Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 414 - 14 febbraio 2022

anno XLIX - [ Pdf ]

Indice dei numeri
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Aggiornato al 19 febbraio 2022
organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 – Le borghesie di Europa schiacciate nello scontro fra giganti imperiali
Alternanza scuola/lavoro
Crollo del ponte a Pittsburgh - Opere pubbliche per rianimare gli agonici capitalismi nazionali
PAGINA 2 In Kazakistan la classe operaia ha dimostrato cosa è capace di fare - E che farà
Per il sindacato
di classe
L’ipocrita “unità dall’alto” del sindacalismo di base
– Non sarà lottando per le nazionalizzazioni o contro le delocalizzazioni che si unifica la classe operaia
– Il primo sciopero del Coordinamento Macchinisti Cargo
Negli USA i macchinisti dei treni merci contro la repressione statale e le dirigenze dei sindacati di regime
Ai lavoratori venezuelani. Per l’unità d’azione per un aumento generale dei salari e delle pensioni
Portogallo - Affonda la legge contro il precariato nello sporco teatrino fra PSP e PCP
– Riprendono le lotte operaie in Turchia
PAGINA 5 – Sulle cause della inflazione e della deflazione
PAGINA 6 Riunione Internazionale del Partito [RG142] (in video-conferenza, 28-30 gennaio). Sull’uso da parte del partito dei simboli del comunismo - La successione dei modi di produzione, Le teorie sul plusvalore, i fisiocratici - La rivoluzione in Germania, L’azione di marzo ’21 - La rivoluzione ungherese - I rapporti fra il PCd’I e l’Internazionale Comunista - La rivolta in Kazakistan
PAGINA 8 I tradizionali simboli del comunismo nell’uso nel partito
Omosessualità-transessualità e comunismo



PAGINA 1


Le borghesie di Europa schiacciate nello scontro fra giganti imperiali


Il pretesto Ucraina

Cercando le cause della nuova crisi ai confini orientali dell’Ucraina non si può non tenere conto del contesto in cui è maturata. La crisi economica che investe i principali paesi del mondo preme sui diversi attori rendendone le mosse tanto più audaci quanto più impacciate.

Negli mesi scorsi la Russia ha iniziato ad ammassare una grande quantità di uomini e mezzi militari ai confini con l’Ucraina. Le fonti occidentali parlano di più di 100.000 uomini pesantemente armati. Manovre militari si stanno svolgendo a nord, in Bielorussia, e a sud, in Crimea.

Di fronte alle proteste del governo di Kiev e dei suoi alleati occidentali, che gridano al pericolo di invasione, la Russia ha risposto che si tratta di normali esercitazioni all’interno dei suoi territori e che non c’è alcuna intenzione di penetrare in Ucraina.

L’improbabilità della guerra sarebbe confermata nelle alte sfere a Mosca. Riferisce “Il manifesto” del 15 gennaio: «Tutti a Mosca conoscono i rischi legati a una guerra aperta in un paese con 45 milioni di abitanti, e le ripercussioni che avrebbe, prima di tutto sulla stabilità interna. Ne sono a conoscenza gli uomini degli apparati militari così come quelli dell’establishment politico putiniano, interessati a difendere rapporti e anche privilegi costruiti nel tempo con i paesi europei».

Anche il generale italiano Leonardo Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, in una recente intervista alla Rai ha affermato che «non sono i russi ad accerchiare la Nato ma il contrario (...) [Le truppe russe] non sono pronte a nessuna invasione. Partecipano a manovre in Bielorussia, e perfino a pattugliamenti nel Mediterraneo, ma le truppe russe minacciose alla frontiera ucraina sono una pressione, rischiosa certo, per ribadire che l’ingresso del Paese nella Nato sarebbe inaccettabile».

Russia accerchiata

La prova di forza del Cremlino non è giunta come un fulmine a ciel sereno, era molto tempo che tuonava. Come ha scritto Sylwia Zawadzka (“Osservatorio strategico” n.4, 2020): «A partire dal 2014 la direttrice strategica dello sforzo militare russo si è spostata decisamente dal Caucaso, dalla Turchia, dal Vicino Oriente e dall’Iran alle regioni direttamente confinanti con l’Ucraina e la Crimea, e a questa si è unita, dal 2016 circa, la direttrice nord-ovest ovvero l’enclave di Kaliningrad, ulteriormente militarizzata per contrastare l’azione degli Alleati nei paesi baltici».

Questa decisione fu dovuta alla cosiddetta “sindrome dell’accerchiamento” che si è creata nei circoli dirigenti russi a causa della politica espansionista della Nato nei decenni seguiti al disfacimento dell’URSS.

Ancora nel 2007 Putin aveva espresso la contrarietà della Russia all’attivismo militare degli Stati Uniti e alleati, nella ex Jugoslavia, in Medio Oriente ecc, ma soprattutto per l’espansione della Nato ad est. Nel corso della Conferenza per la Sicurezza di Monaco tenutasi in quell’anno il presidente russo diede voce alle forti preoccupazioni di Mosca: «Penso che sia ovvio che l’espansione della Nato non ha alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la garanzia della sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una grave provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E abbiamo il diritto di chiedere: contro chi è diretta questa espansione? E cosa è successo alle assicurazioni fatte dai nostri partner occidentali dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono finite quelle dichiarazioni oggi? Nessuno se le ricorda più?». Domande retoriche di un presidente che cerca di riportare la Russia allo status di potenza imperialista.

Queste mosse della Nato erano criticate anche da parte dei politici statunitensi. Già nel febbraio 1997 il diplomatico George F. Kennan, teorico della politica del containment dell’Unione Sovietica nel secondo dopoguerra, scriveva sul “New York Times” un articolo dal titolo “L’errore fatale” in cui esprimeva l’opinione che «l’espansione della Nato sarebbe il più fatale errore della politica americana in tutta l’era del dopoguerra. Ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militariste nell’opinione pubblica russa; che abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; che ripristini l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni Est-Ovest e spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento».

L’ex diplomatico metteva in evidenza il fatto che una politica aggressiva della Nato, se avrebbe indebolito la Russia dal punto di vista degli schieramenti militari, ne avrebbe però rafforzato il regime all’interno dando voce e forza alle posizioni patriottiche e nazionaliste anti-occidentali.

Contro la Germania

Ma evidentemente gli Stati Uniti non avevano scelta. Nella generale crisi dell’ordine imperialistico seguita alla caduta dell’URSS, una crisi che continua ancora oggi, c’era sempre meno spazio per una politica di distensione o di semplice containment. Nel caso in cui i paesi dell’Europa dell’Est non fossero inglobati dalla Nato e dall’Unione Europea, sarebbero stati destinati a finire nuovamente o sotto l’influenza della Russia o, peggio ancora per Washington, della Germania, un pericolo che gli Stati Uniti non intendevano correre.

La Nato ha dovuto occupare lo spazio fra Berlino e Mosca, con l’obiettivo, come scriveva “Limes” nel novembre 2019, “La nuova cortina di ferro”, di «negare al risorgente nazionalismo tedesco (...) d’intendersi un giorno con la Russia. Come accade da secoli fra due potenze, costrette per prossimità e rapporti di forza a venire a patti (...) L’ossessione per la Germania è d’altronde un tratto caratteristico della cultura strategica americana. Da cento e due anni, dall’intervento nella prima guerra mondiale contro l’impero guglielmino, ne informa l’approccio all’Europa».

La Germania, una delle maggiori potenze economiche del mondo e la maggiore d’Europa, è ancora priva di un esercito di peso corrispondente alla sua forza sui mercati mondiali, ma con il suo apparato industriale e tecnico potrebbe in breve tornare ad essere una potenza, anche nucleare. Oggi è un alleato degli Stati Uniti ma in prospettiva potrebbe divenire uno dei suoi più formidabili concorrenti.

La crisi ucraina contrappone Stati Uniti e Russia, ma colpisce soprattutto la Germania e l’Europa, sia dal punto di vista degli scambi commerciali con la Russia, sia per le forniture energetiche russe, che rappresentano ancora più del 40% del gas e del petrolio importato dalla UE. Sono la Germania e l’Italia che hanno i maggiori rapporti economici e commerciali con la Russia e che avrebbero più da rimetterci se fossero prese sanzioni contro di questa. L’impatto negativo sull’economia statunitense sarebbe molto minore, anzi potrebbe addirittura trarne un vantaggio.

Gli Stati Uniti non hanno fatto mistero, nonostante gli accordi stipulati con Berlino, che uno dei loro obbiettivi è bloccare il Nord Stream 2, il nuovo gasdotto che unisce la Russia alla Germania, preoccupati della crescente dipendenza della UE dal gas russo. «È molto difficile pensare che il Nord Stream diventi operativo nel caso che la Russia rinnovi la sua aggressione contro l’Ucraina» ha ripetuto il 12 gennaio scorso il vice segretario di Stato americano, Wendy Sherman.

E sono stati gli Stati Uniti a proporre di soppiantare le forniture di gas russo all’Europa con il gas liquefatto proveniente dagli USA e dal Qatar. Secondo dati forniti da “La stampa” del 5 febbraio, «Nel mese di gennaio le spedizioni di gas naturale in Europa (in arrivo per almeno la metà dall’America) hanno superato le importazioni di gasnaturale dalla Russia».

Una mossa azzardata ?

Perché Mosca ha deciso questo passo rischioso in questo periodo così incerto a causa della crisi economica e della pandemia?

Il governo russo ha voluto esibire questa prova di forza in un momento di difficoltà interna che ha portato alla diminuzione di salari e pensioni, e a un diffuso malcontento tra i lavoratori, ma anche nella piccola e media borghesia. Spostare l’attenzione sulle minacce esterne contro la Grande Madre, e magari cogliere qualche successo in politica estera, così come è accaduto nel 2014 con l’occupazione della Crimea, certamente porterebbe a un rafforzamento del regime.

Oltre a questo bisogna considerare che negli ultimi anni l’esercito ucraino si è rafforzato grazie a consistenti forniture di armi dagli Stati Uniti e da altri membri della Nato, compresa l’inquieta Turchia che ha fornito gli UAV, e grazie anche all’invio di centinaia di consiglieri militari, soprattutto statunitensi e britannici. Il timore di Mosca è che questa nuova situazione spinga il governo ucraino, che già sta attuando una severa politica contro la minoranza russa ancora presente nel Paese, a tentare la riconquista della regione del Donbass dove in questi anni non sono mai cessati gli scontri in una guerra strisciante che pare abbia lasciato sul terreno ben 14.000 morti.

Inoltre l’eventuale ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella Nato, come previsto dal summit di Budapest dell’aprile 2008, metterebbe la Russia in una insostenibile situazione di debolezza che avrebbe certamente ripercussioni negative anche nel governo di Putin. Nella conferenza stampa di fine anno Vladimir Putin lo ha detto chiaramente: «Una ulteriore espansione della Nato verso est è inaccettabile»; «l’Occidente viene con i suoi missili alla nostra soglia di casa»; «continuano a ripeterci: guerra, guerra, guerra, ma c’è l’impressione che, forse, siano loro a preparare la terza operazione militare in Ucraina».

Un’Europa che non esiste

La crisi diplomatica ha messo in evidenza anche le profonde divisioni che esistono tra i Paesi europei. Da una parte la Germania, con la Francia e l’Italia. Dall’altra la Polonia e i Paesi Baltici con l’appoggio ormai esterno della Gran Bretagna, un blocco che rappresenta la longa manus degli Stati Uniti sull’UE. Contro questa opposizione la Francia ha riproposto il suo disegno per la creazione di un “sistema di sicurezza europeo”, sganciato da quello della Nato. Infatti l’Europa, nonostante l’Euro, non esiste come potenza militare perché manca di una direzione politica unitaria e di forze armate.

Più volte abbiamo ribadito che non ci sarà mai una vera unità dell’Europa, troppo forti i conflitti di interesse tra i diversi Stati, e che solo il proletariato potrà dare vita ad una Europa senza patrie e senza confini.

La crisi ha anche riacutizzato i contrasti esplosi in campo alleato, in Francia e in Germania ma anche in Italia, con il ritiro statunitense dall’Afghanistan, di cui erano stati tenuti all’oscuro fino all’ultimo momento, o la stipula del patto Aukus per il Pacifico tra USA, Gran Bretagna e Australia, all’insaputa di Francia e Germania con l’annullamento della fornitura dei sommergibili francesi all’Australia sostituiti dai sommergibili nucleari statunitensi.

Russia non primo nemico

In questa crisi gli USA sono stati i più decisi tra i Paesi dell’Alleanza Atlantica ad opporsi alla Russia e hanno dimostrato, una volta di più, di usarla come strumento per la difesa dei loro interessi economici e per riaffermare la loro presa sull’Europa. Washington ha cercato di monopolizzare la trattativa con Mosca, escludendo o mettendo in secondo piano gli alleati europei e la stessa Ucraina. Il presidente Biden ha dato quasi per certa la guerra imponendo il ritiro del personale dall’Ambasciata di Kiev, seguito da Gran Bretagna e Australia, fino al punto che i governi delle principali potenze della Nato hanno dovuto tranquillizzare la propria opinione pubblica dichiarando la non disponibilità a inviare truppe a combattere in Ucraina in caso di invasione russa e lo stesso presidente ucraino ha dovuto affermare pubblicamente che non esiste un pericolo di guerra imminente.

Ma non è certo oggi la Russia il pericolo per gli Stati Uniti, essa rappresenta ormai un imperialismo regionale, anche se mantiene un formidabile apparato militare industriale e un arsenale, soprattutto nucleare, di tutto rispetto. Come potenziale economico la Russia può essere ormai comparata alla Svizzera e nella spesa militare annua non c’è confronto con le due superpotenze, Stati Uniti e Cina. Mosca nel 2020 ha speso in armi circa 62 miliardi di dollari, gli USA ben 13 volte tanto, 778 miliardi di dollari, e la Cina 252 miliardi, 4 volte.

È la Cina il vero nemico strategico degli Stati Uniti, impegnata com’è da anni in uno scontro sempre più aperto per Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale. Ebbene, Pechino ha approfittato della crisi ucraina per rafforzare il suo legame con Mosca e non si è lasciata sfuggire l’occasione di volgere a suo favore questo scontro diplomatico e militare nel cuore dell’Europa. Ha mostrato questa volta solidarietà alla Russia. Nella visita di Putin a Pechino in occasione delle olimpiadi i due Paesi hanno raggiunto nuovi accordi per «scambi commerciali e cooperazione militare, investimenti e intese dall’energia allo spazio, sviluppo di nuovi strumenti finanziari per valorizzare e proteggere le rispettive valute a scapito del dollaro» (“Il Sole 24 ore”, 4 febbraio). Hanno inoltre presentato un progetto per “una nuova era” nei rapporti internazionali, basata sul multilateralismo, che tradotto significa scardinare l’egemonia mondiale degli Stati Uniti.

In particolare questi nuovi accordi prevedono esplicitamente l’opposizione dei due alleati all’inclusione dell’Ucraina nella Nato e la riconferma che Taiwan è “parte integrante” della Cina. Infine è stata espressa l’opposizione al nuovo Patto militare dell’Aukus tra USA, Gran Bretagna e Australia. La Cina si dimostra così un attore di primo piano anche nella partita Ucraina.

L’ordine vacilla

La girandola diplomatica che in queste settimane sta vedendo protagonisti non solo la Russia e gli Stati Uniti, ma l’Unione Europea, per quello che conta, la Germania e la Francia, l’Italia stessa, l’ambigua Turchia, confermano che un ordine mondiale, quello che dalla caduta dell’URSS ha visto gli Stati Uniti dominare nel mondo, non esiste più. La grande potenza non riesce più a mantenere l’ordine e il controllo, dall’Asia centrale, all’Africa al Medio Oriente. Le alleanze sono sempre meno solide e i cambi di fronte repentini. Ma il regime infame del capitale non potrà ritrovare un nuovo equilibrio se non attraverso un nuovo devastante macello imperialista mondiale.

Corsa al riarmo

Questa discesa nel precipizio della guerra è confermata dalla crescente corsa al riarmo, che non risparmia neppure gli Stati minori, anche se sono solo una quindicina gli Stati imperialisti che monopolizzano la produzione, l’uso e il commercio delle armi. Questa corsa viene alimentata da una sensazione di inevitabilità della guerra. Evidente la ipocrisia della diplomazia internazionale che distingue tra guerra di aggressione e di difesa, tra ingiusta e giusta. La prima che sarebbe sempre da condannare, la seconda benedetta dagli Stati e dalle Chiese. Questa distinzione, nell’attuale regime borghese di rancido imperialismo, non ha nessuna corrispondenza con la realtà.

Nella ormai cronica crisi economica, di contesa sempre più evidente per le risorse, energetiche e di materie prime, ma in molte regioni del mondo anche di prodotti agricoli e acqua, la guerra è permanente. Tutti i capitalismi sono in realtà “aggrediti”, decrepiti, dalle loro convulsioni di morte. Il regime del capitale è in guerra con gli umani, dedica la maggior parte delle risorse del pianeta alla fabbricazione di merci inutili o dannose. Produce armi a dismisura per difendersi, per la difesa di questo ordine sociale basato sullo sfruttamento, sulla miseria, e sulla guerra.


Alternanza scuola/lavoro

Il 21 gennaio un ragazzo diciottenne, studente in un istituto professionale, Lorenzo Parelli, è morto in un incidente sul lavoro in una fabbrica metalmeccanica in provincia di Udine, schiacciato da una putrella di oltre un quintale cadutagli addosso. La tragedia ha suscitato emozione ed è tornata a sollevare la questione della sicurezza sul lavoro e sulla cosiddetta alternanza scuola-lavoro e dei centri di formazione professionale.

Il regime borghese ha recitato il ruolo collaudato di farsi esso stesso promotore del dibattito su tale questione, così da non apparire sordo ma aperto, democratico, progressista. Un canovaccio che appare il più consono, nel clima di passività della classe di questi anni, ai fini del mantenimento della pace e della conservazione sociale. Accade per la questione femminile, per il razzismo, per l’ambiente e anche per gli operai morti sul lavoro. Lorenzo è stato ricordato anche dal presidente della repubblica nel suo discorso d’insediamento che ha pronunciato il rituale “Mai più tragedie come queste”.

Gli studenti medi sono scesi in piazza e, nonostante i numeri non molto consistenti delle loro mobilitazioni, sono stati aggrediti e bastonati dalla polizia, con condotta omogenea a livello nazionale, da Torino a Roma, il che fa supporre ciò sia accaduto sulla base di una indicazione del ministro dell’interno. Alternanza scuola-manganello, è stato commentato con amaro sarcasmo.

Quasi tutte le organizzazioni del sindacalismo di base che, dopo lo sciopero unitario dell’11 ottobre scorso, si erano riunite nell’assemblea nazionale post-sciopero del 24 ottobre – Usb, Cub, Confederazione Cobas, Sgb, Unicobas, Usi Cit, Cobas Sardegna – il 4 febbraio hanno firmato un “Appello in solidarietà e sostegno al movimento degli studenti/studentesse”. Non lo hanno firmato l’Adl Cobas, le Clap (Camere del Lavoro Autonomo e Precario) e il SI Cobas, che era stato l’unico a sfilarsi da quella sorta di cartello di sindacati.

L’unitarietà dell’appello è in sé positiva – su questo scriviamo in altro articolo – ma il documento si attesta sulle posizioni caratteristiche dell’opportunismo. Queste sono la difesa del “diritto allo studio” e l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro: “un tempo per studiare e uno per lavorare”. La lotta per il diritto allo studio tenderebbe a “una scuola migliore”, in grado di svolgere la funzione di “emancipazione sociale” per le giovani generazioni, e quindi di generale progresso sociale.

Tutto riformismo antimarxista, tipico dei movimenti studenteschi pseudo-rivoluzionari, radicali in superficie e piccolo borghesi nella sostanza, dal ‘68 in poi.

Che il comunismo ribalta.

Innanzitutto non è vero che la scuola nel capitalismo possa diventare uno strumento di emancipazione sociale. Che l’istruzione, in una società divisa in classi, elevi verso superiori forme sociali è l’emblema del gradualismo riformista. Le rivoluzioni del 1848, la Comune di Parigi, la Rivoluzione d’ottobre, che ambivano ad aprire all’umanità la strada del comunismo, non hanno certo atteso la scuola dell’obbligo, ma gli insegnamenti del partito di Marx, Engels e Lenin.

La scuola nel capitalismo è invece uno strumento di conservazione, serve a inculcare nei giovani l’ideologia della classe dominante coi suoi pregiudizi, prima fra tutti la mistificazione democratica, e a rinchiuderli in un recinto – nello spazio nel tempo nelle idee – separato dalla reale vita sociale.

Il cosiddetto movimento studentesco, composto di soli studenti che si vogliono far lottare per supposti obiettivi studenteschi, sancisce questo confinamento, in una condizione sociale fittizia e transitoria. Ugualmente, dal suo esterno, lo puntella l’opportunismo politico sindacale, che invoca la “unione operai-studenti”, del movimento operaio col “movimento studentesco”, a cui viene riconosciuta dignità.

Far uscire i giovani proletari dalla gabbia della scuola borghese e metterli a contatto con la realtà del lavoro salariato, dello sfruttamento e della lotta contro lo sfruttamento, è sì un interesse del capitale, sempre affamato di forza lavoro, ma lo è anche per quei giovani e per la classe lavoratrice tutta che, quando fosse in grado di ricostruire le sue organizzazioni di lotta e in esse accoglierli, riceverebbe le vitali energie della gioventù proletaria, di cui è stata privata da troppo tempo.

«Il legame precoce tra il lavoro produttivo e la istruzione sarebbe uno dei più potenti mezzi di trasformazione della società odierna», si legge nella “Critica al programma di Gotha” di Carlo Marx.

Il sindacalismo di base dovrebbe quindi attestarsi sulla corretta linea sindacale di classe anche di fronte a questo importante problema, non rivendicare il “diritto allo studio”, di tenere lontani gli studenti dal lavoro, ma che il loro lavoro sia pagato, al salario delle qualifiche d’ingresso già stabilito dai contratti collettivi.

