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PAGINA 1
Dopo anni di crisi succedute senza sosta, superate solo per ricadere in altre ancora più profonde, dopo due anni di una pandemia che ha concorso a bloccare gli ingranaggi delle produzioni, dei trasporti, della realizzazione del plusvalore, il capitalismo mondiale si volge al suo rito infernale della guerra per poter sopravvivere. Di fronte al fallimento storico e contingente del suo modo di produzione, la guerra, distruttrice di ogni regola e valore, che azzera debiti e crediti, è la risorsa finale del capitalismo per risolvere tutte le sue pendenze, le sue crisi, e per ricominciare un suo nuovo mostruoso ciclo, un bagno di giovinezza.
La guerra mondiale, armata, fra i capitali già si combatte oggi sul fronte ucraino.
È stata decisa e preparata da tempo e tutti gli Stati del mondo ne sono coinvolti: d’intesa aizzano una forsennata propaganda sciovinista e moltiplicano gli stanziamenti per il riarmo, quasi non bastasse quel che di mortale già c’è negli arsenali mondiali.
Appare ancora come una guerra locale, per procura, ma che in realtà oppone, nella vecchia e stremata Europa borghese, due fronti imperiali, fatti di Stati, consorterie finanziarie, apparati militari, centri di accumulazione.
Tutti indistintamente bastioni della contro-rivoluzione. Perché il vero ed unico nemico degli Stati, di tutti gli Stati borghesi, è la classe operaia, è il comunismo internazionale che materialmente, nelle cose stesse, preme per nascere.
L’imperialismo statunitense, che vanta la macchina da guerra più forte e allenata, ha di nuovo riunito sotto il suo comando e riportato ad un tratto all’ordine i recalcitranti componenti di quella fittizia unità sovrastatale che è l’Unione Europea.
Ma questo schieramento fra ladroni, che pare ispirato, solido e definitivo, non è detto lo sia alla prova definitiva. Per la borghesia, la borghesia della grande industria e della grande finanza globali, importante, necessario, la guerra è farla, con chi e contro di chi è questione secondaria. In ogni Stato la propaganda di guerra si adatterà docile a ogni ribaltamento di fronte.
Per questo il partito comunista non si commuoverà né spingerà il proletariato internazionale sotto una bandiera o un’altra, inchiodato alla menzogna della difesa del suo Paese, della sua “patria”.
La fine dell’impero russo
La fine della Unione malamente detta sovietica – che capitalista era ben da prima – data dai primi giorni del dicembre 1991. Alla fine dello stesso dicembre fu firmato l’accordo che ne sanciva la dissoluzione: firmatari Russia, Ucraina e Bielorussia. Da quel momento ebbe inizio una svolta cruciale nella storia dell’Europa, e una partita più complessa e mortale tra l’imperialismo più potente d’occidente, gli USA, gli Stati dell’area del blocco orientale, che tornavano nell’ambito della loro matrice europea, e le Repubbliche della defunta URSS.
La partita della guerra fredda cambiò regole, insieme anche a qualche giocatore, e dilagò travolgente su altri più estesi scenari: si allargarono gli scacchieri dello scontro tra gli imperialismi. Sorgeva intanto un nuovo formidabile competitore, la Cina, e si ridimensionava quello euro-asiatico.
La NATO, il braccio armato degli USA in Europa, che a quel punto avrebbe dovuto sciogliersi per esaurimento delle sue funzioni, dal momento che il principale avversario era imploso, ridimensionando la sua ragion d’essere militare e politica, ebbe invece nuovo sviluppo, inglobando via via i vecchi Stati del defunto Patto di Varsavia. Guai ai vinti.
L’ambiguità ucraina
Il processo di smembramento non toccò inizialmente l’Ucraina. La ex repubblica però era stata una bestia nera per l’URSS e aveva sempre mantenuto nella sua struttura una tendenza anti centralista, con connotazioni nazionaliste. Nella fase iniziale della Seconda Guerra mondiale, dopo l’invasione della Wehrmacht, ampi strati del suo corpo sociale avevano tenuto un atteggiamento collaborativo con le forze dell’Asse, ed ostacolato spesso l’Armata Rossa con una guerra asimmetrica “su tre fronti”.
Questa ambivalenza ha sempre caratterizzato la borghesia ucraina: dal 2000 fino al 2014 si sono alternati al governopresidenti filo russi e anti russi, secondo le oscillazioni dell’opportunità del momento.
Un presidente filorusso per due volte è stato eletto poi cacciato “a furor di popolo”, almeno secondo la vulgata occidentale, prima, nel 2004 dalla cosiddetta “rivoluzione arancione”, poi nel 2014 dal cosiddetto “Movimento Euromaidan”, sviluppatosi dal dicembre del 2013 al febbraio del 2014 che, a seconda delle letture pro-occidentali o pro-russe, è stato descritto come un’insurrezione di popolo o come un colpo di Stato di organizzazioni paramilitari ispirate e foraggiate dagli USA per destabilizzare in senso pro-occidentale una già complessa e difficile situazione di equilibrio, con episodi di violenza forsennata, culminati con la strage di Odessa, passata sotto silenzio ma perpetrata dalle milizie paramilitari ucraine.
I borghesi russi e ucraini – chiamati “oligarchi”, quasi fossero diversi dai grandi e potenti borghesi d’occidente – sono fratelli gemelli della medesima classe, anche se stanno, temporaneamente, da parti diverse del fronte. Come i proletari russi e ucraini, costretti a forza su fronti nemici.
Il Donbass
Anche nelle due aree ucraine ad est, al confine con la Russia, le cosiddette repubbliche separatiste russofone, ci sono ugualmente borghesi legati ai fratelli russi, e proletari russofoni oppressi da borghesi che parlano la loro lingua.
La presunta insurrezione “irredentista” di quei territori hanno voluto connotarla come un movimento nazionale per essere riconosciuti come Stati autonomi. Vi si è combattuta una sanguinosa guerra locale protratta per molti anni. Furono stilati due accordi di cessate il fuoco tra Russia, Bielorussia e Ucraina, sotto l’egida della OSCE a Minsk nel 2014 e nel 2015. Però gli scontri non sono mai cessati.
Alla fine di febbraio del 2014 con un colpo di mano militare la Russia si riappropriò della penisola della Crimea che fu incorporata nella Federazione. Cosa che per le due zone separatiste del Donbass e di Lugansk non avvenne. Nemmeno ci fu da parte russa un riconoscimento formale di queste due nuove repubbliche, anche se non cessarono i rifornimenti in armi.
La pressione della NATO
Lo Stato ucraino, subita l’amputazione della Crimea, nel suo nuovo brillante regime democratico nato dai “movimenti popolari” del 2014, non ha mai cessato le violente repressioni politiche a danno dei russofoni, ma anche di partiti dell’arco parlamentare, fino alla loro messa fuorilegge, con la repressione di ogni organizzazione avversaria al governo, fosse legale o illegale. Queste le meraviglie della nuova democrazia a similitudine dell’Occidente.
La borghesia ucraina, in nulla migliore delle altre, ha ritenuto conveniente vendersi agli americani. E più che altro, nel suo percorso verso l’Occidente, ha venduto ai capitalisti d’Europa il lavoro sotto-pagato dei suoi proletari. Poi ha chiesto l’ingresso nella Unione Europea.
Ma soprattutto l’adesione alla NATO pretendevano i “protettori” americani, che, fra le altre corruttele, avrebbe garantito un baluardo contro l’ingombrante vicino. Almeno queste erano le non taciute speranze. Per la fradicia borghesia di Ucraina quella occidentale è stata una scelta obbligata.
Del resto, in modo ufficiale, fino dal 2014 la NATO ha avuto una presenza costante di organizzazione e addestramento del disastrato esercito ucraino. È evidente che si lavorava a un allargamento dello scontro da locale per le repubbliche separatiste a un conflitto aperto e generale.
La presenza di strutture militari occidentali è un importante avamposto atlantico in territorio ucraino, anche se temporaneamente fuori dall’alleanza. In tempi più recenti addirittura facendolo zona operativa di esercitazioni NATO, sotto la presidenza del docile ex attore Zelensky (anni 2020-21), operazioni provocatorie per mettere sotto pressione il confinante russo.
Contro il proletariato in Ucraina
Il proletariato, artificiosamente distinto in parlanti russo e parlanti ucraino, sta subendo, insieme alla piccola borghesia, travolta anch’essa da crisi economica e ubriacatura nazionalista, tutti gli effetti di questa scelta di campo quando, all’invasione dell’esercito russo, la borghesia ucraina ha deciso un’isterica chiamata alle armi, a resistere fino all’ultimo uomo, aizzando alla guerra partigiana, alla guerra di popolo contro l’invasore.
In realtà la classe operaia di Ucraina non avrebbe nulla da perdere da una resa immediata della propria borghesia di fronte alla invasione russa. Simmetricamente i lavoratori di Russia non hanno nulla da guadagnare da una vittoria del proprio Stato in Ucraina.
Ma i borghesi di Ucraina volevano la guerra, come la vogliono i loro “protettori” occidentali, e come la vogliono i borghesi russi.
Tutte le borghesie in gioco, russa, ucraina e le altre, sono coscienti e responsabili delle terrificanti conseguenze di quella decisione, che ha spostato il teatro di guerra nelle città, dove l’impossibilità di individuare il fronte provoca massacri indiscriminati, dove ogni edificio può diventare punto di resistenza, imponendo all’attaccante di portare morte e distruzione.
L’orrore diventa strumento di propaganda per la parte che è in difesa, e per quanti l’appoggiano al sicuro ben lontani dai fronti insanguinati. Propaganda isterica ad eccitare lo spettabile pubblico occidentale, o ad orientarlo a una guerra di più ampie proporzioni, a stimolare l’infame alternativa “o con Putin o con l’Ucraina”.
Il compito internazionalista dei comunisti
La furia mediatica dell’Occidente – del tutto simile a quella della Madre Patria russa – non ha pari in questa guerra, ove ciascuno dei due imperialismi attribuisce all’altro ogni orrore e responsabilità del macello.
Ogni guerra tra Stati è guerra contro il proletariato, nazionale e internazionale, a cui vanno i lutti, la miseria, e infine il travaglio schiavista per la ricostruzione della economia del capitale, all’interno di Stati che, vittoriosi o vinti e smembrati, restano sempre lo strumento di dominio borghese.
Ma la guerra dei capitali potrebbe porre al proletariato internazionale l’occasione di cui approfittare per fermare la follia sanguinaria dei borghesi: distruggendo il capitalismo, in un sollevamento solidale dei lavoratori di tutti i paesi.
Il Partito della rivoluzione, quindi, denuncia la guerra imperialista. La soluzione non è con alcuna delle parti imperiali in contesa, ma contro l’una e contro l’altra.
Al proletariato mondiale, che assiste oggi attonito al dispiegarsi delle convulsioni mortali del modo di produzione fondato sul capitale, torniamo a indicare la via della sua redenzione: contro la guerra tra Stati per la guerra tra le classi!
Questa è la via, segnata e certa.
- La guerra è una inevitabile necessità economica del capitalismo. Forze incontenibili costringono tutti gli Stati a una politica di aggressione per poter sopravvivere alla loro crisi generale, causata dalla smisurata sovrapproduzione di merci, che nessuno vuole e di cui nessuno ha bisogno.
- La guerra non è il prodotto della malvagità o follia di alcuni capi. Nemmeno quella in Ucraina è uno scontro tra sistemi democratici-liberali e totalitarismi, ma tra potenze imperialiste.
- La guerra è fra fronti imperiali, fra alleanze di Stati, non fra nazioni. Non è per garantire libertà ai popoli, ma per maggiore tirannia e sopraffazione. La Libertà è solo un pretesto per gettare la classe operaia nella fornace della guerra
- Il nazionalismo ucraino è la maschera dell’imperialismo occidentale, così come la difesa delle minoranze russe di Ucraina serve a giustificare quello russo.
- È una guerra per procura: i capitalisti di Russia intendono recuperare spazio per i loro affari e in vista del conflitto generale che si prepara, i capitalisti di occidente armano l’esercito ucraino e la “resistenza” perché combattano al fine della loro espansione a oriente.
- Esercito russo, esercito ucraino e “partigiani” stringono d’assedio i lavoratori di Ucraina, tenuti in ostaggio dalle due borghesie rivali ma in questo alleate. Il “partigianesimo” è il contrario, la negazione della lotta di classe.
- Intanto la polizia borghese in Russia arresta e reprime chi si oppone alla guerra.
- È una guerra reazionaria, contro la classe operaia, oggi di Ucraina e di Russia, sempre del mondo intero. Tanto nell’immediato quanto in senso storico generale.
- La guerra è per la conservazione globale del capitalismo. È contro il comunismo che, spettro invisibile ma sempre presente, matura e preme dall’interno del capitalismo nella sua mostruosa fase agonica. Perché il comunismo, da tutti negato, è già pronto a nascere, una volta abbattuta la dittatura del capitale.
- La classe operaia non ha una patria da difendere. Ha da difendere e affermare solo se stessa, contro tutti gli Stati dei suoi padroni, la cui prima funzione è mantenerla sottomessa.
- Per i lavoratori di Ucraina, come per quelli di Russia, nulla cambierà nell’essere sfruttati da capitalisti ucraini o russi o taglieggiati da governanti ucraini o russi.
- Ugualmente per i proletari russi, americani, europei nulla cambierebbe nella loro condizione che i loro padroni prevalgano o siano sopraffatti dal blocco imperialista rivale.
- Il pacifismo borghese, di fronte alla realtà della guerra, ubbidiente nasconde la bandiera arcobaleno per alzare quella del borghese Stato ucraino, e la parola pace per inneggiare alla guerra “per la Libertà”.
I comunisti oppongono alla guerra dei borghesi la fraternizzazione tra i soldati, giovani proletari, con la quale, e con la loro rivolta, metter fine alla guerra dal suo interno. E vi oppongono la sociale lotta generale di classe, in una rinata solidarietà internazionale operaia sul piano dei sindacati, degli scioperi, del suo partito comunista, il quale solo conosce e può indicare la via della definitiva liberazione dal capitalismo.
- L’antimilitarismo proletario può avere una sola parola d’ordine:
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Guerra alla guerra
- Lotta di classe contro padroni e Stati
- In pace e in guerra
I politicanti che dirigono l’Usb, che si dichiarano “marxisti”, accreditano fra i lavoratori come sincere le ipocrite parole pacifiste della Chiesa di Roma, uno dei pilastri della conservazione ideologica, e materiale, del capitalismo.
Il Vaticano è pacifista perché illudere e consolare è la sua funzione. L’oppio dei popoli. Non diversamente da come erano pacifisti tanti partiti borghesi, che allo scoppio della guerra sono prontamente diventati sfegatati guerrafondai.
La Chiesa cattolica ha finto di condannare le due guerre mondiali del Novecento solo perché la classe operaia si affidasse, sperasse in essa. Avallarla come forza di pace nella classe operaia significa procurare un danno ben grave alla costruzione della sua coscienza e forza autonoma, la sola in grado di fermare davvero la guerra.
Il pacifismo del Vaticano è solo apparente. Nella guerra del proletariato internazionale contro il capitalismo la Chiesa cattolica, tutte le chiese, non sono mai state, e non saranno più neutrali e “pacifiste”.
D’altronde la dirigenza Usb non è davvero contro la guerra capitalista. Nei conflitti passati si è sempre schierata con uno dei fronti borghesi – in Iraq col regime di Saddam Hussein, nella ex Iugoslavia con quello di Milosevic, in Siria con Assad – ravvisando in essi forze anti-imperialiste invece che Stati borghesi vassalli di imperialismi rivali a quello statunitense.
Il 1° aprile è giunta la notizia dell’uccisione nel Donbass di un italiano che da sette anni combatteva “per difendere il popolo libero di Novorossia dal regime fascista di Kiev”, come afferma un gruppo politico stalinista vicino alla vittima.
Lo stesso giorno a Roma si svolgeva l’assemblea nazionale dell’Osa, gli studenti organizzati dagli stalinisti che dirigono l’Usb. Hanno posato in foto dietro uno striscione “Morte al fascismo - Libertà per il popolo - Grazie Edy Bozambo”.
Senza entrare nel merito delle fantomatiche “spinte socialiste della prima dirigenza delle repubbliche” separatiste nel Donbass, emerge che il gruppo dirigente dell’Usb sostiene le milizie che nella regione combattono a fianco dell’esercito russo, in nome dell’antifascismo. Sostiene quindi uno dei fronti di guerra e condivide anche la giustificazione ideologica che esso si è dato per condurre la guerra: la “denazificazione” dell’Ucraina.
Le milizie separatiste del Donbass combatterebbero contro il regime nazista dell’Ucraina. Così pure il regime borghese di Mosca. L’opposto fronte altrettanto borghese occidentale parla di difesa della democrazia contro l’autocrazia, qualcosa di molto simile.
Tutti i regimi borghesi in guerra accusano gli avversari di essere fascisti e antidemocratici. L’antifascismo risulta una utile giustificazione per ogni intento bellicista borghese. Perché fascisti nell’epoca dell’imperialismo sono tutti i regimi borghesi, si dicano essi autocratici o democratici. La democrazia è una maschera della autentica natura fascista dei regimi capitalisti. Lo conferma l’asfissiante propaganda militarista dei media nei paesi “democratici” in Occidente, pur non coinvolti – per ora – direttamente nel conflitto.
Le libertà politiche e sindacali sono concessioni alla classe lavoratrice sempre revocabili. Non si possono difendere appellandosi alle “forze democratiche”, come sempre fanno i dirigenti dell’Usb e tutto l’opportunismo, ma solo con la forza della classe lavoratrice, la cui lotta non può che condurre, o alla sottomissione e al dispiegamento dell’aperto fascismo, o alla rivoluzione e alla dittatura del proletariato, cioè alla distruzione dell’ordinamento politico democratico, laddove si proclama.
L’anticomunismo dei partiti stalinizzati, in Italia quello togliattiano, di cui il gruppo politico che dirige l’Usb è erede, sostituì al socialismo, come fine della lotta proletaria, la democrazia, sotto la minaccia costantemente paventata del ritorno del fascismo. Una mistificazione, un ribaltamento della realtà – giacché il fascismo non è mai stato sconfitto – che imprigiona la classe operaia nella “difesa della democrazia”, cioè nel quadro politico capitalistico presente, impedendole una politica rivoluzionaria, offensiva. E sul piano internazionale preparando il terreno alle giustificazioni ideologiche della guerra imperialista.
Il sostegno del gruppo dirigente di Usb alle milizie separatiste nel Donbass, che combattono al fianco dell’esercito russo, è speculare a quello di alcuni gruppi della quarta internazionale e anarchici in favore della resistenza ucraina. Si vede come la tradizione politica derivante dalla resistenza partigiana nella seconda guerra mondiale – un tabù ancora non infranto – conduca a una politica cosiddetta “campista”, cioè che schiera i lavoratori su uno dei due campi della guerra imperialista.
Il partigianesimo resistenziale è uno strumento ausiliario del militarismo e della guerra borghese. Ad esso i comunisti oppongono il disfattismo proletario, che si concreta nel preparare fra i lavoratori nelle retrovie e al fronte la rottura della disciplina sociale – necessaria a ogni regime borghese per condurre la guerra – per promuovere la fraternizzazione fra i soldati degli opposti eserciti costretti e fra la popolazione civile e i soldati dell’esercito occupante.
Perché i comunisti considerano la sconfitta del proprio Stato borghese in guerra la condizione più favorevole al suo abbattimento rivoluzionario, la auspicano e lavorano per essa.
Doveva succedere, lo scontro fra i capitalismi, fra gli Stati che si spartiscono il mondo, è inevitabile. L’Ucraina è solo l’inizio: lo scontro è globale, fra Stati imperialisti, non fra “democrazie” e “regimi autoritari” come lo si vuole presentare. Dagli Stati Uniti alla Cina alla Russia, fino alla Gran Bretagna, al Giappone, alla Germania, alla Francia, all’Italia, tutti riarmano per la spartizione di territori e sfere d’influenza, in tutto il mondo. I rapporti tra Stati si basano sulla forza e non su un astratto diritto internazionale.
Distinguere fra aggressori e aggrediti è falso, è un arnese ideologico per giustificare la guerra imperialista da una parte e dall’altra del fronte. Tutti i capitalismi nazionali sono aggressori e aggrediti allo stesso tempo. Sono tutti infatti minacciati dalla crisi mondiale dell’economia capitalistica – che avanza inesorabile a causa della enorme sovrapproduzione di merci e capitali, aggravata dalla pandemia. Si azzannano fra loro per sopravvivere, per dividersi i declinanti profitti.
È perché il capitalismo si sente minacciato da quanto esso stesso ha prodotto nel suo sviluppo: il Comunismo. È il comunismo lo spettro che matura nelle cose stesse del mondo moderno, che incombe materialmente e urge in ogni aspetto della vita. Il capitalismo ha formato e ingigantito il suo becchino, il proletariato internazionale, destinato a rivoltarsi alle condizioni di miseria in cui la crisi lo sta conducendo.
A spingere i capitalismi alla guerra non è una particolare ideologia politica o cultura o tradizione nazionale: queste sono solo le menzogne con le quali i regimi borghesi cercano di giustificare i conflitti e assolvere il capitalismo dalle sue infamie.
La Russia, che nell’Ottobre fu comunista, a partire dalla controrivoluzione staliniana e dalla sconfitta della vecchia guardia bolscevica, è tornata ad essere uno Stato capitalista fra gli altri.
