismi.

Il fatto che i tre principali alleati di Washington nell’area, Giappone, Corea del Sud e Australia, abbiano sottoscritto un accordo che favorisce le aspirazioni cinesi è certo un segnale dell’indebolimento della presa degli Stati Uniti nell’area.

Ma di fatto, la creazione del RCEP, oltre al declino dell’ascendente americano, segna la crescita dell’Asia orientale a motore del capitalismo mondiale.

Se sul piano commerciale è stato il ritiro americano dal TPP a favorire la conclusione del RCEP, la presenza americana in Asia rimane ben salda in termini sia di legami politici con gli Stati sia di presenza militare. Benché minacciato dall’ascesa della potenza cinese regge ancora l’ordine asiatico risultato della seconda guerra mondiale, con gli Stati Uniti nel ruolo di potenza preminente. Infatti le forze armate americane sono presenti con basi nelle isole del Pacifico e lungo una fascia che va dal Giappone all’Australia, passando per la Corea del Sud e le Filippine. Gli Usa riforniscono con ingenti quantitativi di armi Taiwan, accordandole protezione dall’aggressione cinese. Sotto la pretesa difesa della libertà di navigazione le forze aereonavali statunitensi pattugliano le acque del Pacifico e dell’Oceano Indiano, i mari interni e gli stretti.

Per gli americani, se il dispiegamento delle loro armi davanti alle coste della Cina è il principale ostacolo ai progetti della sua egemonia regionale, resta di fondamentale importanza la costruzione di un sistema di alleanze avverse allo Stato di Pechino. Queste relazioni però, come ha reso evidente la stipula dell’accordo commerciale, si dibattono in un aggrovigliato conflitto di mille interessi fra gli altri mostri imperialistici stretti fra la necessità di contrastare l’espansionismo della Cina e di intrattenerci vantaggiose relazioni economiche.

 
India Giappone Australia

Anche l’India ha partecipato ai negoziati sul RCEP, ma il suo ritiro nel 2019, ha nociuto agli altri paesi firmatari che avrebbero gradito la partecipazione indiana al RCEP a controbilanciare la forte influenza cinese. Il motivo della rinuncia riguarda la preoccupazione per il mercato interno indiano, minacciato dall’invasione di prodotti stranieri a basso costo, mettendo a rischio il vasto tessuto economico-sociale costituito da piccoli e medi imprenditori. L’India rinunciando al RCEP ha cercato di mettersi al riparo dalla maggiore competitività delle aziende cinesi.

A queste preoccupazioni va aggiunta la rivalità politica e militare con la Cina, notevolmente cresciuta ultimamente fino ad arrivare agli scontri armati sulle montagne dell’Himalaya avvenuti lo scorso anno. Quindi, sebbene sia contemplata la possibilità di un successivo ingresso indiano nell’accordo, difficilmente l’India compirà questo passo.

Diversamente dall’India, il Giappone partecipa al RCEP. Nonostante si trovi schierato saldamente con gli Stati Uniti, loro caposaldo fondamentale nella contrapposizione alla Cina, non ha rinunciato ai vantaggi dell’accordo. Benché tra Giappone e Cina ci siano forti tensioni politiche, nonché dispute territoriali per il controllo di isolotti nel Mar cinese orientale, i due paesi intrattengono consistenti relazioni commerciali e l’accordo va a rafforzare la penetrazione dei prodotti giapponesi nel mercato cinese. Inoltre il RCEP permette al Giappone di estendere le già vaste relazioni economiche con i paesi ASEAN, bilanciando l’influenza cinese nel Sud-Est asiatico. Storico nemico della Cina e bastione dell’imperialismo americano nell’area, il Giappone non rinuncia alla sponda cinese per il rilancio dell’economia nazionale.

Un discorso simile si può fare per l’Australia, allineata alle posizioni americane per contrastare l’espansionismo cinese fra i paesi del RCEP. Da un punto di vista economico-commerciale per l’Australia è vantaggioso intrattenere relazioni con Pechino: troppo importanti sono gli investimenti cinesi nella sua economia nazionale e il mercato cinese per le sue esportazioni.

Ma i rapporti tra i due paesi sono pessimi. Oltre ad ospitare a Darwin una base militare americana l’Australia è strettamente impegnata con gli USA contro l’ascesa cinese nell’Asia-Pacifico. L’ostilità australiana verso la Cina è tale che nello scorso maggio Pechino ha reagito imponendo vincoli all’importazione di prodotti australiani: prima con tariffe dell’80% sull’orzo, un commercio che vale circa 1,5 miliardi di dollari australiani, ha bloccato l’importazione di carne di manzo, ed è passata poi al carbone, non scaricandolo dalle navi a causa della sua scarsa “qualità ecologica”, il legname e il vino, che l’Australia esporta per il 40% in Cina.

Le perdite per l’economia australiana sono stimate in almeno 19 miliardi di dollari l’anno, ai quali sono da aggiungere altri 28 miliardi qualora si fermasse il flusso dei turisti cinesi, con Pechino che ha avvertito i propri cittadini circa il pericolo di “attacchi razzisti” in Australia. Inoltre Pechino accusa l’Australia di intromissione nei suoi affari interni in relazione alla situazione di Hong Kong, Taiwan e dello Xinjiang. Le rimprovera anche di aver messo al bando il 5G cinese.

Come per il Giappone anche per l’Australia l’orientamento anticinese contrasta con l’importante ruolo della Cina nell’economia nazionale.

L’accordo commerciale di Giappone e Australia col nemico cinese ha prodotto il risultato di spaccare il Quadrilateral Security Dialogue, il cosiddetto gruppo QUAD, cui fanno parte insieme a Stati Uniti e India. Il QUAD si configura come il tentativo dei quattro Stati di raggiungere una maggiore cooperazione nell’Indo-Pacifico per contrastare l’avanzata cinese. Ma è ancora lontano dal divenire una alleanza, una sorta di “NATO asiatica”. Non mancano segnali di un avvicinamento tra i quattro: a novembre hanno condotto una grande esercitazione militare denominata MALABAR, che si svolge annualmente ma che per la prima volta ha visto la contemporanea partecipazione delle forze armate di tutti e quattro gli Stati.

Nonostante Giappone e Australia abbiano deciso di partecipare al RCEP, appena due giorni dopo la firma dell’accordo i due paesi hanno siglato un accordo militare, il Reciprocal Access Agreement (RAA), che regola la presenza delle proprie forze armate nei rispettivi territori, semplifica lo spostamento di armi e attrezzature militari, consente di fare esercitazioni congiunte e potenzialmente anche operazioni sul campo. Prima di questo accordo con l’Australia il Giappone aveva stipulato nel 1960 una intesa simile solo con gli Stati Uniti per consentire la presenza militare americana sul proprio territorio. L’accordo tra Giappone ed Australia è chiaramente rivolto a contrastare le ambizioni cinesi di un’avanzata nell’Indo-Pacifico. La retorica della creazione di una regione Indo-Pacifica “libera e aperta”, come per gli USA, ha il significato di mantenere lo status quo in Asia.

Giappone e Australia continueranno a fare affari con Pechino, perché è indispensabile per le loro economie, ma manterranno la loro fedeltà a Washington, indispensabile alleato per non finire sopraffatti dall’imperialismo cinese.


TPP in versione ridotta

Il RCEP si va a sovrapporre a un altro accordo fra diversi Stati asiatici, il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership, CPTPP, versione ridotta dell’originario Trans Pacific Partnership, TPP.

Quest’ultimo era un progetto di accordo commerciale fra Stati delle due coste del Pacifico: Nuova Zelanda, Australia, Brunei, Singapore, Malesia, Vietnam, Giappone, Canada, Stati Uniti, Messico, Perù, Cile. Suo intento principale sarebbe stato facilitare il commercio tra i paesi aderenti e consolidare la loro partecipazione al mercato internazionale. L’accordo, tuttavia, non è mai stato ratificato.

Vergato nell’ottobre del 2015, il TPP era pronto per la ratifica nel febbraio del 2016. Tuttavia il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump negò la sua firma, nonostante gli Stati Uniti fossero la potenza centrale nell’accordo, dichiarando che avrebbe minato l’economia statunitense, coerentemente con la linea politica allora appena presentata di “mettere l’America al primo posto”. Si produsse uno scontro di opinioni interno alla borghesia statunitense sul fatto se il ritiro dall’accordo le convenisse o meno. Nonostante l’obiettivo apparente dell’accordo fosse ridurre la dipendenza dei firmatari dal commercio cinese e avvicinarli agli Stati Uniti, Trump pretendeva clausole ancora più favorevoli agli USA. Alla fine il ritiro americano portò i restanti convenuti a rinegoziare i termini dell’accordo, dando vita al CPTPP.

Questi nuovi termini hanno attirato l’interesse della Cina, che ha dichiarato di essere disposta ad aderire.

Stati Uniti e Cina si contendono la prevalenza nel CPTPP. Gli stretti alleati degli Stati Uniti, l’Australia e la Nuova Zelanda, si esprimono contro l’inclusione della Cina nel CPTPP, nonostante la loro partecipazione al RCEP. Gli Stati Uniti rientrerebbero nell’accordo se i firmatari fossero disposti a rinegoziarlo secondo le loro condizioni, imponendo alla Cina un lungo processo di “liberalizzazione” della sua economia.

La sovrapposizione e le inconciliabilità fra questi trattati commerciali e finanziari è il prodotto degli attriti tra potenze imperialiste rivali. Ogni borghesia difende i suoi egoistici interessi, spacciati per nazionali. Dietro questi accordi si nasconde il conflitto in preparazione tra i grandi Stati. Le attuali intese che legano le economie del Pacifico non attenuano le tensioni tra gli imperialismi, anzi, i loro contrasti sono destinati ad aumentare con l’aggravarsi della crisi del modo di produzione capitalistico, il cui inevitabile sbocco è la guerra.


