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La propaganda
A differenza di quanto avviene dal lato ucraino, dove il regime borghese per condurre i proletari al macello della guerra fa ampia propaganda di odio contro i russi e tutto ciò che è russo (lingua, cultura, storia...), in Russia la propaganda va all’altro estremo, fino a negare le trascorse questioni nazionali e l’oppressione grande-russa e a rimproverare al partito di Lenin al potere di aver concesso il distacco dell’Ucraina dall’ex Impero zarista, “prigione delle nazionalità”. Di fatto ormai i due popoli hanno troppo in comune. Tante famiglie proletarie sono miste, i loro membri lavorano su lati opposti del confine, e oggi del fronte. In generale quindi il lavoratore russo non ha sentimenti di inimicizia nei confronti del lavoratore ucraino, e viceversa.
La propaganda dei borghesi in Russia si concentra quindi sui “neonazisti” che avrebbero preso il potere in Ucraina, con il sostegno dei paesi della NATO, soprattutto gli Stati Uniti, e Putin sarebbe l’unico al mondo in grado di respingere queste “forze oscure”. Nei media le forze armate sono “liberatrici”, in un parallelo tra la Grande Guerra Patriottica dell’URSS contro la Germania nazista. Tale propaganda fa presa su alcuni settori della società, in particolare tra le aristocrazie del lavoro, i pubblici dipendenti e i lavoratori delle corporazioni statali, come Gazprom. Ma tanto peggiore è il tenore di vita dei russi tanto minore è il sostegno alla guerra: tra i lavoratori delle imprese private, tra i giovani operai e i disoccupati. È alta però la percentuale di oppositori aperti alla guerra tra i lavoratori più qualificati, dagli informatici agli insegnanti.
La classe operaia russa non ha ancora espresso una sua posizione in relazione alla guerra, a causa della sua disorganizzazione e dispersione, tuttavia è piuttosto elevato il numero di lavoratori che si oppongono, consapevolmente o istintivamente, al massacro in Ucraina.
La coscrizione
Tale opposizione, seppure latente, condiziona però i progetti di mobilitazione del regime. Secondo le statistiche ufficiali, l’arruolamento volontario, con successiva partenza per il fronte, è accettato dai giovani delle periferie del Paese (Buriazia, Daghestan) dove l’economia è poco sviluppata e dove la partenza per il fronte è la sola via d’uscita dalla povertà e dalla disoccupazione. Benché volontari, un buon numero dei soldati spediti in Ucraina sono molto giovani che durante la ferma obbligatoria hanno subìto pressioni per farsi mandare in guerra. Ma, a seguito delle pesanti perdite al fronte, taciute dalla propaganda, e del numero insufficiente di volontari, si parla di una possibile coscrizione obbligatoria. Molti proletari si rendono conto che così diventerebbero presto carne da cannone per gli interessi dei capitalisti: un conto è assistere alla marcia vittoriosa dei “liberatori” in TV, altra cosa strisciare nel fango senza capire perché.
L’opposizione alla guerra
La stampa occidentale mostra le proteste dei pacifisti, rappresentanti dell’opposizione liberale al regime di Putin. Oltre a questi esistono in Russia formazioni “di sinistra” che nella situazione attuale si sono schierate ancora una volta con una delle fazioni della borghesia. Gli stalinisti per la maggior parte sono dalla parte del regime e sostengono la guerra; i trotskisti, in una forma o nell’altra, sono sulle posizioni dei pacifisti borghesi, contro la guerra e per la democrazia. In assenza di un movimento operaio indipendente dall’ideologia e dalla politica borghese, da diverse città della Russia arrivano notizie su azioni spontanee di lavoratori contro la guerra.
Queste assumono forme diverse, dall’autista dell’autobus che non vuol “decorare” il mezzo con il simbolo della campagna militare, la ormai nota “Z”, all’insegnante che non racconta agli studenti le bugie della propaganda, al rifiuto collettivo di riservisti operai di una industria di firmare il contratto di ferma breve. Ci sono stati casi di distruzione di cartelloni di propaganda fino ad incendi di commissariati militari, almeno 18.
I sindacati
Tale opposizione proletaria alla guerra manca di qualunque minimo carattere di organizzazione, data la prostrazione delle centrali sindacali agli interessi del capitalismo nazionale. In Russia al momento sono presenti due grandi federazioni sindacali, che insieme associano i principali sindacati del Paese. La prima è la cosiddetta Federazione dei Sindacati Indipendenti di Russia (FNPR). Questa è una struttura completamente controllata dallo Stato e sostiene sempre il regime. I suoi dirigenti sono iscritti al partito di governo, Russia Unita.
Nelle cellule sindacali delle imprese la situazione è la stessa. La loro politica è quella dei proprietari dell’impresa, della borghesia. La seconda è la Confederazione del Lavoro di Russia (KTR). Anche se affermano di essere i veri portavoce degli interessi dei lavoratori, i loro dirigenti riformisti si sono più volte alleati con i politici borghesi. Questa confederazione si è sempre posizionata “a sinistra”, i principali capi sono legati al riformismo socialdemocratico e nelle organizzazioni di base c’è una significativa presenza di “sinistri”, principalmente trotskisti. Tuttavia la linea politica della dirigenza è completamente borghese. Riguardo alla guerra i dirigenti di KTR hanno preferito non entrare in conflitto diretto con la borghesia. All’avvio della “operazione militare speciale”, il 25 febbraio, dopo una breve riflessione sui disagi che ricadranno sulle spalle dei lavoratori russi e ucraini, formulavano una conclusione estremamente vaga: «La Confederazione del lavoro della Russia esprime fiducia nella necessità di una rapida cessazione delle ostilità, della ripresa del dialogo pacifico e della convivenza tra i popoli multinazionali di Russia e Ucraina». Si può però individuare un’esigua minoranza sindacale su posizioni di classe, come il sindacato di recente creazione dei corrieri, e organizzazioni di base piuttosto combattive all’interno del KTR, una cellula sindacale di lavoratori delle caldaie nella città siberiana di Krasnojarsk. Queste organizzazioni fin dai primi giorni della guerra si sono rifiutate di sostenere uno dei blocchi imperialisti.
Difesa operaia
Subito il secondo giorno dopo la dichiarazione di guerra con l’Ucraina i prezzi di quasi tutti i prodotti sono aumentati e gli scaffali con i beni di prima necessità si sono temporaneamente svuotati. Forti aumenti dei prezzi, con calo effettivo del reddito per il lavoratore russo, non sono una novità e sono vissuti come disastri naturali: i proletari vivono in tali condizioni da più di trent’anni. C’è stato anche un aumento della disoccupazione, causato dalla partenza delle società straniere dal mercato russo. Inoltre le imprese russe sono minacciate di chiusura per la mancanza di componenti importati, ricambi ed elettronica. Ma questo non ha causato grandi scioperi. L’atomizzazione degli operai, l’assenza quasi totale di sindacati combattivi, l’agitazione della sinistra borghese volta a trascinare gli operai nella lotta per la democrazia (borghese!) contro i singoli rappresentanti del grande capitale, il veleno della propaganda neoimperiale, queste sono le ragioni del mantenimento della pace sociale oggi in Russia. Tuttavia sacche di resistenza proletaria ci sono, scioperi spontanei, per lo più difensivi, contro il ritardo nel pagamento dei salari o il deterioramento delle condizioni di lavoro.
A Novosibirsk hanno scioperato
decine di conducenti di camion della spazzatura; anche i lavoratori della fabbrica di
compressori a Ekaterinburg hanno scioperato per non aver ricevuto il salario
per
mesi; i rider hanno scioperato per le condizioni di lavoro da schiavi.
Prevedibile, è arrivata la reazione dei
capitalisti: non appena sono iniziate le ostilità in Ucraina la borghesia ha dichiarato
che i lavoratori che lottano contro il peggioramento delle condizioni di vita e di
lavoro sono traditori della patria, mentre la
propaganda invita a stringere la cinghia.
Questa “fermezza” è richiesta ovviamente
unilaterale, poiché non è previsto che il capitalista si separi dai suoi profitti per il bene della patria.
Solo un proletariato organizzato, indipendente dall’influenza di tutte le fazioni
della borghesia, sarà in grado di fermare sia
lo spargimento di sangue in Ucraina sia il
futuro più vasto massacro imperialista
mondiale!
