Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 418 - 17 ottobre 2022

anno XLIX - [ Pdf ]

Indice dei numeri

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Aggiornato al 30 ottobre 2022

organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 La guerra fra Stati è la continuazione con altri mezzi della guerra fra le classi
La lotta per il prezzo del gas dalle borse merci ai campi di battaglia
La nuova ondata di rivolta in Iran: L’antecedente: le proteste contro l’aumento dei prezzi - La reazione all’omicidio di una giovane - La reazione della classe operaia - Tentantivi di stabilizzazione del regime
La “pregiudiziale antifascista” - Fiabe elettorali
PAGINA 2 – Lo scontro fra gli imperialismi in Ucraina: L’offensiva ucraina - La risposta della Russia - Sul fronte di Kherson - La realtà economica della guerra - Il ruolo della Turchia - La posizione della Germania - Collaborazione in Asia - La posizione di Cina e India - La Cina vuole tempo - Conclusioni
– Attivismo e spontaneismo nei fronti unici del pacifismo pluri-classista
Aggressione all’Europa (Prometeo, 13 agosto 1949): Presentazione della nuova traduzione in francese
Per il sindacato di classe Assemblea nazionale USB contro la guerra e per il sindacato di classe: Il primo passo per fermare la guerra imperialista è scioperare per rifiutare di pagarne i costi
Roma, sabato 8 ottobre, Manifestazione nazionale Cgil: Per un movimento generale di sciopero per forti aumenti salariali!
Genova, giovedì 14 ottobre - Viva la lotta dei lavoratori dell’Ansaldo! Per fronteggiare la crisi economica del capitalismo occorre ricostruire il movimento sindacale di classe con l’unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo conflittuale!
Nel Regno Unito la borghesia si prepara ad affrontare la crisi economica e lotte più estese della classe lavoratrice: Dietro-front della classe dominante - Ma sempre contro la classe operaia - Cambia il governo, resta l’austerità - Ma c’è di peggio
Disastro minerario in Turchia: Il capitalismo miete vittime
– Fra i ferrovieri Usa cresce la volontà di lotta
– Sciopero in Belgio dei ferrovieri
PAGINA 5 La borghesia del Pakistan in crisi e sommerso dalle acque continua a destreggiarsi fra gli imperialismi (Rapporto alla riunione generale di settembre): L’alluvione esaspera la crisi
PAGINA 6‑8 – Converge nella Riunione Internazionale del Partito il lavoro di tutti i nostri gruppi (in video-conferenza,23-25 settembre - [RG144]): Dal resoconto della sezione venezuelana - La ideologia di classe della borghesia - La Internazionale dei Sindacati Rossi - La questione militare, La guerra civile in Russia, Nel Kuban - La rivoluzione ungherese del 1919, Prime conclusioni - La teoria marxista delle crisi, Le teorie sul plusvalore: David Ricardo

 

 

 


PAGINA 1


La guerra fra Stati è la continuazione con altri mezzi della guerra fra le classi

La Russia, posta di fronte alle difficoltà sui campi di battaglia, dove l’esercito ucraino ha riconquistato zone occupate nei mesi precedenti, è stata costretta a cessare di negare l’impegno in una guerra vera, utile strumento di propaganda per il fronte interno, e ha dovuto ordinare una parziale mobilitazione. Il governo comprende che la popolazione è contraria, ma la sconfitta potrebbe avere conseguenze molto peggiori.

Fin dai primi giorni da diverse parti della Russia sono arrivate notizie che la mobilitazione non è limitata a ex militari con esperienza di combattimento e riservisti con determinate specialità (carristi, genieri, tiratori...), ma sono arruolati quanti più uomini possibile per procurare carne alla guerra imperialista. Si hanno notizie che dove non era possibile trovare i numeri richiesti delle specialità indicate si è passati ad arruolare chiunque. La mancata comparizione è punibile con una pesante pena detentiva. La polizia è già ampiamente allertata contro i molti che cercano di non esser mandati in guerra. Poiché si tratta prevalentemente di lavoratori, diventa una questione di classe, una ulteriore repressione dei proletari meno sottomessi.

Anche se per ora la massa del proletariato non è coinvolta in questa prima mobilitazione, tutti capiscono che non appena ce ne sarà bisogno sarà una più generale.

Tutto si svolge con la partecipazione dei padroni delle fabbriche che sono obbligati a fornire agli uffici di reclutamento informazioni sui propri dipendenti. Nessuna legge garantisce la conservazione del posto per chi è arruolato e la maggior parte dei contratti collettivi prevede la risoluzione del rapporto di lavoro anche per assenze indipendenti dalla volontà del lavoratore.

Tutto ciò ha raffreddato assai le inclinazioni patriottiche di alcuni proletari: una cosa è vedere la guerra in televisione, altra dal fondo di una trincea.

Il malcontento è infatti esploso con proteste nelle grandi città, subito disperse violentemente dalla polizia, con migliaia di arresti. Non è così facile coprire una sporca guerra imperialista con la propaganda patriottica contro il nazismo in Ucraina. Le proteste all’indomani della dichiarazione della mobilitazione, represse, sembra si siano poi spente.

Una certa opposizione alla guerra si è manifestata con il tentativo di giovani russi di riparare all’estero, in Finlandia, in Norvegia e nei paesi dell’Asia centrale. Ma la fuga individuale per evitare la chiamata, sebbene comprensibile, non è una reazione della classe operaia: una famiglia proletaria non può permettersi di fare all’improvviso le valigie e mantenersi in un paese straniero; qui si tratta per lo più di giovani della piccola borghesia. Per altro, in occidente si è taciuto anche sui tanti ucraini che fin dall’inizio della guerra hanno provato a fuggire per evitare la mobilitazione.

Interessante l’atteggiamento dello Stato finlandese che al confine rispedisce indietro quei giovani disertori: prima delle leggi della guerra valgono per i capitalisti le leggi della sottomissione di classe: che un proletario o un piccolo borghese russo mai si ribellino allo Stato del capitale. La guerra fra gli Stati è una continuazione, con altri mezzi, della guerra fra le classi.

L’opposizione alla guerra è emersa anche con proteste davanti agli uffici di reclutamento. In Cabardino-Balcaria gli abitanti di un villaggio hanno bloccato una strada per protesta. In generale però la popolazione è intimidita.

Numerosi video, da diverse parti del paese, denunciano le deplorevoli condizioni sotto le armi e la mancanza del soldo.

La vanteria del regime che il popolo è schierato e unito per la difesa della patria è una menzogna. Certo una minoranza dei lavoratori può aver ceduto alla frenesia patriottica. La propaganda continua ad alimentare l’isteria sulla guerra e sulla vittoria, ma in realtà i lavoratori non vogliono andare a morire per l’Ucraina, per il “mondo multipolare” di Putin o per il patriarca Kirill che promette il paradiso a chi muore per la Madre-Russia. Istintivamente i proletari non vogliono versare il sangue per gli interessi della borghesia capitalista, nonostante la disabitudine ad una informazione politica di classe, la loro disunione e l’individualismo al quale sono abbandonati.

Anche da parte Ucraina i proletari dimostrano la loro istintiva avversione alla guerra dei loro padroni. Una voce in tal senso, sfuggendo alla censura militare, ci arriva da un gruppo di lavoratori ucraini che in seguito ai recenti bombardamenti scrivono quanto segue.

«Mentre l’intero paese discute in un modo o nell’altro dell’attacco di oggi, vorremmo attirare l’attenzione su un dettaglio che la nostra propaganda di Stato e la società nel suo insieme, ad essere onesti, cerca di ignorare. Dalle testimonianze dei nostri compagni (che per motivi di sicurezza non nominiamo), si può dedurre un atteggiamento degno di nota in diverse parti dell’Ucraina. Giudicate di persona.

«Ai dipendenti di un centro commerciale è stato vietato di lasciare il posto. Ai lavoratori di una società di servizi è stato detto di non lasciare l’area benché potenziale obiettivo di attacco, e non hanno mai avuto e non avranno mai un rifugio antiaereo. Ma un’impresa di produzione si è spinta oltre: per tutta la durata del bombardamento i lavoratori (diverse centinaia) sono stati costretti ad uscire dall’officina e a rimanere all’aperto in strada fino a quando l’allarme non è scattato. Inoltre i tempi di fermo per la durata dell’allarme (che può durare diverse ore) non sono pagati.

«Puoi certamente dare la colpa all’esercito straniero per la morte di civili. Ma non uccide i civili un tale atteggiamento bestiale dei loro datori di lavoro, con i quali sembriamo essere un solo popolo, persino una famiglia, con cui abbiamo un sangue, una lingua, un paese? Quanto sangue non e già sulle loro mani? E in senso figurato o realmente? Combatti per i tuoi diritti, ferma lo spargimento di sangue!»

Praticamente i russi bombardano e i padroni ucraini costringono i loro proletari a restare sotto le bombe!

Come dimostra la storia della nostra classe, ad opporsi alla guerra imperialista sono stati proprio i proletari di Russia e di Ucraina che nel 1917 hanno fraternizzato con i soldati nemici al fronte e hanno rivolto le armi contro il proprio Stato. Ai proletari russi e ucraini che oggi vengono mandati al massacro per gli interessi del capitale spetta nuovamente il compito di indicare al proletariato internazionale la strada rivoluzionaria: trasformare la guerra tra gli Stati in guerra tra le classi!






La lotta per il prezzo del gas dalle borse merci ai campi di battaglia

Rapporto alla riunione generale

C’è una grossolana bugia, propalata ad arte da tutto l’apparato informativo occidentale, secondo la quale le grandi difficoltà in cui si trova il mercato del gas e in genere delle materie energetiche dipenderebbe dal conflitto ad Est e dalla decisione russa di ridurre fino al blocco le esportazioni per reagire alle sanzioni messe in atto dagli Stati Uniti d’America e dagli europei.

Questa è propaganda che non regge né all’esposizione di ciò che è accaduto nel recente passato, quello della ripresa inflazionistica dopo il blocco della pandemia, né allo stato attuale delle condizioni di produzione, esportazione e vendita di gas, petrolio ed energia elettrica.

Infatti già nell’ottobre-dicembre del 2021, diversi mesi prima dell’invasione russa, l’aumento del prezzo del gas rispetto ai primi mesi dell’anno era stato di 4-5 volte, fino ad arrivare a 110 euro al megawattora per la media dei prezzi alla consegna. Il prezzo a luglio-agosto è arrivato a 200, ulteriormente raddoppiato.

La teoria borghese insegna che il prezzo di un bene sarebbe dato solo dalla dinamica di offerta e richiesta. Questo schema ideale si complica per la formazione dei prezzi dei prodotti di grande consumo quando entrano in gioco grandi produttori e grandi distributori.

È il caso delle materie prime, le cosiddette “commodities”, metalli, gas, petrolio e così via, insieme a prodotti agricoli, cereali, carne ecc.

Dai giacimenti il gas metano viene trasportato ai punti di distribuzione o direttamente tramite condutture o liquefatto, il cosiddetto GNL (Gas Naturale Liquefatto), con un oneroso procedimento di raffreddamento, caricato su navi che lo portano ai punti di rigassificazione, e quindi distribuito; questo procedimento ne innalza in modo spropositato il prezzo rispetto alla distribuzione in gasdotti. Però è un mezzo di distribuzione molto usato, che entra nella determinazione finale del prezzo di vendita.

Nella lista delle “commodities” è compresa l’energia elettrica che, pur essendo un prodotto derivato da diverse fonti, è di difficile e costoso immagazzinamento, e con costi di trasporto elevati, e che quindi deve essere utilizzato immediatamente.

Nella determinazione del prezzo alla grande distribuzione delle materie prime entra in gioco il meccanismo delle aste marginali, nelle quali la “curva dell’offerta” determinata aggregando singole produzioni e prezzi richiesti dai produttori, si correla alla rispettiva “curva della domanda”, richiesta e prezzo offerto. Il punto di incontro di queste due curve determina il prezzo effettivo praticato. Che è sempre quello prodotto a costo maggiore, per rimanere sul nostro terreno, la remunerazione della rendita differenziale, che conosciamo bene dai nostri classici.

Tale meccanismo di asta è quello praticato nelle cosiddette “borse” nelle quali, al pari di tutta la carta della finanza, sono negoziati i prezzi di petrolio, gas, energia elettrica ed altre “commodities”.

Dallo schema marxista della rendita differenziale si deduce agevolmente che il prezzo alla fine dipende dall’abbondanza o scarsità del bene (reale o imposta) che impone il ricorso al minerale più costoso. L’opinione comune borghese invece, sostenuta “dai fatti”, dice che quando un bene è scarso il suo prezzo deve aumentare, diminuire quando l’offerta supera la richiesta. Questo nel mondo ideale del processo di metamorfosi merce-denaro.

Nella pratica la maggior parte degli scambi riguarda la negoziazione di particolari forme di contratto, nate come strumenti di “copertura del rischio” insito in ogni tipologia di scambio che si prolunghi nel tempo. Quando un andamento temporale lungo entra in gioco nello scambio, la struttura finanziaria del capitalismo impone il proprio segno speculativo. Le possibili criticità delle fluttuazioni dei prezzi di mercato o della minore disponibilità del bene vengono in certo qual modo anticipate da particolari forme contrattuali.

In effetti esistono due tipi di mercati, quelli in cui si vendono e si comprano i beni fisici, il metano nel nostro caso, e il mercato puramente finanziario in cui si negoziano strumenti “derivati”, che cioè non trattano direttamente il bene, ma scommettono sul suo prezzo. Lo strumento finanziario che consente questo rapporto contrattuale è detto “future”.

Esistono molte società quotate in borsa che operano nel settore dell’energia e dell’elettricità, ma non solo, anche nel settore agro-alimentare, nel petrolio, nei metalli, operanti sui “futures”, dette nel gergo della finanza “utilities”, che sono a loro volta veicoli per la speculazione.

I “futures” muovono cifre stratosferiche, di pura speculazione. Per dare un’idea delle dimensioni di questo mercato parallelo, un esempio semplice e limitato: in Italia, che è un consumatore contenuto rispetto ad altri paesi, nel 2020, a fronte di 670 Twh (miliardi di chilowattora) immessi effettivamente nella rete, quindi regolati da transazioni reali, a pronti, sono state effettuate transazioni “virtuali” sul mercato interno, quindi non riguardanti scambi con mercati esteri, per 3.520 Twh. E si tratta di volumi riferiti al 2020, quindi prima che esplodessero in Europa i prezzi dell’energia, ed è un sistema di “pagamento” in crescita.

Naturalmente questa distinzione tra i due tipi di mercato è esplicativa soltanto per le due tipologie di trattamento, perché fisicamente le borse non sono separate.

Queste borse, nelle quali si scambia solo una piccola quota dei beni fisici, sono presenti in tutto il mondo, evidenziando che il sistema finanziario è ormai il paradigma dominante nel capitalismo monopolistico, negli Stati Uniti, in Canada, in Asia, in Cina, in Europa.

Il prezzo effettivo dei “futures” corrisponde alla sua aspettativa futura, oltre alla copertura del rischio – aumento per chi vende, diminuzione per chi acquista – o per la semplice speculazione.

Nella furfantesca idea che sottendeva l’utilizzo degli strumenti derivati, questi dovevano aiutare a stabilire un margine di sicurezza per i prezzi e portare razionalità nella loro formazione. Alla fine del gioco si è verificato il contrario: è il prezzo rappresentato dai “future” che determina il prezzo di mercato del bene, del gas e degli altri prodotti energetici, ma anche degli agroalimentari! Il fine di ripartire il rischio si è dissolto nella speculazione finanziaria.

Nel mondo ci sono borse specializzate per gli scambi del gas metano; il principale mercato di scambio all’ingrosso europeo del gas è ad Amsterdam, dove si commerciano oltre alle forniture immediate di gas molto di più quelle “futures”. In questa borsa si spunta un determinato prezzo all’ingrosso “spot”, cioè relativo ad una consegna immediata, il TTF, Title Transfer Facility, misurato in euro al metro cubo standard (a temperatura e pressione prefissati), di riferimento per l’Europa.

Ma ad Amsterdam si fissano anche i prezzi “future”, utilizzati per le offerte di fornitura gas dilazionate nel tempo, e la maggior parte delle compravendite di gas sono effettuate mediante contratti futures. Quando quelli salgono, il TTF spot non può che salire, e tutto il sistema dei prezzi all’ingrosso si disarticola con crescite fuori da ogni logica.

Anche se del bene gas c’è abbondanza. Un rapporto ENI del 26 luglio 2022 afferma che le riserve mondiali, che al dicembre 2005 ammontavano a 172.742 miliardi di metri cubi, nel 2021 erano stimate per 202.179 miliardi. Il 40% di tali riserve si trova nel Medio Oriente, 33% in Russia e in Asia Centrale, 8% in Africa e Nord America (non sappiamo se questa percentuale contempli anche il gas da scisti bituminosi, la cui estrazione ha effetti dirompenti sull’ambiente, ben altro che centrali a carbone!), il 2% in Europa. Nel corso del 2021 la produzione globale è stata di 4.050,33 miliardi di metri cubi, con un consumo globale inferiore, pari a 4.027 miliardi. Eccedenza dichiarata, della quale si fa beffe il prezzo finale.

Nella attuale bufera di prezzi, che data da prima del conflitto in atto, delle sanzioni ai cattivi di turno (che ricordano le “inique sanzioni” all’Italietta per le imprese coloniali), dei blocchi agli acquisti da occidente, c’è chi ha tentato di proporre un “calmiere”. Ma la proposta di un “price cap”, di un “tetto” da applicare al solo gas, dopo una serie di discussioni e distinguo, è caduta nel vuoto. Questa proposta dei borghesi italiani e francesi – che fingeva di ignorare la forza degli Stati Uniti, che impongono l’acquisto del loro prodotto più costoso – era volta in realtà a gettare ulteriore scompiglio in Europa, mostrando di illudersi di poter costringere un robusto venditore a cedere la sua merce a un prezzo fissato ope legis. Voler bloccare il prezzo del gas russo, il più a buon mercato, e non quello del GNL è analoga barzelletta.

Naturalmente la proposta è stata respinta tanto dai mercanti olandesi, che staccano ricchi dividendi dagli aumenti del gas, quanto dagli Stati che hanno disponibilità di giacimenti di gas, la Norvegia in particolare, o possono attingere a misure alternative per la produzione energetica, nucleare o da centrali – inquinanti – a carbone, alla faccia dell’Unione Europea!

Ora la Commissione Europea, che ha respinto tutte e due queste ipotesi, si sta perdendo in discussioni su dove trovare i soldi per alleggerire il peso delle bollette e su quale meccanismo mettere in uso per il controllo del prezzo. Le ipotesi si sprecano, l‘impotenza delle borghesie europee si presenta in tutta la sua vastità.

In assoluta controtendenza sono gli Stati Uniti d’America, nei quali il gas all’utente finale ha avuto un incremento nel 2021 del 42%, enormemente inferiore a quello segnato ad Amsterdam. Impietosi i paragoni sui prezzi a fine agosto 2022: sul mercato americano Henry Hub, la borsa in Louisiana, è di 0,043 dollari per chilowattora contro un prezzo medio sul mercato mondiale di 0,075 per Kwh, mentre il prezzo europeo è circa 0,136.

Il prezzo dell’energia è un problema essenzialmente delle borghesie europee, in particolare della potenza economica tedesca, la più in sofferenza. E naturalmente la Germania ha provveduto da sola, alla faccia della pretesa unità europea, a porre un argine alla minacciosa crisi produttiva causata dell’aumento dei prezzi, stanziando 200 miliardi di euro per mantenere stabili i prezzi energetici. Un aiuto di Stato che viola i rapporti comunitari.

Ma anche per le borghesie europee minori lo spettro della recessione è dietro l’angolo. La reazione dello Stato russo alle sanzioni, con la riduzione dei flussi e la minaccia di chiuderli, ha provocato un ulteriore violento aumento dei prezzi.

I contratti a lungo termine stabiliti con i fornitori prima dell’esplosione dei prezzi hanno consentito utili enormi alle distributrici nazionali di gas, che si sono riprese in questa fase delle perdite nel periodo della pandemia. Fin quando i contratti con Gazprom saranno in essere, tutti gli importatori che li hanno sottoscritti alle precedenti condizioni macineranno utili eccezionali, vendendo poi quel gas ai prezzi correnti stabiliti dal TTF.

* * *

Dati di fonte Eurostat dicono che nel primo semestre del 2021, anno della ripresa produttiva dopo la pandemia, l’Europa ha importato il 47% del suo fabbisogno di gas dalla Russia, il 21% dalla Norvegia, il 12% dall’Algeria, il 6% dagli Stati Uniti, il 4% dal Qatar e il 10% da altri. Nell’intero anno 2021 la quota di importazione dalla Russia si è attestata sul 40%.

Apparentemente sconcertante è che nel primo semestre di quest’anno la Cina ha esportato gas liquido in Europa per circa il 7% del suo fabbisogno, avendo importato dalla Russia il 63% in più rispetto all’anno precedente! Anche dall’India è arrivata una certa quantità di petrolio russo, rivendendo in Olanda quantità rilevanti di prodotti derivanti dal petrolio.

Il protrarsi della guerra e l’atteggiamento sempre più bellicoso di Occidente e Russia stanno portando i paesi europei a una crisi di disponibilità. La promessa di GNL e di petrolio dagli Stati Uniti d’America si è dimostrata un argomento buono solo a bloccare il flusso dalla Russia.

Il forzato abbandono del già ultimato e funzionante gasdotto Nord Stream 2, destinato “ad arrugginire sul fondo del Baltico”, secondo la sprezzante affermazione americana, è stato un inizio di guerra energetica portata tanto alla Russia quanto all’Europa, per spezzare il pericolosissimo legame energetico e quindi potenzialmente politico tra Russia e Germania.

Sul piano militare, il recente sabotaggio dei due gasdotti del Baltico, il primo che consentiva un trasporto diretto Russia-Germania e il secondo già collaudato ma mai entrato in funzione, hanno aggravato la carenza di energia, dimostrando la debolezza di qualunque accordo strategico che non tenga in conto la forza smisurata degli Stati Uniti. L’aumento annuo di 15 miliardi di metri cubi supplementari annui dalla Russia, per raggiungere 50 miliardi nel 2030, è stato in seguito smentito, dopo che l’Europa tutta (quasi) si era piegata alle pressioni americane, tramite la NATO, per instaurare il regime sanzionatorio. Ugualmente la Norvegia ha dichiarato di non poter più assicurare le sue esportazioni, in una situazione di forte criticità.