L’UE si accoda

La fine del 2020 ha visto anche il raggiungimento di un accordo tra la Cina e l’Unione Europea, con l’annuncio lo scorso 30 dicembre della conclusione dei negoziati, durati anch’essi ben sette anni, sul Comprehensive Agreement on Investment (CAI), un accordo sugli investimenti che andrebbe a sostituire gli accordi bilaterali attualmente in vigore. L’accordo definisce un quadro normativo che garantisce alle parti trasparenza e certezza legale delle condizioni di investimento, proteggendoli da discriminazioni, rafforza le relazioni tra i due blocchi migliorando l’accesso ai rispettivi mercati e aprendo a nuove opportunità di investimento.

Dal punto di vista europeo si parla di una maggiore apertura del mercato cinese alle imprese dei paesi UE, con la rimozione di barriere agli investimenti in settori come la finanza, le telecomunicazioni, la sanità, il mercato delle auto elettriche.

Cina ed Europa sono già assai legate dai commerci: i dati Eurostat riferiti al 2019 attestano uno scambio bilaterale di 560 miliardi di euro, con l’EU che ha esportato in Cina prodotti per 198 miliardi, importandone per 362. Nonostante la pandemia le importazioni dalla Cina sono cresciute del 5,6% nel 2020, e quelle europee del 2,2%. Questi incrementi, parallelamente a una diminuzione degli scambi con gli Stati Uniti, hanno permesso alla Cina di diventare il primo partner commerciale dell’Unione Europea, scavalcando gli USA.

Questo accordo con l’Europa è considerato un nuovo successo diplomatico di Pechino, ottenuto a poche settimane dalla stipula del RCEP. Apre alla Cina la strada a rapporti più stretti con una parte degli imperialismi d’Occidente, umiliati dalla guerra commerciale con gli Stati Uniti, e aggira i tentativi americani di contenimento della sua espansione.

Inoltre il CAI potrebbe favorire l’adesione di altri paesi europei al progetto delle nuove Vie della Seta, legando ancora di più il blocco asiatico a quello europeo.

La crisi economica mondiale, aggravata dalla pandemia, sta colpendo duramente i paesi europei, che non possono fare a meno del mercato cinese. In particolare il capitalismo tedesco ha bisogno del mercato cinese. La Germania, che già oggi è il primo partner commerciale europeo della Cina ha la necessità dello sbocco cinese per i suoi capitali e le sue merci.

È risibile la retorica europea sulle violazioni dei “diritti umani” in Cina, come nel caso degli uiguri nello Xinjiang, pretesto attraverso il quale i capitalisti della UE hanno provato a meglio trattare a loro vantaggio i termini dell’accordo. Il Parlamento europeo aveva votato una risoluzione affinché entrasse a far parte del CAI una clausola contro il lavoro forzato, riferimento alle accuse mosse contro Pechino di usare nei campi di concentramento il lavoro forzato degli uiguri. Ma la Cina, benché respinga le accuse, non ha accettato di inserire la clausola nell’accordo. Ovviamente la UE l’accordo l’ha sottoscritto ugualmente!

Ma l’Europa borghese, sconvolta dalla crisi economica, che guarda alla Cina per sopravvivere, mantiene comunque la fedeltà all’alleato americano. Il risultato è un altro accordo di convenienza, come il RCEP e il CPTPP, che mostra come ogni brigante imperialista giochi su più tavoli al fine di perseguire al meglio i propri interessi nazionali. Oggi i briganti si accordano, ma queste intese rappresentano la “forma pacifica” della lotta tra le potenze imperialiste che, in seguito al mutamento del rapporto tra le loro forze, richiede una diversa spartizione ed è destinata inevitabilmente a sfociare nel conflitto armato.


Una competizione globale

La creazione della maggiore area commerciale mondiale nell’Asia-Pacifico, oltre alla rilevanza in termini economici, rappresenta anche un fattore di primissima importanza storica, effetto della prodigiosa avanzata dell’industrialismo in paesi per secoli inerti nell’arretratezza e nella sottomissione politica ai vecchi imperialismi d’Europa e poi d’America.

La nascita di agguerriti imperialismi in Asia mette in discussione i vecchi equilibri asiatici, incrinando sempre di più i rapporti tra le principali potenze nell’Asia-Pacifico, le cui tensioni sono destinate inevitabilmente ad accrescersi. I movimenti delle grandi potenze in Asia sono il risultato di un ordine regionale non più corrispondente ai rapporti di forza tra gli imperialismi

La presa dell’imperialismo americano sull’Asia, che può vantare un imponente schieramento militare nella regione e può contare ancora su fedeli alleati, è ormai messa in discussione dall’ascesa cinese che punta ad un proprio ordine asiatico.

In mezzo a questi due mostri in lotta dell’imperialismo mondiale se ne muovono di altri agguerriti che hanno i loro particolari interessi nazionali da far valere, dando vita ad un intricato intreccio di accordi, preludio del grande scontro che travolgerà la regione e da lì il mondo.

Sull’Asia-Pacifico si vanno condensando le nubi della prossima guerra generale. La scintilla che darà il via al prossimo massacro potrà partire da aree diverse, Taiwan, il confine indo-cinese, il Medioriente, ma in ogni caso sarà l’Asia-Pacifico il principale fronte del prossimo conflitto, dove i due maggiori imperialismi di Cina e degli Stati Uniti si fronteggeranno direttamente.

Al proletariato internazionale il compito di fermare il prossimo massacro imperialista trasformando la guerra tra gli Stati in guerra tra le classi.

 

 

 

 

 

 



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Il comunismo vive nella nostra scienza rivoluzionaria incorrotta e nel tenace e organico lavoro del partito, al fianco della classe operaia, che ci si riconoscerà nelle battaglie di oggi e nella internazionale sua insurrezione emancipatrice

Riunione generale del partito
in video-conferenza del 29-31 gennaio 2021
[RG 139]


(2/3 - Continua il resoconto dal numero scorso)


Il concetto e la pratica della Dittatura - I Soviet

Sulla natura e le funzioni dei soviet ci sono stati molti travisamenti e da svariate direzioni. Il nostro giornale “Il Soviet”, il 15 aprile 1919, scrive che «Il sovietismo non è un guazzabuglio di sindacati (...) ma il carattere dell’organismo è politico».

Allora in Italia, ad eccezione dei nostri compagni della sinistra, pochissimi avevano compreso cosa fossero i soviet, scambiati spesso per organismi sindacali o per una nuova e miracolosa formula organizzativa. Solo noi comunisti abbiamo detto che l’organo della dittatura del proletariato è il Partito, e non il sindacato o altro organismo economico, e non il Soviet. Abbiamo anche detto che il sistema dei soviet non è un governo delle categorie operaie, ma un governo della classe operaia.

Su “Il Soviet” del 4 gennaio 1920 leggiamo: «Sostenere che i consigli operai, prima ancora della caduta della borghesia, siano già organi, non solo di lotta politica, ma di allestimento economico-tecnico del sistema comunista, è un puro e semplice ritorno al gradualismo socialista. Questo, si chiami riformismo o sindacalismo, è definito dall’errore che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico».

Lo Stato del proletariato non trae la sua forza organizzativa da canoni costituzionali e da schemi rappresentativi. Al Secondo Congresso della III Internazionale (luglio-agosto 1920), nelle “Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria”, si afferma la giusta piramide: 1. Il partito, 2. Il soviet, 3. Il sindacato. Il partito deve influenzare e dirigere il soviet.

Leggiamo: «Quando i comunisti tedeschi di “sinistra” (...) dichiarano che “anche il partito deve adattarsi sempre più all’idea dei soviet o assumere carattere proletario” essi vogliono semplicemente dire che il Partito Comunista dovrebbe dissolversi nei soviet, che i soviet sarebbero in grado di sostituirlo. Quest’idea è radicalmente falsa e reazionaria».

Già nel 1905 Lenin vedeva nei soviet una doppia funzione: in quanto organizzazione sindacale rivolta a tutti gli operai, e in quanto organizzazione politica costituente un governo provvisorio in embrione. I soviet più che l’organo di lotta della rivoluzione sono la forma del potere statale rivoluzionario: sono il contenuto della “dittatura democratica degli operai e dei contadini”.

Le forme di organizzazione proletaria possono modificarsi: non possiamo sapere se in futuro accanto al partito e ai sindacati, indispensabili, ci sarà ancora necessità dei soviet o di altri organismi intermedi. Certamente non sono stati un fenomeno locale russo.

Nel nostro testo n. 5 “L’estremismo di Lenin” l’argomento è svolto con estrema chiarezza: «La breve frase di Lenin è questa: “Nello sviluppo spontaneo della lotta nasce la forma sovietica dell’organizzazione. Le discussioni di questo periodo sull’importanza dei soviet preannunciano la grande lotta degli anni 1917-20”. Non concludemmo e non concluderemo a una fede miracolistica nella “nuova forma”, del tipo della consegna: il soviet ha sempre ragione (..) Della prima frase riportata, sulla nascita dei soviet dallo sviluppo spontaneo della lotta, si fa uso per descrivere Lenin come il teorico della “spontaneità”, giusta la quale il partito comunista dovrebbe solo attendere che le masse scoprano o inventino esse le forme della rivoluzione, senza azzardarsi a prevederle prima. Una simile banalità da una parte richiama il modo di pensare dei più fieri nemici di Lenin (...) i revisionisti (...) dall’altra quello degli idealisti come Gramsci, che vedevano Lenin fare gettito del determinismo marxista e inventare forme nuove! I soviet, si dirà, non erano stati profetizzati da nessun teorico (...)

«I soviet sono la forma di organizzazione dello Stato proletario, e si può anche dire la forma costituzionale dello Stato proletario (...) Saremmo nella utopia se descrivessimo le forme di organizzazione della società futura, dello Stato futuro; siamo nella teoria del comunismo scientifico quando descriviamo le forze della rivoluzione e i loro rapporti (...) Teoricamente e in principio lo Stato costituito, nella nostra accezione, è un’arma indispensabile ma passeggera nella storia, come lo sono le classi e le forme organizzative di classe (sindacati, soviet), e solo il partito politico oggi organo di classe può considerarsi eterno come organo umano (di specie). Il partito è definito dal suo contenuto, che è proprio la dottrina storica e l’azione rivoluzionaria; le altre organizzazioni sono definite dalla forma, e possono riempirsi di contenuti diversi.