- In Ucraina
Fin dall’inizio della guerra in Ucraina ne abbiamo definito il carattere antiproletario. Prima di essere una guerra tra opposti fronti borghesi è una guerra contro il proletariato, contro i proletari ucraini e russi che vengono mandati al macello; quelli che subiscono i massacri e le distruzioni nelle città da una parte, il peggioramento delle condizioni di vita dall’altra, per la mancanza di beni di prima necessità, l’aumento dei prezzi, i licenziamenti. Ma le conseguenze della guerra ricadono anche sui proletari degli altri paesi, che subiscono una pesante riduzione del valore dei loro salari. Il prezzo più alto lo pagano i proletari russi e ucraini in divisa. Sebbene non si abbiano dati precisi sulle perdite subite dai due eserciti, che le opposte propagande esagerano o minimizzano, i morti e i feriti sono sull’ordine delle decine di migliaia.
Le perdite maggiori le sta subendo l’esercito ucraino. Ad inizio giugno, nel pieno dei combattimenti nel Donbass, Zelensky, nel suo quotidiano spot di guerra, che va in onda ripetutamente a reti unificate, è stato costretto ad ammettere che si contano fino a un centinaio di morti ucraini al giorno e 600 feriti. Successivamente uno dei suoi consiglieri ha riferito di 150 morti e 800 feriti; a metà giugno un altro consigliere ha contato i soldati uccisi fino a 200 ogni giorno, più 1.000 feriti. Questo il tributo, ufficiale, di sangue che i soldati ucraini pagano sul campo di battaglia per la difesa degli interessi della patria borghese.
Sul lato russo i quasi 40.000 morti dichiarati dallo stato maggiore ucraino a metà luglio sono evidentemente esagerati. Ma il sanguinario imperialismo russo non è da meno rispetto al nemico ucraino nel mandare al macello i propri proletari, compresi i russi del Donbass, che quotidianamente cadono sui campi di battaglia. Le immagini dal teatro di guerra rivelano le distruzioni che produce: città sventrate, corpi straziati, esecuzioni sommarie di prigionieri, torture sui soldati nemici e sui “collaborazionisti”. La borghesia utilizza queste scene brutali per alimentare l’odio nazionale ed etnico, indicandone responsabile sempre il nemico. I proletari devono rifiutare questa infame propaganda perché ogni atrocità in guerra ha un responsabile ben preciso: la classe internazionale dei capitalisti!
La responsabilità della borghesia nel massacro in corso è manifesta. Ogni guerra è un orrore.
Lo sarà anche quella, ultima, che noi comunisti combatteremo per la difesa degli Stati a dittatura operaia dalla feroce quanto disperata reazione internazionale dei borghesi. Oggi è il contrario: è per la difesa degli interessi nazionali dei capitalisti che si mandano, con la forza, a morire i proletari.
Ne è un esempio la mobilitazione generale in atto in Ucraina. Agli uomini tra i 18 e i 60 anni è proibito uscire dal paese, per chi prova a fuggire c’è il carcere. A migliaia sono arruolati forzatamente. Chi aveva aderito volontario nelle Unità di Difesa Territoriale, confidando di restare lontano dai combattimenti, si ritrova in prima linea. La caccia ai giovani uomini, nelle strade e nei negozi, è realtà quotidiana in Ucraina.
Sul lato opposto, nelle repubbliche separatiste del Donbass già nei giorni prima dell’offensiva del 24 febbraio è stata imposta la coscrizione obbligatoria.
Morti, prigionieri, torture, esecuzioni sommarie, infinite menzogne, leggi repressive, entrambi gli Stati borghesi di Russia e di Ucraina conducono la propria guerra di classe contro il proletariato.
Ai proletari è sempre più manifesta la loro sottomissione e presto apprendono la funzione a loro assegnata dalla patria borghese: carne da cannone! Talvolta non è solo una metafora: numerosi soldati hanno denunciato di essere stati esposti ai bombardamenti solo per permettere il rilevamento delle postazioni dell’artiglieria nemica.
La terribile condizione dei soldati al fronte ha già prodotto delle prime reazioni, istintive e disorganizzate. Le opposte propagande fanno circolare notizie di diserzioni, rese al nemico, rifiuto di eseguire gli ordini, insubordinazioni, ecc. Ovviamente fa parte della propaganda mostrare il logoramento del nemico e c’è da diffidare. Circolano però video che documentano questi episodi di disfattismo.
Sul fronte interno ucraino è interessante quanto avvenuto il 30 aprile a Khust, cittadina ucraina della Transcarpazia: un nutrito gruppo di donne ha preso d’assalto il comando militare per protestare contro l’invio in prima linea dei figli e mariti. Protesta simile c’è stata a Červonohrad, a nord di Leopoli dove mogli, madri e sorelle hanno protestato per l’invio degli uomini al fronte. Circolano altri video del genere, di cui non è possibile individuare la località. Sono singoli episodi ma ben rappresentano l’atteggiamento che sta maturando verso la guerra, che stride con la retorica di un “popolo resistente all’invasore”.
Facendo riferimento al solo mese di maggio, in pieno svolgimento dell’offensiva nel Donbass, sono state riportate testimonianze di soldati che rifiutavano di combattere o che protestavano contro la pessima situazione al fronte. I soldati della 79° brigata d’assalto aviotrasportata delle forze armate ucraine hanno registrato un video il 1° maggio, riferendo di aver subito pesanti perdite e di aver lasciato l’accerchiamento nella regione di Charkiv. Hanno accusato il comando di usarli come “carne da cannone”. Il 9 maggio sono stati arrestati per diserzione. Il 15 maggio una unità della 115° brigata ha registrato un video denunciando le pessime condizioni e l’impossibilità di proseguire i combattimenti. Un’altra unità con un video del 18 maggio dichiara che si è rifiutata di combattere e di eseguire gli ordini.
Il 23 maggio soldati della 58° brigata di fanteria motorizzata hanno pubblicato un video in cui denunciano di non aver avuto un adeguato addestramento e di non avere armi, munizioni e vitto, e che si sono rifiutati di combattere. Un altro video del 23 maggio è stato registrato da soldati della 14° brigata, lamentando di non avere armi a sufficienza e rifiutandosi di andare a morire in battaglia. Per far fronte a queste insubordinazioni una proposta di legge autorizzava i comandi a giustiziare i soldati: evidentemente per fermare le diserzioni che rischiano di andare fuori controllo c’è bisogno delle fucilazioni. La legge non è poi stata approvata, ma al fronte ci si può immaginare la pressione repressiva dei comandi, dei servizi di sicurezza e delle formazioni neonaziste, tipo Azov, per fermare col pugno di ferro lo sfaldamento dell’esercito.
Anche sull’altro lato del fronte si hanno notizie di proteste. Il 24 maggio, un video è stato registrato da soldati della Repubblica separatista di Donetsk, manifestando il loro malcontento per essere stati mandati al fronte, a Mariupol, dove il 40% di loro è morto. Notizie di proteste, accompagnate da video e messaggi per cercare sostegno al di fuori dell’esercito, ci sono state quando si è tentato di gettare i mobilitati del Donbass nella “macelleria” di Severodonetsk. Anche nel Donbass ci sono state donne che hanno chiesto il ritorno a casa dei congiunti. Questi primi coraggiosi episodi di ribellione spontanea di soldati sono il prodotto di una situazione destinata a generalizzarsi nella inevitabile prossima contesa mondiale tra gli imperialismi, che assumerà proporzioni gigantesche di masse umane coinvolte e di massacri.
Sappiamo che è lo stesso modo di produzione capitalistico che crea le condizioni per il proprio abbattimento: Lenin ha descritto l’imperialismo come la fase finale del capitalismo, che oltre alle crisi e alle guerre produce anche la rivoluzione proletaria.
Fattore necessario per opporsi alla guerra imperialista è l’intervento nell’esercito del Partito, ben radicato nelle retrovie all’interno della classe e della società civile, con la propaganda del disfattismo rivoluzionario e con l’organizzazione delle fraternizzazioni al fine di superare quel primo stadio di spontaneità oltre il quale i soldati non possono andare da soli. Per taluni presunti “marxisti”, alla continua ricerca delle novità dell’ultima ora, nella guerra moderna le fraternizzazioni non potrebbero più divenire un percorso della lotta proletaria: le armi più potenti allontanano gli eserciti sul campo di battaglia; non ci saranno più le trincee; nella guerra moderna si fa largo utilizzo di milizie mercenarie e corpi orientati ideologicamente e fedeli alla causa nazionale; le guerre saranno “ibride”, combattute sempre meno dai classici eserciti stile guerre mondiali.