Per l’energia elettrica si è determinata, a causa delle dinamiche speculative, una situazione simile a quella del gas. Il prezzo dell’elettricità è correlato a quello del gas, anche se è prodotta da fonti diverse. Ma è un succedaneo di questo e ne segue le fluttuazioni di prezzo.

La Finlandia per sostenere le proprie imprese elettriche ha messo in atto un piano di sostegno da 10 miliardi di euro, il governo svedese da 23 miliardi.

Il meccanismo di questa situazione è uguale a quello del gas, ma con una criticità ulteriore. Il principale mercato per l’energia elettrica si trova a Lipsia, in Sassonia, Eex, Europea Energy Exchange: i suoi azionisti sono privati o a partecipazione statale, tedeschi, italiani, francesi. Su questo mercato si scambiano contratti “futures”, con circa cinquecento produttori europei che trattano la compravendita dei loro megawattora mediante contratti che li impegnano alla consegna in precise quantità a prezzi fissati in anticipo in tempi prolungati di due-tre anni.

Questa è al momento la situazione in Europa delle risorse materiali che permettono il ciclo infernale della produzione capitalistica. Le conseguenze economiche, prima ancora che politiche e militari, della guerra hanno aumentato i costi per i capitalisti, principalmente europei.

Vogliamo dare tutta la colpa degli straordinari aumenti dei beni energetici alla speculazione? Sarebbe fortemente riduttivo, e indurrebbe a credere che un capitalismo scevro dalle dinamiche puramente speculative eviterebbe queste terribili turbolenze sui mercati essenziali dell’energia, da cui dipende il processo di produzione capitalistico. Per le intrinseche leggi del capitalismo è nella produzione del plusvalore, non nel mercato l’origine e la necessità storica del suo crollo.

La crisi europea è partita e si è sviluppata come inflazionistica dopo la grave fermata dovuta alla pandemia, sotto l’effetto combinato dell’esplosione del debito degli Stati, in primis gli Stati Uniti d’America, che hanno scaricato sui sottoscrittori del loro debito i propri problemi finanziari, grazie alla forza della loro moneta, e della difficoltà della ripresa produttiva in una condizione di saturazione dei mercati.

Quindi è un processo che ha una duplice radice: politica, lo scontro tra imperialismi per la ripartizione dei mercati e delle materie prime, ed economica, la storica caduta del saggio del profitto che è mascherata e si presenta con le ripetute crisi finanziarie.






La nuova ondata di rivolta in Iran

Il regime borghese iraniano mostra il suo volto più ripugnante, con l’oppressione persecutoria e spietata delle donne e la cancellazione voluta ed esplicita della loro dignità. Ciò si spiega non soltanto con gli eccessi ascrivibili al lato più oscuro e regressive del patriarcato ma anche con il diffuso senso di fragilita del regime di fronte ad una certa ripresa delle lotte operaie, determinate dal vistoso peggioramento delle condizioni di vita della popolazione.

È necessario esaminare questi eventi nel loro contesto immediato, del quale i lettori troveranno un approfondimento nel nostro articolo “La classe operaia iraniana in rivolta contro la crisi alimentare”, nel numero 416.


L’antecedente: le proteste contro l’aumento dei prezzi

Sebbene l’interesse dei media globali abbia messo la sordina sulle espressioni di malcontento dovute al rialzo dei prezzi dei beni di prima necessita, le masse proletarie hanno ripreso a scendere in piazza già dal maggio scorso in un’ondata di proteste che, partita dalla regione del Khūzestān, si e rapidamente estesa e si e protratta per tutta l’estate. Già nelle settimane precedentil’assassinio di Mahsa Amini non e trascorso un solo giorno senza proteste di piazza.

Per la prima volta l’ayatollah Khamenei, “guida suprema” della compagine religiosa sciita, e dunque prima autorita della borghese teocrazia iraniana, aveva dovuto prendere atto della “insoddisfazione del popolo” e di un diffuso malcontento e si e visto costretto a parlare di “proteste del popolo”, invece di qualificarle, come di consueto, “disordini” o “sedizione”.

Le manifestazioni degli iraniani hanno assunto un carattere in parte interclassista, dato che ai proletari in lotta per il pane, non essendo organizzati in sindacati di classe né guidati dal partito comunista, si e aggiunta la protesta di strati impoveriti delle mezze classi, soprattutto negozianti costretti a chiudere i loro piccoli esercizi. Le azioni di protesta dei negozianti sono chiamate ”scioperi” dalla sinistra e dai democratici iraniani, che non vogliono distinguerli dai veri scioperi dei lavoratori.

Fra questi uno sciopero sulle piattaforme petrolifere che si e esteso a 12 compagnie d’appalto coinvolgendo circa 3.000 lavoratori. Alla fine di luglio, mentre sulle piattaforme la produzione era bloccata, si sono uniti allo sciopero i lavoratori del dipartimento manutenzioni delle raffinerie a Teheran contro l’aumento dell’orario di lavoro e la riduzione dei salari causato dall’aumento dei prezzi. Le agitazioni economiche hanno riguardato anche altre categorie. Gli insegnanti hanno organizzato proteste in tutto il paese contro gli arresti di alcuni loro sindacalisti. Il coordinamento delle associazioni culturali iraniane, in rappresentanza degli insegnanti, ha chiesto il rilascio degli arrestati, la perequazione degli stipendi del personale scolastico e l’attuazione di alcune leggi a tutela del loro lavoro. Anche i conducenti degli autobus di Teheran e periferia hanno diffuso tramite il loro sindacato una dichiarazione di solidarieta con i sindacalisti degli insegnanti e di altre categorie arrestati, e si sono uniti alle proteste dei lavoratori della scuola.


La reazione all’omicidio di una giovane

L’assassinio di Mahsa Amini ha innescato immediate manifestazioni di protesta a Teheran, davanti all’ospedale in cui la ragazza e morta, e nella città di Saqqez, nel Kurdistan iraniano, di cui la giovane vittima era originaria. In pochi giorni il movimento si è esteso a decine di città trasformandosi in una rivolta. Nemmeno le città sante sciite di Mashhad e di Qom sono state risparmiate dalla protesta. La chiusura di Internet non ha rallentato il movimento.

L’oppressione di genere era naturalmente tra le principali preoccupazioni della rivolta, con le donne che davano fuoco ai loro hijab. Feroce sin dall’inizio la repressione del regime non ha indietreggiato di fronte ad alcun crimine. La polizia ha aperto il fuoco in molte città e uccidendo finora oltre 200 manifestanti.

A Oshnavieh, città a maggioranza curda ai confini con la Turchia, dopo giorni di duri scontri i manifestanti hanno per un breve periodo preso il controllo della città. Pochi giorni dopo anche nella città curda di Sanandaj gli scontri hanno raggiunto una straordinaria violenza: le forze di sicurezza si sono dovute ritirare da alcuni quartieri di fronte al furore dei manifestanti e hanno potuto riprenderne il controllo solo impiegando mitragliatrici pesanti e truppe di rincalzo aviotrasportate. Il massimo tributo di sangue si è avuto a Zahedan, nella regione del Sistan-Baluchistan, dove negli incidenti hanno perso la vita oltre 80 rivoltosi.

Le femministe e i nazionalisti curdi e baloci si sono uniti naturalmente agli sforzi della sinistra borghese per non mettere in movimento autonomo la classe operaia, e confonderla nelle organizzazioni e nelle ideologie del popolo, della nazione, delle nazionalità. Come per la serrata dei negozianti nell’ambito delle proteste contro il carovita, anche in questo caso l’abbandono delle lezioni da parte degli studenti è stato definito “sciopero”. La mentalità è quella di un “popolo unito”, di individui appartenenti a tutte le classi, contro la dittatura e per istituzioni democratiche.

Le forze politiche borghesi dei più disparati orientamenti ideologici hanno acquisito l’esperienza storica di un lavoro di lunga lena per contenere in un ambito interclassista la natura dei movimenti di protesta anche più radicali.

Non neghiamo, di massima, che la loro tattica possa essere anche la più appropriata per tentare di instaurare un regime democratico borghese in Iran, ma non crediamo che un simile cambiamento di regime sia così scontato a breve, dato che difficilmente la borghesia iraniana rinuncerà al potente instrumentum regni del regime teocratico che, col pretesto della religione, impone un onnipresente e oltremodo oppressivo regime di controllo poliziesco sulla classe operaia. Potrebbe la classe dominante iraniana tenere a bada, per i propri loschi fini, l’indocile proletariato iraniano privandosi del capillare dispositivo repressivo che, senza soluzione di continuità associa alle prediche e ai sermoni il manganello e il piombo? Per opprimere e mantenere sottomessa la classe occorre opprimere e umiliare le donne iraniane, così come occorre martoriare le numerose minoranze etniche del paese fra cui gli azeri, i curdi, gli arabi e i baloci. Qualsiasi nuovo regime borghese dovrebbe presto riconciliarsi con le ideologie religiose, conservatrici e nazionaliste. Come nella confinante Turchia.


La reazione della classe operaia

Sul piano sindacale i lavoratori di diverse categorie, quelli del settore farmaceutico e dell’industria dello zucchero, hanno continuato a lottare per le loro rivendicazioni economiche. L’Unione sindacale dei lavoratori della canna da zucchero di Haft Tappeh, che vanta una gloriosa esperienza di lotte protratte per anni nonostante una repressione spietata, ha condannato l’assassinio di Amini esprimendo solidarietà alla rivolta.

Finora l’unica componente del proletariato scesa in sciopero in solidarietà con l’attuale rivolta sono stati gli insegnanti. Il messaggio di cordoglio del sindacato degli insegnanti denuncia il tragico destino di Amini come una minaccia contro qualsiasi donna, e qualsiasi loro studentessa, e paragona Mahsa Amini al nero americano George Floyd. Anche i docenti universitari hanno scioperato, spesso in solidarietà con i loro studenti che boicottavano le lezioni.

Il Consiglio Organizzativo dei Lavoratori Petroliferi si è espresso a sostegno delle proteste, «Sosteniamo le lotte popolari contro la violenza organizzata e quotidiana contro le donne e contro la povertà e l’inferno che domina la società», e ha dichiarato che avrebbe scioperato se il terrore della polizia contro i rivoltosi non fosse cessato.

Anche il Sindacato Libero dei Lavoratori Iraniani, un altro sindacato di base combattivo che si è formato come evoluzione dell’Unione dei Lavoratori Licenziati e Disoccupati, ha diffuso un appello a favore della rivolta: «Noi, classe operaia iraniana, siamo sempre stati l’oggetto principale dell’aggressione sfruttatrice e oppressiva dei governanti e dei loro compari, e le istituzioni repressive continueranno ad agire a ogni livello direttamente contro di noi lavoratori salariati. Pertanto, come abbiamo più volte sottolineato, dichiariamo che noi lavoratori iraniani siamo e saremo in prima linea nella lotta per la libertà, insieme alle donne che non ne possono più di questa palude disumana. Compagne e spose in tutto il paese! Lavoratori dei grandi centri produttivi e industriali, lavoratori delle industrie petrolifere e petrolchimiche, lavoratori delle industrie siderurgiche, lavoratori dell’Iran Khodro e salariati di tutto il paese! Porre fine a questa condizione infernale che hanno creato per noi e che ogni giorno trascina i nostri cari alla morte e alla distruzione è nelle vostre forti mani. Gli occhi della società e del popolo guardano a noi per porre fine all’inferno esistente fermando le ruote della produzione».

Sebbene sia ammirevole la chiarezza della Libera Unione dei Lavoratori Iraniani nell’esprimere l’atteggiamento proletario contro l’oppressione delle donne e il desiderio che i lavoratori assumano un ruolo centrale nella loro lotta, il percorso che propone per arrivarci denota una certa confusione che nasce dalla difficoltà di relazionarsi con il carattere interclassista della rivolta in corso. «Il superamento dell’attuale catastrofica situazione dipende dall’unione dei salariati con altri movimenti e ogni voce libertaria nella società, per arrivare allo scontro finale che giunga alla radice e permetta di sbarazzarsi dell’inferno esistente».

Nella seconda settimana di ottobre si sono uniti alle proteste gli operai degli impianti petroliferi di Assaluye, nelle provincia di Bushehr. Appena il regime accenna a mostrare segni di debolezza, la combattiva classe operaia iraniana ne approfitta per rialzarsi e lottare per i propri interessi di classe. Anche essi hanno scandito slogan contro “il dittatore” che vogliono morto.


Tentantivi di stabilizzazione del regime

La crisi attuale, per quanto possa portare a sviluppi imprevisti, non necessariamente indebolirà il regime degli ayatollah tanto da provocarne un rapido declino. Altre volte esso è stato visto sul punto di soccombere, ma è riuscito a riprendersi, baluardo apparentemente invincibile della controrivoluzione.

Mentre la “Guida della Rivoluzione” sbraita al complotto straniero, in primis degli Stati Uniti, ecco che un aiuto potrebbe arrivargli proprio dal Grande Satana. La trattativa sul nucleare iraniano potrebbe rivelarsi un intervento salvifico per il regime. Su questo anche i partiti, borghesi, dell’opposizione iraniana hanno le idee chiare. Sostiene il capo del Partito Democratico del Kurdistan Iraniano, Mustafa Hijri: «Un nuovo accordo sul nucleare non potrà che recare vantaggi al regime islamista, come peraltro è accaduto nel 2015 quando i vantaggi economici di quell’accordo furono utilizzati per espandere i progetti militari e il programma missilistico e per rafforzare ulteriormente gli apparati repressivi delle Guardie Rivoluzionarie».

Nei giorni scorsi l’accordo raggiunto fra Israele e Libano sullo sfruttamento dei giacimenti di gas nelle acque antistanti i due paesi ha visto la mediazione degli Stati Uniti. Si tratta di un tentativo per gli Usa di recuperare quel ruolo di arbitro del Medio Oriente in parte offuscato negli ultimi anni dall’attivismo diplomatico e dalla presenza militare nella regione della Russia.

A contrastare questi tentativi della borghesia iraniana e internazionale di stabilizzare la teocrazia e consentire al capitale d’Iran di ritagliarsi una fetta più ampia nelle produzioni e nel commercio mondiale, verrà la lotta del proletariato.

La strada da percorrere per la classe operaia iraniana consiste non nel sottomettersi a movimenti non proletari ma nel formare un fronte sindacale unico di classe in cui tutte le organizzazioni operaie in Iran che si sottraggono alla subordinazione al regime possano agire insieme e in maniera indipendente rispetto alle altre classi.

Anche per rivendicazioni democratiche interclassiste, soltanto agendo in maniera indipendente, senza confondersi con altre classi, il proletariato può rendersi davvero protagonista, fino ad assumere la direzione di una rivolta come quella attuale in Iran.

Nel vecchio Partito Comunista dell’Iran, nato sull’onda rivoluzionaria mondiale successiva all’Ottobre Rosso, si manifestò presto una divaricazione fra i fautori della rivoluzione sociale e quanti erano interessati solo alla lotta contro le ingerenze britanniche e il regime dello scià. Fra i primi si segnalò il delegato al 2° congresso dell’Internazionale Comunista (Sultanzadé, pseudonimo di Avetis Mikailian, 1889- 1938) che con poche assai chiare parole delineò i caratteri e le conseguenze di queste due linee in inevitabile collisione: «Il punto delle tesi che prevede l’appoggio al movimento democratico borghese nei paesi arretrati può essere riferito, a mio avviso, soltanto ai paesi nei quali tale movimento è al suo stato iniziale. Se invece si seguisse il suggerimento delle tesi nei paesi con un’esperienza alle spalle più che decennale o in quelli in cui il movimento ha già il potere nelle sue mani, ciò equivarrebbe a gettare le masse nelle braccia della controrivoluzione. Il problema dunque è quello di creare e mantenere in piedi un movimento puramente comunista in opposizione ai movimenti democratico-borghesi. Ogni altra valutazione della realtà di fatto potrebbe portare a risultati incresciosi».

Oggi gli eredi delle posizioni di sostegno ai movimenti nazional-borghesi, risultate vittoriose con l’affermarsi della controrivoluzione dello stalinismo, sono i partiti e i movimenti della sinistra iraniana, mentre i veri fautori della rivoluzione sociale sono organizzati soltanto nel Partito Comunista Internazionale.






La “pregiudiziale antifascista”

Quando si parla in termini generici di "estrema sinistra" in Italia si fomenta un grande equivoco. La quasi totalita di formazioni che rientrano in questa etichetta sono appestate dall’ideologia della classe dominante e non possono non agire conseguentemente in difesa dell’ordine costituito. Molto moderati nelle idee, abituati a rimuginare luoghi comuni e pregiudizi, sono estremisti soltanto quando devono combattere il marxismo rivoluzionario, che temono a ragione come una minaccia mortale per la loro equivoca pratica politica.

Ad esempio, adesso che c’è un governo di “destra” fanno di tutto per deviare sul terreno sterile e sdrucciolevole dell’antifascismo ogni manifestazione di malcontento dei lavoratori per evitare che lottino per i propri interessi economici. L’obiettivo è un governo "meno di destra".

Lo slogan "siamo tutti antifascisti" vuole fare credere una menzogna conclamata, che l’oscena “sinistra” del capitale sarebbe meno ostile alla classe operaia della “destra”. In realtà il ceto politico borghese, sia esso di “destra” o di “sinistra”, si differenzia soltanto sotto alcuni aspetti esteriori, ma nella sostanza è legato insieme dagli stessi interessi ed è sempre unito in una guerra permanente contro i lavoratori.

Chi nelle manifestazioni sindacali si sgola a gridare "siamo tutti antifascisti" chiede che la borghesia assuma una facciata più democratica e inganni meglio i lavoratori distogliendoli da perseguire i propri interessi immediati, più salario e meno orario di lavoro, e quelli storici, abolizione del lavoro salariato.

I comunisti internazionalisti fanno l’esatto contrario della cosiddetta "estrema sinistra" borghese, non a far prevalere una fazione borghese sull’altra ma per affossarle entrambe. L’"estrema sinistra" borghese non soltanto non è in grado di concepire il rovesciamento del regime ignobile e putrefatto del capitale, ma non è in grado neanche di sostenere le lotte economiche dei proletari per avere più salario e per ridurre l’orario di lavoro.


Fiabe elettorali

Narra la fiaba che finalmente gli italiani avevano espresso la volontà decisa di un governo forte, compatto e legittimato dal voto popolare. La Donna della Provvidenza, invocata a furor di popolo, si apprestava a dare un segnale deciso sul fronte istituzionale nominando i presidenti delle Camere. Ed ecco una coppia d’assi uscire dalla manica della premier in pectore, a ulteriore conferma dello storico attaccamento della pancia profonda degli italiani ai valori tradizionali di Dio, Patria e Famiglia.

Poi però qualcosa non va nella “famiglia” del Centrodestra, naturale maggioranza, dicono, uscita dalle urne: un misero “personalismo” sta ritardando il parto del governo di destra!

In effetti questo intoppo ha ragioni profonde, più che nel personaggio dell’ex premier nella cospicua rete d’interessi di cui il tizio si trova a capo. Il capitale per noi è una forza impersonale, eppure accade che gli zelanti funzionari che lo vogliono e lo devono servire, finiscano spesso a dover prestare la propria faccia a ciò di cui sono schiavi, anche se le loro ricchezze nominali fanno impallidire quelle di un Creso.

Non abbiamo da scomodare complesse e scomposte dietrologie quando, al culmine di spassosi litigi, la “giovane” premier manda a dire davanti ai microfoni dei cronisti che non è “ricattabile”. Forse sarà convintissima di dire la verità, credendo al suo personaggio di paladina del “popolo sovrano”contro gli onnipotenti e sulfurei “poteri forti”. Ma di fatto il ricatto esiste e lei a questo ricatto finirà per cedere.

In cosa si sostanzia questo “ricatto” cui la “non ricattabile” non potrà non cedere? Sono precisamente le fette di potere all’interno del nuovo esecutivo da spartire fra I rappresentati della possente rete d’interessi economici borghesi, cioè i titolari temporanei del ruolo di comparse il cui unico scopo è verniciare di impertinenza ciò che invece, coperto dai mille veli della mistificazione, resta sempre alla guida del nostro mondo: Sua Maestà il Capitale.

Quest’ultima parolina ci consente, con buona pace di qualche cavaliere, di uscire dalla favola della classe nemica ed entrare nella nostra. È il capitale, che altri chiamano “poteri forti” ma che noi chiamiamo col suo vero nome, che ha gestito la campagna elettorale, che ha votato per procura dirigendo verso l’atto di sudditanza dell’urna l’amalgama indistinto di classi diverse che va sotto il nome di popolo e che per la sua eterogeneità di interessi non sa e non potrà mai esprimere una volontà comune.

Ora resta solo da capire quale corso il capitale vorrà imprimere alla formazione del nuovo governo. Ma soltanto gli amanti delle favole e delle semplificazioni possono vederlo come un tutto unitario, quando esso per sua natura è un insieme di contraddizioni, che pure lo fanno vivere e gli permettono di tenere insieme le sue mille membra scomposte.

Ecco che si fanno spazio considerazioni sulla natura delle “sfide” del futuro governo per servire meglio gli interessi dell’italica borghesia. Innanzitutto c’è preoccupazione per il rincaro delle bollette dell’energia che “penalizzeranno famiglie e imprese”, cioè le seconde saranno meno competitive mentre le prime rischiano si passare un inverno al freddo. Il lavoro sporco di adottare misure fortemente antipopolari non viene tradizionalmente assegnato alla “sinistra” da almeno 50 anni? Perché sobbarcare le “destre” e soprattutto la più eminente rappresentante della “destra sociale” di una simile sgradevole incombenza?