I giovani proletari, con la loro spontanea voglia di lottare, vanno coinvolti nel movimento operaio in quanto giovani lavoratori, non in quanto studenti. In luogo del “movimento studentesco” va coltivato e costruito un movimento della gioventù proletaria per la difesa delle condizioni di vita della loro classe.

Non sarà la scuola borghese ad emancipare i giovani e l’umanità dal capitalismo ma la lotta di classe e la milizia nel sindacato di classe e nel partito rivoluzionario.


Crollo del ponte a Pittsburgh
Opere pubbliche per rianimare gli agonici capitalismi nazionali

Il 28 gennaio, proprio mentre si teneva la nostra quadrimestrale Riunione Generale, il presidente Joe Biden metteva piede a Pittsburgh, in Pennsylvania. Nel suo eloquio impacciato, ha tenuto un discorso incentrato sulla nuova legge federale sugli investimenti e sui posti di lavoro.

Poche ore prima un’importante struttura della città, il ponte sul Fern Hollow, su cui passano più di 14.000 auto al giorno, era precipitato nel Frick Park. Dieci i feriti, fortunatamente nessun morto, perché il crollo è avvenuto in inverno, al mattino presto e prima dell’ora di punta. Il parco sottostante è molto frequentato nelle altre stagioni.

L’evento, simbolico, ha fatto notizia a livello nazionale e locale, ed è stato usato in appoggio al programma di Biden sulle opere pubbliche.

Nessuno ha potuto affermare che il crollo sia un incidente isolato o una fatalità. Il ponte era ritenuto in cattive condizioni dal 2011 almeno, parte del più ampio stato di abbandono delle infrastrutture in tutta la nazione, come in molti dei vecchi capitalismi.

Ma – e sicuramente in questo differiamo dai repubblicani e dai democratici americani – noi riconosciamo che il cedimento del ponte è stato, similmente a gran numero di disastri – dagli incidenti nucleari (vedi Il Partito Comunista n.346) ai deragliamenti di treni (vedi The Communist Party, n.27) – il risultato di tendenze sociali generali derivanti da questo misero e decrepito modo di produzione capitalistico. Anche questo crollo è il risultato della tendenza degli Stati, in ogni società di classi, a dedicare sempre maggiori risorse ai loro apparati repressivi: eserciti e polizia e sempre meno al cosiddetto “bene pubblico”.

I rappresentanti del Comune hanno ammesso che la città non è stata in grado di riparare adeguatamente il ponte per mancanza di fondi. È vero: nel 2019 per piccole riparazioni al ponte si sono spesi solo 100.000 dollari, ma tra il 2012 e il 2019, 4,25 miliardi destinati alla manutenzione di ponti e strade erano stati riassegnati alla polizia di Stato della Pennsylvania.

All’epoca il revisore generale dei conti disse: «In tutta la Pennsylvania più di 2.800 ponti di cui è responsabile lo Stato sono strutturalmente carenti. Quei 4,25 miliardi di dollari avrebbero potuto dimezzare quel numero. E se lo Stato usasse per strade e ponti i proventi delle tasse sul gas si potrebbe portarlo a zero in 5 anni».

Considerazioni sentite troppe volte, anche dagli stessi portavoce del Signor Capitale e non ci sarebbe bisogno del parere dei cosiddetti “esperti” a confermarlo.

Anzi, i rappresentanti al governo della lobby edilizia e della borghesia nazionale in generale, in particolare il da tanti amato Joe Biden, stanno facendo del crollo di Pittsburgh un teatrino per giustificare la necessità del rilancio della accumulazione del capitale nazionale. La borghesia vorrebbe tornare a veder crescere il settore industriale negli Stati Uniti, in concorrenza con gli altri capitalismi, Cina in particolare.

Nello specifico, Joe Biden nel suo discorso ha dichiarato che mira a riportare a Pittsburgh posti di lavoro nella manifattura, ricordando tristemente (cinicamente, dovremmo dire) la quasi totale distruzione dell’industria locale. Questo, dice, creerà posti di lavoro “per gli americani”. Questa è la loro illusione, e la illusione che diffondono nella classe operaia.

Conosceremmo un altro modo per “creare” posti di lavoro. Un accorciamento generale della giornata lavorativa e regolamentazioni sul carico di lavoro e sull’occupazione minima. Ma queste sono misure che la borghesia e il suo governo non oseranno mai attuare, se non costretti con la forza dal vigore collettivo di un proletariato mondiale, militante e unificato.

Ricordiamo cos’è il lavoro salariato: «Il capitale può accrescersi soltanto se si scambia con il lavoro, soltanto se produce lavoro salariato. Il lavoro salariato si può scambiare con capitale soltanto a condizione di accrescere il capitale, di rafforzare il potere di cui è schiavo. Aumento del capitale è quindi aumento del proletariato, cioè della classe lavoratrice. L’interesse del capitalista e dell’operaio è quindi lo stesso, sostengono i borghesi e i loro economisti. E infatti! L’operaio va in malora se il capitale non lo occupa. Il capitale va in malora se non sfrutta il lavoro, e per sfruttarlo deve comperarlo. Dire che gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro sono gli stessi, significa soltanto che il capitale e il lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto. L’uno condiziona l’altro, allo stesso modo che si condizionano a vicenda lo strozzino e il dissipatore» (Karl Marx, “Lavoro salariato e Capitale”).

Ma si può immaginare – e noi osiamo farlo – una società in cui il lavoro viene svolto solo per soddisfare i desideri e i bisogni della specie, non per il profitto; una società in cui a tutti è garantito il lavoro; e in cui ogni progresso nel campo della tecnica, o ciascun calo della domanda di lavoro in generale, non si traduce in disoccupazione ma in un accorciamento della giornata lavorativa e in un alleggerimento, non in un’intensificazione, del fardello lavorativo.

Ricordiamo ai nostri “amici democratici” al potere (anche se dubitiamo che lo leggeranno) la ridicolaggine di un modo di produzione che richiede che il lavoratore perisca se il capitale non lo tiene occupato. Questi signori lo sanno, ma non osano dirlo perché rappresentano gli interessi non dei lavoratori (cinesi o americani), ma della borghesia.

Più posti di lavoro “per gli americani”!

Dicono che importare prodotti della manifattura crea solo posti di lavoro all’estero. Quindi ridurre le importazioni comporterebbe meno posti di lavoro all’estero. Con questo adescamento di un capitalismo autarchico Joe Biden finge di difendere gli interessi immediati di una sezione nazionale del proletariato internazionale a spese di altre. In realtà il capitale è un tutto unico mondiale, come lo è la classe operaia.

Fatto sta che tutto il capitale mondiale è in crisi di sovrapproduzione, da cui può temporaneamente uscire solo con una guerra mondiale. E già, con questi adescamenti sui “posti di lavoro” inizia oggi a magnificare la sua preparazione. Le guerre commerciali preparano le guerre con le armi. Alle potenze imperialiste occorre una nuova spartizione del mondo, in una guerra che ucciderebbe miliardi di proletari, indipendentemente dalla loro nazionalità.

Tu operaio dell’industria, sarai messo a produrre armamenti, il tuo posto di lavoro diventerà un bersaglio militare, tu e i tuoi compagni diventerete “vittime collaterali”. Questo è il vero contenuto del discorso di Biden: tu e la tua famiglia sarete sacrificati sull’altare del profitto, e la bastarda borghesia mondiale non ricorderà nemmeno i vostri nomi.

No, non abbocchiamo alla sceneggiata di Biden. Come abbiamo scritto fin dal 1848 nel Manifesto del Partito Comunista, «i comunisti, nelle lotte dei proletari nelle varie nazioni, mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni dell’intero proletariato, indipendenti dalla nazionalità». Siamo un partito internazionale che rappresenta una classe internazionale, che ha destini storici internazionali.


PAGINA 2


In Kazakistan la classe operaia ha dimostrato cosa è capace di fare
E che farà

Le masse proletarie del Kazakistan si sono rese protagoniste di una coraggiosa rivolta, che ha scosso dalle fondamenta l’ordine borghese nel paese.

Anche se queste giornate si sono concluse in una carneficina.

Il vertice dell’apparato statale, incapace di fare fronte alla forza d’urto dispiegata dai lavoratori, per sedare la rivolta è dovuto ricorrere all’intervento straniero. Per ristabilire l’ordine è stata necessaria la mitraglia e una pioggia di piombo. A sparare senza requie sui proletari kazaki insorti sono state dapprima le forze armate della loro borghesia. Poi, quando queste non bastavano – a dimostrazione di quanto poco “nazionale” sia ogni esercito borghese – sono intervenute le truppe dei sei paesi dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) – Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan – che non hanno risparmiato munizioni per ristabilire col terrore la “normalità” dello sfruttamento capitalistico.

La borghesia, di fronte alla perdita del controllo su di un mondo che ha deformato a propria immagine e somiglianza, ha dimostrato di non avere altre risorse che il terrore e la menzogna per tenere soggiogati i lavoratori, messi con le spalle al muro dal peggioramento delle loro condizioni di vita. Per tenere in piedi l’edificio fatiscente dell’ignobile regime del capitale la borghesia assassina somministra menzogne incredibili a un pubblico già pasturato da decenni di rappresentazioni sempre più caricaturali e fantastiche del mondo reale.

Così i cortei di operai usciti dagli stabilimenti e le manifestazioni imponenti di proletari accorsi dalle periferie nel cuore di molte città del paese per prendere d’assalto i palazzi istituzionali, sono diventati “terroristi” per il presidente Qasym-Jomart Toqaev, che non ha esitato a dare l’ordine di sparare senza preavviso per uccidere chiunque osasse sfidare il divieto di manifestare e il coprifuoco imposto in tutto il paese dopo i primi giorni della rivolta.

Il mito del complotto, onnipresente in questi anni di agonia dell’ordine capitalista mondiale, è stato riproposto ignobile: per i governanti kazaki, per i loro compari russi e cinesi e per gli innumerevoli gruppi politici ispirati al decomposto stalinismo, la rivolta sarebbe stata ordita da potenze straniere e organizzata da terroristi provocatori giunti dall’estero e ben addestrati.

Terroristi provenienti dall’estero, armati di tutto punto e ben addestrati, sono arrivati davvero in Kazakistan, inquadrati nelle truppe regolari dei confinanti capitalismi. Non per sostenere la rivolta però, ma per soffocarla nel sangue. I 3.000 soldati russi, insieme con altre centinaia provenienti dai paesi del Csto, nel momento più acuto della rivolta hanno difeso le installazioni e i palazzi del potere, oltre che la sicurezza degli elementi più in vista del regime politico e della borghesia.

Vari elementi concorrono a togliere ogni credibilità alla tesi di una messinscena programmata da potenze straniere, o da gruppi organizzati kazaki ispirati da ideologie nazionaliste o islamiste, allo scopo di compiere un colpo di Stato. Numerosi video documentano una partecipazione molto ampia alle manifestazioni nei centri cittadini e imponenti cortei di operai che escono in massa dalle fabbriche e dagli impianti minerari, a dimostrare che la protesta è nata spontaneamente in un clima di genuina collera proletaria.

Lo conferma il contesto in cui la rivolta è maturata. Le sue motivazioni economiche sono evidenti, al di là della causa scatenante immediata, il raddoppio del prezzo del gas da trazione deciso dal governo il primo gennaio. Non a caso la protesta è scoppiata al culmine di una lunga stagione di lotte operaie, che hanno guadagnato ampiezza negli ultimi anni, nel solco di una tradizione di conflittualità sindacale ben radicata nel paese. Negli ultimi tempi il malcontento operaio è andato crescendo, nel 2021 il numero degli scioperi è stato superiore a quello del triennio precedente. In questo montare delle lotte operaie l’aumento del prezzo del gas ha esacerbato la diffusa preoccupazione per un andamento dell’inflazione che erode già significativamente il potere d’acquisto di salari, già molto bassi. In Kazakistan il salario minimo supera di poco i 100 dollari al mese, quello medio è poco più di 300.

A questo si aggiunge che, sebbene l’economia abbia conosciuto negli ultimi tre decenni una lunga fase quasi ininterrotta di sviluppo, dovuta essenzialmente all’industria estrattiva che sfrutta le risorse di un sottosuolo ricchissimo, ciò non ha migliorato in misura neanche lontanamente proporzionale i salari operai. I frutti dello sviluppo sono andati alla ristretta oligarchia dei signori della rendita mineraria, legati a doppio filo alle multinazionali del settore, perlopiù contigue allo stesso apparato statale.

Non stupisce dunque se la rivolta proletaria ha gettato nel panico le borghesie, locali e internazionali, preoccupate di vedere allontanarsi la ricca torta della rendita mineraria e terrorizzate da un proletariato fuori controllo, disposto a scendere sul terreno della lotta con i mezzi più radicali anche a prezzo dell’estremo sacrificio.

La scintilla della rivolta si è accesa nella provincia del Ma??ystau, nel sud-ovest del paese, affacciata sul Mar Caspio, subito all’annuncio dell’aumento del prezzo del gas, con i primi assembramenti già sabato 1 gennaio. La protesta si è sviluppata nella città di Zhanaozen, epicentro di una solida tradizione di lotte operaie. Già nel 2011 i lavoratori del giacimento petrolifero di Ozenmunaigas avevano portato avanti uno sciopero dichiarato illegale dalle autorità ma protrattosi comunque per più di sei mesi e conclusosi con l’eccidio di 16 operai.

I lavoratori della Ozenmunaigas anche questa volta sono stati fra i primi a dare vita alle proteste. Presto si sono aggiunti quelli dei campi petroliferi della North Buzachi, della Karazhanbas e di Kalamkas, e le città Aqtau, Atyrau, Akshukur. Il 4 gennaio la rivolta è dilagata in tutto il paese coinvolgendo Almaty, Nur-Sultan, Aqtobe, Uralsk, Qyzylorda, Shymkent, Kokshetau, Kostanai, Taldykorgan, Ekibastuz, Taraz e tante altre città.

Dopo i primi scontri con le forze di polizia le proteste hanno assunto un carattere insurrezionale soverchiando l’apparato repressivo dello Stato e costringendolo a ritirarsi. I rivoltosi il 5 gennaio assaltavano le sedi istituzionali ad Almaty e a Nur-Sultan, penetrando nei palazzi del potere e devastandoli. Nello stesso tempo in molte altre città venivano presi d’assalto i municipi.

Il presidente Toqaev mandava a casa il governo, accusandolo di incompetenza per avere improvvidamente raddoppiato il prezzo del gas, ne calmierava il prezzo, ma nel contempo definiva i manifestanti “bande di terroristi”.

Intanto i rivoltosi si impossessavano delle armi sequestrando soldati e poliziotti, e si incominciava a sparare con i primi morti in entrambi gli schieramenti.

Mentre le quotazioni internazionali delle materie prime subivano un sussulto, incominciavano le prime operazioni delle forze speciali russe che mettevano in salvo decine di membri della nomenclatura kazaka con le loro famiglie. I manifestanti occupavano l’aeroporto internazionale di Almaty, probabilmente nel tentativo di impedire che gli elementi più in vista della classe nemica si mettessero in salvo. L’arrivo delle truppe russe, che assumevano prontamente il controllo dello scalo aereo della più importante città del paese, giungeva allora salvifico per Toqaev e compari. Il terrore borghese prendeva rapidamente il sopravvento provocando, secondo le fonti ufficiali, 164 morti e procedendo anche nei giorni successivi ad arresti in massa fino alla cifra attuale di 12.000 incarcerati.

Il ristabilimento dell’ordine distopico del capitale ha ricevuto il plauso, esplicito o tacito, dei rappresentanti politici delle borghesie di ogni latitudine. L’aperto appoggio di Pechino al macellaio Toqaev equivale a quello implicito di Washington, pur nella stanca ripetizione del mantra ipocrita per il rispetto dei “diritti umani”. L’abbiamo vista il 10 gennaio ai colloqui fra Stati Uniti e Russia a Ginevra questa grande preoccupazione dei democratici di Washington per le sorti dei proletari kazaki massacrati, oppressi e perseguitati: il Kazakistan non è stato nominato mentre si parlava dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Intanto le quotazioni del gas, dopo una fiammata dovuta alla rivolta, per salutare lo scampato pericolo scendevano ai livelli precedenti.

Il tristo Toqaev, riprese le redini del paese, procedeva alla nomina di un nuovo governo, liquidava i responsabili della sicurezza e scaricava sul suo predecessore la responsabilità della situazione, accusandolo di avere favorito la creazione di “una classe di persone ricche anche per gli standard internazionali”. Ammette quello che tutti sanno, che gli elementi della vecchia nomenclatura “sovietica” hanno compiuto senza intoppi la metamorfosi da boiardi di Stato in oligarchi capitalisti, in perfetta continuità con la loro appartenenza alla classe dei borghesi.

Se la classe dominante ha bisogno di uno straccio per coprire le sue vergogne dopo il bagno di sangue, ecco che al fiume di menzogne si aggiunge un’audace opera di mistificazione, per cancellare agli occhi delle masse il reale significato di quanto è accaduto, facendo loro credere che il problema risieda tutto nella nequizia del corrotto ex presidente.

Ma il fuoco della lotta di classe non si spegne mai del tutto e tornerà a incendiare le città del Kazakistan. I proletari kazaki hanno fatto tutto quanto era nelle loro possibilità, dimostrando l’eroismo di cui è capace il proletariato quando scende in lotta, affrontando la violenza dell’apparato statale, sequestrando e disarmando poliziotti e soldati, armandosi, difendendosi e attaccando, bloccando fabbriche, miniere, arterie stradali e persino un aeroporto. Difficilmente potevano andare oltre, privi come sono del partito rivoluzionario alla loro guida, e della solidarietà del proletariato degli altri paesi, innanzitutto della classe operaia in Russia.

Il proletariato, ferito e battuto stavolta non dall’inganno ma dalla forza bruta, si solleverà inevitabilmente in una nuova rivolta e andrà verso la vittoria se saprà unirsi al di sopra di ogni frontiera nazionale, dotandosi del suo organo di lotta indispensabile: il Partito Comunista Internazionale.

Perché la spada della rivoluzione comunista, affilata dalla forza della storia, è più forte delle menzogne dei borghesi.

Nel girone del mercato mondiale

Sin dal momento dell’indipendenza, frutto della dissoluzione dell’Urss nel 1991, il Kazakistan ha intrapreso una rapida apertura verso il mercato internazionale. A favorire l’afflusso massiccio di capitali dall’estero le straordinarie ricchezze del sottosuolo e una certa disponibilità di forza lavoro a buon mercato, che hanno sviluppato un’imponente settore minerario. Sebbene il Kazakistan abbia un’enorme estensione e sia piuttosto spopolato, l’industria mineraria impiegando un numero relativamente limitato di lavoratori, nelle periferie cittadine si ammassa il pletorico esercito industriale di riserva, disoccupati costretti a vivere di espedienti e di traffici illeciti. Nelle grandi città una parte consistente dei manifestanti erano infatti giovani precari e disoccupati spesso di recente inurbamento.

Secondo le statistiche ufficiali, dal momento dell’indipendenza al dicembre del 2021 in Kazakistan sono affluiti 370 miliardi di dollari in investimenti diretti stranieri, principalmente nel settore del petrolio e del gas. Questa nuova collocazione del Kazakistan nel mercato mondiale ha creato le condizioni per un inserimento del paese nelle istituzioni economiche internazionali: il Kazakistan nel 2015 è entrato nel WTO e dal 2017 è membro associato dell’OCSE. Nello stesso anno ha adottato una “Strategia nazionale di investimenti“ in cooperazione con la Banca Mondiale per il quinquiennio 2018-2022 che prevedeva una crescita degli investimenti diretti dal 13,2% al 19% entro il 2022. Il progetto è stato almeno in parte accantonato in seguito alla pandemia.

Alcuni limiti alla proprietà straniera in alcuni settori chiave dell’economia sussistono tuttora, ma nel corso del 2020, in conseguenza dell’appartenenza al WTO, è stato rimosso ogni limite agli investimenti nel settore bancario e assicurativo.

Nei tre decenni di indipendenza la crescita economica ha fatto del Kazakistan di gran lunga la prima economia dell’Asia centrale. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale nel 2021 il prodotto interno lordo pro-capite è stato di 10.144 dollari, poco più della metà di quello della Grecia ma più alto di quello del vicino Turkmenistan (8.843), altro paese che dispone di notevoli risorse naturali, ed è notevolmente superiore a quello dei confinanti Uzbekistan (1.901) e Kirghizistan (1.224).

La cricca borghese al potere ha accumulato ricchezze frutto di decenni di baratterie al servizio della borghesia internazionale. In particolare l’ex presidente Nursultan Nazarbayev, che ha guadato la metamorfosi da repubblica sovietica a Stato indipendente e da primo segretario del Partito “Comunista” in “padre della patria” kazaka. La famiglia Nazarbayev controllerebbe un patrimonio immobiliare di 400 milioni di euro nella sola Londra, due terzi di quello dell’intera oligarchia kazaka nel Regno Unito.

Si tratta delle tangenti provenienti da una politica trentennale che ha fatto del Kazakistan uno snodo fondamentale dei traffici mercantili e un magnete che attrae capitali dalle più svariate provenienze. Gli scambi commerciali con la Cina, con cui il paese centro-asiatico condivide 1.770 chilometri di confine, nel 2011 hanno raggiunto 22,94 miliardi di dollari. Il Kazakistan è per l’industria cinese un’importante fonte di materie prime, da cui Pechino importa il 29% del fabbisogno di gas naturale, oltre ad ingenti quantitativi di petrolio e rame. Il Kazakistan è anche una tappa obbligata per le merci esportate via terra, non a caso nel 2013 Xi Jinping espose per la prima volta il progetto della Belt and Road Initiative nella capitale kazaka Astana (oggi chiamata Nursultan in onore dell’ex presidente). In Kazakistan passano due direttrici della Nuova via della seta: la New Eurasian Landbridge, che attraverso la Russia approda in Europa centrale, e il China Central-Asia West-Asia Economic Corridor, diretto al Medio Oriente e al Mediterraneo. Già ogni anno 15.000 treni carichi di merci cinesi transitano sul territorio kazako diretti a occidente.