A provocare la guerra imperialista sono gli immensi interessi economici del grande capitale. Ogni giorno per questi interessi miliardi di proletari sono sfruttati, licenziati e ridotti alla fame, fatti lavorare in condizioni che ne provocano la morte per incidenti o malattie. Per risparmiare sui costi e fare più profitti la borghesia provoca disastri ambientali, industriali, infrastrutturali e sanitari che provocano migliaia di vittime.
La guerra imperialista non è solo un conflitto fra borghesie per spartirsi il mercato mondiale: è una guerra di tutte le borghesie unite contro i lavoratori di tutto il mondo per mantenerli divisi, sottomessi, terrorizzati. L’unica soluzione che ha il capitalismo alla sua crisi economica è opporsi alla vita: distruggere, oltre alle merci in eccesso, i viventi stessi, la merce forza-lavoro, i lavoratori, a milioni e milioni.
Poche settimane prima che in Ucraina i soldati russi sono stati inviati in Kazakistan per aiutare la borghesia locale a soffocare nel sangue la rivolta proletaria scoppiata per l’aumento del prezzo del gas, repressione che ha ricevuto il consenso unanime di tutti gli Stati del mondo, da quello falsamente comunista cinese, a quello “autocratico” turco, alle democrazie occidentali.
Tutti gli interessi del capitale, e la sua stessa sopravvivenza, si concentrano nelle macchine statali e militari. La loro tutela le conduce inesorabilmente alla guerra.
Se la classe operaia non riuscirà prima ad abbattere il capitalismo, un conflitto vasto e devastante farà del mondo un campo di battaglia in cui i lavoratori saranno chiamati a versare sangue solo per gli interessi delle rispettive borghesie e per la conservazione del loro potere politico.
L’Europa orientale è solo uno dei fronti sui quali cozzano gli imperialismi: gli stessi bagliori di guerra salgono dal Pacifico, attorno a Taiwan e alla Cina, primo avversario dell’imperialismo statunitense.
La guerra in Ucraina, come la precedente in Iugoslavia, torna a disperdere la illusione di una Europa di pace e conferma quello che il marxismo rivoluzionario ha sempre denunciato: non può esserci pace finché esisterà il capitalismo; non può esserci coesistenza pacifica fra nazionalismi.
La guerra in Ucraina non è quindi provocata solo dalla aggressiva politica di Putin, come superficialmente si vuol far credere: è provocata dal regime borghese, che è russo e mondiale. È provocata dal capitalismo, tutto gravido di guerra.
Per fermarla i lavoratori non devono seguire le indicazioni né dei partiti nazionalisti, apertamente borghesi, né dei partiti operai opportunisti, che sempre indicano loro di “scegliere”, e schierarsi per il fronte “meno guerrafondaio”, “meno anti-proletario”, “più democratico” dell’altro. I lavoratori devono unirsi, al di sopra delle frontiere, contro tutti i fronti imperialisti e innanzitutto contro la propria borghesia. La prima parola d’ordine comunista del 1848 – Proletari di tutti i paesi unitevi! – è sempre più valida e attuale.
La consegna dei comunisti nella guerra è quella che fu di Lenin e dei comunisti di sinistra contro la prima guerra mondiale: trasformare la guerra imperialista in rivoluzione.
I lavoratori da oggi devono separare il loro orientamento e atteggiamento da quelli della propria borghesia, devono lottare in difesa delle condizioni di vita e di lavoro, contro il proprio capitalismo nazionale.
Non esiste una comunanza di interessi fra classe operaia e classe borghese. Il cosiddetto “bene comune del paese” è solo un manto ideologico che camuffa la difesa degli interessi del capitalismo nazionale.
Per i lavoratori sostenere oggi la propria borghesia, accettando sacrifici sul piano delle condizioni di vita e di lavoro per rendere il “sistema paese” più competitivo, significa legarsi al carro della classe dominante, che li condurrà domani a versare il sangue a difesa del privilegio sociale e del dominio politico che li opprime.
La via di salvezza non è nel prevalere della propria borghesia nell’arena mondiale, ma nell’unità internazionale della classe lavoratrice contro il capitalismo.
Per questa guerra sociale servono le armi di lotta del proletariato: occorre ricostruire veri sindacati di classe e rafforzare il Partito Comunista Internazionale.
L’economia tedesca è una delle più esposte alle ripercussioni della guerra in Ucraina.
Per ora, gli effetti negativi sulla UE delle sanzioni sono limitati, ma se venissero estese al petrolio e al gas, o se la Russia interrompesse le forniture, l’effetto sarebbe maggiore. L’Economist Intelligence Unit prevede che nel 2022 la guerra in Ucraina ridurrà il PIL tedesco dello 0,8%, contro lo 0,7% in Francia e l’1% in Italia.
In Germania già si osserva l’impennata mondiale dei prezzi delle materie prime: a febbraio, il costo all’ingrosso dell’energia è aumentato del 130%, quello del gas è triplicato e anche le forniture alimentari sono a rischio. Si prevede che l’inflazione salirà al 6,2%, mentre i salari non terranno il passo: quindi, come altrove in Europa, la classe operaia sarà la più colpita.
La Germania è il secondo partner commerciale della Russia per le importazioni (prima è la Cina): è destinataria del 10% delle esportazioni russe. Dipende per il 40-50% dalla Russia per gli idrocarburi: l’industria e il consumo domestico dipendono dal gas russo a buon mercato. Inoltre un aumento dei prezzi in bolletta potrebbe portare a rivendicazioni di aumenti salariali. Quindi la borghesia tedesca è reticente ad accettare l’imposizione di più sanzioni alla Russia, come richiesto dal governo ucraino e dagli Stati Uniti.
È considerato improbabile che la Russia interrompa la fornitura di gas. Spostare la vendita verso terzi, in particolare Cina e India, significherebbe accettare una forte riduzione del prezzo, e quindi delle entrate. Comunque il 29 marzo, il governo tedesco ha annunciato piani di emergenza nel caso di severa riduzione o blocco nelle forniture.
I rapporti della Repubblica Federale con la Russia risalgono alla “Ostpolitik” di Willi Brandt negli anni Settanta del secolo scorso, quando si cercava di allentare le tensioni all’interno della Germania divisa e di ridurre la dipendenza tedesca dagli USA.
Nel frattempo la borghesia tedesca, dietro all’attuale governo “rosso-verde-giallo”, sta approfittando della situazione geopolitica per aumentare la spesa militare. Prima dell’invasione dell’Ucraina questa decisione sarebbe stata inaccettabile per ampie fasce della popolazione. A fine febbraio il cancelliere Olaf Scholz (SPD) ha annunciato che il bilancio militare sarà triplicato: il più grande piano di riarmo tedesco dalla seconda guerra mondiale. L’obiettivo è portarlo almeno al 2% del PIL. Alla decisione di acquistare decine di bombardieri stealth F-35 ora segue un piano per la difesa nazionale missilistica. Una delegazione di politici si è recata in Israele per trattare l’acquisto del sistema a lungo raggio statunitense-israeliano Arrow 3. La borghesia tedesca ha il chiaro intento di affermarsi militarmente, sostituendo Gran Bretagna e Francia come prima potenza militare in Europa.
Questa politica di riarmo ha l’appoggio di tutto lo schieramento parlamentare. Anche il partito “di sinistra” Die Linke, che sta perdendo consensi, è saltato sul carro della guerra, tanto che il suo fondatore, Oskar Lafontaine, per protesta si è dimesso. Ma in generale tutti i partiti e gruppi “di sinistra” hanno bruscamente sterzato verso il militarismo e a sostegno della guerra: anche il ministro degli Esteri, Annalena Baerbock, dei Verdi, che ostentava posizioni femministe e per il rispetto dei diritti umani e del clima!
Nelle classi inferiori, come nel 2015, c’è stato un atteggiamento di compassione e accoglienza verso i rifugiati ucraini, circa 300.000, la maggior parte dei quali arrivati in treno a Berlino attraverso la Polonia, per poi essere smistati in tutto il paese, molti in alloggi temporanei.
Ma, a differenza del 2015, questo moto di solidarietà è accompagnato da un velenoso nazionalismo filo-ucraino – bandiere giallo-azzurre sventolano ovunque sugli edifici pubblici – e da livore anti-russo. I media borghesi e l’apparato dello Stato lavorano a pieno regime per incanalare il comune istinto di solidarietà verso risentimenti nazionalistici. L’accoglienza dei rifugiati ricade in gran parte sugli sforzi spontanei della popolazione, ma sono fatti propri da politici e imprese. Celebrità partecipano ad eventi di propaganda ideologica, per la “democrazia” e la “libertà”, se non per espliciti interessi commerciali. Appaiono in video autorità dello Stato ucraino, campioni sportivi, comici della televisione, con esibizione di artisti pop, tutti che improvvisamente e senza vergogna hanno tolto “i fiori dai cannoni”.
Nonostante questa cortina fumogena, volta a far accettare il riarmo alla classe operaia, il governo ucraino, ubbidiente portavoce del padrone americano, ha definito “non gradita” la visita a Kiev del presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, che sarebbe stato troppo amico della Russia. In effetti, da che parte si metterà, alla fine, la Germania? Comunque, sicuramente, contro il proletariato, prima di tutto tedesco.
Secondo un recente sondaggio (per quanto vale, ma intanto lo fanno sapere...) ancora più della metà dei tedeschi si opporrebbe a un embargo totale delle importazioni di combustibili dalla Russia, nonostante l’incessante propaganda secondo cui esse “finanzierebbero la macchina da guerra di Putin”. La realtà è che la classe operaia sa che, in un modo o nell’altro, finirà per accollarsi il peso maggiore della crisi.
I principali sindacati industriali, IG Metall, IG BCE e IG Bau, hanno chiesto al governo fondi di emergenza, non per la classe operaia ma per proteggere dal fallimento le industrie ad alto consumo di energia, come quella automobilistica. Vedono nella carenza di liquidità e nella riduzione della competitività delle imprese rispetto ad altri paesi una grave minaccia ai posti di lavoro.
Nella ristrutturazione della Ford a livello internazionale c’è già conflitto tra il sindacato dello stabilimento di Saarlouis, in Germania, e quello di Valencia: l’aumento del prezzo dell’energia mette in vantaggio lo spagnolo.
I sindacati tedeschi svolgono così il loro tradizionale ruolo di alleato del capitale nazionale e di nemico del proletariato internazionale. Ovviamente sono anche preoccupati che l’aumento del costo della vita porti i loro membri a rivendicare azioni più combattive.
Il patriarca russo Kirill, capo della Chiesa ortodossa, riguardo alla invasione dell’Ucraina, in un sermone ha detto che è una guerra patriottica (e di ciò non dubitavamo), e anche una crociata contro il pericolo rappresentato dall’Occidente e dalle sue lobby gay. Il patriarca di tutte le Russie con la sua Chiesa si erge quindi a difensore, oltre che della patria dei russi, anche delle loro inclinazioni sessuali.
Il rapporto tra Stato e Chiesa in Russia ha attraversato varie fasi. Se dopo la rivoluzione d’Ottobre la Chiesa ortodossa russa, parte integrante del potere zarista, mostrava orrore per il comunismo ateo e materialista, nonché confiscatore delle sue immense terre e altre ricchezze, dopo il prevalere della controrivoluzione stalinista, per meglio mobilitare la popolazione, durante la seconda guerra mondiale si ricostituì l’alleanza tra trono e altare, in nome della patria, dove il trono comandava e l’altare obbediva, il tutto con reciproco vantaggio.
Oggi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, già paese a capitalismo pieno, ma incapace di reggere la concorrenza occidentale, questa alleanza ha assunto tratti diversi a causa del diverso rapporto di forza tra le parti: ora la Chiesa ha recuperato tutta la sua funzione e noi vediamo il “piccolo padre” Putin, ateo ed ex-nazionalcomunista, profondersi in prosternazioni e segni della croce in innumeri cerimonie religiose, possibilmente accanto al patriarca. Parafrasando Enrico IV, Mosca val bene una messa.
Noi non abbiamo nulla da dire al patriarca, che svolge la propria funzione di reazionario cemento ideologico del patriottismo russo, del suo capitalismo e del suo imperialismo.
Del resto, la responsabilità della divulgazione di simili elevate parole è interamente nostra, della classe operaia, che ancora non ha raggiunto la forza e la determinazione per prendere a legnate quelli «in veste di pastor lupi rapaci». Dante Alighieri, nel Canto XXVII del Paradiso, apostrofa «quelli ch’usurpa in terra il luogo mio... fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e della puzza».
Dopo la proletaria presa del potere non ci sarà alcuna libertà di espressione per i corifei del capitalismo, con o senza tonaca.
Il mito riformista del graduale e continuo progresso sociale – illusione diffusa nel secondo dopoguerra dai falsi partiti operai di tutti i paesi (in Italia PCI, PSI e loro eredi attuali) – sta crollando sotto i colpi di condizioni di vita sempre peggiori e di minacce di guerre sempre più frequenti ed estese.
Il capitalismo, che impera su tutto il pianeta, è ovunque in disfacimento. La sua crisi è determinata dalle insolubili contraddizioni della sua economia, stretta nella sfrenata sovrapproduzione di pestilenziali e inutili merci. La borghesia di tutti i paesi, per rimandare la sua rovina, ha solo un mezzo: aumentare lo sfruttamento della classe operaia e immiserire e intristire tutta la vita sociale.
La precarietà che affligge i giovani lavoratori e i “Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento” sono elementi di questo quadro generale.
La scuola, secondo il mito riformista che il marxismo rivoluzionario ha sempre combattuto, sarebbe uno strumento di graduale infinito miglioramento sociale all’interno del capitalismo, un progresso che condurrebbe fino a liberarci da questa società divisa in classi. Questo è falso: il capitalismo non può essere riformato, e men che meno può farlo la scuola, che è invece usata come un pilastro della sua conservazione sociale e politica.
È nella scuola che viene inculcata nei giovani l’ideologia della classe dominante con le sue falsità, primi fra tutti i miti della patria, del nazionalismo e della democrazia, della coesistenza e di comuni interessi fra le classi. La scuola è una gabbia in cui separare i giovani proletari dal mondo reale, dalla loro classe.
Ai giovani non interessa il compito – loro proposto da tutti i gruppi politici opportunisti e riformisti – di “cambiare la scuola”, all’interno del capitalismo, per migliorarlo. La lotta contro il capitalismo – la vita vera – è fuori dalla scuola: nell’organizzare la lotta dei lavoratori in difesa delle loro condizioni, contro la schiavitù del lavoro salariato, e nella battaglia, all’interno della compagine del partito comunista, per la difesa e la propaganda dei mezzi e delle condizioni per la rivoluzionaria distruzione del capitalismo.
I giovani proletari sono una parte essenziale della loro classe, ancora non prostrati da questa società infame come molti adulti. La loro lotta non deve chiudersi nel recinto della effimera e fittizia condizione studentesca – lottando per un ingannevole “diritto allo studio”, come predicano i riformisti – ma unirsi negli obiettivi e nei mezzi a quella di tutta classe lavoratrice.
Far lavorare gli studenti gratis – soprattutto quelli degli istituti che li indirizzano a qualifiche lavorative non dirigenziali – è un modo per educarli a essere proni a un futuro di bassi salari e soprusi padronali.
Contro la alternanza scuola/lavoro bisogna lottare – in quanto giovani lavoratori e non in quanto studenti – affinché il lavoro prestato sia pagato, al pari delle qualifiche di ingresso previste nei contratti di lavoro, e sia svolto in condizioni salubri e sicure.
I giovani studenti/lavoratori devono organizzarsi con gli altri lavoratori nei sindacati di base, e imporre questi loro obiettivi di lotta alle attuali dirigenze opportuniste che li vogliono invece relegati nel recinto di un mero movimento studentesco.
Un movimento della gioventù proletaria – in luogo di quello studentesco – saprà apportare alla lotta di classe quella energia vitale preziosa e necessaria all’abbattimento rivoluzionario del capitalismo, liberando l’umanità dalle sue guerre, dalla sua miseria crescente, dalle catene del profitto, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
L’internazionale classe lavoratrice si trova oggi di fronte a quella che è la massima forma della sua oppressione nel capitalismo: la guerra imperialista.
A scontrarsi in Ucraina – è evidente – non sono solo gli Stati borghesi russo e ucraino ma le maggiori potenze imperialiste: USA, Cina, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia... Il permanente confronto inter-imperialistico ha portato oggi la guerra in questo paese, dopo che negli anni passati ha devastato i Balcani, l’Asia centrale, il Medio Oriente e tutt’oggi travolge molte altre regioni dimenticate, o meglio, fatte dimenticare dai mezzi d’informazione del regime.
Il fatto che la guerra si avvicini al cuore di uno dei centri dell’imperialismo – l’Europa – indica che questo conflitto è una tappa di avvicinamento decisiva alla terza guerra mondiale, verso cui tende l’intero capitalismo, per cercare di superare le sue contraddizioni.
La guerra è una necessità economica del capitale. È la prosecuzione sul piano militare della concorrenza fra aziende, fra gli enormi interessi economici tutelati dagli Stati borghesi. Una concorrenza acerrima che si fa sempre più spietata per l’avanzare della generale crisi di sovrapproduzione.
La difesa della democrazia dall’autocrazia, l’antifascismo, la difesa della nazionalità ucraina o delle minoranze russe, sono tutte false e ipocrite giustificazioni propagandistiche per nascondere i reali interessi dei blocchi capitalistici e per spingere i lavoratori a farsi carne da cannone su entrambi i fronti.
La guerra è responsabilità di tutte le parti borghesi in conflitto, è provocata dal capitalismo nel suo complesso. Anche se si arriverà a un cessate in fuoco in Ucraina e a una pace pericolante, la guerra continuerà. Non esiste politica borghese che possa evitarne il maturare e deflagrare.
Gli Stati capitalisti sono spinti a una sempre maggiore aggressività dall’avanzare inesorabile della crisi economica mondiale, sono tutti aggrediti dal declino storico del capitalismo, la cui difesa a ogni costo – sia nel distruggere merci e vite umane o nel devastare la natura – è la ragion d’essere delle macchine statali nazionali e dei loro formidabili apparati militari.
La guerra imperialista non è un retaggio di un passato arroccato in alcuni regimi particolarmente retrivi. È il prodotto dei più moderni e immani interessi economici. È tutto il capitalismo una società antistorica, che sopravvive a se stessa, che si oppone con ogni mezzo al Comunismo – internazionale e non mercantile – che dal suo interno preme per nascere, già materialmente maturo. E vi si oppone opprimendo la classe sociale che, inconsapevolmente, per il solo fatto di dover lottare per la propria sopravvivenza contro questo mondo morente, ne è portatrice: il proletariato.
La guerra fra gli Stati è ormai solo un mezzo per la spartizione del mercato mondiale, e nel contempo il salasso che il capitalismo esige per guarire dal cancro della sovrapproduzione, che lo condanna a morte: distrugge città, fabbriche, infrastrutture e la enorme eccedenza di merci – fra cui la forza lavoro – che ingolfa il mercato impedendo l’ulteriore accumulare capitali.
Tutti gli Stati sono uniti – al di sopra dei loro contrasti – nel volere la guerra, e che i lavoratori la combattano e vi muoiano. Il vero nemico di ogni Stato nazionale borghese non è lo Stato dell’altro fronte, è il proletariato che si rifiuta di combattere agli ordini del suo nemico di classe! Per questo in tutti i paesi i media di regime esaltano il nazionalismo, il militarismo, il patriottismo, la resistenza e la solidarietà nazionale, il partigianesimo.
La guerra imperialista è quindi strumento per fermare la rivoluzione. E fermare la guerra significa aprire la strada alla rivoluzione.
La crisi economica immiserisce i lavoratori e ne aumenta lo sfruttamento. Spinge al ritorno alla lotta di classe. Episodi ne sono stati i moti sociali degli ultimi anni, dalle cosiddette primavere arabe, a quelli in Cile, Ecuador e Colombia, all’ultimo d’inizio anno in Kazakistan, soffocato nel sangue col consenso di tutti gli Stati borghesi d’Occidente e d’Oriente, “democratici” o “autocratici”. Anche il persistente aumento negli ultimi anni degli scioperi negli Stati Uniti è una conferma che la crisi sociale, iniziata colpendo per primi i paesi capitalisticamente più deboli, arriverà a mettere in moto i lavoratori di tutti i paesi imperialisti.
Solo la mobilitazione della classe lavoratrice – non un vago movimento di opinione pacifista – può fermare la guerra, in un atteggiamento di fatto disfattista, che nega ogni unità nazionale fra la classe sfruttata e la classe borghese, e che invece ricerca l’unità dei lavoratori al di sopra delle frontiere di guerra.
Un forte movimento di scioperi nelle fabbriche e in ogni posto di lavoro, in difesa delle condizioni di vita operaia e di lavoro, genera la condizione sociale, e politica, più favorevole anche affinché fra i proletari costretti a vestire la divisa militare e a combattere si rompa la disciplina e si diffonda la fraternizzazione sul fronte fra proletari costretti ad ammazzarsi fra loro. Il primo passo verso il disfattismo proletario e rivoluzionario nella guerra borghese è nell’elementare rifiuto dei lavoratori a sopportarne i sacrifici,
Nei giorni scorsi gli Stati d’Europa, col totale consenso dei Parlamenti, hanno approvato un ampliamento vertiginoso delle spese militari, che ricadrà sulla classe lavoratrice, mentre il rincaro delle utenze e degli alimenti si porterà via una parte consistente del salario.
È dovere imprescindibile del sindacalismo di classe organizzare la lotta dei lavoratori per difendersi dagli effetti della guerra che in tutti i paesi già si stanno ripercuotendo su di essi.
