Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 411 - 30 agosto 2021
anno XLVIII - [ Pdf ]
Indice dei numeri
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Aggiornato al 4 settembre 2021
organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Il Grande Gioco fra imperi in Asia centrale: Uno Stato disegnato dall’imperialismo - L’interesse della Cina - Trattative USA-Talebani - Il talebano mutante - Di nuovo al potere - Il Grande Gioco del XXI secolo
Proteste contro il capitale a Cuba
Vax e No‑vax
PAGINA 2 – Inondazioni catastrofiche in Nord Europa, Turchia e Cina. Un’altra rivolta della natura contro il capitale: L’Eifel, terra maledetta - Altrove nel mondo - Impotenza del capitale
Per il sindacato di classe Firenze, lunedì 19 luglio 2021, Sciopero provinciale per la GKN: Unire le lotte dei lavoratori per: il salario pieno ai lavoratori licenziati, la riduzione dell’orario di lavoro, la CIG al 100% del salario
Campi Bisenzio, sabato 24 luglio, Manifestazione nazionale GKN: La lotta alla GKN va inserita in una mobilitazione generale nel gruppo Stellantis e unita a tutte le altre lotte contro i licenziamenti per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, la CIG al 100% del salario, il salario pieno ai lavoratori licenziati!
I sindacati di regime firmano lo sblocco dei licenziamenti
Come difendersi dalla pandemia
Passa anche in Grecia, nella impotenza dei sindacati, un nuovo grave attacco alla classe operaia
Messico - Il prezzo del GPL aumenta I salari restano a fondo
Venezuela. I Tribunali sfruttano i lavoratori e li espongono al Covid
Québec. Niente di buono per i pubblici dipendenti
PAGINA 5 Capitalismo-carceri-comunismo
PAGINA 6‑8 – Convergere dei nostri gruppi nella Riunione Internazionale del Partito. 28‑30 maggio. (segue il resoconto dal numero scorso). Origine del Partito Comunista di Cina. Dal 1° al 2° Congresso - L’attività sindacale del partito - Il corso della economia modiale - La formazione della nazione indiana - Il tormentato Medio Oriente - Storia del Profintern - Resoconto dei compagni venezuelani, Fazioni borghesi in lotta - Panorama sindacale nel Quebec

 

 

 

  


PAGINA 1


Il Grande Gioco fra imperi in Asia centrale

Il ritorno dei talebani al potere a Kabul non ci ha troppo stupito, nonostante il surreale del finale macabro di un folle conflitto ventennale, costato fiumi di sangue e montagne di denaro, risultato nel reinsediare al potere della fazione che ne fu all’inizio cacciata.

Il crollo del regime, tenuto in piedi grazie alla protezione delle forze armate dalla prima potenza militare del mondo, si presenta come una sconfitta cocente, suscettibile di modificare in maniera sensibile l’equilibrio tra le grandi potenze imperialiste. Non a caso il governo di Pechino, imbaldanzito dalla sconfitta americana, ha colto l’occasione per ribadire gli appetiti imperiali della Cina continentale su Taiwan e per lanciare un avvertimento ai governanti di Taipei: “Guardate come gli Stati Uniti abbandonano i loro protetti a un infausto destino. Domani potrebbe toccare anche a voi la stessa sorte”.

Ma le conseguenze per Washington non sono meno gravi all’interno: rivivere nella Kabul del 2021 la sconfitta patita nella Saigon del 1975, e con un copione assai simile, infligge una sfregiante ferita alle istituzioni statunitensi, dopo 2.400 caduti americani e un trilione di dollari dissipati in maniera totalmente inconcludenti. Un ben magro bottino da presentare alla macchina dello spettacolo e della propaganda borghese. Sbaglieremmo a vedere in questi risultati soltanto l’inettitudine dei quattro presidenti che in questi vent’anni hanno gestito la politica estera americana.

Ma se nell’epoca della sua decadenza la forsennata corsa del capitale verso la sovrapproduzione di merci e di capitali ci appare sempre più irrazionale e distruttiva, perché stupirci se anche la politica della più grande potenza economica e militare del pianeta si rivela anch’essa assurda e inconcludente? Se la politica per noi marxisti è un concentrato di economia, perché mai ad un’economia demente non dovrebbe corrispondere una politica altrettanto demente?

Non insistiamo mai sulla inettitudine, vera o simulata, dei grandi capi, poiché ridimensioniamo assai la funzione degli individui. La nostra lettura parte invece dalla considerazione che la linea di politica estera degli Stati non è altro che la risultante di fattori oggettivi legati agli interessi complessivi della classe dominante, alle necessità della valorizzazione del capitale, ai fini di conservazione sociale e, in ultima istanza, dai rapporti di forza fra le potenze.

Nel caso degli Stati Uniti, segnati da decenni di declino relativo del loro peso economico su scala planetaria, la politica estera non può più attenersi a un coerente disegno strategico complessivo, ma si trova costretta a fare i conti con crescenti difficoltà in molte aree del mondo, che impongono oscillazioni e svolte repentine dalle conseguenze quasi mai risolutive.

All’indomani degli attentati dell’11 settembre del 2001 contro le Torri Gemelle di New York e contro il Pentagono, la decisione dell’allora presidente statunitense George W. Bush di invadere l’Afghanistan venne motivata ufficialmente con la necessità di colpire l’alleanza che legava al‑Qaeda al regime dei talebani, che guidava il paese centroasiatico dal 1996. In realtà, se lo scopo fosse stato davvero quello di sgominare i mandanti e i protettori di coloro che avevano colpito in maniera così devastante il cuore della potenza americana, la guerra avrebbe dovuto essere condotta altrove, dato che dietro al‑Qaeda c’erano i grandi interessi economici legati essenzialmente alla rendita petrolifera.

Un aspetto questo che venne avvalorato anche dal fatto che la maggior parte degli attentatori risultarono essere cittadini sauditi. In secondo luogo, se l’obiettivo fosse stato colpire i talebani, all’epoca a capo di una fragile struttura statale nata sulle rovine della guerra civile fra i “signori della guerra” della cosiddetta “resistenza” all’invasione sovietica, allora sarebbe stato più logico prendersela con il Pakistan, che del movimento degli “studenti coranici” era stato sin dalla nascita nutrice e padrino politico. Ma tutto ciò era impossibile, dacché Pakistan e Arabia Saudita erano storici alleati degli Usa.


Uno Stato disegnato dall’imperialismo

Già si erano allora verificati alcuni di quei contraccolpi che scandiscono l’incedere della storia: i mujahidin religiosi afghani, che erano stati sostenuti militarmente dagli Usa nella loro guerra contro l’Unione Sovietica, una volta rovesciato il regime filosovietico si erano dati a massacrarsi fra loro, in una sanguinosa guerra civile i cui schieramenti erano venuti a coincidere lungo le linee di faglia delle varie componenti etniche e religiose, di una paese dall’unità nazionale fittizia.

La fragilità della coesione dello Stato afghano risale alla sua formazione, decisa dalla politica coloniale britannica, che lo disegnò sulla carta. Il confine di 2.670 chilometri che separa l’Afghanistan dal Pakistan, due Stati che fin nell’atto di nascita portano, in misura diversa e per diverse ragioni, le stimmate della dominazione coloniale inglese, fu il risultato di un accordo raggiunto nel 1893 fra il segretario di Stato dell’India Britannica Sir Mortimer Durand e l’allora emiro afghano Abdur‑Rahman Khan. Il Pakistan è nato nel secondo dopoguerra grazie all’opera di divisione su base religiosa del movimento indipendentista dell’India, pianificata e perseguita con pertinacia da Londra.

L’Afghanistan nacque invece alla fine dell’Ottocento, come “Stato cuscinetto”, sempre per volere della diplomazia britannica, per contenere l’espansione della Russia zarista che, attraverso l’Asia Centrale, mirava all’Oceano Indiano. L’Afghanistan, divenuto pienamente indipendente da un protettorato britannico de facto soltanto dal 1919, fu una soluzione di ripiego per la potenza coloniale. Fu la conseguenza dell’esito delle tre guerre afghano-inglesi che in un arco di 80 anni non erano riuscite ad assoggettare il paese. Il cosiddetto Grande Gioco a partire dalla metà del secolo XIX aveva impegnato le grandi potenze mondiali dell’epoca attorno all’odierno Afghanistan.

Alla metà degli anni ’70 del secolo XX, dopo decenni di relativo assopimento, il Grande Gioco è tornato di attualità in conseguenza della prima grave crisi economica del ciclo di accumulazione capitalistica successivo alla seconda guerra mondiale. E non è un caso che negli ultimi 42 anni l’Afghanistan sia passato da una guerra all’altra, in uno sconvolgimento sociale che si è manifestato anche con l’inurbamento di ampie porzioni della popolazione rurale.


L’interesse della Cina

Gli ultimi due decenni di “guerra americana” hanno visto il progressivo inserirsi della Cina nel Grande Gioco afghano in parallelo all’affermarsi nel mondo della sua potenza industriale. I due paesi condividono, fra le alte quote della catena dell’Hindokush, un tratto di confine di 92 chilometri, definito nel 1895 in un accordo fra Russia e Gran Bretagna, col quale i due imperi frapposero fra le rispettive aree di influenza una “terra di nessuno”, attribuendo all’Afghanistan l’inospitale, desolato e impervio Corridoio del Wakhan, lungo 350 chilometri e largo mediamente meno di 30.

Oggi l’attenzione della Cina verso l’Afghanistan è motivata dal rappresentare un passaggio obbligato per tre espansioni del commercio cinese, in direzione una dell’Oceano Indiano, una dell’Asia Centrale ex sovietica, una del Mediterraneo. Sulla prima direttrice Pechino ha investito in due grandi progetti. Il primo è la “Ferrovia dei cinque paesi” che, attraverso il Tagikistan, il Kirghizistan, l’Afghanistan e l’Iran, terminerà nel porto di Chabahar collegando la Cina al Golfo dell’Oman.Il secondo è il “Corridoio economico sino‑pachistano” che attraverso le aree abitate da Pashtun e Beluci (gli stessi popoli presenti anche in Afghanistan), raggiungerà Gwadar, porto pakistano sull’Oceano Indiano in fase di ampliamento grazie a un cospicuo finanziamento cinese.

La politica afghana di Pechino aspira quindi a una stabilizzazione politica del paese. Pretesa questa, per le opposte ragioni, non ricercata dagli Stati Uniti che della Cina sono il principale rivale.


Trattative USA‑Talebani

Nel tentativo di intralciare l’egemonia cinese sulla vasta area geostorica comprendente Pakistan, Afghanistan e Iran, le ultime due amministrazioni statunitensi hanno pensato di giocare la carta della riabilitazione dei talebani, divenuti interlocutori di primo piano della loro politica afghana. Vari elementi di fatto corroborano il quadro di un dialogo e di una collaborazione con i talebani, che forse non sono mai venuti meno del tutto ma che senz’altro sono andati crescendo negli ultimi anni.

Nel 2017 gli Stati Uniti hanno fatto pressione sul Pakistan affinché liberasse dalle sue prigioni il capo talebano Mullah Abdul Ghani Baradar, noto anche come Mullah Baradar Akhund, al fine di rappresentare il movimento degli “studenti coranici” in una trattativa diretta. Il negoziato fra il rappresentante degli Stati Uniti per gli affari afghani, il diplomatico Zalmai Khalilzad, di origine afgana e di etnia pashtun, e lo stesso Abdul Ghani Baradar, anch’egli come la maggior parte dei talebani di etnia pashtun, è addivenuto all’accordo di Doha del febbraio del 2020 con il quale Washington, dopo quasi vent’anni di guerra ininterrotta, concertava con gli “arcinemici” il calendario del ritiro militare.

Il governo “amico” di Kabul veniva invece tenuto fuori della trattativa!

Si dà il caso che il Qatar, di cui Doha è la capitale, sia il paese in cui si trova la base militare statunitense di al‑Ubeid, la più importante del Medio Oriente. Allo stesso tempo Doha ospita da diversi anni il quartier generale dei talebani. Inoltre il Qatar è, come noto, il principale sponsor internazionale dei Fratelli Musulmani, la componente maggiore dell’Islam politico sunnita, la cui espansione è stata osteggiata o incoraggiata, a fasi alterne, dagli stessi Stati Uniti. Basti pensare che alla Fratellanza musulmana sono affiliati anche il partito Akp del presidente turco Erdoğan e la palestinese Hamas, a ulteriore conferma dei rapporti di ambivalenza fra Stati e organizzazioni ora considerate come nemiche, ora come alleate. E non è un caso se, giovandosi dell’ospitalità offerta ai talebani, Doha sia risuscita a contribuire a quello slittamento identitario che ha mutato le fattezze del movimento integralista afghano avvicinandolo alla Fratellanza Musulmana e per certi aspetti, cosa fino a poco tempo fa inaudita, anche alla teocrazia iraniana


Il talebano mutante

Un tempo misoneisti e iconoclasti (si ricordi la distruzione delle gigantesche statue dei Buddha di Bamyan o le scene degli apparecchi televisivi distrutti in spettacoli di propaganda della lotta alla miscredenza), i talebani sono pronti a propagandare il loro nuovo corso in cui, in sintonia col moderno fondamentalismo, si dimostrano disposti a islamizzare la modernità capitalistica piuttosto che a osteggiarla. Questo atteggiamento si è manifestato subito dopo la presa di Kabul con un proclama in cui si affermava il loro impegno a rispettare la proprietà e gli investimenti anche stranieri. I talebani vogliono accreditarsi come la migliore promessa di continuità borghese per l’Afghanistan e in questo intento non è assolutamente scontato che debbano fallire dato che vantano ottime credenziali di cui è ben al corrente la classe capitalistica mondiale.

A questo proposito c’è da rilevare la smisurata fiducia accordata ai talebani dagli Usa che fra i punti degli accordi di Doha avevano accettato la liberazione di 5.000 prigionieri di guerra. Questa concessione fu contrastata in ogni modo, per ragioni facilmente comprensibili, dal presidente afghano Ashraf Ghani. Ma un governo fantoccio non può non ubbidire ai fili del burattinaio: la Loya Jirga, la Grande Assemblea nazionale che raggruppa il notabilato afghano in rappresentanza di tutte le etnie e di tutte le realtà territoriali del paese, nell’agosto del 2020 chiese che la liberazione dei 5.000 prigionieri talebani corrispondesse alla liberazione di un migliaio di soldati e di funzionari pubblici detenuti dagli studenti coranici. Un episodio che spiega come ampi strati della classe dominante afghana, preoccupata da tanta debolezza da parte del governo di Kabul, tenesse il piede in due staffe, preparandosi all’eventualità di un cambio di regime, limitando possibili urti, frizioni e inutili eroismi.

A spiegare la resa senza combattere cui si è assistito nella prima metà di agosto è anche l’uso, proprio di tutte le società che non vantano una tradizione di solido ordinamento nazionale, di considerare la fedeltà allo Stato inferiore a quella che si deve alla propria tribù. Gran parte dei prigionieri liberati nel settembre del 2020 andarono a ingrossare le file delle milizie talebane, contribuendo a gettare scompiglio e sfiducia nelle forze governative.

Alla fine del 2020 i talebani controllavano già una parte cospicua del territorio del paese. Per quanto esclusi dalle grandi città, tenute dall’esercito regolare spalleggiato dai militari statunitensi e dalle forze dei paesi della Nato, erano a capo di uno “Stato di fatto” che gestivano con efficienza e avvedutezza, specie se comparata all’estrema inefficienza e corruzione del governo ufficiale. In questo, privo di una reale coesione, si scontavano gli interessi dei clan tribali, sopravvissuti alla mancata centralizzazione del paese.

Nell’anno fiscale 2020 i talebani gestivano un budget di circa 1,6 miliardi di dollari, di cui soltanto una parte era frutto della tassazione della coltivazione dell’oppio, della raffinazione e della sua commercializzazione: un fatto che anche secondo fonti come il Financial Times sfata il mito di un’insorgenza armata del tutto dipendente dal narcotraffico. Secondo alcune stime il commercio di stupefacenti avrebbe contribuito per un quarto agli introiti dei talebani, in misura grosso modo uguale a quella dei tributi incamerati sullo sfruttamento delle miniere, un settore molto importante e assai promettente per il futuro in considerazione della ricchezza del sottosuolo afghano. Particolarmente redditizio è lo sfruttamento delle miniere di talco, esportato attraverso la porosa frontiera col Pachistan grazie ai buoni uffici dell’Isi, i servizi segreti pakistani, e commercializzato come talco “made in Pakistan” in tutto il mondo (fra i maggiori consumatori Usa e Italia).

Le tasse imposte alla popolazione soggetta (la stampa avversa ai talebani le definisce “estorsioni) hanno contribuito, con 160 milioni, al 10% del budget totale. Le esportazioni di merci hanno fruttato alle casse dei talebani per 240 milioni di dollari mentre le donazioni provenienti da molti paesi (Pakistan, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) per una cifra analoga, confermando l’esistenza di una fitta rete internazionale di sostegno.

Le disponibilità finanziarie dei talebani hanno giocato un ruolo essenziale nella lunga guerra di posizione che ha preparato la trionfale offensiva finale se, come risulta da varie fonti, le milizie talebane erano truppe mercenarie a tutti gli effetti e ricevevano uno stipendio in genere superiore a quello delle truppe regolari. Inoltre, come è stato ribadito da più organi di informazione, in questi giorni il numero degli effettivi dell’esercito regolare erano gonfiati dai comandanti per impadronirsi delle paghe.


Di nuovo al potere

Ora per il potere talebano si presentano varie difficoltà e incognite. L’unificazione politica del paese sotto la propria bandiera, ad eccezione di poche sacche di resistenza, sembra sostanzialmente compiuta. Appaiono scarse anche le possibilità della cosiddetta “Alleanza del Nord”, asserragliata con poche migliaia di uomini nella valle del Panjshir, di opporsi efficacemente a un’annunciata offensiva talebana.

Il bottino di guerra dei talebani, ricavato dalla dissoluzione dell’esercito regolare rifornito dagli Stati Uniti, comprende molte centinaia di corazzati Humvee, alcuni elicotteri da combattimento Black Hawk e una ventina di aerei A‑29 Super Tucano. Tutti aspetti che pongono i talebani in posizione di vantaggio di fronte a qualsiasi eventuale insorgenza armata.

Questo non significa che il paese sarà facilmente pacificato. Un’altra difficoltà con la quale i talebani devono fare i conti è il congelamento dei flussi finanziari internazionali destinati al vecchio governo afghano e che erano indispensabili per garantirne il funzionamento. Una terza difficoltà potrebbe venire dalle divisioni interne a una compagine politica non troppo omogenea politicamente. Alcune componenti sarebbero maggiormente interessate a imprimere un carattere “internazionalista” di propaganda islamica a tutto campo all’Emirato talebano, come sarebbe il caso della Rete Haqqani, legata tradizionalmente ai servizi pakistani e ad al‑Qaeda.

La componente al momento più influente sembra essere invece più interessata a mettere in risalto i caratteri nazionali del movimento. Esponenti di questa tendenza sono il leader Hibatullah Akhundzada, designato come Amir al‑Muminin (Principe dei Credenti), e il già nominato capo del governo Mullah Abdul Ghani Baradar.

Quest’ultimo in un incontro avvenuto ai primi di agosto a Tianjin con il ministro degli esteri cinese Wang Yi si è impegnato a non interferire con la spinosa questione degli uiguri, popolazione musulmana sunnita e turcofona del Xinjiang cinese, la cui discriminazione etnica da parte del governo di Pechino è uno dei motivi della propaganda anticinese degli Usa e delle potenze occidentali. Il movimento armato denominato Partito Islamico del Turkestan (Turkistan Islamic Party) che raccoglie i jihadisti uiguri è attivo in Cina e ha preso parte ad alcuni momenti della guerra in Afghanistan e alla guerra in Siria unendosi ai jihadisti di Idlib. Questo è uno degli scogli che potrebbe frapporsi allo sviluppo di quelle relazioni “amicali” fra Cina ed Emirato Islamico di Afghanistan che il governo di Pechino si è affrettato ad auspicare subito dopo la caduta di Kabul in mano talebana.


Il Grande Gioco del XXI secolo

Per noi marxisti i conflitti nazionali e religiosi nascondono inconfessabili interessi materiali, così come dietro la bandiera talebana loschi affari. Una nuova avanzata della Cina potrebbe giovarsi senz’altro di un Afghanistan pacificato e unificato, ancorché sotto la bandiera a molti indigesta dei talebani. L’imperialismo cinese è ansioso di colmare un vuoto lasciato dall’imperialismo americano in ritirata, ma un successo in questo senso è tutt’altro che scontato. A determinare i futuri sviluppi del Grande Gioco del XXI secolo saranno i rapporti di forza fra le grandi potenze, verso lo scioglimento della guerra generale, del massacro imperialista mondiale.

 

 

 


Proletari in rivolta contro gli effetti del capitalismo a Cuba

Le proteste a Cuba all’inizio della seconda decade di luglio sono l’ultimo dei sussulti nelle aree dove le conseguenze della crisi economica del modo di produzione capitalistico assumono proporzioni devastanti.

In Libano la bancarotta dello Stato gli impedisce di pagare la bolletta petrolifera, le centrali elettriche si fermano e il paese resta al buio. Reiterate esplosioni di malcontento popolare sono represse dalle opposte fazioni borghesi che, benché in lotta fra loro, convergono nel mantenere il potere politico.

Tumulti sono esplosi negli stessi giorni in Sudafrica, dove si contano già 117 morti, a seguito della condanna a una pena detentiva dell’ex presidente Zuma e che i media descrivono sbrigativamente scontri “interetnici” fomentati dalla comunità Zulu. Certo le decine di morti nei saccheggi di supermercati non sono il prodotto di odio etnico ma della disoccupazione, l’emarginazione e la miseria portati del moderno capitalismo.

Carestie si vanno diffondendo nel pianeta anche in conseguenza del dissesto economico aggravato dalla pandemia, aggiungendo altre decine, centinaia di milioni di uomini ai condannati alla fame.

In tale contesto generale le proteste cubane non possono essere sottovalutate, come fa sia chi difende l’immagine, sempre più sbiadita, del “socialismo” castrista, sia la grancassa mediatica borghese che diffonde un quadro fallimentare di un regime “comunista” negatore delle “libertà democratiche”.

La fiammata di moti di piazza a Cuba concentra invece in sé tutto il marasma dei paesi della periferia imperiale, una crisi però di una economia pienamente capitalistica, quella descritta e prevista dalla teoria marxista.

Questa realtà resta valida anche senza ignorare i due eventi occasionali che, secondo una rappresentazione superficiale, sarebbero le cause dell’attuale crisi: il crollo del turismo dovuto alla pandemia e l’embargo imposto dagli Stati Uniti nel lontano 1962, sotto la presidenza di Kennedy, e ulteriormente inasprito durante quella Trump. Non neghiamo che questi due fattori abbiano avuto la loro parte nel mettere in ginocchio l’economia cubana, ma sono intrinseci alla crisi complessiva del modo di capitalismo. L’amministrazione Trump ha inasprito le sanzioni contro Cuba in linea con la politica estera di una potenza costretta a fare i conti con il proprio declino in un contesto mondiale di crescente tensione. Nella contesa per i mercati gli Usa devono contrastare la penetrazione delle merci e dei capitali provenienti da altre potenze. E Cuba ha principali partner nell’import-export la Russia e la Cina, oltre al malandato Venezuela, e un peso non secondario hanno i paesi dell’Europa Occidentale, e fra questi in particolare l’Italia. Il problema per gli Usa è impedire che l’isola caraibica si faccia avamposto nelle Americhe dell’avanzata commerciale delle potenze rivali.