Alcuni hanno ipotizzato che una delle cause che hanno spinto il governo ad aumentare il prezzo del gas siano gli alti consumi energetici richiesti per il “mining” delle criptovalute, delle quali in Kazakistan se ne produce il 18% del totale mondiale. Anche in questo caso c’entrano i rapporti con il potente vicino: la decisione del governo cinese di sopprimere il calcolo delle criptovalute sul proprio territorio nazionale.

Altro aspetto essenziale dell’apertura internazionale dell’economia del Kazakistan è la presenza delle multinazionali occidentali concentrate nel settore minerario. Oltre al gas il paese produce un 1,7 milioni di barili di petrolio al giorno (più o meno quanto l’Algeria). È anche il primo produttore al mondo di minerale d’uranio contribuendo al 42% della produzione globale. Fra le multinazionali impegnate nello sfruttamento del sottosuolo kazako, nuova Mecca del capitale internazionale, si annoverano la Shell, la Total, la Exxon, la Conoco Phillips, la Chevron, l’australiana Inpex, la russa Lukoil, la cinese Cnpc e tante altre fra cui anche l’italiana Eni. Attiva nel paese dal 1992, la multinazionale italiana estrae ogni anno 40 milioni di barili di greggio e 2,9 miliardi di metri cubi di gas nei due giacimenti di Kashagan, sul Caspio, e di Karachaganak nel Nord-Ovest, nei pressi del confine con la Russia. L’Italia fa ottimi affari col Kazakistan di cui è il primo partner commerciale europeo; l’export italiano verso il paese centro-asiatico aveva superato il miliardo di euro nel 2018 e nel 2019, per regredire nel 2020 a causa della pandemia.

Le relazioni del Kazakistan con le maggiori potenze economiche e militari del pianeta lo trascinano nell’occhio del ciclone dei contrasti interimperialistici.

Tuttavia l’intervento armato della Russia e satelliti per sedare la ribellione dei proletari kazaki non ha suscitato alcuno “sdegno” degli Stati Uniti e della Nato, che invece nel caso dell’Ucraina starnazzano anche al solo avvicinarsi alla frontiera delle truppe di Mosca. L’urgenza di tutta la borghesia internazionale era innanzitutto sedare la rivolta: prima viene il tempo dei massacri di proletari, per assicurare il regime dello sfruttamento, dopo viene la lotta fra briganti imperialisti per impadronirsi di quote di plusvalore.

 

 

 

 

 


Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale


L’ipocrita “unità dall’alto” del sindacalismo di base

La primavera dell’unità d’azione “dall’alto” del sindacalismo di base è stata breve, mostrando la corda già prima dello sciopero generale unitario dell’11 ottobre scorso e ancor più successivamente.

È quanto – dai primi suoi passi con lo sciopero unitario nella logistica del 18 giugno – avevamo previsto sulla base della esperienza della condotta in campo sindacale del politicantismo di partiti e gruppetti opportunisti.

Per unità “dall’alto” intendiamo quella promossa dalle dirigenze dei sindacati di base per fini estranei alla difesa esclusiva degli interessi immediati dei lavoratori, iscritti e non iscritti.

Nei volantini per gli scioperi del 18 giugno e dell’11 ottobre scrivevamo che una reale, completa e duratura unità d’azione del sindacalismo di base e conflittuale – base pratica di un fronte unico sindacale di classe che conduca alla rinascita di un grande sindacato di classe fuori e contro i sindacati di regime – sarà possibile solo “dal basso”, organizzandosi gli iscritti, i delegati, i militanti sindacali a lottare per questo scopo contro le dirigenze opportuniste. Un primo tentativo di organizzazione in tal senso è il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati per l’Unità della Classe (CLA), costituito da militanti sindacali di diversi sindacati di base e della opposizione in Cgil.

Dopo l’11 ottobre, quasi tutte le dirigenze sindacali che avevano promosso quello sciopero si sono riunite in un’assemblea a Roma il 24 ottobre e hanno licenziato una mozione finale in cui affermavano che «l’assemblea ha espresso la volontà unanime di dare continuità al percorso unitario [...] attivando una forma stabile di consultazione tra tutte le organizzazioni del sindacalismo di base, che sarà definita in seguito in modo più dettagliato».

Quanto valgano i proclami dell’opportunismo lo conferma, oltre che – per quanto ci risulta – la “forma stabile di consultazione tra tutte le organizzazioni del sindacalismo di base” è rimasta sulla carta, il fatto che la condotta reale, quotidiana, di questi sindacati è rimasta la stessa, cioè “ciascun per sé” e “tutti contro tutti”.

Infatti, dopo l’assemblea del 24 ottobre – che, fatto certo non trascurabile, ha sancito il defilarsi della dirigenza del SI Cobas – è seguita una sola azione unitaria: la giornata nazionale di manifestazioni locali contro il governo di sabato 5 dicembre.

Ma questa giornata è stata caratterizzata in senso più politico che sindacale, col comunicato di convocazione che appariva un documento della cosiddetta sinistra radicale, borghese, tant’è che invocava la «costruzione di un vasto movimento popolare» e la partecipazione di «tutti i movimenti e le realtà sociali e politiche», in luogo della ricostruzione del movimento operaio.

La quotidiana attività sindacale è rimasta la stessa di sempre, in barba a ogni forma di consultazione fra le organizzazioni.

Per le elezioni Rsu nel pubblico impiego, che si terranno a inizio aprile, non vi è stata nessuna intesa per unire le forze del sindacalismo di base e provare a raggiungere la soglia della cosiddetta rappresentatività (il 5% della media fra voti e iscritti). Addirittura nel comparto delle Funzioni Locali, la dirigenza Usb ha preferito stringere un’alleanza con un sindacato autonomo, d’ispirazione corporativa, decisione imposta dall’alto senza nemmeno consultare i coordinamenti provinciali, che ha suscitato malumori nella base dei delegati.

Sempre l’Usb per il 28 gennaio ha proclamato uno sciopero nazionale dei lavoratori della sanità pubblica, anche qui senza alcuna consultazione con gli altri sindacati di base presenti nella categoria. Lo sciopero era stato deciso da un sindacato autonomo, il Nursind, già il 24 dicembre. L’Usb a metà gennaio ha deciso di convergere su quella data. Scelta corretta, perché è preferibile rafforzare uno sciopero, anche se promosso da sindacati collaborazionisti, cercando di far circolare le corrette rivendicazioni di classe fra i lavoratori mobilitati invece che proclamarne uno in altra data, dividendo e indebolendo l’azione di lotta. Ma ciò avrebbe avuto un esito superiore agendo unitariamente col resto del sindacalismo di base.

Infine, un altro esempio d’azione ciascuno per sé delle dirigenze del sindacalismo di base, è stato la giornata di scioperi fra i riders (ciclo-fattorini) indetta per sabato 22 gennaio dal SI Cobas, anche in questo caso in piena solitudine, il che equivale a dire in concorrenza con le altre sigle sindacali di base.

A ben vedere vi è stato un altro piccolo atto unitario del sindacalismo di base dopo i proclami del 24 ottobre, con la pubblicazione il 4 febbraio di un comunicato a sostegno delle manifestazioni studentesche seguite alla morte del diciottenne Lorenzo Parelli, in un incidente mentre prestava lavoro gratuito in una fabbrica metalmeccanica di Udine, in virtù della cosiddetta alternanza scuola-lavoro, fatto di cui trattiamo in altro articolo su questo numero. E prevediamo che, come negli anni passati, a breve termine ve ne sarà un’altra occasione per la partecipazione alla giornata internazionale della donna dell’8 marzo.

Ma queste azioni unitarie non devono ingannare, non contraddicono quanto andiamo affermando, sono un’altra manifestazione dell’opportunismo e dell’ipocrisia di queste dirigenze. Sono caratterizzate da un fattore comune: non si tratta di azioni prettamente sindacali bensì o a sostegno di movimenti interclassisti – come quello studentesco e quello della giornata dell’8 marzo, che non ha più il suo carattere originario proletario – o a carattere politico-partitico, com’è stata la giornata del 5 dicembre.

In queste occasioni le dirigenze opportuniste del sindacalismo di base convergono in azioni comuni perché tutte ambiscono a rimestare in movimenti in cui sperano di raccogliere forze dall’esterno del movimento di lotta della classe lavoratrice.

Quando invece si tratta di condurre un’azione sindacale, allora alzano i muri, timorose che i propri iscritti scoprano l’esistenza di altri sindacati che si proclamano combattivi, magari li trovino migliori, o magari pensino che bisognerebbe unire azione e organizzazioni, il che rappresenterebbe un eminente pericolo per la loro permanenza alla direzione del loro sindacato.

Sotto questo aspetto possiamo così riassumere l’azione delle dirigenze sindacali opportuniste: convergenza in movimenti interclassisti deviando le organizzazioni sindacali dai loro compiti naturali verso obiettivi riformistici – irriducibile divisione nella lotta sindacale.


Non sarà lottando per le nazionalizzazioni o contro le delocalizzazioni che si unifica la classe operaia

La lotta degli operai della ex GKN di Campi Bisenzio contro i licenziamenti – iniziata il 9 luglio dell’anno passato – ha richiamato a sé la solidarietà, le attenzioni e le preoccupazioni di tutto il campo, composito e frammentato, del sindacalismo conflittuale, dalle aree di opposizione interne alla Cgil ai sindacati di base.

Questo risultato positivo è stato frutto della combattività e della compattezza dei lavoratori di questa fabbrica e dei loro delegati (6 su 7 della Rsu appartengono alla opposizione interna alla Fiom Cgil) in un percorso che viene da lontano.

Dal primo giorno della vertenza gli operai hanno occupato lo stabilimento che è rimasto nelle loro mani ogni giorno a seguire sino ad oggi.

Ciò però non ha significato la chiusura di questa lotta entro le mura della fabbrica. Al contrario il collettivo ha ribadito – a ogni passo della vertenza – che “non ci si salva da soli”, esprimendo in tal modo la necessità di unire le lotte dei lavoratori, non solo quelle contro i licenziamenti, superando i falsi confini fra aziende, territori, categorie.

Questa non è stata solo l’affermazione di un fondamentale principio proletario bensì è stata messa in pratica partecipando a decine di manifestazioni, presidi e assemblee, a prescindere dall’organizzazione sindacale che li promuoveva. La singola vertenza aziendale GKN è divenuta una occasione e motivo per la costruzione dell’unità di lotta dei lavoratori.

Da settembre il Collettivo GKN ha invocato uno sciopero generale, rivolgendosi al sindacato a cui quei lavoratori sono iscritti, la Cgil. Ma ciò non li ha portati a ignorare lo sciopero generale unitario promosso dal sindacalismo di base per l’11 ottobre, al cui corteo fiorentino gli operai della GKN hanno partecipato in gran numero, rafforzandolo e contribuendo a conferirgli un carattere di classe.

La necessità di unire le lotte operaie è stata ribadita all’assemblea nazionale svoltasi in fabbrica sabato 21 novembre, in cui, alla presenza di lavoratori e delegati di diverse aziende, è stata dichiarata la volontà di tessere una rete di gruppi di lavoratori e delegati per rafforzare il movimento e giungere a un vero sciopero generale.

Anche dopo che a gennaio è stato raggiunto un accordo, approvato dagli operai, col passaggio della fabbrica a una nuova proprietà, il Collettivo dell’ormai ex GKN ha stabilito un nuovo programma di assemblee in giro per l’Italia e una manifestazione nazionale per sabato 26 marzo.

Far convergere le lotte dei lavoratori nel tempo e nello spazio, in un giorno di sciopero e in manifestazioni comuni, è un primo passo verso una loro completa unificazione, che dà ai lavoratori il senso del loro numero e della loro forza. Un concetto elementare, fisico, quanto costantemente evitato e temuto dal sindacalismo di regime e dalla borghesia.

Questo primo passo però resta estemporaneo, contingente, insufficiente se ciascuna vertenza sèguita a essere incentrata sui suoi specifici obiettivi e non si compie un secondo passo in avanti, saldando ogni singola lotta alle altre con superiori rivendicazioni comuni.

Il Collettivo GKN ha mosso il primo passo nel modo esemplare e sicuro fin qui descritto ma nel compiere il secondo, il piede l’ha messo in fallo, poggiandolo nel terreno paludoso dell’opportunismo. L’obiettivo impugnato per unificare le lotte operaie è stato quello di una legge contro le delocalizzazioni, cui poi è aggiunta la rivendicazione delle nazionalizzazioni e, come da documento finale dell’assemblea dei 21 novembre, un piano nazionale per la mobilità sostenibile. Tutti e tre questi punti sono legati a una logica intrinsecamente riformista: ci si illude di poter determinare – o quantomeno influenzare – il corso del capitalismo, perseguendo una “diversa politica economica del paese”.

Nel turbine del sistema capitalistico – che irreversibilmente e sempre più è un inestricabile intreccio di interessi internazionali – si crede possibile determinare la rotta della barchetta del capitalismo nazionale in mezzo alla tempesta.

Non è soltanto un’illusione, è anche un’idea dannosa perché foriera di pessimi insegnamenti. Da un lato si persevera a rinchiudere i proletari nell’angusto e fittizio orizzonte nazionale. Dall’altro si puntella il pregiudizio dell’ideologia dominante di poter confidare nell’opera dello Stato borghese, quand’esso è invece il principale bastione nemico da abbattere, la macchina del dominio padronale.

Si può credere davvero di poter regolare il movimento internazionale dei capitali impedendo che si spostino da un capo all’altro del mondo? Crederlo per gli operai è una pericolosa ingenuità sulla quale gioca la demagogia politica borghese. Per la vertenza Embraco – finita in queste settimane come tutti sanno – a suo tempo fu l’attuale ministro degli esteri, allora ministro del lavoro, a ricorrervi.

Quando non si trattasse di demagogia, porre dei freni alle delocalizzazioni – come proponeva la proposta di legge promossa dal Collettivo GKN – avrebbe il risultato di allontanare gli investimenti diretti dall’estero. In tutti i paesi i regimi borghesi si prodigano in senso diametralmente opposto, stendendo tappeti rossi agli investimenti, perseguendo la riduzione del costo del lavoro, proponendo migliori condizioni fiscali, ad esempio con la costituzione delle cosiddette zone economiche speciali.

Questo non è nent’altro che l’effetto della concorrenza internazionale, che si inasprisce con l’avanzare della crisi economica del capitalismo. Un processo che determina le politiche economiche dei capitalismi nazionali di tutto il mondo, che in ultima istanza non beneficiano di alcun libero arbitrio.

Occorrerebbe poi smettere di puntare il dito contro le multinazionali invece che contro il capitalismo nel suo insieme, come se questo potesse esistere senza quelle. Lo stesso valga per i fondi speculativi, contrapponendo in modo del tutto fittizio il capitalismo industriale a quello finanziario. Anche in questo modo si presta il fianco alle operazioni demagogiche che per assolvere il capitalismo nel suo insieme indicano di colpire sue presunte storture e, con esse, frazioni della classe dominante e dei regimi nazionali borghesi. Vecchi quanto efficaci arnesi ideologici, che tornano in voga, dalle plutocrazie di Mussolini al turbocapitalismo dei guitti odierni.

A delocalizzare non sono certo solo le aziende dei capitalisti stranieri, né solo i fondi speculativi, né solo le multinazionali, ma anche gli imprenditori italiani, da decenni. E le aziende estere che investono in Italia non operano una delocalizzazione in favore del “nostro Paese”?

A una parte dei sostenitori, nel campo operaio, delle rivendicazioni quali quelle impugnate dal Collettivo operaio della GKN le considerazioni sin qui fatte sono ben note, ma, in modo apparentemente paradossale, è in virtù di esse che si ritiene corretto avanzarle. Ciò è in ragione del cosiddetto “metodo transitorio”, proprio del trozkismo: si chiamino i lavoratori a lottare per “obiettivi politici transitori” – nazionalizzazioni, difesa dell’industria nazionale – che il regime borghese non è in grado di perseguire fino in fondo: i lavoratori ne dedurranno che per realizzarli è necessario il suo abbattimento rivoluzionario.

Obiettivi che invece non sono di transizione verso il socialismo né che la borghesia non può realizzare.

Per noi, Sinistra comunista, questa strada è portatrice di nefaste conseguenze: invece di avvicinare la classe operaia alla rivoluzione la spinge verso la soluzione reazionaria alla crisi economica del capitale veicolando al suo interno le ideologie e le soluzioni dei partiti borghesi.

In preparazione della guerra imperialista, che è l’unica via di uscita dalla crisi economica, una politica fondata sul protezionismo e in generale sull’interventismo statale in economia – anche attraverso le nazionalizzazioni – è necessaria alla borghesia. Il decennio di preparazione al secondo conflitto mondiale lo mostra in modo chiaro: tale fu il segno delle politiche economiche tanto dei regimi nazi-fascisti quanto di quelli democratici, fittiziamente contrapposti.

Arriverà la Meloni di turno a difendere l’industria patria dalle multinazionali nazionalizzando, espropriando gli stabilimenti della multinazionale simbolo del capitalismo “senza etica”.

Se si indica e si invoca la difesa della condizione proletaria attraverso una “diversa politica economica” nel quadro del presente regime economico e politico capitalista, il risultato sarà convincere i lavoratori del pregiudizio borghese secondo cui sia giusto, necessario e naturale lottare per affermare il proprio paese nell’arena del capitalismo internazionale, obiettivo per il quale occorrerà, a un certo punto, scendere nella guerra imperialista.

La difesa delle condizioni di vita della classe lavoratrice deve essere condotta lottando in modo ben visibile per i suoi obiettivi elementari – il salario, la durata e l’intensità della giornata e della vita lavorativa – non per una via mediata dall’obiettivo di una diversa politica economica del capitale che, si lascia intendere, renderebbe migliore la condizione dei lavoratori.

Salario, orario, salario ai disoccupati, ecc. sono obiettivi, oltre che necessari e imprescindibili, che accomunano tutti i lavoratori e che scavano di per sé un solco insormontabile con tutti i partiti borghesi. Sono di per sé, conseguentemente rivendicati e imposti, politici e rivoluzionari. Non offrono nessun terreno comune o contiguo alle ideologie reazionarie, quali, per esempio, quella della sovranità nazionale. Mentre la lotta contro le delocalizzazioni e per le nazionalizzazioni si chiude in un ambito nazionale, quella per il salario e la riduzione dell’orario non offre alcun ostacolo alla sua estensione e unificazione al di sopra dei confini, anzi la richiama in modo naturale nella sua estensione. Sono obiettivi che accomunano i lavoratori di tutto il mondo.

 


Il primo sciopero del Coordinamento Macchinisti Cargo

Nel panorama generale di divisione del movimento sindacale ad opera delle dirigenze del sindacalismo di base un elemento positivo è venuto dal primo sciopero nazionale – di 8 ore – promosso dal Coordinamento Macchinisti Cargo (Cmc), venerdì 11 febbraio.

Il Cmc è un coordinamento di macchinisti di Mercitalia Rial (MIR), azienda nata dallo scorporo della divisione Cargo da Trenitalia nel 2017, con 1.800 dipendenti. Questi macchinisti – chiamati fra i ferrovieri “cimici” – si sono organizzati a prescindere dall’appartenenza sindacale, senza però rigettare l’eventuale appoggio ricevuto dai sindacati, che hanno anzi ricercato fra i sindacati di base.

Hanno organizzato diverse assemblee, l’ultima delle quali – la nona – il 26 gennaio, preparatoria dello sciopero. Ad essa hanno partecipato e sono intervenuti due membri del Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati (Cla). Un macchinista del Cmc aveva alcuni mesi fa partecipato a una assemblea di questo organismo nato per unire l’azione del sindacalismo conflittuale e dei lavoratori.

Le rivendicazioni dello sciopero organizzato dal Cmc sono tutte sindacali, corrette, scaturite dagli incontri fra lavoratori:
     - riduzione dell’orario di lavoro dalle attuali 11 ore diurne e 9 notturne;
     - no all’equipaggio MEC 3, cioè con un solo uomo in locomotiva;
     - no al termine servizio fino a 3 ore oltre l’orario in caso di ritardo del treno;
     - no ai riposi fuori residenza diurni (RFR);
     - no alla reperibilità (disponibilità);
     - no al sistema del vigilante, anche detto “uomo morto”;
     - maggiore sicurezza negli scali secondo le indicazioni dei lavoratori.

Lo sciopero ha trovato, nel sindacalismo di base l’appoggio della Cub e del Sgb, ma non dell’Usb né del Cat. Cub e Sgb hanno proclamato anch’essi uno sciopero nella stessa data per tutti i dipendenti di Mercitalia.

Anche le strutture regionali di Abruzzo, Umbria e Marche dell’Orsa hanno proclamato lo sciopero nella stessa giornata. I sindacati di regime e autonomi – Cgil Cisl Uil e Fast – e l’Orsa Emilia Romagna hanno aperto la cosiddetta procedura di raffreddamento per un altro sciopero, il che è apparso come una manovra per indebolire lo sciopero.

L’azione intrapresa dal Cmc sembra quindi aver smosso le acque, costringendo diverse strutture sindacali a reagire, o a favore o contro.

Il comunicato di sabato 12 febbraio del Coordinamento Macchinisti Cargo ha riportato che lo sciopero ha avuto “una buona partecipazione, soprattutto tra i giovani e i neoassunti”, ha indicato la convocazione di una decima assemblea e la preparazione di un nuovo sciopero, questa volta di 24 ore. Una delle limitazioni imposte dalla legge antisciopero introdotta nel 1990 (legge 146) prevede infatti che il primo sciopero nell’anno proclamato da un sindacato non possa superare la durata di 8 ore.

La legge antisciopero del 1990 fu introdotta per contrastare gli scioperi promossi dal sindacalismo di base in vari settori in cui, in quegli anni, era in crescita, in particolare fra i macchinisti. La legge fu invocata dai sindacati di regime, sicuri che avrebbe indebolito il sindacalismo di base, che li stava scalzando.