Invece, di fronte a un fatto storico di questa gravità e ai compiti che impone, la condotta delle dirigenze del sindacalismo conflittuale è stata sinora inadempiente. A un mese dall’inizio della guerra non è stata ancora organizzata, né esiste traccia della volontà di voler promuovere una mobilitazione unitaria del sindacalismo conflittuale. Al contrario le dirigenze dei maggiori sindacati di base stanno perseverando nella loro usuale condotta opportunista, continuando a ignorarsi.
La combattività degli operai della Gkn è stata moltiplicata nella forza e nel valore dalla volontà costantemente manifestata e messa in pratica di porla al servizio non della sola vertenza aziendale ma dell’unità della classe operaia nel suo insieme.
Il Collettivo Gkn ha cercato l’unità con le altre lotte operaie, a prescindere dai sindacati in cui i lavoratori erano organizzati, compiendo un passo pratico in direzione di quel fronte unico sindacale di classe necessario a rimettere in piedi il movimento operaio, a sconfiggere il sindacalismo di regime di Cgil Cisl e Uil che, con la sua opera disfattista della lotta operaia, ha condotto la classe lavoratrice in una condizione di prostrazione di fronte alla classe borghese.
Di fronte alla guerra imperialista, tutti i lavoratori combattivi debbono proseguire ed estendere questa lotta per l’unità d’azione, per giungere a dispiegare al più presto uno sciopero generale unitario di tutto il sindacalismo conflittuale contro la guerra imperialista e contro i suoi effetti sulla classe lavoratrice, per un aumento generale dei salari, delle indennità di disoccupazione, di cassa integrazione e delle pensioni. Va indicata la necessità di giungere alla capacità di promuovere uno sciopero generale internazionale contro la guerra.
Dovranno essere i lavoratori e i militanti sindacali combattivi a muoversi e a battersi affinché le organizzazioni sindacali conflittuali si muovano unitariamente, senza perdere altro tempo, per difendere i lavoratori dalla guerra imperialista, per richiedere con forza la fine della guerra prima che si allarghi ad altri Paesi !
- Guerra alla guerra !
- Contro la guerra imperialista, guerra tra le classi !
- Per il fronte unico sindacale di classe !
- Per lo sciopero generale unitario di tutto il sindacalismo conflittuale contro la guerra !
Qui pubblichiamo il testo distribuito dai nostri compagni alla manifestazione nazionale convocata dal Collettivo di fabbrica della ex GKN, sabato 26 marzo a Firenze.
La mobilitazione è riuscita, con un numero di manifestanti analogo a quella del 18 settembre scorso, ma – rispetto a quella e alle precedenti – ha perduto carattere operaio, di classe, acquisendo carattere popolare e partitico, aggregando movimenti interclassisti da un lato, dall’altro gruppi, partiti e associazioni della cosiddetta sinistra radicale, metà borghese metà opportunista.
Ciò è emerso anche dalla disposizione del corteo. Non si è voluto dare il semplice e chiaro ordine della manifestazione del 24 luglio a Campi Bisenzio, con la prima metà composta dagli organismi sindacali – Cgil e sindacati di base – e la seconda da organismi politici e movimenti. Le disposizioni date, troppo complicate, sono saltate alla prova della messa in pratica e ne è risultato che gli organismi di classe, sindacali, si sono mescolati a tutti gli altri.
I sindacati di base hanno partecipato in buon numero, in specie il SI Cobas. Questo e la Confederazione Cobas avevano aderito con comunicati degli organi dirigenti nazionali. L’Usb invece non ha dato adesione formale e la sua presenza è stata minore che nelle mobilitazioni precedenti del 24 luglio e del 18 settembre. I sindacati di base hanno partecipato ciascun per sé – divisi e in concorrenza, anche all’interno del corteo – secondo la condotta opportunistica della maggioranza delle loro dirigenze.
Ha aderito – unica federazione nazionale della Cgil – la Flc Cgil nazionale.
A Genova, lunedì 21 marzo il Collettivo GKN aveva organizzato un’assemblea per propagandare la manifestazione fiorentina del sabato successivo. Dell’Usb non era presente alcun dirigente locale ma solo pochissimi iscritti, al contrario del SI Cobas e dell’area di opposizione in Cgil. Questa assenza – che non può essere casuale – è stata rimarcata da un nostro compagno, iscritto all’Usb, intervenuto a nome del Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati (CLA). Il nostro compagno ha rimarcato anche l’assenza dei delegati della Fiom genovese, controllata da un gruppo politico che sostiene di voler costruire il “sindacato europeo” ma che nemmeno porta i suoi delegati a una assemblea operaia cittadina per una delle più importanti lotte in corso, e nonostante facciano anche parte dello stesso sindacato!
Oltre a denunciare questi meschini opportunismi, il nostro compagno ha fatto presente come sia oggi assolutamente necessario che il sindacalismo conflittuale agisca in modo unitario per costruire una mobilitazione sindacale contro gli effetti sulla classe lavoratrice della guerra imperialista, massima forma di oppressione della classe proletaria nel capitalismo.
Infine ha illustrato il volantino che sarebbe stato distribuito alla manifestazione di Firenze – diffuso precedentemente in sala insieme a una lavoratrice del CLA. Questo è stato redatto e firmato per la prima volta insieme a un collettivo redazionale – Union-net – formato da militanti e dirigenti del sindacalismo conflittuale allo scopo dell’unità d’azione del sindacalismo di base.
* * *
Il volantino diffuso dal partito alla manifestazione fiorentina convocata dal Collettivo di fabbrica ex GKN, come si legge, era incentrato sulla questione della guerra in Ucraina, impostazione ovvia e doverosa. La situazione infatti è gravissima, non solo per le orribili sofferenze che la guerra sta provocando – com’è inevitabile – ma perché segna un passo decisivo verso il terzo conflitto imperialista.
Tutte le forze sindacali e politiche del movimento operaio dovrebbero tendersi nello sforzo di posizionarsi e reagire di fronte a questo drammatico evento storico.
È invece sorprendente quanto sia manchevole la reazione del sindacalismo conflittuale nel suo complesso. Ciò che era imperativo compiere, dai primi giorni di guerra, era organizzare una mobilitazione unitaria del sindacalismo conflittuale contro la guerra e i suoi effetti sulla classe operaia in tutti i paesi. A un mese dall’inizio del conflitto, invece, i due maggiori sindacati di base – Usb e SI Cobas – marciavano separati, ignorandosi e in concorrenza.
Prima dell’inizio della guerra l’Usb aveva indetto una “manifestazione operaia” nazionale dei lavoratori dell’industria, dei trasporti e della logistica per il 22 aprile a Roma, a sostegno di uno sciopero nazionale in quei settori proclamato il 15 marzo. Una iniziativa decisa e condotta in completa solitudine, ignorando il resto del sindacalismo conflittuale.
Dopo lo scoppio della guerra questa decisione non è stata in alcun modo modificata. Anzi, le iniziative intraprese dalla dirigenza di Usb contro la guerra – sempre organizzate in piena solitudine – sono servite a propagandare questa mobilitazione, in cui questo sindacato darà sfoggio del suo grado di sviluppo, che ne fa il più numeroso sindacato di base, ma che è non di meno del tutto inadeguato ai compiti cui il sindacalismo di classe deve far fronte. Ad esempio, la Usb non è in grado di organizzare da sola un vero sciopero né nell’industria, né nei trasporti, né nella logistica. L’unico settore in cui uno sciopero potrebbe effettivamente frenare l’attività produttiva sarebbe quello della logistica, ma se fosse organizzato insieme a SI Cobas e Adl Cobas.
La dirigenza del SI Cobas, dal canto suo, è stata la prima a organizzare un’assemblea on-line sul tema della guerra, domenica 13 marzo, a cui hanno partecipato oltre 150 fra militanti sindacali e politici. In essa però gli unici interventi che hanno indicato la necessità di un’azione unitaria del sindacalismo conflittuale sono stati quello di un nostro compagno e di una dirigente del Sindacato Generale di Base (Sgb).
* * *
L’iniziativa di promuovere un’azione unitaria del sindacalismo conflittuale contro la guerra è finalmente venuta da parte della Cub, del Sgb, dell’Unicobas, dell’Adl di Varese, dell’Usi Cit e dei Cobas Sardegna, che all’indomani della manifestazione nazionale della ex GKN a Firenze hanno pubblicato un appello per una assemblea nazionale – “Verso lo sciopero generale e sociale. Contro la guerra e l’economia di guerra” – sabato 9 aprile a Milano.
Il Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati (CLA) ha sostenuto l’iniziativa, indicando il dovere di parteciparvi a tutti i militanti del sindacalismo di classe, con un volantino – “Costruire una mobilitazione unitaria contro la guerra” – distribuito giovedì 31 marzo a Genova durante la mobilitazione promossa dai portuali dell’Usb contro il traffico d’armi nel porto e la guerra, di cui riferiamo in altro articolo su questo numero.
A seguito di una perquisizione dei carabinieri nella sede nazionale dell’Usb, la mattina del 6 aprile, il CLA ha pubblicato il giorno successivo un nuovo comunicato – “Costruire la mobilitazione unitaria del sindacalismo conflittuale contro la guerra, per respingere gli attacchi repressivi alle organizzazioni della classe lavoratrice” – in cui, oltre a inquadrare l’azione poliziesca nel clima di guerra imposto dal regime borghese, si ribadiva la necessità di organizzare una mobilitazione unitaria e di partecipare, come primo passo pratico in questa direzione, all’assemblea nazionale unitaria del 9 aprile a Milano – “Verso lo sciopero generale e sociale. Contro la guerra e l’economia di guerra”.
Questo comunicato, oltre a essere stato pubblicato e fatto circolare su internet, il 7 aprile è stato distribuito dai lavoratori del CLA a Genova al presidio sotto la prefettura, convocato dall’Usb in risposta all’azione dei carabinieri, e sabato 9 aprile all’assemblea milanese.
L’assemblea milanese ha avuto un esito abbastanza positivo, con la partecipazione di circa 130 militanti sindacali. Oltre ai sindacati promotori erano presenti una piccola delegazione del SI Cobas, lo Slai Cobas per il Sindacato di Classe, lo Slai Cobas e i Cobas Sanità Università Ricerca. Assenti l’Usb, la Confederazione Cobas, l’Adl Cobas e il Sial Cobas, quest’ultimo piccolo sindacato del milanese. È intervenuto anche un dirigente nazionale dell’area di opposizione in Cgil “Riconquistiamo tutto” e della Flc Cgil, ma non a nome di questi organi sindacali.
L’assemblea ha deciso di promuovere uno sciopero generale nazionale venerdì 20 maggio contro la guerra e i suoi effetti sulla classe lavoratrice. Il SI Cobas è intervenuto dichiarando la sua adesione allo sciopero. Lo Slai Cobas per il Sindacato di Classe ha dato la sua adesione a condizione che vi aderiscano anche SI Cobas, Usb e Collettivo ex GKN. La grande maggioranza degli interventi si è espressa a favore del più largo coinvolgimento delle forze del sindacalismo conflittuale nella mobilitazione e nella sua preparazione.
Molti interventi – erroneamente – hanno dato maggiore importanza alla ricerca dell’unità con le organizzazioni pacifiste e coi movimenti interclassisti – studenti, ambientalisti – che a quella con il sindacalismo conflittuale e con la classe operaia.
Perché la maggior parte si illude che sia possibile opporsi alla guerra non opponendo la forza dei lavoratori a quella degli Stati, in una guerra sociale contro la loro guerra, ma inducendo le diplomazie borghesi a cambiare politica. È cioè radicata l’utopia che possa esistere un equilibrio di pace nel capitalismo, che invece marcia inesorabilmente verso la terza guerra mondiale.
Un nostro compagno è intervenuto a nome del “Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe”.
Lo stesso giorno altri militanti del CLA sono intervenuti in un’assemblea regionale dell’Usb a Firenze, organizzata per preparare la manifestazione nazionale a Roma di questo sindacato del 22 aprile. La sintesi dei due interventi è stata riportata nel resoconto pubblicato da questo organismo.
Giovedì 31 marzo l’Usb Porto di Genova ha proclamato 24 ore di sciopero contro il traffico d’armi nello scalo, come già accaduto in passato in occasione dell’arrivo di una nave saudita che trasportava materiale bellico verso la penisola arabica. È stato organizzato un presidio a uno dei varchi portuali, quello di Ponte Etiopia, dalle 6 alle 10 del mattino. È seguita un’assemblea, a poca distanza, presso il Circolo dell’Autorità Portuale intitolata: “A chi giova la guerra?”
L’Usb ha mobilitato forze a livello nazionale, già al presidio erano presenti dirigenti da Roma, Livorno, Piacenza e un gruppo di studenti romani delle scuole superiori dell’Osa, l’organizzazione studentesca emanazione del gruppo politico che dirige l’Usb.
Nonostante questo sforzo organizzativo il numero dei presenti al presidio è stato inferiore rispetto alle iniziative analoghe precedenti – l’ultima durante lo sciopero generale unitario dell’11 ottobre – con meno lavoratori sul totale dei partecipanti e pochi portuali. Lo sciopero non ha inciso sulle attività portuali. Alla presenza dei dirigenti nazionali ha fatto contrasto la partecipazione assai scarsa dei delegati genovesi di Usb negli altri posti di lavoro.
All’assemblea la partecipazione è cresciuta, riempendo la sala con oltre un centinaio di presenti. I nostri compagni hanno distribuito – al presidio e all’assemblea – un comunicato del Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati intitolato “Costruire la mobilitazione unitaria contro la guerra”, nel quale si chiamavano tutti gli organismi del sindacalismo conflittuale a partecipare a un’assemblea nazionale promossa da alcuni sindacati di base per il successivo sabato 9 aprile a Milano – “Verso lo sciopero generale e sociale. Contro la guerra e l’economia di guerra” – primo tentativo di imbastire un’azione unitaria del sindacalismo conflittuale contro la guerra. Inoltre il volantino del CLA sottolineava positivamente la partecipazione del SI CoBas di Genova al presidio indetto dall’Usb.
L’assemblea genovese è stata esemplare dell’opportunismo della dirigenza di Usb riguardo la sua erronea e, in definitiva falsa opposizione alla guerra imperialista. La loro linea politico-sindacale è stata espressa senza giri di parole da uno dei principali dirigenti nazionali, Vasapollo, direttore della rivista teorica del sindacato: alla guerra ci si deve opporre alleandosi alla sinistra cattolica, cioè alla Chiesa. Il giorno dopo – venerdì 1° aprile – Usb ha organizzato un presidio dinanzi alla Cattedrale di San Lorenzo, insieme ai vescovi di Genova e Savona, ad associazioni cattoliche e agli scout.
Dunque, i dirigenti dell’Usb non credono che solo forza e la lotta della classe lavoratrice possa fermare la guerra imperialista, ma che occorre cercare alleati all’interno delle istituzioni della classe dominante, nella fattispecie il Vaticano.
Inoltre ciò avveniva mentre i dirigenti di Usb non facevano nemmeno un passo in direzione di un’azione unitaria col resto del sindacalismo conflittuale. Uniti con la Chiesa cattolica, divisi dagli altri sindacati!
Giova qui ricordare lo sperticato sostegno proferito da Vasapollo al Movimento 5 Stelle in un suo discorso in aula parlamentare nel luglio 2015: «Non ho nessuna vergogna come marxista a dire che mi ritrovo su quasi tutte le battaglie che sta facendo il M5S». Con l’antiveggenza propria di ogni anti-marxista avvalorò quel partito borghese, fradicio della più infima demagogia, che una volta al governo approvò con la Lega il noto Decreto Sicurezza.
Colmo dell’ironia, i portuali che a Genova uscirono dalla Cgil per passare all’Usb, lo fecero anche lamentando la mancata opposizione del sindacato di regime a quel provvedimento governativo.
Le pretese alleanze fra classe lavoratrice e frazioni della classe borghese si risolvono sempre a profitto della seconda, terminata – in Europa occidentale 150 anni fa – l’epoca delle rivoluzioni democratiche borghesi. Da allora ai lavoratori giova solo la lotta per la più intransigente autonomia dalla classe dominante. Lezione che l’opportunismo non imparerà mai.
Il movimento di lotta sindacale crescente da due anni negli Stati Uniti ha portato a un importante risultato. Il 1° aprile oltre 2.500 lavoratori del magazzino JFK8 di Amazon a Staten Island, a New York, hanno votato per iscriversi a un sindacato, la Amazon Labor Union (ALU). La prossima battaglia sarà il voto per il riconoscimento del sindacato al magazzino LDJ5, sempre a Staten Island.
Il risultato ha colto di sorpresa la maggior parte degli osservatori esterni, memori della sconfitta sindacale di un anno prima presso il magazzino Amazon a Bessemer, in Alabama. Secondo il New York Times si è trattato di “una delle più grandi vittorie sindacali di una intera generazione”.
La storia inizia due anni fa quando, il 30 marzo 2020, nelle prime settimane della pandemia di Covid-19, un piccolo gruppo di dipendenti del magazzino JFK8 organizzò un corteo dei lavoratori che uscì dal magazzino, rivendicando adeguate protezioni sanitarie dal contagio. L’azienda reagì con diversi provvedimenti disciplinari, fino a licenziare uno di questi operai, un trentaduenne afroamericano, impiegato in Amazon dal 2015, che è divenuto il capo del sindacato.
L’esperienza della repressione aziendale ha portato questi lavoratori a una maggiore unione, alla consapevolezza dell’antagonismo irreconciliabile tra essi e l’azienda e a una ferrea volontà di rivalsa verso il nemico di classe.
L’ALU avanza 16 rivendicazioni (pubblicate sul sito del sindacato in inglese e
spagnolo) fra cui:
- che i lavoratori infortunati siano messi a riposo pagati e non siano fatti
loro consumare forzatamente permessi e ferie;
- un aumento salariale del 7,5%;
- ripristino delle pause da 20 minuti, ridotte da ottobre di 5 minuti;
- un servizio di trasporto gratuito dalla stazione del traghetto di St. George;
- il ritardo al lavoro conteggiato in minuti e non in ore;
- cessazione delle aggressioni antisindacali. Il 23 febbraio scorso Amazon ha
chiamato la polizia per aggredire e arrestare i militanti sindacali riuniti
fuori dal magazzino. Era già accaduto a dicembre, per cercare di levare la tenda
del sindacato alla fermata del bus di fronte al magazzino, dove venivano
raccolte le firme degli operai per l’elezione del sindacato. Eliminazione di
tutta la propaganda antisindacale sul posto di lavoro;
- chiusura del magazzino durante gli eventi meteorologici gravi;
- abolizione del divieto di tenere con sé il telefonino durante il lavoro.
«Amazon ha speso milioni di dollari per provare a fermare l’ALU. Sarebbe bastata
una frazione di questa spesa per pagare 30 dollari l’ora ogni lavoratore del
JFK8», ha dichiarato il capo del sindacato.
Marx scrisse che i borghesi non si capacitano della ragione per la quale gli operai si dimostrino disposti a perdere salario per difendere le loro organizzazioni di lotta e ottenere miglioramenti economici inferiori a quelle perdite. A rovescio, per i padroni accade lo stesso. La ragione è che i due poli opposti della lotta di classe – proletari combattivi e padroni – sanno bene che la posta in gioco va ben oltre il risultato della singola battaglia.
La contrapposizione capitale-lavoro, sempre più acuta ed evidente con l’avanzare della crisi economica mondiale, spinge in avanti questi lavoratori, pronti a lottare per i loro interessi di classe coi mezzi necessari, consapevoli delle condizioni della lotta sindacale.
A seguito del fallito tentativo – un anno fa – del sindacato RWDSU (Retail, Wholesale, and Department Store Union) di essere riconosciuto nel magazzino Amazon a Bessemer, in Alabama, questi operai hanno riconosciuto i limiti dell’organizzazione “dall’alto” da parte di organizzazioni sindacali non conflittuali, se non di regime, e hanno optato per l’organizzazione dal basso, con un comitato di base.
Il capo dell’ALU è andato fino a Bessemer per conoscere le condizioni che laggiù hanno impedito la vittoria della RWDSU: «Innanzi tutto bisogna considerare che loro sono un sindacato già organizzato, ma che aveva un ristretto nucleo di affiliati nel magazzino. A noi sembra che non siano state colte molte opportunità e che non vi sia stato un sufficiente dialogo fra quel sindacato e quei lavoratori. Così, quando abbiamo intrapreso questa battaglia per l’organizzazione del sindacato sapevamo che erano i lavoratori Amazon che dovevano organizzare i lavoratori Amazon».
Questa lodevole azione dalla ALU è contraddistinta dalla volontà di agire su basi di classe: gli organizzatori si rifanno anche alle lezioni della ricca storia del movimento operaio americano, degli IWW e della CIO d’inizio Novecento.
Ora l’obiettivo che questo sindacato si pone è estendere l’organizzazione negli altri magazzini di New York e poi degli Usa.
Noi comunisti indichiamo gli ulteriori passi necessari al suo rafforzamento,
consapevoli che la forza del sindacato di classe per crescere e resistere contro
la classe padronale deve unire i lavoratori superando i confini fra settori,
categorie e nazioni. Occorre a questo scopo:
- ricercare azioni congiunte con altri sindacati presenti in Amazon – RWDSU e
soprattutto Teamsters – nonostante le loro carenze;
- coordinare azioni sindacali con i lavoratori in lotta di altre aziende, a
cominciare dal settore della logistica, come i ferrovieri della BNSF, l’UPS, i
portuali, i lavoratori postali; ciò può essere fatto ad esempio prendendo le
mosse dai rinnovi contrattuali, come quello che a breve interesserà i portuali
della costa occidentale, organizzati nella ILWU; bisogna ambire a costruire uno
sciopero nazionale della logistica, che avrebbe un potere enorme dando grandi
possibilità alla lotta dei lavoratori;
- tutti gli scioperi devono avanzare la rivendicazione della abolizione di ogni
limite alla libertà di sciopero e di organizzazione dei lavoratori;
- occorre prendere contatti con sindacati e lavoratori a livello internazionale,
nei paesi dove sono già organizzati in Amazon; bisogna ambire a dispiegare
scioperi internazionali, dato che la produzione capitalista è oggi più che mai
connessa a livello internazionale e mette in competizione i lavoratori di un
paese con quelli degli altri;
- occorre utilizzare i metodi della lotta di classe estendendo il più possibile
gli scioperi, organizzando i picchetti davanti ai cancelli e rifiutando la firma
di clausole nei contratti che limitino la libertà di sciopero.