La crisi del turismo ha un effetto devastante per Cuba per la debolezza della sua economia, per l’impossibilità per un paese piccolo e povero di risorse naturali di sostenere un processo di sviluppo autonomo senza l’apporto di capitali dalle potenze maggiori. A Cuba non è mai stata offerta la possibilità di imporsi nella divisione internazionale del lavoro, dati i rapporti di forza fra le potenze capitalistiche.

Questi sfavorevoli rapporti di forza hanno impedito che la rivoluzione nazionale antimperialista, che nel 1959 portò al potere i guerriglieri barbudos, facesse di Cuba un paese economicamente forte. Così la gretta rappresentazione ideologica borghese ha potuto incolpare il falso comunismo in versione cubana di non essere stato capace di realizzare il capitalismo! Davvero una pessima prova di scaltrezza danno coloro che, nella falsa sinistra di mezzo pianeta, si attaccano con caparbietà alla nostalgia di una Cuba “socialista”. Quando le condizioni di vita del proletariato cubano si deteriorano di giorno in giorno precipitando nella denutrizione, tale preteso “socialismo” non sarebbe altro che la conferma per la bugiarda propaganda borghese dell’impossibilità di uscire dal fosco orizzonte del capitalismo.

Se invece fosse stato possibile realizzare il socialismo nella sola a Cuba, come non volevano e non potevano fare i Castro e i Che Guevara, perché mai si sarebbe dovuto temere l’embargo delle merci e dei capitali statunitensi? Dove sono andati a finire i proclami altisonanti di “Patria o morte” di un nazionalismo grottesco e velleitario, accompagnati per sei decenni da una pietosa geremiade per le disastrate condizioni dell’economia cubana attribuite al “Bloqueo genocida”, cioè all’impossibilità di importare le merci “made in Usa”?

L’aggravarsi della penuria di generi alimentari e di medicinali nell’isola è dovuto anche al marasma economico del Venezuela che ha provocato un calo di oltre il 70% dell’interscambio rispetto al 2014, con una drastica riduzione delle importazioni di petrolio venezuelano che Cuba comprava a buon mercato dai tempi dell’accordo fra Chavez e Fidel del 2000. Nel mese di giugno sono arrivati a Cuba dal Venezuela soltanto 35.000 barili al giorno, la metà di quelli di febbraio e appena un terzo di quelli del 2012. Nel frattempo la bilancia commerciale ha continuato a peggiorare col deficit che ha raggiunto il 10% del Pil. La produzione di zucchero, il principale prodotto di esportazione cubano, è caduta considerevolmente a causa della scarsa disponibilità di combustibile per le macchine agricole e della mancanza di pezzi di ricambio. Con la pandemia, oltre al dimezzarsi delle entrate del turismo, si sono ridotte di un terzo le rimesse degli emigrati.

A questa situazione – come abbiamo ben descritto nel numero precedente – il governo ha reagito con una riforma monetaria che ha soppresso il peso convertibile causando una notevole svalutazione del peso cubano. Gli aumenti salariali non compensavano affatto l’inflazione. Una situazione aggravata dalla scarsa disponibilità di beni di consumo primario divenuti difficilmente reperibili nonostante i forti rincari dei prezzi.

Non stupisce se in decine di città proletari affamati si sono scontrati con le forze di polizia saccheggiando i negozi governativi di generi alimentari. La dura repressione ha provocato un morto nella periferia dell’Avana, numerosi feriti e molti arresti. I tumulti hanno costretto il governo, preso atto del pericolo, a un repentino rimpasto di governo e a concessioni, l’aumento dei salari del settore pubblico e l’abolizione dei dazi all’importazione dei beni di prima necessità, come alimentari e medicine, che sono un mezzo per gli emigrati cubani per sfamare e curare le famiglie rimaste in patria. La borghesia cubana ha paura del proletariato, il quale mostra di sapere con la lotta ribilanciare a proprio favore i rapporti di forza fra le classi. I proletari cubani avvertono meno il richiamo della "patria socialista" che quello dello stomaco e che la retorica nazionalista non basta a tenerli calmi.

In tali circostanze suona ridicola la tesi del complotto statunitense, che a pilotare le manifestazioni sarebbero stati gli yankee determinati a rovesciare il regime. Nemmeno sappiamo quanto gli Usa siano davvero interessati a destabilizzare l’isola provocando una nuova ondata di immigrati sulle coste della Florida. Se la borghesia statunitense cercherà di sfruttare le proteste cubane a proprio vantaggio, questo non implica l’intenzione di sostituire il regime di falso comunismo con le forme di un sistema democratico liberale.

Ai comunisti non si pone dunque l’alternativa fra il sostegno alle macerie della rivoluzione cubana ovvero ai circoli anticastristi di Miami e all’imperialismo più forte. Non si tratta di difendere Cuba e la sua rivoluzione antimperialista, ormai storicamente acquisita, sebbene inevitabilmente svenduta al miglior offerente fra le grandi potenze borghesi. Né meno che mai si tratta di accogliere le istanze democratiche, sicuramente sopravvalutate dai media, di una protesta che parte dai bisogni primari dei proletari e non certo dall’aspirazione impotente dei piccolo borghesi e trafficanti di Cuba di assistere alla nascita di una democrazia liberale. I comunisti stanno sempre e comunque con ogni ribellione di proletari nelle quali vedono accenni del risveglio della classe, e le instradano verso la maturazione di un livello superiore di formazione classista, dotandosi degli organi propri del proletariato che sono il sindacato e il partito comunista.

 

 

  


Vax e No‑vax

La borghesia fa scienza suo malgrado, è costretta a farne nella misura che le è necessaria per continuare a far profitti. Ma da sempre oscilla nella sua considerazione del metodo scientifico e nel confidare nelle applicazioni pratiche delle sue scoperte. Passa, quando nel ramo ascendente del ciclo economico, da farsi un idolo del progredire delle conoscenze, dei quali sviluppi verrebbero a godere tutte le classi, a un rifiuto della scienza in quanto tale, nei periodi di crisi e di generale insicurezza, fino ad atteggiamenti pessimisti e agnostici.

Oggi, in tempo di epidemia, si allineano su questi due opposti fronti i Vax e i No‑vax.

Scrivemmo nel 1977 in “Difendere la teoria rivoluzionaria è difendere l’avvenire del proletariato”: «Il problema, pratico e teorico, ha sempre tenuta vivamente impegnata la teoria rivoluzionaria comunista, mentre borghesia e opportunismo, a fasi alterne e contraddittorie, hanno ora esaltato le conquiste scientifiche sperimentali, ora hanno preferito farle precedere da fumisterie idealistiche, soggettivistiche e strumentali. «La scienza borghese assume le caratteristiche del soggettivismo e della metafisica, più o meno evidente, quando la necessità di conservare i privilegi di classe fa aggio sulla esigenza di strappare alla natura i suoi segreti per l’accrescimento delle forze produttive e l’accumulazione stessa del plusvalore.

«Neghiamo alla borghesia – che mai come oggi si manifesta egoista e cieca, sanguinaria e incapace di porsi obiettivi umani generali – il diritto di presentarsi come l’autrice e la dispensatrice della vera scienza. Per questo ci battiamo per la sua fine violenta e per l’instaurazione del comunismo».

È nota la posizione del marxismo, opposta e ben superiore a entrambe queste fallaci concezioni borghesi. Scienza e tecnica, che progrediscono intrecciate e si sospingono a vicenda, sono sì il risultato del perfezionarsi delle forze produttive, fra le quali quelle del lavoro, e del lavoro delle meningi, ma sono come queste asservite alla classe dei detentori dei mezzi di produzione. Da qui il contrasto permanente e storicamente crescente fra le forze anche del pensiero, della scienza e della tecnica, tendenzialmente in crescita, e i rapporti di produzione.

Questo benché il pensiero dominante, con i suoi approcci essenzialmente ideologici e anti‑dialettici, non manchi di penetrare nei crani anche dei maggiori ricercatori, trattenendoli e deviandoli dal pieno rappresentarsi il vero.

La scienza fin dal 1898 aveva chiaramente descritto l’origine dell’asbestosi, generata dalla inalazione di cristalli di amianto; lo stesso si può affermare per i danni provenienti dal fumo del tabacco, o del saturnismo generato dai vapori del piombo. È stato il Capitale, per i suoi esclusivi interessi, a ignorare ogni allarme per quasi un secolo. Perché non i “filosofi”, qui i biologi, sono al potere in una società di classe. Trattando del Covid quindi bene abbiamo subito scritto “quello che non funziona al fine di preservare la salute della specie è il capitalismo”, non nel senso che la scienza già possa curare ogni male, ma che il capitale impedisce anche di applicare appieno quanto già la scienza può insegnare.

Non esiste, non è possibile che esista, nella società di classe presente, una scienza “alternativa”, una conoscenza anti- o post‑borghese, a cui i proletari meglio informati possano accedere. L’unica scienza non borghese è quella del partito, il marxismo, afferente il campo delle società umane, non abbiamo, ancora, una nostra scienza, comunista, tranne quella della storia e della rivoluzione. Il partito, dal nostro grande Federico in poi, si è sempre tenuto aggiornato su ogni nuova scoperta e teoria delle scienze naturali, ma nemmeno noi comunisti possiamo sapere di più. Noi solo critichiamo la scienza borghese, la scienza dei nostri secoli, che sono secoli borghesi. Perché un’altra scienza oggi non può darsi.

Ma è la scienza “delle multinazionali”! Certo, e di chi deve essere? Ormai le università si sono ridotte a tali covi di saccente ignoranza copia-incolla e di carrierismo, che la ricerca e la scienza il capitale se la fa direttamente in azienda. Volete il vaccino “nazionale”, o dalla farmacia sotto casa?

Questa società morente, vittima dei suoi contrastanti interessi, è incapace anche di far dare dalla sua scienza schiava un indirizzo certo purchessia. Allora finge di appellarsi alla volontà popolare e alla libertà individuale dei cittadini. Non solo non riesce e non vuole fare chiarezza, ma continua a gettare scompiglio e disinformazione. Anche quello che sarebbe il sano e necessario dibattito fra scuole di pensiero medico e di clinici viene degradato a spettacolo televisivo, fra lo spassoso e il terroristico. Vincerà stasera il Vax o il No‑vax?

Ma i No‑vax aggiungono: è solo un complotto, e tutti i numeri che ci ammanniscono sono falsi, manipolati!

Certamente. Ma, come nei nostri studi di economia utilizziamo con grande utilità i dati statistici borghesi pur sapendo che sono truccati, lo stesso siamo costretti a fare in tutti i campi del sapere. Noi dobbiamo partire da quei dati, che sono il meno peggio di cui possiamo disporre.

Per altro le borghesie mondiali non sono così previdenti, onnipotenti, unite e disciplinate. Proprio il contrario. Non esiste un nascosto regista che scrive il copione e controlla gli attori. È invece un groviglio di farabutti, sì, e di bugiardi, ma che, bacati nelle viscere, storicamente e contingentemente, hanno il mondo contro, e se ne debbono difendere. Dalla borghesia, nel suo stato comatoso attuale, non sono da attendere scelte e comportamenti effettivamente razionali, annaspa per stare a galla.

Ma, obbiettano, i No‑vax, piccolo borghesi per lo più, in vari paesi sarebbero anche scesi nelle strade manifestando contro la vaccinazione e la tessera sanitaria. Certo sono espressione di un malessere all’interno di strati popolari, in atto ormai da alcuni decenni, di uno stato di sofferenza per le loro condizioni di precarietà, relativo impoverimento, ecc. Non si può però definire ripresa della lotta di classe ogni tipo di manifestazione ribellista, da quelle dei No‑vax ai gilet gialli. La lotta di classe – che è e che non può essere che del proletariato contro la borghesia – si esprime, si sviluppa e si organizza in tutt’altra maniera. I ribelli, gli scontenti di tutte le classi intermedie si accoderanno al movimento proletario, ma solo quando questo sarà forte, vincente nello scontro sociale. Nel caso contrario i movimenti piccolo borghesi nascono e restano controrivoluzionari.

Infine, veniamo al quotidiano e al pratico. In questa baraonda, in gran parte involontaria per le stesse classi dominanti, è certo più che legittimo il sospetto che le direttive emanate dalle istituzioni sanitarie degli Stati non siano sempre le migliori, che sia trascurato o ritardato l’uso di trattamenti pur efficaci, o imposte terapie non appropriate per criminali motivi di interesse commerciale. Come si possono difendere le famiglie proletarie dall’epidemia? A chi dar retta? Vaccinarsi? Non vaccinarsi?

Non si sfugge individualmente alla società, e alla cultura, borghese. Tanto meno questa si può negare o ci si può opporre con la buona volontà individuale o con comportamenti “più consapevoli”. E nemmeno la classe operaia nel suo insieme lo può, se non, parzialmente, nella pratica della sua azione difensiva. Vi sfugge solo il Partito nel suo programma rivoluzionario e nella sua compagine militante.

I proletari si possono curare in questa società solo secondo la sua scienza, che è scienza borghese. Non certo li inviteremo ad affidarsi ciecamente alle premure dello Stato, ma neppure alla demenza dei talk‑show televisivi, e nemmeno alla auto‑medicazione in Internet, tipica della solitudine individuale borghese. I proletari, in mancanza di strutture assistenziali di classe, che potrebbero emanare dai sindacati, si cureranno come hanno sempre fatto e non potevano non fare, consultando i sanitari delle strutture sanitarie della società presente, lavoratori votati alla scienza e alla pratica medica, per lo più proletari, e sicuramente quanto di meno ignorante e più disinteressato a cui rivolgersi. È comunque chiaro che i comunisti non sono né Vax né No‑vax.

 

 

 

  


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Inondazioni catastrofiche in Nord Europa, Turchia e Cina
Un’altra rivolta della natura contro il capitale

Le inondazioni in Germania, in Belgio, Lussemburgo e nei Paesi Bassi sono state le peggiori in Europa da decenni. Il 22 luglio nella Renania-Palatinato e nella Renania Settentrionale-Vestfalia si sono avute centinaia di vittime; decine in Belgio nella regione di Liegi. Nel Limburgo, nei Paesi Bassi, sono stati evacuati 10.000 abitanti temendo che la Mosa rompesse gli argini. Anche a Perl, nel Saarland, la Mosella era a più del doppio del livello abituale. Il 16 luglio, 114.000 famiglie in Germania erano senza elettricità, con ponti, strade e binari ferroviari sommersi dall’acqua o distrutti.

La regione più colpita è stata l’Eifel. A cavallo tra la Renania-Palatinato e la Renania Settentrionale-Vestfalia e nelle Ardenne, l’Eifel è una delle più suggestive regioni della Germania, in gran parte un disabitato selvaggio altopiano di ondulate colline e brughiere interrotte da brune foreste e, qua e là, un nero “Maar”, un lago vulcanico.

È attraversata da numerosi piccoli fiumi e torrenti che scorrono veloci, affluenti di destra del Reno e di sinistra della Mosa, e molti laghi. Un suolo molto poco drenante. Vi mancano le pianure alluvionali che proteggono le altre aree più sviluppate e densamente popolate della Germania.

Quando le inondazioni hanno colpito, dopo poche ore di intense precipitazioni nelle strette valli dell’Eifel, i piccoli torrenti si sono trasformati in fiumi impetuosi non dando alla gente alcuna speranza di fuga. In particolare le cittadine lungo il fiume Ahr, un affluente sinistro del Reno a sud di Bonn. Nel distretto di Ahrweiler, il villaggio di Schuld, con 660 abitanti, all’interno delle anse dell’Ahr, è stato in gran parte distrutto. Lungo l’Ahr nell’Eifel orientale case inondate, parzialmente o completamente distrutte o pericolanti. Interrotta la distribuzione dell’acqua e dell’elettricità.

A Sinzig, alla confluenza dell’Ahr nel Reno, dodici anziani sono annegati in un dormitorio per disabili. 362 feriti ad Ahrweiler. Anche a Erftstadt-Blessem, sul fiume Erft, case e parte dello storico castello sono crollati, con i vigili del fuoco che invano cercavano di raggiungere i sepolti nel fango. L’Erft, anch’esso affluente sinistro del Reno, lungo solo 107 chilometri, normalmente di modesta portata, si è trasformato in un torrente impetuoso che ha aperto un’enorme voragine.

Nel distretto dello Euskirchen, a sud di Colonia, temendo che cedesse la vicina diga dello Steinbachtalsperre, inondando diverse città di medie dimensioni, molti dei residenti sono stati evacuati. La situazione nei villaggi e nelle valli della zona è rimasta critica.

Nella Renania Settentrionale-Vestfalia allagate 23 città, in tutto o in parte: Colonia, Leverkusen, Solingen, Hagen, Aachen, Düren e Trier. Regioni interessate, oltre all’Eifel, il Bergisches Land (a est di Colonia), il Sauerland e il sud‑est del Ruhrgebiet.

In settimana inondazioni simili, anche se meno devastanti, hanno colpito la Sassonia, l’Alta Baviera e l’Austria. La più colpita è stata la contea di Berchtesgadener Land al confine con l’Austria, con almeno due persone uccise e molte case distrutte da frane.

La vera dimensione dei danni non sarà nota per settimane o mesi. Ma in molte città e distretti è certamente su una scala che non si vedeva dalla seconda guerra mondiale. Molti volontari hanno prestato soccorso, compresi centinaia di vigili del fuoco. Il governo ha inviato circa 900 militari.

Molti si chiedono come può accadere un tale disastro in una parte così avanzata del mondo come la Germania?

La risposta sta, in parte, negli episodi estremi causati dal cambiamento climatico. Gli scienziati misurano da tempo i suoi effetti, che, per esempio, stanno causando calore e siccità senza precedenti in Canada e negli Stati Uniti occidentali. In Europa, i massicci acquazzoni sono attribuiti all’atmosfera più calda, che assorbe più umidità. Nelle città belghe di confine Jalhay e Spa sono stati registrati 271 mm e 217 mm di pioggia in solo 48 ore. Normalmente, il totale delle precipitazioni per l’intero mese di luglio è di circa 100 mm. Ma questo da solo non spiega tali conseguenze. È da considerare la combinazione dei fattori geografici, storici e lo sbilanciato sviluppo dell’economia capitalista.


L’Eifel, terra maledetta

Da sempre gli stessi abitanti dell’Eifel reputano la regione “maledetta”. Di fatto nei secoli è stata colpita da una serie di sciagure. Prospera nel Medioevo, con diversi monasteri, nei primi tempi moderni la regione si trovò circondata da quattro potenze – l’Impero, la Francia, le Province Unite dei Paesi Bassi e i Paesi Bassi spagnoli – che tutte cercavano di estendere i propri confini, o quelli dei loro vassalli nella zona, per renderli più difendibili.

Nella guerra dei trent’anni l’Eifel si trovò sulla cosiddetta “strada spagnola”, con la popolazione costretta a fornire alloggio, pane, carne, grano e birra agli eserciti in transito. Molti villaggi scomparvero. Ulteriori devastazioni furono causate dall’isteria contro la stregoneria, dalle guerre predatorie di Luigi XIV, dalle guerre di successione spagnola e polacca e dalle ricorrenti epidemie. Nella seconda metà del XVIII secolo, la peste devastò l’Eifel settentrionale e occidentale e la valle dell’Ahr, spopolando cittadine e villaggi.

Con il consolidarsi della proprietà sulla terra fu imposta agli affittuari la monocultura della patata; ma, come in Irlanda, i raccolti andavano perduti per le avversità del clima e per le fito‑malattie. Grandi tratti di campagna si trasformarono allora in lande sconfinate di ginepro, l’unica pianta resistente al morso delle pecore vaganti in greggi affamate. Mentre la terra si spopolava, le deserte strade di attraversamento divennero vulnerabili ai briganti, caddero in disuso e via via abbandonate.

Un barlume di speranza apparve alla fine del XVIII secolo: arrivarono i francesi, stavolta liberatori non oppressori. Dal 1794 l’Eifel divenne parte del dipartimento di Ourthe della Prima Repubblica. La Chiesa e i signori feudali furono spogliati dei loro poteri e, per la prima volta nella storia, la gente comune nell’Eifel ebbe diritti civili: non più corvée e imposte feudali. Si ebbe una certa ripresa economica, nuovi mercati si aprirono per le vecchie industrie dell’Eifel: cave e miniere di ferro e di piombo.

Tutto questo finì dopo le guerre napoleoniche quando il Congresso di Vienna attribuì l’Eifel alla Prussia. Una parte delle terre incolte furono forestate con pini e abeti non autoctoni.

Ma il governo prussiano omise l’unica cosa che avrebbe potuto salvare la regione da ulteriore rovina: non sviluppò una rete di comunicazioni in queste montuose campagne, il che avrebbe permesso all’industria metallurgica, riemersa sotto i francesi, di beneficiare delle nuove tecniche di fusione, che richiedevano l’importazione di carbone e coke, e di esportare in maggiori quantità. Invece le ultime enormi foreste di faggio furono abbattute per produrre carbone di legna – il cui uso si era estinto altrove in Europa. Quando l’industria del ferro infine crollò (al suo apice l’Eifel produceva il 10% del ferro europeo) in migliaia persero la loro unica fonte di reddito, in coincidenza con le grandi carestie causate da raccolti rovinati dalle piogge e dal gelo.

L’Eifel divenne la “Siberia prussiana”. Come in Irlanda contro gli abitanti si aggiunse l’insulto al danno, incolpati delle proprie disgrazie, “i pensionati affamati” del Regno di Prussia. L’Eifel, scomparsa dalla coscienza pubblica come una terra con una propria cultura e identità, andò spopolandosi.

Tra il 1834 e il 1911, 140.000 suoi abitanti, quasi la metà dell’intera popolazione, emigrarono in America. La povertà assoluta, la ripetuta perdita dei raccolti, il servizio militare obbligatorio nell’esercito prussiano – e, non ultimo, il fallimento della rivoluzione del 1848‑49 nel cacciare l’aristocrazia parassitaria – tutto ciò determinò l’ondata migratoria. Quasi tutti si diressero verso il Mid‑West americano. Si stabilirono in quattro destinazioni principali: Contea di McHenry, Illinois, Contea di Clinton, Michigan, Wisconsin orientale, comprese le contee di Fond du Lac e Brown, e Contea di Lorain, Ohio. Tra l’altro, questi immigrati riempirono i ranghi dei reggimenti del Wisconsin e dell’Illinois nell’esercito dell’Unione nella Guerra Civile.