Poi c’è l’altro nodo da non trascurare e che richiede a un tempo duttilità e sapienza: come trattare con la Russia, oggi paria della comunità internazionale, che da molti anni è uno dei partner economici più importanti dell’Italia? Quale montagna d’affari è stata messa a rischio dalla guerra, dalle sanzioni e dall’emarginazione della Russia! Ma soprattutto quale grave vulnus alla strategia economica di un paese la cui competitività sul piano internazionale si basava in gran parte sul basso costo del gas russo! Forse l’elezione del presidente della camera, che ama proclamarsi cattolico fervente, omofobo e amico della Russia, è un modo per restare col piede in due staffe, una a Washington l’altra a Mosca.

Inutile dire che l’italica borghesia non può e non potrà mai risolvere antichi dilemmi e uscire dall’ambiguità di fondo di potenza di secondo rango, sempre pronta a vendersi “spot” al miglior offerente.

Dunque siamo propensi a vedere nel nuovo governo, che pure al termine di un estenuante travaglio dovrà pur nascere, una sostanziale continuità nella peggiore tradizione della storia patria. È cambiata soltanto una piccola porzione dei figuranti del ceto politico, altri dal secondo piano sono assurti al ruolo di protagonisti.

La “sinistra” popolare e borghese grida al fascismo e alle istituzioni democratiche profanate. Quella “sinistra” liberale esattamente 100 anni fa votò la fiducia al governo di Benito Mussolini. Venti anni dopo premiò quei prodi con le presidenze della Repubblica e del Consiglio. Ora fanno finta di scandalizzarsi, mentre si preparano alla collaborazione in nome dei “superiori interessi della Patria”.






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Lo scontro fra gli imperialismi in Ucraina
Rapporto alla riunione generale di settembre

La relazione precede quanto di successivo alla nostra riunione, che conferma la minaccia di allargarsi e approfondirsi della guerra, imposta a un proletariato che, nonostante la propaganda ufficiale, appare riluttante a sacrificarsi sui fronti di battaglia per gli interessi delle rispettive borghesie. Daremo conto di questi avvenimenti nel prossimo numero del giornale.

* * *

Nel discorso alla nazione in risposta all’offensiva ucraina nella regione di Kharkiv e di Kherson il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato la mobilitazione di 300.000 riservisti e il sostegno ai referendum per l’annessione delle provincie di Luhansk, Doneck, Kherson e Zaporižžja. Putin ha noltre accusato l’Occidente di «ricatto nucleare» e di voler distruggere la Russia, aggiungendo «useremo tutti i mezzi a nostra disposizione per difenderci»

L’annessione delle repubbliche “ribelli” alla Russia provochera un cambiamento nella politica della Federazione russa, della quale diventeranno parte del territorio nazionale, così come fu fatto per la Crimea. L’annessione dovrebbe comportare anche l’inclusione a tutti gli effetti nelle Forze armate russe dei volontari combattenti di quei territori. I riservisti mobilitati (meno dell’1,1% della riserva mobile), che si dice dovrebbero essere solo quelli con esperienza di combattimento o con una specialità militare, sarebbero inviati al fronte anche senza addestramento, ad attenuare il problema principale delle forze russe in Ucraina, la scarsezza del numero, permettendo un po’ di ricambio ai soldati attualmente al fronte.

La Duma ha approvato degli emendamenti al codice penale per inasprire le pene ai disertori e ai renitenti alla leva nel caso di “mobilitazione, legge marziale, tempo di guerra, conflitto armato”.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di ritorno dal vertice di Samarcanda ha dichiarato, forse per rimanere al centro dell’attenzione internazionale, che Putin sarebbe pronto a trattare la pace. Per contro il governo ucraino, imbaldanzito dalle recenti vittorie, continua a chiedere la restituzione di tutti i territori occupati, compresa la Crimea, mentre la Russia procede all’annessione delle regioni orientali.


L’offensiva ucraina

L’avanzata ucraina dei primi giorni di settembre ha portato alla riconquista di una porzione di territorio nell’oblast nordorientale di Kharkiv vasta circa 8.000 Kmq. Americani e inglesi hanno fornito informazioni sui posti di comando, i depositi di munizioni ed altri punti nodali dell’infrastruttura militare russa. Washington ha fornito la maggior parte delle armi (per un valore complessivo di oltre 15 miliardi di dollari dall’inizio di quest’anno). Migliaia di soldati ucraini sono stati addestrati in Gran Bretagna, Germania ed altri paesi. Pare che forze speciali britanniche abbiano coordinato le operazioni.

L’annunciata controffensiva ucraina su Kherson sarebbe stato un depistaggio, mentre le Forze ucraine sfondavano a nord, approfittando del netto vantaggio numerico su russi e ausiliari (milizie separatiste e mercenari della Wagner) stimabile in un rapporto di 8 a 1.

La controffensiva ucraina è stata possible per la debolezza delle forze russe sul campo, determinata dalla impostazione politica della “operazione militare speciale”. Il Cremlino, che ha voluto mantenere un impegno militare di basso profilo, schiera tuttora in Ucraina un numero limitato di uomini: 150.000, altri parlano di 120.000, soldati regolari, e circa 50.000 delle repubbliche di Donetsk e Luhansk e di altri corpi. Queste forze, dispiegate su un fronte di oltre 1.000 chilometri, lasciano inevitabilmente punti scarsamente difesi.

Lo Stato ucraino invece, mobilitata l’intera popolazione, ha schierato migliaia di uomini ben equipaggiati e freschi di addestramento in un punto poco presidiato del fronte, nella regione di Kharkiv.

 
La risposta della Russia

I vertici militari russi hanno ritirato le loro forze per attestarle su un fronte più difendibile. Gli ucraini, seppure avanzati in profondità praticamente senza combattere, hanno subito numerose perdite per il massiccio fuoco difensivo dell’artiglieria russa.

Ma lo Stato maggiore russo per cercare di bloccare l’avanzata ucraina, nell’impossibilità di impiegare truppe appena arruolate, nemmeno ha fatto ricorso massiccio all’aeronautica, con operazioni aeree sporadiche; la ragione sarebbe la minaccia della contraerea ucraina che dispone di armi molto efficaci fornite dalla Nato.

Sia per le perdite subite sia per l’allungarsi delle linee di rifornimento, le forze di Kiev hanno probabilmente esaurito la spinta propulsiva lungo quella direttrice. Questo può spiegare lo stallo attuale.

Ma la scelta del Cremlino di condurre una guerra a bassa intensità, riconquistando lentamente il territorio del Donbass, consente agli alleati occidentali di Kiev di rimpiazzare le perdite inviando nuove armi e addestrando altri soldati.

La rinnovata determinazione di Kiev e l’esigenza russa di ristabilire il proprio prestigio militare spingono entrambi gli Stati ad un inasprimento del conflitto e ad un prolungarsi della collegata guerra economica nella speranza di costringere l’avversario a cedere per primo.

Come prima risposta le Forze armate della Russia hanno bombardato le centrali termoelettriche di Kharkiv e Kremenčuk, aggiungendo ulteriore affanno energetico all’Ucraina, che assiste impotente allo spegnimento dell’ultimo reattore della centrale nucleare di Zaporižžja. La strategia di Mosca è togliere l’energia elettrica all’Ucraina alle porte della stagione fredda, mentre i territori occupati saranno alimentati dalla rete della Federazione Russa. Ma per rispondere adeguatamente sul piano militare la Russia dovrà sostenere uno sforzo bellico più pronunciato che potrebbe cambiare il corso della guerra.

Se la propaganda d’Occidente spande euforia, a Mosca si afferma che la situazione sul terreno dipende dal sostegno fornito a Kiev dalla Nato, ragione in più per continuare la guerra. Questa sarebbe già una guerra tra la Russia e la Nato, e come tale rappresenterebbe una minaccia alla sua esistenza. La decisione americana di sbandierare apertamente il loro ruolo nella controffensiva ucraina sembra una provocazione nei confronti del Cremlino, per spingerlo ad un maggior coinvolgimento.


Sul fronte di Kherson

La sera del 14 settembre, le Forze armate della Federazione Russa hanno bombardato una diga sul fiume Inhulec’ nei pressi della città di Kryvyj Rih; l’accresciuto livello dell’acqua nel tratto meridionale del fiume ne ha ostacolato l’attraversamento dei soldati ucraini impegnati nella controffensiva di Kherson, costretti a bloccare l’avanzata, e in parte sono rimasti ad est del corso d’acqua avendo l’onda di piena portato via i pontoni di barche.

Mosca starebbe facendo affluire sul lungo confine ucraino nuove truppe. Ma questo non significa che intenda invader tutto il Paese, le forze in campo non sono sufficienti per un’azione su larga scala, in un territorio vasto e con una popolazione ad occidente del Dnepr forse ostile. Più probabile che si preveda un’azione circoscritta con l’obbiettivo di allontanare da Donetsk l’artiglieria ucraina, prendere il controllo di una parte dell’area a est del Dnepr – il cosiddetto Donbass occidentale – e di alcuni nodi strategici, la città portuale di Mariupol, Kherson, e a nord Kharkiv, aree con alte percentuali di russofoni. La borghesia russa amplierebbe così il cuscinetto di sicurezza in Ucraina e si garantirebbe una regione molto importante per le ricchezze minerarie e industriali.

 
La realtà economica della guerra

La guerra, dopo sette mesi, non ha perso le sue ambiguità e i suoi paradossi.

La russa Gazprom ha reso noto che nella giornata del 17 settembre 42 milioni di metri cubi di metano sono passati nel gasdotto sul territorio ucraino. La società russa afferma di ottemperare a tutti gli obblighi nei confronti degli acquirenti europei e di pagare allo Stato ucraino i convenuti noli di transito. Infatti, dopo sette mesi di guerra, nessuno ha mai colpito né chiuso quei gasdotti che riforniscono i Paesi europei, nonostante l’Unione Europea abbia rinnovato le sanzioni a Mosca e armi e finanzi Kiev. Gli Stati della UE dall’inizio del conflitto, il 24 febbraio, hanno pagato ai russi ben 85 dei 158 miliardi di euro che Mosca ha incassati dall’export energetico. Quindi i capitalisti europei, che nei prossimi mesi rischiano il tracollo economico, con una mano armano gli ucraini e sanzionano i russi, con l’altra finanziano abbondantemente la campagna russa in Ucraina.

 
Il ruolo della Turchia

Un paese centrale in questa crisi è la Turchia, il cui governo dedica grandi energie all’attività diplomatica tesa alla ricercar di un accordo.

Nel recente vertice di Samarcanda della Shanghai Cooperation Organization la Turchia ha espresso la volontà di aderire all’Organizzazione. Unico Stato membro della NATO al summit, se sarà accolta sarebbe la prima a far parte di entrambe le organizzazioni. Ankara, che non applica sanzioni alla Russia e vende (non regala) armi all’Ucraina, entrerebbe in un’organizzazione per la sicurezza con Cina, Russia e Iran, dopo aver acquistato batterie da difesa aerea a lungo raggio S-400 dalla Russia. Il tutto senza che nessuno ne abbia chiesto l’uscita dalla NATO. Il rispetto delle “regole”nella internazionale diplomazia di guerra si dimostra abbastanza elastico.

La Turchia intende sfruttare il non aver imposto sanzioni alla Russia e il ruolo di mediazione nel contesto bellico anche per strappare prezzi più bassi sul gas. Erdoğan ha rivolto parole dure contro l’Occidente nel corso del suo viaggio nei Balcani, accusandolo di aver provocato la Russia e di essere responsabile della crisi energetica in corso. Ma il 20 settembre lo stesso Erdoğan ha dichiarato che la Russia deve restituire all’Ucraina tutti i territori occupati, compresa la Crimea.

Capitali russi si sono indirizzati verso la Turchia, a rimpinguare le sue riserve estere e per riacquistare Lire turche sui mercati finanziari. Il regime sanzionatorio imposto dall’Occidente ha anche portato a un incremento delle esportazioni turche verso la Federazione, aumentate del 60% a seguito dell’invasione dell’Ucraina.

Tra gli investimenti russi in Turchia vi sono anche i 20 miliardi di euro versati da Mosca per la costruzione della prima centrale nucleare nel Paese, progetto affidato alla compagnia statale russa Rosatom. L’impianto dovrebbe garantire alla Turchia maggiore indipendenza energetica, con l’obiettivo di trasformare il Paese da importatore a distributore energetico regionale.

La Turchia, di fronte alle reticenze del Congresso statunitense a fornirle i caccia F16, l’ha accusato di stare dalla parte della Grecia e ha minacciato di rivolgersi alla Russia per l’acquisto degli aerei.


La posizione della Germania

Quando il primo ministro ucraino ha incontrato il cancelliere tedesco Scholz, ai primi di settembre, ha chiesto che la Germania consegni all’Ucraina, oltre i semoventi d’artiglieria PzH-2000, anche moderni mezzi corazzati. «Ci aspettiamo che gli Stati Uniti ci forniscano carri armati Abrams e dalla Germania ci aspettiamo i Leopard 2». Però il cancelliere ha respinto la richiesta. Il 30 agosto il ministro della Difesa Christine Lambrecht ha dichiarato che «le forze armate tedesche hanno bisogno di mantenere il possesso di tutti i mezzi e armamenti disponibili per garantire la difesa nazionale e dell’alleanza».

Questo non significa che Berlino non intenda più fornire armi a Kiev, ma che le esigenze ucraine potranno venire soddisfatte con contratti assegnati all’industria nazionale, con tempi di consegna misurabili in alcuni anni.

Questi rifiuti lasciano spazio all’ipotesi che Berlino non voglia esacerbare i rapporti con Mosca. Potrebbero essere gli acquisti di gas russo a influenzare le decisioni della Germania. In questi mesi di emergenza sui prezzi la Germania sta pagando il gas russo molto meno rispetto al resto d’Europa. In giugno le forniture tedesche di Gazprom avevano un prezzo di un terzo di quello applicato al resto dell’Unione.

Nei giorni scorsi un articolo de “Il Giornale” rilevava che «dopo l’invasione dell’Ucraina la Germania non si è ritirata unilateralmente dagli accordi-quadro di fornitura di gas da Mosca né ha visto la Russia fare altrettanto. Certo, la Russia sta usando l’energia come arma, a luglio ha ridotto di due terzi le forniture gasiere via Nord Stream e spesso usa le chiusure della conduttura baltica come arma, ma la Germania non e vittima di un’offensiva di prezzo». L’articolo aggiunge che la Russia venderebbe a prezzi ridotti a Berlino per “mantenersi il cliente”.

Nei giorni scorsi il ministro dell’Energia russo ha definito impossibile vendere gas o petrolio ai paesi che stabiliscono tetti sui prezzi: «Sicuramente non venderemo rimettendoci o sotto costo». Si comprende perché Berlino sia poco propensa all’imposizione di un tetto al prezzo del gas come richiede il governo italiano.

La questione delle armi pesanti che gli europei possono ancora fornire a Kiev investe del resto non solo la Germania ma ormai tutti i membri della NATO che hanno esaurito i mezzi in servizio o nei magazzini cedibili senza disarmare i propri reparti. Un problema che riguarda anche le nazioni dell’Est Europa che ancora allineavano o mantenevano in riserva carri armati, veicoli da combattimento e artiglierie di tipo russo/sovietico e che sono già stati in gran parte trasferiti in Ucraina.

 
Collaborazione in Asia

Un altro Stato che mantiene ottimi rapporti con la Russia è l’Iran. Alcuni mesi fa i due Stati hanno stipulato un accordo ventennale di cooperazione nel campo della sicurezza e della difesa che ha portato all’acquisto di armi russe da parte di Teheran per un importo di oltre 10 miliardi di dollari: nella lista erano inclusi 24 caccia Sukhoi Su-35 e due batterie di sistemi di difesa aerea a lungo raggio S-400. Si fa fronte comune anche in altri settori. Provata la fornitura di droni iraniani alle forze armate russe in Ucraina.

La sua guerra in occidente sta indebolendo l’impegno e l’attenzione della Russia verso l’Asia Centrale, con parte delle truppe già schierate in Tagikistan dislocate in Ucraina. Un contesto che sembra favorire nuovi focolai di tensione nell’ex URSS: dagli scontri di confine tra tagiki e kirghisi a quelli tra armeni e azeri fino alle pressioni dei nazionalisti georgiani per un’azione militare tesa a prendere il controllo dell’Ossezia del Nord, protetta dai russi.


La posizione di Cina e India

La Cina conferma la volontà di penetrare non solo economicamente ma politicamente e militarmente nelle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale. Si è detta disposta a garantire la sicurezza del Kazakistan da “interventi esterni” (cioè russi). Lo Stato kazako si è distinto fra gli ex sovietici nel mostrare freddezza per l’intervento russo al punto da non riconoscere le repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk.

Nonostante questi contrasti, tra Russia e Cina si è estesa la collaborazione in molteplici settori nella comune esigenza di difendersi dalla pressione degli Stati Uniti e dei loro alleati. L’obiettivo strategico di russi e cinesi resta arginare il sistema unipolare statunitense (che ha inglobato anche gli Stati dell’Europa, dimostrati incapaci di assumere il ruolo di soggetti politici indipendenti) e contrastarne la penetrazione militare potenziando la cooperazione finanziaria e commerciale e insidiando l’egemonia del dollaro nel mercato globale.

Pare che la Cina non abbia fornito armi alla Russia ma sicuramente la collaborazione militare tra i due Paesi si è incrementata. La Russia continua a esportare tecnologia in Cina, dove le forze armate hanno sviluppato sistemi d’arma, piattaforme, motori e altre componenti partendo da prodotti russi. Dopo il summit di Samarcanda i vertici del Consiglio di sicurezza russo e del Politburo del Comitato centrale del Partito comunista cinese si sono incontrati per rafforzare la cooperazione militare e di sicurezza potenziando le esercitazioni congiunte e l’attenzione agli scenari più critici.


La Cina vuole tempo

Pechino sostiene Mosca, ma questo non significa che le due potenze non abbiano anche interessi divergenti che investono pure la guerra in Ucraina e soprattutto le sue conseguenze macro-economiche.

È evidente che se la guerra si protrarrà saranno le economie dei Paesi europei ad essere le più colpite a causa della crisi energetica, che sommerà i suoi effetti negativi a quelli della crisi economica in atto. Gli altri Paesi industrializzati, che pagano tutti l’energia molto meno dell’Europa, potrebbero acquisire nuove quote sui mercati globali. Ma Cina e India hanno rilevanti interscambi commerciali e investimenti in Europa, rischiando danni non irrilevanti, anche tenendo conto che il tracollo economico dei Paesi europei potrebbe determinare una recessione mondiale che minerebbe anche la crescita dei due giganti asiatici. Per questo spingono per una fine del conflitto.

Pechino quindi non ha accolto positivamente il discorso del capo del Cremlino e l’annuncio della mobilitazione parziale. Secondo un editoriale del Global Times, giornale del PCC, l’annessione delle repubbliche indipendentiste darebbe a Mosca la base legale per minacciare l’uso di armi nucleari a protezione del territorio russo. L’articolo accantona le solite critiche a Usa e Nato sulla responsabilità della crisi e sollecita «un freno d’emergenza alla situazione in Ucraina in una fase in cui la portata della guerra è ancora gestibile; occorrono un cessate il fuoco e negoziati piuttosto che una resa dei conti sempre crescente tra Russia e Nato». Perché, conclude l’editoriale, tra potenze nucleari non ci potranno essere vincitori e vinti: «Chiunque tenti di sopraffare completamente l’altra parte non può che essere un pazzo».

La Cina, che non si reputa ancora pronta ad uno scontro diretto con gli Stati Uniti, teme che il protrarsi e l’approfondirsi della guerra possa portare al suo allargamento coinvolgendo in un ciclo infernale tutte le potenze mondiali. Per questo getta sulla bilancia il suo peso per richiamare Mosca a ponderatezza.

La Cina deve guadagnare tempo per recuperare la distanza che la separa dagli Stati uniti nella potenza militare.

La Russia, al contrario dei suoi partner asiatici, potrebbe invece avere interesse a proseguire la guerra perché è consapevole che le economie di Europa non possono sopravvivere senza il suo gas e attende che la conseguente crisi logori la capacità o la volontà di continuare a sostenere con le armi l’Ucraina e la stabilità interna della NATO da questa parte dell’Atlantico. La Russia sembra quindi avere tutto l’interesse a prendere tempo sui fronti ucraini: Putin a Samarcanda ha dichiarato che «l’operazione militare speciale continuerà (…) non ha fretta di raggiungere i suoi obiettivi, che rimangono inalterati».

 
Conclusioni

Il governo russo non può tornare indietro, nonostante le proteste interne, ancora limitate a piccoli gruppi pacifisti.

Nemmeno il governo ucraino, nonostante le disperate condizioni dell’economia, nonostante la popolazione sia stremata dalle privazioni, nonostante l’inverno che si avvicina può permettersi di accettare trattative, che gli Stati Uniti e i governi loro alleati per adesso rifiutano.

È chiaro che la situazione è fluida e in evoluzione. Nuovi fatti potrebbero irrompere nei rapporti interimperialistici e modificare il quadro. In particolare la posizione degli imperialismi europei. «Non possiamo accettare che il nostro partner americano venda il suo GNL a un prezzo quattro volte quello al quale lo vende agli industriali americani», ha detto il ministro dell’economia francese Le Maire all’Assemblea Nazionale, aggiungendo che «il conflitto in Ucraina non deve sfociare in una dominazione economica americana e in un indebolimento della UE».

La posizione dei capitalisti europei potrebbe anche diventare un serio problema per gli americani, fino a sconvolgere l’andamento della guerra in Ucraina e di conseguenza mettere in gioco le posizioni di tutti i briganti imperialisti.

Intanto, aldilà di come saranno gli schieramenti degli imperialismi nel prossimo massacro mondiale, il nostro Partito ha fin da subito definito correttamente dal punto di vista di classe che questa guerra, come tutte le altre, è prima di tutto una guerra contro il proletariato.

Su tutto pesa l’incognita della reazione del proletariato internazionale al peggioramento delle sue condizioni di vita e di lavoro in conseguenza della crisi economica ed energetica.






Attivismo e spontaneismo nei fronti unici del pacifismo pluri‑classista

Non mancano i gruppi politici che denunciano la progressione del capitalismo mondiale verso una imminente guerra mondiale. Ma il problema, come sempre, oltre a comprendere cosa davvero sta succedendo, è stabilire come reagire.

Si formano larghi movimenti pacifisti a sostegno di dati partiti politici. A causa della loro struttura “aperta a tutti” questi fronti non sono in grado di esprimere posizioni univoche: il loro scopo è reclutare per i loro partiti di riferimento.