«Quali infatti le tesi che qui Lenin riduce a sintesi mirabile? – 1. La lotta russa rivelò nella storia la forma soviet nel 1905. – 2. I marxisti rivoluzionari videro nel soviet l’organo del potere proletario, mentre gli opportunisti cercarono di subordinarselo, e vi riuscirono in molti luoghi e tempi, per svuotarlo del contenuto, affermare che sarebbe sparito dopo la lotta, o che potesse coesistere in una repubblica democratica a fianco di un parlamento elettivo. – 3. Non va data la formula del potere ai soviet se questi sono in mano ai menscevichi o simili, ma solo quando conduce al potere del partito comunista. – 4. (II° congresso) Nei paesi occidentali prima della fase di assalto al potere non si devono artificialmente formare i soviet, appunto perché nessuna forma è rivoluzionaria per automatismo.

«I soviet esprimono la dittatura proletaria stabilita nella nostra dottrina prima che sorgesse nella storia (Marx per la Francia 1848 e 1871, in Lenin: “Stato e Rivoluzione”) in quanto non vi accedono, nelle elezioni dalla periferia al centro, i borghesi e i proprietari terrieri. Se a fianco vi fosse una camera elettiva e questa formasse un ministero, i soviet sarebbero una maschera vuota. Ecco la discussione del 1905 che viene verificata dai fatti del 1917! (...) Il soviet (...) sta alla rivoluzione in cui cade il capitalismo come il parlamento costituzionale sta alla rivoluzione in cui cade il feudalesimo. Sono le strutture in cui si ordinano gli Stati usciti dalla rivoluzione che ha distrutto l’antico regime. In questo chiarimento li chiamiamo forme di organizzazione dello Stato, che è cosa diversa dalle forme sociali o modi successivi di produzione (...)

«La visione menscevica e borghese della rivoluzione russa la voleva chiudere in una forma di ingranaggio statale non diversa da quella dei paesi capitalistici: la democrazia elettorale. La visione marxista e bolscevica prevedeva e sapeva che la rivoluzione non si sarebbe fermata che alla vittoria del proletariato, egemonico sulle altre classi povere, e quindi alla sua dittatura.

«Nei nostri studi sulla rivoluzione russa abbiamo ricordato come anche prima del 1903 Lenin proponesse la formula: Dittatura democratica del proletariato e dei contadini. Nel 1917 egli arriva in Russia, e annunzia la formula completa, universale, internazionale, centro della dottrina marxista della rivoluzione: Dittatura del proletariato. Tutta l’opera di Lenin tende a stabilire che la rivoluzione russa non si svolge secondo formule specifiche “locali”, ma al contrario, pur essendo stata per lunghi anni attesa come una ritardata rivoluzione democratica, il fatto che in essa, e sin dalla fase 1905-7, lottano in prima linea le classi lavoratrici, sviluppando nella lotta una forma loro propria, il soviet, la trasferisce in una immediata rivoluzione di classe proletaria, che riempie di sé la nuova forma, e dunque ne fa forma non interclassista, non democratica, non popolare e non populista, ma classista, legata internazionalmente al proletariato di avanguardia, guidata internamente dal partito marxista, e quindi apparsa per riempirsi del contenuto che la teoria rivoluzionaria aveva sicuramente previsto: potere di classe, Stato di classe, dittatura di classe, mete che la storia non raggiunge che quando la classe si è organizzata in partito, come scritto nel Manifesto del 1848.

«E può organizzarsi in classe dominante, per la distruzione della società divisa in classi, perché il potere, lo Stato, la dittatura, sono funzioni del partito. Abbiamo già visto che altra tesi di Lenin, che con lui sempre difendemmo contro i veri infantili, è che il soviet non esclude il partito, come molti in Europa credettero, ma ne esige la presenza e la efficienza, perché è una semplice forma di organizzazione che va riempita del contenuto, e il partito è la forza della storia che sola può arrecarlo.

«Il primo giornale della Sinistra italiana fu “Il Soviet”. Essa si oppose alla proposta di molti massimalisti di fondare i soviet in Italia nel 1919. Essa dichiarò necessario il partito rivoluzionario con una chiara teoria, e liberato dagli opportunisti. Essa sostenne, contro le visioni immediatiste, che i soviet non erano una rete di sindacati o di consigli di azienda, ma il tessuto territoriale e centralizzato del nuovo Stato proletario, la cui ossatura doveva levarsi nella fase della insurrezione. Che erano quindi organi di natura politica, ma la loro struttura aveva bisogno della funzione attiva del partito rivoluzionario, perché la rivoluzione vincesse. E questi insegnamenti, con Lenin, si traevano dalle lezioni russe della storia, calzando in modo perfetto con il disegno classico della nostra dottrina. La realtà apporta le forme, ma la teoria prevede il contenuto, ossia le forze e il loro rapporto e scontro. In questi passi lapidari, se crediamo alla versione tedesca in nostro possesso, Lenin ha adoperato la parola profetizzare: “Le contrastanti discussioni del 1905-7 sulla importanza dei soviet profetizzano le grandi lotte del 1917-20”. Segue il leninismo non chi sbanda e tentenna, ma chi non teme di impegnarsi a profetizzare il futuro».

 


Rapporto della sezione venezuelana

– La crisi nelle Americhe

L’economia latino-americana chiuderà l’anno 2020 con una contrazione del 7,7%, la peggiore in 120 anni. Le Banche Centrali sono indebolite e le monete si svalutano. Le materie prime come il rame, l’argento e la soia hanno mostrato un aumento dei prezzi alla fine del 2020, ma, ad eccezione della Cina, la maggior parte delle grandi economie stanno riducendo il loro consumo e questo aumento dei prezzi è in parte un riflesso dell’indebolimento del dollaro. Il prezzo del petrolio, del bestiame vivo, del caffè, del riso è, al contrario, al ribasso.

Tutto questo andrà a ricadere sui proletari, ma anche sui contadini e su parte della piccola borghesia. Ogni aumento nominale dei salari al di sotto del tasso d’inflazione è in pratica un taglio dei salari, una spinta verso la fame e la miseria. Ed è quello che sta succedendo dall’Argentina a sud, con un presunto governo di sinistra, passando per il Venezuela, dove il governo si proclama socialista e porta il salario minimo a un valore vicino allo zero, fino agli Stati Uniti e al Canada a nord. La riduzione dei salari reali va di pari passo con quello delle pensioni e della copertura sanitaria.

– Le lotte operaie

Il 2021 è iniziato in Venezuela con manifestazioni di lavoratori della scuola e degli Ispettorati del Lavoro, che chiedono aumento dei salari, rispetto del contratto collettivo e migliori condizioni di lavoro.

Domina però ancora il peso dell’azione conciliante e smobilitante dei sindacati. Non ci sono organizzazioni sindacali di base con posizioni combattive e indipendenti dall’influenza dei partiti filogovernativi o di opposizione borghese. Gli scioperi annunciati da vari settori dei lavoratori della Pubblica Amministrazione si sono limitati a dei picchetti con poca forza. Così gruppi di impiegati, operai e professori dell’Università Centrale del Venezuela a Caracas, e lavoratori della Corporación Venezolana de Guayana, aziende che estraggono e lavorano ferro, alluminio e acciaio, nella città di Puerto Ordaz, davanti al complesso siderurgico. Insegnanti e operatori sanitari hanno occupato la piazza Bolívar a Guanare, rifiutando l’aumento del 50% del salario decretato dal capo del governo, il maggior datore di lavoro del paese.

Tutte queste manifestazioni chiedevano aumenti salariali, la discussione e la firma dei contratti collettivi e il rispetto di quelli in vigore in materia di ospedalizzazione, chirurgia e maternità, condizioni di lavoro e igiene. Questi movimenti si propongono di continuare a lottare e hanno invitato i fratelli di classe a unirsi a loro.

I padroni hanno montato la macchina repressiva, come c’era da aspettarsi. I lavoratori dei tribunali sono stati minacciati che sarebbero state aperte delle inchieste su chi avesse partecipato a uno sciopero; contro i lavoratori della scuola e del settore sanitario sono stati emessi richiami; a Caracas non si sono risparmiati nell’esibire l’assedio militare e di polizia, così come nelle principali città del paese.

Il governo, con la giustificazione del rilevamento di diversi casi di infezione dalla variante brasiliana del virus Covid-19, ha imposto restrizioni a riunioni e mobilitazioni con più di 5 persone. Le misure restrittive hanno coinciso con la settimana in cui diversi movimenti di lavoratori avevano annunciato azioni di strada.

Tra i lavoratori venezuelani c’è malcontento per il recente annuncio di un aumento del salario minimo, che sarà ora di 1.800.000 bolivar, equivalente a 0,95 dollari mensili al tasso di cambio ufficiale.

Vi sarebbe l’intenzione del governo di eliminare i contratti collettivi o integrarli in un “Contratto Unico” per i lavoratori del settore pubblico. Lo scopo è evidentemente uguagliarli al peggio. Anche se questo pone le basi per l’unità d’azione dei lavoratori del settore pubblico senza la classica differenziazione per specializzazione o settore di attività.

Attività del partito:

Traduzione in spagnolo delle relazioni presentate nelle riunioni generali e loro pubblicazione su El Partido Comunista - Deciso di passare dalla frequenza di uscita del giornale in lingua spagnola da ogni quatto a ogni tre mesi - Redazione di un articolo in cui si spiega come la borghesia sia riuscita a canalizzare il malcontento operaio verso la fogna elettorale, altro sulle recenti misure economiche adottate a Cuba - Mantenuti i contatti con gruppi di lavoratori del settore pubblico - La regolarità degli incontri fra i compagni ha sofferto per le note difficoltà ambientali, ma sono proseguite le riunioni per la redazione del giornale.