L’Eifel non aveva più nulla da offrire alla borghesia tedesca, se non come argine a ritardare una possibile invasione francese. Più a sud, nella Renania prussiana, le ricche pianure alluvionali erano ideali per l’agricoltura capitalista su larga scala, in particolare per la coltivazione della patata, che alimentava la classe operaia; a nord‑est l’industria pesante si stabilì lungo il basso Reno e gli affluenti di destra, la Ruhr e la Lippe. L’Eifel rimase scarsamente popolata e le infrastrutture non sviluppate. Ancora oggi la principale attività economica, a parte lo sfruttamento dei torrenti di montagna per l’acqua minerale e la produzione di birra, è il turismo.


Altrove nel mondo

Ma inondazioni si sono avute anche in Cina e in Turchia.

Circa tre milioni di cinesi sono stati minacciati e in migliaia sono rimasti intrappolati in aree della Cina centrale dopo gravi inondazioni, con 33 annegati nella prima settimana, ma il bilancio aumenterà man mano che le squadre di recupero accedono a strade e gallerie sommerse nella città di Xinxiang. Forti temporali, dopo aver scaricato un anno di pioggia sulla capitale della provincia di Henan, Zhengzhou, si sono spostati a nord colpendo città e aree rurali. La Cina è investita spesso da inondazioni nei mesi estivi, ma la rapida urbanizzazione e la conversione dei terreni agricoli hanno esacerbato l’impatto delle forti piogge.

In Turchia circa in 200 hanno dovuto evacuare in seguito alle inondazioni nella regione orientale del Mar Nero il 21‑22 luglio. Il fiume Arhavi è straripato allagando il centro del distretto e le strade del villaggio nella provincia di Artvin. Almeno sei persone sono morte e due disperse in inondazioni e frane provocate da forti piogge la settimana precedente nella vicina provincia di Rize.

Dopo i terremoti, le inondazioni sono il secondo tipo di disastro naturale più distruttivo in Turchia. Studi recenti confermano che i rischi sono legati allo sviluppo economico, con la costruzione di edifici in posizioni esposte alle inondazioni, e quasi per niente al cambiamento climatico. Si accusa il passaggio dall’agricoltura tradizionale alle colture commerciali intensive, come il tè e il kiwi nel Rize.


Impotenza del capitale

Indubbiamente, un’azione preventiva avrebbe potuto ridurre i danni.

In Germania gli esperti dell’European Flood Awareness System, che all’inizio della settimana avevano emesso un avviso di alluvione estrema, si sono chiesti perché il bilancio è stato così alto: “un monumentale fallimento del sistema”.

Ma ci sono questioni di più vasta portata. A parte l’ovvia necessità di invertire il cambiamento climatico, la tecnica e le conoscenze idrauliche per prevenire tali inondazioni esistono. Per esempio attraverso sistemi di canali sotterranei di deflusso, come sono stati scavati sotto la città di Grimma in Sassonia dopo le inondazioni del 2002 e del 2013. Per non dire della classica sistemazione dei terreni agricoli e dei rimboschimenti. Secondo una ricerca nel Regno Unito, l’acqua penetra nel suolo sotto gli alberi 6‑7 volte di più che in un prato: le radici degli alberi aprono dei varchi all’acqua fino nella profondità nel terreno, che trattiene l’acqua e rilascia poi lentamente.

Ma in regioni come l’Eifel tali misure frutterebbero poco o nessun beneficio per la borghesia. Le risorse federali e statali per i progetti idrologici si sono concentrate nella costruzione di difese contro le inondazioni dai grandi fiumi, importanti arterie dell’economia nazionale per il trasporto di sfusi, combustibili, materiali da costruzione e prodotti chimici.

Dalle comunità più piccole non si traggono profitti, né le tasse per prendere provvedimenti locali.

La causa di quest’ultimo disastro è quindi chiara. In primo luogo il cambiamento climatico. Qui non è l’uomo “incapace”, o che “non conosce” o “non vuole” affrontare questa sfida, come tutti sostengono. È il modo di produzione capitalistico il mostro che sfugge al controllo umano e al quale sfugge il controllo della natura. Deve continuare a espandere la produzione, deve continuare ad obbligarci a consumare, perché altrimenti l’intero suo marcio sistema si bloccherebbe.

E questo significa sempre più emissioni pericolose e sempre più rifiuti. In secondo luogo, la natura competitiva del sistema capitalista significa che le imprese – e le nazioni – devono investire sempre più risorse in imprese redditizie da un lato, e nella macchina militare dall’altro. Proprio come abbiamo visto con la pandemia del coronavirus, la salute pubblica e la sicurezza devono quindi passare in secondo piano, mentre si sussegue una catastrofe all’altra.

 

 

 

  


Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale

Firenze, lunedì 19 luglio
Sciopero provinciale per la GKN
Unire le lotte dei lavoratori per il salario pieno ai lavoratori licenziati, la riduzione dell’orario di lavoro, la CIG al 100% del salario

Dal 30 giugno – giorno dello sblocco dei licenziamenti accordato da Cgil Cisl e Uil a governo e padronato – si allunga la lista delle aziende che hanno annunciato chiusure e licenziamenti: GKN, Gianetti Ruote, Whirlpool e molte altre più piccole che non fanno notizia.

La dirigenza della Cgil finge ora di indignarsi e quella della Fiom ha proclamato 2 ore di sciopero nazionale, articolate per territorio e per fabbrica: cercano di recuperare credibilità fra i lavoratori, cosa sempre più ardua, e soprattutto con la base dei propri iscritti e delegati, nella quale serpeggia malcontento.

Persino un dirigente del sindacalismo concertativo come l’ex segretario generale della Cgil Cofferati ha dichiarato che “da sindacalista non ho mai visto un accordo del genere”: Landini lo ha superato a destra, com’era da attendersi dallo stile parolaio con cui, negli 8 anni a capo della Fiom, ha coperto le sconfitte cui ha condotto prima gli operai FIAT e poi tutti i metalmeccanici.

Nella lotta degli operai della GKN contro i licenziamenti si pongono due problemi cruciali fra loro strettamente legati: chi la dirige e conduce le trattative; come far superare alla lotta i confini aziendali unendola alle lotte degli altri lavoratori.

Questi due problemi per essere affrontati e risolti correttamente vanno inquadrati nella condizione in cui versa l’economia capitalistica mondiale.

La chiusura della GKN non è un caso a sé bensì rientra pienamente nelle conseguenze della crisi di sovrapproduzione, in cui da anni sta affondando il capitalismo mondiale. Tale crisi colpisce la gran parte dei settori e quello automobilistico in particolare. Le aziende non trovano sbocco ai propri prodotti su mercati internazionali sempre più saturi, in cui la competizione si fa sempre più aspra. Per reggere a tale concorrenza da anni chiudono laddove il costo del lavoro è più alto e trasferiscono le fabbriche laddove è più basso. Questo processo è destinato ad aggravarsi perché la crisi di sovrapproduzione è un processo irreversibile a cui è condannato il capitalismo. Sempre più aziende chiuderanno, non solo nei vecchi capitalismi (i cosiddetti “paesi occidentali”) ma anche in quelli giovani, che negli ultimi decenni hanno permesso al capitalismo mondiale di tirare avanti col loro basso costo del lavoro.

In questa situazione, la difesa sindacale dei lavoratori non può essere condotta azienda per azienda: si tratta di difendere l’intera classe lavoratrice dalla crisi economica del capitalismo mondiale.

Cgil, Cisl, Uil da decenni hanno invece affinato, insieme a padroni e governi, un sofisticato meccanismo di “gestione delle crisi aziendali” finalizzato a risolvere ciascuna vertenza per sé, isolando ogni lotta contro i licenziamenti entro i muri della fabbrica. Sono oltre un centinaio i "tavoli" per crisi aziendali aperti al MISE, in cui vengono fatte appassire la rabbia e le speranze dei lavoratori.

Alla GKN, per seguire un destino diverso, per spezzare finalmente il meccanismo imbastito dal sindacalismo collaborazionista e incominciare a organizzare la difesa generale della classe lavoratrice dalla crisi del capitalismo, occorre che da un lato la direzione della lotta e della trattativa sia tolta ai dirigenti dei sindacati di regime e data al collettivo operaio di fabbrica, dall’altro che quest’ultimo, forte dell’autorevolezza che si è guadagnato in questi anni nel sindacalismo conflittuale, cerchi e promuova l’unità con gli altri lavoratori in lotta.

A questo scopo ci si può muovere in due direzioni. Prima, sostenere e battersi per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale – sindacati di base e frazioni sindacali combattive nella Cgil – affinché esso possa realmente candidarsi a sostituire i sindacati di regime nella direzione della lotta sindacale. Su questo terreno c’è ancora molto da fare. Finalmente quest’anno si è giunti, pochi giorni fa, alla proclamazione di uno sciopero generale nazionale unitario di tutto il sindacalismo di base per il prossimo 18 ottobre. Occorrerà lavorare alla sua miglior riuscita e alla più ampia adesione dei gruppi di lavoratori combattivi ancora entro i sindacati di regime.

Questo primo importante risultato nella battaglia per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale non è certo acquisito definitivamente, con le dirigenze del sindacalismo di base che per anni vi si sono opposte promuovendo azioni divise, e che solo contingentemente hanno cambiato rotta. Solo la pressione dal basso dei gruppi di lavoratori combattivi potrà permettere che tale unità d’azione divenga un fattore stabile e organico, che si dispieghi a tutti i livelli dell’azione sindacale: aziendale, territoriale, di categoria, intercategoriale. Ad esempio, a Firenze, sarebbe stato opportuno che fosse stato il sindacalismo di base a proclamare unitariamente lo sciopero generale provinciale di oggi, non lasciando l’iniziativa alla Cgil, che in tal modo cerca di rafforzare il suo controllo sulle lotte dei lavoratori. Tuttavia è positiva l’adesione allo sciopero di oggi di tutti i sindacati di base e la loro partecipazione alla manifestazione.

Seconda direzione, occorre che i lavoratori della GKN – come hanno fatto in passato, ad esempio con gli operai della Texprint di Prato – perseverino nella ricerca e costruzione dell’unità con le altre lotte contro i licenziamenti e con i gruppi di lavoratori combattivi nelle fabbriche del settore automobilistico.

Nel quadro della crisi di sovrapproduzione del capitalismo mondiale la lotta contro i licenziamenti non può fermarsi ai cancelli della fabbrica, solo opponendosi alla sua chiusura. Anche se ogni fabbrica venisse occupata e la produzione mandata avanti dagli operai, che senso avrebbe produrre merci che non trovano sbocco sul mercato? Inoltre la concorrenza fra aziende, in cui i padroni cercano di coinvolgere i lavoratori instillando in essi lo spirito aziendalista, per spremerli meglio, diverrebbe un problema per gli stessi operai.

Lo stesso dicasi per l’indicazione della nazionalizzazione delle grandi aziende: i lavoratori dell’industria di Stato sarebbero ugualmente in concorrenza con le altre aziende sul mercato mondiale, dovrebbero ugualmente sacrificarsi per far vincere la “loro” azienda statale nell’arena del mercato internazionale sempre più intasato dalla sovrapproduzione e, in tutto ciò, si puntellerebbe in essi l’ideologia nazionalista, invece che quella dell’unione internazionale dei lavoratori.

Ciò di cui hanno bisogno i lavoratori per vivere è il salario da un lato e il tempo libero dallo sfruttamento dall’altro. La lotta contro i licenziamenti, contro la chiusura delle fabbriche, è il primo necessario passo. L’unione di queste lotte è il passo successivo che può essere compiuto e completato solo con rivendicazioni che uniscano tutti i lavoratori, senza divisioni fra aziende grandi e piccole, senza legarli a ottiche aziendaliste e nazionaliste, senza dividerli lungo i confini nazionali. Tali rivendicazioni sono il salario pieno ai lavoratori licenziati e la riduzione dell’orario di lavoro e della vita lavorativa.

Se l’economia capitalista per le sue inesorabili contraddizioni da anni declina e domani crollerà, i lavoratori devono essere organizzati a lottare non per il suo impossibile mantenimento in funzione, tenendo aperte fabbriche che i capitalisti vogliono chiudere, ma in difesa dei loro bisogni, chiedendone soddisfazione – unitamente come classe sociale – al regime politico borghese. Sono queste rivendicazioni sindacali quelle suscettibili, per il loro carattere, a portare la lotta sindacale della classe operaia sul terreno politico, rendendo finalmente concreto il motto assunto dai lavoratori GKN: Insorgiamo!

Infine, è essenziale ricercare l’unione dei lavoratori colpiti da licenziamenti coi lavoratori occupati. Per la GKN questo percorso è naturale che inizi all’interno del gruppo Stellantis (ex FCA) e del settore automobilistico. Occorre sviluppare e rinforzare il coordinamento fra i gruppi operai e sindacali combattivi presenti in queste fabbriche. Smuovere i lavoratori dalla passività che contraddistingue questo settore – come d’altronde la gran parte degli altri – non è facile, in buona parte in ragione dell’ampio ricorso alla cassa integrazione da parte di Stellantis e delle altre aziende. Per questo occorre rivendicare anche aumenti salariali e l’elevamento della cassa integrazione al 100% del salario. Un efficace coordinamento fra i gruppi operai combattivi e le giuste rivendicazioni sono gli elementi che possono far sperare che i lavoratori GKN non ricevano solo generica solidarietà ma effettiva solidarietà operaia, che si attua con lo sciopero.


Campi Bisenzio, sabato 24 luglio, manifestazione nazionale GKN
La lotta alla GKN va inserita in una mobilitazione generale nel gruppo Stellantis e unita a tutte le altre lotte contro i licenziamenti per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, la CIG al 100% del salario, il salario pieno ai lavoratori licenziati !

Dal 30 giugno – giorno dello sblocco dei licenziamenti accordato da Cgil Cisl e Uil a governo e padronato – si allunga la lista delle aziende che annunciano chiusure e licenziamenti: GKN a Firenze, Gianetti Ruote a Monza, Whirlpool a Napoli, Timken a Brescia, ABB a Vicenza e molte altre più piccole che non fanno notizia.

La dirigenza della Cgil finge ora di indignarsi e quella della Fiom ha proclamato 2 ore di sciopero nazionale, articolate per territorio e per fabbrica: cercano di recuperare credibilità fra i lavoratori, cosa sempre più ardua, e soprattutto con la base dei propri iscritti e delegati, nella quale serpeggia malcontento.

A conferma di quanto fasulle siano le intenzioni dei sindacati di regime – che non intendano chiamare i lavoratori alla lotta – Fiom Fim e Uilm non hanno indetto alcuna mobilitazione gli operai nelle fabbriche del gruppo Stellantis, se non per due ore di sciopero a Mirafiori appena per il 30 luglio. Eppure è evidente che, se vi possono essere delle possibilità di far revocare la chiusura della GKN, queste risiedono nel promuovere innanzitutto una lotta di tutto l’ex gruppo FIAT, per la quale la GKN destinava la gran parte della sua produzione.

Il settore automobilistico soffre in modo particolare della crisi di sovrapproduzione che affligge nel suo complesso e da decenni l’economia capitalistica mondiale. Poche settimane fa nel principale stabilimento Stellantis d’Italia – quello di Melfi – Fiom Fim e Uilm hanno firmato un accordo scellerato per la riduzione delle linee di produzione a una sola e per il passaggio di produzioni dell’indotto internamente alla fabbrica madre. Ciò produrrà ulteriori licenziamenti sia nella fabbrica sia nell’indotto.

Una vertenza generale del gruppo Stellantis dovrebbe rivendicare, contro licenziamenti e chiusure di stabilimenti del gruppo e dell’indotto, la riduzione dell’orario di lavoro e l’elevazione della Cassa Integrazione al 100% del salario, giacché buona parte degli operai in tutte le fabbriche si trova a lavorare pochi giorni al mese e a ricevere stipendi miseri, il che li frena dal partecipare ad azioni di sciopero nei pochi giorni in cui sono al lavoro.

È di questo indirizzo d’azione sindacale che hanno bisogno gli operai della GKN, della Gianetti, della Timken – tutte fabbriche del settore automobilistico – non della fasulla solidarietà di istituzioni, chiesa e partiti borghesi, o di due ore di sciopero proclamate dai sindacati di regime per salvarsi la faccia.

Ma la lotta degli operai della GKN deve collegarsi anche alle lotte contro i licenziamenti di tutti gli altri settori. Seppur fosse fino all’ultimo pienamente attivo, infatti, anche la chiusura dello stabilimento GKN è conseguenza della crisi di sovrapproduzione dell’economia capitalistica mondiale: mercati sempre più asfittici determinano una concorrenza sempre più agguerrita fra i gruppi industriali e una esasperata ricerca di risparmio sui costi, ciò che presumibilmente ha spinto Stellantis a preferire altri fornitori dei componenti che erano prodotti dalla GKN.

È da anni che le aziende chiudono fabbriche nei paesi industrialmente maturi per delocalizzarle nei giovani capitalismi, dove i salari sono più bassi. Ma la sovrapproduzione è un processo che avanza inesorabilmente nell’economia mondiale e che già sta iniziando a colpire anche quei capitalismi ormai non più così giovani, maturati precocemente, a cominciare dalla Cina.

In questa situazione la difesa sindacale dei lavoratori non può essere condotta azienda per azienda: si tratta di difendere l’intera classe lavoratrice dalla crisi economica del capitalismo mondiale.

Cgil, Cisl, Uil si rifiutano di farlo e da decenni hanno invece affinato, insieme a padroni e governi, un sofisticato meccanismo di “gestione delle crisi aziendali”, finalizzato a risolvere ciascuna vertenza per sé, isolando ogni lotta contro i licenziamenti entro i muri della fabbrica. Sono oltre un centinaio i tavoli per crisi aziendali aperti al MISE, in cui vengono fatte appassire la rabbia e le speranze dei lavoratori.

Per questo occorre sostenere e battersi per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale – sindacati di base e frazioni sindacali combattive nella Cgil – affinché esso possa realmente candidarsi a sostituire i sindacati di regime nella direzione della lotta sindacale. Su questo terreno c’è ancora molto da fare.

Finalmente quest’anno si è giunti, pochi giorni fa, alla proclamazione di uno sciopero generale nazionale unitario di tutto il sindacalismo di base per il prossimo 18 ottobre. Occorrerà lavorare alla sua miglior riuscita e alla più ampia adesione dei gruppi di lavoratori combattivi ancora entro i sindacati di regime.

Questo primo importante risultato nella battaglia per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale non è certo acquisito definitivamente, con le dirigenze del sindacalismo di base che per anni vi si sono opposte promuovendo azioni divise, e che solo contingentemente hanno cambiato rotta. Solo la pressione dal basso dei gruppi di lavoratori combattivi potrà permettere che tale unità d’azione divenga un fattore stabile e organico, che si dispieghi a tutti i livelli dell’azione sindacale – aziendale, territoriale, di categoria, intercategoriale – conducendo alla formazione di un fronte unico sindacale di classe, ulteriore passo in avanti verso la rinascita – fuori e contro i sindacati di regime – di un grande sindacato di classe.

L’occupazione della fabbrica da parte degli operai della GKN è una conferma della loro combattività. Ma nel quadro della crisi di sovrapproduzione la lotta contro i licenziamenti non può fermarsi ai cancelli della fabbrica, solo opponendosi alla sua chiusura. Anche se ogni fabbrica venisse occupata e la produzione mandata avanti dagli operai, che senso avrebbe produrre merci che non trovano sbocco sul mercato? Inoltre, la concorrenza fra aziende, in cui i padroni cercano di coinvolgere i lavoratori instillando in essi lo spirito aziendalista, per spremerli meglio, diverrebbe un problema degli stessi operai.

Lo stesso dicasi per l’indicazione della nazionalizzazione delle grandi aziende: i lavoratori dell’industria di Stato sarebbero ugualmente in concorrenza con le altre aziende sul mercato mondiale, dovrebbero ugualmente sacrificarsi per far vincere la “loro” azienda statale nell’arena del mercato internazionale, sempre più intasato dalla sovrapproduzione e, in tutto ciò, si puntellerebbe in essi l’ideologia nazionalista, invece che quella dell’unione internazionale dei lavoratori.

Ciò di cui hanno bisogno i lavoratori per vivere sono in primo luogo il salario e il tempo libero dallo sfruttamento. La lotta contro i licenziamenti, contro la chiusura delle fabbriche, è il primo necessario passo da compiere. L’unione di queste lotte è il passo successivo che però può essere completato solo con rivendicazioni comuni che uniscano tutti i lavoratori, senza divisioni fra aziende grandi e piccole, senza legarli a ottiche aziendaliste e nazionaliste, senza dividerli lungo i confini nazionali. Tali rivendicazioni sono il salario pieno ai lavoratori licenziati e la riduzione dell’orario di lavoro e della vita lavorativa.

La lotta dei lavoratori in difesa dagli effetti della crisi dell’economia capitalistica non deve rinchiudersi nei fortini di poche fabbriche ma uscire da esse e riversarsi nelle strade e nelle piazze, per coinvolgere e unirsi alle centinaia di migliaia di lavoratori già licenziati nonostante vigesse il blocco.

L’economia capitalista mondiale per le sue inesorabili contraddizioni da anni è in declino e un domani sempre più vicino crollerà, i lavoratori devono essere organizzati per lottare non per il suo impossibile mantenimento in funzione, tenendo aperte fabbriche che i capitalisti vogliono chiudere, ma in difesa dei loro bisogni, chiedendone soddisfazione. Sono queste rivendicazioni sindacali quelle suscettibili, per i loro caratteri di classe, di portare la lotta sindacale sul terreno politico, rendendo finalmente concreto il motto assunto dai lavoratori GKN: Insorgiamo!

 

 

 

  


I sindacati di regime firmano lo sblocco dei licenziamenti

Il 30 giugno governo, industriali e sindacati di regime hanno raggiunto un accordo per sbloccare i licenziamenti, in tutte le categorie tranne che nel tessile e calzaturiero, dove il blocco è stato prorogato al 31 settembre.

Il capolavoro di nullità compiuto dalle segreterie nazionali di Cgil Cisl e Uil è stato quello di ottenere che gli industriali firmassero un documento in cui si “raccomandava”, prima di procedere ai licenziamenti collettivi, di ricorrere per 13 settimane agli ammortizzatori sociali. Dai giorni successivi si è subito mostrato il valore che aveva quella raccomandazione. Diverse aziende hanno annunciato dall’oggi al domani chiusure o tagli alla forza lavoro.

La vertenza che più ha fatto parlare di sé è stata quella della GKN di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, fabbrica che produceva semiassi, in gran parte per Stellantis (ex FCA). Ciò in ragione del fatto che in quella fabbrica è attivo uno fra i gruppi operai più combattivi nel settore metalmeccanico. 6 delegati RSU su 7 sono della Fiom Cgil, tutti dell’area di opposizione.

La proprietà, un fondo finanziario inglese, ha annunciato la chiusura il 9 luglio. Il partito ha redatto tre diversi comunicati, distribuiti nelle numerose manifestazioni e assemblee che, nonostante il periodo estivo, hanno avuto tutte una grande partecipazione. Qui pubblichiamo l’ultimo dei tre, distribuito sabato 24 luglio alla manifestazione nazionale a Campi Bisenzio, assai ben riuscita, con oltre 5.000 partecipanti. I due precedenti si possono leggere sul nostro sito.