Intanto le trincee, stile Grande Guerra, già si ritrovano nel Donbass di oggi.
La guerra generale richiede la mobilitazione generale. Lo dimostra la guerra in corso in l’Ucraina con centinaia di migliaia di uomini mandati al fronte, proletari anche mal equipaggiati e mal addestrati.
La fraternizzazione non è un problema solo di tecnica militare ma una questione di classe: il rifiuto spontaneo dei proletari soldati di farsi carne da cannone deve intrecciarsi alla presenza e all’intervento del Partito negli opposti eserciti, che raccolga, inquadri e diriga il seme del disfattismo rivoluzionario. Solo allora i soldati riusciranno ad efficacemente rifiutarsi di difendere la patria borghese, a riconoscere nei soldati nemici i propri fratelli di classe e ad attivamente fraternizzare, a rivolgere le armi contro la propria borghesia e il suo Stato.
Quindi teorizzare l’impossibilità delle fraternizzazioni con motivazioni di natura “tecnica” in realtà nasconde la liquidazione del Partito.
La condizione attuale della lotta tra le classi vede il proletariato pesantemente attaccato dal nemico borghese sia con il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, sia mandandolo al massacro nelle guerre in corso. L’esistenza del proletariato sarà sempre più minacciata perché il capitalismo, per superare la sua crisi storica, deve necessariamente procedere ad una immane distruzione, compresa la forza lavoro in eccesso, per poi ripartire con un nuovo ciclo di accumulazione. Il futuro, neanche troppo lontano, per il proletariato mondiale è già segnato: ciò che sta avvenendo oggi in Ucraina è un’anticipazione della tragedia che si generalizzerà su scala mondiale. Per non soccombere allo scenario di morte e distruzione della borghesia, il proletariato internazionale troverà solo il nostro Partito che ha ben chiari e stabiliti i compiti di fronte alla guerra imperialista: in guerra nessuna tregua della lotta di classe, rifiuto della difesa della patria, propaganda del disfattismo rivoluzionario, intervento nell’esercito e organizzazioni delle fraternizzazioni, trasformazione della guerra tra Stati in guerra tra le classi.
La guerra in Ucraina ha sottolineato ancora una volta il ruolo della Turchia come potenza imperialista regionale in ascesa. Nel 1952, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nonostante la politica di neutralità del governo kemalista di Inönü e la posizione ambigua che aveva assunto nei confronti della Germania hitleriana, la Turchia fu uno dei primi Paesi ad aderire alla NATO. La diplomazia americana, riconosciuta l’importanza della Turchia nella strategia di accerchiamento del blocco sovietico da sud, fece la mossa giusta portandola nell’alleanza.
Il nuovo governo turco filo-occidentale di Menderes vedeva nella NATO la protezione contro una potenziale minaccia russa. In cambio di questa alleanza la Turchia fu chiamata a contribuire alla guerra di Corea con 35.000 soldati, e con 700 morti trascritti nei registri ufficiali.
Nel corso degli anni l’esercito turco è diventato il più grande della NATO, dopo quello statunitense, ma la spesa militare è sempre stata limitata. La storia mostra che è stato utilizzato dapprima per mantenere l’ordine contro le insurrezioni curde all’interno del complesso Paese; poi, dopo diversi colpi di Stato, in particolare contro il governo Menderes nel 1960 e contro il caos politico e la militanza operaia nel 1980, è stato nuovamente utilizzato contro l’insurrezione curda guidata dal PKK. A parte l’invasione di Cipro Nord, decisa dal governo di sinistra kemalista di Ecevit nel 1973, e le ripetute operazioni nel Kurdistan meridionale, l’esercito turco non era mai stato usato come strumento di aggressione esterna.
Negli ultimi anni le cose sono profondamente cambiate. La Repubblica di Turchia guidata da Erdoğan ha adottato una politica “nazionalista islamica”, presentandosi come una potenza imperialista regionale. Allo stesso tempo, cercando di liberarsi dall’ingombrante presenza americana, ha creato con successo una propria industria nazionale degli armamenti, più autonoma e indipendente. Del tentativo di colpo di Stato del 2016, organizzato da ex scagnozzi di Erdoğan, la setta di Gülen, Erdoğan ha indirettamente incolpato gli Stati Uniti, il che ha portato a un riavvicinamento di Istanbul a Mosca. L’acquisto dei sistemi antimissile S400 da Mosca e il rifiuto degli Stati Uniti di consegnare alla Turchia i caccia F35, già parzialmente pagati, hanno aumentato le tensioni tra i due Paesi. Allo stesso tempo, la Turchia stava cercando di espandere la propria influenza nei Paesi arabi.
In Africa e in Medio Oriente, non solo minacciava l’Egitto, ma irritava anche la Grecia e la Francia. Allo stesso tempo, le relazioni della Turchia con Mosca sono rimaste contraddittorie: si è opposta al governo di Assad e all’Esercito Nazionale Libico guidato da Haftar, entrambi sostenuti dalla Russia. La guerra in Ucraina ha aperto nuove possibilità per la diplomazia turca. Nonostante si trovi sul fronte opposto della guerra, le buone relazioni con Mosca, così come gli scambi commerciali tra i due Paesi e il continuo arrivo di turisti dalla Russia, hanno giocato un ruolo importante nell’economia turca. La Russia non solo consegnava armi, ma costruiva anche una centrale nucleare in Turchia e forniva gas. Per altro la Turchia intratteneva buone relazioni anche con l’Ucraina, con la quale collaborava appieno nel settore degli armamenti strategici. La rottura delle relazioni con la Federazione Russa avrebbe creato nuovi problemi all’economia turca, già in profonda crisi, e peggiorato le condizioni del proletariato, gravemente colpito dall’inflazione.
Un aumento dei prezzi dell’energia potrebbe solo accelerare il processo di inflazione. Per il momento la borghesia turca si sta barcamenando: si rifiuta di applicare le sanzioni contro la Russia e non chiude il suo spazio aereo agli aerei russi, allo stesso tempo fornisce armi all’Ucraina. Il governo turco sta cercando di approfittare della guerra per infilarsi nell’affare. Anche se un accordo tra Russia e Ucraina non è in vista, entrambi i Paesi hanno già accettato il ruolo di mediatore della Turchia. Il presidente ucraino Zelensky ha persino suggerito la Turchia come garante della pace, quando si raggiungesse un accordo. È inoltre importante notare che, a causa dell’aggravarsi della crisi economica, la popolarità del Partito islamista Giustizia e Sviluppo di Erdoğan e dei suoi alleati fascisti è diminuita drasticamente, mentre l’alleanza a sei guidata dal Partito Popolare Repubblicano, socialdemocratico kemalista, e dai fascisti dell’opposizione è in crescita.
Il capo del Partito del Bene, Akşener, ha apertamente denunciato Erdoğan per non aver fatto abbastanza per l’Ucraina. Non è un segreto che i socialdemocratici hanno relazioni migliori con l’America, la Gran Bretagna e soprattutto l’Unione Europea. Dato che l’America sta facendo di tutto per indebolire la nemica Russia, è chiaro quale sia la parte favorita da Washington nelle prossime elezioni turche, previste per il 2023. Se la guerra tra Ucraina e Russia continuerà fino ad allora, possiamo presumere che il nuovo governo turco, se sarà guidato dall’attuale partito di opposizione, sarà più filo-occidentale e antirusso, e spererà che la riparazione dei legami economici spezzati con l’Occidente compenserà i legami economici infranti con la Russia.
Se la pace sotto il capitalismo è la premessa per la prossima guerra, allora i negoziati di pace sono il piano della prossima battaglia. La Turchia sta già svolgendo un ruolo nella guerra tra Russia e Ucraina, salvando le proprie relazioni con entrambi i Paesi, puntando al contempo a migliorare la propria posizione in vista di futuri conflitti.
La campagna elettorale è appena iniziata e come sempre gli attori in campo si dividono le parti del vecchio copione per cercare di interessare la cosiddetta “opinione pubblica” sui temi che più la possono solleticare. Va precisato che l’opinione pubblica è solo un artefatto mediatico e che i temi sui quali si imbroglia vengono imposti dai mezzi di produzione intellettuale in mano alla classe dominante.