«La tesi marxista dice: non è possibile, anzitutto, che la coscienza del cammino storico appaia anticipata in una singola testa umana, per due motivi: il primo è che la coscienza non precede ma segue l’essere, ossia le condizioni materiali che circondano il soggetto della coscienza stessa; il secondo è che tutte le forme della coscienza sociale vengono – con una data fase ritardata perché vi sia il tempo della generale determinazione – da circostanze analoghe e parallele di rapporti economici in cui si trovano masse di singoli che formano quindi una classe sociale. Questi sono condotti ad “agire insieme” storicamente molto prima che possano “pensare insieme”. La teoria di questo rapporto tra le condizioni di classe, e l’azione di classe col suo futuro punto di arrivo, non è chiesta a persone, nel senso che non è chiesta a un singolo autore o capo, e nemmeno è chiesta a “tutta la classe” come bruta momentanea somma di individui in un dato paese o momento, e tanto meno poi la si dedurrebbe da una borghesissima “consultazione” all’interno della classe» (“La falsa risorsa dell’attivismo”, Riunione generale, 7 settembre 1952).

L’attivista attende che dal movimento pacifista sorga spontanea la coscienza di classe e vede in questi piccoli gruppi isolati i primi passi della rivoluzione, nello spirito fallimentare dell’anarchica propaganda dell’atto. L’azione rivoluzionaria contro la guerra richiede invece una intesa internazionale unica, altrimenti ogni sforzo si disperde nelle richieste particolari e di presunte specificità di gruppi locali.

«Il partito deve essere in grado di controllare ogni aspetto della sua vita, ogni funzione della sua organizzazione; per modo che nulla gli piombi inatteso incompreso misterioso. Andare in giro a spacciare per posizioni della Sinistra quelle che sostengono che il terrorismo è “un raggio di luce” per il proletariato, che il folclore politico dei gruppuscoli a base studentesca intellettuale sottoproletaria è “campo rivoluzionario”, che i “comitati operai” sono ubbie, per cui lavorarci dentro è “attivismo”, “economicismo”, e poco dopo sostenere il contrario, non per effetto di mutate situazioni ma perché spinti da “impazienza”, delusi che nulla ne sia derivato all’immediato, contrabbandare questo moto pendolare per “tattica” della Sinistra, significa disorientare i militanti, seminare la sfiducia nel partito, sgretolarne l’organizzazione, compromettere decenni e decenni di duro e coerente lavoro» (“Il partito non nasce dai ‘circoli’”, 1980).

Il piccolo circolo attivista è l’equivalente pratico del vasto fronte unito: cerca di reclutare gente di ogni tipo non in un partito coeso e definito ma in un’azione per l’azione. Pretende compensare con il numero la sua incoerenza politica.

«Dal IV Congresso, fine del 1922, in poi la previsione pessimista e la vigorosa lotta della Sinistra seguitano a denunziare le tattiche pericolose (fronte unico tra partiti comunisti e socialisti, parola del “governo operaio”) e gli errori organizzativi (per i quali si volevano ingrandire i partiti non solo coll’accorrere ad essi di proletari che abbandonassero gli altri partiti a programma azione e struttura socialdemocratica, ma con fusioni che accettassero interi partiti e porzioni di partiti dietro patteggiamenti coi loro stati maggiori, ed anche coll’ammettere come sezioni nazionali del Comintern i pretesi partiti “simpatizzanti”, il che era un palese errore in senso federalistico).

«In una terza direzione la Sinistra denunzia fin da allora, e sempre più vigorosamente negli anni successivi, il grandeggiare del pericolo opportunista: questo terzo argomento è il metodo di lavoro interno dell’Internazionale, per cui il centro rappresentato dall’Esecutivo di Mosca usa verso i partiti, e sia pure verso parti dei partiti che siano incorse in errori politici, metodi non solo di “terrore ideologico”, ma soprattutto di pressione organizzativa, il che costituisce una errata applicazione e man mano una falsificazione totale dei giusti principi della centralizzazione e della disciplina senza eccezioni» (“Tesi di Napoli”, 1965).






AGGRESSIONE ALL’EUROPA
Prometeo, 13 agosto 1949
Presentazione della nuova traduzione in francese

In questo triste periodo mentre la guerra infuria in Europa orientale e acuisce le foghe nazionaliste, siamo di nuovo a smontare l’eterna falsa opposizione fra guerra di aggressione e di difesa, che in passato ha giustificato i nefasti tradimenti dei partiti proletari e la negazione della lotta di classe, che è ormai divenuta internazionale.

Nel contesto della “guerra fredda” tra URSS e USA, negli anni ‘50, lo Stato americano, la principale organizzazione capitalistica del mondo, fu indicato dal nostro partito come il “più pericoloso” per l’esito della lotta di classe. I suoi interventi nelle due guerre in Europa costituirono in effetti la concentrazione di un’immensa forza militare e distruttiva di un centro di difesa del mondiale regime capitalista, e la costituzione delle condizioni ottimali per soffocare la rivoluzione operaia in qualsiasi paese. Si prospetta anche la possibilità di un vassallaggio della Russia, che gli eventi attuali sembrano però escludere.

Per fare la guerra, come fu detto, non contano tanto le capacità militari quanto il capitale e i mezzi di produzione.

Così durante la Seconda guerra mondiale valutammo che il suo “esito peggiore” sarebbe stato la vittoria dell’imperialismo anglo-americano; ciò che e stato ampiamente confermato in seguito.

Alla fine della guerra, la produzione industrial degli Stati Uniti rappresentava la metà della produzione industriale mondiale. Nessuno Stato, nemmeno l’URSS, vi poteva competere. Quel predominio ha garantito la stabilità della società borghese e l’accumulazione del capitale per decenni. All’ombra dell’imperialismo statunitense il capitalismo giapponese ed europeo sono rifioriti e la “prosperità” legata all’accumulo di capitale ha garantito una pace sociale e un ottundimento del proletariato che dura ancora oggi. Né la Germania né il Giappone avevano, tra loro, la potenza industriale necessaria per garantire una tale stabilità all’ordine borghese.

Il “Glorioso trentennio”, 1945-1975, fu caratterizzato, tra l’altro, dallo smantellamento degli imperi coloniali inglese e francese, con il risveglio dei popoli di colore, a loro volta conquistati dal capitalismo, che l’imperialismo americano, che si stava sviluppando a grande velocità, si permetteva il lusso di favorire, e dalla guerra fredda con l’URSS, che affermava di voler concorrere con l’America.

Oggi gli Stati Uniti sono una potenza in declino, e la Russia è diventata una potenza secondaria. Grazie, tra l’altro, agli enormi flussi di capitali americani, giapponesi ed europei che vi si sono recati per investire, la Cina è diventata la nuova superpotenza, che compete con gli Stati Uniti.

L’imperialismo cinese si sta preparando metodicamente a un confronto militare con gli Stati Uniti per ridividere il mondo a suo favore e per prendere il posto dell’America come suo padrone, proprio come gli Stati Uniti soppiantarono l’Inghilterra nella prima metà del XX secolo.

La Russia, che è passata dal rango di superpotenza a quello di potenza secondaria, può solo allinearsi con gli Stati Uniti o con la Cina.

Questo articolo ci appare come una previsione della situazione attuale, cui nel 1949 ancora mancava il nuovo grande mostro capitalista, la Cina.






Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
 

Assemblea nazionale Usb contro la guerra e per il sindacato di classe
Il primo passo per fermare la guerra imperialista è scioperare per rifiutare di pagarne i costi

Il capitalismo mondiale sta entrando in una nuova recessione. Ciò avviene senza che la maggior parte dei paesi capitalisticamente maturi – cosiddetti occidentali – abbia recuperato i livelli produttivi antecedenti la crisi del 2008.

Questi paesi sprofondano nella crisi di sovrapproduzione iniziata nel 1973-’74, a cui hanno potuto sopravvivere, per ormai mezzo secolo, grazie a un crescente attacco alle conquiste del movimento operaio, all’indebitamento statale e privato, al pieno dispiegarsi del capitalismo nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” che, col loro basso costo del lavoro e i loro ritmi di crescita di giovani capitalismi, hanno frenato la caduta del saggio del profitto.

Ma le inesorabili leggi economiche del capitalismo – che solo il marxismo ha saputo conoscere e spiegare – stanno facendo entrare anche quei capitalismi, ormai non più giovani, nella crisi di sovrapproduzione, fatto storico di cui è stato sintomo la recente esplosione della bolla speculativa immobiliare in Cina.

Il capitalismo mondiale marcia verso la sua inevitabile rovina economica, sprofondando ogni giorno di più l’umanità intera nella barbarie.

Il peggiore e peculiare prodotto della crisi economica capitalista è la guerra imperialista. I punti di attrito fra gli imperialismi mondiali e regionali, e fra gli Stati capitalisti loro vassalli, aumentano di numero e si surriscaldano: Medio Oriente, Balcani, Europa Orientale, Asia Centrale, confine indo-pakistano, Asia Meridionale, Taiwan...

Inevitabilmente la guerra scoppia e la responsabilità è del capitalismo nella sua interezza, nonostante ogni regime borghese cerchi di additarne la colpa all’avversario.

L’imperialismo russo deve reagire alla crisi economica capitalista che lo attanaglia all’interno. Quello statunitense – non meno decadente e logorato dalla crisi – opera per frenare il suo declino di potenza dominante, provocando conflitti che danneggino gli avversari: l’emergente imperialismo cinese, nonché i vecchi imperialismi d’Europa, nascosti dietro il mantello di una unità che nel capitalismo è impossibile e fasulla.

Gli imperialismi tutti operano sulla base della medesima spinta economica, come pure i minori Stati capitalisti, che sono però solo vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro.

Della indipendenza dell’Ucraina e delle condizioni di vita della sua popolazione, come di quelle della popolazione del Donbass, non frega nulla ai regimi borghesi da una parte o dall’altra del conflitto. La guerra imperialista è solo questione di interessi economici e politici della borghesia: democrazia, resistenza, indipendenza, antifascismo sono solo turlupinature agitate da una parte e dall’altra del fronte per mandare i lavoratori a macello al fronte a combattere per gli interessi dei loro sfruttatori.

Perché, infine, la realtà storica più profonda della guerra imperialista, che matura di nuovo sotto i nostri occhi, è la lotta di classe: la guerra è un prodotto della crisi del capitalismo e al contempo il solo mezzo che esso ha per sopravvivere a se stesso, a spese, col sangue e contro la classe operaia e contro il comunismo.

Il vero “aggredito” nella guerra imperialista non è uno Stato capitalista, o un fronte di Stati, ma il proletariato internazionale, i lavoratori di tutto il mondo, mandati al macello per far sopravvivere questo modo di produzione disumano e reazionario.

Ma i lavoratori, se inquadrati nel loro sindacato di classe e guidati dal loro partito rivoluzionario, hanno la forza per fermare il nuovo macello mondiale a cui la borghesia li spinge per salvare se stessa.

La guerra imperialista per la borghesia mondiale è una questione di vita o di morte: deve scoppiare ed essere quanto più devastante possibile, perché solo distruggendo fabbriche, infrastrutture, città e merci d’ogni genere, compresa la merce forza lavoro, il capitalismo può riavviare un nuovo ciclo di accumulazione. La crescita economica degli anni ‘50 e ‘60 del secolo passato fu possibile grazie ai 50 milioni di vittime del secondo conflitto mondiale, anch’esso – come quello odierno – imperialista su entrambi i fronti.

La parola d’ordine del partito comunista rivoluzionario di fronte alla guerra imperialista è – come fu in Russia nell’ottobre 1917 – il disfattismo rivoluzionario: sostenere e organizzare il rifiuto dei soldati-lavoratori a combattere, invocare e fomentare la fraternizzazione coi lavoratori del fronte opposto, invocare e lavorare per la sconfitta militare del proprio paese.

L’unico modo per fermare la guerra imperialista è che in un settore nazionale del fronte di una guerra, che sarà ancora una volta mondiale, i lavoratori diano l’esempio, iniziando a rivolgere i fucili, non contro i loro fratelli di classe in diversa divisa con cui sono costretti a scannarsi dai rispettivi governi borghesi, ma contro il proprio comando militare e il proprio governo. Perché un simile esempio contagerà tutto il fronte, tutti i soldati, tutti gli eserciti nazionali. Ciò che fu tentato nel primo conflitto mondiale, dopo l’esempio dato dai soldati russi.

Per far questo è necessario un partito internazionale, comunista, della classe lavoratrice.

Ma è anche necessario che i lavoratori siano abituati e organizzati a lottare per i propri bisogni immediati, elementari: per aumenti salariali, per la riduzione dell’orario di lavoro, per il salario ai lavoratori disoccupati.

Perché questi bisogni, e la lotta per essi, uniscono i lavoratori al di sopra di ogni falsa divisione fra aziende, categorie, etnie, sesso e infine nazioni, e sono già disfattisti degli obiettivi e degli interessi dei borghesi: più profitti, più sfruttamento, sacrificio dei lavoratori per il bene dell’azienda e del capitalismo nazionale, guerra.

Per questo il primo passo del disfattismo proletario e rivoluzionario nella guerra imperialista è l’organizzazione della lotta per i bisogni economici, elementari, dei lavoratori: il primo passo per fermare la guerra imperialista è scioperare per rifiutare di pagarne i costi.

A questo scopo è necessario un autentico sindacato di classe, ancora assente in Italia come in tutti i paesi del mondo, risultato – al pari della debolezza del partito rivoluzionario – del lungo corso storico inaugurato dalla controrivoluzione staliniana, che ha distrutto e snaturato l’organizzazione e i principi del comunismo, condannando i proletari di tutto il mondo al supplizio di un altro secolo di capitalismo in putrefazione.

In Italia i sindacati di base da anni rappresentano un tentativo di costruzione di un sindacato di classe ma le divisioni frutto dell’opportunismo delle loro dirigenze aiutano i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) a mantenere il controllo dei lavoratori, il che contribuisce a impedirne la mobilitazione.

Nell’ultimo anno finalmente sono state compiute importanti azioni unitarie: lo sciopero generale dell’11 ottobre dell’anno passato e quello contro la guerra del 20 maggio scorso.

Di fronte alla grave crescita dell’inflazione che erode i salari, i militanti e i lavoratori di tutti i sindacati di base devono battersi affinché sia organizzata una lotta unitaria – che coinvolga anche le opposizioni di classe nella Cgil – che abbia al centro la rivendicazione di forti aumenti salariali.

In molti paesi del mondo, di giovane come di vecchio capitalismo – dal Pakistan al Regno Unito, dall’America Latina agli Stati Uniti – sono già in corso forti scioperi per ottenere aumenti salariali.

Nessuna energia deve essere invece dispersa nel demenziale e ingannevole teatrino elettorale borghese! Un movimento di sciopero di centinaia di migliaia di lavoratori è in grado di conquistare aumenti salariali che migliorino concretamente la loro vita mentre nulla possono milioni di voti. Decine di migliaia di lavoratori inquadrati nell’internazionale partito comunista rivoluzionario nei principali paesi del mondo, alla testa di un movimento sindacale di classe, è quanto sarà necessario per togliere il potere politico alla classe dominante e darlo alla classe lavoratrice.

Oggi, un fronte unico sindacale di classe per organizzare la lotta per aumentare i salari nel prossimo autunno è il primo passo concreto per costruire un vero sindacato di classe e opporsi alla guerra imperialista!






Roma, sabato 8 ottobre, Manifestazione nazionale Cgil

La manifestazione nazionale della Cgil dell’8 ottobre a Roma ha visto intorno alle 20 mila presenze. La Cgil l’ha preparata con grande sforzo organizzativo e il risultato è stato sufficiente per definirla riuscita. Ma, considerata la struttura capillare del più grande sindacato di regime d’Italia, in virtù dell’appoggio che riceve dalla borghesia e dal suo Stato, e le grandi manifestazioni del recente passato, ultima quella Fiom dell’ottobre 2010 dopo il referendum di Pomigliano, appare chiaro come la debolezza del movimento sindacale colpisca il sindacalismo di regime forse più di quanto non faccia coi sindacati di base. La scelta della piccola Piazza del Popolo quale punto di arrivo del corteo lo conferma.

Il segretario della Cgil – la cui opera liquidatoria della lotta operaia ha buon diritto di figurare fra le più efficaci nella storia del bonzume sindacale di regime, come abbiamo descritto nella serie di articoli “L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil” – ha dichiarato dal palco: “Non siamo qui contro qualcuno ma perché venga ascoltato il lavoro”.

L’affermazione è perfettamente consona al corporativismo della Cgil: le diverse forze sociali e economiche – cioè le diverse classi, proletariato e borghesia – devono collaborare per il bene superiore della patria. Il padronato e lo Stato devono ascoltare il “grido di dolore” che i lavoratori rivolgono loro e prendere quei provvedimenti che possano alleviarne le condizioni.

L’area di opposizione in Cgil “Riconquistiamo tutto” ha sfilato dietro a uno striscione con scritto “Pregiudizialmente antifascisti”. Con ciò intendevano polemizzare con la dirigenza Cgil, che ha assunto un atteggiamento attendista e neutrale rispetto al governo non ancora formato, come evidenziato dalla dichiarazione di Landini dal palco di Piazza del Popolo.

Il nostro volantino attacca entrambe queste posizioni rimettendo le cose al loro giusto posto. La contrapposizione fascismo- antifascismo è fuorviante, distrae i lavoratori dagli obiettivi della loro lotta, priva la classe operaia della sua indipendenza dalla classe borghese, la imprigiona nella difesa della democrazia, cioè in una delle forme del dominio della classe borghese sulla classe salariata. Con ciò le impedisce di passare all’offensiva contro il capitalismo e il suo regime politico, eternamente assillata dal dover impedire la “forma peggiore” del regime borghese, il male assoluto, il fascismo.

Noi non neghiamo che il fascismo, o se si vuole il totalitarismo, sia una forma di governo antiproletaria. Neghiamo che esista una reale contrapposizione tra democrazia e fascismo e affermiamo che si tratta invece di due forme del dominio di classe che si alternano, con l’una che sfuma nell’altra.

Noi siamo pregiudizialmente contro ogni governo, perché esso sarà antiproletario e borghese, a prescindere dal grado di autoritarismo che esso dovrà usare per mantenere oppressa la classe operaia. Per la qual cosa, come ribadì Lenin, la democrazia è assai più efficace.

Tant’è l’antifascismo rimane il più pernicioso fra gli strumenti politici dell’opportunismo e della borghesia. Con esso sono stati giustificati fronti politici liquidatori della indipendenza del partito del proletariato, prima coi partiti opportunisti poi coi partiti borghesi, e sono stati mandati i proletari al massacro fratricida nella guerra imperialista, presentata come antifascista. Oggi è usato dalle opposte bande borghesi nella guerra imperialista in Ucraina, così come l’annesso mito della “resistenza partigiana”, cioè popolare e per la liberazione del suolo patrio dallo straniero.

Anche le dirigenze dei sindacati di base seguono le sirene di questo fuorviante principio politico, e per esso deviano sui binari della politica antigovernativa il lavoro di ricostruzione del movimento sindacale di classe, danneggiandolo con l’organizzare manifestazioni sindacali a Roma “sotto i palazzi del potere”, dicono, invece che nelle diverse città, il che faciliterebbe l’adesione dei lavoratori agli scioperi e ai cortei, e dilapidando così il buon risultato della proclamazione unitaria dello sciopero generale del prossimo 2 dicembre.


Per un movimento generale di sciopero per forti aumenti salariali!

Il nuovo governo, come tutti i precedenti, non potrà che porsi agli ordini del grande capitale nazionale e internazionale: degli industriali, della finanza, dei proprietari fondiari. Le dichiarazioni rilasciate dal futuro capo del governo sul suo senso di responsabilità sono espressione di questa dipendenza e funzione.

Il regime fascista non è un pericolo a cui il regime democratico si oppone. Fascismo e democrazia sono due metodi di governo che si compenetrano e che collaborano nella difesa del regime borghese. La democrazia, la libertà, sono parole vuote, delle maschere dietro cui si nasconde l’oppressione di classe contro il proletariato.

Oggi, con lotte operaie sporadiche, queste maschere sono ben calzate sul volto del regime capitalista e gli stessi “fascisti” fanno a gara a mostrarsi più democratici di tutti. Domani – coi lavoratori che spinti dalla necessità torneranno alla lotta di classe – manganello e piombo pioveranno da governi borghesi di destra come di sinistra, così come è stato per le leggi anti-operaie di questi anni: sul mercato del lavoro, sulle pensioni, sugli immigrati.

Infatti, già oggi, anche se sporadiche, le lotte operaie – soprattutto nella logistica ma non solo – organizzate dai sindacati di base, subiscono una dura repressione statale, poliziesca e giudiziaria, che si dispiega con l’aiuto delle istituzioni locali, guidate spesso dalla sinistra borghese, come in Emilia o a Prato. Di questi giorni gli attacchi polizieschi ai lavoratori della Bartolini di Genova e della SDA di Roma, organizzati da SI Cobas e USB.

Dalle elezioni borghesi non può sortire che un governo contro la classe operaia e sempre più lavoratori, giustamente, le disertano, avendo compreso che esse non sono uno strumento utile a difendere i loro interessi. Lo strumento che ha la classe lavoratrice per difendere i suoi interessi non sono le elezioni e il parlamento borghesi ma è la lotta, cioè gli scioperi.

Milioni di voti nulla possono, dispersi nei meandri della politica parlamentare, dove i bisogni e gli interessi dei lavoratori affogano nel fango della corruzione e della difesa dei privilegi dei ricchi. Decine di migliaia di lavoratori organizzati per scioperare, a oltranza, possono conquistare in breve tempo miglioramenti concreti nelle proprie condizioni di vita che nessun percorso parlamentare offrirà loro. Una robusta minoranza della classe lavoratrice, di centinaia di migliaia di lavoratori, mobilitata e inquadrata in un movimento di sciopero generale è l’unica forza in grado di piegare governo e industriali.