Negli anni la legge è stata modificata in senso restrittivo. A ciò si è assommata l’azione della Commissione di Garanzia sullo Sciopero, istituita per la sua applicazione, che con vari strumenti ha reso la norma più efficacie nell’ostacolare l’azione del sindacalismo conflittuale. Ultimo atto è stata la delibera emessa due giorni prima dello sciopero, il 9 febbraio, relativa alle “modalità di partecipazione allo sciopero generale delle categorie che prestano servizi pubblici essenziali” volta a limitare ulteriormente la libertà di sciopero nei trasporti.


Negli USA i macchinisti dei treni merci contro la repressione statale e le dirigenze dei sindacati di regime

Nella parte degli Stati Uniti dall’asse che collega i Grandi Laghi a New Orleans fino alla costa occidentale, il traffico merci su rotaia è dominato dalla BNSF, la maggior compagnia ferroviaria del paese. Il “segreto” di questo successo – come spesso accade – è l’elevato grado di sfruttamento dei lavoratori.

Ad esempio i macchinisti BNSF – ma è la norma in tutto il settore – non hanno giorni di riposo assegnati e debbono essere disponili 24 ore su 24 e 7 giorni su 7.

Tuttavia i dirigenti, ancora insoddisfatti di questo sfruttamento, recentemente hanno annunciato una nuova politica aziendale volta a ridurre le assenze attraverso punizioni e un meccanismo di acquisizione o perdita di crediti di buona condotta.

Naturalmente BNSF giustifica la misura con la crescente competitività del settore e tutti sanno che nella CSX, la compagnia ferroviaria che gestisce il traffico merci nella parte orientale degli USA, vige un regime del lavoro ancora più opprimente.

I sindacati presenti in BNSF – Smart-Td e Blet – riscontrata nelle trattative l’intransigenza aziendale hanno proclamato lo sciopero per i 17.000 macchinisti. Come prevedibile, la BNSF si è allora rivolta alle istituzioni dello Stato borghese che – nella veste del giudice federale – è venuto in soccorso alla compagnia dichiarando lo sciopero illegale, preoccupato di non aggravare la già precaria condizione in cui versano le catene di approvvigionamento delle merci, la ormai nota supply chain.

Per il regime borghese negli USA da un secolo le ferrovie sono un ingranaggio vitale del commercio interno. Con il Railway Labour Act del 1926 ha incatenato i macchinisti nelle cabine di guida. Lo sciopero deve essere preceduto da una lunga serie di trattative, arbitrati e periodi di attesa volti a smorzare la rabbia e le energie dei lavoratori. Se il sindacato viola la legge lo Stato può requisirne i fondi e persino sciogliere l’organizzazione.

Per altro la dirigenza della Blet (Brotherhood of Locomotive Engineers and Trainmen – Fratellanza dei macchinisti e dei ferrovieri) è andata oltre, raccomandando ai ferrovieri di disciplinarsi all’ordinanza della Corte. Leggiamo da un messaggio inviato agli iscritti: «Il Comitato Direttivo del sindacato sta istruendo tutti i suoi membri a non impegnarsi in nessun atto contro l’azienda: gli iscritti non devono impegnarsi in scioperi, interruzioni del lavoro, picchetti, rallentamenti, assenze per malattia o qualsiasi altra attività intesa a interrompere le operazioni ferroviarie in risposta alla politica sulla presenza denominata Hi Viz... qualsiasi iscritto che continui a incoraggiare altri dipendenti sui social media, o in qualsiasi altro forum, a impegnarsi in uno sciopero, in interruzioni del lavoro, in picchetti, rallentamenti, assenze per malattia, o qualsiasi altra attività intesa a interrompere le operazioni ferroviarie deve immediatamente smettere di farlo. Gli iscritti che continuano a farlo rischiano multe, sospensioni o altre sanzioni da parte del sindacato».

È quindi comprensibile come per molti lavoratori combattivi le difficoltà poste alla lotta dall’oppressione del regime borghese non giustifichino l’azione delle dirigenze sindacali. Questi dirigenti – buoni cittadini e fedeli servitori del capitale – si trovano a loro agio solo a scrivere mozioni di lamentela. Scelgono di rappresentare le tendenze più docili e gli interessi più ristretti tra le masse lavoratrici invece di dare voce agli elementi più combattivi, unendo la classe lavoratrice intorno ai suoi interessi più universali.

A sostegno di un’azione di sciopero dei macchinisti e dei ferrovieri della BNSF si è invece schierato il Coordinamento nazionale di base Railroad Workers United (RWU, Lavoratori Ferroviari Uniti) che ha sottolineato diversi fattori che oggi favorirebbero la riuscita di uno sciopero, fra cui:
     - la difficoltà a trovare personale per diverse mansioni nel settore, problema generale che si sta manifestando negli Stati Uniti, ma non solo, a seguito della pandemia;
     - le difficoltà delle catene di approvvigionamento, che renderebbero gli effetti di uno sciopero ancora più incisivi;
     - gli alti profitti realizzati dalle imprese del settore nell’ultimo periodo.
     Il nostro partito considera corrette queste valutazioni del RWU e aggiunge le seguenti:
     - l’abolizione delle leggi che limitano la libertà di sciopero deve essere una rivendicazione presente in ogni sciopero;
     - per rafforzare il loro sciopero e proteggerlo dalla repressione del regime borghese i ferrovieri della BNSF dovrebbero costruire lo sciopero insieme ai portuali che, nella costa occidentale degli Stati Uniti, hanno anch’essi annunciato tramite il sindacato di essere pronti a scendere in lotta e cercando di coinvolgere gli altri lavoratori della catena logistica, quali camionisti, facchini dei magazzini logistici, postali;
     - ferrovieri, portuali, camionisti, facchini, postali: i lavoratori di queste categorie, per quanto possano essere combattivi, se scendono in sciopero isolati possono essere schiacciati dalla repressione padronale e statale; uniti invece hanno una forza che può essere in grado di spezzare la repressione borghese.


Ai lavoratori venezuelani
Per l’unità d’azione per un aumento generale dei salari e delle pensioni

Il governo borghese venezuelano, che si autoproclama “operaio”, ha fatto tutto il possibile per proteggere i profitti degli industriali e l’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro, finalizzata all’estrazione del plusvalore.

Tutte le confederazione e federazioni sindacali, senza eccezione alcuna, sono allineate con la borghesia e col suo governo al fine di mantenere i lavoratori smobilitati, passivi, divisi e dispersi.

Sono poche le eccezioni di sindacati, dirigenti o movimenti che promuovono la mobilitazione unitaria dei lavoratori, senza mescolarla e subordinarla alle lotte politiche borghesi parlamentari.

Ogni esplosione di protesta e malcontento operaio è repressa e i capi sono perseguitati e incarcerati. Ma oltre a ciò, il malcontento dei lavoratori viene deviato e canalizzato verso le presunte soluzioni elettorali, promuovendo l’illusione che le elezioni di governatori, sindaci, parlamentari, financo del nuovo presidente, portino con sé una soluzione all’opprimente peso della crisi che affonda i lavoratori nella miseria.

La politica del governo capitalista venezuelano è chiara:
     - paghe da fame cui si sommano buoni d’ogni tipo ma che sono molto lontani dal compensare i magri salari e che servono solo per far risparmiare denaro agli imprenditori e al governo. Lo stesso accade per le pensioni e per gli assegni sociali.
     - Mancato adempimento alle clausole socio-economiche dei vari contratti collettivi, il cui ristoro per i lavoratori sarebbe, per altro, ormai annullato dall’inflazione.
     - Aumento della insalubrità e della insicurezza nei posti di lavoro, ad esempio per carenza dei dispositivi e delle sostanze di protezione individuale, a cominciare dalla elementare somministrazione di sapone, gel disinfettante e mascherine; con la conseguenza di malattie, mutilazioni e morti.
     - Sostegno al padronato nell’imposizione di giornate lavorative più lunghe e più intense, in processi lavorativi in cui non si rispetta il distanziamento sociale.
     - Repressione delle lotte dei lavoratori. Utilizzo della prevenzione dal Covid-19 per proibire riunioni e concentrazioni operaie.

Questi attacchi alle condizioni di vita dei lavoratori richiederanno l’organizzazione di una adeguata lotta sindacale per sconfiggere la politica anti-operaia del governo e conquistare le principali rivendicazioni immediate.

È evidente che l’azione minima di lotta cui si dovrebbe ricorrere è lo sciopero generale, che non dovrebbe però ridursi a uno show mediatico, a una passeggiata, bensì dovrebbe comportare un reale blocco della produzione e della circolazione delle merci. E dovrebbe durare più di un giorno, con la partecipazione dei lavoratori di tutte le categorie, senza distinzione di nazionalità e coinvolgendo i lavoratori pensionati e i disoccupati.

Lo sciopero generale deve unire tutti i lavoratori esigendo:
     - forti aumenti salariali, maggiori per le categorie e qualifiche peggio pagate, il cui ammontare dev’essere sufficiente a coprire le spese per l’alimentazione e la salute, senza bisogno di buoni; dev’essere chiaro che pensioni e assegni sociali devono avere un ammontare pari al salario pieno; i vari buoni – lavorativi e sociali – devono essere convertiti in parti del salario e quindi pagati anche durante le ferie e inclusi nel calcolo dei contributi per le prestazioni sociali;
     - riduzione della giornata di lavoro a parità di salario, invocando e perseguendo l’unità coi lavoratori degli altri paesi nella lotta per questo vitale obiettivo;
     - salario pieno ai lavoratori licenziati e disoccupati, pagato dallo Stato borghese;
     - liberazione dei lavoratori arrestati e perseguitati per la loro attività sindacale.

Chi chiama i lavoratori a lottare per la indicizzazione dei salari, la scala mobile, confonde e distrae i lavoratori da quello che deve essere l’asse della mobilitazione operaia: l’esigenza di un aumento generale dei salari. I lavoratori devono difendere il salario dagli effetti dell’inflazione con lo sciopero e la mobilitazione. Così pure, chi chiama i lavoratori a lottare per ottenere nuovi buoni, o l’aumento di quelli esistenti, offre un servizio al padronato.

Le confederazioni e le federazioni sindacali attuali non vogliono e non possono organizzare la lotta operaia perché sono legate mani e piedi al governo e alle imprese. Sia che tengano rapporti con i partiti filo-governativi, sia di opposizione, non sono disposti a promuovere azioni che minaccino la continuità operativa delle aziende, l’accumulazione dei profitti derivante dalla produzione e dalla circolazione delle merci. Le confederazioni e le federazioni sindacali attuali non muoveranno un dito per organizzare e convocare uno sciopero generale.

In questa situazione di grande difficoltà per la classe operaia – che non può contare su una propria organizzazione di lotta sindacale – sono i gruppi, le correnti, le organizzazioni e i movimenti di base dei lavoratori, che rivendicano la lotta di classe e il sindacalismo combattivo, possono e devono farsi carico del compito di organizzare i lavoratori per la lotta e unire le loro forze dispiegando uno sciopero generale.

Il silenzio e la paralisi mantenuti dai sindacati di regime devono essere rotti dal sindacalismo combattivo che deve unirsi in ogni lotta e azione di protesta, concentrandovi l’agitazione per lo sciopero generale. I militanti del sindacalismo combattivo debbono unirsi al di sopra delle divisioni fra sigle e organismi sindacali perché alla base del movimento sindacale vi sono lavoratori disposti a lottare che hanno bisogno di una organizzazione che li mobiliti, senza distinzione fra sindacati, categorie, nazionalità, ecc. In questa ricerca dell’unità d’azione dei lavoratori nella lotta sindacale devono unirsi e impegnarsi le forze di tutti i militanti sindacali combattivi, anche quelli che ancora sono organizzati all’interno dei sindacati di regime.

L’unità d’azione del sindacalismo combattivo è fondamentale per spezzare il controllo dei sindacati di regime sulla classe lavoratrice e poter così vincere le battaglie nella lotta rivendicativa contro i padroni e il governo.

In ogni posto di lavoro devono essere costituiti comitati di lotta, con o senza la partecipazione degli attuali delegati sindacali, per promuovere le assemblee e organizzare la lotta. Allo stesso modo occorre promuovere le relazioni e il coordinamento dei lavoratori a livello locale, nazionale e internazionale, in un fronte unico per la lotta sindacale.

Le lotte di classe che si approssimano, la necessità di organizzare lo sciopero generale, porteranno all’ordine del giorno la questione della formazione di un autentico sindacato di classe.


Portogallo
Affonda la legge contro il precariato nello sporco teatrino fra PSP e PCP

Il 26 novembre il parlamento portoghese ha respinto un progetto di legge del PCP stalinista tendente a limitare il lavoro precario. Il socialdemocratico Partito Socialista – di fatto il partito di governo, che media tra le varie bande parlamentari – lo aveva approvato in termini vaghi, prima di unirsi alle destre nell’affondarlo.

La legge avrebbe limitato i casi ammessi per i contratti a tempo determinato, stabito un numero massimo di volte che si possono rinnovare e annullati quelli di breve durata. Era prevista anche l’abrogazione dell’aumento del periodo di prova a 180 giorni nel caso di chi è in cerca di primo impiego e dei disoccupati di lunga durata.

In PCP si è limitato all’oratoria parlamentare riformista, non volendo lanciare l’offensiva proletaria generale contro l’aumento dello sfruttamento, della precarietà e della miseria che la pandemia ha scatenato sulla classe operaia. Questo nonostante sia pienamente nelle facoltà del PCP, che mantiene una presa soffocante sulla direzione delle lotte in Portogallo, dirigendole ovunque sia possibile verso obiettivi nazionali e democratici piuttosto che di classe, demoralizzando i lavoratori e fallendo completamente nel proteggere i loro mezzi di sussistenza, missione che a parole rivendica.

Il capo parlamentare comunista ha sottolineato, prima del voto, che «i lavoratori hanno bisogno di una soluzione ai loro problemi; le imprese non devono licenziare e assumere a volontà». Ma per questo “bisogno” disperato tutto ciò che il PCP può offrire sono discorsi parlamentari!

Il Portogallo e il suo movimento operaio sono in una posizione unica a causa di come l’apparato di governo è stato impostato dopo la falsa rivoluzione del 1974. Lo stalinismo ha mantenuto una forte influenza nel movimento operaio, nel suo ruolo storico pseudo-radicale all’interno delle istituzioni, al servizio della borghesia, di alternativa al corporativismo ufficiale del Partito Socialista al governo. Mentre il sindacato manovrato dal PS, la UGT, è apertamente di regime, nel ruolo di venditore all’ingrosso di manodopera nelle trattative segrete, la CGTP, controllata in modo schiacciante dal PCP, si presenta come un “organo di classe indipendente” per la difesa della classe operaia, benché le direttive politiche del PCP la rendono incapace e non disposta a niente difendere di fronte all’offensiva dei padroni. Così abbiamo due confederazioni sindacali di regime, dando ai lavoratori l’illusione che una di esse stia resistendo alla politica statalista dell’altra.

In questa riluttanza e incapacità di difendere i lavoratori la disastrosa politica del PCP ha disperso il movimento portoghese: nel 1978 il 60,8% dei lavoratori era sindacalizzato; oggi solo un misero 15%. Ai lavoratori la CGTP appare inutile, come ha dimostrato nello sciopero dei lavoratori portuali del 2019.

Alla lotta si vorrebbe sostituire le campagne parlamentari, progettate per fallire e sintomatiche dell’opportunismo. Affidandosi al PCP per difendere i loro interessi in parlamento i lavoratori hanno rinunciato alla lotta diretta contro lo sfruttamento capitalista lasciando al parlamento, l’organo stesso del dominio politico borghese, la difesa delle loro condizioni! Il ruolo del PCP all’interno dello Stato portoghese è chiaro: disarmare i lavoratori.

Mentre il PCP titola nei suoi giornali che «il Partito Socialista ha fallito ancora una volta con i lavoratori» allo stesso tempo si allea con il PS, riconosciuto traditore del proletariato, nelle dispute parlamentari “contro la destra”!

Così gli operai portoghesi sono lasciati senza mezzi di lotta, sono abbandonati demoralizzati e disarmati al crescente sfruttamento. Questo sono i “partiti operai” parlamentari, riformisti e opportunisti.

Purtroppo la campagna del PCP inganna ancora la maggior parte dei lavoratori, con grande spreco di energie proletarie.

Nel teatrino parlamentare stalinista il PCP ha giurato “la lotta continua”, ovviamento in parlamento, ripetendo gli stessi errori che hanno portato a tutto questo disastro! Sì, è colpa del PS, ma, andiamo, non potete odiarli troppo, abbiamo bisogno di loro per battere il fascismo! Ecco perché ci alleiamo con loro».

Quello che oggi manca è un partito rivoluzionario – il nostro partito – che denunci il parlamento come strumento controrivoluzionario e che proceda con un lavoro sindacale di principio e rivoluzionario, per le rivendicazioni della classe, mai con quelle nazionali e democratiche.


Riprendono le lotte operaie in Turchia

Con un tasso di inflazione di quasi il 50% la Turchia è stata colpita duramente dalla crisi.

Due eventi hanno segnato l’inizio della risposta della classe operaia al peggioramento delle sue condizioni.

Il primo sono state le manifestazioni “non riusciamo ad arrivare a fine mese”, organizzate prima dalla confederazione DİSK per l’aumento del salario minimo, poi dalla KESK per l’aumento degli stipendi dei pubblici dipendenti. È plausibile che le manifestazioni organizzate dalle confederazioni sindacali conflittuali abbiano avuto un effetto negli aumenti relativamente alti del salario minimo (50%) e dei salari dei lavoratori pubblici (30%).

Il secondo è stato il negoziato tra i tre sindacati metallurgici, Türk Metal appartenente alla Türk İş, la più grande confederazione sindacale di regime turca, Birleşik Metal appartenente alla DİSK e Öz Çelik İş appartenente alla confederazione sindacale islamista di regime Hak İş, e l’associazione padronale MESS.

Türk Metal ha dichiarato che avrebbe scioperato durante i negoziati e Birleşik Metal ha effettivamente annunciato piani concreti per uno sciopero. Il MESS aveva offerto prima il 12%, poi, dopo la proclamazione dello sciopero, il 17%, infine il 22%. Türk Metal, Birleşik Metal e Öz Çelik Is, che rappresentano un totale di 150.000 lavoratori metalmeccanici, chiedevano aumento del 27-30%. Molti operai pensavano che la richiesta dei sindacati non fosse abbastanza alta.

Ci si aspettava che la data dello sciopero fosse annunciata durante la manifestazione centrale di Türk Metal, forte di decine di migliaia di persone, che si è tenuta a Kocaeli il 2 gennaio. Ma questo non è avvenuto. Birleşik Metal ha prima annunciato che avrebbe scioperato in quattro fabbriche il 14 gennaio a Mersin, Izmir e Kocaeli; poi ha dichiarato che altre sei fabbriche a Gebze, Istanbul, Kocaeli, Bilecik e Bursa avrebbero iniziato lo sciopero il 18.

Alla fine i tre sindacati dei metalmeccanici hanno firmato il contratto per il 27%.

Solo la fabbrica di Çimsataş a Mersin, con oltre 800 lavoratori, membri della Birleşik Metal, ha iniziato uno sciopero il 12 gennaio, chiedendo un aumento del 62% e occupando la fabbrica. Dopo che 13 lavoratori sono stati licenziati senza liquidazione, la Birleşik Metal ha cercato di porre fine allo sciopero e all’occupazione senza che i lavoratori licenziati fossero riassunti o che le richieste fossero soddisfatte.

Lo sciopero di Çimsataş sembrava essere controcorrente, invece sarebbe diventato il primo di una piccola ma significativa ondata di scioperi.

Il 17 gennaio 700 minatori di ferro a Sivas Divrik hanno iniziato uno sciopero di tre giorni. La compagnia ha fatto varie minacce e tutti i lavoratori sono stati allontanati dalla miniera dopo che i rappresentanti del Bağımsız Maden İş, un sindacato dei minatori di base al di fuori delle principali confederazioni sindacali, avevano parlato agli scioperanti. Polizia e soldati sono stati dispiegati intorno alla miniera. I lavoratori hanno chiesto un aumento del 51% dei salari – rispetto alle attuali 5,250 lire turche – e altre migliorie. Hanno anche avanzato la richiesta di una salario minimo di 8.000 lire, il riconoscimento del turno di notte, un aumento ogni sei mesi e la concessione di ferie e bonus durante le vacanze. Lo sciopero di tre giorni si è concluso con un compromesso: l’azienda ha fatto alcune concessioni ma ha rifiutato di accogliere tutte le richieste. Tuttavia i lavoratori hanno provato che possono migliorare la loro condizione scioperando e imparato quanto i sindacati di base siano considerati una minaccia dai padroni e dal loro regime.

Il 19 gennaio 2.300 lavoratori dello stabilimento Farplas Automotive a Gebze, Kocaeli hanno interrotto la produzione per protestare contro il basso aumento che era stato loro offerto. La direzione aziendale, che ha fabbriche in sette paesi e fornisce parti di ricambio a Ford, Mercedes, Renault, Volvo e Tesla, in un incontro con i rappresentanti dei lavoratori ha promesso che i salari sarebbero stati aumentati e nessuno licenziato. Invece 150 lavoratori che si erano iscritti al Birleşik Metal durante la lotta sono stati licenziati. In risposta gli operai hanno occupato la fabbrica. Oltre 100 lavoratori e sindacalisti sono stati picchiati e arrestati in un’operazione di polizia nelle prime ore del mattino. Dalle fabbriche circostanti gli operai hanno allora marciato fino ai cancelli della Farplas per dare la loro solidarietà. Alla Farplas continuano la lotta.

Questo dimostra che la presenza dei sindacati nell’ondata di scioperi dell’inverno 2022 non è irrilevante, come qualcuno sostiene. La DİSK, così come la KESK, sono confederazioni al limite fra sindacalismo conflittuale e collaborazionista, non sono ancora sindacati di regime ma in certi momenti, come durante lo sciopero di Çimsata?, non esitano ad agire come fossero tali. Ciononostante, non è senza ragione che alcuni dei lavoratori più combattivi della Farplas hanno comunque aderito alla DİSK a rischio di perdere il lavoro.