Certo di “intellettuale” alle volte non sembra esserci proprio nulla, specie se si incappa in certi giornali che un tempo godevano di gran prestigio, con alte tirature e impreziositi da firme illustri e autorevoli. Il regime del capitale non può pianificare la vita sociale neanche dall’oggi al domani senza contraddire la propria politica e senza a ogni svolto sbarazzarsi dei propri portavoce.
Oggi la crisi economica, che si protrae da decenni e il moltiplicarsi delle aree di tensione e dei conflitti provocati dalla montante contesa imperialistica, creano una situazione di marasma in cui il ceto politicantesco e i mandarini preposti alla formazione dell’opinione pubblica sono costretti a sfornare opinioni che non offrono nemmeno la parvenza della coerenza. Viene da pensare a un vecchio proverbio arabo: “se la tribù impazzisce, a poco ti serve il cervello”. Purtroppo, invece, alle classi storicamente morenti, se non il cervello, non manca la malizia e una notevole abitudine e abilità a mantenere sottomessa la classe lavoratrice, anche ideologicamente.
Un esempio ce lo offre il quotidiano“La Repubblica” che venerdì 29 luglio titolava la prima pagina: “L’arma dei migranti. Dai porti libici controllati dalla brigata filorussa Wagner sta partendo un numero anomalo di profughi verso le nostre coste. Meloni assicura il sostegno all’Ucraina ma emergono intense relazioni di Berlusconi e Salvini con l’ambasciata di Mosca”. La pagina 2 è ancora più esplicita: “L’arma dei migranti sul voto. I barconi spinti in Italia dai mercenari della Wagner”.
Messaggio chiaro: un giornale della “sinistra” (termine purtroppo non ancora andato desueto per designare una componente politica borghese, in nulla meno schifosa della in tutto simile destra borghese) avverte che “la destra”, la quale non mancherà di utilizzare il vieto tema dell’immigrazione nella prossima campagna elettorale, riceverà un appoggio da parte russa, la quale avrebbe interesse a vedere vincitori delle elezioni dei politicanti ad essa legati.
Non ci addentriamo ulteriormente nelle scemenze sostenute nell’articolo, fra forzature e menzogne conclamate.
Certo, anche noi siamo ben certi che la direzione politica capitalista russa cerca di “influenzare le libere elezioni nel nostro Paese”. Fa parte della guerra permanente che tutti gli Stati si fanno anche in tempo di pace, comprando partiti e personaggi, o facendoli fuori a pistolettate, col veleno o la dinamite.
Anche a Roma c’era un partito cartaginese.
Ma la borghesia italiana, come e più di tutte le altre, nello scontro mondiale non disdegna il doppio gioco, per saltare al momento opportuno da una parte all’altra del fronte di Stati in guerra, su quello che le sembrerà avviato a vincere. Per questo già oggi nella brodaglia della “libera informazione“ è utile trovare di questi e di quelli, per preparare “le masse”. Entrambi diametralmente opposti all’indirizzo del disfattismo comunista
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La borghesia indiana, con i voti di astensione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – sia durante la prima risoluzione di condanna, poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina, sia in quella successiva contro la sospensione della Russia dal Consiglio per i diritti umani – ha ribadito i suoi rapporti economici e politici esteri.
Lo Stato indiano dispone di sufficiente autonomia decisionale per contrastare la crisi internazionale e per difendere l’accumulazione del capitale nazionale. Il fatto che la classe dominante indiana sia da tempo alleata di Washington e membro del Quad – Quadrilateral Security Dialogue, accordo stipulato nel 2007 con Stati Uniti, Giappone e Australia, con l’obiettivo di contrastare l’influenza di Pechino nell’area– non le ha impedito di stringere proficui accordi anche con la sanguinaria Russia dipinta come il male assoluto dall’occidente.
In un contesto di forte crisi e instabilità economica regionale, basti pensare a quanto sta avvenendo in Sri Lanka e Pakistan, Nuova Delhi ha usato diverse strategie per uscire da una crisi che potrebbe diventare socialmente pericolosa.
A marzo scorso l’India ha subito una crisi energetica che ha originato diversi blackouts, mancanza nelle forniture di materiali per la produzione agricola e conseguente crollo della produzione di diversi prodotti del settore primario. I sempre più intensi e proficui rapporti con Mosca che la classe dominante indiana intrattiene le sono vitali ed è improbabile che, quantomeno nel breve periodo, l’India venga persuasa a posizioni diverse allineandosi alle richieste d’occidente.
Gli armamenti russi
L’India nell’ultimo quinquennio 2017‑21 è stato il maggiore importatore mondiale di armi, davanti all’Arabia Saudita, all’Egitto, all’Australia e alla Cina.
Attualmente circa l’85% dell’armamento dell’India è di origine russa, aerei da combattimento e da trasporto, elicotteri, navi, fregate, sottomarini, carri armati, veicoli di fanteria, sistemi multirazzo, fucili e missili a spalla e sistemi di difesa aerea. Nell’ultimo decennio, spinta dagli Stati Uniti, Nuova Delhi ha cercato, riuscendoci parzialmente, di allentare questa dipendenza da Mosca. Il governo Modi ha recentemente potenziato l’industria degli armamenti, anche grazie agli aiuti statunitensi, ma ancora oggi la Russia rappresenta circa il 50% delle importazioni militari indiane, in una media degli ultimi cinque anni. È evidente che la dipendenza da Mosca non potrà essere significativamente ridotta nel breve periodo.
I sistemi d’arma occidentali presenti sul mercato (statunitensi, israeliani, inglesi, francesi e altri) sono forse tecnologicamente superiori ai prodotti russi, ma hanno costi decisamente maggiori, il che limiterebbe la improrogabile acquisizione dei nuovi equipaggiamenti prevista nel piano dal governo indiano.
Non è un caso che, nell’ottobre 2018, nonostante la minaccia di sanzioni secondo le disposizioni del CAATSA – Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act – Nuova Delhi firmò una commessa alla Russia di circa 5,5 miliardi di dollari per l’acquisto di sistemi missilistici di difesa aerea a lungo raggio, gli S400 Triumph, scartando il sistema THAAD – Terminal High Altitude Area Defense – che, seppure venduto a prezzo di favore dall’alleato americano, sarebbe costato molto di più. Già prima della guerra in Ucraina, in un incontro nel dicembre 2021 tra Putin e Modi, si era stabilito di continuare questo partenariato militare, comprendente anche un accordo per la produzione di fucili di nuova generazione nello Stato indiano dell’Uttar Pradesh.
Petrolio, gas, energia nucleare
Se i rapporti nel commercio di armi tra i due paesi sono da tempo stretti, gli scambi energetici sono storia recente: protagonista l’oro nero.
L’India importa oltre l’80% del suo fabbisogno di petrolio; di questo quello russo prima dello scoppio della guerra non arrivava al 3%. Successivamente, con l’embargo del greggio russo verso l’Europa e con l’aumento del prezzo sul mercato mondiale, Mosca l’ha offerto a Nuova Delhi al prezzo scontato del 25% circa rispetto al Brent, il riferimento internazionale. Da febbraio a maggio l’India ha acquistato 40 milioni di barili di greggio russo, circa il 20% in più rispetto a tutto il 2021. A maggio l’India ha importato 740 mila barili al giorno, a gennaio 34 mila, diventando in pochi mesi tra i maggiori importatori di oro nero dalla Russia, che a sua volta è oggi la seconda maggiore fornitrice dell’India, dopo l’Iraq.
La Russia ha offerto all’India di utilizzare l’SPFS, il sistema di trasmissione dei messaggi finanziari sviluppato dalla Banca Centrale russa, in alternativa allo SWIFT, lo standard internazionale. La Banca centrale indiana autorizzerebbe alcune banche locali con filiali in Russia, e banche russe con sedi in India, ad aggirare l’espulsione di Mosca dal sistema dei pagamenti Swift mediante lo scambio rubli-rupie. La misura è stata richiesta dall’Associazione indiana delle imprese esportatrici, oltre 200 mila aziende che puntano ad incrementi significativi degli scambi tra i due paesi. Al momento queste misure sono ancora in fase di valutazione e attuazione.
Tuttavia già in questi mesi, grazie al greggio russo le raffinerie indiane hanno realizzato enormi profitti – unica morale del capitalismo – esportandone i prodotti principalmente negli Stati Uniti e in Europa. L’amministratore delegato della Federation of Indian Export Organisations, recentemente si è vantato di aver ricevuto molte richieste di gasolio “indiano” da diversi Stati europei. Rispondendo alle perplessità europee sull’acquisto di petrolio da Mosca, il ministro degli Esteri indiano ha dichiarato: «Non cerchiamo in particolare il petrolio russo: compriamo quello che costa meno. Sarebbe ora che gli europei la smettessero di pensare che i loro problemi siano problemi del mondo e che i problemi del mondo non siano affari loro». Dichiarazioni che palesano una borghesia nazionale pronta a far valere i suoi interessi, sporchi né più né meno di quelli dei vecchi imperialismi.