Alla crescente diserzione delle elezioni borghesi, però, ad oggi non corrisponde un ritorno alla lotta dei lavoratori, bensì un allontanamento dai sindacati, considerati inutili, al pari di quelle. Questo è il risultato di decenni di collaborazionismo sindacale di Cgil Cisl Uil e Ugl che ha prodotto solo rinnovi contrattuali a perdere, con salari sempre più bassi.

La dirigenza della Cgil e tutto l’opportunismo sindacale mettono sempre in primo piano fumose e impossibili diverse “politiche industriali” e diversi “modelli di sviluppo” – del capitalismo – invece delle rivendicazioni immediate dei lavoratori: forti aumenti salariali; riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e della vita lavorativa; salario integrale ai lavoratori disoccupati. In questo modo lasciano i lavoratori in attesa delle “risposte del governo”, invece di organizzarli per lottare, per piegare governo e industriali a chiare rivendicazioni economiche di classe.

Questo accade perché, in virtù del collaborazionismo sindacale – elevato a principio al posto e contro la lotta di classe – la dirigenza della Cgil, insieme a Cisl e Uil, non organizzerà mai una lotta generale che vada a colpire gli interessi degli industriali e del capitalismo nazionale, come potrebbe essere appunto un vasto e intransigente movimento la lotta per aumentare i salari a tutti i lavoratori, e soprattutto ai peggio pagati.

Oggi quindi sono le aree di opposizione sindacale entro la Cgil, i gruppi operai combattivi in essa e negli altri sindacati collaborazionisti, UNITAMENTE AL SINDACALISMO DI BASE che, di fronte all’inflazione galoppante, devono assumersi il compito di costruire un movimento generale di lotta per l’aumento dei salari!

I sindacati di base hanno, per il secondo anno consecutivo, superato le loro divisioni e proclamato UNO SCIOPERO GENERALE UNITARIO PER IL PROSSIMO 2 DICEMBRE. Tutte le forze del sindacalismo di classe debbono battersi per la più larga adesione a questo sciopero, subordinando ogni altra considerazione alla ricostruzione di un movimento di lotta unitario della classe lavoratrice.

La lotta per gli aumenti salariali, a partire dalle categorie peggio pagate, è anche il primo passo per costruire l’opposizione dei lavoratori alla guerra imperialista – che ora si combatte in Ucraina e che matura in tutto il mondo – perché implica il rifiuto di pagare i costi della guerra, primo passo per organizzare domani il rifiuto a combattere sul fronte. La guerra in Ucraina è una guerra imperialista su entrambi i fronti! È una guerra che ha per causa solo vili interessi borghesi, è una guerra contro il proletariato, ucraino, russo e internazionale! CContro la guerra tra gli Stati, per la guerra tra le classi!






Genova, giovedì 14 ottobre
Viva la lotta dei lavoratori dell’Ansaldo!
Per fronteggiare la crisi economica del capitalismo occorre ricostruire il movimento sindacale di classe con l’unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo conflittuale!

I lavoratori dell’Ansaldo stanno dimostrando – a dispetto di tanti prezzolati opinionisti – quanto la classe operaia sia ancora capace di lottare.

La mancanza di commesse per Ansaldo Energia si inquadra nella generale crisi economica mondiale di sovrapproduzione del capitalismo. Questa affligge i vecchi capitalismi – che chiamano “occidentali” – fin dalla metà degli anni ‘70: da lì iniziò il cosiddetto processo di de-industrializzazione, di cui Genova è perfetto esempio.

Il capitalismo mondiale ha potuto rimandare fino ad oggi il tracollo della sua economia principalmente con tre strumenti:
     - aumentando lo sfruttamento della classe lavoratrice: accrescendo la produttività e revocando i miglioramenti conquistati con le lotte operaie negli anni precedenti;
     - col debito statale e privato;
     - spostando le produzioni in paesi con salari più bassi, che nel frattempo da società precapitalistiche erano divenuti giovani capitalismi, prima fra tutti naturalmente la Cina.

Questo processo oggi è giunto al suo epilogo: i giovani capitalismi asiatici sono divenuti anch’essi maturi e hanno già un piede dentro la crisi di sovrapproduzione, come l’esplosione della bolla immobiliare cinese ha palesato.

Gli strumenti di natura economica per rimandare il tracollo economico mondiale del capitalismo sono ormai logori. La conseguenza è l’avvicinarsi del capitalismo all’unica sua via di salvezza, che è insieme politica ed economica, cioè alla guerra imperialista.

In questo quadro generale, i licenziamenti e le chiusure di fabbriche continueranno. Per la classe lavoratrice si impone una linea di lotta – sindacale e politica – in grado di difenderla e di fronteggiare questa situazione.

Sul piano politico, la classe lavoratrice deve rifiutare ogni appello volto a “salvare l’economia nazionale”, che altro non significa che salvare il capitalismo dalla sua crisi col sangue e col sudore dei lavoratori. Il capitalismo è una società decadente e morente che per sopravvivere getterà nuovamente milioni di vite nella barbarie della guerra. Bisogna liberarsene e solo la classe operaia, unita al di sopra delle false divisioni nazionali, può farlo.

Ma per avere la forza per questo obiettivo politico, occorre prima costruire la forza per difendersi. Non si può attaccare, se non ci si riesce a difendere.

Sul piano sindacale, non si può affrontare questa situazione di crisi generale del capitalismo con lotte fabbrica per fabbrica, che servono solo a spegnere la combattività dei lavoratori.

La lotta contro i licenziamenti inizia nel singolo posto di lavoro ma deve essere unita a tutte le altre, per avere il massimo impatto e forza:      - un primo passo è convocare lo sciopero di tutta la classe lavoratrice del territorio in cui si vuole chiudere la fabbrica, come oggi è stato parzialmente fatto con lo sciopero cittadino dei metalmeccanici;      - un altro passo è unire le lotte contro i licenziamenti e le chiusure: Whirlpool, Gkn, Wärtsilä… l’elenco è sempre più lungo e continuerà a crescere;      - ma l’unità dei lavoratori è completa se si uniscono in un movimento di sciopero generale le lotte contro licenziamenti e chiusure alle lotte per i bisogni comuni a tutta la classe lavoratrice: a questo scopo non bisogna lottare per fumose e impossibili diverse “politiche industriali” e diversi “modelli di sviluppo” – del capitalismo – come indicano di fare le dirigenze confederali (Cgil, Cisl, Uil) e tutto l’opportunismo sindacale.

La lotta deve essere per obiettivi chiari, concreti, immediati:
     - riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per ridurre i licenziamenti;
     - salario pieno ai lavoratori messi in disoccupazione, fino a nuovo impiego a condizioni non peggiori di quello perduto;
     - forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate.

Questi sono gli obiettivi che unificano tutti i lavoratori, permettendo di contrapporsi alla borghesia e ai suoi governi di turno, che vogliono scaricare gli effetti della crisi della loro economia sulla classe lavoratrice.

Ma chi può costruire un simile movimento generale di lotta operaia? Non lo faranno mai le dirigenze di Cgil, Cisl e Uil legate mani e piedi agli industriali e al loro Stato. Lo possono fare solo i gruppi operai combattivi entro i sindacati collaborazionisti (Cgil, Cisl, Uil) e le aree di opposizione sindacale di classe entro la Cgil unitamente al sindacalismo di base.

L’unità d’azione del sindacalismo conflittuale è la strada per dare gambe e fiato a un movimento generale dei lavoratori per i loro obiettivi di lotta difensiva, sindacale.

I sindacati di base hanno proclamato uno sciopero generale per il prossimo 2 dicembre. Lo hanno fatto unitariamente, cioè con l’adesione di tutte le organizzazioni sindacali di base. Questo è un primo importante passo verso l’unità d’azione. Per completarla e dare così forza a un movimento sindacale di classe, il secondo passo da compiere è che i gruppi operai combattivi e le aree di opposizione entro la Cgil aderiscano allo sciopero e si battano per la più ampia adesione ad esso dei lavoratori, subordinando ogni altra considerazione all’unità di lotta dei salariati e del sindacalismo di classe.

La ricostruzione del movimento sindacale di classe è ciò di cui hanno urgentemente bisogno i lavoratori dell’Ansaldo e tutta la classe operaia.






Nel Regno Unito la borghesia si prepara ad affrontare la crisi economica e lotte più estese della classe lavoratrice

Il 3 ottobre, aprendo la conferenza annuale del Partito conservatore, il cancelliere dello scacchiere (il ministro del tesoro) Kwasi Kwarteng ha annunciato che, a seguito dell’opposizione all’interno al partito, la proposta di ridurre l’aliquota massima delle tasse era stata “temporaneamente” ritirata. Il passo, azzardato, aveva fatto innervosito i mercati finanziari. Ma questo non significa che sia fuori dall’agenda e, ciò che più conta, la “ritirata” fornisce copertura per ogni altra misura contro la classe operaia.

 
Dietro-front della classe dominante

La sostituzione del Primo ministro Boris Johnson con Liz Truss e il nuovo cancelliere Kwasi Kwarteng aveva permesso alla borghesia di presentare l’operazione come un “cambio di marcia”, anche se condotta sempre del Partito Tory al governo da 12 anni.

La classe dominante britannica sa che una profonda recessione è inevitabile e vorrebbe utilizzare lo strumento fiscale per spostare quanta più ricchezza possibile dal proletariato al capitale prima che si verifichi il collasso economico.

Secondo la retorica del governo le misure avrebbero promosso la crescita economica, che avrebbe compensato i massicci tagli alle tasse, ridotto il debito nazionale e pagato gli investimenti in infrastrutture e per il servizio sanitario. Invece previsioni ufficiali già indicavano che solo ne avrebbe beneficiato l’1% più ricco della popolazione, la grande borghesia.

Nel frattempo il capitale finanziario (che è quello che davvero “governa”, non i pagliacci in carica, e tanto meno il parlamento) ha emesso il suo verdetto: la borsa è crollata e la sterlina ha perso il 3% in un solo giorno toccando il minimo sul dollaro dal 1985.

Intanto però i “ben informati” sulla manovra fiscale si sono dati alla speculazione: hanno venduto sterline contando di riacquistarle poco dopo a un prezzo inferiore. Il rendimento dei titoli di Stato decennali è salito a oltre il 4%, con un aumento di valore del 300% negli ultimi 12 mesi. Il rendimento delle obbligazioni tende a crescere in relazione inversa alle prospettive economiche del paese poiché gli investitori perdono fiducia nella capacità dello Stato di ripagare il suo debito. Aumentano così gli interessi che lo Stato deve pagare.

Il Financial Times, il giornale dell’alta borghesia ha riportato la verità, in completo contrasto con la stampa popolare che annunciava: «I Tory fanno tagli radicali alle tasse per provocare il boom della Gran Bretagna»  (Daily Express) e «Ottimismo! Il Cancelliere promette una nuova era per la Gran Bretagna con un’impennata della crescita» (Daily Mail).

La teoria alla base di tutto questo è l’economia “a cascata”, la presunzione che se dai un sacco di soldi ai ricchi borghesi, alla fine un po’ di ricchezza arriverà anche ai proletari. Nessuno nella classe dominante, nemmeno i più accaniti sostenitori di questa teoria, ci crede davvero, ma ciò fornisce una copertura ideologica che viene strombazzata dalla stampa riservata ai lavoratori.

 
Ma sempre contro la classe operaia

Altre misure della manovra fiscale prevedevano la revoca del proposto aumento dei contributi previdenziali e la riduzione dell’aliquota base dell’imposta sul reddito dal 20% al 19%. Questo avrebbe potuto portare qualche sterlina in tasca a chi ha un reddito basso, ma sarebbero comunque inghiottite dall’inflazione e dall’aumento del prezzo di tutti i beni importati. Per chi ha un reddito al di sotto della minima soglia fiscale, la riduzione dell’imposta non porterebbe alcun vantaggio.

Inoltre le regole sui sussidi erano ulteriormente inasprite, rendendo più difficile l’accesso ai lavoratori part-time, con i benefici revocati a chi lavora meno di 15 ore settimanali. I richiedenti dovranno anche dimostrare di essere in cerca di lavoro, oppure di aver accettato occupazioni mal pagate o logoranti, come nel caso nell’assistenza dove è una massiccia carenza di personale a causa dei salari miseri, delle difficili condizioni di lavoro e della mancanza di lavoratori immigrati dall’UE per effetto della Brexit. Molti di questi lavori si trovano ora nel settore grigio della “Gig economy” dove si è classificati come “lavoratori autonomi”, liberando il padrone da costi, l’indennità di malattia, ecc.

L’annuncio del trasferimento di decine di miliardi alla borghesia è stato accompagnato da una dichiarazione di guerra alla classe operaia. Il cancelliere Kwarteng ha inveito: «In un momento così critico per la nostra economia è semplicemente inaccettabile che uno sciopero venga a sconvolgere così tante vite. Altri paesi europei hanno livelli minimi di servizio per impedire ai sindacati conflittuali di chiudere le reti di trasporto durante gli scioperi. Quindi faremo lo stesso. E andremo anche oltre. Faremo una legge per garantire che gli scioperi possano essere indetti solo una volta che i negoziati siano realmente interrotti».

Il regime borghese del Regno Unito vuole compiere il passo intrapreso dal quello italiano fin dal 1991, quando, invocate dai sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil) per fermare gli scioperi e l’avanzata dei sindacati di base, fu introdotta la legge antisciopero nei servizi cosiddetti “essenziali”. In Italia il rispetto e l’applicazione di questa legge sono garantiti da un apposito organismo statale, la Commissione di Garanzia. Negli anni i settori definiti “servizio essenziale”sono stati progressivamente estesi finendo per comprenderne la gran parte. Ad esempio, in una struttura ospedaliera tale legge ha effetto non solo sul personale medico, infermieristico, tecnico e socio-sanitario ma anche sugli addetti alla manutenzione e alle pulizie, generalmente impiegati in aziende il cui servizio è dato in appalto. Ciò agisce come un fattore eminente di freno per la riuscita d’ogni sciopero.

Di fatto le affermazioni dell’ex cancelliere Kwasi Kwarteng – dimessosi il 14 ottobre – si collocano in un contesto di agitazione operaia mai vista dalla fine degli anni settanta. Tutte le qualifiche ferroviarie,dai macchinisti al personale degli uffici, hanno scioperato insieme il 1°, il 5 e l’8 ottobre, organizzati nei sindacati Rail Maritime and Transport Workers, Associated Society of Locomotive Engineers and Firemen, Transport Salaried Staffs Association e Unite. Il sindacato delle poste e telecomunicazioni Communication Workers Union ha chiamato allo sciopero il 28 settembre. 1900 portuali di Felixstowe, il principale terminal container dell’isola inglese, hanno intrapreso il secondo sciopero di 8 giorni consecutivi, dal 27 settembre al 5 ottobre, dopo il primo dal 21 al 29 agosto. Anche i portuali di Liverpool sono scesi in sciopero in diverse giornate. Persino gli avvocati penalisti sono in sciopero a tempo indeterminato. Tutte queste lotte hanno al centro la rivendicazione di forti aumenti salariali per fare fronte all’aumento del costo della vita.

L’attacco del governo alla libertà di sciopero si rivolge non solo ai lavoratori scesi in lotta ma è contro tutta la classe operaia. La borghesia, impedendo a consistenti settori della classe lavoratrice di scioperare liberamente vuole indebolire un possible movimento generale messo in moto dalle rivendicazioni salariali.

 
Cambia il governo, resta l’austerità

I tagli fiscali di Kwasi Kwarteng hanno infine spinto i capitalisti inglesi a licenziarlo, il che è avvenuto il 14 ottobre. Al suo posto è subentrato Jeremy Hunt, noto per aver privato per sei anni, nelle precedenti amministrazioni Tory, i fondi al Servizio sanitario nazionale. Il 20 ottobre anche il primo ministro Liz Truss ha dovuto rassegnare le dimissioni, a capo del governo più breve nella storia britannica.

Per noi comunisti questo è solo un sintomo della crisi sempre più profonda del capitalismo nel Regno Unito. Chiunque sostituisca Truss ha una politica segnata: la grande borghesia ha deciso per l’austerità. In pratica ciò significa che la classe operaia deve pagare per la crisi del capitalismo: aumento del costo della vita, aumento degli affitti o delle rate dei mutui, tagli alle prestazioni sociali e ulteriori tagli al servizio sanitario e ai servizi pubblici come le biblioteche e le scuole pubbliche. Hunt ha già comunicato a tutti i dipartimenti governativi che devono effettuare tagli, con la probabile eccezione del Ministero della Difesa, mentre lo Stato aumenta il suo coinvolgimento in Ucraina.

 
Ma c’è di peggio

Nel contempo il Partito Laburista e lì pronto nel caso in cui, per fermare le lotte, si dovesse rendere necessario illudere i lavoratori di aver ottenuto una vittoria facendo cadere il governo conservatore.

I comunisti considerano scontato che per essere eletto in una democrazia borghese, e a maggior ragione per andare al governo per tale via, un partito deve dimostrare alla classe dominante che ci si può fidare di lui. Per questo il Partito Laburista dichiara di non sostenere gli scioperi e di non unirsi ai picchetti. La decisione della dirigenza del partito di cantare alla sua conferenza l’inno nazionale “God Save the King” invece che la tradizionale tiepida edulcorazione di “Bandiera Rossa” ha avuto un significato più che simbolico!

Ai lavoratori le chiare indicazione del nostro partito sono:
     - estendere e unire lo sciopero a tutte le categorie della classe lavoratrice;
     - rivendicare forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate;
     - contrapporsi con lo sciopero generale a oltranza a ogni progetto di legge teso a limitare la libertà di sciopero;
     - combattere le dirigenze sindacali opportuniste, o apertamente filopadronali, che impediscono ai lavoratori di scioperare e di unire gli scioperi delle diverse aziende e categorie;
     - rifiutare ogni appello alla difesa dell’economia nazionale che altro non significa che difesa del capitalismo nazionale col sudore e col sangue della classe operaia;
     - non riporre alcuna fiducia in cambi di governo nel quadro del presente regime politico borghese;
     - il potere politico è della borghesia e la classe operaia può conquistarlo solo per via rivoluzionaria.






Disastro minerario in Turchia
Il capitalismo miete vittime

Una nuova strage di minatori ha colpito la classe operaia in Turchia. Il 14 ottobre una esplosione si è verificata in una miniera ad Amasra, cittadina sulla costa del Mar Nero, 400 chilometri a est di Istanbul, nella provincia di Bartın. Finora sono 41 i lavoratori che hanno perso la vita e 11 sono rimasti feriti. È il più grave disastro minerario dopo quello di Soma, nel quale il 13 maggio 2014 morirono 301 minatori.

Dalle testimonianze dei minatori sopravvissuti e dei parenti delle vittime e emerso che da almeno 10 giorni vi era nelle gallerie presenza di gas.

Il presidente Erdoğan si è precipitato alla miniera per sopire col suo sudicio falso pietismo la rabbia operaia. Questa ipocrisia, tipica d’ogni regime borghese, democratica o autoritaria sia la forma di governo, usata per mantenere oppressa la classe operaia, è stata avallata dal sindacato di regime, che ancora inquadra i minatori, il Maden-İş, affiliate alla confederazione Turk-İş.

Il Maden-İş avrebbe la possibilità di chiamare i lavoratori fuori dalle miniere in cui si sospetta vi sia un livello pericoloso di concentrazione del gas. Ma i dirigenti sindacali preferiscono visitare il sito con i ministri dopo le esplosioni.

Una donna ha inveito contro Erdoğan: «Mio fratello mi ha detto 10 giorni fa che c’era una fuga di gas, che li avrebbero fatti saltare in aria. Come mai c’è stata questa negligenza?» La risposta sta nella normale pressione e corruzione operata dal capitale sul personale tecnico per garantirsi maggiori profitti, personale del resto corrotto fin dalla assunzione con favori e clientelismi. Per non interrompere la produzione, riducendo i profitti, si mandano i minatori nei pozzi nonostante la presenza del gas, senza preventiva adeguata ventilazione. I tecnici nascondono i dati delle misurazioni.

La nuova strage ha aperto la diatriba sulle assunzioni nelle imprese statali, che non avverrebbero sulla base del merito. Ma lo Stato non è indipendente dal capitale, è un suo strumento. La corruzione è quindi ineliminabile dallo Stato borghese, che deve essere distrutto dalla classe operaia. Non è né la prima né sarà l’ultima volta che nella società capitalista tanti lavoratori perdono la vita per problemi che sarebbero facilmente risolvibili con la tecnica odierna. Ma questa, finché vige il capitalismo, non sarà mai applicata o lo sarà in modo parziale, garantendosi dalla classe proletaria una quota di sangue per il bene dei profitti.

Anche in Turchia ai minatori spetta il duro compito, innanzitutto, di liberarsi dal controllo del sindacalismo di regime e di organizzarsi in veri sindacati di classe per parare i colpi che piovono sulla classe operaia in continuazione all’interno di questo modo di produzione.

Al Partito Comunista Interazionale spetta il compito di indicare ai lavoratori questa strada e di battersi anche in questo paese all’interno dei sindacati conflittuali, come il Dİsk e il Kesk, contro l’opportunismo delle attuali dirigenze.






Fra i ferrovieri Usa cresce la volontà di lotta

Negli Stati Uniti la borghesia aveva cantato a gran voce vittoria: lo sciopero nazionale dei ferrovieri era stato evitato! I colloqui notturni fra i rappresentanti sindacali e quelli delle compagnie ferroviarie, con la mediazione di funzionari del governo federale, che avevano preceduto la scadenza dello sciopero, avevano portato a un accordo provvisorio all’ultimo minuto. A seconda della sua ratifica o meno da parte dei lavoratori lo sciopero avrebbe potuto ancora verificarsi, ma una tornata di trattative di emergenza lo ha rimandato.

Questi ultimi eventi sono il culmine di anni di contrattazione collettiva che si è arenata in diverse occasioni su varie questioni. Ci sono problemi per quanto riguarda i salari e l’assistenza sanitaria ma il punto più gravoso per i lavoratori è la programmazione dei turni. I lavoratori delle ferrovie sono reperibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Mentre un lavoratore tipico negli Stati Uniti ha due giorni di riposo a settimana (104 giorni annui) più due settimane di ferie all’anno, per un totale di 118 giorni, i ferrovieri hanno di solito solo 30 giorni di ferie all’anno. Sono talmente oberati di lavoro che, nonostante le ampie applicazioni della scienza e della tecnica e le norme messe in atto per prevenire incidenti, molto costosi per le aziende, i deragliamenti dei treni dovuti alla stanchezza dei macchinisti sono molto frequenti.