Origini del PCdC e Primo congresso dei comunisti e delle organizzazioni rivoluzionarie dell’Estremo Oriente

Nel gennaio del 1922, su iniziativa dell’Internazionale, si tenne a Mosca il Primo Congresso dei Comunisti e delle Organizzazioni Rivoluzionarie dell’Estremo Oriente, che seguiva a distanza di poco più di un anno il Congresso di Baku, dove si era levato il grido di battaglia dei popoli coloniali e semicoloniali contro la dominazione imperialistica in una lotta comune con il proletariato dei paesi occidentali. Il Congresso vide la partecipazione di delegati provenienti dai principali paesi dell’Estremo Oriente: Cina, Korea, Giappone, India, Mongolia, Indonesia e altre regioni della Russia sovietica. Solo una metà di loro erano comunisti, gli altri appartenevano ad organizzazioni rivoluzionarie nazionaliste, come il Kuomintang in Cina.

Il Congresso si poneva in contrapposizione alla Conferenza di Washington, dove le principali potenze imperialiste si erano riunite per tentare di risolvere i loro contrasti nel Pacifico e trovare un compromesso per continuare lo sfruttamento e l’oppressione dei popoli orientali.

Di fronte ai rapaci interessi degli imperialismi, l’Internazionale Comunista tendeva una mano ai popoli oppressi in Oriente, affermando la solidarietà del comunismo mondiale e del proletariato dei paesi capitalisticamente più sviluppati con i movimenti nazional-rivoluzionari dell’Estremo Oriente, con i quali era necessario stabilire uno stretto legame nella lotta per la rivoluzione mondiale. Nella prospettiva dell’Internazionale, il Congresso dei Lavoratori dell’Estremo Oriente rivestiva una grande importanza: «L’Internazionale Comunista capisce con perfetta chiarezza che l’unione del proletariato avanzato d’Europa e di America con il risveglio delle masse lavoratrici dell’Est è un fatto assolutamente necessario per la nostra vittoria», così come affermato da Zinoviev all’apertura dei lavori congressuali.

Uno dei più importanti rapporti al Congresso fu tenuto da Zinoviev, che delineò la situazione internazionale, i risultati della recente Conferenza di Washington e i compiti dell’Internazionale. Con la fine della prima guerra mondiale i contrasti inter-imperialistici si erano spostati dall’Europa all’Asia, per cui nell’immediato futuro il problema asiatico e dell’Estremo Oriente diveniva prioritario nella politica mondiale. La contesa tra gli imperialismi in Asia rendeva di fondamentale importanza la rivoluzione nei paesi oppressi dell’Estremo Oriente: l’Asia diveniva, quindi, non solo “il perno della politica mondiale”, ma anche “il perno dell’intero movimento di liberazione del proletariato e delle nazioni oppresse”.

Dato il ritardo dello sviluppo capitalistico nei paesi dell’Estremo Oriente, ad eccezione del Giappone, non erano ancora mature le condizioni per una rivoluzione socialista, ma vi era però la concreta possibilità di uno sviluppo di un movimento rivoluzionario nazionale diretto contro l’imperialismo. Si trattava di coordinare ed unire la lotta delle masse oppresse non proletarie dell’Estremo Oriente con il proletariato industriale e agricolo del Giappone. Il movimento rivoluzionario in Estremo Oriente si sarebbe poi dovuto legare alla lotta del proletariato dei paesi occidentali che partecipavano all’oppressione e allo sfruttamento di quei popoli. In sostanza venivano ribadite le Tesi dell’Internazionale che erano state adottate al Secondo Congresso.

Dopo il rapporto di Zinoviev i lavori congressuali proseguirono con sedute dedicate in particolare ad ogni paese. I tre rapporti dedicati alla Cina ne illustrarono la situazione generale della classe operaia e la condizione economica. Fu concesso l’intervento anche a un delegato del Kuomintang, che si soffermò sulla situazione politica nel paese, e alla rappresentante dell’organizzazione delle donne.

Dopo questi rapporti Safarov presentò una relazione sulla posizione dei comunisti nella questione nazionale e coloniale e sulla collaborazione dei comunisti con i partiti nazional-rivoluzionari. Vi si affermava come il capitalismo mondiale avesse la necessità della rapina coloniale, il più importante puntello dell’imperialismo. Come già affermato da Zinoviev, l’Estremo Oriente, rimasto ai margini della competizione imperialistica, era divenuto l’obiettivo delle grandi potenze, bramose di accaparrarsi le sue enormi riserve di materie prime e sfruttare lavoro a basso costo. Ciò rendeva impossibile la liberazione dei paesi coloniali e semi-coloniali attraverso la conciliazione con le grandi potenze.

Mentre in Europa il capitalismo aveva avuto un ruolo rivoluzionario, trasformando i contadini in proletari, nei paesi arretrati come la Cina non ne sviluppava l’industria, anzi ne ritardava lo sviluppo con ogni mezzo, in modo da perpetuare i propri interessi predatori, mantenendo questi paesi nella arretratezza di fornitori di materie prime. A tal fine il capitalismo mondiale si serviva della guerra e delle sue conseguenze per lacerare il potere politico in Cina e spezzare l’integrità del suo territorio. La rovina della nazione era perpetrata fomentando la guerra civile col sostegno ai vari Signori della guerra, tanto che dietro ogni predone militarista c’era un capitalista straniero.

In questo contesto, il principale compito del movimento rivoluzionario in Cina consisteva nell’emancipazione dal dominio straniero. Non solo i comunisti ma tutti i sinceri democratici cinesi avrebbero dovuto criticare in modo implacabile i loro vari politicanti che andavano accordandosi con una delle bande imperialiste, in particolare i molti simpatizzanti dell’America. Condizione indispensabile per l’emancipazione dal giogo straniero era l’intervento delle masse contadine. «Senza il risveglio di queste masse contadine non c’è nessuna speranza di emancipazione nazionale», affermò Safarov.

Per conquistare le masse contadine alla causa della rivoluzione bisognava alzare la bandiera della nazionalizzazione delle terre. “Liberazione della Cina dal giogo straniero”, “nazionalizzazione della terra, “rovesciamento dei Dutsiun” (i Signori della guerra), “istituzione di una singola federazione”, “repubblica democratica”, “introduzione di una tassa uniforme sul reddito” erano gli obiettivi per i quali dovevano lottare le masse lavoratrici cinesi e i loro elementi avanzati.

Ma in Cina stava iniziando la sua avanzata anche il giovane movimento operaio. Questo aveva di fronte il compito di organizzare dei veri sindacati. Non essendo all’ordine del giorno una rivoluzione puramente classista ma doppia, i comunisti dovevano appoggiare il movimento nazionalista rivoluzionario, ma solo nella misura in cui esso non fosse diretto contro il movimento proletario, e nello stesso tempo rafforzare le proprie organizzazioni di classe e mantenere l’autonomia dai partiti democratici e dagli elementi borghesi.

Concludeva Safarov: «Il proletariato rivoluzionario non può prendere in considerazione l’idea sbagliata che noi sosteniamo solamente il movimento proletario delle colonie. I paesi arretrati non possiedono una classe proletaria numerosa. Solo in alleanza con il movimento proletario delle nazioni che opprimono si otterrà la loro libertà. Il risultato della nostra discussione deve essere una chiara visione che le possibilità di vittoria per il movimento rivoluzionario nazionale aumenteranno notevolmente se le masse proletarie svolgeranno un ruolo indipendente in questo movimento, se gli elementi proletari delle nazioni oppresse si affermeranno come capi e alfieri in questa lotta nazional-rivoluzionaria.

Le Tesi che furono approvate, riprendendo quanto esposto nei lavori congressuali, si inserivano nel solco della tradizione marxista e confermavano quanto stabilito al secondo Congresso dell’Internazionale sulla questione nazionale e coloniale, da cui scaturivano chiare consegne per i giovani partiti comunisti dell’Estremo Oriente.

I punti fermi della lotta nei paesi arretrati ribaditi al Congresso del 1922 si possono così sintetizzare: stretta unione tra la lotta proletaria in Occidente per scopi puramente comunisti con i movimenti nazionalisti rivoluzionari dell’Oriente; critica spietata alle esitazioni della borghesia, legata all’imperialismo; difesa dell’autonomia di classe; alleanza del giovane proletariato con le masse contadine; ruolo guida del proletariato nell’alleanza con i contadini.

Ancora agli inizi del 1922 il programma della rivoluzione mondiale guidava i vertici dell’Internazionale e raggiungeva gli sfruttati dell’Estremo Oriente ai quali si chiedeva di unirsi al proletariato d’Occidente in una lotta comune per la vittoria finale sul capitalismo mondiale.



Per una storia dello schiavismo negli USA

Già nel XV secolo i commercianti portoghesi viaggiavano lungo la costa africana occidentale nel tentativo di trovare una rotta più breve per l’India. Scoprirono un’enorme opportunità di profitto nel commercio degli schiavi, acquistando dai capi tribali i prigionieri di guerra.

Il 10 aprile 1606 il re inglese Giacomo I concesse alla società per azioni Virginia Company di Londra una concessione per fondare una colonia in Nord America. La Virginia Company avrebbe fondato Jamestown, importando il nascente modo di produzione borghese nel Nord America. La colonia fu costretta ad affrontare fame e malattie in un ambiente paludoso e infetto. Nel 1610, oltre l’80% della popolazione di Jamestown era morta. Solo la spietata disciplina militare, una forma di comunismo da caserma e l’instaurazione di rapporti commerciali con i nativi Powhatan, salvarono la colonia dalla distruzione.

Stesse condizioni in tutte le colonie della Baia di Chesapeake, con terra abbondante ma difficile da coltivare. Senza disponibilità di manodopera volontaria fu necessario il lavoro forzato. Nel 1619, arrivò nella Colonia della Virginia la prima nave registrata per il trasporto nelle colonie nordamericane britanniche di africani catturati. Non si trattava ancora di schiavitù razziale, ma a contratto temporaneo, con il lavoratore legato al padrone e alla terra tra i quattro e i sette anni, poi, libero, gli sarebbe stato concesso qualche acro per sé. Gli africani non erano ancora visti come “negri”, ma “cristiani”, quindi esenti dalla schiavitù, che nell’Europa feudale e semifeudale era limitata ai non cristiani.