In attesa che l’occidente ridefinisca l’embargo, che secondo la stampa internazionale dovrebbe attivarsi all’inizio del prossimo anno, Mosca ha spostato altrove le sue consegne, imbarcate sulle petroliere, non vincolate ai gasdotti come per il metano. Ma anche per il gas naturale lo scorso aprile, in un incontro istituzionale si sono gettate le basi per l’acquisto, a prezzo ridotto, da parte dell’India di gas naturale liquefatto russo, spedito per nave.
Una ulteriore cooperazione tra i due paesi si era concretizzata ben prima della guerra con accordi nell’ambito dell’energia nucleare. La centrale di Kudankulam, il più grande impianto nucleare del paese, nello stato del Tamil Nadu, fu progettata e costruita dalla, allora, Unione Sovietica. Dal 2018, alcune società indiane e l’agenzia statale per l’energia atomica di Mosca, Rosatom, lavorano insieme nella costruzione di due centrali nucleari a Rooppur in Bangladesh. Progetto che dovrebbe essere completato entro il prossimo anno.
Il North South Transport Corridor
È in questo scenario, di proficua intesa per il bene dei rispettivi capitali nazionali, che il governo russo ha accelerato la messa in servizio dello INSTC, Corridoio di trasporto internazionale Nord-Sud, che migliorerebbe i collegamenti tra Russia e India, passando dall’Iran, in un trasporto multimodale: ferrovia, strada e mare. A giugno si è provato a spedire da San Pietroburgo due container di laminati di legno: per ferrovia al porto di Astrakhan, sul mar Caspio russo; per nave fino al porto di Bandare Anzali, nel Caspio iraniano; su gomma al porto di Bandar Abbas, sullo stretto di Hormuz, sempre in Iran; imbarcati infine su nave fino a Mundra, nello Stato del Gujarat, il più grande porto commerciale indiano sulla costa nord del Golfo di Kutch. Il tracciato potrebbe risultare vitale per gli scambi tra i due paesi, e non solo. Le merci destinate all’Asia meridionale che oggi partono dalla Russia seguono un percorso fino ai porti di Rotterdam, Valencia o il Pireo, in Grecia, per poi, passando dal canale di Suez, arrivare in India. Evitare il Mediterraneo consentirà di aggirare le acque presidiate dai concorrenti d’occidente e di evitare lo stretto egiziano, dove spesso per i mercantili vi sono lunghi tempi di attesa. L’INSTC, un percorso di 7.200 km, ridurrà i costi di trasporto di circa il 30% e i tempi di consegna a 25 giorni. Che ulteriormente si ridurrebbero quando fosse ultimata la ferrovia transiraniana. Nuova Delhi, che non aderisce alla Nuova Via della Seta di Pechino, guarda con molto interesse questo nuovo collegamento, che verrebbe ad aggirare il progettato gasdotto TAPI, che attraverserebbe Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan, e che tarda a concretizzarsi.
L’alleato americano
Se la borghesia indiana ha evidenti interessi ad avvicinarsi alla Russia, per il momento questi accordi commerciali non pregiudicano l’alleanza tra Nuova Delhi e Washington, che vede il gigante indiano opposto alla Cina, dopo il suo ritiro dall’Afghanistan e con la mina vagante Pakistan sempre più vicina a Pechino. Se le relazioni tra Russia ed India nel corso dei decenni dopo l’indipendenza del 1947 hanno visto fasi di avvicinamento e di allontanamento, questo vale anche per l’alleato americano. L’ascesa del nemico comune, l’imperialismo cinese, ha tuttavia portato le due borghesie a stringere accordi commerciali ed alleanze strategiche. Gli Stati Uniti appoggiano il Make in India, la politica di incentivi avviata da Modi volta ad aumentare la produzione manifatturiera del paese, assicurando un ambiente competitivo ed appetibile per il capitale internazionale, ovviamente sulla pelle della classe operaia. L’iniziativa ha portato decine di aziende americane a investire in terra indiana.
Il 23 maggio scorso l’India, insieme ad altri 12 paesi, di cui sette dell’ASEAN, Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico, ha aderito all’Indo-Pacific Economic Framework, creato dall’attuale presidente americano Joe Biden in contrapposizione del RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership, il primo accordo multilaterale di libero scambio a includere la Cina, di cui invece l’India non fa parte.
L’ iniziativa è in controtendenza rispetto alla precedente amministrazione Trump che nel 2017 si ritirò dal TTP, Trans-Pacific Partnership.
Lo scorso anno le esportazioni della Russia in India sono valse circa 7 miliardi di dollari e quelle indiane verso Mosca 3,3miliardi. Sempre nel 2021 l’India ha importato dagli Stati Uniti merci per un valore di oltre 40 miliardi contro 70 miliardi di esportazioni. Durante l’amministrazione Trump gli Stati Uniti sono diventati il primo partner commerciale di Nuova Delhi, superando la Cina.
Una redditizia ambivalenza
Nuova Delhi, accusata dagli imperialismi d’occidente per aver rotto il fronte antirusso, sa che oggi, a differenza di altre borghesie nazionali, anche europee, può permettersi questa ambivalenza e sfruttarla al meglio per soddisfare i bisogni del proprio capitalismo. È consapevole di essere oggi un compare importante per gli Stati Uniti, non solo economicamente, tanto da non poter essere sanzionata per non aver aderito alle sanzioni antirusse.
È la politica che sta conducendo anche un altro importante Stato, la Turchia, anch’esso inserito in un’alleanza militare occidentale ma che ha rifiutato di aderire alle sanzioni contro Mosca.
Questa fase è denominata dalla classe dominante indiana come “autonomia strategica”, che, al di là della retorica delle parole, significa avere dei margini di manovra, che le permettono di stringere accordi con i diversi fronti imperialisti. Anche internamente la borghesia indiana sembra coesa su questa linea: il leader dell’opposizione Rahul Gandhi ed attuale presidente del Partito del Congresso indiano, non si è schierato contro l’invasione dell’Ucraina. Va anche ricordato il ruolo di mediazione svolto dalla Russia nell’interminabile contenzioso territoriale che l’India ha con la Cina.
La Cina è il primo partner commerciale della Russia. La borghesia indiana non può permettere che nella crisi ucraina Mosca sia sostenuta, anche economicamente, solo da Pechino. Abbandonando la Russia nelle braccia della Cina, Nuova Delhi perderebbe un garante per la sopravvivenza del proprio capitalismo. L’India, dopo la debacle occidentale in Afghanistan, resta schiacciata tra il Pakistan e la Cina, e ha la vitale necessità di non affidarsi, economicamente e militarmente, solo all’occidente. I venti di un nuovo macello mondiale spazzano i continenti e i rappresentanti degli interessi dei capitali nazionali si preparano ad immolarvi la propria classe operaia. Da marxisti sappiamo come la guerra si alimenta e si sviluppa nelle insanabili contraddizioni dell’attuale antistorico rapporto di produzione. Le affinità o rivalità ideologiche dei burattini borghesi a capo dei governi di tutti i paesi sono solo un’apparenza.
Il movimento indigeno ecuadoriano ha dispiegato a giugno un’azione di massa contro il governo. Con una notevole capacità di mobilitazione la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (Conaie) – unitamente ad altre organizzazioni indigene quali Ecuarunari, Confeniae, Feine e Fenocin – ha promosso una serrata nazionale (paro) contro l’aumento del prezzo di benzina e gasolio (il cui prezzo storicamente è calmierato con dei sussidi) e presentato un documento con dieci rivendicazioni.
Alle proteste – iniziate il 13 giugno e che hanno portato al blocco intermittente delle principali strade in metà delle 24 province del paese e in almeno sei settori della capitale – si sono uniti studenti e lavoratori che hanno organizzato una manifestazione a Quito e si sono scontrati con la polizia. Il governo ha risposto con la repressione e il coprifuoco e presto è iniziato il conteggio dei feriti, degli arrestati e dei morti. Il braccio politico del Conaie, Pachakutik, è la seconda forza nella Assemblea Nazionale, con 18 dei 137 seggi. Gli indigeni sono più di un milione dei 17,7 milioni di abitanti dell’Ecuador.