I sindacati di base hanno partecipato alle mobilitazioni degli operai GKN, nonostante questi siano organizzati nella Fiom Cgil, fatto positivo. Alla manifestazione del 24 luglio erano presenti Cub, SI Cobas, Confederazione Cobas e Usb. Quest’ultima ha organizzato lo spezzone più consistente fra i sindacati di base, con un grande sforzo organizzativo, mentre gli altri erano presenti con forze alquanto ridotte. Tuttavia l’Usb ha deciso di inquadrarsi, invece che nella prima metà del corteo, quella delle organizzazioni sindacali, nella seconda, quella delle organizzazioni politiche. Un modo per marcare un certo distacco, sia dalla Cgil sia dagli altri sindacati di base.

I gruppi di fabbrica dell’Usb di Livorno e Pisa hanno poi firmato un comunicato rivolto agli operai GKN in cui è posto quale problema centrale della loro lotta l’inquadramento nella Cgil. A noi questa impostazione pare sbagliata. Il sindacato di classe nascerà fuori e contro Cgil Cisl e Uil, ma per marciare in quella direzione ora si tratta di unire nell’azione i sindacati di base, le aree conflittuali nella Cgil e i gruppi operai combattivi presenti in tutti i sindacati di regime, e impostare correttamente l’indirizzo pratico di lotta. È su questa strada che può rafforzarsi il sindacalismo conflittuale e potranno maturare le condizioni che porteranno allo scontro inconciliabile fra le strutture di Cgil Cisl e Uil e i gruppi conflittuali che ancora stanno al loro interno. I dirigenti dell’Usb invece temono che stabilire un’azione comune con aree conflittuali e gruppi operai combattivi entro la Cgil torni a rafforzare l’illusione di poter cambiare la Cgil. Di fatto mostrano di non avere fiducia circa l’incompatibilità del sindacalismo di classe con quel sindacato di regime.

I capi del collettivo operaio della GKN ribadiscono costantemente che la loro lotta non è un caso a sé, deve essere unita a quelle degli altri lavoratori e può vincere solo se “cambiano i rapporti di forza in questo paese”. Questa impostazione è corretta laddove il collettivo cerca di entrare in contatto e coordinare azioni di lotta con altri lavoratori, come fatto con gli operai della Texprint, della Linear G, della Whirlpool, con le RSA Fiom della Maserati e della Ferrari di Modena, coi lavoratori della ex Alitalia.

Il sindacalismo di base dovrebbe lavorare a favorire questo compito e un passo importante dovrebbe essere riunire tutti i gruppi del sindacalismo conflittuale nelle fabbriche Stellantis per provare a coordinare un’azione comune con gli operai GKN. Questo sarebbe un passo concreto verso la costruzione dello sciopero generale nazionale dell’11 ottobre, proclamato unitariamente da tutte le organizzazioni del sindacalismo di base – un fatto estremamente importante – in cui coinvolgere gli operai GKN e quanti più lavoratori possibile ancora organizzati nei sindacati di regime.

 

 

 

 


Come difendersi dalla pandemia

Le misure di contenimento della pandemia usate sino ad oggi sono esemplificative della natura del capitalismo e dei rapporti fra le classi sociali che lo compongono.

Quanto meno possibile è stata fermata l’industria manifatturiera – in Italia per poche settimane, parzialmente e solo dopo gli scioperi del marzo 2020 – confessione di come sia essa il cuore del capitalismo, la fonte principale del plusvalore. Così pure i settori logistico e agricolo.

Una parte della piccola borghesia è stata invece colpita col fermo o limitazioni alle sue attività. Si è mobilitata e i governi hanno risposto coi provvedimenti economici cosiddetti “ristori”.

È È sul proletariato che si sono scaricate le conseguenze maggiori. 558.000 – dati ministeriali – sono stati i posti di lavoro perduti nel solo 2020, nonostante il blocco dei licenziamenti. Formalmente non sono stati licenziamenti, trattandosi di contratti di lavoro a tempo determinato, semplicemente non rinnovati al loro scadere. Gli operai che invece hanno continuato a recarsi al lavoro, nelle fabbriche, nei magazzini, nei campi, nei porti, hanno dovuto farlo in condizioni di sicurezza sanitaria insufficienti o del tutto assenti.

Questo anche nelle strutture ospedaliere, dove massima avrebbe dovuto essere l’attenzione in tal senso, a conferma di come la struttura sanitaria sia inadeguata non solo a tutelare la salute pubblica ma perfino se stessa, quella di chi vi lavora.

Per la classe operaia attiva si sono aggravate anche le condizioni di sicurezza generali, come prova la crescita del numero di morti sul lavoro, indice dell’aumento dello sfruttamento.

I lavoratori delle attività sospese hanno ricevuto misere somme di cassa integrazione, per di più elargite con mesi di ritardo.

Diversamente dalla piccola borghesia – che si è organizzata ed è scesa in strada ripetutamente, ottenendo qualcosa – in 18 mesi di pandemia i lavoratori non sono stati mobilitati dai sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil), che non hanno mosso un dito né per rivendicare azioni a difesa della salute di chi lavora – nella sanità, nella scuola, nei trasporti – né per tutelare i licenziati e chi in cassa integrazione.

Parte di questi ultimi hanno così finito per accodarsi alle mobilitazioni dei loro padroncini, rivendicando la riapertura comunque delle attività, invece che incrementi degli assegni della cassa integrazione e pagamenti più rapidi.

I sindacati di base hanno assunto posizioni sostanzialmente corrette, ma si sono confermati ancora troppo deboli per riuscire a distogliere i lavoratori dall’immobilismo in cui li hanno tenuti i sindacati di regime; compito di per sé arduo, che la pandemia ha aggravato.

Governi e industriali non sono interessati alla salute pubblica ma all’accumulazione capitalistica. Desiderano il ritorno al più presto alla massima attività produttiva e ai consumi. Hanno dimostrato di non farsi alcuno scrupolo a mettere in conto un certo numero di vittime per il contagio, quale sacrificio necessario sull’altare del profitto.

E all’ordine pubblico sono interessati. Hanno perfino cambiato il criterio di allarme, commisurato ai posti in rianimazione liberi negli ospedali: importante è che non ci siano i morti per le strade.

Che solo questi siano i veri interessi della borghesia e del suo regime lo conferma il fatto che in un anno e mezzo di pandemia nulla hanno disposto per rafforzare sanità, scuola e trasporti pubblici.

La diagnosi precoce e la cura, domiciliare e ospedaliera, della malattia e il tracciamento sono fondamentali e richiederebbero un grande potenziamento della sanità, a cominciare da quella territoriale, che in una società veramente umana sarebbe uno dei settori centrali della vita sociale. Invece nella sanità sono state fatte solo poche assunzioni e per di più a tempo determinato.

Nella scuola a settembre il governo vuol far tornare insegnanti e studenti nelle stesse aule, spesso sovraffollate. Anche i mezzi pubblici torneranno a riempirsi come sempre perché nemmeno in questo settore sono state fatte assunzioni.

Il fatto che i sindacati di regime, in primis la Cgil, che si riempono la bocca di grandi progetti di difesa dello Stato sociale, di fronte alla pandemia non abbiano chiesto maggiori stanziamenti e assunzioni nella sanità pubblica, nella scuola e nei trasporti, dà la misura di quanto sia fasullo e privo d’ogni consistenza il loro riformismo.

Altro elemento rivelatore dei veri interessi del regime borghese è stata la revoca della indennità di quarantena per i lavoratori, concessa nel marzo 2020. L’8 agosto l’INPS ha informato che il governo non l’ha rifinanziata e che perciò a partire dal 1° gennaio 2021 – quindi retroattivamente – il lavoratore messo in quarantena, da 7 a 14 giorni, non percepirà alcun salario. Un incentivo a non comunicare alle istituzioni sanitarie l’avvenuto contatto con persone contagiate, per non perdere il salario. I sindacati di base hanno prontamente denunciato questo atto governativo.

L’introduzione del cosiddetto Green Pass è venuta a rimarcare la contrapposizione fra favorevoli e contrari ai vaccini anti‑Covid.

I lavoratori della scuola privi del certificato verde non potranno recarsi a lavorare e saranno sospesi, senza salario. Per avere il certificato occorre disporre di almeno una di queste quattro condizioni: aver fatto un richiamo vaccinale; aver completato il ciclo vaccinale col secondo richiamo; essere guariti dal Covid entro gli ultimi sei mesi; aver effettuato un tampone con esito negativo nelle ultime 48 ore. Ma il ministero dell’istruzione ha però precisato che non pagherà i tamponi: i lavoratori quindi dovranno farli a loro spese (15‑20 euro ogni due giorni) per non restare a casa senza salario.

Poiché si stanno palesando i limiti dei vaccini sinora somministrati nel ridurre i contagi della nuova variante delta del virus, è evidente che ad essere sottoposti a tampone periodico dovrebbero essere tutti i lavoratori, non solo i vaccinati. Ma ciò, oltre alla spesa per i tamponi, implicherebbe certamente il dover mettere un certo numero di lavoratori in malattia o in quarantena, con ulteriori costi che il governo vuole evitare.

Un’altra discriminazione effetto del Green Pass si ha nelle mense aziendali, per accedere alle quali il governo ha stabilito che occorre essere in possesso del vaccino o del tampone negativo entro le 48 ore, questo pagato dal dipendente. Si ha così una divisione fisica dei lavoratori, con quelli privi di certificazione costretti a consumare pasti di qualità peggiore (ad esempio freddi) in luoghi non idonei. I sindacati di base e i gruppi operai di opposizione sindacale entro la Cgil hanno in questi giorni già promosso azioni di lotta contro questa discriminazione, ad esempio alla Electrolux di Susegana e Forlì.

Sul piano dell’indirizzo di azione da proporre ai lavoratori e al sindacalismo conflittuale questi riteniamo siano i punti per cui battersi, a tutela della salute proletaria:
     - contro ogni discriminazione prodotta dall’applicazione della tessera sanitaria tramite tamponi gratuiti, a carico dell’azienda o dello Stato, per i lavoratori, anche per i vaccinati;
     - mascherine FFP2 gratuite per i lavoratori in luogo di quelle chirurgiche;
     - salario pieno ai lavoratori in quarantena;
     - i sindacati dovrebbero mobilitarsi per provvedimenti atti a combattere la pandemia: potenziamento – a cominciare dalle assunzioni – di sanità, scuola e trasporti pubblici. Queste dovrebbero essere mobilitazioni non solo dei singoli settori ma intercategoriali, giacché la questione interessa tutta la classe lavoratrice.

 

 

 

 

  


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Passa anche in Grecia, nella impotenza dei sindacati, un nuovo grave attacco alla classe operaia

Dopo l’approvazione della nuova legge sul lavoro da parte del Parlamento, il “Giornale dei Redattori”, vicino alle posizioni di Syriza e della socialdemocrazia greca, titolava: “Ritorno al Medioevo”.

Nulla di più fuorviante! La legge approvata dal Parlamento a giugno, con i voti della maggioranza di destra, risponde alle più recenti direttive di tutte le borghesie del mondo, e pure della Commissione Europea, verso una sempre maggiore flessibilità e precarietà del lavoro e con ulteriori limitazioni agli scioperi e all’organizzazione sindacale. È quindi frutto non di arretratezza ma di una necessità e di una esplicita richiesta del più moderno modo di produzione capitalistico, sempre più in crisi e sempre più inumano ed antistorico.

Il governo ha giustificato la legge per consentire alla Grecia di “cogliere le opportunità di crescita”, dopo la crisi del 2020 e la pandemia, “migliorare la competitività” e “creare nuovi posti di lavoro”, attirando investitori stranieri per i ridotti costi salariali e generali. La nuova legge abolisce di fatto la giornata di 8 ore e la settimana di 5 giorni lavorativi; elimina l’obbligo per gli imprenditori di pagare salari maggiorati per lo straordinario oltre le 8 ore e i 5 giorni e prevede che si possa lavorare fino a 10 ore giornaliere senza integrazione salariale; si potrà compensare lo straordinario con giorni di ferie. È comunque salvaguardato il limite delle 40 ore settimanali. Le ore in eccesso alle 40 saranno conteggiate come straordinario; sono consentite fino a 150 ore annue di straordinario, o anche più per “lavori urgenti”, con una maggiorazione del 40% sul salario, mentre attualmente il massimo è di 120 ore e la maggiorazione è del 60%.

A ciò si aggiunge l’abolizione del riposo domenicale obbligatorio e l’introduzione del tele‑lavoro. Viene inoltre attivata una “carta di lavoro digitale” per monitorare le ore lavorate.

L’innalzamento della giornata lavorativa a 10 ore abbatte uno dei simboli del movimento operaio internazionale, le otto ore, frutto di più di un secolo di dure lotte, ma nella pratica attualmente buona parte del proletariato, anche in Grecia, è in tale condizione di debolezza che deve accettare situazioni lavorative ben più pesanti, per orario e per salario.

Ma l’aspetto peggiore della legge è l’attacco al ruolo dei sindacati, essa dà infatti spazio a rapporti individuali tra il salariato e l’azienda, puntando al superamento dei contratti collettivi nazionali. I lavoratori perdono così la possibilità di far valere la forza del numero e della loro organizzazione nella determinazione degli orari e dei salari. Secondo la nuova legge questi si risolveranno nel quadro di “contratti individuali”, aggirando i sindacati!

Potrebbe essere il colpo finale al riconoscimento dei contratti collettivi, già gravemente limitato con i “memorandum di austerità”, dopo la crisi del 2010‑11, anche con la collaborazione del governo di Syriza nel periodo 2015‑19, che adesso fa finta di opporsi alla iniziativa del governo di destra.

L’attacco al sindacato non si limita a questo. Ora i sindacati sono obbligati a tenere un “registro degli iscritti” digitale, a disposizione del Ministero del Lavoro e delle organizzazioni padronali. La decisione di uno sciopero dovrà prima essere approvata (con voto elettronico) dal 50%+1 di tutto il personale dell’azienda. Nei settori critici dei servizi pubblici (sanità, istruzione, trasporti, energia, ecc.) in caso di sciopero il 35% della forza lavoro deve continuare a lavorare, per “responsabilità sociale”.

Nel caso che il sindacato non rispetti queste regole i lavoratori potranno subire sanzioni civili e penali. Un sistema simile a quello che in Italia colpisce per ora i lavoratori che svolgono servizi pubblici cosiddetti “essenziali” ma non quelli dell’industria, del commercio ecc.

In questi giorni di fine agosto, con un tempismo insolito, il governo greco ha emanato la circolare attuativa della legge, per impedire che il prossimo autunno si trasformi in una nuova stagione di lotte. In effetti le conseguenze negative della pandemia sulla stagione turistica, i terribili incendi che hanno devastato vaste aree della Grecia (l’isola di Eubea, l’Attica, il Peloponneso) distruggendo foreste, abitazioni, impianti industriali e agricoli, fanno ben poco sperare per i prossimi mesi e il proletariato greco rischia di vedere peggiorare ulteriormente le sue condizioni.

Il governo, sollecitato dal padronato, ha così sotterrato per legge, quel "diritto di sciopero" pure difeso dalla Costituzione (per quello che vale!).

Nei mesi precedenti l’approvazione della legge i principali sindacati, la Confederazione generale dei lavoratori greci (GSEE), la Confederazione dei dipendenti pubblici (ADEDY) e il Fronte militante di tutti i lavoratori (PAME), hanno indetto delle manifestazioni e anche uno sciopero generale di 24 ore. Queste lotte però hanno messo in evidenza non la forza ma lo stato di debolezza del proletariato greco che negli ultimi anni ha dovuto ingoiare una serie di brucianti sconfitte e ha visto peggiorare notevolmente le sue condizioni.

Secondo i dati OCSE per il 2019, l’orario di lavoro effettivo medio in Grecia è stato di 1.950 ore l’anno, inferiore soltanto a quello di Corea e Messico, mentre è molto più alto, ad esempio, di quello della Germania (1.386 ore). I salari reali tra il 2008 e il 2019 si sono ridotti del 30%, il salario medio passato da circa 1.300 euro a 950.

L’attuale governo inoltre, in linea con i precedenti, sta elaborando piani per la privatizzazione del sistema pensionistico e previdenziale, nonché per massicce privatizzazioni di tutto ciò che è ancora di proprietà dello Stato.

A questo il proletariato non riesce ad opporre un unico fronte sindacale di lotta classista, dato che i due principali sindacati fanno una politica di sostanziale accordo con il padronato mentre il PAME contribuisce alla divisione del fronte sindacale, legato com’è a doppio filo con il macigno opportunista del KKE.

I partitini e le organizzazioni politiche a sinistra del KKE, mentre si agitano nella ricerca di una fantomatica unità politica, trascurano di organizzare i lavoratori sul piano delle rivendicazioni sindacali, superando le divisioni tra le categorie, per cercare di ricostituire la indispensabile unità della classe, sulla base di rivendicazioni generali e unificanti come, in primo luogo, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.


Messico - Il prezzo del GPL aumenta - I salari restano a fondo

Quando in Messico il governo di López Obrador (AMLO), con una “Direttiva di emergenza” il 28 luglio ha provato a ridurre il prezzo del GPL per uso domestico e affidarne la distribuzione alla nuova compagnia statale “Gas Bienestar”, è scattata la risposta dei cartelli di questo grosso affare, che muove miliardi di pesos al giorno.

Lo sciopero e la protesta dei cosiddetti “commissionari” – che consegnano le bombole e ricaricano i serbatoi fissi e che possono chiudere il rubinetto agli utenti finali, in un clima di “informalità tollerata” – è stata la loro risposta, sostenuta dalla massa degli addetti informali alla distribuzione. I “commissionari” sono stati spinti a scioperare dai distributori, quando il nuovo prezzo fissato dal governo ha ridotto i loro margini quasi a zero. Con questa serrata i datori di lavoro intendevano costringere il governo a fare marcia indietro sul calmiere del prezzo e sulla creazione della società pubblica. Ma la serrata presto è stata interrotta qaundo il governo ha minacciato di intervenire con la Guardia Nazionale. Ora il confronto sarà tra il governo e le compagnie di distribuzione.

Almeno l’80% della popolazione ha sofferto della carenza di GPL.

Negli anni i governi hanno permesso l’aumento esponenziale del prezzo del gas. Quando la compagnia petrolifera statale, PEMEX, affermò di non riuscire a far fronte alla crescente domanda industriale e domestica, si aprì al capitale privato, alle condizioni più lucrative, naturalmente.

Il Messico ha grandi riserve di gas, nelle Americhe secondo solo agli Stati Uniti e al Venezuela. Ma il gas, come in molti paesi produttori, non era commercializzato, concentrandosi sul prodotto principale, il petrolio: il gas era ripompato nei pozzi o semplicemente bruciato.

Nel frattempo gli Stati Uniti hanno aumentato assai la loro produzione di petrolio e di gas. Poiché in Texas si estraevano alti volumi di gas, per il quale non si disponeva delle infrastrutture per avviarlo ai mercati internazionali, finiva nel vicino Messico, a prezzo ridotto. Ma in Texas si sono predisposte nuove infrastrutture di trasporto e il prezzo è diventato più sensibile agli alti e bassi del mercato mondiale.

In Messico da domenica 8 agosto il gas è venduto al dettaglio a più di 500 pesos. Il salario minimo non supera i 150 pesos. Il prezzo del GPL, sia per i serbatoi fissi sia in bombole è aumentato di 45 centesimi al chilo, 15 al litro. Anche con l’intervento del governo, che ha imposto tagli ai nuovi prezzi, il colpo ai salari dei lavoratori e alle piccole imprese di ogni tipo è stato molto duro.

Nel mezzo del più grande aumento in 20 anni del prezzo internazionale, il valore delle importazioni messicane di GPL tra gennaio e maggio scorso è aumentato del 67,5% a 1,299 miliardi di dollari. Nello stesso periodo le importazioni di benzina e diesel – i due derivati del petrolio che il Messico importa maggiormente – sono cresciuti solo del 3,2% e dell’1,8%. Il notevole aumento del valore del GPL importato si spiega principalmente con il significativo aumento del prezzo del suo principale componente, il propano, il cui prezzo medio internazionale (Mont Belvieu, spot) tra gennaio e maggio è aumentato a 0,865 dollari a gallone, del 132% rispetto allo stesso periodo del 2020.

Per altro, il volume di GPL importato dal Messico nel periodo gennaio-maggio è cresciuto solo del 6,8%. PEMEX potrebbe perseguire una strategia di sostituzione delle forniture di gas attingendo al gas naturale che può essere prodotto in Messico. Ma questa è una soluzione che richiede tempo e investimenti significativi.

Cinque grandi compagnie controllano la distribuzione del gas nazionale, operano in modo cartellizzato, imponendo i prezzi e dividendosi le aree.

Gli opportunisti presentano questo conflitto come uno scontro tra i cartelli capitalisti del gas da una parte e il governo e i lavoratori dall’altra. AMLO ha dichiarato che “il governo non si piegherà allo sciopero”; ma subito, conciliante, ha aggiunto: “È già stato spiegato loro che è una misura di emergenza, temporanea, fino a quando non si stabilirà un equilibrio nei prezzi, perché sono andati troppo in alto e stanno colpendo l’economia popolare”. Ma questo “equilibrio dei prezzi” non sarà raggiunto, a meno che non si attuino politiche di sussidio attraverso il PEMEX e “Gas Bienestar”, lasciando nelle mani del capitale privato i segmenti redditizi del mercato e allo Stato le perdite per la protezione delle famiglie e delle piccole imprese. Se si prenderà questa strada dei prezzi amministrati, sorgerà una rivendita di GPL in un mercato parallelo.

Il governo di AMLO, come i precedenti, amministra solo gli interessi della borghesia, gli interessi del grande capitale, anche quando afferma di cercare una “mediazione” tra i profitti delle imprese, i prezzi internazionali e il potere d’acquisto dei lavoratori. L’apparente confronto tra il governo e i padroni del gas non deve confondere i lavoratori.

Anche alcuni appelli per la nazionalizzazione delle compagnie del gas e il loro trasferimento al “controllo dei lavoratori”, sebbene suonino “radicali”, in realtà allontanano i lavoratori dalla lotta fondamentale per gli aumenti salariali. Ancora una volta l’opportunismo stende le sue trappole sul cammino del proletariato per allontanarlo dal centro della sua battaglia.

Il movimento operaio messicano deve avanzare nella sua organizzazione sindacale di base e orientarsi verso l’unità d’azione per aumenti salariali e riduzione della giornata. Il prezzo del gas deve essere coperto da più salario. In questa lotta il governo di AMLO è nemico dei lavoratori tanto quanto i cartelli capitalisti del gas e l’intera economia.


Venezuela
I Tribunali sfruttano i lavoratori e li espongono al Covid

Il presidente del borghese governo venezuelano ha annunciato la formazione di una “Commissione presidenziale per la rivoluzione del sistema giudiziario”, la cui missione sarà “decongestionare i centri di detenzione”, “ridurre il sovraffollamento delle carceri e accelerare i processi penali”.