Il 1° febbraio, 2.000 operai della fabbrica Alpin Socks nel quartiere Beylikdüzü di Istanbul hanno lanciato uno sciopero spontaneo chiedendo un ulteriore aumento. Gli operai della Alpin Socks – che produce per marchi come Adidas, Decathlon, Carrefour e H&M – hanno fermato la produzione dopo l’annuncio dell’aumento salariale. Dopo un incontro tra i rappresentanti degli operai e il capo dell’azienda, la società ha accettato la richiesta di un aumento di 2.500 lire e nessun licenziamento. Lo sciopero ha scatenato lotte in altre fabbriche di calze a Istanbul. Anche alla fabbrica Beks di Çorlu hanno scioperato. Alpin e le altre fabbriche di calze a cui lo sciopero si è esteso sono solo una piccola parte di ciò che è l’industria tessile in Turchia.

Un certo numero di altri scioperi, più piccoli, hanno avuto luogo. Circa 200 lavoratrici al mercato di frutta e verdura a Tarsus, Mersin, hanno lasciato il lavoro chiedendo un aumento di salario. Circa 200 operai che lavoravano nelle fabbriche di bevande Kızılay a Erzincan e Afyon hanno scioperato chiedendo un aumento salariale, la restituzione di loro diritti usurpati e il riconoscimento del loro sindacato. Il padrone ha chiamato i soldati davanti alla fabbrica di Afyon.

80 operai del reparto imballaggi della Polibak, situata nel distretto di Çiğli a İzmir e una delle 500 maggiori imprese industriali della Turchia, hanno fermato la produzione chiedendo un aumento dei salari. Circa 250 edili impiegati alla centrale nucleare di Akkuyu a Mersin, costruita dalla società statale russa Rosatom, hanno scioperato dopo che i loro salari non sono stati pagati per 2 mesi. Soldati sono stati inviati al cantiere e molti lavoratori sono stati licenziati. Alla fine di gennaio, 40 minatori che lavorano a Şırnak hanno scioperato chiedendo un aumento di salario. Anche 800 lavoratori della sicurezza privata che lavorano al terzo aeroporto di Istanbul hanno interrotto il lavoro.

Lo sciopero nella sanità dell’8 febbraio sotto la guida della TTB (Associazione dei medici turchi), che ha più di 100.000 membri, così come della TDB (Associazione dei dentisti turchi) e del SES (Sindacato dei lavoratori dei servizi sanitari e sociali) che appartiene al KESK, è stato il risultato della decisione del governo di respingere le richieste di salari e altre rivendicazioni espresse da lungo tempo. Questa azione di sciopero segue quella del 14 dicembre sotto la guida di varie organizzazioni nella sanità. Il sindacato dei medici Hekim Sen ha annunciato che i suoi membri si uniranno alla lotta. Il settore della sanità pubblica in Turchia è in uno stato deplorevole, che genera la contrapposizione fra medici, infermieri e altri operatori – soverchiati di lavoro – con pazienti che devono aspettare settimane per ottenere un appuntamento ed essere curati. Questa situazione porta spesso a tensione reciproca e anche scontri fra gli operatori sanitari e i pazienti, mancando la solidarietà di classe.

Circa in 900.000 sono in Turchia i ciclo-fattorini, i cosiddetti “riders”. Il numero di corrieri motorizzari registrati è di 200.000. 190 di essi sono stati vittime di incidenti nel 2020, e 203 nel 2021. Una parte significativa di essi sono impiegati come lavoratori autonomi: costituiscono società individuali, stipulano un accordo con l’azienda e forniscono il servizio con le proprie motociclette o veicoli commerciali.

Il 25 gennaio migliaia di corrieri assunti come fattorini indipendenti presso Trendyol, la più grande piattaforma di e-commerce della Turchia che impiega più di 9.000 lavoratori, hanno scioperato in tutto il paese rifiutando l’aumento dell’11% offerto dall’azienda. In migliaia si sono rifiutati di fare le consegne in tutte le città del paese. Il fatto che i fattorini della Trendyol, che chiedevano un aumento del 50%, abbiano ricevuto un aumento del 38% ha spinto i lavoratori di altre compagnie di trasporto merci a entrare in sciopero. I corrieri di Aras Kargo, Hepsijet, Sürat Kargo, Scotty e Yurtiçi Kargo hanno organizzato scioperi e manifestazioni. Migliaia di corrieri che lavorano alla Yemeksepeti continuano da giorni scioperi e proteste, chiedendo un salario di 5.500 lire e il riconoscimento sindacale.

L’appello al boicottaggio della Yemeksepeti, guidato dal Nakliyat İş (DİSK), ha portato a un calo del 70% degli ordini. I lavoratori chiedono aumenti dei salari e altri avanzamenti nelle condizioni d’impiego, e la fine del modello del corriere autonomo-imprenditore, cioè di diventare salariati. Oltre al Nakliyat İş anche il TÜMTİS (Türk İş) è presente in Yemeksepeti e nel resto del settore. Non c’è dubbio che se i padroni saranno costretti ad accettare la presenza di un sindacato preferiranno il TÜMTİS.

L’onda di scioperi in Turchia di queste settimane è piccola ma significativa perché esprime la rabbia dei lavoratori per il rapido deterioramento delle loro condizioni e potrebbe espandersi e diventare un movimento più grande. Se gli eventi prenderanno un tale corso, le lotte dovranno collegarsi, riunendo i sindacati che sono capaci di lottare insieme in un fronte unito dal basso, un fronte unico sindacale di classe. Solo passando attraverso queste lotte il proletariato riscoprirà il suo più generale organo di lotta di classe, il partito comunista.

 

 

 


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Sulle cause della inflazione e della deflazione

Il capitalismo è costantemente in una situazione di squilibrio: da un lato l’accumulo di capitale aumenta sempre più la produzione di merci, dall’altro è necessario venderle per continuare ad accumulare capitale. In una società in cui l’appropriazione è privata, in cui ogni produttore e consumatore è indipendente l’uno dall’altro, l’equilibrio tra produzione e consumo si fa costantemente attraverso caotici aggiustamenti.

Quando un’impresa non riesce a smaltire quanto produce mette “a riposo” i lavoratori, e si trova in difficoltà finanziarie, fino al fallimento.

Quando, in ritardo, suona l’allarme, si ha già sovrapproduzione: le merci si sono già accumulate sugli scaffali dei negozi e nei magazzini dei grossisti. Non si possono vendere se non abbassando i prezzi.

Per questo di solito le crisi di sovrapproduzione sono accompagnate da deflazione, da una caduta dei prezzi.

Durante i “trenta anni gloriosi”, dal 1945 al 1975, questi fallimenti sono rimasti localizzati, compensati dalla crescita in altri paesi e in altri settori.

La crisi è di solito preceduta da un aumento dei prezzi, in particolare delle materie prime a causa della forte domanda dell’industria, nonché da un aumento dei tassi d’interesse. Questo è quello che è successo con il petrolio, per esempio, poco prima della grande crisi di sovrapproduzione del 1974-75. I prezzi del petrolio saliranno ancora nell’estate del 1979.

Silenziosamente i fallimenti di imprese vanno aumentando, e con essi le fatture non pagate. Il pagamento delle cambiali ritarda, mettendo a rischio le istituzioni finanziarie.

Queste istituzioni non prestano denaro proprio ma lo prendono in prestito sul mercato interbancario, dalle altre banche. Per esempio Lehman Brothers prima del suo fallimento il 15 settembre 2008, prestava fino a 30 dollari per 1 dollaro di suo capitale. Per far fronte ai suoi deflussi questa grande banca d’investimento era totalmente dipendente dai prestiti giornalieri sul mercato dei “pronti contro termine”. Ma quando si sono viste le prime crepe le altre banche hanno capito che il re era nudo, e nessuno le ha più prestato denaro.

La crisi può manifestarsi dapprima come una crisi commerciale, a causa dell’accumulo di beni invenduti, ma può altrettanto facilmente iniziare con una crisi finanziaria, come nel 2008, o con una crisi di borsa, come nel 1929.

In ogni caso la crisi di sovrapproduzione porta a un crollo del prezzo delle merci, delle materie prime in particolare, e ancor più di tutti i titoli: azioni, obbligazioni, immobili, materie prime, ecc. Prezzi che erano saliti alle stelle a causa della sfrenata speculazione che ha preceduto la sovrapproduzione.

Per il comune sentire dei proletari e dei piccolo borghesi, ma anche per la grande borghesia e i suoi economisti, i rapporti di produzione capitalistici, lavoro salariato, capitale, profitto, interesse, ecc., appaiono “naturali”. Se c’è una crisi è perché da qualche parte c’è stata una deliberata manipolazione, che beneficia pochi, o è dovuta a cause esterne al capitalismo, a fattori accidentali. Per gli economisti borghesi ogni crisi ha origini contingenti: cattiva gestione, avidità, speculazione smodata sul prezzo delle materie prime, ecc. Per loro non è mai inerente al modo di produzione capitalista, non capiscono che il modo di produzione capitalista, come ogni modo di produzione, è una forma sociale storicamente transitoria.

La crisi invece non è una “malattia”, ma è dovuta al fatto che il capitalismo, nel suo sviluppo, produce la sua stessa negazione: la base economica della società comunista. L’accumulazione del capitale porta alla rovina del piccolo produttore e alla socializzazione delle forze produttive, sostituendo la massa dei piccoli produttori con un esercito di proletari che lavorano collettivamente in modo centralizzato, e che non possiedono né la proprietà del prodotto né quella dei mezzi di produzione, e il cui lavoro collettivo utilizza strumenti il cui uso e la cui produzione richiedono un intero ordinamento sociale e l’impiego delle ultime conoscenze tecniche e scientifiche.

È l’antagonismo, risultante dai rapporti di produzione, tra questa base economica e l’appropriazione privata che porta alle crisi di sovrapproduzione. Ecco perché il dilemma può essere risolto definitivamente solo passando al comunismo.

Questo antagonismo si riflette nello squilibrio permanente tra produzione e consumo e nella caduta del tasso di profitto: più le forze produttive si sviluppano, più la produttività del lavoro aumenta, e di conseguenza scende il tasso del profitto.

I rimedi applicati dalle borghesie e dai loro Stati per risolvere la crisi, deregolamentazione, subappalto, delocalizzazione, speculazione sfrenata, corsa al debito, ecc. finiscono per aggravare la crisi.

Quanto all’inflazione, non è una novità, è nata con il sistema monetario.

La quantità di denaro necessario per la circolazione delle merci è determinata dal valore della massa di merci in circolazione in un dato momento e dalla velocità di rotazione del denaro. Più grande è la massa di beni e il valore complessivo da scambiare, maggiore è l’offerta di denaro necessaria per questo scambio, viceversa più rapida è la circolazione del denaro, minore è la massa di denaro necessaria.

Agli albori dello scambio, una merce particolare, il cui valore era ben noto perché molto usata, come il sale, il rame, ecc., serviva da unità di misura del prezzo delle altre merci. Successivamente questa merce particolare divenne la moneta, cioè tutte le altre merci vennero ad esprimere il loro valore di scambio in questa merce universale sotto forma di prezzo. In altre parole ogni merce, la cui produzione ha richiesto una certa quantità di lavoro sociale medio, si misura in una certa quantità di questa merce universale, la cui produzione ha richiesto la stessa quantità di lavoro; il prezzo è la quantità di questa merce universale.

Scrive Marx, per esempio, in “Contributo alla critica dell’economia politica”:

«Mentre il caffè, il tè, il pane, il cotone, in breve tutte le merci esprimono nella tela il tempo-lavoro che esse stesse contengono, viceversa, il valore di scambio della tela si dispiega in tutte le altre merci, considerate come suoi equivalenti, e il tempo-lavoro materializzato in questa merce diventa, in modo immediato, il tempo-lavoro generale, che si manifesta in quantità uguale in volumi diversi di tutte le altre merci. La tela diventa qui un equivalente generale attraverso l’azione universale esercitata su di essa da tutte le altre merci. Come valore di scambio, ogni merce divenne una misura dei valori di tutte le altre merci. Qui, viceversa, poiché tutte le merci misurano il loro valore di scambio in una merce particolare, la merce esclusa diventa il modo adeguato di esistenza del valore di scambio, il suo modo di esistenza come equivalente generale».

«Il valore di scambio delle merci espresso come un’equivalenza generale e allo stesso tempo come quantità di questa equivalenza in relazione a una merce specifica, o espresso in un’unica equazione che collega le merci a una merce specifica, è il prezzo. Il prezzo è la forma metamorfosata in cui appare il valore di scambio delle merci nel processo di circolazione» (i corsivi sono di Marx).

Nell’antichità e nel Medioevo si usavano monete d’argento, d’oro o di rame, che quindi avevano un valore intrinseco. Il suo segno monetario rappresentava questo valore, cioè la quantità di lavoro sociale medio richiesto per produrre la quantità di metallo prezioso contenuta nella moneta.

L’uso del denaro con un proprio valore era possibile nelle società in cui la massa dei beni scambiati rappresentava solo una piccola frazione della produzione totale. Con l’avvento del capitalismo, dove tutti i beni tendono ad assumere la forma di merci, questa forma monetaria divenne poco pratica e fu gradualmente sostituita da banconote di carta, che non avevano valore proprio, ma rappresentavano una prefissata quantità di oro. Inoltre il valore rappresentato dalla massa di banconote in circolazione era garantito da una quantità equivalente di oro realmente presente nei forzieri delle banche. Le banconote erano scambiabili in banca con l’equivalente in oro.

Questo sistema “del Gold Exchange Standard” continuò fino a quando fu abolito da Richard Nixon nell’agosto 1971. L’impossibilità di mantenerlo era ormai evidente. Le speculazioni valutarie contro il dollaro comportavano notevoli emorragie d’oro dagli Stati Uniti. Inoltre, data l’enorme massa di beni in circolazione sul mercato mondiale era fisicamente impossibile detenere un valore equivalente in oro.

Ciò che determina il valore del denaro, ormai non più convertibile in oro, è il rapporto tra il valore della massa di merci che sono scambiate e la quantità di denaro in circolazione. Maggiore è il denaro in circolazione per la stessa quantità di merci, minore è il suo valore. La quantità di denaro in circolazione va moltiplicata per la sua velocità di rotazione: maggiore è la sua rotazione nei pagamenti, meno denaro è necessario per muovere lo stesso valore di merci.

«La quantità di denaro circolante non è determinata solo dalla somma totale dei prezzi delle merci da realizzare; è determinata allo stesso tempo dalla velocità con cui il denaro circola o con cui, in un dato periodo di tempo, esegue questa realizzazione».

«Se il valore dell’oro diminuisse o aumentasse in conseguenza della diminuzione o dell’aumento del tempo di lavoro richiesto per la sua produzione, rimanendo costante il valore di scambio della stessa massa di merci, il numero di banconote da una sterlina in circolazione aumenterebbe o diminuirebbe in proporzione inversa al cambiamento del valore dell’oro».

«La quantità di banconote è dunque determinata dalla quantità di monete d’oro che rappresentano in circolazione e, poiché esse sono segni di valore solo nella misura in cui lo rappresentano, il loro valore è determinato semplicemente dalla loro quantità. Mentre la quantità di oro in circolazione dipende dai prezzi delle merci, il valore delle banconote in circolazione dipende esclusivamente dalla loro stessa quantità (...)

«Se 14 milioni di sterline fossero il totale dell’oro richiesto per la circolazione delle merci, e se lo Stato mettesse in circolazione 210 milioni di banconote, ciascuna del taglio di una sterlina, questi 210 milioni di banconote si trasformerebbero in rappresentanti dell’oro per un ammontare di 14 milioni di sterline. Sarebbe come se lo Stato avesse trasformato le banconote da 1 sterlina in rappresentanti di un metallo 15 volte più piccolo di prima. L’unico cambiamento sarebbe nella denominazione dello standard di prezzo, che è naturalmente convenzionale, sia che provenga direttamente da un cambiamento nel titolo della moneta o indirettamente dall’aumento del numero di banconote nella proporzione richiesta da uno standard inferiore. Poiché la denominazione della sterlina darebbe ora una quantità d’oro 15 volte inferiore, il prezzo di tutte le merci sarebbe 15 volte più alto, e 210 milioni di banconote da una sterlina sarebbero necessarie come lo erano 14 milioni prima».

«L’aumento o la diminuzione dei prezzi delle merci che si accompagna all’aumento o alla diminuzione della massa delle banconote – questo quando le banconote sono il mezzo esclusivo di circolazione – non è dunque che l’applicazione, imposta dal processo di circolazione, della legge meccanicamente violata dall’esterno, secondo la quale la quantità di oro in circolazione è determinata dai prezzi delle merci e la quantità dei segni di valore in circolazione dalla quantità delle specie di oro che essi rappresentano in circolazione».

Un aumento o una diminuzione dei prezzi, come risultato di una variazione della massa monetaria in circolazione, non cambia il valore delle merci scambiate, ma ha un effetto diretto sui redditi del proletariato e della piccola borghesia. Nel caso dell’inflazione diminuiscono.

L’abbandono del Gold Standard non significa che l’oro non abbia più un ruolo. In tempi di crisi, quando i prezzi dei titoli e delle merci crollano, l’oro appare come un rifugio sicuro e allora il suo prezzo sale alle stelle.

In tempi di crisi e di guerra gli Stati hanno ripetutamente fatto ricorso alla stampa di denaro per far fronte a spese quando la tesoreria era vuota. Nel caso delle monete metalliche lo Stato riduceva il loro contenuto in metallo prezioso. Ne è risultata ogni volta inflazione, perché la moltiplicazione delle monete o delle banconote non porta ad un aumento della produzione: c’è più denaro in circolazione per la stessa quantità di beni.

Questo è ciò che accadde in Germania nel 1923. La socialdemocrazia non voleva costringere la grande borghesia a pagare il debito di guerra. Lo Stato tedesco non aveva abbastanza valuta estera per pagare le importazioni, il debito e rimborsare la piccola borghesia che aveva sovvenzionato lo sforzo bellico. L’inflazione ha liquidato tutti i crediti dello Stato nei confronti della piccola borghesia, che ne è uscita rovinata, cosa che noi marxisti apprezziamo. Ma la grande borghesia ne è uscita indenne e addirittura rafforzata, perché il proletariato tedesco non ha saputo prendere il potere in quei terribili anni del dopoguerra.

Più vicino a noi, l’inflazione in Venezuela, in Libano o in Turchia è il risultato dell’incapacità dei loro governi di rimborsare i debiti e di pagare le loro importazioni e, in alcuni casi, come il Venezuela, a causa di un crollo delle esportazioni. Le casse dello Stato sono vuote, la banca centrale ha poche o nessuna riserva, le importazioni non possono più essere pagate e i capitali fuggono dal paese, la moneta crolla. Le importazioni espresse nella moneta nazionale diventano sempre più costose; le esportazioni, vedendo il loro prezzo scendere, compensano sempre più difficilmente le importazioni. Tutti vogliono i dollari, che diventano sempre più cari. La banca centrale è costretta a stampare denaro.

In Turchia la banca centrale, per far fronte alla fuga di capitali, vorrebbe aumentare i tassi di interesse ma, poiché il governo blocca questa politica, tutti vendono lire per dollari e ne risulta il crollo della lira. Durante la crisi del 2015-16, in seguito alla fuga di capitali la Cina ha dovuto spendere 1.000 miliardi di dollari per arginare la caduta della sua moneta!

Il capitalismo liberale – quello dei tempi dell’impero britannico – vedeva i prezzi cadere come risultato della concorrenza e del conseguente aumento della produttività del lavoro. Ma con i monopoli la situazione è cambiata. La concorrenza si riduce e la crescita è accompagnata dall’inflazione.

Quindi che dire dell’attuale ritorno dell’inflazione nei grandi paesi imperialisti? Prima di rispondere alla domanda, cominciamo a guardare indietro.

La grande crisi internazionale del 1974-75 mise definitivamente fine al ciclo di accumulazione di capitale quasi senza crisi che seguì il periodo post-bellico. Questo fu seguito, ogni 7-10 anni, come ai tempi di Marx, da crisi di sovrapproduzione. Fino alla crisi del 2001-2002, tutte queste crisi, a differenza di quelle classiche, erano con inflazione. Questo perché gli Stati e i monopoli sono riusciti a organizzare la ritirata, distribuendo ridotte quote di produzione all’interno dello stesso ramo, per evitare il crollo dei prezzi. È stato il caso, per esempio, dell’acciaio in Europa; in seguito alle trattative la Commissione europea è riuscita a distribuire le quote di produzione tra i vari paesi europei.

Ma la grande crisi del 2008-2009 ha cambiato le cose. Dopo il fallimento di Lehman Brothers, poi di AIG, salvata in extremis dallo Stato americano, tutti i mercati azionari sono crollati, i prezzi degli immobili, soprattutto negli Stati Uniti e in Spagna, sono scesi bruscamente, e i prezzi delle materie prime sono crollati, portando con sé la caduta di tutti i prezzi. La recessione del 2008-2009 è stata la prima grande crisi con deflazione del dopoguerra. Senza l’energico intervento delle banche centrali e dei governi, che non hanno esitato a contrarre grandi debiti per salvare il loro sistema economico, avremmo avuto una deflazione come negli anni ‘30.

Con difficoltà, la produzione si è ripresa, soprattutto nel 2017-2018. Tuttavia, quasi tutti i grandi paesi imperialisti, a parte la Cina, hanno un livello di produzione inferiore a quello precedente la crisi del 2008-2009. E soprattutto, se la borghesia mondiale ha evitato il crollo, come negli anni 30, è a prezzo di un indebitamento colossale, di tassi d’interesse vicini allo zero, o addirittura negativi in alcuni paesi, e di un gigantesco enfiarsi dei bilanci di tutte le grandi banche centrali. Il capitalismo globale sopravvive grazie all’inondazione dei trilioni di dollari delle banche centrali! Una tale piena di denaro in una situazione “normale” porterebbe ad un’alta inflazione; questo non è successo, poiché le forze deflazionistiche si sono dimostrate più potenti.