Il Conaie e il Pachakutik sono movimenti opportunisti, democratico borghesi, non diversamente dai partiti che controllano il governo o da quelli all’opposizione, fra cui spicca il cosiddetto “correismo” (dal nome dell’ex presidente dell’Ecuador Rafael Correa). L’elenco delle rivendicazioni del Conaie si è incentrato principalmente sulle rivendicazioni delle piccole e medie imprese del settore agricolo, trascurando le rivendicazioni dei lavoratori.
Ciononostante, in parte le masse salariate si sono unite al movimento per contrastare l’alto costo della vita, cioè a dire – per i proletari – i bassi salari. I sindacati dei lavoratori, da parte loro, in linea generale non si sono fatti sentire né hanno promosso la mobilitazione, l’agitazione e le rivendicazioni operaie. I lavoratori che si sono uniti al movimento quindi lo hanno fatto in modo del tutto spontaneo e senza avanzare rivendicazioni proprie, accodandosi a quelle della piccola borghesia indigena.
Guillermo Lasso, il presidente dell’Ecuador, ha annunciato domenica 26 giugno la riduzione di dieci centesimi di dollaro del prezzo dei combustibili, che già era stato congelato, per cercare di andare incontro a una delle principali rivendicazioni della protesta, ma la riduzione è stata considerata insufficiente da parte del movimento indigeno.
Mentre da un lato i capi del movimento hanno iniziato a dialogare e negoziare col governo, in parlamento i deputati sostenitori dell’ex presidente Correa chiedevano la destituzione di Lasso.
Con l’inizio del dialogo fra governo e movimento indigeno il 27 di giugno, le proteste hanno iniziato a diminuire. Il primo luglio, dopo 18 giorni di mobilitazione, le organizzazioni indigene e il governo hanno raggiunto un accordo, con la mediazione della Conferenza Episcopale ecuadoriana. Le parti – governo e Conaie, Feine e Fenocin – hanno firmato un“Atto di pace” redatto dalla chiesa che riveste diversi punti.
Il governo ha accettato di ridurre il prezzo del combustibile e modifiche ad alcuni decreti relativi alla politica industriale petrolifera e mineraria, oltre a promettere di affrontare molte delle richieste sociali avanzate dal movimento. Le organizzazioni indigene hanno dichiarato la cessazione della mobilitazione e il ritorno alle comunità. Infine l’accordo ha stabilito l’istituzione di un tavolo di dialogo della durata di 90 giorni. Il dato più rilevante del movimento – giunto ad avere caratteri insurrezionali – è da un lato la sua capacità a incidere sulla definizione del prezzo del carburante, dall’altro non aver posto al tavolo negoziale la questione salariale, in un paese in cui il salario minimo è di 425 dollari mensili e il costo della vita per una famiglia di 4 persone a Quito è di 2.424 dollari.
Per questo la classe operaia è chiamata a organizzarsi, a dirigere e a lanciare lo sciopero generale per l’aumento dei salari e la riduzione della giornata di lavoro. Ma le cause materiali della lotta di classe sono tutte lì, ben presenti, alimentate dai bassi salari, dalla disoccupazione, dagli orari di lavoro estenuanti, dalle carenze nell’igiene e nella sicurezza dei posti di lavoro. È proprio di fronte alla paura che l’agitazione piccolo borghese finisse per mettere in movimento la classe operaia che la borghesia da un lato asseconda le azioni demagogiche e concilianti dei movimenti e dei partiti opportunisti, dall’altro fa sentire il tintinnio delle sciabole colpendo quel movimento con la repressione.
I lavoratori in Ecuador devono riprendere la strada della lotta e dell’organizzazione, facendo confluire tutte le loro forze in un vero sciopero generale, che paralizzi la produzione e la distribuzione delle merci, nonché i servizi, per ottenere forti aumenti salariali e la riduzione dell’orario di lavoro, e far fare un passo indietro alle politiche antioperaie dei governi borghesi. Solo così la lotta di classe in Ecuador potrà compiere un passo in avanti e liberarsi dalla camicia di forza appostale dai partiti borghesi e da quelli falsamente operai e opportunisti.
Tutti i partiti che hanno promosso il paro di giugno in Ecuador non possono e non vogliono condurre il movimento oltre l’obiettivo di un cambio da un governo borghese a un altro, sebbene il movimento sia giunto ad assumere caratteri insurrezionali e a prendere il controllo di alcune regioni. Il proletariato ecuadoriano non ha nulla da aspettarsi da un nuovo governo controllato da quei partiti e movimenti, i quali dimostrerebbero rapidamente di essere solo dei nuovi amministratori degli interessi borghesi.
Per la trasformazione di tutte le energie sociali in un movimento rivoluzionario anticapitalista è imprescindibile la costituzione di una sezione del Partito Comunista Internazionale, che inizi un lavoro serio di organizzazione e orientamento politico della lotta della classe operaia.
Un nuovo amministratore degli interessi della borghesia ha preso servizio alla presidenza della Colombia. Il 7 agosto Gustavo Petro, vinte le elezioni, si è affrettato ad annunciare che al centro del suo programma di governo sarà “lo sviluppo del capitalismo”.
Ogni volta che le masse salariate e diseredate si agitano, ancora confuse e disorientate dall’opportunismo, ancora influenzate dalla piccola borghesia, che vuole riforme sociali, politiche ed economiche che non attacchino la proprietà privata e il profitto aziendale, ogni volta che il sottosuolo sociale è scosso, non è pienamente controllato dai partiti tradizionali, allora la borghesia apre spazi a “volti nuovi” e“nuovi partiti” per confondere le preoccupazioni e i malumori che turbano le masse. Il cosiddetto “cambiamento storico”, come viene definita l’elezione di Gustavo Petro a presidente e di un afrodiscendente a vicepresidente della Colombia, è un cambiamento che non cambia nulla, come tutti quelli derivanti dal meccanismo elettorale della democrazia borghese.
Certo alcuni dei “volti nuovi” che si stanno affacciando alla presidenza della Colombia non sono simpatici a settori della borghesia, soprattutto ai grandi proprietari fondiari, né preferiti dal governo degli Stati Uniti, ma sono quelli necessari dopo le rivolte di piazza del 2019.
La stessa cosa che è successa in Cile, dove la situazione ha imposto alla borghesia il cambio alla guida del governo.
La maggior parte della borghesia avrebbe preferito che il governo rimanesse ai partiti tradizionali e che fossero essi ad attuare il programma di riforme populiste e demagogiche simili a quelle annunciate da Gustavo Petro e Francia Márquez. Ma già in passato i liberali e i conservatori hanno lasciato il posto a partiti come il Centro Democratico. La borghesia per i propri interessi deve dare spazio a una “versione politica nuova” del liberalismo colombiano, in un contesto di disordini sociali che i partiti tradizionali non sono stati in grado di controllare.
Ora, al governo, gli opportunisti colombiani attueranno la loro opera antioperaia e controrivoluzionaria, riempiendo le masse di aspettative demagogiche e seppellendo gli interessi della classe operaia in una miriade di richieste interclassiste, nazionaliste e della piccola e media impresa. L’unica pace perseguita dagli opportunisti che ora controllano il governo in Colombia è quella che si traduce nella pacificazione della classe operaia, che continueranno a smobilitare, disorganizzare, dividere e reprimere. Esattamente la stessa funzione che svolgono oggi gli opportunisti del cosiddetto “progressismo” o della “sinistra” che governano in Venezuela, Nicaragua, Cuba, Argentina, Bolivia, Messico, o aspiranti come Lula e il suo PT in Brasile. La stessa funzione controrivoluzionaria che svolgono in tutto il mondo.
La classe operaia deve abbandonare l’illusione che un governo nato dalla democrazia borghese possa soddisfare le sue richieste. I lavoratori devono ricostruire la loro organizzazione sindacale di classe, contro il sindacalismo collaborazionista e di regime oggi dominante, per unirsi nella lotta per salari più alti e orari di lavoro più brevi, per unire le loro energie in uno sciopero generale, a tempo indeterminato, senza servizi minimi, con proiezione internazionale, che metterà in ginocchio i capitalisti.