Subito il presidente del TSG ha annunciato che «i tribunali che trattano casi che riguardano detenuti lavoreranno per 60 giorni continuativi». Per questi lavoratori non ci sarà nemmeno il limite “7 ore per 7 giorni”, saranno immolati per realizzare la demagogia governativa e per far funzionare l’apparato repressivo borghese.

Forse che lo Stato borghese ha finalmente scoperto che il ritardo nelle procedure e il sovraffollamento delle carceri è una conseguenza delle misure di controllo preventivo per il Covid19? Niente affatto: dietro a questo spettacolo elettorale, lo Stato continua ad affollare i lavoratori dei tribunali in ambienti che favoriscono la diffusione del virus. Ma la morte dei salariati non pesa sui capitalisti, che hanno sempre la possibilità di sostituirli con l’esercito dei lavoratori disoccupati.

Anche gli operatori giudiziari, come tutti i proletari, debbono percorrere lunghe distanze a piedi per raggiungere i luoghi di lavoro, solo parte del viaggio si fa sui mezzi pubblici, dove non c’è distanziamento sanitario. Sul lavoro non trovano disinfettanti né mascherine adeguate e gli stipendi non sono sufficienti per comprarle.

I tribunali e le circoscrizioni giudiziarie non sono adeguatamente ventilati, molti non hanno l’aria condizionata e il caldo è insopportabile. Spesso i servizi igienici non vengono puliti. Gli spazi sono ristretti e non è possibile stare a distanza. Non c’è personale sanitario per controllare le condizioni di salute di chi entra. Quanto di meglio per diffondere il contagio.

Gli straordinari non sono pagati e né il padrone fornisce la mensa e i mezzi di trasporto negli orari serali. Fingono di voler porre fine al sovraffollamento delle prigioni, ma intanto affollano i lavoratori nei tribunali. I grandi complici del padrone-Stato sono i vari sindacati che tacciono, che non convocano assemblee, che non promuovono l’unità e la lotta dei lavoratori, attivi e pensionati. Il movimento operaio deve reagire organizzandosi in comitati operai di base, senza la sottomissione a nessuno dei sindacati attuali.
     - Contro il sovraffollamento del lavoro in spazi che impediscono il distanziamento!
     - Per la fornitura gratuita ai lavoratori dei dispositivi di sicurezza e prevenzione!
     - Per la vaccinazione gratuita a tutti i lavoratori attivi e pensionati!
     - Fornitura gratuita di disinfettanti ai lavoratori attivi e pensionati!
     - Integratori vitaminici gratuiti per rafforzare il sistema immunitario per i lavoratori attivi e pensionati!
     - Per la riduzione della giornata lavorativa e l’eliminazione del lavoro straordinario!

 

 

 

 



Québec
Niente di buono per i pubblici dipendenti

Lo scorso 6 agosto, la FIQ (Fédération interprofessionnelle du Québec) ha accettato, dopo due giorni di referendum tra gli iscritti, un accordo provvisorio, risultato di 18 mesi di negoziati. Iniziati nel 2020 e si erano interrotti a causa della crisi sanitaria. I tre principali sindacati vi sono arrivati disuniti, separando così i lavoratori già ad inizio trattativa. La contrapposizione dei sindacati, con gioia dei padroni e dei loro lacchè al governo, ha permesso pesanti sconfitte nel corso degli anni. Va notato che la FIQ, che rappresenta 76.000 infermiere, assistenti infermiere e tecnici terapisti respiratori, storicamente non ha mai formato un fronte comune con le grandi organizzazioni centrali sindacali.

Alla fine, l’accordo è stato accettato con una piccola maggioranza del 54%, con bassi tassi di partecipazione (tra il 32% e il 44% a seconda della regione) ed è stato respinto in alcune regioni. Sorprendente se si guarda al suo contenuto: un piccolo aumento salariale di solo il 2% nei 3 anni dell’accordo, che è appena superiore all’inflazione. Inoltre, è previsto un premio FIQ del 3,5% che verrà corrisposto solo agli iscritti a quel sindacato e che aumenterà il divario già esistente tra i lavoratori. Infine vi sono i bonus di ritenzione e di presenza, ma in realtà il governo non li dovrà mai pagare perché le condizioni di lavoro sul campo non cambieranno per coloro che devono fare straordinari obbligatori (OTT) o che non possono conciliare lavoro e famiglia.

Il problema maggiore però non sono gli stipendi ma le pesanti condizioni di lavoro addossate alle infermiere: troppi pazienti, mancanza di risorse, personale costantemente sotto organico. Sono soprattutto queste condizioni che rendono impossibile alle strutture sanitarie mantenere il personale o assumerne di nuovo.

Durante tutta la vertenza, la FIQ non ha esitato a rivelare la sua natura reazionaria attraverso l’accordo di principio, che dimostra il poco interesse nei confronti degli iscritti. In realtà, la direzione della FIQ vuole a tutti i costi evitare lo sciopero, perché, preferisce la sua posizione di conciliatore tra padroni e lavoratori, semplicemente non ha la interesse a condurre questo tipo di lotta.

La debolezza della protesta contro l’accordo ci mostra purtroppo che la maggioranza delle iscritte non è pronta a mobilitarsi. Nonostante l’eroica combattività di un numero di infermiere che non hanno avuto paura a mostrare il loro malcontento e la loro voglia di lottare ma sono, per il momento, solo una minoranza. La maggior parte di loro non ha mai vissuto l’esperienza di uno sciopero, mentre un’altra parte è ancora demoralizzata dalla sconfitta del 1999.

C’è mancanza di impegno nei confronti dei sindacati. Per troppo tempo i lavoratori hanno smesso di vedere i sindacati come un’arma potente nella lotta di classe, piuttosto una specie di assicurazione che pagano per certi servizi. Questo è certamente dovuto in parte all’opportunismo di dirigenti sindacali come quelli della FIQ, che preferiscono la conciliazione alla lotta.

Inoltre disposizioni come la formula Rand, che obbliga i dipendenti in un posto di lavoro a pagare la tessera al sindacato anche se non iscritti, tendono ad abbassare il livello di coscienza e lasciano il campo aperto agli opportunisti.

I lavoratori devono tenere presente che essi hanno, in virtù della loro situazione economica, interessi inconciliabili con i padroni e il loro Stato e che la lotta di classe porterà quindi inevitabilmente allo scontro. Hanno quindi bisogno di darsi strutture che permettano loro di lottare efficacemente, cosa che non è il caso dei loro attuali sindacati. Le lavoratrici della sanità meritano di più! Il denaro non compra la felicità, solo così il FIQ può definire questo accordo un successo. E osa persino vantarsi di una partecipazione “esemplare”. I magri aumenti salariali firmati non sono sufficienti!

Non sono sufficienti per le infermiere e non sono sufficienti per tutta la classe lavoratrice del Quebec che deve curarsi in strutture in rovina. Le infemiere sono ora bloccate a un questo misero contratto fino a marzo 2023. A quella data i problemi della strutture saranno aggravati. Abbiamo bisogno di un movimento di lotta dei dipendenti della sanità che possano lottare per migliori condizioni di lavoro. Questo dovrà iniziare con una mobilitazione nei sindacati e con l’accordo di formare un fronte comune per arrivare preparati al contratto del 2023.

 

 

 


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Capitalismo-carceri-comunismo

A maggio dello scorso anno scrivevamo delle rivolte nelle carceri che erano scoppiate tra marzo e aprile, mentre il virus si diffondeva, delle limitazioni ai colloqui, della sospensione dei permessi e del regime di semilibertà, e soprattutto della mancanza di misure di protezione, in prigioni già di per sé in pessime condizioni. Questo sia in Italia sia di diversi altri paesi.

La reazione violenta dello Stato borghese anche nella civilissima Europa, culla dei “diritti universali dell’uomo”, non tardò, ma una cappa di silenzio presto venne a coprire il fattaccio. La stampa riferì la morte “anomala” di 13 detenuti, che sarebbero dovuta a overdose di oppiacei, saccheggiati dalle infermerie. La retorica della borghesia italica si vantò che “lo Stato non indietreggia di un centimetro di fronte all’illegalità”, per il “rispetto delle regole”, quelle che lo Stato aveva senza ritegno infranto.

A un anno da allora gravi violenze sono state subite dai carcerati, col coinvolgimento dei dirigenti, con depistaggi, falsi referti medici e foto e video artefatti. Ha fatto scandalo quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: un video testimonia il pianificato pestaggio, ripreso dalle telecamere di sorveglianza da parte di 300 guardie penitenziarie. L’impunità sarebbe dovuta essere garantita dai funzionari che con prove false hanno cercato di giustificare l’accaduto come provocato dai detenuti.

A fronte delle denunce delle violenze raccolte dal Garante nazionale dei detenuti e dall’associazione Antigone, e su cui cominciò a indagare la procura, i massimi livelli delle istituzioni preposte alla “giustizia”, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia, definirono l’azione “doverosa per il ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”.

Il Manifesto e varie associazioni borghesi lamentano il “comportamento inammissibile in uno Stato costituzionale di diritto” e che sia “riportato il sistema penitenziario nell’arco della legalità”. Noi comunisti sappiamo invece che quel comportamento dello Stato non solo è “ammissibile” ma ineliminabile, è la sua funzione di costrizione di classe, che si manifesta anche nel sistema penitenziario. È la sua legalità. Si appella il giornalaccio alle “più alte cariche dello Stato” affinché “dicano no alla violenza istituzionale”: una contraddizione in termini, chiedere al carnefice di “dire no” alla violenza!

Prigioni si, certo! Però “l’organizzazione penitenziaria rimetta al centro figure professionali quali educatori, assistenti sociali, animatori, mediatori, psicologi e che si riapra dappertutto il carcere alla società esterna”. Carceri si, ma “aperte”. I secondini picchiano perché sono... ignoranti: “affidiamoli a una formazione interdisciplinare e interprofessionale”.

Non c’è da stupirsi che la stampa, ipocritamente inorridita dai fatti, sostenga lo stato dei fatti, l’apparato che garantisce la sopravvivenza e l’interesse della borghesia. Come la società capitalistica non è riformabile altrettanto non lo sono le sue istituzioni, carcerarie comprese. In Italia più della metà dei detenuti ha da scontare una pena superiore ai tre anni. In galera ci finiscono principalmente sottoproletari con dipendenze, disoccupati, immigrati senza riserve e piccoli delinquenti. Il 35% dei carcerati ha un’imputazione per violazione della legge sulle droghe; il 55% per reati contro il patrimonio; quindi solo uno su dieci per delitti contro la persona.

Un detenuto su tre è in custodia cautelare, senza una condanna definitiva. L’incidenza dei positivi al coronavirus è più alta in carcere che fuori. Ad aprile 2020 erano positivi in media 18,7 detenuti ogni 10.000; a dicembre 2020 c’erano 179,3 positivi su 10.000, contro i 110,5 in Italia; a febbraio 2021 sono 91,1 contro 68,3 in Italia.

Dall’inizio della pandemia 18 detenuti sono morti per Covid. Nell’ultimo anno sono stati rilevati 61 suicidi all’interno delle carceri, circa 11 ogni 10.000 persone. Negli ultimi 20 anni i decessi nelle carceri sono stati 3.078, di cui più di un terzo, 1.123, suicidi. I detenuti si tolgono la vita con una frequenza 20 volte maggiore rispetto ai cittadini liberi, e si uccidono più gli italiani che gli stranieri. Numeri sottostimati: se un detenuto tenta il suicidio in cella ma muore in ospedale non è elencato nelle statistiche carcerarie.

Molti si tolgono la vita vicino alla scarcerazione, per l’angoscia del ritorno alla libertà, spesso legata alla dipendenza da droghe. La giurisdizione penale e il sistema penitenziario sono indissolubilmente legati al mantenimento delle società divise in classi e alla inevitabile funzione repressiva degli Stati. Scrive Engels, ne L’Antidüring: «A partire dal momento in cui si sviluppò la proprietà privata di beni mobili, a tutte le società in cui vigeva questa proprietà privata dovette essere comune il comandamento morale: Non rubare.

Questo comandamento diventa perciò una legge morale eterna? Niente affatto. In una società in cui i motivi per rubare sono eliminati, in cui a lungo andare soltanto i pazzi potrebbero rubare, quanto si riderebbe del predicatore di morale che proclamasse solennemente la verità eterna: Non rubare!». Con la rivoluzione borghese, all’epoca progressiva, si teorizzò e si attuò l’eguaglianza degli uomini di fronte alla legge, annullando nell’ambito del diritto ogni residuo delle giurisdizioni proprie dei precedenti modi di produzione.

Lo “habeas corpus” e gli “universali diritti individuali” furono celebrati come l’apice del progresso umano, seppure sotto il dominio economico della borghesia. Nei suoi primi scritti il giovane Marx aveva già confutato il mito di una “giustizia” in astratto. Nell’articolo Dibattiti sulla legge contro i furti di legna (Gazzetta Renana, n. 298, 1842), descriveva come la nuova classe dominante poteva trasformare in furto ciò che precedentemente era un diritto, facendo riferimento al legnatico, da secoli vigente nel sistema feudale.

Il marxismo fin dai suoi albori dimostra come i fattori economici vengono a determinare il nuovo ordinamento giuridico, una sovrastruttura quindi, ma che a sua volta viene a garantire la conservazione dei rapporti sociali. Nel propagandare la uguaglianza tra gli uomini, sancisce le reali differenze di classe. Soggetto attivo e protagonista è il nuovo Stato borghese che, come descrive Marx: «ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto soltanto in quanto le presuppone» (Marx, La questione ebraica, 1844).

Marx, nell’approfondita analisi della nascita e dello sviluppo del Capitalismo che, in sintesi, prevede la «separazione del produttore dai mezzi di produzione», dove «grandi masse di uomini vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato», sviluppa le possibili conseguenze sul nuovo diritto penale, dedicando particolare attenzione alle legislazioni che colpivano l’ozio ed il vagabondaggio. «Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per espropriazione violenta e improvvisa, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio.

In un primo tempo i padri dell’attuale classe operaia furono puniti per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti “volontari” e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti». I nuovi rapporti di produzione che avevano svuotato le campagne feudali, alimentando un pauperismo dilagante, avevano quindi determinato il vagabondaggio, e allo stesso tempo il reato di vagabondaggio, che forzava i nuovi proletari alla «disciplina necessaria al sistema del lavoro salariato» (il Capitale).

La prigione delle moderne democrazie non ha perso questa sua funzione. Cosa sono oggi i Centri di Identificazione ed Espulsione, dove i nuovi vagabondi, gli immigrati proletari, marchiati a vita come clandestini, sono ammassati per alimentare quell’esercito di senza riserva in sacrificio sull’altare del capitale? Sono strutture, spesso in mano a privati, dove gli immigrati sono forza lavoro costretta, per sopravvivere, a lavorare a salari bassissimi nei campi gestiti da associazioni che “umanamente” forniscono, in complicità con lo Stato, “generosi” sistemi di “integrazione”.

MaMa in generale il capitalismo odierno, che per la manodopera a buon mercato attinge al mercato globale, utilizza la detenzione allo scopo del disciplinamento sociale, anche se la realtà delle carceri private e del lavoro coatto sono in costante aumento. Ogni utopia borghese di una società progressiva e pacificata è ormai definitivamente tramontata e la soluzione sognata da illuminati e pietosi, di fronte alle intollerabili condizioni di milioni di detenuti, è di costruire nuove moderne carceri.

«Invece, quando vigeranno rapporti umani, di fatto la pena non sarà altro che il giudizio di chi sbaglia su sé stesso. Non si pretenderà di persuadere costui che una violenza esterna, esercitata da altri su di lui, sia una violenza che egli ha esercitato su sé stesso. Egli troverà invece negli altri uomini i naturali redentori della pena che egli ha inflitto a sé stesso, cioè il rapporto si rovescerà» (Marx‑Engels, “La Sacra Famiglia”).

 

 

 

 

  


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Convergere dei nostri gruppi nella riunione internazionale del partito
28‑30 maggio [RG.140]
 
(Segue il resoconto dal numero scorso)




Origine del Partito Comunista di Cina - Dal 1° al 2° Congresso


1. La questione dei rapporti con il Kuomintang

Al Congresso dei Comunisti e delle Organizzazioni Rivoluzionarie dell’Estremo Oriente l’Internazionale aveva definito con chiarezza i rapporti fra il movimento nazional-rivoluzionario e il movimento proletario nei paesi dell’Estremo Oriente. Sulla questione avevamo visto i rapporti di Zinoviev e Safarov. Riportiamo ora alcuni estratti della risposta che fu data alle obiezioni dei delegati del Kuomintang.

Con il Kuomintang bisognava percorrere un pezzo di strada insieme in un paese come la Cina dove era all’ordine del giorno una rivoluzione doppia, senza nascondere il futuro corso della lotta di classe e senza ammainare la bandiera del comunismo, e senza neanche procedere a revisioni dell’impianto teorico, organizzativo e tattico. Di lì a poco però si venne ad accordi col Kuomintang, fino all’aperto tradimento sotto la direzione stalinista. Ai delegati del Kuomintang l’Internazionale rispose di non essere così ingenua da immaginare che quel partito fosse comunista e rivoluzionario.

Il Kuomintang era un partito democratico-rivoluzionario col quale si sarebbe potuta stabilire una collaborazione per perseguire i fini della rivoluzione nazionale, ma a precise condizioni, ben delineate dai vertici del comunismo mondiale. Disse il rappresentante dell’Internazionale:

«Noi diamo il nostro sostegno a questo movimento, se è diretto contro l’imperialismo. Ma non possiamo riconoscere questa lotta come la nostra lotta, come la lotta per la rivoluzione proletaria. Noi comunisti di Cina o Corea solleviamo la parola d’ordine di un governo democratico, una imposta sul reddito unitaria, la nazionalizzazione della terra, parole d’ordine della rivoluzione democratica. Ma il proletariato e gli elementi del semi‑proletariato si devono organizzare in modo indipendente nei loro sindacati di classe. Noi continueremo a portare avanti indipendentemente il nostro lavoro comunista di organizzazione del proletariato e delle masse semi‑proletarie in Cina. Questa è la causa delle masse proletarie stesse. Il movimento dei lavoratori cinesi si deve sviluppare in modo completamente indipendente dalla mentalità radicale borghese e dalle organizzazioni e partiti democratici».

Le masse proletarie di Cina non dovevano rinunciare alla propria visione e al compito di organizzare il proprio partito di classe. Si tratta di una questione fondamentale perché era rivolta a giovani partiti comunisti che, come abbiamo visto nel caso delle origini del PCdC, mancavano di una consolidata tradizione marxista e rivoluzionaria, e per di più si muovevano in un contesto dove il ritardo dello sviluppo capitalistico aveva prodotto una esigua classe operaia, che aveva sulle spalle il gigantesco compito di una rivoluzione doppia che poteva essere realizzata solo in unione con le sterminate masse sfruttate dell’immensa Cina, costituite principalmente da centinaia di milioni di contadini.

Altro punto molto importante di cui si discusse fu la questione della nazionalizzazione della terra. Il rappresentante del Kuomintang aveva affermato che era necessario prima liberare la Cina dall’imperialismo e instaurare la democrazia nel paese. Gli fu risposto:

«Per i contadini cinesi la questione della nazionalizzazione della terra non è una cosa da regolare dall’alto con riforme amministrative, per loro è una necessità vitale. Noi dobbiamo avanzare questa misura rivoluzionaria per mostrare ai contadini cinesi che dove un regime democratico viene instaurato i contadini vivono mille volte meglio e che i loro interessi sono mille volte più sicuri. Senza un corretto atteggiamento sulla questione della terra le grandi masse non possono essere trascinate nella lotta dalla nostra parte».

La controrivoluzione stalinista impose alla Cina la tattica menscevica della cosiddetta rivoluzione per tappe, che prevedeva di condurre a termine prima la tappa borghese, per poi passare a quella socialista. Tale tattica riprese la dottrina di Sun Yat‑sen dei “tre principi del popolo”, nazionalismo, democrazia e benessere del popolo: tappa militare, per l’unificazione della Cina; tappa della democrazia politica; tappa del “benessere del popolo”. Stalin gli attribuì il significato: antimperialista, agraria, sovietica. Durante la prima tappa era esclusa per i comunisti di porre la questione agraria, sacrificando gli interessi delle masse contadine e il futuro stesso della rivoluzione borghese radicale in Cina.

 
2. I primi congressi

Al suo primo congresso il Partito Comunista di Cina si era definito partito del proletariato, con netta indipendenza politica e separazione dagli altri partiti escludendo alleanze con altre organizzazioni. Il campo rivoluzionario in Cina amalgamava dapprima anarchici, democratici, nazionalisti, per l’arretratezza della giovane classe operaia. Dal 1921 al ‘22 si accesero imponenti scioperi, come quello di Hong Kong, e si moltiplicarono i sindacati, di industria e non più professionali; nel giro nemmeno di un lustro i lavoratori passarono dalle gilde professionali e da altre forme arretrate a riconoscersi come classe operaia unita al di sopra delle professioni, delle categorie e delle divisioni provinciali.

Il PCdC aveva la necessità di delimitarsi principalmente nei confronti del Kuomintang, che avrebbe tentato di assumere il ruolo di guida del movimento rivoluzionario. Dal primo congresso del PCdC uscì l’affermazione del ruolo indipendente del proletariato che escludeva unioni con altri partiti e tendeva alla formazione di un partito di classe autonomo dall’influenza borghese e piccolo borghese.

L’indirizzo d’azione del Partito era incentrato sul lavoro sindacale che puntava alla guida dei sindacati, che intanto stavano diffondendosi in Cina, e a sviluppare solide relazioni con il resto delle organizzazioni sindacali. Le organizzazioni locali del Partito avrebbero sviluppato la loro azione anche nel movimento giovanile e femminile.

Il Congresso fu anche l’occasione per i comunisti cinesi di poter ricevere dall’Internazionale la tattica riguardante il movimento rivoluzionario nazionale. Ai delegati dei piccoli partiti comunisti d’Oriente fu raccomandato di non tenersi in disparte ma di penetrare in profondità tra le masse che a milioni, come in Cina, iniziavano la lotta per l’indipendenza e la liberazione nazionale. Si poneva il problema di rapportarsi con altri partiti politici per una lotta in unione con tutte quelle forze rivoluzionarie che combattevano gli oppressori interni, i signori della guerra, e gli oppressori stranieri; in particolare, i comunisti cinesi furono esortati a cooperare con il Kuomintang.

La prospettiva di un’unione con il movimento nazional-rivoluzionario, e in particolare col Kuomintang, trovò spazio nella “Prima Dichiarazione del PCdC sulla situazione attuale” del 15 giugno 1922. La Dichiarazione costituiva un invito rivolto al Kuomintang, agli altri partiti democratici e a tutti i gruppi rivoluzionari socialisti a un “fronte unito democratico” per la lotta contro i signori della guerra e le potenze straniere.

Ma nella Dichiarazione ci sono anche critiche al Kuomintang per gli atteggiamenti di vicinanza con gli imperialisti e la periodica cooperazione con i militaristi del Nord. Per mantenere il suo posto nel movimento rivoluzionario il Kuomintang doveva abbandonare questa politica conciliatoria e di compromesso. Erano criticate anche le illusioni pacifiste dei piccoli borghesi che rappresentavano un ostacolo alla lotta: soltanto rovesciando il potere dei signori della guerra si poteva arrivare alla fine delle continue guerre, nonché alla eliminazione dell’influenza delle potenze straniere sul paese.