Tanto più che tutto questo denaro “virtuale” non è finito nelle tasche del proletariato o della piccola borghesia ai fini di consumo, ma in quelle della grande borghesia, che in gran parte lo ha usato per la speculazione; questo ha fatto salire a nuovi record il prezzo dei titoli in borsa, delle obbligazioni e degli immobili nelle grandi città mondiali. Quindi è su titoli e immobili che si è concentrata l’inflazione. Ma poiché questa valutazione dei titoli è del tutto convenzionale, basta la minima notizia negativa perché tutto si sgonfi in un attimo. Questo spiega l’andamento caotico dei prezzi del mercato azionario mondiale.

Il “boom” del 2017-18 si è presto esaurito, dal 2019 c’è di nuovo una recessione globale, anche in Cina, con un calo delle produzioni e dei commerci internazionali. I provvedimenti sanitari imposti dal virus da marzo a maggio 2020, più o meno esteso a seconda del paese - il Giappone non ha preso precauzioni - ha aggravato una recessione che era già in corso.

Questa è stata seguita da una forte ripresa da marzo ad aprile 2021, ma da maggio in poi rallenta ovunque: a parte gli Stati Uniti, dove la crescita della produzione industriale è ancora alta – 5,1% nell’ottobre 2021 – grazie ai massicci pacchetti di stimoli governativi, ovunque – a parte la Cina, per la quale non abbiamo dati affidabili – la crescita è vicina allo zero, o addirittura negativa come in Germania e Italia.

Ovunque, tranne l’Inghilterra, la produzione è inferiore a quella del 2019, già anno di recessione. Rispetto al massimo raggiunto nel 2007 la produzione va dal -3% della Germania al quasi -28% del Portogallo, per non parlare del -18% del Giappone e del quasi -20% dell’Italia, per la quale nemmeno Mario Draghi potrà far molto.

L’inflazione attuale non è dovuta a una forte domanda, ma, in parte, a che la produzione di petrolio e di gas è mantenuta al di sotto della domanda, e, soprattutto, all’anarchia inerente a questo modo di produzione.

Per i prodotti agricoli, dobbiamo aggiungere lo scarso raccolto dovuto al maltempo.

Dalla crisi del 1974-75 in poi tutte le aziende del mondo per ridurre i costi hanno mantenuto pochissime scorte. Quando la produzione è ripartita all’inizio dell’anno, tutte hanno contemporaneamente ordinato componenti prodotti in Asia, le materie prime necessarie e prodotti energetici. Ne è risultato che la flotta mercantile internazionale, nelle mani di pochi monopoli, non ha potuto tenere il passo. Inoltre i porti non riescono a scaricare abbastanza velocemente per soddisfare l’enorme improvvisa domanda. Negli Stati Uniti, i portuali lavorano 24 ore al giorno a scaricare le navi. Questa è una chiara dimostrazione della stupidità di questo caotico modo di produzione.

Lo stesso per l’energia. Le multinazionali europee per risparmiare hanno aspettato fino all’ultimo per riempire i serbatoi, facendo impennare il prezzo del gas, che naturalmente è allineato con il pozzo meno redditizio. Questa è quella che chiamano la legge del mercato: in realtà è la legge dei monopoli che permette ad alcuni di intascare una vera rendita. Le turbine eoliche quest’anno hanno prodotto poca elettricità per la mancanza di vento, peggiorando ancora la situazione.

Il tutto è aggravato dal sistematico saccheggio che le varie borghesie mettono in atto, complice da trent’anni il “liberalismo”. Per esempio il prezzo dell’elettricità nucleare francese, la più economica d’Europa, è stato allineato a quello del gas per non far concorrenza agli altri produttori! Questa è la “libera concorrenza”. A questo si aggiunge la speculazione, che in questa situazione sguazza e fa salire i prezzi.

Così sono i proletari che pagano l’arricchimento di tutta una banda di parassiti. La borghesia è diventata, con il suo modo di produzione, una classe totalmente parassitaria e incapace della minima previsione a lungo termine. Naviga a vista.

Resta da vedere fino a che punto l’inondazione massiccia del mercato monetario da parte delle banche centrali, che non hanno esitato a creare denaro ex nihilo, abbia un impatto sull’inflazione. Questo sarà esaminato nei prossimi nostri studi.

 

 

 

  


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Riunione internazionale del partito
In video-conferenza, 28-30 gennaio 2022
[RG142]
 

Questo l’ordine dei lavori della riunione, alla quale hanno partecipato compagni residenti in 14 paesi:

Seduta di venerdì 28
Ben sviluppati resoconti dell’attività di ogni sezione e di ogni gruppo di lavoro
Seduta di sabato 29
Sull’uso da parte del partito dei simboli del comunismo
La questione militare - Dopo la pace di Brest-Litovsk
La teoria marxista delle crisi - Le teorie sul plusvalore - I fisiocratici
La rivoluzione in Germania - L’azione di marzo 1921
Origine e storia del Profintern
Rapporto dei compagni venezuelani
La questione curda, prima parte
La rivoluzione ungherese
Seduta di domenica 30
Moti di sedizione in Belucistan
L’attività sindacale del partito
I rapporti fra il PCd’I e l’Internazionale Comunista
Il corso della crisi del capitale mondiale
La rivolta in Kazakistan
Origini del Partito Comunista di Cina
Ultimo accordi e conclusioni del centro

Coscienti della necessità di un impegno a gettare le basi di un partito comunista mondiale e nella nostra certezza di muoverci già correttamente in quella direzione, cerchiamo di mantenere un ritmo di frequenti riunioni di tutta la nostra compagine per la trasmissione del sano metodo di lavoro e per mantenere ben intessuto lo svolgersi di tutti i compiti che compete la milizia rivoluzionaria, al di sopra dell’avvicendarsi delle generazioni e della distanza geografica delle sezioni e dei singoli.

Attualmente il lavoro del nostro piccolo partito ha spontaneamente e in tutta naturalezza preso l’aspetto di un susseguirsi di riunioni divise per regione linguistica, quindicinali o anche meno, di riunioni dei gruppi di lavoro specifici, e di riunioni internazionali, una ogni due mesi, sei l’anno, delle quali, alternativamente, una a solo scopo organizzativo della durata di un giorno, e una generale, di tre giorni, dei quali il primo di preparazione della riunione stessa e i successivi due di esposizione dei rapporti dei gruppi di studio e di attività.

Nelle riunioni generali provvediamo a tradurre subito ogni intervento dei compagni e tutti le relazioni in italiano, inglese e spagnolo. Questa forma di esposizione si aiuta fornendo a tutti gli astanti il testo stampato, preventivamente tradotto nelle tre lingue.

Osserviamo compiaciuti che questo complesso, e in realtà molto duro e non facile lavorare, che interessa un numero crescente di compagni, alcuni dei quali giovanissimi di milizia, funziona con risultati a giudizio di tutti più che soddisfacenti. Risponde infatti tanto pienamente alle antiche proposizioni del comunismo di sinistra quanto al fondamentale, primitivo, istintivo e volontario bisogno e richiesta di disciplina e centralismo, così fortemente sentiti e praticati nelle nostre file che nemmeno occorre ricordarli ad alcuno.

Ovviamente abbiamo abbandonato l’ormai inutile relitto del gioco di maggioranze-minoranze e delle votazioni, molto più efficacemente sostituiti da un sempre più serrato e impersonale lavoro comunista, nel partito attingendo alla sua immutabile dottrina e alle lezioni della sua storia, e al fianco della classe operaia e delle sue quotidiane battaglie.


* * *

Al solito qui anticipiamo un breve riassunto degli esposti.

 
La rivoluzione ungherese

A questa riunione abbiamo dato lettura di parte di un cospicuo e dettagliato rapporto redatto dalla Delegazione del Lavoro britannica nel Maggio 1920, formata da membri delle Trade Unions e del Labour Party si erano recati a Vienna e a Budapest. Descrive la Delegazione, dopo aver raccolto diverse testimonianze di profughi ungheresi, come si scatenò il terrore bianco: 1) persecuzione di tutti coloro che non sostenevano il regime di Horty; 2) soppressione dei sindacati e del diritto di sciopero; 3) antisemitismo; 4) massacri, esecuzioni, imprigionamenti, anche senza procedimento legale; 5) torture e maltrattamenti ai carcerati; 6) detenzioni arbitrarie per lunghi periodi.

Nel rapporto si descrive una lunga serie di torture, uccisioni spietate e atrocità della peggior specie perpetrate dagli sgherri di Horty, prassi consolidata e propria di ogni controrivoluzione.

Il rapporto è proseguito testimoniando come la borghesia nuovamente al potere, oltre a impedire gli scioperi, ai minatori vietasse di passare ad altra industria e come i loro sindacalisti venissero malmenati e costretti a fuggire pena la fucilazione. 400 minatori comunisti furono rinchiusi in carcere. Tuttavia il 20 febbraio 1920 i minatori tornarono a scioperare per due giorni per ottenere migliori salari e condizioni di lavoro; un centinaio di questi furono gettati in carcere. Il governo, che ufficialmente emanò disposizioni per la libertà di organizzazione sindacale, in realtà la concesse solo alle organizzazioni “cristiane”, le altre erano soggette a costrizioni di ogni specie.

La polizia in occasione del 1° Maggio impose ai dirigenti dei sindacati l’arresto domiciliare dal 29 aprile al 2 Maggio.

Nelle conclusioni del suo rapporto la super-riformista Delegazione britannica dichiarava: «Ci è stato assicurato (...) che il numero complessivo degli arrestati e detenuti era superiore a 25.000. È riconosciuto che trentanove comunisti sono stati giustiziati sotto l’imperio della giurisdizione civile del dicembre ultimo scorso; che il 28 aprile diciannove uomini furono tratti fuori da soldati, dal carcere di Szolnok e uccisi a Abonyi (...) In base alle prove raccolte, affermiamo che in Ungheria vi è il “Terrore”, che il governo non è in grado di farlo cessare e che, anzi, molti dei suoi stessi atti sono così rigorosi da meritare il nome di “Terrore”. E non riusciamo a comprendere come mai l’Alto Commissario Britannico abbia potuto dichiarare il 21 febbraio u.s. che “mentre indubbiamente, sono stati compiuti atti riprovevoli, non vi è nulla che rassomigli al terrore”».

L’esposizione continuava con il racconto delle vicissitudini accadute ai commissari del popolo e alle loro famiglie nell’esilio in Austria e in Italia.

Si è anche accennato al lavorio diplomatico dello Stato sovietico per riparare i comunisti dall’Ungheria in Russia. Si offriva un accordo con il governo ungherese per scambiare gli ufficiali ungheresi prigionieri di guerra in Russia con i responsabili della Repubblica dei Consigli, ora in prigione e in parte condannati a morte. Le trattative, che si conducevano a Riga, si protrassero per due anni: nell’autunno del 1921 il primo scambio ebbe luogo a Riga, per continuare fino a tutto il 1925.

Si concludeva leggendo brani di alcuni articoli apparsi su “Liberator”, una rivista americana, e dall’opuscolo “Di Rivoluzione in Rivoluzione”, dove Kun descrive il tradimento dei socialdemocratici e il “terrore rosso”, come giustamente la borghesia definisce la dittatura del proletariato, e del terrore bianco, i massacri di comunisti e proletari ad opera della controrivoluzione.

 


Sull’uso dei simboli del comunismo

La breve nota appare già a pagina 8 di questo numero.

 


La teoria marxista delle crisi - Le teorie sul plusvalore - I fisiocratici

La serie di rapporti che portano l’attenzione del partito sui Manoscritti di Marx che prendono il nome di Teorie sul Plusvalore inizia con lo studio della scuola fisiocratica.

Il relatore ha prima sintetizzato il quadro storico del periodo mentre ha tralasciato per questioni di tempo – ma tale parte andrà nel resoconto esteso – la breve biografia dei principali autori. Ha rapidamente ricordato come secondo tale dottrina la struttura sociale sia divisa in tre classi: la classe produttiva costituita dagli imprenditori e dai lavoratori agricoli; la classe oziosa di tutti coloro i quali vivono di redditi fondiari, e la classe sterile in cui rientrano i lavoratori impegnati nelle attività non agricole. Da questa suddivisione segue logicamente l’importanza dell’agricoltura, il che è storicamente giustificato per il fatto che i principali esponenti della fisiocrazia vivevano in Francia, paese di industrialismo non ancora maturo.

Per i fisiocratici l’origine del valore è da ricercarsi nella produzione, in questo modo superando l’assunto dei mercantilisti secondo il quale sarebbe lo scambio ad incrementare la ricchezza.

A questo punto ci si poneva l’interrogativo su quale tra le attività umane fosse più idonea a creare questa eccedenza. Per rispondervi i fisiocratici proponevano la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo, il primo dei quali fornisce un prodotto superiore ai costi. Tuttavia l’assenza di una teoria generale del valore li porterà a identificare nella terra il solo fattore in grado di creare un plusvalore.

I fisiocratici non ignoravano la circostanza dell’accumulazione crescente di capitale nell’industria, e arrivarono a concludere che, se vi è trasferimento di un reddito agli individui, il loro apporto al prodotto nazionale è comunque nullo.

Quesnay solo noterà i rendimenti crescenti in quell’attività agricola in cui sono investiti abbondanti capitali e se non giungerà ad affermare la produttività del fattore capitale, ammetterà che la stessa agricoltura sarebbe destinata ad inaridirsi senza quegli investimenti.

Per Marx il tentativo operato dal Tableau économique di rappresentare l’intera produzione del capitale come un processo di riproduzione, la circolazione semplicemente come la forma di questo processo, e la circolazione del denaro solo come un momento della circolazione del capitale, fu la più geniale idea dell’economia politica.

La dottrina fisiocratica è il primo sistema che analizza la produzione capitalistica nel suo insieme, che rappresenta le condizioni entro le quali il capitale viene prodotto e si riproduce.

D’altra parte sembra ancora una riproduzione borghese del sistema feudale. Le sfere industriali nelle quali lo sviluppo del capitale si verifica prima che altrove, appaiono “improduttive”, appendici dell’agricoltura. Il proprietario fondiario appare perciò come il vero e proprio capitalista, colui che si appropria del pluslavoro. Il feudalesimo viene così riprodotto e spiegato all’interno della produzione borghese, mentre l’agricoltura viene rappresentata come la branca produttiva in cui esclusivamente si manifesta la produzione capitalistica, cioè la produzione del plusvalore. Il feudalesimo viene imborghesito, la società borghese assume un’apparenza feudale.

Le forme borghesi appaiono nelle forme della produzione naturale. Il merito dei fisiocratici è avere concepito queste forme come fisiologiche della società, che scaturiscono dalla necessità naturale della produzione, indipendenti dalla volontà, dalla politica, ecc. L’errore dei fisiocratici consiste invece nell’aver esteso la legge materiale di una determinata fase storica a tutte le successive forme sociali.

Questo sistema per primo spiega il plusvalore con l’appropriazione di lavoro altrui, e spiega questa appropriazione sulla base dello scambio di merci, ma non concepisce il valore in generale come lavoro sociale, e il plusvalore come pluslavoro. Definisce il valore come semplice valore d’uso, e il plusvalore come un semplice plusprodotto, dono della natura, la quale restituisce al lavoro, per una data quantità di materia organica una quantità maggiore.

Al di là degli errori teorici dei vari esponenti della scuola fisiocratica, questa contraddizione deriva dalla produzione capitalistica stessa, che si sta ancora aprendo la via per trarsi fuori dalla società feudale. Si limita a interpretare la società feudale in modo borghese. Ma non ha ancora trovato la sua forma specifica.

Perciò anche nelle conseguenze tratte dai fisiocratici l’apparente glorificazione della proprietà fondiaria si rovescia nella sua negazione economica e nell’affermazione della produzione capitalistica.


Storia del Kazakistan

Il moderno Stato del Kazakistan si è sviluppato in un area caratterizzata per parecchi secoli da una grande mobilità della popolazione. Questo è uno dei motivi per cui il trapasso nella modernità capitalistica è stato segnato da fasi di crisi che talora hanno assunto un andamento catastrofico. Lo sviluppo demografico vi ha subito drammatiche cesure che ne hanno stravolto a più riprese la compagine sociale con vistose alterazioni nella composizione etnica del paese. Fra queste esodi di massa di genti kazake verso i paesi limitrofi (ad esempio, ancora oggi un milione e mezzo di kazaki vive in Cina), e deportazioni in Kazakistan di interi gruppi etnici (come i tedeschi e i tatari del Volga e gli ucraini).

Si aggiungono le carestie che hanno causato la morte per fame di una quota significativa della popolazione: almeno tre volte in soli venti anni fra la seconda metà del secondo decennio e la metà del quarto decennio del XX secolo. Tali cataclismi prepararono il terreno per l’immersione del Paese nelle acque vorticose del capitalismo.

Due sono state le tappe fondamentali che hanno scandito questi grandi cambiamenti epocali: prima l’entrata dell’ampio territorio che oggi chiamiamo Kazakistan nella sfera dell’influenza della Russia zarista; seconda, sopraggiunta dopo una breve e convulsa fase rivoluzionaria, la controrivoluzione staliniana che per l’intera area geostorica centroasiatica, corrispondente all’affermarsi del capitalismo, sebbene si presenterà sotto il paludamento “socialista” dell’Unione Sovietica.

L’assenza di una borghesia autoctona, capace di affermarsi attraverso una rivoluzione nazionale, ha fatto sì che l’impianto di uno Stato moderno sia stato il prodotto di due forme di dominazione esterna: quella coloniale della Russia semifeudale zarista e quella dell’imperialismo borghese “sovietico”.

L’occupazione russa del Kazakistan, se risale ai primi anni del Seicento, non giunse a compimento prima della seconda metà dell’Ottocento quando, nel 1864 le truppe zariste arrivarono al Sir Daria, il grande fiume tributario del Lago d’Aral.

Kirghisi e kazaki, con una notevole affinità etnica e linguistica, non ancora usciti dal nomadismo, erano entrambi rimasti in gran parte estranei alle grandi civiltà limitrofe, nell’immensità della steppa centroasiatica. La parola kazak, deriva dal termine turco-tartaro “qazak” che significa “uomo libero”, e dunque anche “nomade”. A tale radice risale anche la parola russa “cosacchi”. L’adesione dei Kazaki all’Islam, fatto risalente addirittura al X secolo, a causa della loro vita nomade non aveva modificato troppo i loro antichi costumi, la legge coranica era poco conosciuta e nella steppa non c’erano né moschee né scuole religiose. Soltanto gli strati dominanti della società avevano una qualche dimestichezza con l’Islam.

Un primo tentativo di “civilizzazione” delle regioni settentrionali dell’attuale Kazakistan cadute nella sfera di influenza russa si ebbe ai tempi di Caterina II, la quale, una volta sconfitta la rivolta di Pugacev nel 1775, intraprese un’opera di pacificazione con le popolazioni di lingua turca, che pure si erano unite all’usurpatore cosacco. Convinta dell’opera civilizzatrice dell’Islam per i popoli nomadi l’imperatrice, illuminata e amica di Voltaire, fece erigere moschee e scuole coraniche invitando a lavorarci mollah e maestri scelti fra i dotti tatari del Volga, che da allora divennero i mediatori politici e culturali fra i russi da una parte e i kazaki e kirghisi dall’altra. In seguito il tartaro divenne la lingua delle élite delle popolazioni turche dell’impero zarista e Kazan centro di irradiamento della cultura tatara.

La politica russa di integrazione delle popolazioni turche centroasiatiche subì una svolta dopo le manifestazione di malcontento, non prive di sentimenti antirussi, che nei tardi anni ’50 dell’Ottocento seguirono la guerra di Crimea. Il governo dette allora inizio a una politica di diffusione della cultura russa e nacquero scuole russo-kazake nel cuore delle steppe. Nella ristretta élite kazaka la cultura russa venne vista da taluni come una occasione di modernizzazione.

Verso la fine dell’Ottocento le varie tribù dei kazaki messe insieme assommavano circa 2 milioni e mezzo di individui, mentre i loro parenti kirghisi erano in tutto circa 300.000.

In considerazione della scarsissima popolazione su un’area tanto vasta (la densità arrivava a stento a un abitante per chilometro quadrato), dell’estrema arretratezza economica e della grande fertilità del suolo, il Kazakistan divenne la meta di un notevole movimento migratorio di coloni russi che vi si impiantarono stabilmente. Una grossa ondata migratoria si ebbe nel 1892-1893, suscitando aspre frizioni con i nativi. Frequenti erano gli scontri fra le due comunità con assassinii e rapimenti reciproci.

Nei primi anni del Novecento la riforma agraria legata al nome del ministro zarista Piotr Arkadevich Stolypin, con la liquidazione delle comuni agricole e l’espulsione della forza lavoro ebbe come effetto la migrazione in Siberia e in Kazakistan di diversi milioni di contadini russi. In terra kazaka i nuovi coloni sottrassero terre ai pascoli dei nomadi, alimentando ulteriormente il loro malcontento.

Le tensioni fra kazaki e russi si acutizzarono con la prima guerra mondiale. Nel giugno del 1916, in seguito al deterioramento della situazione militare al fronte e in un momento di grave carestia, un decreto imperiale ordinò il reclutamento nell’esercito zarista della popolazione maschile dell’Asia Centrale, della Siberia e di alcune regioni del Caucaso. Ai kazaki di andare a morire per lo zar non andava affatto. Le pattuglie russe procedevano all’arruolamento dei nativi col sostegno dei coloni armati, che spesso si impadronivano del bestiame dei nomadi in fuga. L’urto divenne inevitabile: kazaki e kirghisi uccisero più di 3.000 contadini russi, mentre circa 200.000 nativi furono eliminati in massacri spaventosi e un numero analogo si rifugiò nell’Asia Centrale cinese. Lo zar affidò al generale Kuropatkin il compito di pacificare l’intera regione centroasiatica.