In questo processo le organizzazioni dei lavoratori devono abbandonare le sirene delle elezioni democratico-borghesi e i richiami alla difesa dell’economia nazionale e devono riprendere la lotta di classe in una visione internazionalista.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
La guerra che si combatte in Ucraina è uno scontro fra potenze imperialiste che si contendono il mondo. Delle condizioni di vita della popolazione ucraina, al regime di Mosca, ma anche a quelli di Kiev, d’Europa e d’America, non importa nulla: sono tutti regimi borghesi interessati solo ai proventi economici che quel paese e lo sfruttamento della sua classe lavoratrice possono offrire loro.
La classe dominante d’Ucraina – un vaso di coccio fra vasi di ferro – è sempre stata divisa e dubbiosa se vendersi a Mosca o a Washington. In un caso o nell’altro per essa i lavoratori ucraini sono solo strumenti da sfruttare e mandare al macello per i propri interessi borghesi.
Lo stesso vale naturalmente per la borghesia russa – che manda ad ammazzare e a farsi ammazzare i giovani proletari russi, sfrutta e opprime la classe lavoratrice di quel vasto paese – e in tutti i paesi: siano essi totalitari, democratici o che ancora usurpano il nome di socialista, come già fece l’Unione Sovietica dopo la controrivoluzione staliniana, in tutti i paesi la realtà sociale e politica è quella della dittatura del capitale sulla classe operaia.
Per questo i lavoratori non hanno una patria da difendere ma solo un regime politico da abbattere, con la rivoluzione, e un mondo intero da conquistare, unendosi al di sopra dei fittizi e anti-storici confini nazionali. “Proletari di tutto il mondo unitevi!” è la prima e sempre più attuale parola d’ordine comunista.
Al di sopra dei contrasti di interessi economici e – di conseguenza – militari, tutte le borghesie nazionali sono unite dall’interesse che la guerra sia combattuta e verso di essa spingono i lavoratori, inondandoli con fiumi di propaganda bellicista, nazionalista, partigiana, resistenziale.
La guerra conviene ai regimi borghesi perché è la sola soluzione alla crisi economica mondiale – altrimenti irrisolvibile e causata dalla sovrapproduzione di merci – e perché divide e sottomette la classe lavoratrice internazionale, con un massacro fratricida. Interesse vitale dei lavoratori di tutto il mondo è rifiutarsi di combattere la guerra imperialista e combattere invece la propria guerra sociale, in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro e per liberarsi dal capitalismo.
La guerra in Ucraina – ultimo anello della catena di conflitti imperialisti per procura che mai sono cessati e hanno prima martoriato il Medio Oriente, l’Afghanistan, l’Africa, i Balcani – è un passo decisivo verso una terza guerra mondiale, a cui la crisi economica mondiale del capitalismo spinge inesorabilmente tutti gli Stati borghesi e che sarà inevitabile, se a impedirla non sarà la classe lavoratrice, l’unica in grado di farlo con la sua mobilitazione.
La guerra in Ucraina colpisce innanzitutto la popolazione di quel paese e i soldati ucraini e russi, cioè come sempre in gran parte i proletari. Ma sta già colpendo anche i lavoratori di tutto il mondo, con le sue conseguenze economiche. Già sono in atto rivolte in Iran, Sri Lanka, Perù. In tutti i paesi i regimi borghesi vogliono far pagare i costi della guerra ai lavoratori, convincendoli che si tratti di un sacrificio necessario.
Intanto la borghesia con la guerra fa grandi affari. In Italia i maggiori gruppi industriali e finanziari – Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri e le banche collegate – stanno incrementando i loro profitti. Tutti gruppi industriali proprietà dello Stato italiano, che come ogni Stato borghese è il primo interessato a che la guerra imperialista sia combattuta.
Il primo passo per impedire e fermare la guerra imperialista è iniziare a combattere la guerra sociale dei lavoratori, la lotta di classe in difesa delle proprie condizioni di vita, per non pagarne i costi economici.
All’aumento
dell’inflazione che riduce i salari reali, bisogna rispondere
organizzandosi nel sindacalismo conflittuale – battendosi per
l’unità d’azione dei sindacati di base e di essi con le aree
conflittuali in Cgil – per promuovere un movimento generale di
scioperi per ottenere:
-
forti aumenti salariali, maggiori per le categorie e qualifiche
peggio pagate !
-
salario pieno ai lavoratori disoccupati !
-
riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario !
L’inchiesta contro il SI Cobas e l’Usb, con l’arresto di 8 dirigenti nazionali e locali dei due sindacati, è l’ultimo attacco contro le organizzazioni sindacali di classe in Italia. Fra le manovre poliziesche e giudiziarie passate basti ricordare l’arresto del Coordinatore nazionale del SI Cobas nel gennaio 2017, le perquisizioni e gli arresti del marzo 2021 contro lavoratori e dirigenti del SI Cobas piacentino e quelle nello stesso mese contro i delegati dell’Usb al porto di Genova. Ma le denunce, i fogli di via e i processi sono centinaia, e seguono agli attacchi fisici compiuti sul campo, con lo sgombero violento dei picchetti durante gli scioperi da parte delle forze dell’ordine.
A ciò si aggiungono le manovre dei sindacati di regime, organizzazioni non più riconquistabili dalla classe lavoratrice, e quelle della politica borghese di ogni colore. Ormai da due anni è in atto una contro-offensiva della Cgil nella logistica, con la stipula di accordi con grandi aziende committenti che, se da un lato prevedono l’assunzione diretta dei lavoratori superando il sistema degli appalti, dall’altro annullano le condizioni migliori conquistate con le lotte dai sindacati di base (SI Cobas, Adl Cobas, Usb), ed escludono questi dalle trattative, e riducono o eliminano i loro iscritti nei magazzini interessati.
Cgil, Cisl e Uil da quando sono iniziate nel 2010 le lotte nella logistica hanno sempre invocato l’intervento delle istituzioni, e collaborato con esse, per ripristinare la “legalità” nel settore, cioè per far cessare le lotte operaie, vedere garantita la loro forza sindacale ed eliminata quella dei sindacati di base. Il loro silenzio di fronte agli arresti dei dirigenti di SI Cobas e Usb è complice e consenziente.
I governi borghesi che si sono avvicendati, con perfetta continuità al di sopra delle alchimie parlamentari, hanno varato provvedimenti per colpire le lotte operaie e peggiorare le condizioni dei lavoratori. Due esempi eclatanti di ciò sono stati i cosiddetti Decreti Sicurezza e – uno degli ultimi atti del governo Draghi – la modifica del Codice Civile che annulla la “responsabilità in solido” del committente, impedendo ai lavoratori di recuperare il salario non pagato dalle aziende nei cambi di appalto.
Tutto questo agire e manovrare – poliziesco, giudiziario, sindacale, politico – è espressione di un dato sociale e politico evidente: finché la lotta dei lavoratori viene sconfitta essa suscita le ipocrite lacrime di coccodrillo della stampa e dei partiti borghesi, utili a imprigionare i proletari nel ruolo di vittime; quando invece diviene vincente – per determinazione, organizzazione e metodi di lotta – allora non può essere sopportata dalla classe borghese e dal suo regime politico, che vi scaglia contro tutte le sue armi. Una volta di più è dimostrato che la democrazia è una maschera della dittatura del capitale sulla classe operaia.
Oggi questa nuova offensiva giudiziaria avviene a un livello superiore a quelle precedenti, coinvolgendo i due maggiori sindacati di base d’Italia. Questo non è un caso perché il regime borghese è fortemente preoccupato della situazione sociale che va delineandosi. L’economia capitalistica mondiale continua ad annaspare nella irrisolvibile crisi di sovrapproduzione. La crescita dell’inflazione, in atto già dalla seconda metà dell’anno scorso, si è aggravata con l’esplodere della guerra imperialista in Ucraina, e continua a erodere i salari. In diversi paesi del mondo sono già in atto lotte e rivolte. Il capo della Cgil nelle settimane scorse ha avvisato governo e padroni circa il rischio della ripresa di lotte operaie per il salario e ha ribadito la funzione essenziale dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) per impedire che ciò accada. Da ultimo la Cgil ha dato mostra di tutta il suo servilismo verso il regime borghese manifestando il suo sostegno al governo.
Il teatrino politico borghese, dal canto suo, s’è dato a dibattere circa l’istituzione di un salario minimo, al solo scopo di prevenire i lavoratori dallo scendere in lotta per ottenere, con gli scioperi, consistenti aumenti salariali.