Con questa Dichiarazione il PCdC si poneva nella direzione di una cooperazione con il Kuomintang, ma questo passo non certo contemplava la forma che l’alleanza assunse successivamente, cioè l’ingresso dei comunisti nel Kuomintang.




L’attività sindacale del partito

Da febbraio a maggio scorsi vi è stata in Italia una lieve ripresa delle mobilitazioni sindacali, prima assenti per la pandemia, nel quadro di una bassa combattività della classe lavoratrice che perdura da anni. Abbiamo così potuto partecipare ad alcune di esse, distribuendo sia volantini del partito, sia, i nostri compagni lavoratori, comunicati del Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA), insieme ad altri componenti di questo organismo.

Individuiamo i seguenti fronti di lavoro per l’attività sindacale in Italia, in parte collegati con l’attività dei compagni in altri paesi:
 1 - intervento diretto nelle mobilitazioni operaie (punti 1, 2 e 3);
 2 - attività entro il CLA (4, 5 e 7);
 3 - attività entro l’USB (1 e 6);
 4- attività di aiuto alla costituzione di un organismo intersindacale entro le fabbriche Stellantis in Italia e con compagni di altri paesi (6);
 5- attività entro l’Assemblea Lavoratori Combattivi a Roma (8).

1) Siamo intervenuti il 5 marzo allo sciopero dei portuali genovesi, proclamato dai sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil) e a cui ha aderito anche il sindacato di base Usb, da ottobre insediatosi fra i lavoratori dello scalo. In questa occasione abbiamo distribuito un volantino del partito e collaborato alla diffusione di un volantino del CLA.

Entrambi i volantini hanno posto l’accento sulla giusta decisione dei portuali di Usb di aderire allo sciopero proclamato dai sindacati di regime, nel segno dell’unità d’azione dei lavoratori, in contrasto con la tradizione maggioritaria nell’Usb e nel sindacalismo di base in generale, volta al boicottaggio delle mobilitazioni promosse dagli altri sindacati.

Tuttavia, abbiamo poi verificato come l’indirizzo dell’unità d’azione dei lavoratori sia stato seguito solo a metà dai portuali dell’Usb, dato che infine hanno deciso di non partecipare ai picchetti presso i varchi portuali, bensì di riunirsi sotto la sede genovese della principale associazione padronale d’Italia (Confindustria). Anche i portuali al seguito dei sindacati di regime avrebbero dovuto convergere sotto la sede di Confindustria, dopo alcune ore, ma all’ultimo i delegati sindacali hanno deciso di far restare i lavoratori ai varchi. In conclusione Usb e sindacati di regime hanno diviso i portuali nell’azione di lotta.

2) Il 13 marzo abbiamo partecipato alla manifestazione nazionale organizzata dal SI Cobas a Piacenza in risposta all’attacco statale che aveva subito pochi giorni prima, con l’arresto di due suoi dirigenti locali. Vi abbiamo distribuito il volantino del partito e collaborato con militanti sindacali di altre città alla distribuzione del volantino del CLA.

La manifestazione è riuscita ma non può dirsi un successo. Ha visto l’assenza pressoché totale del resto del sindacalismo conflittuale. Il nostro volantino alla manifestazione di Piacenza ha ribadito la necessità di costruire un fronte unico del sindacalismo di classe, in contrapposizione al fronte unico politico proposto dai dirigenti del SI Cobas.

3) Il 20 marzo abbiamo partecipato a una assemblea dinanzi la fabbrica tessile Texprint a Prato, in cui era in corso un lungo sciopero di operai pakistani, organizzatisi col SI Cobas. Per la prima volta abbiamo distribuito il volantino tradotto in urdu, la loro lingua. Vi abbiamo indicato la necessità di costruire l’unità fra gli operai tessili di tutte le nazionalità presenti nel distretto industriale di Prato (il più grande d’Italia): pakistani, bengalesi, italiani e cinesi. In particolare con i cinesi, sia perché sono la maggioranza degli operai tessili della zona sia perché la maggior parte dei padroni delle fabbriche tessili sono anch’essi cinesi, si è sviluppata una forma di razzismo che divide gli operai. Purtroppo gli operai cinesi sono intrappolati nei legami comunitari, che ostacolano la loro lotta di classe contro i padroni loro connazionali.

Nel volantino abbiamo ribadito che i lavoratori debbono contare solo sulla forza della loro classe, cercando di estendere la lotta e l’organizzazione sindacale alle altre fabbriche, e di non riporre invece alcuna fiducia nelle istituzioni e nei partiti borghesi.

4) Il 27 marzo il CLA ha pubblicato un comunicato redatto dai nostri compagni in solidarietà coi portuali del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali, un gruppo di portuali genovesi costituitosi 10 anni fa, la cui maggior parte dei componenti è passato dalla Cgil all’Usb l’ottobre scorso. A fine febbraio le abitazioni e gli armadietti negli spogliatoi in porto di alcuni di questi portuali erano stati perquisiti dalla polizia politica nell’ambito di una indagine avviata a seguito di due fatti: il lancio di razzi segnaletici durante uno sciopero di un anno prima per impedire il carico di materiale bellico su una nave saudita; gli scontri avvenuti in città con la polizia per impedire un comizio di un gruppo fascista. Il comunicato di solidarietà del CLA inseriva questo episodio repressivo nel quadro di un rinnovato attacco al sindacalismo di base, collegandolo da un lato ai fatti analoghi avvenuti negli stessi giorni a Piacenza e a Prato, dall’altro al rilancio del sistema di relazioni fra governo, padronato e sindacati di regime.

5) Il 30 marzo abbiamo collaborato alla distribuzione di un volantino del CLA alla manifestazione dei lavoratori Alitalia a Roma. L’Alitalia da anni è stata condotta verso il fallimento. Il numero dei dipendenti è stato progressivamente ridotto, sia attraverso esternalizzazioni di attività sia attraverso i licenziamenti, i cui effetti sono stati alleviati con diversi ammortizzatori sociali. Le condizioni d’impiego dei lavoratori, un tempo di favore, sono anch’esse andate progressivamente degradandosi. Ora il nuovo capitolo della vicenda vede la drastica riduzione delle dimensioni dell’azienda, quindi del numero dei lavoratori.

Il sindacalismo di base, presente da anni in Alitalia con la Cub e l’Usb, si è mosso in modo unitario. Ha abbracciato la rivendicazione del ritorno in mano statale dell’azienda – “nazionalizzazione unica soluzione” è uno degli slogan – facendo leva sull’orgoglio aziendale e nazionale, sulla nostalgia per i tempi in cui Alitalia era la compagnia di bandiera nazionale, competitiva sul mercato mondiale. È comprensibile che i lavoratori di una azienda con una simile storia, nel presente quadro storico controrivoluzionario, con la classe operaia a cui da decenni è stato strappato di mano il filo della sua tradizione di lotta internazionalista, facciano proprie simili idee e illusioni, che il sindacalismo di base, dominato da ideologie politiche riformiste e opportuniste, puntella invece di combattere.

I lavoratori al seguito di Cub e Usb hanno dispiegato diverse mobilitazioni partecipate e combattive, giungendo anche a qualche lieve scontro con le forze di polizia. Il testo del volantino del CLA, senza polemizzare con le posizioni sopra accennate, indicava ai lavoratori Alitalia di cercare il coinvolgimento nella mobilitazione dei lavoratori dell’indotto aeroportuale, nonché l’unità con le altre lotte contro i licenziamenti, onde superare i limiti di una lotta “aziendalista”. Da notare l’assenza di intervento in questa mobilitazione importante della Assemblea Lavoratori Combattivi romana.

6) Il 1° aprile alcuni militanti del sindacalismo di base nelle fabbriche Stellantis hanno cercato di promuovere uno sciopero simbolico di 2 ore in solidarietà con gli operai della fabbrica statunitense di Sterling Heights, nel Michigan, dove l’azienda aveva imposto un cambiamento peggiorativo nell’orario di lavoro. Il volantino di solidarietà operaia internazionale è stato tradotto in varie lingue. Dava una indicazione opposta a quella della dirigenza dell’Usb in un comunicato nazionale, riguardo alle conseguenze sui lavoratori della nascita del gruppo Stellantis dall’unione dei due gruppi PSA e FCA. Il comunicato, a cui abbiamo contribuito per la traduzione e diffusione, indicava ai lavoratori di costruire la loro unità internazionale e solo su di essa riporre fiducia. Quello della dirigenza Usb indicava ai lavoratori la necessità di battersi affinché lo Stato borghese italiano difenda l’industria nazionale.

7) L’attività del CLA, e dei nostri compagni entro esso, è proseguita intensamente. Si contano 15 comunicati di solidarietà e indirizzo per diverse lotte operaie: Alitalia, Fedex Tnt, Texprint, portuali di Trieste e di Genova, per il processo sulla strage di Viareggio, per la manifestazione a Prato a seguito della morte di una operaia, fino al comunicato per lo sciopero nella sanità del 21 maggio scorso.

Sono state organizzate due assemblee in video conferenza sul tema della salute e della sicurezza dei lavoratori, e della repressione contro di essi, entrambe a marzo. In sintesi possiamo dire che l’attività del CLA prosegue, registrandosi una lieve crescita della sua influenza nel movimento sindacale, dato apprezzabile, considerata la scarsa intensità di lotte operaie.

8) A Roma domenica 23 maggio si è svolta l’Assemblea dei Lavoratori Combattivi (ALC) del Lazio. Subito dalla sua prima presentazione, a luglio scorso a Bologna, il nostro partito aveva indicato in questo organismo un tentativo della dirigenza del SI Cobas e degli altri gruppi che dirigono quel fronte unico politico denominato “Patto d’Azione”, di dare una verniciata sindacale a quest’ultimo. Da un lato abbiamo condannato l’operazione del fronte unico politico come azione sbagliata e opportunista in sé, dall’altro abbiamo denunciato il tentativo di costituire la Assemblea Lavoratori Combattivi come un mero strumento di quel fronte politico, cui i gruppi dirigenti del Patto d’Azione avrebbero impedito di non essere altro che un esecutore delle sue direttive politiche.

In coerenza con tutta la nostra linea sindacale abbiamo dato l’indicazione pratica di partecipare alla attività di questa ALC e di battersi al suo interno affinché assumesse realmente il carattere di cui si proclamava portatrice, cioè di strumento per costruire l’unità delle lotte dei lavoratori.

Un piccolo esempio di quanto sia stata farsesca l’azione della dirigenza del SI Cobas è dato dal fatto che, mentre il fronte politico denominato Patto d’Azione si è subito dotato di un gruppo di corrispondenza nazionale, nel quale discutere delle varie questioni, per la ALC questo banale quanto basilare strumento pratico non è stato posto in essere, nemmeno a distanza di un anno. La ragione è chiaramente quella per cui costoro temono di perdere il controllo di tale organismo, dato il suo carattere sindacale.

Il tavolo di presidenza nazionale – l’organo dirigente nazionale autonominatosi tale e costituito da dirigenti dei gruppi aderenti al Patto – ha stabilito che la ALC si sarebbe organizzata a livello regionale. Subito abbiamo individuato come la più attiva, e forse l’unica realmente tale, la ALC del Lazio. Questa è stata l’unica a dotarsi di un, pur parziale, gruppo di corrispondenza, risultato per altro ottenuto dopo non poche resistenze da parte del gruppo dirigente locale.

Nella ALC laziale è stato costituito anche un gruppo whatsapp per le comunicazioni operative, sul quale si sono invece riversate le discussioni di merito politico-sindacale che non trovavano spazio in altro ambito, fintanto che non è stata costituito il gruppo di corrispondenza. Nelle altre regioni in cui è stata costituita la ALC – Piemonte, Lombardia, Veneto – non è stato istituito il gruppo di corrispondenza. A Genova non è stata nemmeno costituita la ALC.

Nella ALC laziale sono emerse con una certa forza posizioni politiche in contrasto con le direttive del Patto d’Azione. In particolare una parte consistente dell’assemblea si è espressa contro la rivendicazione riformistica della patrimoniale, posta al centro di quanto agitato nella ALC dai suoi gruppi dirigenti nazionali. È emerso anche un orientamento internazionalista riguardo al riaccendersi del conflitto in Israele-Palestina, in contrasto con l’indirizzo della dirigenza nazionale del Patto d’Azione e della ALC volto al sostegno alla lotta per uno Stato nazionale palestinese.

Il risultato di questa situazione è stato che nella assemblea convocata a Roma, dopo lungo tempo, i gruppi politici che ne garantivano il controllo da parte del Patto d’Azione non si sono presentati. Ciò offre la misura delle intenzioni di questi dirigenti.

Si tratta di organismi numericamente esigui, ma queste vicende offrono alcune importanti conferme della correttezza della nostra impostazione della questione sindacale e dei conseguenti indirizzi pratici
     - non è garantito il controllo di organismi sindacali di classe delle dirigenze opportuniste ed è possibile la loro conquista da parte dell’indirizzo sindacale comunista;
     - mantenere il controllo di organismi sindacali di classe da parte di dirigenze opportuniste, in presenza di una frazione sindacale comunista al loro interno, è possibile solo ricorrendo a metodi coercitivi, che ne danneggiano lo stesso sviluppo; ad esempio impedendo la libera discussione al loro interno e rompendo i canali di comunicazione fra strutture territoriali, militanti sindacali, lavoratori;
     - fronte unico politico e fronte unico sindacale non sono solo strade diverse, sono incompatibili: il successo dell’uno implica l’indebolirsi dell’altro.


Il corso della economia modiale

La maggior parte dei principali paesi imperialisti non è uscita dalla recessione del 2008‑09: solo Germania, Cina, Corea del Sud, e pochi altri sono riusciti a superare il massimo raggiunto nel 2007. La crisi del 2008‑09 non si è trasformata in una crisi sistemica come nel 1929. Ma abbiamo una corsa verso un indebitamento colossale di Stati, aziende e famiglie, indebitati per salvare il sistema. Fenomenale è il rigonfiamento dei bilanci delle banche centrali, che evita il collasso del sistema. Ma per quanto tempo?

Il modo di produzione capitalista, dopo aver vissuto 5 recessioni mondiali dal 1975, è entrato in una crisi storica su vasta scala che può essere risolta solo da una terza guerra mondiale o dal rovesciamento della borghesia con la forza delle armi e la transizione al comunismo nei principali centri industriali. La epidemia di Covid ha aggravato uno stato disastroso peggiorando l’indebitamento e la situazione finanziaria di molte aziende.

Tutto questo denaro dato gratis alla grande borghesia – i tassi di interesse sono prossimi allo zero o addirittura negativi – è accompagnato da speculazioni frenetiche che portano a un aumento sproporzionato del prezzo dei titoli, mobiliari e immobiliari. Tutto va bene per fare soldi, non investono, non producono, ma speculano. La società borghese si decompone diffondendo il suo fetore. Stabilito il quadro generale, come al solito, abbiamo passato in rassegna sinteticamente i principali paesi imperialisti, per poi trarne le nostre conclusioni. Una ripresa economica si è manifestata dal 2017 al 2018, ma dalla metà del 2018 ha iniziato a manifestarsi un rallentamento, che si è trasformato in una recessione nella maggior parte dei paesi a partire dal 2019.

Il che ha portato la FED e la BCE, insieme, a rilanciare dalla fine del 2019 il “quantitative easing”. Negli USA, grazie alla produzione di gas e petrolio di scisti, la produzione industriale ha ripreso subito dopo la recessione del 2008‑09, consentendole di superare il massimo del 2007. Ma l’indice della sola produzione manifatturiera è ancora sotto quel massimo. E la situazione è ancora peggiore per le costruzioni. Negli Stati Uniti la recessione del 2019 si è tradotta in un forte rallentamento: +0,8% per l’industria e -0,2% la manifattura. Nel 2020 abbiamo quasi un -7%, tanto per l’industria quanto per la manifattura. Il Giappone ha sperimentato una stagnazione cronica con deflazione dall’inizio degli anni novanta. Oggi l’indice della produzione industriale è inferiore al picco raggiunto nel 1991: 101,2 nel 2019 contro 106,6 nel 1991! Il Giappone ha subito le conseguenze della recessione globale, tanto che la produzione è diminuita di quasi il 10% nel 2020, rispetto al 2019, anno in cui era già diminuita del 2,6%. Si mostrava la profondità della recessione sul grafico degli incrementi mensili: inizia a marzo 2019, raggiunge il fondo a maggio 2020 con -24,6%, per poi risalire gradualmente.

La crescita annua torna ad essere positiva da marzo 2021. La produzione industriale in Russia non ha mai riguadagnato il livello raggiunto prima del crollo dell’Unione. Grazie alle esportazioni di gas e petrolio la Russia, dopo il tracollo nel 1997‑98, ha visto dall’inizio degli anni 2000 una spettacolare ripresa economica. Questo ciclo sta volgendo al termine e stiamo di nuovo entrando in un ciclo di recessioni e disordini. Come gli altri capitalismi ha risentito del Covid e della recessione globale. Abbiamo un minimo di -2,7%. Tuttavia, non avendo lo Stato russo perso l’abitudine di manipolare le statistiche, per meglio apprezzare l’entità della crisi è necessario fare riferimento a dati fisici, come per la Cina. Le tabelle seguenti hanno mostrato gli incrementi della produzione industriale rispetto al massimo raggiunto nel 2007. I russi stanno percorrendo esattamente la stessa strada, con -10% nel 2020 per l’industria, ma quasi -22% per la manifattura.

Per la Russia l’anno di riferimento non è il 2007 ma il 1989. Nel 2009, la produzione manifatturiera era la metà di quella del 1989. E nel 2020 è -22%! La borghesia russa può mostrare le armi sulla scena internazionale, ma il capitalismo russo è particolarmente in cattive condizioni. La produzione in Giappone, dopo essere scesa a -23% nel 2009, è risalita a -11% nel 2018, ridiscesa a -13% nel 2019 e ancora -22% nel 2020, tornando così ai livelli del 2009. Riguardo alla produzione di petrolio i più colpiti non sono gli Stati Uniti ma l’Arabia Saudita e la Russia, che hanno dovuto ridurre la produzione per frenare il crollo dei prezzi. Come abbiamo visto in una tabella, gli USA sono diventati il primo produttore mondiale, anche durante la crisi del 2020. E con l’aumento dei prezzi, la produzione statunitense non può che ripartire. Il mercato americano è gigantesco, durante la crisi gli Stati Uniti hanno ridotto le loro importazioni di petrolio e vissuto della loro produzione.

Della Cina abbiamo riportato le curve per la produzione di energia elettrica, carbone e l’indice PMI della produzione manifatturiera. Il PMI (Purchasing Managers Index) è basato sull’andamento degli acquisti delle imprese: quando l’indice è inferiore a 50 c’è contrazione, al di sopra c’è un aumento degli acquisti. La produzione annua di elettricità rallenta assai dalla crisi del 2008‑09 con un picco nel 2012 e nel 2015. La produzione mensile mostra un calo a gennaio e febbraio 2020, poi una forte ripresa. L’indice PMI della produzione manifatturiera mostra un forte calo nel febbraio 2020, con l’indice a 35,7. Da marzo 2020 a marzo 2021 è molto vicino a 50, quindi crescita molto debole. La ripresa non è spettacolare come le autorità cinesi vorrebbero farci credere. Dell’Europa abbiamo esposto solo la curva della produzione industriale per la Germania, di nuovo in recessione nel 2019 con -4,2% e nel 2020 con quasi il -10%.

La curva mensile ci mostra un vertiginoso picco del -30% ad aprile, poi un lento rialzo per tutto l’anno ma una ricaduta a gennaio e febbraio 2021, con in particolare -6% a febbraio. La tabella mostra una divisione tra i Paesi del Nord, Germania, Inghilterra, Francia, e Paesi del Mediterraneo dove la recessione è nettamente più grave. Oltre a Germania, Belgio, Svizzera, Irlanda, anche i nuovi arrivati paesi dell’Est, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Stati baltici, ecc., hanno superato tutti il massimo del 2007. Entrando nella comunità europea dopo il crollo dell’URSS hanno tutti segnato un grande sviluppo.

Ma tutto ha una fine e anche il capitalismo di questi paesi incontrerà la stessa sorte degli altri. Il già sbalorditivo debito globale è cresciuto dal 2019 al 2020 in media del 10%. Espresso in percentuale del PIL, i più indebitati sono il Giappone, con più di 4 volte il suo PIL, la Francia (3,7 volte), il Belgio (3,6), la Cina (più di 3 volte). In conclusione, per uscire dalla crisi, gli Stati Uniti stanno imbastendo un New Deal, come dopo la crisi del 1929. Quell’intervento dello Stato permise loro solo temporaneamente di uscire dalla crisi: alla fine degli anni ‘30 tornò la recessione. Fu la seconda guerra mondiale che consentì al capitalismo di uscire dalla crisi storica del 1929 e avviare un nuovo lungo ciclo di accumulazione, ciclo conclusosi definitivamente con la grande crisi internazionale del 1975.

Lo sviluppo del capitalismo in Asia, soprattutto in Cina, il trasferimento della produzione e il suo insediamento in Cina hanno permesso al capitalismo mondiale, morente e marcio, di guadagnare mezzo secolo di vita. Oggi questo capitalismo sopravvive grazie ad un mostruoso indebitamento reso possibile dall’intervento delle banche centrali, che riacquistano per trilioni di miliardi, obbligazioni, buoni del tesoro e azioni. Se le banche centrali interrompessero il “quantitative easing” ci sarebbe un collasso immediato dell’intero sistema: i tassi di interesse riprenderebbero a salire, portando a un crollo del mercato azionario e dei prezzi dei titoli, il che porterebbe alla bancarotta a catena delle grandi istituzioni finanziarie. Le imprese, a causa dell’aumento dei tassi di interesse e della scarsità di denaro, a loro volta fallirebbero; prima quelle mantenute artificialmente in uno stato di sopravvivenza da soldi facili, poi le altre che non potrebbero sopportare gli alti tassi di interesse.

Debiti non pagati e prestiti in sofferenza si accumulerebbero sui conti bancari portando al fallimento di grandi banche come la Deutsch Bank e la BNP. Gli Stati a loro volta, non più in grado di contrarre prestiti a tassi ragionevoli sul mercato, si troverebbero nella stessa situazione dello Stato greco, costretti a dichiarare bancarotta. Le banche centrali non possono più fermare la macchina infernale del “quantitative easing”. La conseguenza è la creazione di gigantesche bolle, che prima o poi scoppieranno, aumentando l’instabilità e un’assunzione di rischi sempre maggiore da parte delle istituzioni finanziarie. Per la classe operaia insieme alla precarietà crescerà la povertà. Quanto può durare questa situazione? Fino allo scoppio della Terza Guerra Mondiale, o ci sarà una ripresa della lotta di classe molto prima con, lo sviluppo del Partito Comunista Internazionale? In ogni caso, il capitalismo mondiale ci sta conducendo verso una gigantesca catastrofe.