Il governo è intervenuto nominando un Comitato di emergenza presidenziale. Ascoltati i sindacati e le compagnie, che hanno presentato le loro proposte, il Comitato ha pubblicato le sue raccomandazioni. Le compagnie hanno ovviamente appoggiato questo organismo, ad esse favorevole. I sindacati hanno esitato a mettere ai voti le proposte delle aziende e quando lo hanno fatto, seppure sulla base delle scarse informazioni disponibili, i lavoratori le hanno respinte in modo schiacciante.

Per risolvere la crisi è stato necessario un ulteriore intervento dello Stato. Il Presidente Biden ha incontrato e parlato con le parti per garantire che il conflitto rimanesse entro i limiti dell’ordine, impedendo qualsiasi estensione o inasprimento della lotta, mentre il Segretario al Lavoro, un ex dirigente del sindacalismo di regime, ha agito come mediatore nei colloqui notturni.

A poche ore dalla scadenza del periodo “di riflessione” di trenta giorni, successivo alla pubblicazione delle proposte del comitato, allo scadere del quale sarebbe stato permesso ai sindacati di scioperare, le compagnie ferroviarie hanno accettato di concedere alcune modifiche minori, come i massimali per i contributi sanitari dei dipendenti e il diritto di richiedere in anticipo di un giorno di ferie aggiuntivo all’anno (ma non necessariamente di ottenerlo).

L’attuale governo è la quintessenza della strategia “collaborazionista” della borghesia contro il proletariato. La sua maschera progressista ha la funzione propagandistica e ideologica di far apparire lo Stato come un mediatore neutrale tra lavoro e capitale, o addirittura come il padre benevolo e protettivo della classe operaia, perpetuando l’illusione che il capitale possa essere pacificamente e legalmente indotto a migliorare le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia.

In realtà, come si evince dai termini dell’accordo provvisorio, il capitale non può fare concessioni significative nemmeno sotto la veste di un regime “di sinistra”, per cui i lavoratori vedono pochi cambiamenti sostanziali nella loro vita quotidiana.

 Sebbene il governo “favorevole ai lavoratori” sostenga i sindacati, che ricambiano il favore invitando i propri iscritti a sostenere i politicanti alle urne anziché scioperare, tale sostegno è subordinato alla “buona condotta” dei sindacati. I sindacati collaborazionisti ricevono un trattamento di favore, mentre la combattività operaia continua a essere repressa e l’indipendenza dei sindacati dai partiti borghesi viene sabotata ad ogni occasione. Inoltre, i benefici offerti dallo Stato vanno per lo più a favore della dirigenza sindacale, ai cui elementi può essere offerto, ad esempio, un lavoro lucrativo e comodo nel governo federale.

I sindacati esistenti oggi negli Stati Uniti hanno in gran parte abbracciato il ruolo di intermediario parassitario tra lavoro e capitale, estraendo quote dagli iscritti e tangenti dall’azienda; allo stesso tempo, contrattano con lo Stato sostenendo che, in quanto rappresentanti dei lavoratori, sono gli unici in grado di contenere le lotte operaie e quindi di garantire la pace sociale.

La degenerazione dei sindacati è un segno dell’attuale debolezza della classe operaia. Tuttavia, allo stesso tempo, le macchinazioni degli opportunisti dei sindacati e dei governanti sono un segno del fatto che sono ossessionati dalla potenziale rinascita del movimento operaio.

Il comitato direttivo di Railroad Workers United (RWU), un’organizzazione di base che promuove la combattività e l’unione dei lavoratori tra i sindacati ferroviari, ha adottato una esplicita risoluzione sul possibile sciopero ferroviario nazionale. L’esortazione sembra aver avuto buon esito. Lunedì 10 ottobre la Brotherhood of Maintenance of Way Employees Division, un sindacato degli operai addetti alla costruzione e manutenzione della rete ferroviaria, ha dichiarato che degli 11.845 votanti, 5.100 hanno approvato e 6.646 respinto l’accordo provvisorio scaturito dal negoziato fra sindacati e Comitato di emergenza presidenziale. Il sindacato invoca la riapertura del tavolo negoziale e per ora fissa come termine per una possibile azione di sciopero il 19 novembre.






Sciopero in Belgio dei ferrovieri

La crisi del capitalismo è globale e i lavoratori di tutti i paesi devono affrontare le stesse sfide. I lavoratori delle ferrovie sono in azione in vertenze parallele in molti Paesi, tra cui ora anche il Belgio. I politici di tutto il mondo mentre fanno del pietismo sul riscaldamento globale, in pratica tagliano gli investimenti nelle ferrovie, una delle forme di trasporto meno inquinanti. In Belgio, un paese piccolo ma relativamente ricco, le decurtazioni al bilancio significano il taglio di 700 chilometri di linee ferroviarie. I ferrovieri belgi, che subiscono anche tagli ai salari reali, ne hanno abbastanza e stanno organizzando la resistenza.

Le ferrovie belghe sono già sotto pressione. Nell’ultimo anno sono stati cancellati 22.000 treni, uno su 30, un record. Anche la puntualità è diminuita, dopo una ripresa durante il periodo di Covid. Il motivo è il disinvestimento e la palese mancanza di personale. Il governo ha promesso un pacchetto di aiuti del tutto inadeguato per la SNCB (che gestisce i treni) e Infrabel (che mantiene i binari). Ma il pacchetto prevedeva anche la chiusura delle biglietterie, l’aumento dei prezzi e la fine del biglietto per le famiglie numerose, che incoraggia a lasciare le strade per salire sui treni.

La risposta del governo belga è nota: i lavoratori devono fare di più con meno. Il pacchetto propone una riduzione di 2.000 posti di lavoro, aumentando il numero di corse dell’1% ogni anno per i prossimi dieci anni, anche se ora non riesce a completare il servizio.

Secondo SNCB e Infrabel le ferrovie avrebbero invece bisogno di altri 3,4 miliardi di euro in 10 anni per raggiungere gli obiettivi del governo. Inoltre le ferrovie sono state colpite dall’aumento dei costi dell’energia, che ad oggi ammontano a circa 100 milioni di euro.

E i ferrovieri sono sempre più chiamati a sostenerne il peso. Da 14 anni non ricevono aumenti dei salari, duramente colpiti dall’aumento del costo della vita. L’inflazione in Belgio ha raggiunto l’11,27% a settembre, dopo il 9,94% di agosto.

Il 5 ottobre un fronte comune di sindacati ferroviari ha indetto uno sciopero nazionale di 24 ore per chiedere un aumento salariale e più sicurezza. Tre quarti dei treni non ha circolato, dalle 22 di martedì fino alle 24 di mercoledì.

L’Unione Generale dei Servizi Pubblici (ACOD/CGSP), membro affiliato alla Fédération Générale du Travail de Belgique (FGTB), che inquadra 1,5 milioni di salariati, ha indetto uno sciopero per il prossimo 9 novembre.






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La borghesia del Pakistan in crisi e sommerso dalle acque continua a destreggiarsi fra gli imperialismi
Rapporto alla riunione generale di settembre

La borghesia pakistana da tempo prova a destreggiarsi tra i due grandi imperialismi, americano e cinese, cercando di difendere gli interessi del capitale nazionale.

La cacciata del primo ministro Khan è una conseguenza della necessità della classe dominante pakistana, colpita dalla crisi, di ricostruire i legami, allentati in questi anni, con gli Stati Uniti.

Storicamente i rapporti con Washington si sono stretti già subito dopo l’indipendenza. In piena guerra fredda, nel 1954, il Pakistan aderì al Southeast Asia Treaty Organization (SEATO), un’organizzazione a marchio statunitense volta a contenere un’espansione “comunista” nell’Asia centro-meridionale.

Durante le guerre indo-pakistane degli anni sessanta e settanta Washington decise di allentare i rapporti con il Pakistan, nuovamente tessuti dopo l’invasione russa dell’Afghanistan nel dicembre del 1979, quando Islamabad venne foraggiata come argine dell’avanzata russa.

La caduta del capitalismo di Stato russo allontanò nuovamente i due Stati. La nuova invasione del martoriato Afghanistan, questa volta da parte dell’imperialismo americano, rendeva nuovamente vivo l’interesse dell’imperialismo a stelle e strisce, che inviò ingenti aiuti militari e finanziari.

È storia recente come l’avanzata dell’imperialismo cinese nella regione ha nuovamente incrinato i rapporti con l’alleato americano. Invece quelli con Pechino sono fioriti negli ultimi decenni ma hanno radici profonde. Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta la comune rivalità con l’India spinse Islamabad ad avvicinarsi alla Cina. Nel 1963 il Pakistan riconobbe come cinese la regione dello Shaksgam, che prima del 1947 era controllata dal Maharaja del Kashmir, un’area ancora rivendicata dall’India.

La cooperazione militare sino-pakistana si è rafforzata nei primi anni sessanta: la Repubblica Popolare, dopo l’allontanamento dalla Russia si avvicinò al Pakistan finanziando l’esercito a partire dal 1962. Negli anni novanta l’alleanza con la Cina fu determinante per il Pakistan per sviluppare il programma nucleare militare. Con l’ascesa del dragone cinese gli investimenti in terra pakistana sono aumentati. Dal 2008 al 2019 la Cina ha prestato circa 40 miliardi di dollari al Pakistan, utilizzati principalmente nella costruzione di autostrade e infrastrutture energetiche. L’apice della cooperazione economica si è avuta nel 2015 quando è stata lanciata la Belt and Road Initiative (BRI) al cui interno vi è il China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), progetto che come abbiamo avuto modo di spiegare in precedenti articoli dovrebbe connettere i porti pakistani di Gwadar e Karachi alla provincia cinese dello Xinjiang.

Anche negli armamenti i rapporti con la Cina si sono intensificati. Oggi il Pakistan acquista prevalentemente da Pechino, importando tra il 2000 e il 2021 (dati SIPRI) tre volte la quantità di armamenti provenienti dagli USA.

Le relazioni tra i due Paesi sono quindi sempre più solide.

Tuttavia niente basta a risollevare un paese in preda a una crisi economica e sociale così profonda. Cerca appoggi per provare ad uscire dal pantano in cui affonda. In questo scenario va inquadrato il tentativo di riavvicinamento verso i dollari statunitensi e il sostegno del nuovo governo all’insediamento permanente dell’ambasciatore americano ad Islamabad.

Va altresì considerato che la Cina sta rivalutando l’utilità di parte dei suoi investimenti in Pakistan a causa di diversi nodi che Islamabad non riesce a sciogliere: gli attacchi dei gruppi separatisti baluci e jihadisti, l’instabilità della politica interna, l’enorme debito accumulato e la conseguente cautela di Pechino a mantenere aperti i rubinetti del credito verso un paese a così alto rischio. Fattori questi irrisolti che hanno raffreddato i rapporti tra i due Paesi.

La posta in gioco è altissima per il capitale internazionale, ed esercitare il controllo su questa terra di confine, rimarrà un pilastro delle maggiori potenze imperialiste.

 
L’alluvione esaspera la crisi

Per di più il 2022 è stato un anno di forte crisi economica globale, e specie nei paesi con una situazione politica e sociale già precaria. Uno di questi è il Pakistan che oggi versa in una condizione peggiore della crisi del 2008. Anche prima della recessione globale del 2019, dopo una piccola ripresa post 2008, dal 2017 l’economia ha iniziato a registrare forti cali.

Oggi il paese si trova ad affrontare un’inflazione altissima mai registrata prima e che stenta ad attenuarsi, con un debito estero di circa 130 miliardi di dollari. I prezzi del carburante sono aumentati del 90% dalla fine di maggio, quelli dei generi alimentari del 37%.

L’ex primo ministro per affrontare il crescente malcontento aveva predisposto nel marzo scorso sussidi per il carburante e l’energia, ma sono stati revocati dal nuovo governo nel tentativo di ridurre il deficit fiscale in aumento e garantire la ripresa del programma di “salvataggio” del Fondo Monetario Internazionale.

Una forte crisi energetica era emersa già prima del conflitto Russo-Ucraino. Islamabad, essendo fortemente dipendente dalle importazioni di combustibili, è stato tra i primi paesi a lamentare gravi problemi di approvvigionamento. Lo Stato in diversi periodi ha tagliato l’elettricità alle famiglie, ma anche a diverse aziende ed industrie, con nefaste conseguenze sulla produzione agricola e industriale. Molte grandi città sono state private dell’elettricità per 12 ore al giorno, peggio nelle aeree rurali, quelle raggiunte dalla rete elettrica.

A fine agosto il FMI, per evitare il default come avvenuto in Sri Lanka, ha ripristinato il programma Extended Fund Facility a beneficio del Pakistan, che riceverà 1,1 miliardi di dollari. L’approvazione è avvenuta solo dopo che il nuovo governo del primo ministro Sharif ha introdotto diverse misure di austerità, tra cui un ulteriore aumento dei prezzi del carburante. Misure impopolari che hanno rafforzato la fazione borghese legata all’ex primo ministro Khan.

La situazione si è resa drammatica quando nei mesi estivi vi sono state inondazioni senza precedenti che hanno sommerso vaste aree del paese. Alluvioni alimentate dallo scioglimento dei ghiacciai e dalle continue piogge monsoniche hanno distrutto case, trasporti e culture, tra cui piantagioni di cotone e riso. Le Nazioni Unite l’hanno definita “carneficina climatica”: noi, senza entrare nel merito della questione, da materialisti sappiamo bene che il principale colpevole è il capitalismo, che, come abbiamo descritto e spiegato in un nostro precedente articolo, impone la massiccia deforestazione e la incontrollata espansione urbana, in particolare nelle zone soggette a inondazioni.

Mentre scriviamo, le acque, dopo aver invaso un terzo del territorio pakistano, hanno cominciato a ritirarsi lasciando dietro di sé uno scenario da apocalisse. Oltre 1.500 i morti accertati e migliaia ancora dispersi, quasi due milioni le abitazioni distrutte o danneggiate, milioni di sfollati.

Le peggiori inondazioni si sono verificate lungo il fiume Indo nelle province di Punjab, Khyber Pakhtunkhwa, Balocistan e Sindh. In quest’ultima regione il 25% della popolazione è sfollata, circa il 60% non ha accesso sufficiente all’acqua potabile e oltre il 40% agli alimenti. Sono andati persi un milione di capi di bestiame e quasi un milione di ettari di frutteti e culture.

Oltre ai morti e alla distruzione di infrastrutture e abitazioni, il problema maggiore per gli sfollati, che da settimane vivono a cielo aperto, sono le malattie infettive favorite dall’acqua stagnante: malaria, dengue, dissenteria. Vi saranno anche ripercussioni sull’approvvigionamento e sul mercato alimentare.

I danni ammontano a circa 30 miliardi di dollari, oltre a ripercussioni sui raccolti e sulla produzione industriale. Un disastro del capitale, ambientale sociale ed economico, che avrà conseguenze a medio termine anche nel resto del mondo, in particolare per la ridotta offerta di prodotti agricoli pakistani causata dalla devastazione delle colture di cotone e riso, dei quali il paese è infatti uno dei principali produttori ed esportatori. Si stima che circa la metà del raccolto di cotone andrà perduto. La inondazione minaccia anche di far saltare gran parte della semina del grano autunnale, con gravi prevedibili conseguenze per le esportazioni e drammatiche per il fabbisogno interno.

In questo scenario, se i grandi proprietari terrieri ben sapranno sopravvivere al disastro, la situazione è diversa per i piccoli agricoltori, già in crisi e pieni di debiti che non potranno più ripagare. Drammatica anche la condizione di molti salariati, già sottoposti a super sfruttamento e adesso senza lavoro.

Una classe salariata che, in generale, a causa dell’alta inflazione, ma non solo, vede peggiorate le sue condizioni. I dati registrati nel primo trimestre di quest’anno, sicuramente migliori di quelli che verranno raccolti nei prossimi mesi, descrivevano questo quadro: nel settore dei servizi, dove è impegnato il 40% della forza lavoro, la crescita dei salari è diminuita dal 3,4% al 2,4%, per i meccanici dal 5,9% al 3,6%. La maggior parte della forza lavoro, impegnata nel settore “informale”, guadagna appena 15.000 rupie al mese, equivalenti a 188 dollari. Nel settore pubblico, il salario minimo per i dipendenti di primo grado si attesta sulle 12.000 rupie, 150 dollari.

Lo Stato ha stanziato un “pacchetto sollievo”, così l’hanno chiamato: 2.000 rupie, 25 dollari!






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Converge nella riunione internazionale del partito il lavoro di tutti i nostri gruppi
 
In video-conferenza, 23-25 settembre 2022
[RG144]

Perfettamente organizzata e riuscita la riunione autunnale del nostro partito. Presenti compagni da 10 paesi. Collegati in videoconferenza, abbiamo presenziato a tre sedute di sei ore, inframmezzata ciscuna da due brevi intervalli. Nella prima, al venerdì, abbiamo ascoltato i resoconti del lavoro delle sezioni, nel numero di 14 quelli pervenuti in anticipo in forma scritta, e che quindi è stato possibile mettere a disposizione ai compagni per iscritto in italiano, inglese e spagnolo, più gli altri che via via traduciamo. Sabato e domenica abbiamo ascoltato le seguenti relazioni, anche tutte queste messe a disposizione ai presenti nelle loro lingue:


SABATO
Vicende della guerra in Ucraina
La ideologia della borghesia
La questione nazionale dei Mapuche in Cile
Storia del Profintern
La crisi economica in Gran Bretagna
Guerra civile in Russia, 1919
La rivoluzione ungherese
Origini del Partito Comunista di Cina
Internazionale dei Sindacati Rossi
Rapporto della sezione venezuelana
DOMENICA
Attività sindacale in Italia
La situazione sociale in Pakistan
La guerra sul prezzo del gas
Il corso della crisi economica mondiale
Economia marxista: il rapporto capitale-lavoro
Sull’origine del plusvalore: Ricardo
La guerra civile in Italia contro Stato e fascismo
Resoconto finanziario centrale

Questi studi, benché affidati a diversi gruppi di lavoro, si presentano come lavori collettivi del partito e non come tesi di una sua parte contrapposta a un’altra. Riunioni generali le chiamiamo le nostre e non più congressi: non vi organizziamo dibattiti ma svolgiamo un lavoro di ricerca impersonale, basato sulla scienza marxista e sulle tesi storiche del movimento comunista, per la sempre migliore conoscenza del mondo borghese a noi nemico e sulla strada e sui mezzi perché la classe operaia lo possa accompagnare a morire.

Qui presentiamo intanto ai compagni assenti alla riunione per forza maggiore uno schema delle relazioni.

Appaiono già per esteso in queste pagine i rapporti sulla Guerra in Ucraina, quello sulla Crisi in Pakistan e quello sul Prezzo internazionale del gas.

 


Dal resoconto della sezione venezuelana

Le circostanze storiche hanno imposto e impongono al partito di dedicare gran parte delle sue energie al ristabilimento e alla difesa della teoria e alla propaganda del suo programma. Il lavoro dei suoi militanti si è volto alla traduzione in diverse lingue dei testi caratteristici del marxismo e del partito e allo studio e valutazione degli eventi sopravvenienti. Ma il Partito non ha mai rinunciato all’impegno su tutti i fronti della lotta di classe, disponendo a tal fine tutte le sue forze.

Non siamo un club, un circolo, un forum, aperto a chiunque venga ad esporre le sue opinioni o dubbi e che si concede e dedica a un confronto di idee. Il partito al suo esterno si presenta per quello che è, ed è disposto a dimostrare la coerenza di ciò che sostiene. Ma chi si unisce alla nostra collettiva battaglia comunista si integra ad un livello superiore, in un lavoro iniziato da molto tempo e da molte generazioni di compagni, in forme organizzate e disciplinate, spesso costituite dalle sezioni territoriali, intorno a piani prestabiliti di attività ai quali il candidato al partito è chiamato ad apportare il proprio contributo in base alle proprie capacità e forze. La formazione del militante viene a coincidere col suo inserirsi nella vita di partito, ognuno con i suoi tempi e nei settori di attività nei quali ha più inclinazione.

Le sezioni del partito sono costituite in base al criterio territoriale, la vicinanza geografica dei militanti, che ne facilita l’incontro, per pianificare e svolgere attività specifiche del partito in quei luoghi. Le sezioni sono composte dai militanti – di diversa nazionalità, età, mestiere, razza e sesso – che si trovano in uno spazio geografico favorevole ad incontrarsi e ad organizzare il lavoro rivoluzionario.

Attualmente la vecchia nostra sezione venezuelana è diventata un laboratorio per l’integrazione di compagni di lingua spagnola presenti in diversi Paesi. Cioè, temporaneamente, la sezione venezuelana non opera con un criterio strettamente territoriale, ma sulla base della comunità di lingua. Non sappiamo se o per quanto tempo dovremo mantenere questa cifra, ma abbiamo chiaro che lo sviluppo del partito richiederà la costituzione anche di una sezione in Spagna, o in ogni altro Paese in cui si presentino le condizioni per realizzarla e nel quale sia richiesto un intervento particolare locale del partito. La nascita di nuove sezioni dipenderà non solo da una crescita quantitativa, quanto dall’impegno di militanti devoti e disciplinati. Pertanto l’uso di strumenti tecnologici, utilissimi per tenere riunioni a distanza, non esclude la necessità della strutturazione territoriale del partito.

 


La ideologia di classe della borghesia

Il lavoro ha lo scopo di analizzare le ideologie della borghesia, dal suo nascere come classe nel XIII secolo fino, all’incirca, al sorgere della nostra teoria alla metà del XIX secolo. Questo servendoci del nostro materialismo dialettico che, tra le altre cose, è anche un metodo di analisi delle strutture e delle dialetticamente conseguenti sovrastrutture delle varie società umane.

 Tra le altre cose, perché per noi l’analisi non è mai fine a se stessa: la teoria, più che una parte, è una forma della prassi.