Nell’ambito delle sempre più strette sinergie tra l’imperialismo cinese e il Pakistan, è stato recentemente siglato un memorandum d’intesa atto a sviluppare il porto di Karachi, capitale della provincia pakistana del Sindh, nel sud-est del paese, lungo la costa orientale del Mar Arabico. Nel porto ditte cinesi dovrebbero costruire nuovi ormeggi, una zona commerciale e un ponte per collegare la città alle vicine isole Manora. Tali iniziative vanno ad inquadrarsi nel progettato Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), che oggi rappresenta il più importante piano di investimenti del Belt and Road Initiative (BRI), la nuova strategica Via della Seta, vitale per l’imperialismo cinese. Esso aprirebbe uno sbocco sull’Oceano Indiano, alternativo alla rotta per gli Stretti di Malacca e della Sonda, presidiati dagli Stati Uniti. Capitali cinesi investiti nella metropoli pakistana creerebbero le premesse per un secondo percorso, che si aggiungerebbe o sostituirebbe quello attuale, che oggi collega la regione cinese dello Xinjiang all’area di Gwadar, in Belucistan, però una regione ritenuta oggi da Pechino con infrastrutture non adeguate e politicamente instabile.
In un messaggio diffuso nei social così commentava l’attuale primo ministro pakistano Imran Khan: «Questo progetto ripulirà l’habitat marino per i nostri pescatori, costruirà unità abitative per famiglie a basso reddito e presenterà opportunità per gli investitori; porterà Karachi al pari delle più sviluppate città portuali». La verità è che se vi saranno benefici, saranno solo per le sanguisughe del capitale, delle classi dominanti cinesi e pakistane, tutto sulle spalle delle classi sfruttate in una città già martoriata dai nefasti effetti del capitalismo.
A Karachi domina il capitale
Karachi è il primo porto del Pakistan e la sua più grande città, tra le più popolose al mondo. Da decenni ha un settore industriale piuttosto diversificato, dal tessile all’automobilistico, dall’energetico al farmaceutico e all’acciaio.
Nel 1947, anno dell’indipendenza della Repubblica Islamica e della separazione dalla Repubblica Indiana, la città contava 450.000 abitanti, al censimento del 2017 divenuti 16 milioni, poi ancora in vertiginoso aumento fino a probabilmente sfiorare oggi i 20 milioni.
Grattacieli e minareti svettano verso il cielo attorniati da una serie immensa cintura di baraccopoli, circa 600, che costituiscono una gran parte della città. Secondo un recente studio internazionale più della metà degli abitanti di Karachi risiede in agglomerati caotici di edifici illegali, non autorizzati dalle amministrazioni locali, in katchi abadi, costruzioni in mattoni, raramente in cemento, che hanno in parte sostituito le jhuggis, case di fango e di materiali di fortuna, lamiere e teli di plastica. In questi slum, che occupano aree molto estese della città, milioni di uomini vivono in condizioni estreme e di sovraffollamento, fra violenza e criminalità. Spesso le acque reflue scorrono all’aria aperta, non vi è accesso a servizi igienico-sanitari e all’acqua potabile. L’acqua fornita a queste zone è spesso contaminata da liquami fecali, da sostanze chimiche tossiche utilizzate in campo agricolo e negli scarichi industriali. Le malattie trasmesse dall’acqua ogni anno uccidono nella sola Karachi decine di migliaia di persone, soprattutto neonati e bambini, in povertà estrema e in evidente stato di malnutrizione.
La città, industrialmente avanzata, continua ad attrarre comunque gran numero di rurali alla ricerca di un salario. Arrivano dai villaggi limitrofi che vengono abbandonati o dalle regioni del paese meno sviluppate capitalisticamente. Chi giunge in città è spesso destinato ad ingigantire queste baraccopoli.
La questione delle abitazioni in città fu drammatica dopo l’indipendenza, con centinaia di migliaia di profughi musulmani provenienti dalla nuova India. Ma furono gli anni ‘60 a ingigantire i katchi abadi, quando l’allora regime militare di Ayub Khan cercò di spostare la classe operaia nelle periferie.
Chi oggi arriva in città e non trova un lavoro va a ingrossare il sottoproletariato, che sopravvive cercando nei rifiuti nei canali di scolo, altri mendicano rupie sui marciapiedi. Ma molti divengono dei proletari, offrendosi per un basso salario come braccianti, nelle industrie o nei servizi. Alcuni si spostano a Gadani, a pochi chilometri da Karachi, dove, con mutilati e morti quotidiani, in un paesaggio infernale, si demoliscono navi in disarmo provenienti da tutto il mondo, spinte sull’arenile.
Così come accaduto in altre metropoli asiatiche, enormemente cresciute negli ultimi tre decenni, anche Karachi non è stata capace di rispondere alla domanda abitativa. Alcuni studi stimano che la richiesta di case nell’area urbana di Karachi sia tre volte superiore all’offerta. L’enorme crescita della popolazione ha reso lo spazio edificabile ridotto e molto caro. Questo lo scenario denso di contraddizioni interne al sistema capitalistico.
Gli espropri
Alcune aree sono espropriate per realizzare profitti nel redditizio settore immobiliare e delle infrastrutture.
In tutto il Pakistan si stima che la metà dei contadini sia senza terra. La proletarizzazione della classe contadina è ancora in corso, in un processo lento, come avvenuto in diverse regioni dell’India. Spesso accanto ad un’agricoltura moderna resistono rapporti di classe e metodi di lavorazione arcaici, contadini proprietari di piccoli lotti, coloni, mezzadri etc.
Questo è in parte una conseguenza delle condizioni in cui le borghesie dei nascenti Stati indipendenti si trovarono ad operare quando presero il potere, destinando le risorse finanziarie principalmente al lo sviluppo del settore industriale nazionale. C’era però la necessità di soddisfare la sussistenza della sterminata popolazione contadina. In un gioco di precari equilibri la borghesia nazionale, se da una parte emanava riforme del settore agricolo atte a modernizzare le campagne per renderle appetibili al capitale, dall’altra non poteva aggredire la classe dell’aristocrazia terriera, sviluppatasi con l’arrivo degli inglesi, che sola poteva mantenere la sottomissione dello sterminato contadiname e la pace sociale, grazie anche alle vecchie ma utili sovrastrutture castali, etniche, tribali e religiose.
La crescita incontrollabile del capitalismo pone quindi questioni sempre più contraddittorie, come abbiamo affermato nel nostro articolo Nell’India flagellata dalla crisi e dalla pandemia - Tra proteste contadine e scioperi operai, ne Il Partito Comunista n.407, che descrive le attuali rivolte contadine in India.
Con lo sviluppo della città, a Karachi si è recentemente intensificato l’esproprio di terre già ad uso agricolo da parte di grandi società immobiliari. Queste, per costringere i piccoli contadini a vendere, spesso li intimidiscono con metodi mafiosi, ma anche con la complicità, e a volte l’aiuto, delle amministrazioni e della polizia locali. L’aristocrazia terriera che sfrutta e opprime la forza lavoro contadina, controlla il Partito Popolare, oggi al potere in città e in tutta la regione del Sindh. Molte di queste terre comprendono villaggi destinati, dopo gli sgomberi, ad essere demoliti.
La composizione di chi lavora queste terre è varia, vi sono braccianti stagionali, spesso immigrati, ma soprattutto mezze classi, mezzadri, coloni, fittavoli di proprietari terrieri, che negli accordi generalmente pretendono più del rapporto 50/50: più della metà del raccolto è consegnato al proprietario, con il conduttore, hari, che si deve fare carico delle spese per i macchinari, la semina, l’irrigazione e altro, richiedendo continuamente prestiti, spesso agli stessi proprietari, finendo in un ciclo infinito e crescente di debiti.
Di solito va così. Il villaggio viene visitato da agenti e tecnici delle società immobiliari, spalleggiati da squadracce e dalla polizia; i contadini sono informati che la terra è stata venduta e che se ne debbono andare; sono subito minacciati, una minima resistenza sfocia in una brutale violenza, chi continua a opporsi è incarcerato e spesso ucciso. Presto arrivano i macchinari per spianare ogni cosa e far posto alle nuove costruzioni. Il tutto sotto l’attento controllo della polizia locale.
Uno dei casi delle brutalità della polizia porta il nome di Rao Anwar, ex capo del distretto di Malir a Karachi, colluso con le società immobiliari, a libro paga della malavita, accusato di aver ordinato 444 omicidi tra il 2011 e il 2018 nel corso di 745 “interrogatori” durante i quali piccoli contadini salariati e piccolo borghesi erano sequestrati torturati e uccisi. In tutto il Pakistan lavoratori e contadini poveri sono rapiti dalla polizia al fine di estorsione, per ricattarli, minacciarli o semplicemente per ristabilire l’ordine di classe.
Oltre alla distruzione di interi villaggi rurali, per costruire queste nuove unità immobiliari, eccessive quantità di sabbia e ghiaia sono prelevate dal letto dei fiumi trasformando i terreni circostanti in lande desolate, con effetti devastanti su alcuni “parchi nazionali” come quello del Kirthar. Le escavazioni hanno abbassato la falda freatica, peggiorando le condizioni di molti contadini, dipendenti dalle piogge monsoniche e stretti nella morsa dei debiti.
In questa situazione i partiti nazionalisti sindhi hanno terreno fertile, riuscendo a mascherare queste necessità del capitale e di lotta tra le classi, in una guerra tra i sindhi locali e i mujahir, popolazione immigrata di lingua urdu che arrivò dall’India dopo l’indipendenza e la partizione.
La distruzione dei quartieri proletari
Anche aree urbane sono destinate all’esproprio, dove vivono sottoproletari e piccolo borghesi, ma anche proletari che lavorano nella grande industria o nei servizi. Lo sventramento di interi quartieri è in atto da diversi decenni. Già nel 1975 furono demoliti 4.200 edifici, senza concedere alcun rimborso. In un sobborgo di Karachi – Bahria – lo Stato aveva permesso alla società Bahria Town Group di acquisire 6.500 ettari di terra, per poi “accorgersi” che erano stati occupati 19.000 ettari, a condizioni di acquisto “non regolari”.
Ma è dal nuovo millennio che questo processo ha preso vigore. Dal 2002 al 2008, 77.000 alloggi sono stati distrutti per far spazio alla costruzione della superstrada Lyari, di cui solo 30.000 risarciti con la misera cifra di 30.000 rupie. Nel 2014 furono demolite più di 14.000 abitazioni a Gujjar Nala col pretesto di ridurre il rischio di inondazioni.
Infine la demolizione in corso di migliaia di abitazioni nel distretto di Orangi. Sorse intorno al 1947 con l’arrivo dei rifugiati dalla neonata India, quando il governo permetteva a gruppi di emigranti di stabilirsi liberamente su alcuni terreni demaniali. Oggi questo enorme insediamento informale è un alveare in cui vive oltre un milione di persone, esteso per 22 chilometri quadri. È lo slum più grande di Karachi e tra i più estesi e popolati di tutta l’Asia.
Nel corso degli anni una parte di quest’area venne riconosciuta come circoscrizione amministrativa. Con l’arrivo nel 1971 dei rifugiati dal Bangladesh, anno dell’indipendenza dell’ex Pakistan Orientale, e la successiva incontrollata crescita della città, Orangi Town crebbe smisuratamente, senza approvazione amministrativa. Oggi vi vivono molti operai che forniscono manodopera a basso costo ai distretti industriali della città.
Tutta la città ne soffre
Attualmente uno sviluppo immobiliare è in corso nella parte collinare a nord della città. Le sconsiderate demolizioni hanno aggredito formazioni geologiche attraversate da canali di drenaggio naturali, canalette e depressioni di raccolta dell’acqua. Quando piove le aree a valle, come il distretto di Saadi, sono invase dalle acque che ruscellano dalle colline e che, in caso di precipitazioni abbondanti, si incanalano nel precario sistema fognario allagando le strade di acque reflue. Lo scorso anno ad agosto tre giorni di forti piogge monsoniche hanno sommerso gran parte della metropoli, automobili e case sono state spazzate da fiumi d’acqua, si sono avuti molti smottamenti di terreno, ci sono stati oltre un centinaio di morti annegati o fulminati e migliaia gli sfollati. Proteste si sono svolte in diverse parti della città.
Nel 2003 in tutta la provincia vi furono 484 morti. Questi drammi avvengono in diversi quartieri ma in particolare in quelli dove risiedono le classi più povere, dove sono stati sbarrati o molto ristretti gli sbocchi al mare per lo smaltimento delle acque.
Sebbene Karachi sia una città enorme ha solo due discariche autorizzate gestite dall’amministrazione cittadina. La maggior parte dei rifiuti viene quindi riposta in numerose aree di raccolta non ufficiali, che hanno alimentato un’industria del riciclaggio dove imprenditori reclutano giovanissimi, principalmente di origine afgana, per raccogliere tutto il materiale riciclabile. Il resto viene bruciato o abbandonato in attesa della prossima alluvione.
Tutti i partiti borghesi annidati nelle amministrazioni locali, appendici territoriali della struttura amministrativa dello Stato, solo durante le campagne elettorali, con menzogne e false promesse si occupano delle alluvioni che da decenni affliggono la metropoli.
Parziali riforme urbanistiche anche se venissero messe in pratica risolverebbero poco non affrontando la vera radice del problema: il rapporto sociale del capitale con il territorio. Il Capitalismo mai potrà risolvere definitivamente problemi di tale entità, che ovviamente non sono esclusivi delle metropoli.
La necessità del comunismo
Il capitalismo è una catastrofe per gran parte dell’umanità e Karachi ne è un limpido esempio. Un insensato urbanesimo capitalista dove sovraffollamento e impossibilità di vivere sono un dato di fatto, una costante generale di questo sistema sociale che non ha più alcun ruolo progressivo per la storia, un mostro tentacolare che soffoca il genere umano in una morsa opprimente.
Karachi, come altre metropoli, esprime l’urgenza del programma comunista post-rivoluzionario, che provvederà alla graduale eliminazione dell’antagonismo tra città e campagna creando una rete uniforme di connessioni a livello mondiale con una ridistribuzione della popolazione su tutto il territorio. Un’opera, non certo semplice, che spetterà alle nuove generazioni, che però saranno facilitate dal vivere in un mondo liberato dal profitto, ristabilendo definitivamente sani ed organici equilibri tra terra, acque, animali ed uomo, oggi ampiamente alterati e violentati.
Così concludevamo un nostro articolo – Spazio contro cemento – apparso nel nostro giornale di allora, Il Programma Comunista,n.1 del 1953:
«L’agglomerazione urbana e produttiva permane quindi non per ragioni dipendenti dall’optimum della produzione, ma per il durare dell’economia del profitto e della dittatura sociale del capitale. Quando sarà possibile, dopo aver schiacciata con la forza tale dittatura ogni giorno più oscena, subordinare ogni soluzione e ogni piano al miglioramento delle condizioni del vivente lavoro, foggiando a tale scopo quello che è il lavoro morto, il capitale costante, l’arredamento che la specie uomo ha dato nei secoli e seguita a dare alla crosta della terra, allora il verticalismo bruto dei mostri di cemento sarà deriso e soppresso, e per le orizzontali distese immense di spazio, sfollate le città gigantesche, la forza e l’intelligenza dell’animale uomo progressivamente tenderanno a rendere uniforme sulle terre abitabili la densità della vita e la densità del lavoro, resi ormai forze concordi e non, come nella deforme civiltà odierna, fieramente nemiche, e tenute solo insieme dallo spettro della servitù e della fame».
Karachi è lì a dimostrare come nel mondo del Capitale non esiste un limite allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e come nel regno del Mercato l’inutile e dannoso abuso delle risorse naturali sia una base portante della struttura del capitalismo e della sua cieca corsa al profitto.
Ma non saranno gli uomini di buona volontà che coscientemente potranno scalfire queste terribili infamie. Soltanto la classe proletaria, unita al di sopra di religioni e razze, avrà la possibilità di fronteggiare la classe dominante. Soltanto la classe proletaria pakistana ed indiana, cinese ed americana, al di sopra delle nazionalità, potrà invertire la rotta che oggi è diretta verso la catastrofe di una nuova guerra mondiale. Solo i proletari di tutto il mondo, diretti dal loro partito rivoluzionario, potranno lottare per una nuova forma di organizzazione sociale – il Comunismo – una società finalmente senza classi, senza separazione dei mezzi di produzione e della terra dal lavoro, una società di specie, realmente capace di soddisfare i bisogni umani.
1. Il recente attacco russo all’Ucraina, il prosieguo della lunga guerra nello Yemen, la crisi siriana, la indecente ritirata americana dall’Afganistan e le crescenti tensioni nello stretto di Formosa, con il riassetto degli equilibri strategici dei vari imperialismi volti a contenere l’espansione del dragone rosso, hanno oscurato l’attenzione degli organi di (dis)informazione, sempre in cerca di eventi sensazionali da presentare e plasmare a seconda delle esigenze delle varie botteghe di potere, siano esse grandi primi attori o coristi di seconda linea.
Il dramma dei migranti dalla Libia, forza lavoro a costo zero da riversare nell’infernale ciclo produttivo europeo, che cerca di non rimanere schiacciato dai colossi americano e cinese, non fa vendere giornali e spazi pubblicitari. Se ne parla solo in caso di grandi naufragi, il resto è routine.
Per una imbiancata di “umanità”, incompatibile con il capitalismo, gli Stati hanno istituito l’8 luglio la Giornata Mondiale del Mediterraneo, dicono per tenere “alto e vivo” il ricordo dei disperati morti nella traversata, in realtà per affrontarsi sui problemi geopolitici e strategici dell’area.
L’attuale crisi ucraina che minaccia la fornitura di metano per le voraci industrie europee, e particolarmente italiane, ha indotto a cercare di aumentare l’afflusso di gas e idrocarburi dalla Libia. Ma in quali condizione sarà possibile?
La caduta e morte violenta di Gheddafi e del suo regime nel 2011 ha portato allo sfaldamento dello Stato libico e allo scontro tra le 144 tribù, tra grandi e piccole, che hanno ripreso le antiche rivalità. Il rais era riuscito a tenerle insieme in una pace apparente grazie alla rendita petrolifera che assicurava un relativo benessere ai poco più di quattro milioni di libici e posti di lavoro a basso costo a oltre un milione di immigrati, principalmente dall’Egitto.
Dagli importanti giacimenti di Wafa e Bahr Essalam, co-gestiti in Tripolitania dall’Eni in regime di quasi monopolio, tramite il gasdotto Green Stream, possono arrivare da Mellitah a Gela 8 miliardi di metri cubi l’anno. Ma il maggior polo petrolifero si trova in Cirenaica, dove si stima trovarsi l’80% delle riserve di idrocarburi di tutta la Libia: una rete di oleodotti li porta a 4 terminali tra Raf Lanuf e Tobruch.
Dal 2011 lo scontro armato tra le opposte forze armate minaccia il regolare flusso sottomarino, rende insicuri investimenti nuovi e per la manutenzione degli impianti, obsoleti e danneggiati dai vari attentati.
In questa situazione l’infingarda e doppiogiochista borghesia italiaca era riuscita a mantenere il predominio nel prelievo degli idrocarburi pagando il pizzo alle varie milizie tribali a compenso della loro “protezione”. Francia e Gran Bretagna l’hanno sempre mal sopportato e ora manovrano sostenendo la Cirenaica e il generale Haftar.
2. Rimandiamo ai numerosi articoli sul nostro giornale per l’estesa disanima degli avvenimenti fino all’oggi, che riassumiamo in poche date:
2011 – Caduta del regime di Gheddafi, per volontà soprattutto degli Stati Uniti e della Francia;
2011-2014 – Violenta instabilità senza un potere centrale, avanzata dei gruppi jihadisti;
2014 – Il generale Haftar muove una massiccia operazione militare dalla Cirenaica, volta a sradicare il “terrorismo islamico” e l’influenza della Fratellanza Musulmana dal paese. Organizza e si pone al comando dell’esercito nazionale libico. Nuove elezioni non sortiscono alcuna stabilità. Alla fine la Libia risulta divisa in due entità: la Cirenaica, protetta dall’esercito di Haftar, e la Tripolitania, governata da gruppi armati e milizie islamiche.
2015 – Tentativi delle istituzioni internazionali di formare un governo unitario e fermare una seconda guerra civile. Negli incontri mediati dall’Onu viene indicato Al-Sarraj primo ministro di un Governo di Unità Nazionale. Questo non ottiene la fiducia delle forze cirenaiche, in forte competizione con Tripoli soprattutto per il controllo delle risorse petrolifere e per la lotta contro l’ISIS.
2016-2017 – Nonostante evidenti successi nella lotta all’estremismo islamico in Tripolitania, dovuto anche al sostegno di alcuni gruppi miliziani, il potere del governo sostenuto dall’Onu si indebolisce sempre più. Per i suoi legami con i Fratelli Musulmani ottiene sostegno dalla Turchia e dal Qatar, principali finanziatori di quella organizzazione. Haftar e il parlamento di Bengasi non riconoscono mai la legittimità del governo di Tripoli.