Le concezioni razziali si svilupperanno nelle colonie solo con l’espansione e il radicamento del sistema schiavista.

Nel 1662 la colonia della Virginia stabilì il principio giuridico del partus sequitur ventrem, che decretò che lo status del figlio era ereditato dalla madre. Il figlio di una schiava sarebbe nato schiavo, e, anche se con prevalenza di tratti fisici dei bianchi, sarebbe stato considerato un “negro”.

Nel corso della seconda metà del 1600, le condizioni dei servi e dei piccoli contadini della Virginia Colony si deteriorarono a causa dell’aumento delle tasse da parte del governo coloniale, della concorrenza delle altre colonie, del calo dei prezzi del tabacco e dell’aumento dei beni provenienti dall’Inghilterra, nonché del maltempo e delle incursioni dei nativi.

La condizione dei contadini peggiorò ancora quando nel 1670 il diritto di voto fu limitato ai proprietari terrieri. Nel 1676 si raggiunse il punto di rottura: migliaia di uomini della Virginia, piccoli contadini e servitori a contratto, tanto bianchi quanto neri, si organizzarono in una milizia e fecero irruzione in diversi villaggi di nativi americani. I ribelli si rivoltarono anche contro il governatore e i suoi aristocratici sostenitori. La ribellione, senza capi e disorganizzata, fu schiacciata dalle truppe inglesi. Ma spinse i terrorizzati proprietari terrieri a far leva sul razzismo per dividere le classi lavoratrici.

Quando fu introdotta per la prima volta nelle Americhe la schiavitù aveva un carattere prevalentemente patriarcale, volta alla produzione del tabacco per la sussistenza dello schiavo e del padrone. Seppur brutale, il padrone aveva interesse a preservare la salute dello schiavo. Ma con l’avvento del commercio del cotone la schiavitù sarebbe stata sottomessa alle leggi del mercato mondiale e del modo di produzione capitalistico. La schiavitù avrebbe allora raggiunto una efferatezza finora sconosciuta nelle precedenti società pur fondate sugli schiavi, come bene descritto da Marx nel I Volume del Capitale.

Negli Stati del Nord fra il 1777 e il 1785 la schiavitù iniziò ad esser vietata. Incapace di competere con il lavoro salariato, la schiavitù sembrava essere ormai di impiccio per gli stessi agrari. Ma una invenzione avrebbe cambiato tutto. Nel 1794 Eli Whitney brevettò la macchina sgranatrice per la separazione dei semi dal cotone: prima uno schiavo poteva lavorare solo mezzo chilogrammo di cotone al giorno; con la sgranatrice 50.

Con l’aumento della domanda di cotone da parte dell’industria tessile in rapida crescita in Gran Bretagna il sistema delle piantagioni riprese slancio. Nel 1840 nel Sud degli Stati Uniti cresceva il 60% di cotone del mondo e forniva il 70% del cotone consumato dall’industria tessile britannica. Tra il 1790 e il 1860 la popolazione schiava aumentò di 5 volte, trasformando la composizione etnica del continente nordamericano.

La contraddizione tra il modo di produzione borghese basato sul salariato libero nel Nord e quello schiavo nel Sud sarebbe diventata la questione chiave della repubblica. O permettere la schiavitù, concedendo ai grandi proprietari delle piantagioni un enorme vantaggio sulle piccole fattorie familiari e, raccogliendo enormi rendite e profitti, dirottando investimenti dallo sviluppo dell’industria, oppure proibire la schiavitù, a beneficio dei liberi contadini e degli industriali. Questa competizione di forze economiche si traduceva in uno scontro politico fra borghesia e fondiari, fuori e dentro il Congresso.

Nella borghese repubblica parlamentare confliggevano due partiti: uno “federalista” nel Nord, che puntava alla centralizzazione politica ed economica, con un forte governo federale e la creazione di una unica banca nazionale, a beneficio della borghesia urbana, e un partito “antifederalista” nel Sud, espressione dei proprietari di schiavi e del numero enorme di piccoli contadini, che temeva l’emergere di un’oligarchia finanziaria e si opponeva alla centralizzazione.

L’equilibrio era determinato dagli oscillanti contadini, e dai loro contraddittori interessi: da un lato avversi alle norme federali e all’alta finanza, dall’altro alla schiavitù. Finché rimase lo sfogo dell’espansione territoriale verso ovest i contadini rimasero gli alleati naturali dei proprietari delle piantagioni. Una volta che l’espansione raggiunse le coste del Pacifico e l’offerta di terra diventò limitata, i contadini si trovarono a malamente competere con le grandi piantagioni. Allo stesso tempo le ferrovie vennero a favorire lo smercio dei prodotti dei contadini dell’ovest verso le grandi città dell’est.

Come in ogni società in un’impasse inconciliabile, la lotta si risolse in una guerra civile aperta. Scriveva Marx all’epoca della guerra civile: «L’intero movimento era ed è basato sulla questione degli schiavi. Non nel senso se gli schiavi all’interno degli attuali Stati schiavisti debbano essere emancipati o meno, ma se i venti milioni di americani liberi del Nord debbano subordinarsi a una oligarchia di trecentomila schiavisti; se i vasti territori della Repubblica debbano diventare i vivai degli Stati liberi o della schiavitù; infine, se la politica estera dell’Unione debba prendere la propaganda armata della schiavitù come strumento in tutto il Messico, l’America centrale e meridionale».

La vittoria dell’Unione nella guerra civile portò alla emancipazione di quattro milioni di schiavi afroamericani. La classe dei proprietari di schiavi e delle piantagioni si trasformò in proprietari terrieri borghesi e fu temporaneamente privata del potere politico, poiché il Sud fu messo sotto l’occupazione federale e le legislature degli Stati ribelli furono sciolte.

La ridistribuzione della terra avrebbe potuto creare una grande borghesia e una piccola borghesia negra. Ma solo 400.000 acri confiscati ai fondiari furono distribuiti ai 10.000 liberati, i “quaranta acri e un mulo”, ma presto quasi tutto fu restituito ai vecchi proprietari. La fine della Ricostruzione si intreccia con la perdita del ruolo rivoluzionario della borghesia, che passa dall’abbattimento degli ostacoli dell’economia moderna al Sud alla repressione del nascente movimento proletario alla fine della guerra civile, che già aveva soppresso i sindacati e gli scioperi. Non è un caso che la Ricostruzione si sia dichiarata conclusa lo stesso anno del grande sciopero ferroviario del 1877, che la borghesia represse con violenza selvaggia.

Mentre anche il Sud si industrializzava, si scoprirono interessi comuni tra i banchieri e gli industriali del Nord, che fornivano i capitali, e i proprietari del Sud che fornivano la terra: ormai avevano una causa comune per impedire l’unità dei lavoratori, bianchi e negri, e dei contadini poveri.

I neri liberati caddero in completa povertà e la maggior parte di loro non ebbe altra scelta che continuare a lavorare per i loro ex padroni. Si stabilirono rapporti di mezzadria, dove il proprietario bianco affittava la terra e gli attrezzi al conduttore, che gli ritornava parte del raccolto. Gli alti tassi di interesse e i bassi margini di profitto mantenevano il contadino perennemente in debito con il proprietario tenendolo legato alla terra.

La diffusione della mezzadria determinò una regressione del modo di produzione a un livello semifeudale che agì da freno allo sviluppo delle forze produttive del moderno capitalismo: l’industria su larga scala fondata sul lavoro salariato. Il risultato finale della rivoluzione borghese è la riduzione radicale della percentuale di manodopera impiegata in agricoltura e la generalizzazione della produzione associata, per opera di una classe lavoratrice senza proprietà, basi materiali del comunismo.

Mentre i proprietari delle piantagioni iniziavano una violenta campagna politica per ripristinare il loro dominio sugli Stati del Sud, sorse nel Midwest e nel Sud un movimento politico di contadini e lavoratori poveri contro gli industriali, i banchieri e i proprietari terrieri, noto come Movimento Populista che univa i mezzadri bianchi e neri, i contadini poveri e gli operai rurali e dell’industria, organizzati nel “Partito Popolare”.

Sebbene le sue finalità rimanessero limitate a riforme borghesi e democratiche, e il proletariato americano non si fosse ancora politicamente separato nelle sue finalità e organizzazioni da quelle della piccola borghesia, ciò terrorizzò le classi dominanti che temevano qualsiasi movimento indipendente delle inferiori. I tradizionali circoli al potere, raggruppati intorno ai Democratici, organizzarono una feroce campagna mediatica e organizzazioni paramilitari, la violenza extra-legale e il terrore, per imporre la segregazione, distruggere le comunità nere, privarle del diritto di voto. Quasi tutti i diritti liberal-democratici concessi alla popolazione negra a seguito della guerra civile andarono perduti.

L’evoluzione monopolistica e totalitaria del capitale e dello Stato; la fine della opposizione dei proprietari schiavisti alla borghesia; la rovina dei contadini indipendenti, indebitati con il fondiario e il banchiere; l’industrializzazione e l’intreccio di grandi capitali industriali e fondiari attraverso il capitale finanziario; l’ascesa di cartelli, monopoli e trust, ecc. tutti questi fattori, legati allo sviluppo della grande industria, hanno trasformato la base sociale dello Stato da una coalizione amorfa e atomizzata di borghesi, proprietari di schiavi e liberi contadini, che governavano attraverso assemblee democratiche, in una rete di industriali, dirigenti d’azienda e banchieri fusi in lobbies che governano direttamente attraverso il ramo esecutivo, la cui burocrazia è collegata a queste organizzazioni da mille fili.

La democrazia, come forma politica della dittatura della borghesia, è diventata sempre più un guscio vuoto, privato di qualsiasi contenuto reale, il cui scopo è diventato esclusivamente quello di ingannare le masse. Le vere differenze tra i due partiti svaniranno sempre più, e i dibattiti politici epici e burrascosi del XIX secolo, che riflettevano gli interessi e le prospettive divergenti delle classi dominanti, degenereranno in “duelli spettacolari e senza senso”, come li chiamò Lenin, utili solo a distrarre e abbagliare le classi inferiori.