Il fine del lavoro è duplice: da un lato conoscere sempre meglio il nostro nemico, il che non è mai inutile, dall’altro mostrare le conferme del nostro materialismo, mostrare che non sono le idee a creare la realtà ma il contrario. Nelle idee troviamo riflessa la realtà, in maniera non meccanica e talvolta difficile da decifrare. Realtà che è costituita dai sistemi materiali di produzione e riproduzione delle società succedutesi nella storia, e dai conseguenti rapporti tra i membri di tali società. Prima di iniziare questa analisi è però necessario fare alcune precisazioni che non possono essere interamente rimandate alla fine del lavoro.

 
Monismo marxista e dualismi borghesi

Nel pensiero borghese c’è sempre una dicotomia tra ragione e fede, tra razionalità e religione, che si aggiunge a quelle tradizionali di corpo e anima, corpo e psiche, natura e cultura e così via, dove i due termini sono visti come opposti e irriducibili l’uno all’altro.

Tra i borghesi c’è stata e c’è ancora l’idea che la scienza moderna sia nata con l’apparizione della ragione, collocata dai più nel rinascimento. Una ragione metastorica e metafisica, un fiume carsico emerso appo greci e romani, scomparso per circa 1.500 anni, per poi riaffiorare in superficie nel XV secolo. Gli uomini del rinascimento, che pure avevano questa visione, avevano delle scusanti che non possiamo riconoscere ai nostri contemporanei. In questa concezione, che va detto è sempre più abbandonata dagli storici e dai vari studiosi, il medioevo è un’epoca di buio, di ignoranza e di superstizione, caratterizzata dalla fede e dalla religione. Con l’apparizione della ragione, alla maniera degli illuministi, sono squarciate le tenebre dell’ignoranza e della superstizione a cui la religione teneva incatenati gli uomini, che possono ora vedere la verità e farla propria. Questo è il pensiero che viene definito “laico”.

Il “laico” odierno, che pretende di parlare in nome della ragione e della scienza, ha in realtà concezioni non meno metafisiche di quelle delle religioni. Sulle orme di Marx, ma anche di Ockham e dei nominalisti medioevali, diciamo che non esiste la ragione in quanto tale, ma esistono le ragioni. La ragione è determinata storicamente: è la ragione di una determinata società, che ha un determinato sistema di produzione e determinati rapporti tra gli uomini in questo. È la sovrastruttura ideologica di una data società, come tutte le altre ideologie, come le religioni, come le filosofie. È una ragione di classe, è la ragione della classe dominante, è la maschera che nasconde il suo dominio a se stessa e soprattutto a coloro su cui il dominio viene esercitato.

 
L’ideologia della fine delle ideologie

Tra i borghesi va molto di moda, già da tempo, parlare di fine delle ideologie, e anche vantarsi di non averne alcuna. Questa fine delle ideologie, per altri anche fine della storia, è solo la trasposizione ideologica del desiderio della borghesia di assistere alla fine non delle ideologie in generale, ma di una ben precisa ideologia, quella rivoluzionaria, consistente nel comunismo e custodita dal partito comunista che, come nella religione zoroastriana, ha il compito di tenere acceso il fuoco eterno.

Una etimologia, non l’unica proposta, del termine “ideologia”, ἰδεών (ideon), genitivo plurale di ἰδέα (idea), “delle idee”, la fa derivare del verbo greco ὁράω (orao), che significa “vedere”. Ideologia significa quindi “punto di vista”. Tale significato può essere accettato da noi, purché sia chiaro cosa significhi “punto di vista”, che non è quello di uno o più uomini più capaci di altri di interpretare la storia, e quindi di guidare al meglio la propria comunità, né quello di astuti sacerdoti capaci di elaborare inganni per dominare sui propri simili.

L’ideologia, il punto di vista (tranne il nostro), non è mai cosciente: è il punto di vista sulla realtà di una data società, con dati rapporti di classe, che trasporta tale realtà nel mondo delle idee, elaborando una visione che, per quanto di classe, per quanto falsa o parziale possa essere, risponde comunque alle necessità di sopravvivenza e di funzionamento di tale società.

I borghesi che si vantano di non avere ideologie, e quindi punti di vista, si vantano di non vedere nulla e, di conseguenza, di non capire nulla. Su ciò hanno ragione, ma non ci sembra che abbiano di che vantarsi.

 
L‘ideologia per i marxisti

Nell’ideologia rientrano quindi la religione, la filosofia, la scienza.

Per noi materialisti le ideologie sono vere e false al tempo stesso. Sono vere nel momento in cui sorgono e in cui rispondono all’affermazione della società che le ha prodotte; sono false quando, mutati i rapporti di produzione e i conseguenti rapporti tra i membri della società, la società viene ora elaborando una ideologia “più vera” della precedente, cioè più adeguata a rispecchiare i nuovi rapporti di classe.

Ma sono false anche nel momento stesso in cui sono vere, essendo sempre e comunque ideologie della classe dominante che, con la forza materiale e non con la forza delle idee, si impongono a coloro che sono dominati. È solo nei momenti di rottura rivoluzionaria, quando un dominio di classe viene spezzato, che si comincia a buttare a mare l’ideologia precedente, sempre più intesa come falsa.

È solo nel partito comunista che avviene la inversione della prassi, che la coscienza precede l’azione, che l’ideologia precede la realtà.

Anche la nostra è un’ideologia di classe. Ma non è parziale, perché abbraccia la totalità di realtà e fenomeni storici e sociali non facilmente ed immediatamente percepiti e percepibili. È l’ideologia di una classe che vuole distruggere le classi e quindi sé stessa, che perseguendo il proprio interesse mira all’abolizione del capitalismo e di sé stessa, perseguendo quindi l’interesse della specie umana.

Il proletariato è il presente e il comunismo il futuro di quell’unica realtà che è la specie umana. Nel partito c’è già il comunismo: il presente contiene il futuro. Passato, presente e futuro sono termini che il nostro linguaggio, imperfetto e sempre perfettibile come ogni altro strumento umano, adopera per riferirsi a una realtà che è unica.

Eraclito di Efeso, il fondatore o uno dei fondatori della dialettica, all’inizio del V secolo a.C. diceva “Tutto scorre”, ed anche “La verità ama nascondersi”. La verità ama nascondersi appunto perché è dialettica, perché è movimento, non fine a sé stesso alla Bernstein, né apporto dall’esterno come credeva Aristotele, ma un movimento che è la materia stessa nel suo divenire. Movimento è uno dei nomi che noi diamo alla realtà.

 


La Internazionale dei Sindacati Rossi

Come la III Internazionale era sorta per combattere e sconfiggere l’opportunismo e il tradimento della Seconda, così, nel 1920, la creazione di una Internazionale sindacale rivoluzionaria venne ritenuta indispensabile per sconfiggere quella di Amsterdam, strettamente legata agli interessi della borghesia e dell’imperialismo internazionale.

La direttiva data ai comunisti fu di rimanere “ad ogni costo” nei sindacati gialli per conquistarne la direzione. La loro conseguente adesione a Mosca e abbandono di Amsterdam quale centro del movimento sindacale mondiale avrebbe costituito la premessa per la espansione della rivoluzione a livello internazionale.

La risoluzione sulla tattica approvata al congresso di fondazione del Profintern nel luglio del 1921 dichiarava che «la creazione di questo centro del movimento rivoluzionario sindacale rappresenta il punto d’inizio di una aspra lotta all’interno del movimento sindacale mondiale sotto la parola d’ordine: Mosca o Amsterdam». «La rottura con Amsterdam costituisce per i centri sindacali nazionali una condizione preliminare all’entrata nell’Internazionale Rossa». Però, nei paesi in cui l’organizzazione nazionale aderiva alla Internazionale di Amsterdam, «i sindacati singoli, le federazioni e le minoranze organizzate su scala nazionale possono appartenere al Profintern, pur restando nei vecchi sindacati». Quindi condannava parole d’ordine quali “distruzione dei sindacati” oppure “fuori dai sindacati”.

Lo scopo non era quello di portar fuori dai sindacati gli operai migliori e più coscienti formando piccole organizzazioni, ma di rimanere nei vecchi sindacati al fine di “rivoluzionarli”.

Un aspetto nei precedenti rapporti non preso in considerazione è quello delle Federazioni sindacali internazionali e dei Comitati Internazionali di Propaganda: di questi dovremo parlare perché la questione e il suo tentativo di soluzione da parte di Mosca segnerà in seguito un cambiamento di linea e prospettiva del Profintern.

La struttura della Internazionale sindacale di Amsterdam non si basava esclusivamente sulla adesione ad essa delle varie organizzazioni nazionali, ma ne facevano parte anche unioni internazionali di categoria, ossia di particolari rami del commercio e dell’industria che avevano propri segretariati e tenevano periodici congressi. Di queste organizzazioni le più importanti erano la Federazione Internazionale degli Operai Metallurgici e la Federazione Internazionale dei Lavoratori dei Trasporti.

Amsterdam aveva imposto la regola secondo cui erano ammessi alle Internazionali di categoria solo i sindacati ad essa affiliati. Quindi un sindacato nazionale aderente al Profintern non avrebbe potuto farne parte, a meno che non uscisse da Mosca per aderire alla Internazionale gialla. La linea del Profintern fu di non provocare scissioni, né di creare nuove Internazionali di categoria rosse, ossia mantenne la stessa posizione assunta nei confronti delle centrali sindacali nazionali.

Nella pratica il problema si pose quando i sindacati russi chiesero di far parte delle rispettive Internazionali di categoria. Proprio i russi avrebbero dovuto uscire da Mosca per legarsi con Amsterdam? Ma questo argomento verrà ripreso e sviluppato più ampiamente nella relazione estesa.

Il rapporto esposto alla precedente riunione generale si era incentrato sul 2° congresso del Profintern e soprattutto sul suo più distintivo risultato, quello dello scioglimento del legame organico tra le due Internazionali di Mosca: la politica e la sindacale. Legame che era stato sancito dallo Statuto del congresso di fondazione.

Del dicembre ’21 in Francia la scissione del movimento sindacale e la creazione della CGTU, che pose a condizione per la sua adesione al Profintern la rottura del legame organico con l’Internazionale Comunista. Le concessioni agli anarco-sindacalisti non furono poche e non si limitarono a lievi modifiche dello Statuto.

Quindi è stata data lettura degli articoli 4 e 11 confrontando i testi originali con quelli modificati. Inoltre altre piccole modifiche furono apportate alle “Condizioni di adesione alla ISR” e ai “Rapporti tra l’ISR e l’IC”.

In risposta a Monmousseau, che in nome della vecchia tradizione anarco-sindacalista francese aveva posto la condizione della rottura dello stretto legame tra le due Internazionali, replicava l’italiano Tresso affermando che la tradizione invocata dai sindacalisti francesi era un pericoloso avanzo di una mentalità piccolo borghese, dimostrando la necessità della stretta alleanza col partito politico. Dichiarò quindi l’opposizione dei comunisti italiani ad apportare modifiche agli statuti.

L’ultimo intervento su questo punto dell’ordine del giorno fu di Zinoviev, rappresentante del Comintern, che, dopo una lunga premessa, concluse dichiarando che i dettagli organizzativi, in fondo, non sarebbero stati così importanti poiché – disse – «il movimento operaio francese vale per noi più di una dozzina di costruzioni teoriche». Quando le “questioni pratiche” prendono il sopravvento sui principi anche le più classiche citazioni possono venire usate a sproposito.

Naturalmente quanto proposto al 2° congresso del Profintern altro non era che l’eco delle decisioni già prese dal 4° congresso dell’Internazionale comunista, alle quali si era opposto il rappresentante della Sinistra italiana che, successivamente, ricorderà: «Al 4° Congresso noi ci siamo opposti per ragioni di principio a una concessione che si faceva ai sindacalisti rivoluzionari quando si voleva cambiare gli statuti dell’ISR e rinunciare a un collegamento organico tra il Comintern e l’Internazionale Sindacale Rossa. Questa, a mio avviso era una questione, dal punto di vista marxista, di importanza decisiva. Quando si fece questa concessione io dissi: questa concessione porterà necessariamente ad altre concessioni in campo sindacale. Come oggi si fa questa importante concessione alla sinistra, alle tendenze anarco-sindacaliste, così domani si dovranno fare delle concessioni ai sindacalisti di destra, quella tendenza sindacale che sotto le due diverse forme della sinistra e della destra rappresenta l’identico, sempre ricorrente ostacolo antimarxista sul nostro cammino».

E, come vedremo, le concessioni alla “destra” non tarderanno ad arrivare.

Nel giugno 1924, all’apertura del 5° Congresso dell’IC (al quale segui il 3° del Profintern), i delegati stranieri si trovarono di fronte a una inaspettata sorpresa: in nome del fronte unico e dell’unità proletaria fu proposto lo scioglimento del Profintern e l’adesione ad Amsterdam. Le imbarazzate e contraddittorie motivazioni del progetto di questa nuova tattica vennero più volte ritirate e ripresentate sotto camuffata forma. Naturalmente si continuò a parlare di tradimento dei capi di Amsterdam, ma, al tempo stesso, si dava rilievo alla nascita di una corrente di sinistra al suo interno che aveva recentemente posto il problema dell’ammissione dei sindacati russi nelle internazionali di categoria. Fu affermato che l’unità internazionale del movimento sindacale «sarebbe stata ristabilita mediante la convocazione di un congresso mondiale a cui tutti i sindacati affiliati o all’Internazionale di Amsterdam o all’Internazionale Rossa dei Sindacati sarebbero stati rappresentati su base proporzionale».

Contro le critiche mosse al progetto della nuova tattica sindacale Zinoviev intervenne richiamandosi all’autorità di Lenin: «Il leninismo nei sindacati significa lotta contro lo scissionismo nei sindacati»; e ancora: «La vera sinistra leninista si trova sempre dove sono i lavoratori». Infine ammise: «La socialdemocrazia si è in parte consolidata, persino nella sfera sindacale. Noi dobbiamo ora combatterla ricorrendo a vie indirette, che sono più lente e ardue. Questo è il fatto nuovo che voi non volete comprendere».

Si disse che la fusione delle due Internazionali sarebbe stata possibile soltanto se sostenuta dalla spinta di un movimento dal basso delle masse lavoratrici e che i sindacati russi sarebbero rimasti parte integrante del Profintern, e nei loro negoziati separati con Amsterdam si consideravano semplicemente come agenti del Profintern e ne avrebbero portato avanti la tattica senza perseguire alcun tipo di politica da esso indipendente.

Venne proposta la nomina di una “commissione internazionale” che avrebbe «visitato l’Inghilterra e Amsterdam al fine di studiare la situazione del movimento sindacale e, eventualmente, iniziare negoziati con Amsterdam».

La questione dei rapporti con i sindacati inglesi dovremo affrontarla in seguito in maniera accurata, ora ci basti dire che Lozovskij di lì a poco avrebbe spiegato che, poiché «i sindacati dell’URSS costituiscono la base e il fondamento del Profintern, e i sindacati inglesi il fondamento e la base dell’Internazionale di Amsterdam», un accordo anglo-sovietico avrebbe preparato la strada ad una intesa fra le due Internazionali. Nel corso del 5° congresso dell’IC si pose un nuovo interrogativo: «attraverso quale porta la rivoluzione proletaria potesse entrare in Inghilterra: se attraverso il Partito comunista oppure attraverso i sindacati».

Il rappresentante della Sinistra italiana replicava che «per la nostra tattica in Inghilterra è estremamente importante che non tutta la nostra attenzione e quella del proletariato sia rivolta esclusivamente al movimento sindacale di sinistra. Non ci si deve mai dimenticare del partito, anche se oggi è un piccolo partito; si deve sempre mettere in rilievo che esso nello sviluppo della crisi sociale in Inghilterra e nel corso della lotta, dovrà essere necessariamente la guida del proletariato e lo stato maggiore della rivoluzione».

Tutta la nuova impostazione sindacale espressa nel corso del 5° congresso dell’IC fu riproposta al 3° congresso del Profintern, che si aprì l’8 luglio 1924.

Bucharin, portando il saluto del Comintern, insistette sul fatto che la conquista dei sindacati costituiva «una questione di vita o di morte», affermando che la comparsa di un’ala sinistra nella FSI rappresentava «uno dei fatti più importanti della nostra vita politica».

Dopo una breve relazione introduttiva di Lozovskij, la questione dell’unità sindacale fu divisa in tre parti: 1) sul piano nazionale; 2) nelle Internazionali di categoria; 3) l’unità internazionale al massimo livello tra ISR e FSI.

Risulta evidente la schietta posizione della Sinistra italiana sul grave problema sindacale. «Riconfermiamo la nostra contrarietà alla scissione sindacale. Non così siamo però favorevoli alle attuali manovre per la fusione delle due internazionali sindacali perché, avendo l’Internazionale comunista bisogno di un centro di concentrazione delle forze sindacali comuniste, ed avendo già risolto il problema con la creazione dell’ISR, invece che con la costituzione di una sezione sindacale dell’IC, non vediamo le ragioni rivoluzionarie che consigliano a tale revisione radicale di tattica, perché riconfermiamo che Amsterdam ha la funzione di agenzia della borghesia».

A questo punto sintetizziamo l’evoluzione della linea sindacale, sviluppatasi parallelamente all’interno della Internazionale comunista e del Profintern.
     1) Al tempo del 2° congresso dell’IC (1920) era stato proposto di dare a determinate organizzazioni sindacali di sinistra la possibilità di prendere parte ai congressi dell’IC. Naturalmente i comunisti italiani si opposero alla ammissione dei sindacati nei congressi mondiali dei partiti politici.
     2) Al 3° Congresso si passò ad una diversa soluzione del problema, si decise di fondare il Profintern, in netta antitesi ad Amsterdam. Parola d’ordine: “Mosca contro Amsterdam!”.
     3) Al 4° Congresso, per assecondare le richieste degli anarco-sindacalisti francesi, fu sciolto il “rapporto organico” tra Comintern e Profintern.
     4) Al 5° Congresso fu proposta l’unificazione delle due Internazionali sindacali, dove i comunisti avrebbero agito come frazione.

La semplicistica obiezione che ci veniva posta era: «se in materia di tattica siete per il fronte unico allora dovete essere per l’unità in materia di organizzazione». A questa obiezione rispondevamo che lavoriamo per l’unità sindacale a livello nazionale, per penetrare nei sindacati, radicarci in essi e conquistare le grandi masse alla nostra influenza, sapendo che queste organizzazioni sono destinate a svolgere un importante ruolo sia nella lotta per la conquista del potere sia successivamente. Ma quando si tratta del movimento internazionale la questione si presenta diversamente perché, mentre i sindacati nazionali e le confederazioni, anche quando sono dirette da opportunisti, restano pur sempre organizzazioni proletarie, le internazionali sono tutt’altra cosa, svolgono solo una funzione politica. L’Internazionale sindacale di Amsterdam non era una organizzazione proletaria di massa, ma uno strumento della borghesia, in stretto contatto con l’Ufficio Internazionale del Lavoro e con la Società delle Nazioni, organi che non possono essere conquistati dal proletariato e dal suo partito rivoluzionario.

Il rappresentante della Sinistra italiana denunciava il fatto che «l’Internazionale ha mutato successivamente la concezione dei rapporti tra organismi politici ed economici nel quadro mondiale, ed in questo è un esempio importante del metodo che, anziché derivare dai principi le azioni contingenti, improvvisa teorie nuove e diverse per giustificare azioni suggerite da apparenti comodità e facilità di esecuzione e di successo immediato».

 


La questione militare
La guerra civile in Russia - Nel Kuban

Incerta era la situazione dopo la fine della prima campagna militare nello sterminato Kuban. I tre comandanti controrivoluzionari, Alekseev, Kaledin e Kornilov, riuniti in un triunvirato adottarono una strategia difensiva in attesa di importanti aiuti militari dalle forze austro-tedesche. Ma le loro truppe, demotivate dalle continue ritirate, iniziarono a disperdersi.

I bolscevichi, pur con significative perdite, ripresero Rostov e Novočerkassk costringendo l’Armata dei Volontari (AV) di Kornilov a ripiegare su Ekaterinodar, da poco autoproclamata repubblica cosacca. Anche questa fu conquistata dalle truppe rosse determinando la disfatta della AV. Kaledin si suicidò e Kornilov, morì nel bombardamento del suo quartier generale e Denikin lo sostituì al comando della AV.

Con l’Operazione Faustschlag i tedeschi in soli 11 giorni conquistarono il sud dell’Ucraina fino alle coste del Mar Nero, il porto di Odessa, tutta la Crimea e giunsero fino a Rostov sul Don, mettendo in serio pericolo le sorti della rivoluzione.

Nei territori lungo il Don si era consolidato il potere dell’Atamano cosacco Krasnov, da sempre grande oppositore della rivoluzione. Con il sostegno economico e militare tedesco aveva esteso la sua Repubblica del Don, grande oltre la metà dell’Italia ma con meno di 4 milioni di abitanti, di cui poco più della metà cosacchi, il resto mal sopportati contadini immigrati da altre regioni. Con anche i 10 milioni di rubli dell’organizzazione segreta antibolscevica “Centro Nazionale”, riuscì ad organizzare un esercito di 40 mila unità, cui si aggiunse quanto rimaneva della AV di Denikin. Divergevano le intenzioni politiche dei due comandanti: l’Atamano era per una repubblica cosacca indipendente, Denikin per una Russia unificata, federativa e antitedesca; ciò ebbe conseguenze sul piano militare. Sul piano strategico Denikin godeva di un’ottima situazione, protetto ad ovest dalle nuove frontiere tedesche, da cui potevano giungere aiuti, e ad est dalla AV, ora rinforzata e ben armata (alla riunione è stata presentata una mappa dei luoghi).

L’Armata Rossa, costituita solo da pochi mesi sotto l’efficiente lavoro organizzativo di Trotski, nel Kuban disponeva di un numero di effettivi compreso tra gli 80.000 e 100.000, prevalentemente nuove reclute senza esperienza di combattimento, disperse in svariati gruppi, unità minori e guarnigioni territoriali, al punto che nemmeno i comandanti conoscevano esattamente la composizione delle loro forze. Le difficoltà di comunicazione in quei territori rendeva impossibile ogni rapida variazione dei piani delle battaglie in corso.