2018 – Divisioni territoriali e alleanze internazionali. La nuova partizione in tre aree di influenza – con centri a Tobruk-Bengasi-Tripoli – vede il debole governo di Al-Sarraj, “sindaco di Tripoli” poiché nemmeno controlla la città, sostenuto dalla Turchia e dal Qatar. La Cirenaica, sotto l’esercito di Haftar, è invece appoggiata dalla Russia, che si avvicina all’Europa dall’altra sponda del Mediterraneo, dalla Francia, in concorrenza con l’Eni per il petrolio, dall’Egitto, che vuole contrastare l’ISIS ed emergere come potenza regionale, e dagli Emirati Arabi Uniti, per interessi petroliferi, e infine dal Fezzan, l’area desertica interna dove bellicose tribù, confraternite e varie milizie armate, spesso mercenarie, controllano le rotte commerciali, migratorie e dei giacimenti petroliferi.
2019 – Haftar attacca. Falliscono le varie conferenze per una soluzione dell’unità libica. In aprile le truppe cirenaiche avanzano giungendo a un centinaio di chilometri da Tripoli, che vorrebbero conquistare e risolvere la questione manu militari. Ma violenti bombardamenti aerei da Tripoli fermano l’avanzata di Haftar, spinto lontano dalle basi di rifornimento, e inizia una fase di stallo perché nessuna delle parti è in grado di sconfiggere l’avversario.
A novembre Al-Sarraj firma un accordo militare e marittimo con la Turchia che, in cambio di aiuti in armi, uomini e istruttori, ottiene diritti di sfruttamento esclusivo di aree petrolifere nel Mediterraneo. L’accordo prevede l’allargamento unilaterale dei limiti delle acque territoriali creando una continuità dalle opposte sponde tra Libia e Turchia, innescando contenziosi con Cipro e Grecia. Negli ultimi giorni dell’anno Haftar lancia la “battaglia finale” per la conquista di Tripoli.
2020 – A gennaio Haftar chiude i pozzi per pesare nelle conferenze internazionali. Si ha una mancata produzione di greggio di 800.000 barili e perdite finanziarie di 55 milioni di dollari al giorno. Arrivano i rinforzi turchi, compresi combattenti siriani, la situazione si capovolge ed il feldmaresciallo Haftar è costretto ad indietreggiare. La battaglia frontale si sposta verso Sirte, in Cirenaica, coinvolgendo direttamente Egitto e Russia, che si avvale anche delle formazioni mercenarie del Gruppo Wagner e di paramilitari sudanesi. Tripoli non è più minacciata direttamente. Riprendono i loschi affari dei trafficanti di migranti.
Scoppiano ovunque manifestazioni per le peggiorate condizioni di vita della popolazione. Dopo 7 mesi si riaprono i pozzi con una perdita complessiva di 24 miliardi di dollari, escluso l’indotto, a fronte di un bilancio libico che nel 2019 è stato di 56,3 miliardi.
Settembre, Al-Sarraj annuncia le sue dimissioni nell’intento di ridurre l’esasperazione di grandi manifestazioni popolari in Tripolitania e in Cirenaica per la miseria, la corruzione in ogni settore che ostacola ogni ripresa, la mancanza di carburanti e di elettricità dovuta al blocco delle estrazioni. Tutte le manifestazioni sono duramente represse dalle milizie governative. Anche il primo ministro del governo di Tobruch, sua nuova sede, si dimette. In questo contesto a Ginevra il 23 ottobre rappresentanti militari delle due parti giungono a un cessate il fuoco. Si indicono nuove elezioni generali per un parlamento unitario libico da tenersi il 24 dicembre. Entro il 23 gennaio 2021 tutti i gruppi militari stranieri dovranno lasciare il paese. Il 25 dicembre avviene uno scambio di prigionieri.
Dilaga l’epidemia del Covid-19, non ci sono adeguate strutture per curare i casi più gravi. Al 31 dicembre si segnalano 100.277 casi con 1.478 morti che salgono già il 18 gennaio 2021 a 109.088 e a 1.665 decessi.
2021 – Promesse e impegni non mantenuti. In una situazione di guerra civile congelata, a marzo Al-Sarraj passa i suoi poteri al nuovo primo ministro Dbeibeh il quale riesce ad aprire colloqui con i rappresentanti di tutte le aree geografiche e politiche del paese. Il processo è gestito dall’Onu che a Ginevra il 5 febbraio costituisce con 75 delegati il nuovo governo poi riconosciuto dal parlamento libico riunito per la prima volta a Sirte.
Il nuovo governo transitorio organizzerà nuove elezioni politiche, stabilite per il 24 dicembre 2021, di tutti i libici. Ha dovuto giudicare le controverse candidature, tra cui quella di Saif Gheddafi, figlio del Rais, già condannato a morte poi amnistiato, e quella del generale Haftar. Il principio della inclusione di tutti, dietro la maschera democratica, cela la preoccupazione che l’esclusione di un candidato di qualche tribù minore inneschi scontri, attentati o chiusura dei pozzi, confermando così che la pressione delle milizie ancora condiziona le scelte politiche.
Infine la commissione ha rinviato le elezioni a data da destinarsi. Inoltre è fallito lo smantellamento delle milizie locali: ai primi di dicembre diversi gruppi armati rivali si sono mobilitati a Tripoli facendo temere una ripresa della guerra civile.
2022 – Quasi un ritorno al 2014. Il Parlamento di Tobruch ai primi di febbraio elegge Bashagha a capo del governo, un uomo d’affari legato alla Turchia e benvisto da Mosca. Si ritorna alla presenza di due governi. Il paese è ancora diviso in fazioni rivali che preferiscono una instabile parcellizzazione che permette ai tanti piccoli signorotti locali un misero potere di stampo tribale ma inserito nelle macchinazioni degli imperialismi sui traffici di idrocarburi. Per questo la corruzione dei capi locali è un fenomeno endemico.
Ciononostante Dbeibeh l’11 febbraio annuncia per il giugno lo svolgimento delle elezioni politiche, una riscrittura della legge elettorale, l’aggiornamento delle liste, un referendum su un progetto di riforma costituzionale e perfino una consulenza informatica per garantire trasparenza con osservatori internazionali: molti, giustamente, pensano ad un miraggio!
20 febbraio: l’agenzia al-Jazeera informa che i mercenari della compagnia russa Wagner Group si sono ritirati dalla città di Sokna e dalla strada che collegava Dan e Sirte dirigendosi nella base aerea di Al-Jufra, nel centro del paese, con tutto il loro equipaggiamento compresi i sistemi di difesa aerea Pantasir.
24 febbraio: il presidente americano Joe Biden prolunga di un anno lo stato di emergenza per la Libia.
3 marzo: tre ministri del nuovo governo parallelo libico sono sequestrati da un “gruppo armato” affiliato al premier libico Abdel Hamid, designato dall’Onu e riconosciuto dai governi stranieri, mentre cercavano di raggiungere Tobruch per prestare giuramento al nuovo governo. La cerimonia avviene comunque.
7 marzo: le autorità di Tripoli chiudono lo spazio aereo libico bloccando i collegamenti interni come ritorsione al riconoscimento del governo Bashagha.
9 marzo: il premier Bashagha annuncia di trasferire il governo a Tripoli.
16 marzo: la TV Al-Hadath, di proprietà del figlio di Haftar, riferisce che uomini armati legati al generale Khalifa Haftar hanno preso d’assalto la sede del Governo di Unità Nazionale per consegnarlo al vice primo ministro del governo di Fathi Bashagha, Ali Al-Gotrani.
Nei giorni seguenti il generale Haftar, che era stato a Mosca la settimana precedente, smentisce il trasferimento di mercenari libici in Ucraina per combattere a fianco dell’esercito russo. Nonostante gli stretti legami con la Russia, per la Libia, è importante mantenere rapporti neutrali con l’Ucraina, da cui proviene il 40% del suo consumo di grano. La Libia nel 2009 ha firmato un accordo con Kiev per coltivare grano su 100.000 ettari di terra ucraina, che potrebbe essere dirottato altrove.
Si dice che una società del gruppo russo Wagner abbia trasferito mercenari siriani da Bengasi alla Siria per poi unirsi alle truppe russe attive in Ucraina.
22 marzo: Il consolato italiano manovra con il comune di Bengasi per la ricostruzione della città vecchia di Bengasi.
23 marzo: Amnesty International dichiara che l’agenzia per la sicurezza interna libica sta effettuando arresti per reprimere la libertà di espressione col pretesto di proteggere i “valori libici e islamici”. Nello stesso giorno si riapre lo spazio aereo interno e riprendono i voli.
29 marzo: al Cairo si riuniscono esponenti politici libici di Tripoli e Tobruch per cercare una soluzione alla crisi. Sono presenti i ministri degli esteri egiziano e l’omologo del Qatar.
1 aprile: È organizzata a Derna una manifestazione di protesta contro il tragico peggioramento delle condizioni di vita e le pessime condizioni igieniche della città, contro la corruzione e la spartizione tra i funzionari comunali di 400 milioni di dinari assegnati per la ricostruzione della città e dell’impianto fognario.
3. La situazione attuale vede una Libia sostanzialmente sotto il controllo diretto di due potenze straniere principali: Russia e Turchia con l’offuscamento di Francia, Gran Bretagna e Italia in particolare, mentre l’Egitto sta cercando di rientrare nel gioco con il sostegno delle petromonarchie arabe. In un recente incontro al Cairo tra i rispettivi ministri del lavoro egiziano e libico, l’Egitto ha promesso l’invio di circa 2 milioni di lavoratori nei prossimi due anni per aiutare la ricostruzione della Libia e per risolvere parte della crisi egiziana. Le prime due potenze con i loro uomini e apparati militari controllano aree vitali del paese e sono ben in grado di influenzare a loro vantaggio i rispettivi protetti libici.
L’interesse strategico russo è legato anche alla necessità di poter disporre di una base aerea e navale ampia e garantita nel centro del Mediterraneo da affiancare a quella di Tartus in Siria, che è in fase di ampliamento, viste le sue ridotte dimensioni. È un ulteriore segno delle nuove velleità espansionistiche dell’imperialismo russo che cerca di riprendersi parte degli spazi persi con la dissoluzione dell’Urss.
Però la presenza russa al momento è solo militare e non risultano particolari investimenti in infrastrutture e impianti. Dai dati dell’Onu risultano importazioni libiche dalla Russia per 75 milioni di dollari nel 2016, che salgono a 135 nel 2017 e a 227 milioni nel 2018. Le prime 3 merci per importanza sono state nel 2018: cereali per 95 milioni di dollari, ferro e acciaio per 86 milioni e prodotti chimici per 23. Con le sanzioni economiche imposte alla Russia si prevede una forte crisi alimentare dovuta al mancato arrivo del grano russo e ucraino.
Prima della disgraziata avventura coloniale italiana, la Libia faceva parte dell’agonizzante impero ottomano su cui volteggiavano gli avvoltoi imperialisti europei, Italia per prima con la sua pretesa di una “quarta sponda” nel Mediterraneo. Pare che la storia si stia ripetendo in una farsa, dove ora gli idrocarburi e la posizione strategica in mezzo al Mediterraneo riaccendono gli appetiti di nuovi avvoltoi.
Le esportazioni turche in Libia nel 2021 hanno raggiunto i 2,44 miliardi di dollari, in aumento del 65% rispetto al 2020. La Libia rappresentava l’1% delle esportazioni turche, ma dopo la firma degli accordi nel 2019 per le aree marittime c’è stata una forte accelerazione degli affari e la Turchia ora è il primo partner per la gestione dei progetti di ricostruzione libici, per un valore di 111 miliardi di dollari, superando i concorrenti italiani, cinesi e francesi.
Il contrasto tra Egitto, Turchia ed Emirati Arabi Uniti sulla Libia è anche sul sostegno alla Fratellanza Musulmana, fortemente sostenuta dal presidente turco Erdo?an, considerata dagli Emirati Arabi dal 2014 una organizzazione terroristica. Turchia ed Emirati hanno appoggiato fazioni opposte in diversi teatri di conflitto: in Libia Ankara ha sostenuto l’ex governo di Tripoli mentre Abu Dhabi ha sostenuto il generale Haftar insieme all’Egitto e all’Arabia Saudita, altri due Stati del blocco “anti-Fratellanza Musulmana”. Il quadro complessivo si complica ancor più.
Gli Usa al momento mantengono un basso profilo, specialmente dopo l’attentato a Bengasi del 2012 che aveva provocato la morte di 4 cittadini americani tra cui il loro ambasciatore. La risposta arrivò con successivi “bombardamenti selettivi” contro l’ISIS con l’uso di droni finalizzati alla cattura di terroristi prevalentemente legati all’attentato di Bengasi. Da allora si sono limitati ad appoggiare il lavoro diplomatico delle Nazioni Unite, salvo rispondere con altri “bombardamenti selettivi” ad attentati che li coinvolgono, specialmente contro basi organizzative jihadiste.
Nonostante fosse richiesto da diversi paesi europei un coinvolgimento militare diretto, le varie amministrazioni americane succedutesi non hanno mandato truppe in Libia ma solo fornito sostegno agli alleati europei con lavoro di intelligenza e ricognizione aerea. La principale preoccupazione statunitense è contrastare la presenza russa ma senza scontri diretti.
Nel gennaio 2021, dopo l’invio di forze mercenarie, stimate complessivamente in circa 20mila uomini, gli Usa hanno chiesto a Russia e Turchia di ritirarle e cessare ogni intervento militare. Lo scopo è mantenere la fragile tregua lungo la linea del fronte, tra Sirte e la base aerea di Al Jufra, nel centro del paese, il confine tra Tripolitania e Cirenaica dove le milizie del generale Haftar e della Wagner hanno eretto una trincea lunga oltre 70 chilometri come mostrato da immagini satellitari. Questo è in netto contrasto con le dichiarate intenzioni degli attori esterni coinvolti a smobilitare e ritirarsi dal paese.
4. La National Oil Corporation, fondata nel 1970, è la compagnia nazionale libica che gestisce tutte le attività inerenti lo sfruttamento delle enormi riserve del paese. Nello scorso mese di gennaio è stato inaugurato il giacimento petrolifero di Al-Tahara, della Compagnia petrolifera del Golfo Arabico, con una produzione attuale di 2.500 barili, che con nuovi investimenti salirà a 40.000. L’attuale ministro del Petrolio e del gas libico ha recentemente concluso accordi con il suo omologo russo per la cooperazione nei settori delle ferrovie, dell’elettricità, del petrolio e del gas, dei mulini, dei foraggi, dell’istruzione superiore e del settore sanitario.
Ogni reale attività nei pozzi della Cirenaica è sotto il controllo della milizia armata agli ordini di Haftar.
In questa situazione il regolare approvvigionamento di idrocarburi è fortemente compromesso. L’Eni nel febbraio 2011 dovette svuotare il gasdotto Green Stream per motivi di sicurezza dovuto ai disordini in Tripolitania. Calmata la situazione è stato più volte chiuso e riaperto, come ai primi di febbraio 2021 per imprecisati interventi di manutenzione.
L’attuale stallo politico-militare torna comunque utile ai vari predoni interni ed esterni. Impossibile che dalle prossime elezioni, se effettuate, esca una soluzione politica unitaria. La Libia divisa in due consente un faticoso e incerto controllo da parte dei capitali stranieri sui vari gruppi di potere, interni ed esterni.
Ma oggi, con la crisi russo-ucraina in corso, l’antica soluzione del “divide et impera” può risultare non più funzionale agli interessi dei vari imperialismi che si affannano intorno alla Libia, sia per il rifornimento di idrocarburi sia per la necessità di sicuri investimenti di masse di capitali necessarie alla ricostruzione del paese.
Intanto le condizioni di vita del proletariato libico affondano sempre più nel baratro della fame.
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Nell’opuscolo “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky”, scritto nell’ottobre-novembre 1918, Lenin afferma: «Per definire il carattere di una guerra (è essa reazionaria o rivoluzionaria?) non bisogna accertare chi abbia attaccato o in quale paese si trovi il “nemico”, ma bisogna stabilire quale classe conduce la guerra, di quale politica sia la continuazione questa guerra (...) Non devo ragionare dall’angolo visivo del “mio” paese (poiché questo è il ragionamento di un misero cretino, di un piccolo borghese nazionalista, che non sa di essere una marionetta nelle mani della borghesia imperialistica), ma dall’angolo visivo del mio contributo alla preparazione, alla propaganda, all’accelerazione della rivoluzione proletaria mondiale».
Dopo la pace di Brest-Litovsk
Per Lenin l’accettazione, ad ogni costo, del trattato di Brest-Litovsk con l’imperialismo germanico si imponeva per salvare il potere proletario in Russia, in attesa della rivoluzione internazionale e come esempio ed esortazione al disfattismo in tutti i paesi.
Pesanti furono le condizioni imposte dalla Germania e suoi alleati dal trattato: lo Stato russo dovrà cedere la Polonia Orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina e la Transcaucasia, quasi un quarto della sua superficie e un terzo della popolazione. In termini produttivi significava un terzo del raccolto, l’80% delle fabbriche di zucchero, il 73% della produzione di ferro, il 75% del carbone e di 9.000 imprese industriali su 16.000, un terzo delle strade ferrate. In più la Germania impose alla Russia una clausola addizionale, 6 miliardi di marchi a compensazione delle perdite tedesche. Alla riunione è stata esposta una carta con i nuovi confini imposti dal trattato.
I governi dell’Intesa offrirono aiuti, americani, britannici e francesi, a condizione di una ripresa della guerra contro la Germania.
Lenin ribadì la necessità di accettare le dure condizioni del trattato perché: «Se la rivoluzione europea tarda a nascere, ci attendono durissime sconfitte, perché non abbiamo esercito, perché non abbiamo organizzazione, e perché non possiamo risolvere subito questi due problemi (...) Ottima cosa è se il proletariato tedesco sarà in grado di insorgere (...) Se la rivoluzione nasce, tutto è salvo. Certamente! Ma se non si presenterà come noi desideriamo, se non vincerà domani, che faremo allora?».
L’opposizione alla linea di Lenin fu incentrata sulla necessità di continuare la guerra, sul conseguente tradimento e abbandono della Finlandia sovietica, sull’inutilità di una breve tregua per riorganizzare le forze sovietiche.
Il congresso approvò la politica di Lenin. Čičerin, capo delegazione a Brest-Litovsk, fu nominato ministro degli esteri e Trotski comandante in capo dell’Armata Rossa con l’arduo compito di organizzarla in modo efficiente.
Invece di un periodo di relativa calma per consolidare la rivoluzione si aprirono più gravi ordini di crisi: la terribile carestia e fame che devastò tutta la Russia; il riordino dell’Armata Rossa; la ripresa della produzione industriale e agricola; la coalizione antibolscevica delle armate bianche, sostenute dai paesi dell’Intesa.
Nel giro di pochi mesi e quasi contemporaneamente si aprirono: il fronte caucasico intorno a Kuban, il fronte sud con le battaglie di Caricyn, il fronte est con scontri con l’armata cecoslovacca in ritirata, il fronte nord contro gli ex alleati, la guerra civile in Siberia.
La Germania incorporò Estonia, Lettonia, Lituania e tutta la Polonia orientale.
La Repubblica Socialista dei lavoratori di Finlandia
Nella vicina Finlandia si stava tragicamente concludendo il tentativo dei comunisti di istituire una loro repubblica.
Alle elezioni della Dieta finnica nell’estate 1917 si era avuta una sostanziale parità tra i rossi, cui andarono 90 seggi, e i bianchi, con 95. Fu costituito un governo non socialista.
Il 6 dicembre 1917, sull’onda della rivoluzione d’Ottobre, i finlandesi proclamarono l’indipendenza dall’ex impero russo, formando una repubblica, della quale chiesero il riconoscimento ufficiale alla Russia bolscevica. L’ottennero dal governo sovietico, che aveva sostenuto i rivoluzionari finlandesi con l’invio di armi e uomini.
Nei primi mesi del 1918 erano scoppiate violente lotte politiche e sociali tra i finlandesi rossi e i bianchi. I due schieramenti politici disponevano anche di proprie organizzazioni paramilitari. La guardia rossa finlandese disponeva di 30.000 elementi, ben motivati e armati, sotto il comando di un anziano ufficiale, Aaltonen, già membro del Partito socialdemocratico.
Era anche presente un discreto contingente di forze russe, di cui 40.000 dell’esercito, concentrati prevalentemente a Vyborg, nella Carelia meridionale, e a Tampere nell’interno, e 20.000 della flotta del Baltico nei porti meridionali della Finlandia. I loro comandanti avevano avuto l’ordine di sostenere la lotta dei finlandesi, ma cercando di non dare pretesto a contenziosi con la Germania. Ma i soldati russi premevano per rientrare a casa e finirla con ogni tipo di guerra. Non fu stabilito un comando unico tra finlandesi e russi, creando seri problemi di gestione strategica.
Il borghese senato finlandese incaricò il generale Mannerheim, che aveva servito per 30 anni nell’esercito zarista e da poco rientrato in Finlandia, di formare un esercito. Furono richiamati tutti i volontari locali antisovietici più gli ex prigionieri di guerra liberati dalla Germania, più circa 26.000 combattenti non inquadrati. Le truppe bianche più affidabili erano composte da 1.800 giovani fuggiti in Germania durante la guerra per addestrarsi e organizzarsi per una rivolta contro l’oppressore impero zarista: questi tornarono in Finlandia in formazioni militari ben addestrate e armate. Ne risultò un disomogeneo amalgama di circa 40.000 unità, grosso modo pari all’opposta formazione.