Il razzismo sanguinario contro i negri da allora ha svolto una doppia funzione al servizio del capitale: ha giustificato la repressione terroristica di una parte significativa della classe operaia, e ha spinto i lavoratori bianchi a identificarsi con la borghesia e lo Stato “dei bianchi”. D’ora in poi la “liberazione dei neri” non si può accompagnare alle idealità, agli interessi e alla forza di una moderna borghesia industriale, ma, contro di essa, in affiancamento al suo storico antagonista: il proletariato comunista!


La questione militare
La guerra civile in Russia

I primi tre importanti compiti del potere sovietico da risolvere fin dai primi giorni furono: 1) estendere l’area controllata attorno a Pietrogrado e Mosca; 2) difendersi il più possibile dagli attacchi dei nemici esterni ed interni, poiché già dal 20 novembre l’atamano cosacco Kaledin aveva dichiarato l’indipendenza dei territori cosacchi del Don, alla cui prima chiamata avevano risposto oltre 2.000 volontari; 3) dare concrete risposte alle richieste materiali e politiche che avevano spinto le masse sfruttate russe alla rivoluzione.

Inoltre era da gestire il grave problema della carenza di alimenti e combustibile nell’approssimarsi dell’inverno, e contrastare gli speculatori.

Le attività nelle prime settimane incalzano e si sviluppano: organizzazione interna del potere; primi accordi per un armistizio, a cui rispondono solo gli Imperi Centrali, interessati a chiudere il fronte orientale per scagliare la loro residua potenza militare sul fronte occidentale, ancora aperto ed incerto; l’invio di distaccamenti della Guardia Rossa a contrastare le formazioni di cosacchi bianchi sul Don, che controllano alcune importanti città.

Viene costituita la Čeka, una Commissione straordinaria con pieni e illimitati poteri, per la caccia e la eliminazione dei nemici della rivoluzione e gli accaparratori di alimentari e combustibile. Composta allora da fidatissimi e integerrimi comunisti, durante il periodo staliniano sarà utilizzata per eliminare la vecchia guardia rivoluzionaria.

La crisi con la Rada ucraina si presenta subito complessa. Allo scoppio della rivoluzione di febbraio a Kiev si era costituito un consiglio centrale (Rada) per la gestione del potere su una vasta area dal Caucaso agli Urali, proclamatasi indipendente anche dal successivo potere bolscevico. Era composta da una maggioranza socialista con forte presenza nazionalista e una minoranza bolscevica. Dopo l’Ottobre annunciò la nascita della repubblica ucraina, pur mantenendo stretti legami col potere bolscevico, in un ambiguo doppio gioco, ostacolando però ogni iniziativa comunista.

Pietrogrado inviò un “Manifesto al popolo ucraino con richieste ultimative alla Rada”, in cui si confermava la politica per l’autodecisione dei popoli oppressi dallo zarismo, ma accusandola di aver disarmato le forze bolsceviche in Ucraina, di aver richiamato dal fronte in modo unilaterale le truppe ucraine creando così una pericolosa disorganizzazione militare, ma soprattutto di favorire il transito delle truppe controrivoluzionarie verso il Don, le cui principali formazioni erano guidate dagli ex comandanti zaristi Kaledin, Kornilov, Denikin e Alekseev. Dava tempo 48 ore per una chiara risposta, nel caso contrario il C.C. bolscevico avrebbe considerato l’Ucraina in stato di guerra contro i bolscevichi.

Le risposte furono così ambigue che Antonov-Ovseenko ricevette l’incarico di sedare con le armi le forze della Rada e quelle delle varie formazioni di cosacchi bianchi. Non era chiaro quali truppe ucraine fossero fedeli alla rivoluzione, sparse in Russia e in Ucraina.

Le forze a disposizione di Ovseenko erano di 15.000 unità, di poco inferiori a quelle nemiche che, anche se molto più esperte, però erano disperse nei vasti territori ucraini e non obbedivano a un comando unitario. Kaledin era il nemico principale su cui occorreva concentrare le forze migliori.

L’ex ufficiale istruttore zarista Artemyevich Muravyov fu nominato Capo di stato maggiore bolscevico, il quale elaborò la strategia di mantenere e affrontare separati i gruppi nemici, formando così tre eserciti indipendenti con differenti obiettivi: il primo doveva dirigere su Novo?erkassk, divenuta il centro dei cosacchi controrivoluzionari, il secondo su Rostov per annientare l’Armata dei Volontari, temuta per la grande esperienza militare, il terzo su Kiev, per rovesciare la Rada. Si contava sulla propaganda bolscevica per attrarre alla rivoluzione le masse e i soldati e creare instabilità tra i controrivoluzionari.

Spostamenti e tattica militare di questi tre eserciti erano affidati alla locale rete ferroviaria che permetteva rapidi movimenti e attacchi anche notturni ed efficaci rifornimenti, di occupare i centri più importanti e tagliare i collegamenti tra gli avversari. Non si ebbe un unico fronte ma una successione continua di piccoli efficaci scontri.

I primi contingenti partirono nel gennaio 1918, a una temperatura sotto zero, da Char’kov, dove si era costituito un governo bolscevico.

All’avanzare delle colonne bolsceviche, esplosero le contraddizioni interne alla Rada, la quale, nel tardivo tentativo di riprendere la via diplomatica, decise di smobilitare parte del suo piccolo esercito e di destituire il nazionalista antibolscevico Petljura da ministro della guerra.

Alle porte di Poltava il 20 gennaio le truppe della Rada opposero una timida resistenza e la più parte di loro disertarono e si unirono ai bolscevichi. Occupata la città Muravyov ordinò una dura repressione dei cadetti e ufficiali fedeli alla Rada.

Due giorni dopo la Rada dichiarò la sua totale indipendenza come Stato sovrano, dandosi così una possibilità di una pace separata con la Germania, considerata l’unica potenza militare in grado di arginare l’avanzata bolscevica, mantenendo però contatti coi Soviet in un doppio gioco. La dura risposta da Pietrogrado fu che avrebbe cessato le operazioni contro l’Ucraina non appena il suo governo fosse trasferito ai soviet ucraini.

La Rada aveva sovrastimato la disponibilità delle sue truppe: solo in 1.200 riuscirono a raggiungere Kiev e a difenderla mentre le 3 colonne bolsceviche avanzavano sulla capitale. Al suo interno scoppiò la rivolta del reggimento Brovary che arrestò i suoi ufficiali e si dichiarò per la rivoluzione. A questi si aggiunsero civili per un totale di circa 2.200 rivoluzionari, ai quali la Rada oppose un numero simile di truppe addestrate. I rivoluzionari nel combattimento si avvicinano al palazzo del governo, il quale richiamò dal fronte le truppe più fidate ed esperte, il che non facilitò l’avanzata bolscevica.

La lotta dei rivoluzionari a Kiev dopo i primi successi subì un arretramento dovuto alla mancanza di rifornimenti e del sostegno delle truppe di Muravyov, bloccate per il sabotaggio di un viadotto ferroviario. Dopo una settimana di duri scontri i rivoluzionari a Kiev furono sconfitti, con la perdita di 1.100 di loro, più le esecuzioni sommarie dei prigionieri. Anche le perdite della Rada furono dichiarate in 900 unità.

Il 6 febbraio Muravyov riuscì a raggiungere Kiev, dove elaborò un piano d’attacco articolato su tre direttrici. Dopo due giorni di combattimenti con uso di artiglieria la Rada decise di evacuare e dirigere verso Zytomyr. La repubblica ucraina era durata 86 giorni.

Muravyov si distinse per le capacità militari e per la feroce repressione contro i nemici della rivoluzione, militari, civili e religiosi: ci furono migliaia di esecuzioni. Commise però l’errore di non inseguire e distruggere quello che restava della Rada, la quale si riorganizzò, contando sull’aiuto degli austroungarici, in attesa di tempi favorevoli alla controffensiva.

Rimanevano ancora numerose sacche di resistenza dei cosacchi bianchi nella regione del Don e del Kuban.

 
(Fine del resoconto della riunione al prossimo numero)









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GameStop
Come il 99% si fa fregare dall’ 1%

All’inizio di quest’anno, le azioni della società GameStop (GME) sono aumentate di valore a un ritmo violento e inaspettato, portando enormi quantità di capitale nelle mani di un gruppo ristretto di pochi trader, intermediari, e strappando miliardi di dollari a un gruppo di hedge fund che avevano scommesso sulla diminuzione del valore azionario di quella società.

La vertiginosa ascesa delle quotazioni di GME non è certo avvenuta per caso. Sulla piattaforma di media sociale Reddit, WallStreetBets, una comunità di day trader, investitori privati operanti nell’arco della giornata di contrattazione, che si fa vanto di rischiare in azioni ad alto rischio/alto rendimento, ha iniziato a notare che diversi hedge fund speculavano al ribasso sulla GME.

Gli utenti di WallStreetBets si sono dati invece ad acquistare azioni GME, aumentando così di molto il loro prezzo e realizzando profitti notevoli, a spese degli hedge fund.

Nel gennaio 2021 GME ha raggiunto il record di 347 dollari per azione, quando il prezzo l’anno precedente era sotto i 3 dollari. Ciò ha suscitato l’attenzione tanto dei media tradizionali quanto sulle piattaforme: chi si lamentavano del disordine e chi applaudiva a quel che veniva descritto come una guerra della “gente comune” contro le “élite parassitarie”.

Fra i più entusiasti coloro che si considerano “socialisti”: hanno acclamato i piccolo-borghesi che stavano rastrellando milioni e hanno incoraggiato i lavoratori a gettare tutto ciò che avevano nella mischia, descrivendo ciò che stava accadendo come “rivoluzionario” e un esempio di “guerra di classe” contro “l’uno per cento”.

Un esame più attento dell’incidente di GameStop rivela quanto è sciocca questa visione romantica.
Innanzitutto, investitori potentissimi hanno a loro volta investito milioni di dollari in azioni GameStop, fra i quali grandi aziende di Wall Street, inclusi alcuni degli odiati hedge fund.