Una formazione di circa 30-40.000 unità era comandata da Sorokin posta poco a sud di Rostov, occupata dai tedeschi, e doveva controllare loro e i gruppi cosacchi. Kalnin disponeva di 30.000 effettivi posti lungo l’importante asse ferroviario tra Torgovaja e Tichoreckaja. Una terza formazione era l’Armata di Taman con circa 25.000 uomini allo stretto di Kerč sul Mar d’Azov per contrastare i tedeschi stanziati in Crimea. Una quarta formazione di circa 12.000 unità era affidata a Dumenko in posizione isolata sulla ferrovia presso l’insieme di villaggi cosacchi di Velikoknyazheskaya, oggi Proletarsk, sul fiume Manyč.

Erano truppe mal coordinate per la quasi assenza di capi sperimentati, e mal armate; Trotski le definì “un’orda pletorica piuttosto che un esercito”, che tenevano poco conto degli ordini del comando centrale.

Il 28 giugno 1918 la AV di Denikin inizia la seconda campagna del Kuban con l’attacco da tre direttrici sullo snodo ferroviario di Torgovaja per puntare poi alla riconquista di Ekaterinodar. Facile vittoria con l’Armata Rossa che ritirandosi viene sconfitta pesantemente dalla cavalleria bianca. Invece di puntare su Ekaterinodar, Denikin dirige a nord verso Proletarsk dove sconfigge la cavalleria di Dumenko, che deve ritirarsi verso nord sull’importante Caricyn (Stalingrado). Il comando bolscevico teme un attacco su Caricyn per cui Stalin, commissario generale agli approvvigionamenti, devia 6 reggimenti alla difesa della città.

Il 6 luglio Denikin invece, usando la ferrovia, dirige a sud verso Ekaterinodar. Il comandante rosso Kalnin per contrastarlo richiama su Tichoreckaja tutte le forze della zona, in particolare quelle di Sorokin da Batajsk, il quale, invece di accorrere, si impegna in inutili attacchi alla cavalleria della AV che Denikin ha lasciato a protezione delle retrovie. Perde così tempo prezioso e molti uomini.

Denikin, intuite le intenzioni rosse, destina una divisione di cavalleria ad interporsi tra le forze di Kalnin e Sorokin per impedirne il congiungimento.

Il 14 luglio le forze di Denikin, più rapide nelle manovre, si dispongono su un fronte lungo 75 chilometri per l’attacco allo snodo ferroviario di Tichoreckaja. Si ripete la collaudata manovra su tre colonne: un attacco centrale mentre due ali di cavalleria aggirano le difese statiche predisposte da Kalnin, che non reggono. Le truppe rosse si ritirano disordinate abbandonando enormi quantità di materiale bellico. I prigionieri rossi possono scegliere tra la fucilazione immediata o l’arruolamento nella AV. Sorokin giunge a cose fatte.

Particolarmente serie sono le conseguenze per la perdita dell’importante snodo ferroviario che rafforza le comunicazioni della AV mentre i vari distaccamenti delle truppe sovietiche restano definitivamente separati tra loro.

Il comando sovietico è affidato a Sorokin che punta alla difesa di Ekaterinodar, mentre nel comando bianco riaffiorano i disaccordi tra i vari comandanti. Denikin per la conquista della città intende riunire tutti i suoi gruppi per un attacco e assedio più un gruppo destinato al contrasto di Sorokin e al presidio di Armavir. Un piano audace per eliminare ogni resistenza bolscevica nel Kuban con le sue forze dislocate su un fronte di ben 245 chilometri.

Il 16 luglio inizia l’offensiva bianca nonostante la forte resistenza di Sorokin presso Kuščevka che abbandona la città e dirige a sud verso Timašëvsk. Denikin, fatti saltare i ponti a nord per impedire l’arrivo di truppe tedesche, arriva a 40 chilometri da Ekaterinodar.

Le colonne laterali avanzano secondo il piano che sembra funzionare bene e inizia il concentramento di tutte le forze della AV su Ekaterinodar.

La contromossa di Sorokin prevede l’aggiramento del nemico portandosi alle spalle del centro avversario. La migliore colonna dell’Armata del Taman formata da veterani è mandata contro il fianco destro nemico mentre Sorokin, tralasciando Ekaterinodar, punta al centro della AV presso Korenovsk, separandolo dal quartier generale di Denikin a Tichoreckaja. La battaglia definitiva per il Kuban dura diversi giorni, con furiosi combattimenti e notevoli perdite per la AV.

Il 29 luglio i comandanti bianchi, lasciato un minimo di forze a Ekaterinodar, sfondano lo schieramento di Sorokin attaccandolo alle spalle su Korenovsk. Anche qui furiosi attacchi anche alla baionetta. Infine Sorokin, nonostante la superiorità numerica, deve cedere alla migliore esperienza ed efficienza della AV e si ritira per riorganizzare le forze al fine di riprendere la città.

Ma dopo una settimana di infruttuosi tentativi, Sorokin ordina la sospensione di ogni attacco e la ritirata oltre il fiume Kuban. Ogni combattimento delle varie formazioni cessa il 14 agosto.

Il 15 Denikin entra a Ekaterinodar concludendo questa campagna del Kuban ormai saldamente in mano alle forze controrivoluzionarie.

I cosacchi del Don rivendicano la completa autonomia della loro repubblica con un esercito nazionale autonomo. Denikin per mantenersi il loro appoggio autorizza all’interno delle sue forze armate la formazione di unità autoctone comandate da ufficiali cosacchi. L’amministrazione militare dei territori occupati reintroduce le leggi in vigore prima della Rivoluzione d’Ottobre creando ulteriore confusione e malessere.

L’Armata Rossa del Caucaso, la più critica delle forze bolsceviche, da Trotski menzionata come “terribile esempio dei malefici effetti della mancanza di disciplina”, doveva assolutamente riorganizzare le sue rimanenti forze, ancora consistenti anche se distribuite in più gruppi separati.


La rivoluzione ungherese del 1919
Prime conclusioni

A questa riunione abbiamo tracciato le prime conclusioni del rapporto iniziato nel 2016 a Genova.

Bela Kun, in una serie di scritti, descrive le ragioni del fallimento della rivoluzione. Ne abbiamo letto ampi passaggi.

«In Ungheria, la situazione era resa complessa dalla particolarità della struttura del movimento operaio tale che ogni membro di un sindacato fosse nello stesso tempo membro del PSDU e pagava con la sua quota sindacale quella al PSDU, che lo volesse o no, che si dichiarasse socialdemocratico o no. Così ogni membro iscritto al PCU pagava anche la quota al PSDU. I primi passi dei comunisti furono rivolti proprio a che i comunisti iscritti ai sindacati non fossero obbligati a lasciarli nel momento in cui diventavano membri del PCU».

Ricorda ancora Kun: «In Ungheria non si riuscì ad organizzare un PC chiuso. E il periodo che va dalla fine di novembre al 20 febbraio – quando l’imprigionamento dei dirigenti portò alla dispersione delle organizzazioni del partito – si rivelò in generale troppo breve per permettere la messa a punto dell’organizzazione.

«Il PCU poteva contare sulle masse. La sua agitazione rivoluzionaria è piena di slancio, la sua tattica esemplarmente marxista, le sue parole d’ordine ben scelte, le sue azioni rivoluzionarie coraggiose e inflessibili sollevarono il morale del proletariato e generarono la più profonda simpatia nei confronti dei comunisti.

«Dal punto di vista organizzativo queste masse appartenevano all’unità organica dei sindacati e del PSDU (...) È fortemente vero quello che dice il nostro amico Radek, che nel corso della dittatura avremmo avuto un gran bisogno di un “grosso randello”, la cui funzione sarebbe stata di danzare sulla schiena di Garbai, Weltner e Kunfi (...) Indubbiamente i germi della sconfitta si trovavano nella fusione stessa (...)».

«Il partito operaio rivoluzionario era innanzi tutto un’organizzazione di propaganda rivoluzionaria. Il processo di formazione della sua struttura di organizzazione e d’azione fu arrestato dalla nuova “fusione” che avvenne in seno al movimento operaio».

Malgrado la sua efficacia, il lavoro compiuto dal PCU nel periodo che va da novembre a marzo non riuscì ad approfondire sufficientemente la coscienza rivoluzionaria delle grandi masse del proletariato.

L’opposizione alla tendenza rivoluzionaria era grande in seno al movimento operaio, anche senza tener conto degli ostacoli che il partito socialdemocratico, partecipe all’amministrazione del potere dello Stato borghese, oppose coi mezzi di questa forza statale alla propaganda e all’organizzazione rivoluzionaria.

Questa opposizione operò essenzialmente in tre direzioni:
     1. Il social-nazionalismo instaurato dal PSDU, malgrado la disponibilità alla lotta di classe delle masse operaie, trovò un terreno favorevole in mezzo al proletariato; il “patriottismo rivoluzionario”. Il “sostegno degli interessi dello Stato democratico” non ripugnavano a molti, soprattutto perché – dopo novembre – gli elementi piccoloborghesi erano entrati in massa nelle organizzazioni operaie.
     2. La concezione social-riformista propagandata dai sindacati, che voleva fare della politica sociale la questione centrale del movimento operaio, relegava in secondo piano l’abolizione del lavoro salariato nell’interesse della “rimessa in moto della produzione”.
     3. L’apparato burocratico del movimento sindacale e del partito era a favore della collaborazione di classe di tutto il movimento operaio.

«Lo scontro tra il metodo della lotta di classe rivoluzionaria e la politica opportunista non ebbe esito nella prima fase della rivoluzione, prima cioè della dittatura. La burocrazia del partito [socialista] e dei sindacati ne evitò la soluzione, unendosi a malincuore ai comunisti. Questa fusione non aveva un fondamento ideologico. I motivi che spinsero costoro alla fusione furono gli stessi che impedirono la propaganda rivoluzionaria dei comunisti. Per i socialsciovinisti l’internazionalismo non era che un problema di orientamento in politica estera; i socialpatrioti cercavano un sostegno nella tendenza comunista del movimento operaio, vista la situazione politica internazionale. Essi avrebbero voluto rilanciare lo slogan dell’“integrità territoriale” sotto il paravento dell’internazionalismo rosso.

«La burocrazia sindacale, che alcuni giorni prima della dittatura voleva imporre agli operai delle fabbriche metodi che avrebbero fatto aumentare lo sfruttamento capitalistico, fu costretta a battere in ritirata davanti alle masse che, sotto forma di espropriazioni “spontanee”, stavano sempre più vigorosamente realizzando l’espropriazione dei mezzi di produzione e l’abolizione del lavoro salariato.

«Infine, poiché tutto l’apparato del partito e dei sindacati difendeva apertamente il sistema di sfruttamento capitalistico e si vedeva obbligato a gettare la maschera, gli operai cominciarono ad abbandonare in massa queste organizzazioni (...)

«La tattica socialdemocratica ha causato il terrore bianco. Il terrore bianco, il cui preludio fu la controrivoluzione democratica organizzata dai dirigenti ufficiali del PSDU, è una triste ma eccellente giustificazione della tattica comunista. La vittoria della burocrazia, dell’esercito e degli ufficiali, la ridicola debolezza del PSDU, il passaggio diretto delle masse piccolo-borghesi da esso al partito cristiano-sociale, tutto ciò ha dissipato ogni illusione sulla collaborazione di classe. Il terrore bianco e il potere dittatoriale della borghesia, non tenendo conto delle forme democratiche, dimostreranno fra poco che la borghesia è incline ad abbandonare la forma aperta e rigida della sua dittatura ed è disposta a collaborare al governo con il partito operaio solo nel caso in cui quest’ultimo sia pronto ad assumersi l’eredità del terrore bianco: la difesa ad ogni costo della proprietà privata, della borghesia e dell’esistenza parassitaria della burocrazia dello Stato borghese. Dopo il terrore bianco, la democrazia non può essere instaurata che in una forma alla Noske».

Sempre riguardo i traditori socialdemocratici, la “sentenza” finale di Kun: «Ogni unione organica con questi indecisi è molto nociva. Se prima e durante la dittatura un qualche dialogo con queste persone poteva essere motivato, dopo la caduta di essa, la rottura totale con questi elementi è una necessità storica.

«Nel corso della dittatura del proletariato, il movimento operaio ungherese ha dimostrato che l’amnistia, di cui i capi socialsciovinisti hanno beneficiato da parte dell’ala rivoluzionaria del movimento operaio proprio grazie ai buoni uffici degli esitanti, si è rivelata la fonte dell’indebolimento della rivoluzione (...) L’unità di classe degli operai è una condizione necessaria per la solidità del potere del proletariato, una condizione capace di assicurare il passaggio dal capitalismo al socialismo, primo stadio del comunismo. La base dell’unità di classe è la fermezza e l’unità d’azione rivoluzionaria; la condizione preliminare della fermezza e dell’unità d’azione è il regolamento dei conti del movimento operaio con i suoi nemici interni, cioè i traditori che predicano la collaborazione di classe e ogni sorta di opportunismo; il proletariato deve eliminarli dal movimento operaio (...)

«E fu così fino al giorno trionfante e nello stesso tempo fatale del 21 marzo, dove il proletariato d’Ungheria, guidato dal Partito dei Comunisti d’Ungheria, prese il potere dello Stato nelle proprie mani e, parallelamente, il Partito dei Comunisti d’Ungheria, commise, sotto la mia guida, l’errore fatale di fondersi con il partito socialdemocratico d’Ungheria».

Nell’ultima parte del rapporto il compagno accennava alla corruzione, fastidio di cui si deve occupare la rivoluzione proletaria. In Ungheria i comunisti, consapevoli di dover avere mano ferma e inflessibile contro tale inevitabile corollario borghese, così se ne occuparono (leggiamo Kun): «Nel corso della dittatura siamo stati noi, i comunisti, a portare per primi una lotta aperta a qualsiasi tipo di corruzione (...) Durante tutto il periodo della dittatura questi infedeli della rivoluzione si sono appoggiati reciprocamente. Hanno scaldato nel proprio seno i controrivoluzionari di ogni specie, al fine di beneficiare di attenzioni dopo la caduta della dittatura. Oggi, anch’essi sono emigrati, o in prigione e il terrore bianco dà loro la caccia nello stesso modo che ai rivoluzionari comunisti.

«Noi comunisti non abbiamo alcun interesse a nascondere l’esistenza della corruzione durante la dittatura. Abbiamo previsto che ce ne sarebbe stata. Non solamente dopo le esperienze di Russia, dove i comitati eccezionali hanno messo fine con una severità implacabile alla corruzione. Ci vengono anche in mente le parole di Marx: “Certamente la tempesta trasporta anche l’immondizia, che non ha l’odore delle rose in nessuna epoca rivoluzionaria, ogni sorta di sporcizia si attacca a noi. Prendere o lasciare” (...) I comunisti possono presentarsi con la coscienza tranquilla davanti al tribunale della III Internazionale e giustamente perché non negano che ci sono stati dei corrotti nei propri ranghi (...) Tuttavia dobbiamo trarre le conseguenze per l’avvenire, essere consapevoli che è necessario d’interdire seriamente il Partito ai due gruppi più importanti della corruzione: la socialdemocrazia e il sottoproletariato».


La teoria marxista delle crisi
Le teorie sul plusvalore: David Ricardo

In questa riunione abbiamo affrontato il primo dei due rapporti aventi ad oggetto David Ricardo.

L’analisi economica ricardiana viene vista dai borghesi come quella di un capitalismo rampante in un rigido schema liberistico.

Il problema fondamentale che attraversa tutta l’opera di Ricardo è la determinazione delle leggi regolanti la distribuzione del valore. Come Smith accetta la tesi che domanda e offerta totali si eguagliano, cosicché la maggiore o minore domanda di una determinata merce può elevare o diminuire il suo prezzo di mercato, ma alla variazione in una direzione in un determinato settore produttivo corrisponde necessariamente una variazione in senso opposto in un altro settore.

Ricardo parte dalla determinazione del valore delle merci mediante la quantità di lavoro, ma il carattere di questo lavoro non viene ulteriormente esaminato. La loro sostanza è il lavoro. Perciò esse sono valore. La loro grandezza è diversa a seconda che contengano più o meno di questa sostanza.

Il metodo di Ricardo è partire dalla determinazione della grandezza di valore della merce mediante il tempo di lavoro e indagare poi se i restanti rapporti, le categorie economiche, contraddicono questa determinazione del valore o in quale misura essi la modifichino.

Il grande significato storico di Ricardo è esprimere il contrasto economico delle classi e nell’economia cogliere la radice della loro lotta storica e il processo del suo sviluppo.

Da nessuna parte però Ricardo tratta il plusvalore separandolo e distinguendolo dalle sue forme particolari di profitto e rendita. Perciò le sue considerazioni sulla composizione organica del capitale sono limitate alle differenze tramandate dai fisiocratici, quali risultano dal processo di circolazione (capitale fisso e circolante), mentre non tocca le differenze della composizione organica entro il processo di produzione.

Da qui la sua confusione fra valore e prezzo di costo, l’errata teoria della rendita, le errate leggi sulle cause dell’aumento e della caduta del saggio di profitto, ecc. In realtà profitto e plusvalore sono identici solo in quanto il capitale anticipato si identifica col capitale direttamente speso in salario. Quando parliamo della sua teoria del plusvalore, parliamo della sua teoria del profitto, in quanto egli confonde questo col plusvalore, dunque considera il profitto solo in riferimento al capitale variabile. È tanto insito nella natura della cosa che il plusvalore possa essere trattato solo in riferimento al capitale variabile che Ricardo tratta l’intero capitale come capitale variabile e astrae dal capitale costante, benché se ne faccia occasionalmente menzione nella forma di anticipazioni.

A prescindere dalla confusione fra lavoro e capacità lavorativa, Ricardo determina esattamente il valore del lavoro, che non è determinato né dal denaro né dai mezzi di sussistenza che l’operaio riceve, ma dal tempo di lavoro che costa produrli. Poiché il valore del lavoro è determinato dal valore dei mezzi di sussistenza necessari in cui questo valore va speso; e il valore delle merci di prima necessità, come quello di tutte le altre merci, è determinato dalla quantità di lavoro impiegata in esse, ne segue che il valore del lavoro è uguale al valore dei mezzi di sussistenza, uguale alla quantità di lavoro impiegato in questi.

Ma, per quanto questa formula sia esatta, tuttavia non è sufficiente. Il singolo operaio, in cambio del suo salario non produce direttamente i prodotti di cui vive, ma merci del valore dei suoi mezzi di sussistenza, quindi, se consideriamo il suo consumo giornaliero medio il tempo di lavoro che è contenuto nei quotidiani mezzi di sussistenza, costituisce una parte della sua giornata lavorativa. La merce prodotta durante questa parte della giornata lavorativa ha lo stesso valore, ossia è un tempo di lavoro di uguale grandezza di quello contenuto nei suoi quotidiani mezzi di sussistenza. Dipende dal valore di questi (e quindi dalla produttività sociale del lavoro, non dalla produttività del singolo ramo in cui egli lavora) la grandezza della parte della sua giornata lavorativa dedicata alla sua riproduzione del valore.

Nel capitalismo il valore del lavoro è minore del valore del prodotto che esso crea; l’eccedenza del valore del prodotto sul valore dei salari è uguale al plusvalore. Ricardo dice profitto, ma identifica qui profitto con plusvalore. Per lui è un fatto che il valore del prodotto è maggiore del valore dei salari.

Come questo risulti, resta oscuro. La grandezza della giornata lavorativa complessiva viene perciò erroneamente presupposta come fissa, e da ciò seguono conseguenze erronee.

L’accrescimento o diminuzione del plusvalore possono perciò essere spiegati solo con la crescente o decrescente produttività del lavoro sociale che produce i mezzi di sussistenza. È compreso, cioè, solo il plusvalore relativo.

Se l’operaio avesse bisogno di tutta la sua giornata per produrre i suoi propri mezzi di sussistenza non sarebbe possibile alcun plusvalore, quindi nessuna produzione capitalistica e nessun lavoro salariato. Perché questa esista, la produttività del lavoro sociale deve essere sufficientemente sviluppata affinché esista una qualche eccedenza della giornata lavorativa complessiva sul tempo di lavoro necessario alla riproduzione dei salari.

Ma, se con un tempo di lavoro dato la produttività del lavoro può essere molto diversa, anche con una data produttività il tempo di lavoro può essere molto diverso. Se deve essere presupposto un certo sviluppo della produttività del lavoro perché possa esistere un pluslavoro, la semplice possibilità non crea ancora la sua realtà. L’operaio deve esservi costretto a lavorare oltre quella grandezza, e questa costrizione la esercita il capitale. Questo manca in Ricardo, e di qui nasce la lotta per la determinazione della giornata lavorativa normale.

La teoria ricardiana del profitto poggia sull’affermazione che «i profitti dipendono dai salari, i salari nel lungo periodo dal prezzo del grano e dei beni di prima necessità, il prezzo del grano e dei beni di prima necessità dalla fertilità dell’ultima terra coltivata».

In questo modo il saggio di profitto viene ad essere determinato in ultima istanza dalla proporzione in cui il prodotto del terreno peggiore si divide fra capitalisti e lavoratori e il ruolo decisivo dei profitti agricoli è giustificato in Ricardo per il fatto che, nell’ipotesi semplificata nella quale tutto il capitale anticipato consiste in sussistenze, il settore agricolo è nella condizione di essere autosufficiente, mentre gli altri settori devono impiegare come capitale le sue merci.

La coltivazione di terreni peggiori fa aumentare il prezzo del grano perché per produrlo è necessaria una maggiore quantità di lavoro; l’aumentato prezzo del grano fa aumentare i salari monetari perché i lavoratori per sopravvivere devono comunque acquistare la stessa quantità di merci; poiché il prezzo delle merci industriali non aumenta, in quanto non è aumentata la quantità di lavoro in esse contenuta, l’aumento dei salari del settore manifatturiero fa diminuire i profitti del settore stesso.

La teoria dello sviluppo di Ricardo è il tentativo di spiegare come le «proporzioni in cui l’intero prodotto viene diviso fra proprietari fondiari, capitalisti e lavoratori» si modificano per effetto dell’accumulazione, fattore determinante dello sviluppo stesso ma che mette in moto forze in grado di rallentarne il ritmo fino ad annullarlo.

Nel capitolo successivo tratteremo proprio della caduta del tasso di profitto e conseguentemente delle periodiche crisi di sovrapproduzione.

FINE DEL RESOCONTO AL PROSSIMO NUMERO