L’impostazione strategica complessiva fu condizionata da due importanti fattori. Il primo geografico: la Finlandia è una vasta pianura colma di laghi, paludi e foreste che impediscono la visuale a distanza. Le vie di comunicazione sono scarse, fangose al disgelo e spesso inutilizzabili per il rapido trasferimento di artiglieria pesante. Gli spostamenti sono più agevoli durante l’inverno con fiumi e laghi gelati. Impossibili ampie e profonde manovre della cavalleria, fondamentale arma d’attacco delle truppe russe. Il secondo riguarda la composizione sociale della popolazione: al nord, prevalentemente agricolo, composta da piccoli contadini indipendenti, confluiti in massa nelle guardie bianche; al sud, con le industrie e i cantieri navali, la popolazione, prevalentemente proletaria, aderì agli ideali comunisti inquadrandosi nelle guardie rosse.
Il 26 gennaio 1918, il governo fu rovesciato da uno sciopero generale e dall’intervento di 4.500 armati della guardia rossa finlandese che occupò i centri nevralgici di Helsinki. Non incontrarono particolare resistenza. Il governo fuggì a nord.
In breve tempo i rivoluzionari presero il controllo del meridione del paese. Ma, malgrado i continui arrivi di armi e munizioni dalla Russia, non riuscirono a consolidare questo vantaggio estendendo il loro territorio e riducendo al silenzio la guardia bianca, nonostante Mannerheim non fosse ancora in grado di dispiegare l’esercito bianco, ancora in via di organizzazione. Questi stabilì la sua base nella città portuale di Vaasa, a metà del golfo di Botnia tra Svezia e Finlandia, ottimamente servita da ferrovie che collegano il paese da est a ovest.
Grazie al fattore sorpresa, alla conoscenza del territorio, alle sue truppe migliori, e per lo scarso impegno delle truppe russe, che preferirono in buona parte arrendersi senza combattere, le audaci manovre offensive di Mannerheim in soli 10 giorni riuscirono a controllare tutto il nord della Finlandia, catturando migliaia di prigionieri russi e molto materiale.
La Finlandia risultò così divisa in due, con un governo comunista nel sud e nel sud-ovest del paese, mentre nel settentrione si formò un’autorità che sosteneva il governo bianco e la formazione di una repubblica democratica borghese.
Ai compagni è stata esposta una carta con la divisione del paese.
Il 2 febbraio 1918 iniziò l’offensiva dei finlandesi rossi, che si proponeva di riprendere il controllo della vitale ferrovia est-ovest e tagliare in due l’esercito bianco. Le offensive furono neutralizzate da difese ben organizzate. Questi insuccessi furono dovuti al loro ritardo, quando i bianchi erano riusciti a consolidarsi sulle linee ferroviarie, che garantivano loro i rifornimenti. Al contrario le guardie rosse lamentavano la carenza di mezzi di trasporto, con inefficiente vettovagliamento e munizionamento. Inoltre le truppe e i comandanti rossi avevano poco addestramento, esperienza e capacità di operare manovre coordinate.
Il 3 marzo la firma del trattato di pace Brest-Litovsk impose alla Russia il ritiro delle truppe e delle navi che avevano sostenuto i finlandesi rossi; continuò però segretamente l’invio di armi e istruttori. Nello stesso giorno il senato finlandese chiese assistenza militare alla Germania per porre fine alla guerra civile.
Il 10 marzo partì una corposa offensiva rossa con 15.000 combattenti, volta a riconquistare il controllo della ferrovia, che non riuscì nell’intento come le ondate dei giorni seguenti.
Il 3 aprile un primo corpo di spedizione tedesco di 9.000 fanti esperti sbarcò dietro le linee rosse a Hangö, ad ovest di Helsinki, per una rapida offensiva contro le città.
Il 6 aprile, dopo sanguinosi scontri, Tampere cadde in mano ai bianchi. Dell’Armata rossa occidentale, forte di 25.000 uomini, 2.000 morirono per la difesa della città e 11.000 furono fatti prigionieri.
Un secondo sbarco di 3.000 tedeschi aveva lo scopo di tagliare la via di fuga dei combattenti rossi lungo la costa. Cadde Tampere, poi Helsinki, i combattenti isolati senza via di fuga. Lo Stato maggiore rosso si ritirò via nave a Vyborg.
Il 2 maggio cadde l’ultima forza rossa sul fronte occidentale finlandese: 25.000 combattenti, con 50 cannoni e 200 mitragliatrici, e migliaia di civili si consegnarono alle truppe di Mannerheim.
Finita la guerra civile si aprì un sanguinoso terrore bianco carico di odio e vendetta. Nei mesi successivi circa 80.000 ex combattenti rossi furono rastrellati e duramente maltrattati.
Secondo uno studio del governo finlandese del 2004, i morti in battaglia furono 3.414 finlandesi bianchi più 5.199 finlandesi rossi. Dispersi 46 bianchi e 1.767 rossi. Le fucilazioni sommarie eseguite risultano: 1.424 bianchi più 7.370 rossi. I morti nei campi di prigionia, prevalentemente per denutrizione, condizioni igienico climatiche e malattie inerenti furono 4 bianchi più 11.652 rossi. Il totale dei morti risultò essere di 36.640. La maggior parte delle vittime si ebbe non sui campi di battaglia ma nei campi di prigionia e di terrore.
Origini del Partito Comunista di Cina - La linea di Maring
Un ruolo determinante nello imporre la collaborazione tra il Partito Comunista di Cina e il Kuomintang fu svolto da Henk Sneevliet, conosciuto con lo pseudonimo di Maring, che a partire dal giugno del 1921 fu l’inviato dell’Internazionale in Cina. A distanza di circa un anno, Maring fece ritorno in Russia dove nel luglio del 1922 presentò al C.E. dell’Internazionale un rapporto che faceva riferimento alla sua attività in Cina per un periodo che va dal 10 dicembre 1921 alla fine di aprile 1922.
Una parte molto importante del rapporto di Maring riguardava la natura del Kuomintang. Nella fantasiosa e certamente non marxista descrizione di questo partito Maring si soffermò sulla composizione dei suoi membri. Da ciò sarebbe scaturito una sorta di “blocco di classi diverse” consistente dei seguenti elementi: 1) gli intellettuali, per lo più uomini che avevano preso parte alla rivoluzione del 1911, alcuni dei quali si definivano socialisti; 2) gli elementi borghesi, individuati nei capitalisti cinesi d’oltremare; 3) i soldati dell’esercito meridionale; 4) i lavoratori.
Maring distingueva i capitalisti cinesi d’oltremare dalla borghesia locale. I capitalisti locali sarebbero stati strettamente legati al capitale straniero e da esso influenzati. Invece i capitalisti d’oltremare, in una situazione diversa, avrebbero appoggiato gli intellettuali radicali del Sud, che aiutavano economicamente. Così, mentre la borghesia locale doveva essere collocata nella stessa categoria dei capitalisti stranieri, i capitalisti d’oltremare potevano essere considerati amici della rivoluzione nazionale.
Con questa costruzione sociologica e non scientifica, che deve fondarsi sulle classi, Maring veniva ad escludere la borghesia “locale” dalle file del Kuomintang, dipingendo un quadro non corrispondente alla realtà ma funzionale a far risultare fondata la sua proposta politica.
Un altro gravissimo errore dello schema di Maring era l’assenza dell’elemento contadino. Non che la questione agraria sfuggisse alla sua attenzione, ma i contadini non rientravano nel suo schema di “blocco di classi diverse” per il semplice motivo che, giustamente, i contadini non erano sostenitori del Kuomintang. Di per sé i contadini, per la loro natura piccolo borghese, non erano riusciti a maturare una ostilità al partito di Sun Yat-Sen e, semplicemente, se ne mantenevano indifferenti.
Ma le grandi masse contadine erano proprio la forza sociale su cui bisognava far leva per lo sviluppo di un movimento rivoluzionario in paesi arretrati come la Cina.
La questione contadina avrebbe dovuto essere ben presente all’Internazionale, che aveva ripetutamente sostenuto che il principale alleato nei paesi dove era all’ordine del giorno la rivoluzione doppia erano proprio le sterminate e misere masse contadine. Le Tesi sulla questione nazionale e coloniale auspicavano di «instaurare un legame il più stretto possibile tra il proletariato comunista dell’Europa occidentale e il movimento rivoluzionario contadino dell’Oriente, delle colonie e dei paesi arretrati».
Uno sproposito, inoltre, era il legame del Kuomintang con la classe operaia. Lo stesso sciopero vittorioso dei marittimi di Hong Kong, sostenuto dagli operai di Canton, aveva portato Maring a sopravvalutare il rapporto del Kuomintang con il proletariato. Maring riferiva che i capi del Kuomintang avevano sostenuto l’organizzazione sindacale a Canton e durante gli scioperi si erano schierati dalla parte dei lavoratori, come, per esempio, nell’importante sciopero dei marittimi. In realtà era vero che il Kuomintang aveva stabilito dei legami con settori operai ma il suo successo nell’area cantonese riguardava le organizzazioni forti delle vecchie tradizioni corporative. Nel momento in cui il proletariato iniziò a dotarsi di moderni sindacati classisti, già al primo congresso dei sindacati cinesi del maggio 1922 le parole d’ordine dei comunisti avevano sorpassato il corporativismo dei sostenitori del Kuomintang.
In ogni caso, benché Maring negasse che il Kuomintang fosse il partito della borghesia cinese ma un “blocco di classi diverse”, il suo programma, così come descritto dallo stesso Maring, non lasciava dubbi sulla sua natura liberal-borghese: «Il suo carattere è nazionalista. Ha tre principi: si oppone al dominio straniero; è per la democrazia; ed è per una vita degna per tutti i cittadini».
Infine nel suo rapporto Maring sminuì il giovane Partito Comunista di Cina, con i comunisti lungi dell’essere riusciti ad entrare in contatto con le masse lavoratrici. Riteneva ci fosse una situazione più favorevole nel Sud, e in particolare a Canton, non per la forza del Partito Comunista ma per la presenza del Kuomintang.
Se Shanghai, il centro cinese più avanzato dal punto di vista industriale, dove era presente un numeroso e concentrato proletariato, era stato il centro di diffusione del comunismo tra il giovane proletariato cinese, dal momento in cui l’Internazionale decise di puntare sul Kuomintang per la direzione della rivoluzione cinese, i dirigenti sovietici iniziarono a considerare Canton come il “laboratorio politico” dove dar vita all’unione tra i comunisti e i nazionalisti.
Maring scriveva nel suo rapporto all’Internazionale: «Ho suggerito ai nostri compagni di rinunciare al loro atteggiamento elitario verso il KMT e che inizino a sviluppare attività all’interno del KMT, attraverso il quale si può accedere molto più facilmente ai lavoratori e ai soldati del Sud. Il piccolo gruppo non deve rinunciare alla sua indipendenza; al contrario, i compagni devono decidere insieme quali tattiche dovrebbero seguire all’interno del KMT. I leader del KMT mi hanno detto che permetteranno ai comunisti la propaganda all’interno del loro partito».
Ma fin dall’inizio contro la tattica dell’ingresso nel Kuomintang si levarono proteste all’interno del Partito Comunista di Cina. Non è chiaro quando e in quali circostanze Maring presentò ai comunisti cinesi questa proposta. Probabilmente fu tra il marzo e l’aprile del 1922, al suo ritorno a Shanghai dopo il viaggio nel sud della Cina. In ogni caso la questione dell’adesione dei comunisti al Kuomintang fu oggetto della lettera che Chen Duxiu il 6 aprile 1922 inviò a Voitinsky, dalla quale emergono chiaramente le resistenze dei comunisti cinesi alla proposta di Maring, considerata totalmente inaccettabile.
La pressione di Maring sul Partito Comunista di Cina per la collaborazione con il Kuomintang arrivò in ambito internazionale. L’adesione dei comunisti al Kuomintang veniva giustificata da Maring col fatto che non fosse un partito borghese. In pratica si faceva largo la solita distinzione tra una borghesia di destra e una di sinistra, utile a sostenere la tattica del fronte unico e del noyautage. La tattica dell’ingresso nel Kuomintang infondeva nei giovani partiti la speranza che la borghesia liberale potesse spostarsi più a sinistra.
Si chiedeva ai comunisti di entrare nel Kuomintang per favorirvi la formazione di un’ala sinistra, ma quello che avvenne, e non poteva essere altrimenti, fu che tutte le ali sinistre del Kuomintang individuate di volta in volta finirono per affogare nel sangue la rivoluzione proletaria in Cina.
Eppure era possibile prevederlo. Bastava volgere lo sguardo alle esperienze passate delle lotte tra le classi nel passaggio alla società borghese, quando il proletariato lotta insieme ai borghesi per l’abbattimento dell’ancien regime, ma già sa, come era successo per esempio nella Francia del ’48, che gli alleati del momento saranno i nemici dalla prima ora dopo la vittoria e pronti a far massacri tra i proletari. Dirà lapidario Trotski: «Il Kuomintang è il partito della borghesia liberale durante la rivoluzione, della borghesia liberale che si trascina dietro gli operai e i contadini, e poi li tradisce».
Quello che bisognava dire allora era che costringendo i comunisti a sottomettersi al Kuomintang si sarebbero rafforzati la borghesia e i proprietari terrieri, e si sarebbero frenate le masse, e la stessa rivoluzione radicale borghese, per non guastare i buoni rapporti con la borghese liberale; che facendo entrare il Partito Comunista nel Kuomintang, inevitabilmente, lo si sarebbe sottomesso ad una disciplina e direzione borghese, e si sarebbe posta agli ordini della borghesia la giovane forza rivoluzionaria del proletariato; che l’ingresso dei comunisti nel Kuomintang avrebbe gettato confusione nelle file del partito e tra i proletari, sarebbe andato a confondere l’organizzazione di classe e avrebbe distrutto l’indipendenza politica del partito, condizione indispensabile per la vittoria rivoluzionaria.
Il Profintern tra il primo e il secondo congresso (3)
Il rapporto iniziava esponendo come l’Internazionale Sindacale di Amsterdam, per mantenere il movimento proletario nella collaborazione di classe, con accanimento continuava la feroce campagna anticomunista, sia con l’espulsione di singoli e gruppi dai sindacati, sia con la scissione sindacale ogni volta che i proletari dimostravano la precisa e determinata volontà di lotta sul terreno di classe.
L’esposizione si soffermava poi sugli avvenimenti internazionali nei primi mesi del 1922, tra il primo ed il secondo congresso dell’Internazionale Sindacale di Mosca, di importanza non secondaria sul prosieguo del movimento proletario internazionale, a livello sia politico sia sindacale.
Tra il febbraio e l’aprile del 1922 si tennero: a Mosca, il Consiglio Centrale allargato del Profintern; a Berlino, la Conferenza delle tre Internazionali politiche; a Genova, la Conferenza degli Stati capitalisti; a Roma, il Congresso dell’Internazionale di Amsterdam.
Consiglio Centrale allargato del Profintern - febbraio/marzo 1922. Vi parteciparono delegazioni di oltre una ventina di nazioni, oltre a delegati dell’estremo oriente presenti in qualità di invitati.
Il Partito Operaio Norvegese, avendo dichiarato di accettare le 21 condizioni di Mosca, senza congresso o scissione, era entrato in blocco nella III Internazionale. Al contrario la Confederazione Sindacale Norvegese era rimasta nella Internazionale gialla, nonostante la stragrande maggioranza dei proletari si sentisse solidale con quella rossa di Mosca. Una strana posizione che ricordava quella italiana del 1919/20.
Nel frattempo i capi sindacali di Norvegia avevano proposto alle due Internazionali (la rossa e la gialla) una comune azione contro l’offensiva capitalista.
La prima risoluzione adottata dal Consiglio Centrale del Profintern si ispirò alla iniziativa norvegese, considerata un tentativo di pratica realizzazione, a livello internazionale, di fronte unico del proletariato, conforme «ai passi fatti dall’Ufficio Esecutivo dell’ISR che aveva già, a parecchie riprese, invitato il Comitato Direttivo di Amsterdam a intraprendere un’azione comune su alcune questioni attuali, senza che tuttavia queste richieste fossero comprese ed accolte». Nonostante ciò il Profintern si dichiarò disponibile a partecipare a una conferenza congiunta delle due Internazionali ed affidò ai norvegesi il compito di elaborare un progetto base per azioni comuni.
La seconda risoluzione riguardò l’unità del fronte proletario in risposta all’offensiva capitalista. Il Profintern si poneva l’obiettivo di «agire di concerto con tutte le organizzazioni operaie, quali che siano le loro opinioni politiche» pur di realizzare «un fronte unico sul terreno della difesa degli interessi economici della classe operaia», per obiettivi condivisibili da tutti: lotta contro la riduzione dei salari, contro il prolungamento della giornata di lavoro, contro l’intensificazione dello sfruttamento delle donne e fanciulli, etc. Ma anche questi elementari obiettivi di lotta trovavano l’energica opposizione di Amsterdam che negava il suo sostegno a tutto ciò che avrebbe potuto compromettere l’uscita dalla crisi del capitalismo.
La terza risoluzione riguardava “L’Opera di scissione di Amsterdam”.
Uno degli effetti dell’atteggiamento di Amsterdam e delle confederazioni nazionali ad essa aderenti, tese all’asservimento totale del proletariato alle necessità del capitalismo, era l’abbandono dei sindacati da parte di milioni di lavoratori esasperati. Al contrario il Profintern incitava i proletari ad entrare e restare nei sindacati, e combattere instancabilmente per la loro trasformazione in organizzazioni rivoluzionarie.
La quarta risoluzione prendeva in esame il rapporto tra l’ISR e gli anarco-sindacalisti. Si precisava che l’ISR riuniva sotto le sue bandiere lavoratori anarco-sindacalisti, comunisti o politicamente neutri ed ammoniva che la formazione di una internazionale anarco-sindacalista sarebbe stata di fatto un attentato all’unità proletaria.
La quinta risoluzione si riferiva ai “Comitati di propaganda internazionale”. Ad essi veniva affidato il compito di «fare tutto ciò che [era] in loro potere per salvaguardare l’unità di organizzazione delle Federazioni internazionali e per l’ammissione in esse di tutte le organizzazioni sindacali senza eccezione».
La sesta ed ultima risoluzione riguardava “i rapporti del Comitato Esecutivo”. Venivano: approvate tutte le misure prese dal C.E. per il fronte unico proletario; riconosciuta la necessità di un organo centrale dell’ISR, indispensabile arma di organizzazione e propaganda; prospettata una intensificata attività fra le masse proletarie dell’Estremo Oriente e la energica difesa degli interessi della gioventù operaia.
Conferenza di Berlino delle tre Internazionali politiche.
Riprendendo la proposta avanzata dal KPD con la famosa lettera del dicembre 1921, Federico Adler, leader dell’Internazionale Due e mezzo di Vienna, invitava la II e la III Internazionale a un incontro preliminare basato su di un o.d.g. formulato in due punti: 1) Situazione economica in Europa e azione di classe; 2) lotta del proletariato contro la reazione.
Nei confronti di queste iniziative il PCd’I espresse immediatamente il proprio parere nettamente negativo, sia per iscritto sia dando precise disposizioni ai delegati italiani all’Esecutivo Allargato, proponendo invece la riunione delle centrali sindacali di qualunque tendenza con rappresentanza proporzionale delle varie frazioni politiche militanti al loro interno.
Però né il Komintern né Lenin furono del nostro parere e la III Internazionale aderì all’invito di Vienna. Il 1° aprile 1922 si tenne a Berlino la prima seduta delle tre Internazionali, con l’aggiunta del Partito Socialista Italiano, non appartenente a nessuna delle tre.
Federico Adler aprì i lavori con un solito discorso buono per tutte le occasioni e tipico di ogni opportunismo. Parlò della necessità dell’unione del proletariato internazionale. In fondo – affermò – le tre Internazionali poggiavano su di un terreno comune ed avevano uno scopo comune: la difesa del proletariato.
Clara Zetkin, a nome della III Internazionale ne lesse la dichiarazione, molto blanda e accomodante. Era stato lo stesso Lenin a consigliare moderazione. «È assolutamente irragionevole – scrisse – rischiare di far fallire una opera pratica di enorme importanza per prendersi il gusto di insultare una volta di più dei mascalzoni che insultiamo e insulteremo mille volte di più in altra sede».
Il Komintern, per la realizzazione del fronte unico proletario, proponeva un congresso pansocialista allargato alle internazionali sindacali di Mosca e di Amsterdam, e aperto a tutte le organizzazioni di classe, basato sul seguente ordine del giorno:
1. Difesa contro l’offensiva padronale; 2. Lotta contro la reazione; 3. Lotta contro nuove guerre; 4. Aiuti per la ricostruzione della Repubblica sovietica russa; 5. Abolizione del trattato di Versailles e ricostruzione dei paesi devastati dalla guerra.
Se l’intervento dell’Internazionale di Vienna fu opportunista e quello del Komintern estremamente moderato, Vandervelde, rappresentante della II Internazionale non mancò di sputare tutto il suo veleno contro il comunismo, la III Internazionale e la Repubblica sovietica. Non solo bocciò tutte quante le proposte avanzate dai delegati della III Internazionale, Vandervelde non attaccò il capitalismo, attaccò la Russia sovietica e l’Internazionale comunista. Riguardo alla necessità di un fronte unico operaio per la lotta contro la reazione, affermò che non possono marciare fianco a fianco per lo stesso scopo perseguitati e persecutori. Naturalmente i persecutori erano i bolscevichi, colpevoli di non garantire, nella repubblica dei soviet, “i più elementari diritti”.