Inoltre, i beneficiari non sono affatto dei proletari, ma coloro che disponevano del capitale necessario per acquistare un gran numero di azioni, vale a dire i day trader che costituiscono il nucleo di WallStreetBets e i grandi investitori che sono saltati sul carro dopo che GME ha iniziato la sua ascesa vertiginosa.

La stupidità di queste cheerleader “socialiste” impallidisce però rispetto all’aspetto peggiore del loro comportamento. In questa che non è altro che una ridistribuzione di ricchezza tra detentori di capitali, sono arrivati al punto di invitare i proletari, e hanno convinto anche di quelli in miseria, a gettare i loro soldi nella bolla speculativa. Mentre un piccolo numero di borghesi ne trarrà enormi profitti, e una manciata di membri della classe lavoratrice ne uscirà con un po’ più di soldini in tasca, come nel caso di qualsiasi bolla speculativa la stragrande maggioranza di chi vi ha investito, in grande maggioranza proletari ingannati dall’ossessivo tam-tam mediatico sull’evento, perderà tutto. Questi “socialisti” evidentemente non lottano contro il capitale e la classe borghese in generale, ma ai grossi titani del commercio e della finanza. Destinatari delle parole e delle proposte di questi “socialisti” sono la piccola borghesia, il cui destino nello sviluppo del capitalismo è precipitare nel proletariato.

L’intera debacle di GameStop ha mostrato in modo lampante il fallimento di chi ha incentrato la propaganda su lo “1%” contro il “99%”, una lotta non per la presa del potere da parte del proletariato e per l’abolizione dei rapporti salariali ma dell’entità amorfa del “popolo” che combatte contro i grandissimi borghesi. Questa visione del mondo è del tutto errata: se la piccola borghesia nelle sue mille forme ha interessi che spesso si oppongono a quelli della grande borghesia, ciò non significa che coincidano con quelli del proletariato, il cui interesse esige l’abolizione prima di tutto della piccola proprietà.

Questo fine è inaccettabile anche per le forme più ardite del radicalismo piccolo borghese, che non anela all’abolizione della propria classe, come è nei fini storici del proletariato, ma all’utopia dell’universalizzazione delle condizioni piccolo borghesi. Ogni “socialista” il cui programma prevede il raggiungimento di obiettivi piccolo borghesi (in questo caso da kamikaze della finanza!) non ha altro da offrire al proletariato se non parole vuote e sciocco attivismo.

Ancora una cosa è chiara: la tattica e la propaganda del movimento operaio non si devono basare su parole d’ordine funzionali a un’ampia coalizione interclassista, ma su quelle che riflettono i rapporti sociali di produzione e la conseguente dinamica di classe. La opposta linea porta solo alla rovina e all’ignominia opportunista.

 

 

 

 

  



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Il concetto di dittatura rivoluzionaria e la sua pratica - con Lenin

(continua dal numero 406)

Rapporto preparato per la riunione di gennaio 2019 ma non esposto per mancanza di tempo e riassunto nella successiva riunione generale.

15. Ancora Marx e Lenin sullo Stato e oltre lo Stato

Una rivoluzione ’pacifica’?

Abbiamo già parlato della deformazione del marxismo in senso riformista e positivista operato dai socialisti della Seconda Internazionale, mirante a negare anzitutto la necessità di una rivoluzione violenta e della dittatura del proletariato. Su “Stato e rivoluzione” Lenin risponde con la sua abituale chiarezza a tali pretestuose argomentazioni:

«Marx limita la sua conclusione al Continente. Questo era comprensibile nel 1871, quando l’Inghilterra era ancora il modello di un paese capitalistico puro, ma senza militarismo e in misura notevole senza burocrazia. Perciò Marx escludeva l’Inghilterra, dove la rivoluzione, e anche una rivoluzione popolare, si presentava ed era allora possibile senza la condizione preliminare della distruzione della “macchina statale già pronta”. Attualmente, nel 1917, nell’epoca della prima grande guerra imperialista, questa riserva di Marx cade: l’Inghilterra e l’America, che erano, in tutto il mondo, le maggiori e le ultime rappresentanti della “libertà” anglosassone per quanto riguarda l’assenza di militarismo e di burocrazia, sono precipitate interamente nel lurido, sanguinoso pantano, comune a tutta Europa, delle istituzioni militari e burocratiche che tutto sottomettono a sé e tutto comprimono. Oggi, in Inghilterra e in America, la “condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare” è la rottura, la distruzione della “macchina statale già pronta” (portata in questi paesi nel 1914-17 a una perfezione “europea”, imperialistica)». Queste ultime citazioni fatte da Lenin provengono dalla lettera di Marx a Kugelmann del 12 aprile 1871, durante la Comune.

Scrive Lenin: «Il concetto di rivoluzione “popolare” sembra strano in bocca a Marx, e i plekhanovisti e i menscevichi russi (...) hanno deformato il marxismo in modo così piattamente liberale che nulla esiste per loro all’infuori dell’antitesi: rivoluzione borghese o rivoluzione proletaria, e anche quest’antitesi è concepita nel modo più scolastico che si possa immaginare (...) Nell’Europa del 1871 il proletariato non formava la maggioranza del popolo in nessun paese del Continente. Una rivoluzione poteva essere “popolare”, mettere in movimento la maggioranza effettiva soltanto a condizione di abbracciare il proletariato e i contadini. Queste due classi costituivano allora il “popolo”. Queste due classi sono unite dal fatto che la “macchina burocratica e militare dello Stato” le opprime, le schiaccia, le sfrutta. Spezzare questa macchina, demolirla, ecco il vero interesse del “popolo”, della maggioranza del popolo, degli operai e della maggioranza dei contadini, ecco la “condizione preliminare” della libera alleanza dei contadini poveri con i proletari. Senza questa alleanza non è possibile una democrazia salda, non è possibile una trasformazione socialista. È noto che la Comune di Parigi si era aperta una strada verso questa alleanza, ma non raggiunse il suo scopo per ragioni di ordine interno ed esterno. Parlando quindi di una “reale rivoluzione popolare”, senza dimenticare affatto le particolarità della piccola borghesia (delle quali parlò molto e spesso), Marx teneva dunque rigorosamente conto dei reali rapporti di forza fra le classi nella maggior parte degli Stati continentali dell’Europa del 1871».


Dogmi e teorie

Sono davvero risibili i borghesi e i loro liberti quando definiscono i comunisti dogmatici, settari e “staccati dalla realtà”. È vero il contrario. Noi comunisti non abbiamo dogmi. Abbiamo una teoria. Il termine deriva dal greco theoria, a sua volta derivato da theorein, che significa contemplare o meditare. Teoria significa quindi studio e analisi della realtà, della storia, in tutto il suo arco. Quando diciamo che la nostra teoria non è modificabile, non è per scarsa dialettica; al contrario il Partito è consapevole che la teoria, pur essendo un prodotto storico, con l’analisi della struttura produttiva e sociale del capitalismo è arrivata alla sua completezza. Questo perché il capitalismo odierno, diverso su mille aspetti secondari rispetto a quello dei tempi di Marx, è identico nella essenza, e le sue leggi, scoperte da Marx, sono valide e lo saranno fino a che esisterà il capitalismo.

I dogmi sono invece tipici della borghesia. Il dogma è un principio assoluto, indiscutibile, a volte frutto di rivelazione divina. Deriva dal greco dokein, che significa sembrare. Quel che ci indica certezza assoluta ha invece il significato originario di apparenza. L’antico filosofo Parmenide contrapponeva la dottrina dell’opinione (doxa) a quella della verità. La borghesia fa collezione di dogmi indimostrati e indimostrabili, e soprattutto smentiti dalla storia.

Uno di questi è che il capitalismo sarebbe apportatore di benessere e di pace, se non per tutti per la maggior parte del genere umano. È fin troppo facile constatare, oggi come ieri, che fame, carestie, malattie e guerre percorrono il mondo come i quattro cavalieri dell’Apocalisse.


Per uno Stato accentrato

Così come non esiste un super-capitalismo diverso nella sua essenza dal capitalismo analizzato da Marx, così non esiste un super-imperialismo diverso da quello analizzato da Lenin, e da lui definito, non certo a caso, fase suprema del capitalismo. Anche negli ultimi decenni c’è stato chi ha farfugliato di un super-imperialismo che tutto vede e tutto controlla, al quale nulla si potrebbe opporre. Logica conseguenza sarebbe il “rompete le righe” e tutti a casa a curare il proprio guicciardiniano “particulare”. Se il borghese nella sua villa può permettersi di maledire il destino cinico e baro per il proletario, immerso nella quotidiana lotta per la sopravvivenza, è più difficile arrivare a tale “stoica” rassegnazione.

Tornando allo scritto di Lenin, nel paragrafo dal titolo “L’organizzazione dell’unità nazionale”, troviamo una citazione di Marx circa la Comune:

«L’unità della nazione non doveva essere spezzata, anzi doveva essere organizzata dalla costituzione comunale, e doveva diventare una realtà attraverso la distruzione di quel potere statale che pretendeva essere l’incarnazione di questa unità, indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non ne era che un’escrescenza parassitaria. Mentre gli organi puramente repressivi del vecchio potere governativo dovevano essere amputati, le sue funzioni legittime dovevano essere strappate a una autorità che usurpava una posizione predominante sulla società stessa, e restituite agli agenti responsabili della società».