La formazione della nazione indiana

Nel precedente rapporto avevamo descritto gli avvenimenti dopo l’indipendenza del Bangladesh, nel 1971, fino alla sconfitta del Congresso Nazionale Indiano alle elezioni del 1977 che videro il successo del Partito Janata. Il capitalismo indiano ottiene alcuni risultati, ma non riesce a soddisfare le necessità alimentari di gran parte della popolazione. Continuano a fallire le riforme agrarie nelle sterminate campagne. Le classi dominanti del mondo contadino hanno un peso nel partito di governo e su tutta la burocrazia statale, mantenendo la produzione con metodi arcaici. Le classi dominanti indiane in contesa per il controllo delle istituzioni statali, sono però unite contro il proletariato, che in diverse occasioni alza la testa come nel possente sciopero condotto dai ferrovieri nel maggio del 1974, sottoposto a una feroce repressione.

Il Partito Janata al potere, copia del Partito del Congresso, si appoggia alla destra indù e si fa braccio politico della Rashtriya Swayamsevak Sangh, organizzazione estremista fondata negli anni ‘20. La borghesia indiana, stretta dalla crisi e terrorizzata dalle crescenti tensioni sociali, si dota di un nuovo gendarme politico. Come col Congresso le élite agrarie paralizzano anche lo Janata. In alcuni Stati indiani cresce la violenza sociale della destra radicale indù. Il RSS diviene un utile arnese per la classe dominante. Militanti della destra indù sono reclutati nella polizia e negli organi di stampa, mentre la base del RSS si rende protagonista di gravi aggressioni alla comunità musulmana, in alcuni casi dei massacri. Azioni utili a tutte le fazioni della borghesia indiana in quanto alimentano le divisioni fra comunità e nella classe operaia. È in questo scenario che il Partito del Congresso riesce nuovamente a formare un governo stabile e a garantire la pace sociale: meglio dello Janata può imbonire le minoranze etniche e religiose e le classi inferiori del mondo contadino.

Ma la situazione economica è molto precaria, dal 1979 l’India attraversa il peggior periodo di carenza di piogge dall’indipendenza. Si fa ampio ricorso a prestiti internazionali, e si incoraggiano gli investimenti dall’estero con una serie di liberalizzazioni, fra cui quella del prezzo dell’acciaio e del cemento. Gli slogan contro la proverà sono accompagnati da nuove leggi che stringono la repressione: detenzioni senza processo e banditi gli scioperi nei servizi pubblici. Nel 1981 uno sciopero generale di protesta è stroncato con l’arresto di 23.000 attivisti. Ma molti dei sindacati legati ai numerosi partiti sedicenti comunisti indiani, seppur repressi dalla Stato borghese perché in opposizione alle centrali vicine al governo, mai hanno lavorato sinceramente per l’unità della classe salariata e, in lotta gli uni contro gli altri, mantengono nella debolezza il movimento operaio. In questo scenario si ha il Grande Sciopero tessile di Bombay, iniziato il 18 gennaio 1982 e durato per ben 14 mesi.

Lo sciopero in poche settimane coinvolge quasi tutte le fabbriche e fino a 200.000 lavoratori. Sono richiesti forti aumenti salariali, il pagamento degli arretrati e l’abolizione della legge antisindacale. Lo sciopero mise in ginocchio l’industria tessile della città. Sui padroni, propensi a trovare un accordo, interviene l’ordine di Indira di far fallire ogni trattativa. È infatti molto probabile che se lo sciopero fosse andato a buon fine, anche i portuali della città si sarebbero mobilitati scatenando una reazione a catena molto pericolosa per la borghesia. I proprietari, aiutati dal governo, trasferirono gli stabilimenti, ammodernando le strutture e licenziando 100.000 operai. La debolezza del movimento operaio indiano è la causa di questo fallimento, nella stragrande maggioranza dei casi non essendo riusciti a rompere con quelle centrali sindacali ormai irrimediabilmente dalla parte dei padroni. Il Punjab indiano, nato dopo la carneficina della partizione, era stato riorganizzato nel 1966 per consentire ai sikh uno Stato in cui erano la maggioranza.

La comunità sikh, tra le più agiate del paese, dopo l’indipendenza avevano continuato a mantenere una posizione privilegiata nelle forze armate. Il Punjab, una delle regioni più fertili della Terra, aveva avuto un considerevole sviluppo economico grazie all’agricoltura capitalista con la formazione di una borghesia agraria locale. Dal 1972 al governo del Punjab era il Congresso, ma nel 1977 l’ondata che lo aveva travolto portò al potere il partito sikh Akali Dal. Al fine di destabilizzarlo il Congresso finanziò un giovane predicatore di provincia – Jarnail Singh Bhindranwale – che nel 1978 fondò un partito. Organizzava azioni violente contro le sette sikh eterodosse e ricorse sempre più all’assassinio dei nemici politici e religiosi, sikh e indù, senza che nessun provvedimento venisse preso contro il suo partito.

Questo era sostenuto da una parte consistente delle classi dominanti del mondo contadino del Punjab, che in un periodo di crisi mal digerivano le tasse e le leggi imposte da Delhi. Questi proprietari terrieri e contadini ricchi auspicavano da tempo una forte autonomia o una totale indipendenza dal governo centrale e la creazione di un nuovo Stato chiamato Khalistan. Continuò la politica di terrore per cacciare gli indù dalla regione, auspicando che simmetriche persecuzioni in tutta l’Unione avrebbero spinto i sikh a tornare in Punjab, a rafforzare la causa dell’indipendenza. Dopo il sostegno e l’immunità durata diversi anni, Indira Gandhi adottò contromisure radicali. Il 3 giugno 1984 le forze armate indiane si posizionarono intorno al Tempio d’oro, nella città di Amritsar, dove Bhindranwale e i suoi seguaci si erano da tempo rifugiati, e due giorni dopo fecero irruzione. Ricorrendo l’anniversario del martirio di Guru Arjan, quinto dei dieci guru sikh, il tempio era molto affollato.

Nei mesi precedenti il tempio era stato pesantemente fortificato sotto la guida di un ex generale dell’esercito indiano. Fu necessario far intervenire i carri armati con i loro cannoni da 105 mm. Il complesso subì ingenti danni. Bhindranwale fu ucciso con 600 dei suoi seguaci, ma furono massacrati anche numerosi fedeli, circa 400. Una parte dei sikh che servivano l’esercito indiano, posti sotto accusa come membri di una etnia separatista, si ammutinò. Come rappresaglia il 31 ottobre due guardie del corpo sikh uccisero Indira Gandhi. A Nuova Delhi bande di indù, inquadrate da membri del Congresso locale, assalirono le abitazioni dei sikh della città uccidendo e torturando chiunque riuscivano a catturare. Intere famiglie furono bruciate vive. La polizia non intervenne e in diversi casi vi partecipò attivamente. In pochi giorni nella sola Delhi vennero uccisi circa tremila sikh. L’India degli anni ‘80, come quella odierna, non esitava, tra scontri fra predoni borghesi, ad alimentare le divisioni regionali, etniche e religiose, per creare un nemico fittizio e soggiogare il proletariato alla classe dominante.


Il tormentato Medio Oriente

La breve ma mortifera fiammata di guerra di maggio in Palestina ha segnato un passaggio che modifica in parte gli equilibri interni ai campi in lotta. Primo fatto in ordine cronologico è la manifestazione dell’estrema destra ebraica nella città vecchia di Gerusalemme all’insegna dello slogan “morte agli arabi”. A pretesto della marcia alcune aggressioni contro ebrei avvenute nella parte araba della città. La manifestazione, alla quale hanno preso parte un migliaio di estremisti, cui si sono uniti molti giovani ebrei ortodossi, gli haredim, fino a poco tempo fa in gran parte estranei alle manifestazioni di odio nei confronti dei palestinesi, si è svolta la sera del 22 aprile, con scontri con centinaia di giovani palestinesi. Haaretz ha scritto: «gli ultraortodossi sono le riserve del movimento neonazista che si sta sviluppando in Israele».

Fra gli animatori della manifestazione il gruppo di estrema destra “Lehava”, acronimo che significa “Prevenzione dell’assimilazione nella Terra Santa”. Il tema dell’assimilazione non poteva non riproporsi nello stesso Stato ebraico. Marx nella Questione Ebraica, risalente al 1844, sottolinea che la soluzione della emancipazione ebraica risiedesse nel superamento dello Stato politico. Questa posizione mantiene tutta la sua attualità fatto il bilancio storico del movimento sionista, il quale, sin dal suo nome, implica l’intenzione programmatica di un cammino in senso esattamente inverso a quello di Marx, quello di dare agli ebrei uno Stato politico, affermata nazione fra le nazioni.

Non stupisce pertanto che si affermino tendenze scioviniste, razziste e fasciste, espressione delle spinte oggettive della borghesia non tanto ebraica ma nazionale israeliana per garantirsi il proprio spazio in termini di forza lavoro e di territorio su cui riversare la sovrapproduzione. Vedasi la “febbre edilizia” per gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Il governo israeliano punta all’ulteriore indebolimento dell’elemento etnico arabo in Gerusalemme, “capitale dello Stato ebraico” riconosciuta dagli Stati Uniti durante l’amministrazione Trump. Realizzare una Gerusalemme Est a maggioranza ebraica, sanzione dello status della Città Santa “capitale indivisibile dello Stato di Israele”, fugherebbe tutte le fumisterie della soluzione a due Stati dei quali Gerusalemme dovrebbe essere la capitale. Il 7 maggio, in occasione dell’ultimo venerdì di Ramadan circa 70.000 fedeli musulmani si erano raccolti nei pressi della moschea al‑Aqsa in presenza di un draconiano dispositivo di sicurezza messo in campo dalle forze di polizia israeliane.

Dopo le preghiere serali si sono sviluppati gravi incidenti. Le fonti della moschea affermano che gli scontri si sono sviluppati dopo che la polizia israeliana ha tentato di evacuare il complesso dove molti fedeli musulmani dormono durante il mese di Ramadan. La versione israeliana vuole invece che alcuni palestinesi abbiano lanciato pietre contro gli agenti. Nei tre giorni successivi gli incidenti si estendono a vari quartieri arabi, episodi di violenza interessano anche aree a maggioranza ebraica e in seguito molte città israeliane a popolazione mista. La polizia israeliana occupa la moschea di al‑Aqsa fra duri scontri. Hamas e il suo braccio militare le Brigate al Qassam rivendicano la guida della rivolta e lanciano un ultimatum al governo di Israele di liberare la al‑Aqsa entro le 18. Poco prima di quell’ora incomincia il lancio di 150 missili dalla striscia di Gaza verso Tell Aviv, Sderot e Ashkelon. Nella notte a Lod, città israeliana a popolazione mista, si sviluppano gravi incidenti fra palestinesi ed ebrei: giovani arabi assaltano una sinagoga, una scuola e forse alcune case, un gruppo di ebrei reagisce sparando e un giovane arabo muore. Una folla di ebrei vandalizza un cimitero musulmano.

Nei giorni successivi, sempre a Lod, un ebreo sarà ucciso appena uscito da una sinagoga da un gruppo di arabi che cercavano “vendetta per il sangue versato”. La rivolta della minoranza arabo-israeliana si estende ad Haifa, Tiberiade, Acri e alcune altre città miste di Israele. È certo che gli arabi israeliani sono cittadini di serie B dello “Stato ebraico”. Da materialisti sappiamo che il razzismo, il nazionalismo, la xenofobia e l’oppressione delle minoranze sono necessità del capitalismo e che questi abissi di sudiciume potranno essere superati soltanto dopo il rovesciamento dalla dominazione politica della classe borghese. Nelle società borghesi le differenze etniche sono mantenute e riprodotte dall’economia mercantile, per cui ogni uomo ha un prezzo, nonostante il denaro non conosca differenza di lingua, religione, colore della pelle o tradizioni culturali. I palestinesi israeliani sono certamente la parte della popolazione con maggiore povertà. Ma sbagliato sarebbe pensare che in Israele la miseria sia peculiarità dei non ebrei. Una percentuale abbastanza alta di “poveri” (categoria non scientifica e che non possiamo certo confondere con quella di proletari) è diffusa anche fra gli ebrei chassidim, gli ultraortodossi fra cui si contano il 17% delle famiglie sotto la soglia di povertà. Nel caso dei palestinesi israeliani questa percentuale è ancora più alta.

Gli israelo-palestinesi sono esclusi di fatto dal servizio militare, cui accedono solo quanti ritenuti affidabili per la sicurezza dello Stato, gli ebrei, i drusi e i circassi. Tuttavia gli arabo-israeliani appartenenti alle mezze classi hanno generalmente accesso a un’istruzione di buona qualità che si trasforma spesso anche in una discreta integrazione fra le categorie professionali più qualificate. I palestinesi, poco meno del 21% della popolazione, sono il 23% dei medici di Israele. Questo non significa che l’incedere della crisi economica non abbia determinato un peggioramento delle condizioni di vita anche dei palestinesi israeliani, il che spiega il malcontento di molti giovani proletari arabo-israeliani che, in assenza di manifestazioni significative di autentica lotta di classe, hanno riversato le loro frustrazioni nello scontro interetnico. Assai più difficile la condizione dei giovani proletari della Cisgiordania in cui l’asfittica vita economica ha risentito prima della stagnazione economica mondiale, poi della pandemia.

Quest’ultima ha ridotto gran parte dei salari dei 150.000 lavoratori che ogni giorno attraversavano il muro, in maniera legale, per andare a lavorare in Israele. A questi erano da aggiungere i 50.000 che ogni giorno entravano in Israele illegalmente. In questo contesto si è sviluppato dunque un confronto militare asimmetrico fra Hamas e l’esercito israeliano, la Tzahal. Di fatto Hamas per 11 giorni, col lancio di oltre 4.300 razzi, nonostante la loro imprecisione, ha tenuto sotto pressione la popolazione delle regioni centrale e meridionale di Israele. Ma quando Hamas, raggiunto l’obiettivo di farsi portavoce della rivolta, ha chiesto la tregua, Netanyahu, abbracciando le richieste dei vertici dell’esercito, ha continuato i bombardamenti su Gaza, a suo dire per mettere Hamas nell’impossibilità di tornare a colpire. In 11 giorni gli incessanti bombardamenti hanno seminato morte e distruzioni. Non sono state risparmiate infrastrutture di vitale importanza per la popolazione.

Gran numero le vittime di questa breve guerra. Fra gli abitanti di Gaza ci sono stati 248 morti e centinaia di feriti (1.900 secondo Hamas), cui si aggiungono 26 morti e oltre 500 feriti fra la popolazione palestinese di Cisgiordania vittime delle repressioni dell’esercito israeliano. Inoltre si devono contare numerosi feriti negli scontri nelle città israeliane fra cui un morto a Lod. Le vittime dei razzi di Hamas e della Jihad palestinese sono 12, di cui 3 lavoratori stranieri (un indiano e due operai thailandesi uccisi nella fabbrica in cui lavoravano) e un beduino arabo-palestinese. Fra le vittime uno solo è un militare. A questi si aggiungono 500 feriti, secondo le cifre fornite da Israele. Dopo una settimana di intensi bombardamenti, il 18 maggio si svolge una giornata di sciopero, che per la prima volta vede uniti i palestinesi di Cisgiordania e di Israele.

Le rivendicazioni sono di carattere esclusivamente nazionale ed esula dal proclama dello sciopero qualsiasi rivendicazione economica di classe, o collegamento alla condizione operaia. Eppure il giorno dopo in Israele a farne le spese non sono stati gli esercenti commerciali rimasti chiusi ma solo i lavoratori, in molti licenziati dai padroni israeliani. Dello sciopero si è esaltato il carattere nazionale. Ma è più la parodia di un moto nazionale. Lo scuotersi di un aggregato di classi diverse quale è la nazione in epoche passate poteva avere un senso finché a guidarlo era una borghesia rivoluzionaria. Ma troppo logora, decrepita, corrotta e infeudata alla sorella maggiore israeliana è la borghesia palestinese. Impossibile pensare a rivoluzioni nazionali con mezzi secoli di ritardo. Il paragone dello sciopero del 18 maggio 2021 con quello del 1936 risulta ridicolo dato che evoca un episodio di ben altra importanza, che non si consumò nello spazio di un mattino.

Finito lo sciopero Hamas si trovava dunque nell’urgenza di chiudere con la guerra con in mano la istantanea del fittizio successo. Si trattava di non subire altri colpi, dato che oltre un certo limite non si poteva andare. La tregua è arrivata per le pressioni statunitensi su Israele. Biden deve fare i conti con una certa disaffezione del partito democratico e della componente liberal degli ebrei d’America verso l’attuale governo d’Israele, indisponibili ad accettare una politica che ha avuto come interlocutore Donald Trump. Bisogna anche vedere quanto pesa la determinazione dell’amministrazione Biden di ritornare alla trattativa con l’Iran sul tema del nucleare. Quel patto fu affossato unilateralmente da Trump nel 2018 con la conseguenza, sicuramente voluta, di rafforzare il fronte anti‑Iran che vede schierati insieme Israele, l’Arabia Saudita e, in maniera più sfumata, gli Emirati Arabi Uniti.

Il fine della rottura con l’Iran era eliminare un concorrente fra i paesi petroliferi, appropriandosi della sua quota in termini di barili estratti, in un contesto in cui la domanda mondiale di greggio era stagnante. Ma agli Stati Uniti si pone la questione essenziale di impedire che l’atteggiamento di ostilità nei confronti dell’Iran da parte di un ampio schieramento delle borghesie mediorientali, che vede in primo piano Israele e Arabia Saudita, sospinga troppo Teheran nell’orbita di Pechino. L’Iran è una potenza regionale di primo piano che vanta un notevole apparato industriale, una popolazione che supera gli 80 milioni e forze armate dotate di armamenti tecnologicamente avanzati che hanno permesso alle milizie filoiraniane di sostenere anni di guerra in Iraq e in Siria conseguendo significativi successi.

Gli Stati Uniti non possono rinunciare ad un rapporto interlocutorio con l’Iran, anche se questo non significa affatto capovolgere le alleanze in Medio Oriente. Se da una parte Biden offre il “ramoscello d’ulivo” della trattativa sul nucleare, la diplomazia americana sta disseminando di trappole l’area che circonda la sfera di influenza dell’Iran. Nel 2020 le trattative interafghane di Doha fra governo afghano e talebani alla presenza del segretario di Stato Mike Pompeo e dell’inviato di Washington per l’Afghanistan Zalmay Khalilzad sono stati un passaggio significativo verso il disimpegno statunitense dopo i 20 anni di guerra. L’annunciato ritiro degli americani dall’Afghanistan, che aprono al ritorno a Kabul dei talebani, potrebbe chiudere a Teheran l’Asia Centrale. Ma soprattutto il ritorno dei talebani al potere, da sempre sostenuti dal Pakistan ma graditi anche alle petromonarchie del Golfo, potrebbe rallentare i piani cinesi di floridi commerci con l’Iran. Anche il piano della ferrovia dei 5 Paesi, destinata a collegare la Cina occidentale al Mar Arabico passando anche per l’Iran e l’Afghanistan, potrebbe andare in fumo.

Gli Stati Uniti, dopo una fase di blando isolazionismo (premessa di un ritorno inevitabile all’interventismo), hanno bisogno di rilanciare il loro ruolo di arbitri in Medio Oriente. Questo contrasta con l’idea che li vuole schierati sempre e comunque con Israele impegnato in un braccio di ferro permanente con l’Iran. Gli Stati Uniti non possono sostenere a oltranza le tendenze espansioniste israeliane senza favorire quelle di altri paesi che servano da contrappeso. Non possono regalare il Medio Oriente a Israele. La stampa israeliana ha parlato di massima distanza dell’amministrazione americana dallo Stato ebraico dal momento della sua fondazione. Si tratta di una distanza relativa ovviamente, ma che è di per sé sufficiente a spiegare come gli interessi dei vari Stati, anche all’interno di un campo imperialista definito, non possono mai coincidere.


Storia del Profintern (2)

Il movimento sindacale assume una importanza decisiva ai fini rivoluzionari e i comunisti si pongono il compito di liberarlo da ogni influenza che ne limiti l’attività per mantenerla tollerabile al capitalismo. Compito del comunismo, al contrario, è sviluppare le sue potenzialità rivoluzionarie e guidarlo all’assalto delle istituzioni borghesi. Il rapporto ha voluto illustrare come l’anarco-sindacalismo, rivoluzionario a parole, abbia agito per dividere il movimento sindacale e quindi indebolire il fronte di classe. A livello internazionale, l’anarco-sindacalismo ante prima guerra mondiale si riconosceva nelle posizioni affermate dalla famosa “Carta di Amiens” del 1906, fra le quali: sindacato guida rivoluzionaria per l’abbattimento del regime borghese e, a conquista ottenuta, organizzatore della produzione e distribuzione; libertà per gli iscritti di appartenere a qualsiasi “concezione filosofica o politica”, ma divieto della sua manifestazione all’interno del sindacato.

Ossia il sindacato, per programma e finalità, si comportava come un partito. All’inizio del ‘900 diversi furono i sindacati di ispirazione anarco-sindacalista che si vennero a formare. Tra i più importanti ricorderemo gli IWW in America, la CNT in Spagna, la SAC in Svezia, la CGT in Portogallo, l’USI in Italia, la FAU in Germania, la FORA in Argentina, etc. La CGT francese era già nata nel 1895. Già allora gli anarco-sindacalisti si erano posti l’obiettivo della fondazione di una loro internazionale sindacalista e nel settembre 1913 si tenne a Londra un congresso in vista di tale obiettivo. Vi presero parte 38 delegati in rappresentanza di 65 federazioni di varie parti del mondo. Gli IWW si astennero dal partecipare, anche perché si sono sempre considerati loro stessi una internazionale.

Il congresso si limitò a formulare una dichiarazione di principi: lotta di classe; solidarietà internazionale, indipendenza dai partiti politici, emancipazione dalla dominazione capitalista e statale, socializzazione della proprietà e dei mezzi di produzione e sindacato organizzatore della produzione e distribuzione. Non solo l’internazionale sindacalista non si concretizzò, ma allo scoppio della guerra, nei paesi coinvolti, le confederazioni libertarie, o parti di esse, subiranno la stessa sorte di quelle socialdemocratiche: aderiranno alla guerra. A guerra terminata, come i socialdemocratici, anche gli anarco-sindacalisti tentarono di ritessere le file di una organizzazione internazionale, che di fatto non avevano mai avuto. A dicembre 1919 a Berlino nacque il sindacato FAUD (Freie Arbeiter Union Deutschland) e nell’occasione venne rinnovata la proposta di fondazione di una Internazionale Sindacalista. Nel frattempo a Mosca si costituiva la III Internazionale alla quale, inizialmente, aderì buona parte del sindacalismo rivoluzionario.