Pose quindi alla III Internazionale queste perentorie condizioni: 1. Rinuncia alla tattica di istituire frazioni sindacali; 2. Nomina di una commissione per esaminare la situazione in Georgia; 3. Liberazione dei prigionieri politici e svolgimento di un processo contro i detenuti accordando il diritto di difesa e di controllo al socialismo internazionale. Ricordiamoci che il processo a cui si faceva riferimento era quello contro i terroristi socialisti-rivoluzionari.
Radek reagì con un intervento puntuale e bene impostato, che nella stesura definitiva di questo rapporto dovremo ampiamente ripubblicare.
Però, nel tentativo di non rompere un impossibile fronte unico delle tre Internazionali, i delegati di Mosca accettarono di sottostare ai diktat della Internazionale di Londra e, andando oltre a quelli che erano i loro poteri, davano assicurazione che nel processo di Mosca contro i 47 socialisti rivoluzionari sarebbero stati ammessi tutti i difensori che gli imputati avessero richiesto e che, in ogni caso, sarebbero state escluse condanne a morte. Riguardo poi alla Georgia si garantiva che il caso sarebbe stato esaminato in una futura conferenza internazionale.
Congresso dell’Internazionale sindacale gialla - Roma 20 aprile
Tutto quanto l’apparato organizzativo della CGL si mise in moto per accogliere degnamente i loro degni ospiti. Il Partito socialista non mancò di esprimere il suo benevolo saluto. L’“Avanti!” titolava: “La solenne inaugurazione del congresso internazionale dei sindacati di Amsterdam”, di contro, nel “Comunista” dello stesso giorno, in prima pagina, campeggiava: “Abbasso i traditori del proletariato”.
Questo era il benvenuto che il nostro partito riservava ai congressisti: «I comunisti italiani hanno il dovere di esprimere tutto il loro disprezzo ai convenuti, responsabili dei più grandi tradimenti verso la classe operaia».
Il PCd’I aveva preparato per la diffusione un manifesto in cui veniva denunciato al proletariato l’operato della Internazionale gialla, ponendo in luce come essa continuasse a svolgere una politica di collusione con la classe borghese-padronale, e di complicità con l’imperialismo mondiale; come fosse responsabile del sabotaggio dell’unità di azione del proletariato; come difendesse e sostenesse l’obiettivo della ricostruzione capitalistica e come operasse per la disfatta delle azioni di massa contrapposte alla offensiva politica ed economica del capitale.
A conferma della loro stretta affinità con la diplomazia degli Stati capitalisti, i congressisti prima di riunirsi a Roma passarono per Genova, dove era in corso la famosa Conferenza, per offrire la loro disponibilità alla collaborazione di classe.
A Roma i congressisti non si persero a formulare ed organizzare progetti di difesa proletaria dagli attacchi padronali e dalla reazione violenta di Stati e guardie bianche: la maggior parte del loro tempo fu impiegata negli attacchi contro il comunismo e le sue organizzazioni. Ci fu chi si fece addirittura paladino della liberazione del proletariato russo dallo sfruttamento dello Stato sovietico-bolscevico; chi, come lo svizzero Dürr, si vantava di aver liberato il sindacato metallurgico dai comunisti; chi, come il polacco Zuawsky, affermò che il militarismo russo, non meno di quello borghese, costituiva una grande minaccia per la pace mondiale e che i lavoratori di tutto il mondo dovevano combatterlo con estrema energia.
Ma la parte migliore fu recitata da D’Aragona secondo cui, se in Italia infuriava una spietata reazione, si doveva ai comunisti, che scoraggiavano le masse seminando scissioni e diffondendo sfiducia fra i lavoratori. Invece, per salvare il proletariato italiano dalla violenta repressione, D’Aragona invocava l’aiuto di Amsterdam: chiese che l’Internazionale gialla inviasse al governo italiano... una lettera.
Non c’è dubbio, aveva mille volte ragione Lozovsky quando affermava che «la differenza tra Amsterdam e l’Internazionale Sindacale Rossa stava in ciò: che i nostri avversari si sforzano di dar nuovo vigore alla vecchia società sfruttatrice che si fonda sul salario, mentre noi ci sforziamo di distruggere le ultime energie vitali del capitalismo [...] Cosicché su nessun punto i sindacati riformisti e rivoluzionari hanno in comune l’opinione o la tattica».
Peccato che, da parte dell’Internazionale, a queste giuste parole non seguisse sempre una corrispondente azione pratica.
Il Venezuela tra il 2013 e il 2020 ha perso circa il 75% del suo PIL. Nel 2021 si è notata una leggera ripresa dell’attività economica. L’aumento dei prezzi del petrolio, l’allentamento delle misure di quarantena, la riattivazione delle rimesse inviate dai venezuelani all’estero, l’attivazione di alcune esportazioni non petrolifere, la decelerazione dell’inflazione a seguito dell’immissione di dollari nel circolante da parte della Banca Centrale e infine le agevolazioni fornite dal governo per la circolazione del dollaro, tutti questi sono stati fattori che hanno avuto effetto, principalmente sul commercio e i servizi.
Rimanendo comunque basse le entrate petrolifere, il governo ha perso gran parte della capacità di influenzare l’economia e le aziende private accentrano buona parte delle attività economiche. Il governo mantiene politiche tariffarie tipiche della rendita petrolifera e favorisce l’industria estera. Gli importatori ne traggono grande vantaggio.
Il cambio è sopravvalutato e diventerà insostenibile. Si stima che dovrebbe aggirarsi intorno ai 28 o 30 bolivar per dollaro ma negli ultimi mesi è fissato tra 4 e 5.
Sebbene la produzione di petrolio sia cresciuta nel 2021 è ancora al di sotto della media del 2019, che era già inferiore di un terzo della produzione del 2013. Tuttavia la produzione nel novembre 2021 è aumentata del 25% rispetto al 2020. Ma si importa carburante a causa della paralisi delle raffinerie. Il prezzo del petrolio è aumentato del 170% nel 2021 rispetto al 2020, attestandosi a 72,82 US$/barile. Le esportazioni di petrolio si sono decurtate del 91% tra il 2013 e il 2020.
La deregolamentazione e la liberalizzazione dei prezzi di beni e servizi ha consentito di aumentare i margini commerciali, ma il mercato si è ridotto a causa del basso potere d’acquisto dei salariati e della disoccupazione.
Il dramma dei bassi salari e dell’elevata disoccupazione continua e spinge i lavoratori verso la lotta, che finora è stata contenuta dai sindacati e dai partiti di “sinistra” e di destra. Il salario minimo ufficiale è dell’ordine di 7 Bs al mese (1,75 $ USA!).
Nonostante i discorsi demagogici del governo è il libero mercato e il settore privato che determinano la dinamica salariale. Una ripresa delle entrate petrolifere non porterà ad aumenti salariali significativi, ma darà al governo la possibilità di ampliare la politica populista dei buoni.
L’insignificante salario minimo ufficiale, applicato ai 2,8 milioni di dipendenti pubblici del Paese, il 26,5% del totale degli occupati, è compensato con obbligazioni emesse dallo Stato attraverso il “sistema Patria”, pur restando la retribuzione complessiva al di sotto della povertà estrema. Anche per i lavoratori universitari, i “meglio pagati”, lo stipendio massimo è di circa 11 dollari al mese. Naturalmente le pensioni nel settore pubblico sono regolate dall’importo del salario minimo ufficiale.
Oltre al settore pubblico, il 25% dei dipendenti sono nel settore privato e il 47% lavoratori autonomi. Si stima che nel settore privato le entrate di fatto dei lavoratori oscillino tra i 40 e i 150 dollari al mese.
Per contro il paniere dei consumi familiari si attesta sugli 800 dollari e per i soli consumi alimentari a 340. Gli stipendi più i bonus pagati nel settore privato sono insufficienti anche solo per le spese alimentari.
Sono disoccupati 8,1 milioni di venezuelani, il 58% nel 2020. Nel corso del 2021 questo tasso è diminuito lievemente rimanendo intorno al 50%. Non sono conteggiati gli emigrati e il lavoro occasionale e al nero, di cui non ci son dati ufficiali.
A causa della dispersione e disorganizzazione dei lavoratori non sono sorti conflitti rilevanti. Sono i lavoratori del settore pubblico e i pensionati i protagonisti delle poche iniziative di protesta.
Ci sono state agitazioni fra i petrolchimici e società collegate, gli universitari, la sanità, la scuola, i tribunali, i postini, ecc. Alcune categorie hanno avanzato richieste di pagamento dei buoni o il loro aumento. Questo tipo di rivendicazioni non è stato respinto dalle Centrali e Federazioni sindacali, che preferiscono che i lavoratori si concentrino su questo tipo di richieste e non su un aumento generale dei salari e sulla conversione dei premi nel salario.
Alcuni settori sindacali hanno chiesto la indicizzazione salariale, che tuttavia è senza senso se si parte dagli attuali livelli estremamente bassi. Tali gruppi politici e correnti sindacali fanno il gioco dei padroni e delle Federazioni Centrali che tengono il movimento lontano dalla lotta per la rivendicazione principale: aumenti salariali generalizzati che coprano le spese di vitto, salute e servizi di base. Altri gruppi sindacali e attivisti prevedono di lottare per questi obbiettivi, ma non dispongono ancora di forze sufficienti e non propongono un percorso unitario verso uno sciopero generale.
Questo primo rapporto sulla storia della questione curda, presentato all’ultima riunione generale del partito, era compostp da tre parti.
La prima parte, sui presupposti storici dell’area in cui si sono stabilite le genti curde, ha ripercorso il terzo e il secondo millennio a.C. Abbiamo accennato ai popoli che abitavano quell’area come i Gutei, gli Hurriti e ai Medi e alle loro relazioni con gli altri popoli vicini, come gli Assiri, i Persiani. Abbiamo poi parlato dei Bizantini. Questa parte si è conclusa con l’esame dei curdi in epoca medievale, in particolare osservando la definitiva divisione delle terre curde tra l’Impero Ottomano e l’Iran.
Gli Assiri chiamavano i Gutei con l’aggettivo Kurti, che significa “potente”, “eroico”. Questo termine è venuto a descrivere i vari popoli che abitavano la zona. Uno di questi erano gli Hurriti, che si diffusero intorno al lago di Van e in quasi tutto il Kurdistan moderno dal 2000 a.C.
Alla fine i Medi marciarono su Ninive e sconfissero gli Assiri. Il dominio dei Medi e il consolidamento del loro potere portarono ad una omogeneizzazione etnica e culturale. Ciro ereditò il regno dei Medi.
All’emergere dell’Islam i curdi erano divisi tra l’Impero Sassanide e quello Romano d’Oriente. Inizialmente le tribù curde diedero un forte sostegno ai Sassanidi nel resistere agli eserciti musulmani. Ma quando fu chiaro che i Sassanidi sarebbero caduti i signori curdi uno dopo l’altro si sottomisero agli arabi e alla nuova religione.
I curdi hanno continuato a svolgere un ruolo importante nella civiltà islamica. La dinastia curda degli Ayyubidi guidò la difesa del Medio Oriente dai crociati. In passato furono i bizantini cristiani a respingere con la forza i curdi musulmani ai loro confini, considerati alleati dei Sassanidi. Quindi furono i Safavidi sciiti a soppiantare con la forza i curdi sunniti nei loro confini, considerati, non a torto, più fedeli agli ottomani, sunniti. Di conseguenza, con l’aiuto dei signori curdi, gli ottomani finirono per conquistare la maggior parte del Kurdistan e insediarono generosamente i loro alleati come governatori ereditari locali. Fino al 19° secolo, erano i signori feudali a riscuotere le tasse agricole in Kurdistan e la quota dell’Impero su queste tasse era piuttosto piccola. Mentre l’Impero Ottomano si muoveva verso la soppressione dell’autonomia del Kurdistan, i signori feudali iniziarono uno dopo l’altro a ribellarsi.
La seconda parte del rapporto, che copre il periodo dalla Ribellione curda dallo sceicco Ubeydullah (1879) al massacro di Dersim (1937-1938), tratta della nascita del nazionalismo curdo seguito alla fine del feudalesimo. Dei vari movimenti – la ribellione dello sceicco Ubeydullah, di Koçgiri, di Simko, dello sceicco Said, la Repubblica di Ararat e la cosiddetta ribellione di Dersim – alcuni possono essere considerati timidi tentativi rivoluzionari nazionali, altri reazionari, altri riformisti nazionali. Alcuni si opponevano alla Turchia e altri all’Iran.
Con la sconfitta dei principati curdi nella seconda metà del XIX secolo, lo Stato ottomano ridistribuì le loro terre a ricchi commercianti, burocrati e sceicchi locali o studiosi religiosi con autorità politica. Questi ultimi divennero presto i terrieri più ricchi man mano che ricevevano in donazione le terre dei seguaci. Diventati molto potenti alcuni di loro hanno usato la loro influenza per guidare idee nazionaliste, in contrasto con gli aristocratici che li precedevano. Per lo sceicco Ubeydullah Nehrri, il più importante di questi, i governi iraniano e ottomano erano sanguisughe che impedivano lo sviluppo dei curdi e credeva che l’unica via per i curdi fosse la creazione di un Kurdistan unito, ottenuto dalla fusione delle terre curde in Iran e dell’Impero Ottomano.
Ma il movimento nazionale curdo ha assunto una forma moderna solo all’inizio del XX secolo. Il centro del nuovo movimento doveva essere Istanbul piuttosto che il Kurdistan, e i suoi leader avrebbero trascorso gli anni del regno oppressivo del sultano Abdul Hamid II uniti ai rivoluzionari borghesi e ai riformatori dei Giovani Turchi. Dopo la rivoluzione del 1908, quando fu dichiarata una monarchia costituzionale e salì al potere la Società dell’Unione del Progresso, i nazionalisti curdi passarono a formare numerose organizzazioni: Società per l’avanzamento e il progresso, Società per la diffusione della cultura curda e l’organo studentesco Società della speranza curda, fondate nel 1908, seguite nel 1910 dalla Società per l’indipendenza curda, alla quale appartenevano tutti i dirigenti curdi.
La nuova ondata di nazionalismo curdo, esplicitamente politicizzato, decise quindi di espandersi in Kurdistan. Il sultano Abdul Hamid II nel 1890 aveva arruolato un numero significativo di curdi, insieme a turchi, circassi e arabi, nei reggimenti di cavalleria hamidiana, circa un decennio dopo la repressione della rivolta dello sceicco Ubeydullah. Questo reggimento fu particolarmente determinante nei massacri di armeni e altri cristiani durante il regno di Abdul Hamid II e nella prima guerra mondiale, e servì a creare potenti legami tra lo Stato e una parte della popolazione curda e altre popolazioni musulmane.
Dopo la prima guerra mondiale, varie parti dell’Anatolia furono occupate dall’Intesa e l’Impero Ottomano fu ridotto a un governo fantoccio a Istanbul guidato dal partito liberale Libertà e Accordo, contrastato ad Ankara dal governo rivoluzionario nazionale di Mustafa Kemal.
Nonostante la Costituzione del 1924 dichiarasse che «in Turchia tutti sono chiamati cittadini “turchi” indipendentemente dalla religione e dalla razza», per un po’ i capi curdi si divisero tra i governi di Istanbul e Ankara. Nel 1927 sorse una nuova organizzazione nazionalista chiamata Comitato Xoybûn (“Se stesso”), formata da ex membri di vari altri gruppi nazionalisti curdi. Xoybûn si distingue dalle precedenti organizzazioni nazionaliste nel Kurdistan settentrionale per non mostrare traccia di retorica religiosa nella sua propaganda.
La terza parte dello studio è dedicata al Partito Democratico del Kurdistan - KDP (nel 1946), alla Unione Patriottica del Kurdistan - PUK (nel 1975) e alla rivolta del 1991. Tratta la storia del nazionalismo curdo in Iran e Iraq a partire dalla formazione e dal crollo della Repubblica del Kurdistan a Mahabad, con l’emergere e lo sviluppo dei due partiti che ancora dominano la politica nel Kurdistan occidentale e soprattutto meridionale. Si conclude con il massacro di Halabja, il genocidio di Al-Anfal e la rivolta del 1991 nel Kurdistan meridionale.
In questo periodo il proletariato curdo sale sulla scena della storia, anche se saltuariamente e senza successo.
Nel 1941 l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna invadono l’Iran. La prima, che occupava la parte nord-occidentale del paese, ritenne vantaggioso sostenere le aspirazioni nazionaliste curde. Così a Mahabad si formò un’amministrazione curda, che inizialmente mirava solo all’autonomia entro i confini dello Stato iraniano. Il suo governo era guidato dalla neonata Società per la rinascita del Kurdistan, un’organizzazione segreta guidata da Qazi Muhammad. Era sostenuta dai proprietari terrieri e dalla borghesia. Il Partito Democratico del Kurdistan (KDP) fu fondato a Mahabad nell’estate del 1945 come partito di governo.
Nel 1946 Mustafa Barzani, del Kurdistan meridionale, che aveva guidato la ribellione del 1931, fu nominato ministro della Difesa e comandante dell’esercito curdo. Barzani organizzò anche il KDP nel Kurdistan meridionale, riuscì a ottenere l’appoggio di una parte considerevole della sezione curda del Partito Comunista Iracheno e ne fu eletto dirigente in esilio.
Nel 1974 il governo iracheno iniziò una nuova offensiva contro i ribelli curdi, spingendoli a ridosso del confine con l’Iran. L’Iraq offrì a Teheran di soddisfare le richieste iraniane in cambio della fine dei suoi aiuti ai curdi. Nel 1975, con la mediazione del presidente algerino Houari Boumédiènne, Iraq e Iran firmarono l’Accordo di Algeri.
Dopo la sconfitta della ribellione di Barzani, i dissidenti di sinistra del KDP in Iraq guidati da Jalal Talabani decisero di lasciare il vecchio partito e a metà del 1975 formarono l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK). Il PUK al momento della sua istituzione era sostenuto dalle classi intellettuali urbane del Kurdistan meridionale.
Le forze del PUK iniziarono a scontrarsi con l’esercito iracheno all’indomani della seconda guerra iracheno-curda, e continuarono fino al 1976.
Prima di muoversi per reprimere le ribellioni curde degli anni ‘80, Saddam Hussein aveva negoziato un accordo che prometteva al PUK l’autonomia dei curdi.
Nel 1986 l’Iran ha mediato un accordo tra il KDP in Iraq e il PUK, mentre il governo baathista avviava la famigerata campagna di Al Anfal per annientare gli insediamenti curdi. Dopo quella brutale guerra di sterminio ad Halabja e nel resto del Kurdistan meridionale, il PUK e il KDP ne sono usciti così screditati che hanno deciso di formare insieme il Fronte del Kurdistan.
L’ondata spontanea di rivolte iniziò nel Kurdistan meridionale all’inizio del 1991, e acquisì rapidamente un contenuto di classe.
L’esposizione continuerà alla prossima riunione generale.
Il compagno esponeva un primo rapporto descrivendo alcune fasi storiche del Belucistan, la più grande provincia del Pakistan, con particolare attenzione ai movimenti separatisti Beluci.
È un’area di 350.000 kmq, circa il 48% della superficie del Pakistan, è ricco di minerali e vi sono alcune riserve di petrolio e gas. È una terra arida, prevalentemente montuosa e in ampi tratti desertica e scarsamente popolata: poco più di 12 milioni di abitanti. Confina con le province del Khyber Pakhtunkhwa e del Punjab a nord-ovest, con quella del Sindh a sud-est, il Belucistan iraniano a ovest, l’Afghanistan a nord e il Mar Arabico a sud.
La composizione etnica è varia. Il beluci, il brahui e il pashto sono le lingue principali. La regione ospita oltre 2.800 miniere di carbone, dove lavorano oltre 70.000 proletari in pessime condizioni di vita e di lavoro, molti dei quali provengono dall’Afghanistan o dai distretti di Swat e Shangla della provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Questi lavoratori sono spesso vittime di vili attentati dei gruppi islamisti presenti soprattutto nel nord della regione.
Gas ed elettricità mancano in molte aree. Il Belucistan è tra le province più povere e meno sviluppate del Pakistan.
La prima forma statale su quella società tribale, il Khanato, sorse nel 1666, con Mir Ahmad, su un’area molto ridotta. La Persia, invaso il Belucistan, incluse diverse parti della regione nel suo impero sottoponendo a tributo Kalat, città storica nell’omonimo distretto. I confini della provincia si estesero a est fino al Punjab pachistano, incluso Dera Ghazi Khan, a nord fino al fiume Helmand in Afghanistan, ad occidente comprendeva diverse città attualmente iraniane e a sud includeva la costa del Mar Arabico da Karachi a Bandar Abbas.
Una ulteriore espansione dall’impero persiano si ebbe con la guerra afghana-baloch, scoppiata nel 1758. Le forze afgane invasero il Kalat: khanato, sollevato dal tributo, avrebbe però fornito appoggio militare all’Afghanistan.
Nel periodo coloniale gli inglesi cercarono l’aiuto del khanato durante la prima guerra afgana (1839-42), tuttavia a causa di contrasti gli inglesi uccisero il Khan. Gran parte delle terre furono cedute al Punjab, al Sindh e all’Afghanistan. Ciò che restava del khanato era l’area di Kalat, il resto divenne la provincia britannica del Belucistan. Questa era di fondamentale interesse per gli inglesi, che ambivano al controllo del passo di Bolan, fra i monti del Toba Kakar, nel Pakistan occidentale, a 120 chilometri dalla frontiera con l’Afghanistan, da sempre via di comunicazione strategica.
Durante il periodo coloniale fu avviato un processo di potenziamento dei sardar, comandanti tribali, e diverse tribù furono messe in lotta le une contro le altre, una consuetudine delle politiche coloniali. Il khanato fu ridotto a uno Stato fantoccio.