La rivoluzione di febbraio del 1917 non suscitò particolare entusiasmo fra i kazaki. La struttura ancora tribale della loro organizzazione sociale non offriva motivazioni sufficienti ad inserirsi nel processo rivoluzionario. La sparuta élite kazaka non era neanche nelle condizioni di aspirare a una vera autonomia in seno allo Stato russo. Nacque così un partito moderato, l’Orda di Allash. I kazaki chiesero la restituzione delle terre occupate dai russi al governo Kerensky, il quale non aveva né l’intenzione né il potere per imporlo. La rivendicazione dell’autonomia si fece allora più forte insieme al desiderio di estromettere i russi dalle steppe kazake.

La diffusa presenza di truppe cosacche legate tradizionalmente all’autocrazia impedì per qualche tempo che gli effetti della rivoluzione d’ottobre si diffondessero sui territori del Turkestan. Un congresso di vari gruppi kazaki che facevano capo all’Orda di Allash si tenne a Orenburg dal 5 al 12 settembre del 1917 fu sostanzialmente ostile ai bolscevichi. Proclamò l’autonomia, che a questo punto trovò il favore anche dei gruppi filorussi i quali videro in essa l’unica estrema risorsa per opporsi ai comunisti.

Nel gennaio del 1918 le forze bolsceviche incominciarono l’occupazione della steppa incontrando la resistenza dei cosacchi e di gruppi kazaki. La guerra civile dilagò con maggiore asprezza quando nell’estate successiva i bianchi assunsero la direzione delle forze controrivoluzionarie. Ma presto emersero fratture all’interno di un fronte eterogeneo tenuto insieme soltanto dall’anticomunismo. L’Orda di Allash vide fallire l’alleanza con i bashkiri, che si proponeva la nascita di un’unione turco-cosacca. Il tentativo di collaborazione con il governo bianco della Siberia fallì anch’esso a causa della scarsa disponibilità delle forze controrivoluzionarie russe a favorire le aspirazioni nazionali delle popolazioni di lingua turca.

Questa riluttanza dei russi bianchi a unire le forze della reazione fu uno degli elementi che spinse le popolazioni locali ad accettare la rivoluzione e a preparare la disfatta delle forze controrivoluzionarie che fu totale quando il 26 agosto del 1920 il governo kazako dell’Orda di Allash venne disciolto e fu proclamata la Repubblica autonoma socialista kirghiza (per kirghiza si intende kazaka) nell’ambito della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Centro amministrativo della nuova repubblica fu la città di Orenburg, abitata in prevalenza da russi e che in seguito si ritrovò al di fuori del territorio del Kazakistan.

La fase della guerra civile non restò senza conseguenze neanche per la popolazione del Kazakistan. Una nuova carestia che interessò ampie regioni del territorio sottoposto al controllo dello Stato operaio colpì con notevole asprezza anche il paese dei kazaki dove secondo alcune stime fra il 1919 e il 1922 morirono circa in 400.000, il 18% della popolazione.


Rivoluzione in Germania - L’azione di marzo ’21

Nel dicembre 1920, l’ala sinistra dell’USPD si era fusa con il KPD al il di creare un partito con un maggiore numero di iscritti ma il cui programma risultò alquanto moderato. Alle elezioni di due mesi dopo questo VKPD, Partito Comunista Unito di Germania, ottenne 200.000 voti nella regione di Halle-Merseburg, tre volte di più dell’SPD. Intanto come reazione a questa tendenza elettoralistica, i comunisti di sinistra si erano già distaccati per formare il KAPD.

All’epoca il potere bolscevico in Russia era in difficoltà, la guerra civile infuriava nella Russia meridionale e in Ucraina; il 1° marzo si ebbe l’ammutinamento navale a Kronštadt. Lenin, dunque, sperava fortemente che una rivolta in Germania potesse dare respiro alla rivoluzione in Russia. Il Comintern inviò in Germania alcuni delegati, tra questi Bela Kun, al fine di sostenere e consigliare il KPD.

Kun incoraggiò il KPD a seguire la “Teoria dell’offensiva”, che Zinoviev e molti comunisti tedeschi abbracciarono, secondo cui la classe operaia poteva essere messa in moto da una serie di atti “offensivi”, in netta contrapposizione al legalismo del VKPD. Kun dichiarò sul giornale del KPD, “Die Rote Fahne”: «Le armi saranno fondamentali. I lavoratori se ne fregano della legge e prenderanno le armi ovunque possano trovarle».

Otto Hörsing, presidente socialdemocratico della Sassonia Prussiana (quasi totalmente sovrapponibile all’attuale Sassonia-Anhalt), temeva una presa del potere da parte dei comunisti. Anticipando le mosse dei comunisti, fomentò la tensione, annunciò “energiche azioni di polizia”, contro una regione “fonte costante di disordini”.

Cadendo nella provocazione i comunisti il 21 marzo 1921 indissero lo sciopero generale: circa 300.000 lavoratori aderirono, in particolare nella Germania centrale.

Il presidente del Reich Friedrich Ebert, della SPD, impose allora lo stato d’assedio su tutta la Sassonia. Lo stesso giorno il VKPD sollecitò un’estensione dello sciopero in tutto il Reich, ma le uniche regioni che parteciparono furono quelle dove c’era il potenziale per un conflitto armato. Quella che divenne nota come Azione di Marzo iniziò dunque come difensiva. I comunisti della regione la videro come una reazione simile a quella contro il Putsch Kapp del 13 marzo 1920, ma nel resto del Reich questa motivazione mancava.

Quello che i sostenitori della “Teoria dell’offensiva” speravano fungere da stimolo a una insurrezione militare generale si rivelò una lotta difensiva limitata alla regione e senza sbocco. La più consistente azione di solidarietà fu ad Amburgo con la partecipazione solo di poche migliaia di lavoratori. La classe operaia non era pronta alla rivoluzione.

L’insurrezione nella Germania centrale si ridusse sostanzialmente a iniziative di singoli comandanti dell’Armata Rossa, decisi e carismatici però privi di una salda impostazione politica.

Uno fu Max Hoelz, figlio di un bracciante e soldato di cavalleria. Nel nativo Vogtland, vicino al confine ceco, il 9 novembre 1918 aveva fondato il Consiglio dei lavoratori e dei soldati di Falkenstein e in seguito la sezione locale del KPD. Aveva organizzato anche la mobilitazione dei disoccupati della città, costringendo i proprietari delle fabbriche e i padroni di casa a sostenere i più bisognosi. A seguito del colpo di Stato di Kapp aveva raggruppato un’Armata Rossa: le sue unità motorizzate si spostavano fra città e villaggi del Vogtland, requisivano provviste, svaligiavano le banche e imponevano tasse ai capitalisti.

Sebbene avesse combattuto sui fronti orientale e occidentale, gli mancarono istruttori militari e il tempo per formare una milizia realmente efficiente. Era però un bravo propagandista, e la sua reputazione andava crescendo. I successi di Hoelz si basavano sulla guerriglia, disorientare l’avversario e continui spostamenti, tattiche che però non reggono per più di qualche giorno.

Quando nel marzo 1921 Hörsing dispose gli attacchi della polizia Hoelz era già un eroe popolare. Ciò che gli mancava più di tutto era, però, una chiara direzione politica e strategica da parte del centro del partito. Scrisse: «Si dimostra la determinazione e la solidarietà dei lavoratori, indipendentemente dalla loro appartenenza politica. Lavoratori dell’USPD, del KPD, del KAPD e dell’AAU sono tutti determinati a continuare lo sciopero finché il “socialista” Hörsing non desista dalle sue sfacciate provocazioni e ritiri i suoi uomini».

Alle riunioni di Hettstedt, Mansfeld e Eisleben furono prese decisioni riguardo contromisure militari.

L’Armata Rossa inizialmente, spinta dall’entusiasmo rivoluzionario, vinse alcune battaglie conquistando città come Eisleben, Hettstedt e Sangerhausen, sequestrando provviste e prendendo ostaggi. Auto e furgoni furono requisiti per motorizzare la rivolta e ciclisti travestiti da civili furono usati come corrieri tra le unità.

La situazione presto si capovolse. Il governo del Reich chiamò rinforzi e artiglieria: il suo obiettivo era la roccaforte operaria dell’impianto chimico di Leuna a Halle.

Nella regione di Halle-Merseberg, oggi nello Stato di Sassonia-Anhalt, nel 1921 il partito comunista era particolarmente forte. Accanto alle miniere di rame di Mansfeld e di lignite del Bitterfeld c’era una florida industria chimica incentrata sul modernissimo stabilimento Leuna. In questo piccolo distretto si concentravano più di 100.000 operai, 25.000 solo nello stabilimento di Leuna, molti dei quali provenienti da diverse parti del Reich. Qui non erano stati completamente sconfitti all’indomani del Putsch Kapp e avevano ancora abbondanti scorte di armi leggere.

Lì dal gennaio 1921 gli operai chiedevano che la settimana di 56 ore fosse ridotta a 48. Un comitato di lotta vi organizzò degli scioperi, ma la maggior parte dei militanti erano giovani operai con poca esperienza politica.

Alla fine di marzo la fabbrica fu occupata da 1.000-1.500 lavoratori. Avevano 200 fucili e diverse mitragliatrici e si erano persino costruiti un treno blindato. Tuttavia rimasero in attesa dentro lo stabilimento.

La città di Bitterfeld, che anche aveva stabilimenti chimici, era nelle mani di insorti armati. Un centinaio di militanti del KAPD guidati da Karl Plättner compirono rapine a mano armata a banche e uffici postali nel distretto, atti questi privi di reale scopo militare. Plättner era stato attivo nella politica e nel sindacato da prima della guerra e aveva preso parte alla breve Repubblica Sovietica di Brema del 1919, ma, frustrato dai fallimenti di quell’anno, aveva completamente abbandonato ogni disciplina di partito.

Piccole rivalità emersero, inoltre, tra Hoelz e Plättner, che finirono per indebolire ulteriormente le forze rosse.

La Reichswehr si spostò a Bitterfeld negli ultimi giorni di marzo. 2.000 poliziotti, con l’appoggio dell’artiglieria, assediarono lo stabilimento di Leuna. I membri del comitato d’azione offrirono di cedere lo stabilimento senza combattere ma la direzione dell’azienda richiese l’assalto della polizia.

Con la maggior parte degli occupanti fuggita, la mattina del 29 marzo la fabbrica finì sotto il fuoco dell’artiglieria. I lavoratori rimasti si arresero, la polizia li radunò e li massacrò. Le truppe di Hoelz, che avevano tentato invano di avanzare verso Halle, furono spazzate via dalle truppe governative in battaglia il 1° aprile vicino al villaggio di Beesenstedt.

Nei combattimenti furono uccisi 35 poliziotti e 150 lavoratori, dei quali 72 a sangue freddo.

Lo stato d’assedio rimase in vigore fino a settembre 1921; nel periodo furono arrestati 6.000 insorti, di questi 4.000 ricevettero pene detentive. Hoelz e Plättner stessi scontarono lunghe condanne. Quattro soldati dell’Armata Rossa furono giustiziati.

Dopo l’amnistia del 1928 Hoelz fu riammesso nel KPD (era stato espulso per “avventurismo” e “comunismo primitivo”, non tener conto dei rapporti di forza tra le classi) e nel 1929 emigrò in Unione Sovietica, dove fu salutato come un eroe, prima di diventare una delle vittime della campagna di Stalin contro i comunisti tedeschi; la sua morte fu fatta sembrare un annegamento accidentale. Plättner rinunciò al suo passato di terrorista e si riunì al KPD. Sarà poi internato nei campi di concentramento e morì mentre cercava di ritrovare la strada di casa nel 1945.

L’intera vicenda fu un disastro per il comunismo tedesco. Il KPD perse circa la metà dei suoi iscritti. Ma questo non fu il peggiore dei suoi mali. Tutte le frazioni sia del KPD sia del KAPD cercarono di trarre la lezione da questa disfatta, ma le conclusioni furono per lo più quelle sbagliate. Si possono riassumere sotto due voci: condanna assoluta e difesa incondizionata.

L’ex presidente del KPD Paul Levi pubblicò un opuscolo intitolato “Il nostro cammino contro il putschismo” in cui descriveva l’insurrezione di marzo come «il più grande putsch bakuninista della storia fino ad oggi». Il KPD lo espulse ed egli tornò nella SPD. Lenin approvò la sua espulsione, ma al contempo si rimproverò di aver avuto fiducia in Bela Kun e nell’applicazione della Teoria dell’offensiva.

Il KAPD rispose alla denuncia di Levi dell’Azione di Marzo con un opuscolo intitolato “Il cammino del dottor Levi: il cammino del VKPD”, ove difendeva strenuamente le azioni dei lavoratori rivoluzionari, sostenendo che avevano agito per autodifesa, mentre condannava il “quietismo” e l’opportunismo dei due anni sotto la guida di Levi. Tuttavia il KAPD rinnegò i metodi di Plättner.

Otto Rühle, capo di una frazione del KAPD e del sindacato AAUD, trasse un’altra lezione anch’essa estremamente errata. Facendo eco all’anarchismo, incolpava le “tendenze autoritarie” e l’influenza di Mosca. Sosteneva che gli operai avrebbero dovuto ricorrere all’occupazione delle fabbriche per costringere la borghesia alla resa, nonostante la prova lampante di ciò che era successo nella fabbrica di Leuna!

Lenin scrisse a Clara Zetkin che la critica di Levi era in gran parte giustificata, ma «mancava un senso di solidarietà con il partito (...) che esasperava i compagni», e per questo andava condannato. Lenin era attento a non sconfessare coloro che, disciplinati, avevano seguito le direttive della direzione, sebbene insensate.

L’Azione di Marzo fu combattuta per la stragrande maggioranza da operai giovani e inesperti, impazienti di successi rapidi ed infervorati dal “Kunismo”.

La risposta di Lenin fu che la forza del partito deve essere costituita da giovani ma anche da militanti più solidi ed esperti, in grado di agire con più giudizio e cautela. Ma questi in tutta la vicenda erano stati praticamente assenti. Una direzione forte e matura riconosce quando una situazione e uno stato d’animo sono rivoluzionari; in loro assenza nella classe non si devono azzardare rivolte militari. «Una rivoluzione non può essere realizzata solo con un’avanguardia», scrisse Lenin, e «decine di milioni di uomini non fanno una rivoluzione solo perché lo ordina il partito». Il successo di un’azione militare dipende da una lunga e paziente preparazione, e il partito deve saper riconoscere il momento topico nel quale l’insurrezione armata può essere decisiva.


I rapporti fra il PCd’I e l’Internazionale - Nei confronti della guerra

È iniziato a questa riunione un nuovo studio per illustrare, dapprima, la convergenza fra le posizioni della sinistra del PS in Italia con quelle della sinistra marxista nella Seconda Internazionale, perdurata fino alle tesi del secondo congresso di questa, nel 1920, per poi progressivamente divergere su questioni sia di indirizzo tattico e infine di principio.

Si iniziava affrontando l’atteggimento nei confronti della guerra imperialista.

La propaganda antimilitarista in seno al Partito Socialista Italiano era iniziata già ai primi del 1900: gli “intransigenti” di allora diedero voce all’odio delle masse proletarie contro il regio esercito, ma nella loro propaganda si intrecciavano ancora argomentazioni contraddittorie.

È la Federazione giovanile che inizia, invece, a condurre una battaglia antimilitarista più centrata con la propaganda attraverso il suo organo “L’Avanguardia” e con svariati tentativi di agitazione.

Nei primi due congressi della Federazione giovanile, rispettivamente di Bologna, settembre 1907, e di Reggio Emilia, agosto 1908, il tema dell’antimilitarismo ebbe grande risalto. Si poneva in totale aderenza con le deliberazioni del Congresso internazionale di Stoccarda del 1907, che chiamava il proletariato alla lotta contro la guerra legandola indissolubilmente all’abbattimento della dominazione capitalista.

Nel 1910, a Firenze, i giovani socialisti ribadirono e rafforzarono le loro posizioni antimilitariste.

Al congresso di Bologna del settembre 1912 i giovani si schierarono con la tendenza rivoluzionaria che ne era uscita vittoriosa al congresso del partito “adulto” a Reggio Emilia. In questo l’espulsione di Bonomi, Bissolati, Cabrini e Podrecca aveva sancito il trionfo della corrente di estrema sinistra, rafforzatasi poi al Congresso di Ancona del 1914.

In tale occasione il giovane rivoluzionario Benito Mussolini si era guadagnato notevole seguito nel PSI, tanto da entrare nella direzione nazionale e da lì a poco assumere la direzione dell’”Avanti!”.

L’evento che polarizzò le forze in seno al PSI e galvanizzò la lotta antimilitarista e antipatriottica fu la guerra di Libia del 1911-12.

Nonostante il Partito “adulto” fosse a direzione massimalista, non arrivò da esso alcun aiuto ai giovani socialisti, strenui difensori della giusta posizione contro la guerra: il PSI non poteva battersi contro la guerra libica in quanto ciò avrebbe comportato la rottura di ogni intesa con i partiti radical-borghesi.

La guerra italo-turca si inseriva in quello sviluppo del capitalismo mondiale che, nell’arco di pochi anni, avrebbe avuto sbocco nella prima guerra interimperialista. La scadenza del 1914 sarà una dura verifica per il PSI: sollecitato dai giovani, nella sua parte migliore non vi arriverà impreparato. I giovani socialisti, con articoli di giornale, conferenze e comizi tennero alto e vigoroso il sentimento di avversione alla guerra, di mobilitazione e di agitazione per il ritiro dei soldati dall’Africa.

Anche Lenin, il 28 settembre 1912 scrive della guerra in Libia e pubblica sulla “Pravda” un articolo intitolato “La fine della guerra dell’Italia contro la Turchia”, ove delinea mirabilmente come le caratteristiche di questa guerra fossero del tutto assimilabili a quelle condotte da tutte le borghesie nazionali: «Che cosa ha provocato la guerra? La cupidigia dei magnati della finanza e dei capitalisti italiani (…) Che cosa è stata questa guerra? Un macello di uomini, un massacro di arabi con armi “modernissime” (…) Certo, l’Italia non è né migliore né peggiore degli altri paesi capitalisti, tutti egualmente governati dalla borghesia, la quale, per una nuova fonte di profitti, non indietreggia davanti a nessuna carneficina».

Le posizioni della gioventù socialista e della frazione di sinistra del PSI nei confronti della guerra risultarono, nel tempo, sempre totalmente combacianti con quelle di Lenin.

Il proletariato italiano si oppose compatto all’impresa di Tripoli e se lo sciopero generale del 27 settembre, a ridosso della dichiarazione di guerra, non conseguì gli effetti attesi è da imputarsi solo a chi lo aveva indetto al solo scopo di sabotarlo, cioè, congiuntamente, la Direzione del partito, il gruppo parlamentare e la CGL.

Nell’aprile del 1914 si svolse ad Ancona il XIV Congresso del Partito Socialista, i cui aderenti erano nel frattempo raddoppiati: esso suggellò la vittoria dell’ala massimalista e la sconfitta dei riformisti (turatiani), ancora, però, dominanti nel gruppo parlamentare e nella Confederazione Generale del Lavoro.

E fu da una manifestazione antimilitaristica che scoccò la scintilla che fece esplodere le sommosse della Settimana Rossa (7-14 giugno 1914), evento che giunse all’apice di quella ondata di scioperi che aveva scosso tutta l’Italia tra il ’12 e il ’14 e a ridosso (4 agosto) dello scoppio della prima guerra mondiale. In quella occasione si consumò il tradimento di tutti i socialisti dei paesi entrati in guerra e la definitiva deriva della Seconda Internazionale.

Anche all’interno del partito italiano in pochi, perfino tra i massimalisti, ritenevano obbligatorio il disfattismo rivoluzionario come Lenin lo teorizzava per ogni Stato imperialista borghese. Il Partito Socialista Italiano si dichiarò per la neutralità, ma la Frazione di sinistra denunciò immediatamente l’insufficienza di tale formula e sostenne la necessità del disfattismo rivoluzionario, dell’adozione di mezzi di intervento di classe quale lo sciopero generale in una prima fase e successivamente di effettiva offensiva rivoluzionaria, nella consapevolezza di una indispensabile trasformazione della guerra imperialista in guerra civile.

Per la direzione del Partito tutto invece si riduceva a una opportunista invocazione della neutralità. Addirittura il 1° settembre l’”Avanti!” era arrivato a scrivere: «I socialisti non ammettono che una sola ipotesi di guerra, quella necessaria per respingere una eventuale invasione». Dunque il Partito Socialista non escludeva “un tipo di guerra” per il quale il proletariato avrebbe dovuto donare il proprio sangue alla borghesia nazionale.

Lenin nel settembre 1914 in “La Guerra Europea e il socialismo Internazionale” scriveva entusiasta della apparente giusta presa di posizione del Partito Socialista italiano, apprezzamenti che verranno ripetuti il 9 gennaio 1915 in “E Adesso”. In realtà Lenin non riponeva molta fiducia nel partito italiano ma si servì di tale esempio solo per staffilare i partiti socialisti che avevano apertamente aderito alla guerra.

Intanto in Italia nei pur minacciosi articoli di Mussolini si potevano già scorgere cedimenti al blocco delle nazioni “democratiche”. Furono i giovani socialisti a rendersene conto e a intravedere la tragica svolta. Esemplare il loro articolo “L’Avanti! e la guerra” pubblicato su “Il Socialista” il 17 settembre 1914. Il 18 ottobre Mussolini rese esplicito il suo tradimento pubblicando sulla terza pagina dell’”Avanti!” un lungo articolo: “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante” in cui sosteneva che la neutralità avrebbe comportato per il partito la condanna all’”isolamento politico”. I giovani socialisti subito risposero, ne “Il Socialista” del 22, con l’articolo “Per l’antimilitarismo attivo e operante”.

Perfino il giovane Gramsci aderì alla tesi interventista di Mussolini, di cui dette dimostrazione nell’articolo “Neutralità attiva ed operante” scritto su “Il grido del popolo” del 31 ottobre.