Lenin, parlando dello scritto di Bernstein “Le premesse del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”, commenta:

«Proprio a proposito di questo passo di Marx, Bernstein scrisse che questo programma, “per il suo contenuto politico, rivela, in tutti i suoi tratti essenziali, una straordinaria affinità col federalismo di Proudhon”. È semplicemente mostruoso! Confondere le concezioni di Marx sulla “soppressione del potere dello Stato parassitario” col federalismo di Proudhon! Ma non è per caso, giacché all’opportunista non viene nemmeno in mente che Marx qui non parla affatto del federalismo in opposizione al centralismo, ma della demolizione della vecchia macchina dello Stato borghese esistente in tutti i paesi borghesi (...) E Kautsky e Plekhanov, che pretendono di essere marxisti ortodossi e di difendere la dottrina del marxismo rivoluzionario, tacciono su questo punto! (...) Nelle considerazioni di Marx già citate sull’esperienza della Comune non c’è la minima traccia di federalismo. Marx è d’accordo con Proudhon proprio su un punto che l’opportunista Bernstein non vede; Marx dissente da Proudhon proprio là dove Bernstein vede la concordanza. Marx è d’accordo con Proudhon in quanto entrambi sono per la “demolizione” dell’attuale macchina statale. Questa concordanza del marxismo con l’anarchismo (sia con Proudhon sia con Bakunin) non vogliono vederla né gli opportunisti né i kautskiani, perché su questo punto essi si sono allontanati dal marxismo. Marx dissente sia da Proudhon sia da Bakunin appunto a proposito del federalismo (per non parlare poi della dittatura del proletariato). In linea di principio, il federalismo deriva dalle vedute piccolo-borghesi dell’anarchismo. Marx è centralista. E in tutti i passi citati non si troverà la minima rinuncia al centralismo. Soltanto gente imbevuta di una volgare “fede superstiziosa” nello Stato può scambiare la distruzione della macchina borghese con la distruzione del centralismo! (...) Marx, quasi avesse previsto che le sue idee potevano essere travisate, sottolinea intenzionalmente che accusare la Comune di aver voluto distruggere l’unità nazionale e sopprimere il potere centrale equivale a commettere scientemente un falso. Marx adopera intenzionalmente l’espressione “organizzare l’unità della nazione” per contrapporre il centralismo proletario cosciente, democratico, al centralismo borghese, militare, burocratico».


Contro gli anti-autoritari

Lenin cita poi degli articoli scritti da Marx ed Engels per l’”Almanacco repubblicano per l’anno 1874”, pubblicato nel 1873 dal giornale socialista “La plebe” di Lodi e poi di Milano. Tale giornale era diretto da Enrico Bignami, uno dei pochissimi, nell’Italia di allora, sulle posizioni dei due rivoluzionari. Leggiamo:

«Se la lotta politica della classe operaia – scriveva Marx deridendo gli anarchici e la loro negazione della politica – assume forme violente, se gli operai sostituiscono la loro dittatura rivoluzionaria alla dittatura della classe borghese, essi commettono il terribile delitto di leso-principio, perché per soddisfare i loro miserabili bisogni profani di tutti i giorni, per schiacciare la resistenza della classe borghese, invece di abbassare le armi e di abolire lo Stato, essi gli danno una forma rivoluzionaria e transitoria.

«È contro questa “abolizione” dello Stato – e solo contro questa – che Marx si levava nella sua polemica contro gli anarchici! Non contro l’idea che lo Stato scompare con la scomparsa delle classi, o sarà abolito con la abolizione delle classi, ma contro la rinuncia degli operai a fare uso delle armi, della violenza organizzata, vale a dire dello Stato, che deve servire a “schiacciare la resistenza della classe borghese”.

«Perché non si travisi il vero significato della sua lotta contro l’anarchismo, Marx sottolinea intenzionalmente “la forma rivoluzionaria e transitoria” dello Stato necessario al proletariato. Il proletariato ha bisogno dello Stato solo per un certo periodo di tempo. Quanto all’abolizione dello Stato, come fine, noi non siamo affatto in disaccordo con gli anarchici. Affermiamo che per raggiungere questo fine è indispensabile utilizzare temporaneamente, contro gli sfruttatori, gli strumenti, i mezzi e i metodi del potere statale, così com’è indispensabile, per sopprimere le classi, stabilire la dittatura temporanea della classe oppressa.

«Nel porre la questione contro gli anarchici Marx sceglie il modo più incisivo e più chiaro: abbattendo il giogo dei capitalisti, gli operai debbono “deporre le armi” o rivolgerle contro i capitalisti per spezzare la loro resistenza? E se una classe fa sistematicamente uso delle armi contro un’altra classe, che cosa è questo se non una “forma transitoria” di Stato? (...) Engels deride innanzitutto la confusione di idee dei proudhoniani che si chiamavano “anti-autoritari”, negavano cioè ogni autorità, ogni subordinazione, ogni potere. Prendete una fabbrica, una ferrovia, un piroscafo in alto mare – dice Engels – non è evidente che senza una certa subordinazione, e quindi senza una certa autorità o un certo potere, non è possibile far funzionare nemmeno uno di questi complicati apparati tecnici, fondati sull’impiego delle macchine e la metodica collaborazione di un gran numero di persone? (...)

«Allorché io sottoposi simili argomenti ai più furiosi anti-autoritari – scrive Engels – essi non seppero rispondermi che questo: “Ah! Ciò è vero, ma qui non si tratta di un’autorità che noi diamo ai delegati, ma di un incarico!” Questi signori credono aver cambiato le cose quando ne hanno cambiato i nomi (...)

«Se gli autonomisti – egli scrive – si limitassero a dire che l’organizzazione sociale dell’avvenire restringerà l’autorità ai soli limiti nei quali le condizioni della produzione la rendono inevitabile, ci si potrebbe intendere; invece, essi sono ciechi per tutti i fatti che rendono necessaria la cosa, e si avventano contro la parola. Perché gli anti-autoritari non si limitano a gridare contro l’autorità politica, lo Stato? Tutti i socialisti sono d’accordo in ciò, che lo Stato politico e con lui l’autorità politica scompariranno in conseguenza della prossima rivoluzione sociale, e cioè che le funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico, e si cangeranno in semplici funzioni amministrative veglianti ai veri interessi sociali. Ma gli anti-autoritari domandano che lo Stato politico autoritario sia abolito d’un tratto, prima ancora che si abbiano distrutte le condizioni sociali, che l’hanno fatto nascere. Eglino domandano che il primo atto della rivoluzione sociale sia l’abolizione dell’autorità. Non hanno mai veduto una rivoluzione questi signori? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari, se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non vuol avere combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi ispirano ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno, se non si fosse servita di questa autorità di popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può al contrario rimproverarle di non essersene servita abbastanza largamente?».

Scrive Lenin: Per i socialdemocratici contemporanei la critica dell’anarchismo si riduce abitualmente a questa pura banalità piccolo-borghese: “Noi ammettiamo lo Stato, gli anarchici no!” Naturalmente una tale banalità non può non suscitare l’avversione degli operai con un minimo di raziocinio e rivoluzionari. Ben altro è ciò che dice Engels: egli sottolinea che tutti i socialisti riconoscono che la scomparsa dello Stato è una conseguenza della rivoluzione socialista. In seguito egli pone in modo concreto la questione della rivoluzione, la questione appunto che i socialdemocratici, per il loro opportunismo, generalmente eludono, abbandonando agli anarchici il monopolio della pseudo “elaborazione” di questo problema. E ponendo tale questione Engels prende il toro per le corna: la Comune non avrebbe dovuto forse servirsi maggiormente del potere rivoluzionario dello Stato, vale a dire del proletariato armato, organizzato come classe dominante?»

Lenin cita poi una lettera di Engels a Bebel del marzo 1875 in cui, analogamente a Marx, critica il programma di Gotha. Questo era il programma del Partito socialdemocratico tedesco, nato dalla fusione tra l’Associazione generale degli operai tedeschi, fondata da Lassalle nel 1863, e il Partito operaio socialdemocratico, sostanzialmente sulle posizioni di Marx ed Engels, anche se con vari sbandamenti, fondato ad Eisenach nel 1869 da August Bebel e Wilhelm Liebknecht. Engels:

«Noi proporremo quindi di mettere ovunque invece della parola Stato la parola Gemeinwesen, una vecchia eccellente parola tedesca, che corrisponde alla parola francese Commune».

Scrive Lenin: «Come griderebbero all’”anarchia” i capi del moderno “marxismo” adattato alle comodità degli opportunisti, se si proponesse loro un simile emendamento del programma! Gridino pure! La borghesia li loderà».


Capitalismo monopolistico e “socialismo di Stato”

Lenin parla poi della critica al programma di Erfurt, inviata da Engels a Kautsky, in occasione del congresso del partito socialdemocratico tedesco del 1891, «pubblicata solo dieci anni dopo nella “Neue Zeit”, perché è soprattutto dedicata alla critica delle concezioni opportuniste della socialdemocrazia sui problemi dell’organizzazione dello Stato. Rileviamo di sfuggita che Engels anche sulle questioni economiche dà una indicazione estremamente preziosa, che mostra con quale attenzione seguisse le trasformazioni del capitalismo moderno, e come sapesse quindi, in una certa misura, presentire i problemi della nostra epoca imperialista (...) Engels scrive: “se poi dalle società per azioni passiamo ai trust, che dominano e monopolizzano intere branche dell’industria, non soltanto non esiste più produzione privata, ma non possiamo parlare più neppure di assenza di un piano”.

«Nella valutazione teorica del capitalismo moderno, cioè dell’imperialismo, è colto qui l’essenziale, vale a dire che il capitalismo si trasforma in capitalismo monopolistico. È da sottolineare capitalismo, perché uno degli errori più diffusi è l’affermazione riformista borghese, secondo la quale il capitalismo monopolistico o monopolistico di Stato non è già più capitalismo e può essere chiamato “socialismo di Stato”, ecc. Naturalmente i trust non hanno mai dato, non danno sinora e non possono dare la regolamentazione di tutta l’economia secondo un piano. Ma per quanto essi stabiliscano un piano, per quanto i magnati del capitale calcolino in anticipo il volume della produzione su scala nazionale e persino internazionale, per quanto essi regolino questa produzione in base a un piano, rimaniamo tuttavia in regime capitalistico, benché in una sua nuova fase, ma, indubbiamente, in regime capitalistico. La “vicinanza” di tale capitalismo al socialismo deve essere per i veri rappresentanti del proletariato un argomento in favore della vicinanza, della facilità, della possibilità, dell’urgenza della rivoluzione socialista, e non già un argomento per mostrarsi tolleranti verso la negazione di questa rivoluzione e verso l’abbellimento del capitalismo, nella qual cosa sono impegnati tutti i riformisti».

(continua)