L’aumento delle tasse portò molti piccoli contadini a diventare lavoratori senza terra.
Nei primi anni del novecento si formarono quelle mezze classi che contribuirono a dar vita, insieme ad alcuni proprietari terrieri, a diversi movimenti politici, espressioni della rivoluzione nazionale-borghese.
Nel 1937 prese vita il Kalat State National Party (KSNP) che perorava una rottura più radicale con l’aristocrazia agraria e la formazione di uno Stato indipendente. Il KSNP fu presto bandito dal khanato.
Il khanato prese anche contatto con la Lega musulmana e, ironia della storia, incaricò Jinnah, il “padre fondatore” del Pakistan, di appoggiare la richiesta di uno Stato Kalat indipendente. Infatti gli inglesi e la Lega Musulmana avevano concordato, sulla carta, l’autonomia di una parte del Belucistan. Il khanato di Kalat rimase indipendente per otto mesi dopo il bagno di sangue della spartizione. Ma poco tempo dopo l’indipendenza truppe pachistane entrarono in Belucistan annettendo diverse città. L’aristocrazia dei beluci rinunciò alla risposta armata quando gli inglesi rifiutarono di fornire le armi. Nel 1954 il governo pakistano incorporò il Belucistan come “Pakistan occidentale”.
Gli obiettivi del movimento nazionalista beluci si ridussero alla concessione dello status di provincia autonoma. Ma la successiva rivolta fu prontamente repressa.
Il 1957 vide una seconda rivolta armata, promossa da alcuni sardar, col fine della separazione del khanato dallo Stato centrale. Anche questa campagna di guerriglia fu presto repressa, i villaggi beluci furono bombardati e incendiati, molti esponenti delle tribù furono fucilati ed aumentarono gli insediamenti militari. Nel tentativo di sottomettere i capi tribù, molti furono sostituiti con uomini fedeli ad Ayub Khan, il presidente del Pakistan.
Costoro furono a loro volta uccisi quando scoppiò la rivolta armata del 1962. Questa fu guidata da Sher Mohammad Marri, della tribù omonima, capo del movimento Parari, che, come altri leader dei movimenti di liberazione nazionale in Medio Oriente, aveva stretti legami con Mosca. La rivolta, condotta dall’Esercito di Liberazione del Baloch, molto più consistente delle precedenti, durò dal 1962 al 1969. I Parari miravano al riconoscimento come provincia autonoma e al ritiro delle truppe pakistane dalla regione. Il regime pakistano intensificò la repressione e non esitò a bombardare interi villaggi. Tuttavia il regime militare pachistano di Yahya khan negoziò un cessate il fuoco.
Il culmine del movimento nazionalista beluci fu negli anni ‘70 quando il partito National Awami (Partito Nazionale del Popolo) un partito della sinistra parlamentare pachistana con diversi membri beluci, vinse le elezioni provinciali nel 1970. In quegli anni disordini e proteste erano esplosi nel Pakistan Orientale, che poco dopo divenne indipendente (Bangladesh). Il premier pakistano Bhutto, temendo una situazione simile in Belucistan, permise al partito nazionalista beluci di formare un governo nella regione in coalizione con Jamiat-ulema-Islam, un partito di ispirazione deobandi, fondamentalista sunnita.
Nel febbraio 1973 questo governo regionale fu accusato dal premier pachistano dell’epoca di alleanza con l’URSS e con l’Iraq. Un raid all’ambasciata irachena di Islamabad, in presenza della stampa, scoprì un deposito di armi. Il governo beluci fu accusato di tradimento e liquidato. Il movimento di protesta ne prese slancio.
Temendo che la rivolta raggiungesse l’Iran, in un momento di debolezza dell’esercito pachistano, che aveva subito gravi perdite nella guerra del Bangladesh del 1971, lo Scià venne in suo soccorso con 200 milioni di dollari e 30 elicotteri “cobra” con piloti iraniani. Le truppe ribelli, che in parte avevano avuto il sopravvento, vennero così attaccate e respinte. Al bombardamento parteciparono anche 500 piloti dell’aviazione pachistana, mentre 80.000 uomini dell’esercito uccisero gli animali, la principale fonte di sostentamento dei beluci, distrussero gli acquedotti e bruciarono interi villaggi.
Molti membri della tribù Marri fuggirono in Afghanistan. Nel 1976 i Parari si rinominarono Fronte di Liberazione del Popolo beluci, trovando sostegno in esponenti di sinistra a Karachi e in altre regioni. Iniziarono una pubblicazione in urdu e inglese chiamata “Jabal (montagna): Voice of Balochistan”.
Nel 1977 il colpo di Stato militare di Zia-ul-haq rovesciò il governo. Bhutto, fedele servitore, fu giustiziato. Zia-ul-haq annunciò l’amnistia per i beluci imprigionati spegnendo momentaneamente la rivolta.
Le richieste del movimento beluci erano le tipiche dei movimenti di liberazione nazionale, l’autonomia e una illusoria e borghese “democrazia socialista” nel Pakistan. Una nuova richiesta di indipendenza riemerse solo dopo il 1978, con la formazione dell’Esercito di Liberazione del Baloch.
Il movimento aveva però iniziato a frammentarsi. Diversi capi perseguivano la cooperazione con lo Stato centrale ed emersero differenze ideologiche tra i gruppi studenteschi che alimentavano le proteste.
Oggi esistono vari gruppi separatisti armati, spesso rivali tra loro, anche se i maggiori partiti politici beluci tendono a una generica collaborazione. Quei gruppi fanno capo alle varie tribù, i Marri, i Mengal, i Bugti, ecc. sostenuti principalmente dalle mezze classi e dai proprietari terrieri del sud del Belucistan (principalmente nei distretti di Bolan, Kech, Gwadar, Panjgur, Khuzdar, Sibi e Lasbela), mentre il Belucistan settentrionale è tendenzialmente presidiato dai gruppi islamisti deobandi. Questi ultimi sono però sostenuti da Islamabad, utili a reprimere qualsiasi sentimento di indipendenza regionale.
Se usualmente le mezze classi continuano a chiedere l’indipendenza, i capi tribali, restii a un pieno sviluppo capitalistico, vorrebbero un ritorno al Belucistan pre-annessione. Altri sognano un “Grande Belucistan”, che comprenderebbe aree a maggioranza beluci di Iran, Afghanistan, Sindh, Punjab ecc.
Si interessano del Belucistan non solo la classe dominante pachistana e quella iraniana, ma anche la borghesia cinese. La ripresa dell’attività armata sembra essersi verificata soprattutto dal 2000, con l’annuncio del progetto China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), importante tratta della nuova Via della Seta. Al terminale del CPEC in Belucistan è il porto di Gwadar, che il Pakistan ha acquistato dall’Oman nel 1958.
Gli indipendentisti hanno preso di mira avamposti militari, reti e infrastrutture, ma vi sono stati anche attacchi contro lavoratori cinesi e pachistani. Questo dimostra il carattere antistorico, nonché antioperaio, di un movimento d’indipendenza nazionale oramai inutile e dannoso al fine della rivoluzione comunista. Su questo ed altri aspetti il compagno riferirà al partito dopo ulteriori studi.
L’attività sindacale del partito
In Italia da fine settembre ad oggi l’attività sindacale si è sviluppata attorno a due fatti centrali: lo sciopero generale unitario del sindacalismo di base dell’11 ottobre e lo sciopero generale di Cgil e Uil del 16 dicembre.
In entrambi siamo intervenuti con volantini appositi [qui e qui], l’11 ottobre a Roma, Firenze, Genova e Torino, il 16 dicembre a Milano e a Roma.
I fatti che hanno ruotato attorno alle due mobilitazioni, preparandole e seguendole, hanno dato conferma della correttezza dell’indirizzo sindacale del partito. Li abbiamo commentati nel giornale italiano 412 e 413, presentando i due volantini.
Lo sciopero generale unitario del sindacalismo conflittuale dell’11 ottobre
L’11 ottobre scorso, tutte le dirigenze del sindacalismo di base, nessuna esclusa, per la prima volta dopo almeno 15 anni hanno convocato uno sciopero generale unitario. Il partito ne ha rimarcato il valore, ma ha spiegato che era frutto di calcoli contingenti della maggioranza delle dirigenze del sindacalismo di base, le quali con questa decisione non venivano a smentire la loro natura opportunista, e che era da attendersi da esse un ritorno alla condotta precedente, fatta di azioni separate e in concorrenza fra le diverse organizzazioni, che dividono il movimento sindacale.
Ricordiamo che questa condotta ha caratterizzato tutto il periodo dalla crisi economica del 2008 ad oggi. Un periodo durante il quale la classe lavoratrice è stata sottoposta a un duro attacco alle sue condizioni, e che avrebbe dovuto vedere le dirigenze sindacali tentare una difesa adeguata. L’incontrovertibile opportunismo di queste dirigenze si è dimostrato per non aver fatto nulla di tutto ciò, anzi, le divisioni e gli scontri fra le dirigenze dei sindacati di base si sono aggravate.
Al peggioramento delle condizioni dei lavoratori è corrisposto l’aggravarsi della crisi sia dei sindacati di base sia di regime. I sindacati di base non sono stati in grado di distinguersi da quelli di regime, tanto che la sfiducia della massa dei lavoratori verso il sindacato poco ha distinto gli uni dagli altri.
L’eccezione del movimento operaio nella logistica, per quanto positiva, non è stata in grado da sola di invertire questo quadro generale molto negativo.
Lo sciopero generale unitario dell’11 ottobre non poteva quindi far credere a una inversione di rotta delle dirigenze del sindacalismo di base.
L’indirizzo dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale per portare frutti positivi deve essere seguito in maniera permanente e non occasionale e dovrebbe informare l’azione sindacale a tutti i suoi livelli, non solo dei vertici confederali attraverso la proclamazione dello sciopero generale o di manifestazioni nazionali, ma anche ai livelli aziendale, territoriale e di categoria.
Una autentica e piena unità d’azione delle organizzazioni che si richiamano al sindacalismo di classe – imprescindibile per il raggiungimento dell’unità d’azione dei lavoratori – sarà possibile solo con una lotta condotta dal basso – della base degli iscritti, dei militanti, dei delegati – contro le attuali dirigenze sindacali opportuniste.
Questa lotta dal basso – che sorge spontanea – contro l’opportunismo politico-sindacale che controlla i sindacati sarà tanto più risoluta ed efficace quanto più sarà guidata dal nostro partito, che è il solo ad avere una visione corretta del processo completo della lotta fra le classi, e quindi, in esso, di quella sindacale, e che, per questo privilegio e questa capacità, è in grado di indirizzare lavoratori e militanti sindacali che non aderiscono ad alcun partito, e anche che sono idealmente vicini ad altri partiti.
I fatti che hanno preceduto lo sciopero dell’11 ottobre, il suo andamento e cosa è ad esso seguito hanno confermato quanto qui affermiamo circa l’opportunismo delle dirigenze sindacali.
La preparazione dello sciopero che, come la sua proclamazione, avrebbe dovuto essere unitaria – con assemblee comuni nei posti di lavoro, nelle categorie, nei territori – è stata alquanto deficitaria. Lo prova il fallimento dell’assemblea nazionale unitaria di propaganda dello sciopero che avrebbe dovuto svolgersi il 19 settembre a Bologna. Nell’ultima riunione preparatoria di questa assemblea le dirigenze dei sindacati di base si sono divise – quella del SI Cobas contrapposta a tutte le altre – circa la gestione dei partecipanti e degli interventi. L’assemblea a Bologna si è così ridotta a una iniziativa del solo SI Cobas, disertata da tutte le altre organizzazioni che si sono date appuntamento, però dopo lo sciopero, il 24 ottobre a Roma.
Il ripiego: le manifestazioni del 5 dicembre
L’assemblea post sciopero, se da un lato ha ribadito la volontà di proseguire il percorso unitario, dichiarando persino di voler attivare «una forma stabile di consultazione tra tutte le organizzazioni», dall’altro ha sancito il defilarsi del SI Cobas, che per numero di iscritti è il secondo sindacato di base dopo l’Usb, da questo fronte del sindacalismo conflittuale, nato dunque già zoppo.
Ma anche il dichiarato intento di costituire forme stabili di consultazione è rimasto sulla carta, a conferma di quanto valgano i proclami dell’opportunismo.
Il solo atto unitario successivo all’assemblea del 24 ottobre è stato la proclamazione di una giornata nazionale di manifestazioni regionali contro il governo, sabato 5 dicembre. Una decisione sbagliata, figlia anch’essa dell’opportunismo politico sindacale. Con questa decisione le dirigenze del sindacalismo di base rinunciavano a proclamare un secondo sciopero generale, in un momento più propizio, o quanto meno meno sfavorevole rispetto all’11 ottobre; ciò in ragione degli attacchi anti-operai contenuti nella legge di stabilità, il cui iter parlamentare di approvazione veniva avviato a fine ottobre e si sarebbe concluso a fine dicembre.
La manovra del governo, inoltre, determinava una certa agitazione all’interno della Cgil. Tutte le sue correnti di sinistra, che un tempo costituivano la cosiddetta “sinistra sindacale”, si erano espresse a favore della proclamazione di uno sciopero generale. Sia quelle sostenitrici della maggioranza – “Lavoro e Società” e “Democrazia e Lavoro” – sia quelle di opposizione o di alternativa, come si definiscono rispettivamente “Riconquistiamo tutto” e “Le giornate di marzo”, la seconda staccatasi dalla prima nel luglio 2020. La maggioranza della Cgil era invece contraria allo sciopero, allineata alla Cisl.
Una prima conferma della correttezza dell’indirizzo dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale si è avuta dallo sciopero dell’11 ottobre, con esito moderatamente positivo, se paragonato agli scioperi generali proclamati dal sindacalismo di base negli anni precedenti.
Una seconda conferma è venuta dall’adesione allo sciopero di un certo numero di gruppi operai di fabbrica organizzati nell’area di opposizione in Cgil. L’unità d’azione del sindacalismo di base ha cioè permesso una unità d’azione del sindacalismo conflittuale che è andata oltre il perimetro dei sindacati di base. Ciò ha contribuito a rafforzare un poco lo sciopero, benché sia stato ancora lontano da un vero sciopero generale, di grandi masse proletarie, che blocchi produzione e circolazione delle merci.
L’attacco anti-operaio condotto dal governo con la legge di stabilità e la relativa insofferenza interna alla Cgil avrebbero favorito, a fronte di una proclamazione di un secondo sciopero generale unitario del sindacalismo di base, un invito alla adesione sia dei lavoratori nel loro complesso sia dei gruppi operai combattivi inquadrati ancora nei sindacati di regime, favorendo una ulteriore estensione dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale oltre il perimetro del sindacalismo di base.
Infine, la proclamazione di un secondo sciopero generale da parte delle dirigenze sindacali di base riunitesi il 24 ottobre a Roma avrebbe permesso, con ogni probabilità, di ricompattare il fronte unitario del sindacalismo di base, recuperando nell’azione unitaria il SI Cobas, la cui dirigenza avrebbe avuto più difficoltà a giustificare una sua mancata adesione di quanto non abbia avuto rispetto alla giornata di manifestazioni locali del 5 dicembre.
Per queste ragioni i nostri compagni, insieme ad altri militanti sindacali, come già fatto più volte in passato, hanno promosso un appello per un nuovo sciopero generale unitario del sindacalismo di base, da far sottoscrivere a militanti sindacali e lavoratori: “Per uno sciopero generale unitario del sindacalismo conflittuale. Contro il nuovo attacco alle pensioni e gli altri contenuti antioperai della legge di bilancio! In difesa dei salari contro l’aumento dell’inflazione! In difesa delle libertà sindacali e politiche della classe lavoratrice!”.
Due fatti successivi hanno mostrato la correttezza di questa iniziativa. Il primo è stato il fallimento della giornata di manifestazioni locali di sabato 5 dicembre promossa dal cartello semi-unitario (senza il SI Cobas) del sindacalismo di base. Questa giornata era stata caratterizzata in senso più politico che sindacale. Il comunicato di convocazione appariva della sinistra borghese radicale e invocava la formazione di un movimento popolare e il sostegno dei partiti di quell’area politica. La scarsa partecipazione alle manifestazioni, ridotte in genere a dei presidi, ben inferiore a quelle per lo sciopero dell’11 ottobre, ha confermato che un tratto caratteristico dell’opportunismo è tendere a piegare ai propri particolari fini politici il naturale sviluppo del movimento sindacale di classe, che indeboliscono e danneggiano. Nella giornata del 5 dicembre, per quanto da essi convocata, i sindacati sono stati messi al servizio di uno dei tanti fronti politici della sinistra radicale. Gli iscritti, e non pochi degli stessi delegati, l’hanno disertata, diversamente dall’11 ottobre.
Si conferma che a mobilitare come classe le masse lavoratrici sono i sindacati, e per le loro finalità, la difesa degli interessi materiali immediati, economici dei lavoratori. Non obiettivi mediati dalle ideologie, cioè politici: democratici, pacifisti, riformisti e nemmeno “comunisti”.
Il che non significa un movimento e obbiettivi a-politici.
Al contrario la grande maggioranza dei gruppi politici sacrificano e subordinano l’unità della lotta operaia al blocco politico. Così escludono dal fronte sindacale i lavoratori non aderenti alla loro politica. Ad esempio: la dirigenza del SI Cobas si è tenuta fuori dalla giornata di manifestazioni del 5 dicembre, e tutti gli altri sindacati di base non hanno mai aderito alla Assemblea Lavoratori Combattivi, promossa un anno e mezzo prima dalla dirigenza del SI Cobas, in quanto evidentemente subordinata al fronte politico denominato Patto d’Azione.
Lo sciopero generale di Cgil e Uil del 16 dicembre
Il secondo elemento che ha dimostrato la correttezza dell’appello per un secondo sciopero generale unitario del sindacalismo conflittuale è stato la proclamazione dello sciopero generale da parte di Cgil e Uil, convocato il 10 dicembre per il 16 (come previsto dai nostri compagni, mentre tutti avevano escluso che il maggior sindacato di regime in Italia chiamasse allo sciopero generale).
Riguardo a questa mobilitazione di Cgil e Uil abbiamo agitato l’altro indirizzo d’azione sindacale del partito, l’unità d’azione dei lavoratori, contenuto nell’appello per un secondo sciopero generale unitario del sindacalismo di base. In esso si affermava che, nella ipotesi, da non escludere, in cui la Cgil avesse proclamato lo sciopero generale, i sindacati di base avrebbero dovuto parteciparvi, in modo fra loro unitario, con una piattaforma comune e con spezzoni comuni nei cortei, per cercare di avvicinare i lavoratori ancora controllati dai sindacati di regime e per radicalizzare lo sciopero. Per questo obiettivo le condizioni più favorevoli si hanno appunto nell’unità d’azione fra lavoratori, anche al di sopra delle divisioni fra sigle sindacali.
Il partito indica la strada di una permanente unità d’azione fra i sindacati conflittuali, che conduca a un fronte unico sindacale di classe, ma non dà lo stesso indirizzo per i sindacati di regime.
Però indichiamo, quale miglior mezzo per togliere il controllo dei sindacati di regime sui lavoratori, che il sindacalismo conflittuale partecipi agli scioperi promossi dal sindacalismo di regime perché, come scritto nel volantino distribuito allo sciopero del 16 dicembre: «Uno sciopero riuscito è sempre una vittoria per i lavoratori e un problema per il sindacalismo collaborazionista [mentre] uno sciopero blando è sempre una sconfitta per i lavoratori e un rafforzamento del sindacalismo collaborazionista».
Anche in questo caso le dirigenze dei sindacati di base hanno dimostrato il loro opportunismo. Innanzitutto col non essersi consultate al fine di una reazione comune a fronte della proclamazione dello sciopero generale di Cgil e Uil, agendo invece ciascuna per sé e lasciando sulla carta i buoni propositi enunciati nella mozione finale dell’assemblea del 24 ottobre. Poi, per ciò che ciascuna dirigenza ha deciso di fare. Si è assistito a un ventaglio di condotte, dalla dirigenza dell’Usb che ha apertamente boicottato lo sciopero – certamente la condotta più deprecabile – a quella dell’Esecutivo del SI Cobas che ha dichiarato la partecipazione allo sciopero solo 36 ore prima dell’inizio e solo in alcune aziende.
Le dirigenze sindacali abbandonano il percorso unitario
Dopo la improvvida iniziativa di sabato 5 dicembre non vi è stata nessuna altra azione unitaria e ciascuna organizzazione sindacale di base è tornata alla condotta opportunista di sempre, slegata dalle altre.
Due fatti sono venuti a confermare quanto valgano i proclami delle dirigenze opportuniste.
Quest’anno sono previste le elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie nel pubblico impiego, determinanti per definire quali sindacati saranno “rappresentativi” nei vari comparti in cui è diviso il settore. Per le elezioni nelle Funzioni Locali – in cui è impiegato il 15% dei dipendenti – l’Usb ha deciso di stringere un patto con un sindacato autonomo, d’ispirazione corporativa. Questa decisione ha creato alcuni malumori nella base dei delegati, anche perché imposta dai vertici nazionali senza nemmeno consultare i coordinamenti territoriali. Nemmeno per le elezioni nel comparto dell’Istruzione e Ricerca (il maggiore, col 38,3 % dei lavoratori pubblici) è stata presa in considerazione l’ipotesi di stringere un patto col resto dei sindacati di base.
Il secondo fatto è stato la proclamazione da parte dell’Usb di uno sciopero nazionale nella sanità pubblica per il 28 gennaio, senza che vi sia stata alcuna consultazione con gli altri sindacati di base presenti nella categoria.
FINE DEL RESOCONTO DELLA RIUNIONE GENERALE DI GENNAIO