Da parte sua la Direzione del partito non riuscì che a formulare la pilatesca formula lazzariana del “né aderire, né sabotare”. La posizione della frazione di Sinistra fu, invece, subito di tutt’altro tenore: «All’ordine di mobilitazione rispondere con lo sciopero!». Perché: «Noi non eravamo né neutralisti né pacifisti [...] Noi deploravamo il disarmo della lotta di classe, della guerra di classe, per far largo alla guerra nazionale [...] Noi eravamo i veri interventisti di classe, interventisti della rivoluzione» (da Storia della Sinistra, Vol I). Tramite simili colpevoli ambiguità il PSI era riuscito in qualche modo a “salvarsi l’anima”.

Un primo tentativo di riannodare le relazioni internazionali tra i partiti socialisti per un’azione a favore della pace fu la riunione di Lugano del 27 settembre 1914 tra socialisti italiani e svizzeri la quale, nonostante l’esito, rappresentò una prima presa di posizione di condanna della guerra e di quel movimento antimilitarista che si delineò sempre meglio nei successivi incontri internazionali di Zimmerwald (settembre 1915) e Kienthal (aprile 1916).

La Frazione di sinistra e i giovani socialisti mantennero sempre la giusta posizione. Se ne ebbe conferma quando, alla vigilia dell’entrata dell’Italia nel conflitto, il principio disfattista dello sciopero generale fu da essi fermamente propugnato al convegno del 16 maggio 1915 a Bologna.

I giovani socialisti si espressero risolutamente anche circa la necessità, alla fine della guerra, della scissione della Internazionale socialista, che i vecchi capi, manifesti traditori nell’agosto del 1914, andassero respinti «al di là del vero abisso che separa i marxisti rivoluzionari da tutti i transfughi in campo social patriottico».

La critica dei giovani agli organi direttivi del partito, che avevano assunto un atteggiamento sostanzialmente pacifista e gradualista, divenne sempre più aspra.

La Federazione giovanile fece anche chiara richiesta di «imporre alla Confederazione generale del lavoro un indirizzo nettamente classista». A settembre del 1917, al congresso che riuscì a tenere a Firenze, dette la piena adesione alla Frazione intransigente rivoluzionaria e all’ordine del giorno sull’Internazionale.

L’organo della Federazione giovanile, a cui da subito apparve inequivocabile la sua collimanza completa con l’opera dei bolscevichi e i dettami fondamentali del marxismo, mostrerà grande attenzione alle notizie della rivoluzione russa e della vittoria di Ottobre e dimostrerà sempre più manifesta la sua posizione nella futura battaglia tra l’ala sinistra del Partito Socialista e le forze reazionarie annidate nelle sue file, di cui era urgente disfarsi.

(Fine del resoconto al prossimo numero)

 

 

  


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I tradizionali simboli del comunismo nell’uso nel partito

Evidentemente non è una questione di principio: non possiamo certo escludere a priori alcuna forma espressiva. Stendardi, vessilli e mostrine sono armi, arnesi per la guerra. Un corno, un tam-tam, un totem, a confortare gli amici e minacciare i nemici, in date circostanze, sono davvero necessari.

Ma ora non siamo in guerra. Siamo sì in guerra, ma con le parole, con la carta stampata, ove si confrontano tesi, interpretazioni e lezioni di guerre passate. Per questa guerra di oggi i simboli fanno più male che bene. Fino a potersi ritorcere contro di noi. I simboli, le immagini, possono essere ancora più bugiardi e ingannatori delle parole.

La Seconda Internazionale nascose il suo tradimento dietro dolci immagini di albe radiose, sopra spighe e incudini. Molti proletari furono ingannati da quella retorica e, credendo di andare verso il nascente rosso sole del socialismo, si ritrovarono a massacrarsi nelle trincee della prima guerra mondiale.

Anche lo stalinismo ha affogato il comunismo in un dilagare di vernice rossa, con falci e martelli impugnati da muscolosi operai, sullo sfondo dei santi fondatori, da Marx a... Enver Hoxha. Oggi ci troveremmo a contendere quei simboli a uno dei massimi Stati del capitalismo mondiale.

Quando il partito andò riorganizzandosi negli ultimi anni della seconda guerra mondiale vi era diffusa l’illusione che il secondo dopoguerra sarebbe stato fertile di rivoluzione come il primo. Molti compagni si atteggiarono conseguentemente, preparandovisi in ogni modo. Fra cui mostrarsi alla classe fregiati dei simboli tradizionali che erano stati del comunismo e della Terza Internazionale.

Tutto questo era frutto di una troppo ottimistica valutazione di quella situazione storica. Il partito se ne convinse appieno solo nel 1952. Chi non volle accettare che la rivoluzione era per il momento rimandata abbandonò il partito.

Cedette, dicemmo, all’“attivismo”. Questo non significa fare attività, una intensa attività di propaganda di penetrazione nelle file operaie, ma la pretesa di cambiare il corso della storia attraverso strumenti organizzativi e, privi di principi, andare a scuola del “movimento”.

Da allora abbiamo – temporaneamente – messo in disparte anche ogni iconografia. Non perché vogliamo allontanare il partito dalla vivente classe operaia e farne un circolo di studio e di pubblicazioni.

Ma presentarci dietro un simbolo – che quello per primo si vede – avrebbe fatto solo confusione, ci avrebbe in una qualche misura avvicinato ad altri e reso più difficile il compito di definizione della dottrina.

Bei titoli di nostri periodici erano stati “Il Soviet”, forma del potere proletario in Russia, “Prometeo”, quello che rubò il fuoco agli dei, e “Spartaco”, lo schiavo ribelle. Ma li volemmo chiamare allora, senz’altro, “Il Programma Comunista”, poi “Comunismo” e “Il Partito Comunista”.

Dopo molti decenni di controrivoluzione staliniana e post-staliniana è necessario che il programma del partito sia individuato nel modo più preciso attraverso le sue originali antiche posizioni tattiche e di principio.

La rivoluzione sarà il prodotto del ritorno sulla scena sociale di forze storiche reali, non di una forma di organizzazione particolarmente volenterosa e visibile. Il fatto organizzativo, che pure ha la sua importanza, non deve sovrastare, mettere in secondo piano il dirompente contenuto del nostro programma. Vogliamo essere riconosciuti come il partito del comunismo, non solo e non tanto come una organizzazione, in concorrenza con le altre. Occorre non distrarre l’attenzione dei compagni da una rigorosa delimitazione programmatica, prima che organizzativa.

Il partito ha una organizzazione ma non è una organizzazione.

Diverso il caso del sindacato, che per prima cosa è una organizzazione: in esso elemento fondamentale è la forza numerica, di soli lavoratori. Un esercito che indossa camicie rosse sembra più numeroso di quanto è. La classe operaia si organizza per uscire dalle fabbriche, vedersi e farsi vedere, ed andare a occupare le piazze, con ogni strumento utile: bandiere, grida, slogan, musica, inni, magliette, distintivi, ecc. ecc.

Da cosa si riconoscono i comunisti

Noi ci chiamiamo “Partito Comunista Internazionale”. Tre parole dicono quasi tutto. E per il momento è un nome più grande di quello che siamo! Non abbiamo nulla da inventare. Domani, quando ce ne sarà bisogno, simboli e bandiere verranno fuori da sé.

E oggi i nostri compagni non hanno timore, in ogni situazione, a dichiararsi, semplicemente, “internazionalisti”, individualmente e come gruppi.

Come nella folla ci riconosciamo fra comunisti? Rispondiamo che i comunisti devono essere così ben inquadrati (anche nelle manifestazioni di piazza), solidali e allenati, negli atteggiamenti, nel linguaggio, nella battaglia e nel lavoro comune, da conoscersi molto bene da tempo, o di potersi “annusare” anche al primo incontro. Troppo ingenuo affidarsi a un facilmente falsificabile segnetto sul cappello o sul risvolto della giacca.

Ma come ci riconosceranno le masse ignoranti, che nulla sanno di marxismo e della storia e non hanno tempo di leggere la stampa comunista?

Verrà il momento che seguiranno le nostre bandiere. Ma questo avverrà quando, per lo sviluppo della pratica lotta fra le classi, le avranno potute riconoscere, associare a un dato indirizzo di battaglia, che hanno cercato, sperimentato e accettato.

Per il momento, nell’abuso mediatico di simboli e immagini, possiamo farci riconoscere solo con le nostre parole e con il nostro caratteristico atteggiamento di serietà e coerenza.

Le vesti, nelle società di classe, sono importanti, perché quelle si vedono. Non a caso i preti indossano la tonaca e i giudici l’ermellino. Questo noi comunisti, che non siamo idealisti, lo sappiamo. I comunisti invece non hanno mai indossato uniformi.

Ma la rivoluzione non è il prodotto di una campagna pubblicitaria ben organizzata, meglio di quella dei borghesi. Altrimenti saremmo perduti! Sarà l’esperienza pratica della classe operaia, in guerra sociale contro la borghesia e il suo Stato, durante la quale avrà potuto provare la giustezza dell’indirizzo del partito, a rendere possibile il ricongiungimento del partito con la classe.

 

 

 

 


Omosessualità-transessualità e comunismo
Brevi note storiche

Rapporto alla riunione generale del settembre 2021


Il comunismo primitivo

La stragrande maggioranza del tempo che gli esseri umani hanno trascorso sulla Terra è in quello che il marxismo ha chiamato comunismo primitivo, le società di cacciatori-raccoglitori. Esistono prove che il comunismo primitivo era privo di omofobia e transfobia. La prima registrazione storica di sciamani transessuali risale agli scritti di Erodoto sugli sciti.

Nonostante gli effetti devastanti del contatto con il colonialismo europeo, è stato osservato che più di 150 tribù di nativi americani avevano ancora raccoglitori maschi, e un terzo dei cacciatori erano donne. Le cacciatrici tendevano a formare relazioni affettive e sessuali con i raccoglitori, mentre i raccoglitori maschi tendevano a farlo con i cacciatori. Le donne cacciatrici non erano discriminate, si occupavano della guerra e spesso erano associate allo sciamanesimo. Il fenomeno è stato osservato nelle comunità native in Siberia, Birmania, Malesia, Borneo, Vietnam, India e Cina.

Grecia e Roma

L’omosessualità e la transessualità erano comuni nell’antica Grecia e a Roma. Verso la fine dell’era repubblicana a Roma l’omosessualità maschile divenne un reato punito con una multa. Fu soprattutto con l’ascesa del cristianesimo che si intensificò la repressione. In Cina le correnti confuciane proprie della classe dominante espressero opinioni omofobiche all’incirca nello stesso periodo. L’omofobia e la transfobia si sono sviluppate come una conseguenza tardiva dell’ascesa delle società di classe basate sulla famiglia monogama patriarcale.

La borghesia

Dopo la presa della Bastiglia a Parigi, il 14 luglio 1789, chiarito subito al Quarto stato che i principi impressi nella bandiera rivoluzionaria, liberté, egalité, fraternité, dovevano intendersi riserva esclusiva della borghesia e dei ceti loro alleati, l’Assemblea Costituente nel 1791 con nuove ordinanze e normative depennò dalla lista nera i “comportamenti devianti”, fino ad allora punibili anche con il rogo, sotto l’autorità giudicante dei tribunali ecclesiastici.

La Francia rivoluzionaria borghese quindi divenne la prima nazione europea ad affrontare con una nuova lente la questione omosessuale, apportando modifiche rilevanti contro il pregiudizio religioso e medievale e abolendo i tribunali ecclesiastici e la legislazione antisodomitica, circoscrivendo tale problematicità all’interno della tematica dello stupro, cioè della violenza. Nel Codice napoleonico, promulgato nel 1810, si chiariva che nel reato di stupro erano da considerare indistintamente le persone di sesso sia maschile sia femminile.

Con tali atti legislativi agli omosessuali veniva garantita la tolleranza della legge nei loro intimi rapporti, benché l’omosessualità e la transessualità continuassero ad essere considerati immorali e sottoposti a vessazioni legali secondo il vago criterio della moralità e dell’ordine pubblico.


Evoluzione recente

Al congresso dei giuristi tedeschi del 1867 si tornò a rivendicare la fine delle discriminazioni penali nei confronti delle persone di diverso orientamento sessuale. Il neologismo “omosessualità” appare in una lettera indirizzata al ministero della giustizia di Prussia nel 1869. Il termine transessualità fu coniato nel 1923 dal socialdemocratico tedesco Hirschfeld.

Nel 1969 in un locale pubblico di Manhattan si hanno violenti scontri tra la polizia e numerosi gruppi di omosessuali. Gli omosessuali iniziano a rivendicare limitati diritti giuridici a partire dalla metà degli anni Settanta. Negli anni Novanta attorno alla sigla LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali) si raccoglie una consistente minoranza transnazionale, nonché interclassista, con diversi orientamenti sessuali e con problematicità specifiche, che dà vita a movimenti rivendicativi tendenti alla fine di ogni discriminazione giuridica, economica e culturale.

I rapporti tra omosessuali furono decriminalizzati in Polonia nel 1932, in Danimarca nel 1933, in Svezia nel 1944, nel Regno Unito nel 1967. Nel 1973 l’American Psychiatric Association rimosse la precedente definizione dell’omosessualità come “disordine mentale”. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha derubricato nel 1990 l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Nel 1977 il francofono Quebec, primo in occidente, iniziò a proibire ogni discriminazione in base all’orientamento sessuale. In seguito la maggioranza delle nazioni sviluppate ha revocato le norme che consideravano un crimine l’omosessualità e concesso limitati diritti. La resistenza maggiore permane in Stati del Medio Oriente, asiatici, africani e caraibici; in una decina di nazioni l’omosessualità è ritenuta passibile di condanna anche con l’ergastolo e finanche la pena di morte.

La Chiesa cattolica nel suo Catechismo definisce l’omosessualità inclinazione “oggettivamente disordinata” e si oppone alla equiparazione della coppia omosessuale con quella etero.


Il marxismo

Nonostante le aggressioni provenienti da tante vulgate tendenti a far passare il socialismo scientifico e il proletariato in generale, fin dalle origini, insensibili e sordi, se non ostili, alla condizione degli omosessuali, il marxismo, al contrario fin dalle origini le ha sempre assimilate a quelle delle altre minoranze discriminate (fanciulli, donne, minoranze etniche e religiose), senza negarne gli aspetti specifici. Ma il marxismo inquadra, coerentemente con la propria rivoluzionaria visione del mondo, tutte queste contraddizioni e rivendicazioni all’interno di una determinata realtà sociale di classe, in opposizione alle variegate concezioni interclassiste borghesi che non vedono e non possono vedere che è quella fra le classi la contraddizione primaria.

Diamo la parola a Carlo Marx in Manoscritti economico-filosofici del 1844.
     «Il rapporto immediato, naturale necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto dell’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè con la sua propria determinazione naturale.
     «Così in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto a un fatto di intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza dell’uomo. In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà in cui l’uomo è giunto.
     «Dal carattere di questo rapporto si ricava fino a quel punto l’uomo come essere appartenente a una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo. In esso si mostra sino a che il punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità».

Abbiamo esplicitato e commentato questo passo nel numero 17 di Programma Comunista del 1959.

Carlo Marx imposta il discorso sotto la lente della dialettica materialistica della natura, considerando i diversi orientamenti sessuali in stretta connessione con la famiglia e la società e l’evoluzione materiale e storica di questi istituti.
La dottrina del marxismo è distante sia dal bigottismo religioso e conservatore sia da ogni concezione liberale, concezioni tutte lontane da un rapporto, armonioso, sinergico, fra gli uomini, fra uomo e donna, fra uomo e natura.
Il punto centrale del discorso di Marx è che la relazione eterosessuale è un atto funzionale alla riproduzione biologica della specie, in questo senso il rapporto uomo-donna è quello “più naturale”.

Nessuna condanna in Marx quindi verso altri orientamenti sessuali o definizione di questi orientamenti diversi come “non naturali”.

Certamente è implicito in questo discorso che in una società non più fondata sullo sfruttamento e dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, e non più fondata sull’esistenza e divisione in caste, classi e combriccole, tali conflitti, al cui fondo vi sono sempre degli interessi economici, verrebbero quasi a cessare del tutto. Contrariamente ad oggi che, nella fase della putrescenza delle classi borghesi e del modo di produzione capitalistico, tendono ad accentuarsi.


Lenin

Nella famosa conversazione con Clara Zetkin nell’autunno del 1920 Lenin si preoccupava e si raccomandava che la questione venisse trattata rigorosamente con il metodo del materialismo storico. La stessa impostazione si evince da una lettera del 1915 indirizzata a Inessa Armand. Per Lenin la rivoluzione proletaria e il suo consolidamento sono la condizione per liberare nuovi rapporti tra i sessi. Primi e fondamentali sono il riscatto femminile e la questione della famiglia. L’argomento della omosessualità va in essa inquadrato come impostazione dottrinaria.

Come abbiamo scritto in “Oppressione della donna e rivoluzione comunista”, del 1979: «Combattiamo l’ideologia del “libero amore” solo in quanto si pretende sostituirla alla rivoluzione come mezzo per risolvere definitivamente anche il problema dei rapporti fra i sessi (...) La ricerca del libero amore, se depurata da tutte le ideologie radical-borghesi e dall’anatema di conservatori e reazionari, è un aspetto dell’affermazione di se stesse – in quanto persone (...) Forme nuove dei rapporti fra i sessi non possono affermarsi senza spezzare tutto quanto l’ordine sociale esistente, ma il processo che porterà verso questa finalità è individuabile già oggi nella strada indipendente che tante donne stanno faticosamente percorrendo».


L’Ottobre

La Russia sovietica con la promulgazione del nuovo codice penale del 1° giugno 1922 diviene, dopo la Francia del 1789, il secondo grande paese a legalizzare l’omosessualità e i rapporti fra adulti consenzienti.

L’Ottobre rosso investe contemporaneamente tutti gli aspetti economici, sociali, culturali, familiari, proiettando in nuove dimensioni la condizione delle donne e degli omosessuali.

Legalizzazione del divorzio e dell’aborto, uguaglianza giuridica di tutte le unioni e di tutti i figli comunque e ovunque concepiti, insieme a una politica di sostegno sociale (asili, ambulatori, luoghi di intrattenimento, cucine e lavanderie pubbliche, ecc.), sono fra i primissimi interventi dei comunisti. Si emettono nuove normative sul lavoro in fabbrica, le otto ore giornaliere, le pause pranzo, il giorno libero settimanale, le ferie retribuite, il divieto di lavoro per i minori di 14 anni.

Per Lenin si trattava di procedimenti radicali, ma ancora nell’ambito del “diritto”. Ma dimostrano il nuovo stadio raggiunto della dittatura del proletariato rispetto alla Francia rivoluzionaria.

Già nel 1917 sono abrogate tutte le norme giuridiche discriminatorie contro la sodomia, previste nel codice penale zarista. I tribunali sovietici approvavano anche il matrimonio fra omosessuali e negli anni Venti si assiste perfino a casi registrati di operazioni di cambio di sesso.

Queste libertà sono concesse, per esempio, anni prima che le donne occidentali ottengano il diritto di voto e un secolo prima che vi siano abrogate le leggi contro l’omosessualità.


Controrivoluzione

Tutte le affermazioni dell’Ottobre rosso, economiche, sociali e culturali, subirono gradualmente in Russia una revisione involutiva col declino della dittatura del proletariato, la emarginazione delle frazioni rivoluzionarie e il ripiegamento delle forze marxiste in occidente. Già nel 1925 i legislatori del Turkestan resero nuovamente punibile l’omosessualità. Nel 1926 gli omosessuali furono definiti “non proletari”. Finché nel 1934 una nuova norma del codice penale reintrodurrà il carcere per il reato di sodomia. Al contempo nuove norme imporranno limitazioni e pastoie su divorzio e aborto. Nell’era staliniana torna l’approvazione e il sostegno ufficiale alla famiglia tradizionale, cellula base del nuovo Stato nazionale funzionale alla difesa dei canoni del modo di produzione capitalistico.

Sarà la sinistra comunista, in linea con la eredità rivoluzionaria bolscevica, a riannodare tutti i fili rossi dell’Ottobre spezzati dal “termidoro”, anche sulla problematica sessuale e omosessuale.


Il movimento LGBT

Il partito comunista riconosce che gli individui LGBT, come quelli di altri gruppi oppressi, hanno problemi particolari che sono portati ad affrontare praticamente. E riconosce l’esistenza di fatto di un movimento che rivendica una parità giuridica e sociale.

Un collegamento con il movimento operaio si ebbe, per esempio, negli Stati Uniti degli anni ’30 e successivi quando la Stewards Union si aprì sia agli omosessuali sia alle varie razze. Il maccartismo portò anche a purghe di afroamericani e di omosessuali dai sindacati. Si osserva però che in quella fase quel movimento tendeva ad essere circoscritto in una sfera culturale ed esistenziale, slegato dalla lotta di classe.

Al movimento degli omosessuali – come a quello delle donne o delle minoranze razziali o nazionali – il comunismo indica di affiancarsi nella lotta a quello della classe operaia, in organizzazioni distinte, per le loro giuste rivendicazioni, unitariamente a tutto il proletariato.


Il comunismo

Oggi la borghesia concede agli omosessuali e transessuali la possibilità di creare propri nuclei familiari attraverso il matrimonio, che non manca di replicare tutti i mali della famiglia eterosessuale tradizionale, compresi i ruoli sociali del maschio e della femmina e l’arbitrio proprietario sui figli.

Solo con l’abolizione della società divisa in classi si possono gettare le basi per scardinare l’istituto della tradizionale famiglia monogamica come asse centrale della società. Solo nel comunismo sarà superato l’insieme dei ruoli sociali, affettivi e sessuali specifici assegnati ai generi nella famiglia monogama, insieme alle rigide distinzioni tra i vari orientamenti sessuali.

La fine di ogni discriminazione è connessa con il successo del comunismo, che solo può accogliere ogni spinta di emancipazione in risultati non transitori della infinita e multiforme affermazione umana.