Ciò per diversi motivi. Uno derivava dal modo con cui la nuova Internazionale era stata inizialmente concepita, che dichiarava di voler «realizzare un blocco con quegli elementi del movimento operaio rivoluzionario che, sebbene non fossero appartenuti in precedenza al Partito socialista, sono ora collocati in tutto e per tutto sul terreno della dittatura proletaria nella sua forma sovietica, cioè con gli elementi del sindacalismo». Un’altra ragione derivava dalla necessità di contrapporsi al sindacalismo riformista che già si era organizzato nell’Internazionale gialla di Amsterdam. Ma determinante era il fatto che il proletariato internazionale vedeva nella rivoluzione russa, nel partito bolscevico, in Lenin la guida e la prefigurazione della vittoria internazionale sul regime borghese. Se le organizzazioni proletarie che si definivano rivoluzionarie avessero voltato le spalle a Mosca sarebbero state di colpo abbandonate dalle masse operaie.

Quindi a quel tempo, gli anarco-sindacalisti non si dichiaravano contrari né alle proposte di Mosca né alla dittatura del proletariato. Nel dicembre 1920 si tenne a Berlino, una prima conferenza sindacalista internazionale convocata dalla tedesca FAUD e dall’olandese NAS. All’incontro parteciparono anche i delegati degli IWW, quattro organizzazioni argentine, una minoranza della CGT francese, rappresentanti inglesi e dell’Europa continentale. Per l’arresto dei loro delegati la CNT e l’USI non furono presenti. Altri sindacati si limitarono ad inviare messaggi di adesione. Un osservatore dei sindacati russi espresse dubbi sulla necessità della conferenza, dato l’imminente Congresso di fondazione dell’Internazionale sindacale rossa. I convenuti, come condizione per la loro adesione all’Internazionale sindacale di Mosca, posero il rifiuto di subordinarsi ai partiti politici e ribadirono il concetto che l’organizzazione rivoluzionaria della produzione e della distribuzione avrebbe dovuto essere gestita dai sindacati.

Comunque, il documento emanato da questa prima conferenza di Berlino si rivolgeva a tutte le organizzazioni sindacaliste rivoluzionarie perché partecipassero al congresso convocato a Mosca dal Consiglio Provvisorio della I.S.R. per fondare un’Internazionale Sindacale Rossa. Così quando si aprì il primo Congresso del Profintern molte organizzazioni anarco-sindacaliste vi erano rappresentate. A Congresso ormai chiuso una dichiarazione di Lozovski lasciava intendere che ogni dissapore tra comunisti e anarco-sindacalisti si fosse appianato, in nome della necessità di un fronte unico rivoluzionario internazionale da contrapporre alla controrivoluzionaria Internazionale gialla di Amsterdam. Invece l’unità di intenti era solo frutto della disorganizzazione degli anarco-sindacalisti che non erano riusciti a presentarsi con una piattaforma comune. Già il 14 luglio tre organizzazioni tedesche, la FAUD, la AAUD ed il sindacato tedesco dei marinai, stilarono un contraddittorio documento che, mentre dichiarava la necessità di una internazionale puramente anarco-sindacalista, riconosceva che questa avrebbe determinato una dispersione ancora maggiore delle forze proletarie.

In conclusione proponeva di «trasformare l’ISR in una vera internazionale e garantire la sua indipendenza». Una parte degli anarco-sindacalisti sosteneva la necessità di restare all’interno della ISR come minoranza organizzata; l’altra la necessità di fondare una propria Internazionale. Dalla rivendicazione della piena indipendenza dai partiti comunisti e dall’IC, gli anarco-sindacalisti passarono all’aperta denigrazione del bolscevismo e del regime russo. Quindi già all’indomani del Congresso di fondazione dell’ISR fu evidente che l’obiettivo che si era posto, di riunire tutti i settori del movimento sindacale di classe, non si sarebbe potuto realizzare, per il sabotaggio di coloro che si dichiaravano rivoluzionari. Nell’ottobre 1921, a Düsseldorf, un’altra conferenza anarco-sindacalista nuovamente propose la costituzione della Internazionale indipendente. In Italia, nel marzo 1922, l’USI tenne il suo congresso nazionale nel corso del quale riportarono la vittoria gli anarchici, fautori del distacco da Mosca.

Non ci dilungheremo qui a parlare del metodo di votazione truffaldino con il quale gli anarchici, alla scuola dei socialdemocratici, ottennero la loro vittoria. Infine, come i socialdemocratici, reclamarono che il secondo congresso dell’Internazionale sindacale rossa si tenesse al di fuori dell’Unione Sovietica, preferendo qualsiasi Stato borghese alla prima Repubblica Proletaria vittoriosa. In effetti avevano già deciso la fondazione di una loro internazionale che dal punto di vista dell’azione sarebbe risultata insignificante, ma avrebbe comportato una frattura all’interno del movimento proletario mondiale. Nel giugno 1922 ci fu la seconda conferenza anarco-sindacalista di Berlino. Pochissime furono le organizzazioni che vi presero parte: la tedesca FAUD, l’italiana USI, uno sconosciuto Jansen come rappresentante dei paesi scandinavi, una sedicente minoranza anarchica dei sindacati russi. Assistevano a titolo informativo i rappresentanti della CGTU francese e della centrale sindacale russa.

Ad altre organizzazioni anarco-sindacaliste, favorevoli all’adesione alla Internazionale sindacale di Mosca, fu negata la possibilità di partecipazione. Vennero escluse la frazione sindacalista italiana, che di fatto rappresentava la maggioranza effettiva dell’USI, e le Unioni tedesche Gelsenkirchen e Schiffahrtsbund, benché in base al regolamento interno della Conferenza stessa ne avessero pieno diritto. L’argomento della riunione fu solo uno: attacco continuo nei confronti della rivoluzione russa e della Repubblica sovietica accusate di esercitare un regime repressivo di terrore sulla classe operaia e contadina. La mozione approvata sintetizzava il programma solito dell’anarco-sindacalismo: “Comunismo libero contro l’oppressione statale”, “non conquista del potere politico, ma l’abolizione di qualsiasi funzione statalista compresa la dittatura del proletariato fonte di nuovi monopoli e nuovi privilegi”, “azione rivoluzionaria sotto la guida delle organizzazioni economiche del proletariato in opposizione ai partiti politici”, etc. Veniva inoltre affermato che il Profintern «di fatto non rappresenta, né dal punto di vista dei principi, né da quello degli statuti, un’organizzazione internazionale capace di unire il proletariato rivoluzionario mondiale in un organismo di lotta».

Venne deciso quindi di nominare un ufficio provvisorio incaricato di convocare, a Berlino, nel novembre 1922, un terzo meeting anarco-sindacalista internazionale. La fondazione dell’internazionale anarchica era stata da molti anni vagheggiata e mai erano riusciti a realizzarla non avendo fino ad allora elaborato un programma comune che li potesse aggregare. Ora, nell’estate 1922, una parte di queste organizzazioni nazionali sembrava avesse trovato un obiettivo comune nella lotta anticomunista, dandosi quindi assieme a dividere il movimento rivoluzionario internazionale. La loro ipocrisia fu tale che non ebbero il coraggio di appellarsi ai loro principi, ma cercarono di farne ricadere la colpa su un’attitudine settaria e dittatoriale del Profintern. Il Congresso anarco-sindacalista si tenne dal 25 dicembre 1922 al 2 gennaio 1923. Tra presenze e adesioni sembra che vi abbiano preso parte organizzazioni anarco-sindacaliste di Germania, Danimarca, Spagna, Italia, Norvegia, Portogallo, Svezia, Cecoslovacchia, Messico, Argentina, Cile.

C’erano osservatori francesi, in particolare del Comitato per la difesa sindacalista formatosi all’interno della CGTU. Dalla Russia c’era, ovviamente, solo la sedicente minoranza anarco-sindacale. Certo, l’elenco tra partecipanti e aderenti è lungo e potrebbe dare l’idea di una vasta e forte organizzazione, peccato però che quei sindacati inquadrassero in tutto solo poche centinaia di migliaia di aderenti. Il congresso di Berlino confermò pienamente le decisioni prese alla conferenza del giugno 1922: gli anarco-sindacalisti ebbero la loro Internazionale cercando di presentare il Profintern come il responsabile della scissione. Il movimento anarco-sindacalista, che pomposamente chiamò la propria creatura “Associazione Internazionale dei Lavoratori”, non mancò così di dare il suo contributo alla reazione internazionale.


Resoconto dei compagni venezuelani
Fazioni borghesi in lotta

In Venezuela nel “Polo Patriottico”, quel fronte di diversi partiti e movimenti raggruppati intorno al chavismo e al suo governo – e che corrisponde alla alternativa elettorale progressista in altri paesi – si sono aperte delle crepe, manifestatesi già nelle elezioni parlamentari della fine del 2020, quando alcuni partiti del fronte hanno mosso critiche al governo bolivarista. Ma quelli che intendevano rompere con il Polo Patriotico sono stati riportati a forza alla disciplina, come nel caso di Podemos, Patria Para Todos e Tupamaros, i cui gruppi dirigenti sono stati sostituiti con personaggi allineati al chavismo.

A Marea Socialista non è stato consentito registrarsi alle elezioni. I chavisti, grazie al controllo del potere statale, hanno così impedito il reclutamento dell’elettorato degli scontenti. Solo il Partito Comunista del Venezuela (PCV) è riuscito a ottenere un seggio in parlamento, in maggioranza chavista, e con una minoranza sui banchi delle opposizioni di destra. Il capo del governo ha quindi apostrofato di “sinistra fuori tempo” il PCV e gli altri gruppi, come Marea Socialista. Queste critiche al PCV e a gruppi legati al chavismo sono state interpretate come una “svolta a destra” del governo Maduro, oggi impegnato in politiche neoliberiste, in accordo con la cosiddetta “opposizione di destra”, rinnegando le linee programmatiche del defunto Hugo Chávez. In Venezuela sia i partiti di destra sia gli opportunisti di sinistra, che a partire dagli anni ’70 si erano riconciliati con il parlamentarismo, la difesa della democrazia e l’anticomunismo, definirono “sinistra fuori tempo” i partiti che si erano lanciati nella guerriglia negli anni ’60.

Ma quando il chavismo vinse le elezioni presidenziali e Chávez iniziò a proclamarsi “socialista”, non lo chiamarono più “fuori tempo” perché c’erano in ballo dei grossi affari, sì che molti grandi borghesi espressero la loro adesione al “socialismo del XXI secolo”. È stata quindi mantenuta e alimentata la grande menzogna della contrapposizione tra quella “sinistra” e quella “destra”, tra “imperialisti” e “anti-imperialisti”, tra “patrioti” e “cosmopoliti”, tra “socialisti” e “neoliberali”, espressione solo della lotta fra le varie frazioni borghesi e piccolo-borghesi per il controllo dello Stato e delle imprese che ne dipendono. Maduro, che oggi attacca chi mette in discussione le misure neoliberali del suo governo, non sta facendo nulla di diverso da quello che già fecero i Krusciov, i Tito, gli Hoxha, i Castro e tutta la gamma di opportunisti che si sono proclamati “di sinistra”, “marxisti”, “socialisti” e persino “comunisti” e che a un certo punto hanno dovuto confessare apertamente la natura capitalistica della loro società e dei loro programmi.

La storia si ripete.

Ma quella “sinistra fuori tempo” denunciata da Maduro è tanto opportunista, anticomunista, antiproletaria, quanto i chavisti al governo e che oggi si volgono al liberismo. Sia la cosiddetta “destra radicale”, che appoggia un intervento militare degli Stati Uniti e le sanzioni internazionali, sia la “destra moderata”, che intende percorrere la via elettorale, sia il chavismo e i partiti che appoggiano il governo, sia i movimenti “chavisti coerenti” che criticano il governo Maduro “da sinistra”, sono tutte espressioni di fazioni borghesi e piccolo-borghesi. Tutti questi movimenti fanno parte del partito unico del Capitale, che guida la dittatura di classe della borghesia sul proletariato. Il Partito Comunista del Venezuela, il più antico, fondato nel 1931, è stato opportunista fin dalla sua fondazione, nato sotto l’influenza controrivoluzionaria dello stalinismo.

È comunista solo di nome, di fatto è nazionalista come gli altri. Sebbene proclami la difesa dei lavoratori la sua pratica sindacale non è mai stata diversa da quella delle corporazioni sindacali dominanti, la Centrale Operaia Bolivariana e Socialista. Questo partito ha recentemente criticato le politiche salariali del governo e l’apertura al capitale straniero. Ma si è ugualmente compromesso nel governo bolivariano, ha accettato ogni briciola che gli è stata lanciata e ha appoggiato il programma di capitalismo di Stato di Chávez. Ora, mentre il malcontento cresce fra gli operai per gli effetti delle riforme economiche e la riduzione della spesa sociale, pare farsi da parte, ma per prepararsi a qualsiasi nuova alleanza che i cambiamenti nel governo gli potrebbero aprire.

Non diverso è il caso di movimenti come Marea Socialista, dei vari gruppi trotskisti e altri nazionalisti, ecologisti, indigenisti, ecc. Nessuno di questi rappresenta una reazione del proletariato alla crisi e alle riforme del governo. Sono tutti invischiati nei programmi nazionalisti, con approcci legalitari e costituzionali, nella difesa della democrazia e dei postulati politici borghesi. Rappresentano la reazione di una parte della piccola borghesia colpita dalla caduta delle entrate petrolifere e dalla perdita della capacità dello Stato borghese di concentrare rendite e valuta estera di cui beneficiavano, direttamente o indirettamente.

Non hanno nulla non solo di rivoluzionario ma nemmeno di riformista, difensori della proprietà privata e dell’interclassismo. Ben lungi dall’ammettere la necessità della dittatura del proletariato da opporre alla dittatura borghese, difendono l’elettoralismo e la manovra parlamentare e tutto quanto dà ossigeno e continuità allo sfruttamento capitalista. La classe operaia si muoverà verso la lotta unita per le sue richieste immediate, salario, condizioni di lavoro, salute e sicurezza, lotta alla repressione. In questa battaglia si allontanerà da tutte le organizzazioni opportuniste, e ritroverà il suo partito per convergere in un grande movimento anticapitalista e rivoluzionario, a dimensione locale, nazionale e internazionale.


Panorama sindacale nel Québec

Nel contesto di una pandemia che evidenzia e aggrava le peggiori contraddizioni di un modo di produzione decrepito, c’è da aspettarsi un aumento delle lotte operaie anche nella provincia del Québec. Mentre i negoziati nel settore pubblico sono in corso, la direzione degli organismi sindacali non parla di una lotta comune, quando ci sarebbe più che mai bisogno di unire le forze contro lo Stato borghese, che certamente non esiterà a usare qualsiasi mezzo per schiacciarle. Si conferma il loro ruolo di complicità col padronato nello sfruttamento dei lavoratori, che ormai capiscono che la lotta sindacale condotta in questo modo non è capace di produrre risultati. È quindi imperativo che la base delle organizzazioni sindacali alzi la testa e riprenda il controllo dei sindacati, essenziale strumento di lotta contro il Capitale.

La lotta sindacale in Québec è iniziata con lo sviluppo del capitalismo nella provincia. A partire dal XIX secolo, gli operai di varie fabbriche si unirono a grandi sindacati internazionali sotto l’influenza dei compagni americani. All’inizio, come ovunque, i sindacati non erano riconosciuti e dovevano organizzarsi in clandestinità. La seconda guerra mondiale permise un rapido sviluppo del sindacalismo, con più spazio di manovra grazie alla piena occupazione generata dall’industria militare. Nel 1945‑46, durante lo sciopero dei 17.000 operai della Ford a Windsor, il giudice Rand, chiamato in causa, decise che l’azienda era tenuta a dedurre dal salario di tutti i dipendenti l’importo della quota sindacale e a rimettere la somma al sindacato: tutti coloro che beneficiavano del contratto di lavoro dovevano pagare la quota.

La situazione di euforia produttiva continuò per alcuni anni dopo la vittoria degli Alleati, con il Canada che emergeva dalla guerra come potenza industriale, beneficiando per un certo periodo dell’indebolimento delle potenze europee. Fu il periodo della cosiddetta “Rivoluzione Tranquilla”, iniziata nel 1960 quando il Partito Liberale del Québec andò al governo con il motto “padroni in casa nostra”. Seguirono una serie di riforme che comportarono importanti nazionalizzazioni (come quella dell’elettricità, che divenne monopolio statale). Furono creati i Cégeps, nuovi istituti pubblici di istruzione tecnica. Si lasciò intendere che questo fosse l’inizio di un cauto movimento di liberazione nazionale del Québec. La “identità” del Québec fu così inventata allora: prima i francofoni della provincia si consideravano senz’altro canadesi di lingua francese.

Il dopoguerra e fino alla “Rivoluzione Tranquilla” fu segnato da un’intensa attività sindacale e da una dura lotta contro il governo del Québec, che non nascondeva la sua posizione antisindacale. Nonostante le leggi e le misure usate per spezzare i sindacati e la brutalità della repressione della polizia. le lotte si moltiplicarono e la rabbia crebbe. Lo Stato si trovò di fronte un avversario in posizione di forza. In questi anni furono i lavoratori sindacalizzati a opporre la più energica resistenza alle idee, alle politiche e ai metodi reazionari del governo dell’Union Nationale du Canada. Il movimento sindacale del Québec subì un’altra importante evoluzione in quegli anni, quando i dipendenti dei servizi pubblici iniziarono a sindacalizzarsi in massa nelle grandi organizzazioni, la FTQ, la CSN e la CSQ. Il tasso di sindacalizzazione passò allora dal 25% al 39%, circa lo stesso di oggi. Durante questo periodo, che oggi è considerato un’epoca d’oro per il sindacalismo nel Québec, sono state condotte grandi lotte, culminate nel 1972 con il fronte comune e lo sciopero generale che scosse la provincia. Gli anni ‘80 hanno segnato un grande cambiamento.

A partire dal 1982 il Québec ha vissuto una grande crisi economica con un aumento significativo del tasso di disoccupazione. I padroni e il governo hanno approfittato della situazione per passare all’attacco con ogni sorta di decreti e leggi speciali come la Legge 105 e la 111, nota come “legge del manganello”. Una sconfitta dopo l’altra, i sindacati si tenevano sempre sulla difensiva. Incassata una serie di amari fallimenti, di fronte a tutta questa protervia statale i sindacati si mostrarono sempre più sottomessi e meno esigenti, e i dirigenti sempre più remissivi. Questi oggi sono quasi sempre alla coda dei loro iscritti, i quali a volte arrivano a credere che i sindacati tradizionali non siano più utili a difendere i loro interessi. Intanto il mercato del lavoro è cambiato radicalmente. Il precariato (temporanei, part‑time o senza ore garantite) e il subappalto sono ormai quasi la norma.

Le clausole che difendono solo i diritti acquisiti – accettate dai sindacati – si stanno moltiplicando nei contratti collettivi, creando divisioni tra le diverse generazioni di lavoratori. Con i subappalti i lavoratori sono separati in diversi luoghi e spesso non sono inclusi nei contratti collettivi, il che a volte li porta a non scioperare durante le lotte sindacali. Infatti il numero di giorni di sciopero all’anno è calato drasticamente tra il 1981 e il 2010: 272 giorni medi di interruzione del lavoro all’anno per il decennio 1981‑90; 134 per il decennio 1991‑2000; 91 per il decennio 2001‑10. Questo in un periodo che ha visto un aumento degli attacchi ai lavoratori è una testimonianza della loro mancanza di organizzazione e della sfiducia nei sindacati. Questa situazione non può non cambiare.

Il sindacato si è ridotto a fare iscritti, con metodi spesso opportunistici e creando divisioni tra i lavoratori. Nelle costruzioni, per esempio, l’adesione è individuale, a differenza che in altre categorie. I lavoratori devono scegliere tra cinque sindacati disposti a rappresentarli. Questa particolarità dà luogo alla “caccia agli iscritti” con i rappresentanti sindacali che, durante il periodo di “reclutamento sindacale” stabilito dalla legge, cercano di convincere i lavoratori nei cantieri, talvolta anche con metodi violenti. Va notato, tuttavia, che il tasso di sindacalizzazione è rimasto stabile nel corso degli anni ed è ancora il più alto del Nord America. Non c’è dubbio tuttavia che la “formula Rand” gioca un ruolo importante e fa apparire più di quel che è l’attaccamento dei lavoratori al loro sindacato. Molti si trovano inscritti in modo automatico benché non si fidino dei loro rappresentanti o non abbiano interesse per la lotta sindacale. In Québec ci sono tre grandi confederazioni sindacali che riuniscono un gran numero di sindacati. In primo luogo la Fédération des Travailleurs et des Travailleuses du Québec (FTQ) con il 44% dei lavoratori sindacalizzati, quasi mezzo milione di iscritti.

La FTQ raggruppa una moltitudine di settori e categorie della classe lavoratrice. Il “Fondo FTQ” è uno dei più grandi investitori del Québec e possiede anche quote significative in aziende straniere. Al di là di tanti scandali di corruzione, questo dato mette la FTQ in una posizione contraddittoria perché lo scoppio di lotte all’interno delle imprese in cui investe attraverso il fondo FTQ va contro i suoi interessi economici. La Confédération des Syndicats Nationaux (CSN) rappresenta quasi 300.000 lavoratori, la maggior parte del pubblico impiego, categorie storicamente combattive in Québec. Ha quindi un ruolo importante da svolgere nelle trattative del settore. La Centrale des Syndicats du Québec (CSQ) ha quasi 200.000 membri in Québec. La Centrale des syndicats démocratiques du Québec (CSD) fu fondata da sindacalisti dissidenti durante la svolta del CSN nel fronte comune del 1972. È la più piccola delle centrali con circa 75.000 iscritti. Organizza 300 sindacati in otto gruppi professionali. Il CSD‑costruzioni ha 25.000 membri. Oltre ai grandi organismi centrali del lavoro, ci sono anche sindacati con un certo seguito.

La Fédération Interprofessionnelle de la Santé du Québec (FIQ), con 76.000 iscritti, il 90% dei quali donne. Organizza infermieri e vari specialisti della sanità. La FIQ non si affianca alle altre centrali nelle trattative. L’Alliance du personnel professionnel et technique de la santé et des services sociaux (APTS) ha 60.000 iscritti. La Fédération autonome de l’enseignement (FAÉ) ne conta circa 49.000. La FAÉ è quindi importante nel settore della scuola. Infine, il Syndicat de la fonction publique du Québec (SFPQ) conta 40.000 membri. In Québec i sindacati non difendono i lavoratori dagli attacchi sempre più duri del Capitale. Il rifiuto dei loro organi centrali di formare un fronte comune nella vertenza del settore pubblico del 2020 lo dimostra. Gli iscritti esprimono la loro insoddisfazione nei confronti delle direzioni.

I lavoratori abbisognano di un vero organismo di lotta, un sindacato di classe, che vada oltre i confini professionali e difenda gli interessi della classe operaia nel suo insieme. Questo organismo non potrà essere limitato al Québec ma estendersi al Canada e anche a livello internazionale. I lavoratori di tutto il mondo hanno gli stessi interessi e solo la solidarietà permetterà di esprimere la loro forza.


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Il rapporto sul riarmo degli Stati e sul commercio di armi sarà pubblicato per intero nel prossimo numero di questo giornale.

Quello su gli ultimi quarant’anni di lotta di classe in Turchia è già leggibile nei due numeri scorsi 409 e 410.


FINE DEL RESONTO DELLA RIUNIONE DI MAGGIO