Questa nuova manovra giudiziaria ha però avuto la pronta risposta di SI Cobas, Usb e del resto del sindacalismo di base, non piangendo per la democrazia violata e invocando questo inganno ideologico contro i proletari, ma con scioperi nei magazzini e manifestazioni in tante città, già il giorno successivo gli arresti. SI Cobas, Usb e tutto il sindacalismo di base hanno finalmente risposto in modo pronto, compatto e convocato unitariamente la manifestazione di oggi.
Questo FRONTE UNICO SINDACALE DI CLASSE è la strada da continuare a percorre, non solo per porsi al fianco dei militanti sindacali oggi sotto arresto, ma per organizzare nei mesi a venire la lotta dei lavoratori in difesa delle loro condizioni di vita, per forti aumenti salariali, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, contro Stato, governo, padroni e sindacati di regime!
* * *
The investigation against SI Cobas and USB, with the arrest of eight national and local leaders of the two unions, is the latest attack on class-based unions in Italy. Past police and judicial maneuvers include the arrest of the SI Cobas National Coordinator in January 2017, the searches and arrests in March 2021 against workers and leaders of the SI Cobas in Piacenza, and those in the same month against USB delegates at the Genoa port. But the denunciations, dismissal notices, and prosecutions numbering in the hundreds, and follow the physical attacks carried out on the ground, with the security forces violently breaking up the picket lines during strikes.
Added to this are the maneuvers of the regime unions, organizations that can no longer be won back by the working class, as they belong to bourgeois politics of all colors. For two years now, a CGIL counter-offensive has been underway in logistics, with the signing of agreements with large contracting companies that, while providing for the direct hiring of workers by overcoming the contracting system, also nullify the better conditions won through struggles by the grassroots unions (SI Cobas, ADL Cobas, USB), and excluding the rank and file unions in company negotiations, and reducing or eliminating their members in those warehouses.
Since the logistics sector struggles began in 2010, the regime union federations CGIL, CISL and UIL have always called for government intervention, and collaborated with them, in order to restore “legality” in the sector, that is, to put an end to workers’ struggles, as well as to see their own strength as unions guaranteed and that of the grassroots unions eliminated. Their silence in the face of the arrests of the leaders of SI Cobas and USB is complicit and consenting.
Successive bourgeois governments, with perfect continuity when it comes parliamentary chemistry, have passed measures to attack workers’ struggles and worsen workers’ conditions. Two striking examples of this were the so-called Security Decrees and – one of the latest acts of the Draghi government – the amendment to the Civil Code that nullifies the “joint and several liability” of the employer, which prevents workers from recovering unpaid wages from companies in contract changes.
All this acting and maneuvering – police, judicial, trade union, political – is an expression of an obvious social and political fact: as long as the workers’ struggle is defeated it arouses the hypocritical crocodile tears of the bourgeois press and parties, useful for imprisoning the proletarians in a simple role of helpless victimization; when, on the other hand, it becomes victorious – in terms of determination, organization and ways of struggle – then the bourgeois class and its political regime finds it unendurable, and throws all its weapons at it. Once again it’s proven that democracy is a mask of the dictatorship of capital over the working class.
This new judicial offensive today is far more intense than previous ones, involving the two largest grassroots unions in Italy. This is no accident because the bourgeois regime is greatly concerned about the emerging social situation. The world capitalist economy continues to thrash around in the unsolvable crisis of overproduction. Rising inflation, which has been going on since the second half of last year, has worsened with the outbreak of the imperialist war in Ukraine, and continues to erode wages. Struggles and uprisings are already underway in several countries around the world. The head of the CGIL in recent weeks has warned the government and bosses about the risk of the resumption of workers’ struggles over wages and reiterated the essential function of the regime unions (CGIL, CISL, UIL, UGL) in preventing this from happening. Lastly, the CGIL showed its total servility to the bourgeois regime by manifesting its support for the government.
The bourgeois political theater, for its part, has been debating about establishing of a minimum wage, for the sole purpose of preventing workers from going out in struggle to obtain, through strikes, actually substantial wage increases.
However, this new judicial maneuver had the prompt response of SI Cobas, USB and the rest of grassroots trade unionism, not by crying about supposed democracy being violated and invoking this ideological deception against the proletarians, but with strikes in the warehouses and demonstrations in many cities, in the day immediately following the arrests. SI Cobas, USB and all of grassroots trade unionism have finally responded in a unified and organized fashion with today’s demonstration.
This unity is an example of a UNITED CLASS UNION
FRONT and is the correct road to continue on, not only to stand
in solidarity with the union militants under arrest today, but to
organize the workers’ struggles in defense of workers’ living
conditions in the months to come, for large wage increases, for a
reduction of working hours for equal pay, against the State,
government, bosses and regime unions!
* * *
Italie - Le front uni syndical de classe est la seule voie possible pour défendre les travailleurs contre les attaques des patrons et de l’État
L’enquête contre le SI Cobas et l’Usb, avec l’arrestation de 8 dirigeants nationaux et locaux des deux syndicats, est la dernière attaque en date contre les organisations syndicales de classe en Italie.
Parmi les manœuvres policières et judiciaires du passé, il suffit de rappeler l’arrestation du coordinateur national du SI Cobas en janvier 2017, les perquisitions et les arrestations en mars 2021 contre les travailleurs et les dirigeants de la SI Cobas de Piacenza et ceux du même mois contre les délégués de l’Usb au port de Gênes. Mais les dénonciations, les mandats de quitter les lieux et les procès se comptent par centaines, et suivent les attaques physiques menées sur le terrain, avec l’expulsion violente des piquets durant les grèves par les forces de l’ordre.
A cela s’ajoutent les manœuvres des syndicats du régime, Cgil, Cisl et Uil, organisations qui ne peuvent plus être reconquises par la classe travailleuse, et celles de la politique bourgeoise de toutes les nuances. Désormais, depuis deux ans, il y a une contre-offensive de la CGIL dans le domaine de la logistique, avec la conclusion d’accords avec de grandes entreprises contractantes qui, d’une part, prévoient l’embauche directe de travailleurs, en dehors du système des contrats, d’autre part l’annulation des meilleures conditions gagnées avec les luttes des syndicats de base (SI Cobas, Adl Cobas, Usb), l’exclusion de ces derniers des négociations, la réduction ou l’élimination de l’influence des syndicats de base, l’exclusion de leurs membres dans les tractations, la réduction ou l’élimination de leurs inscrits dans les entrepôts concernés.
Cgil, Cisl et Uil, depuis le début des luttes dans la logistique en 2010, ont toujours appelé à l’intervention des institutions, et collaboré avec elles, pour rétablir la "légalité" dans le secteur, c’est-à-dire pour mettre fin aux luttes des travailleurs, et voir leur force syndicale garantie et celle des syndicats de base éliminée. Leur silence face aux arrestations des dirigeants de SI Cobas et Usb montre leur complicité et leur consentement.
Les gouvernements bourgeois qui se sont succédés, avec une parfaite continuité au-dessus de l’alchimie parlementaire, ont adopté des mesures visant à s’attaquer aux luttes des travailleurs et à aggraver leurs conditions de vie. En sont deux exemples frappants d’une part les décrets dits de sécurité - l’un des derniers actes du gouvernement Draghi –, et d’autre part l’amendement du code civil qui annule la "responsabilité solidaire" du donneur d’ordre, empêchant les travailleurs de recouvrer les salaires impayés par les entreprises lors des changements de contrat.
Tous ces agissements et toutes ces manœuvres - policières, judiciaires, syndicales, politiques - sont l’expression d’une situation sociale et politique évidente: tant que la lutte des travailleurs est vaincue, elle provoque les larmes de crocodile hypocrites de la presse et des partis bourgeois, utiles pour enfermer les prolétaires dans le rôle de victimes; quand au contraire elle devient victorieuse - en raison de la détermination, l’organisation et les méthodes de lutte - alors elle ne peut être supportée par la classe bourgeoise et son régime politique, qui utilise contre elle toutes ses armes. Une fois de plus, il est démontré que la démocratie est le masque de la dictature du capital sur la classe travailleuse.
Aujourd’hui, cette nouvelle offensive judiciaire se déroule à un niveau plus élevé que les précédentes, impliquant les deux plus grands syndicats de base en Italie. Ce n’est pas un hasard car le régime bourgeois est fortement préoccupé par la la situation sociale qui s’annonce. L’économie capitaliste mondiale continue à patauger dans la crise insoluble de la surproduction. La hausse de l’inflation, déjà amorcée depuis le second semestre de l’année dernière, s’est aggravée avec le déclenchement de la guerre impérialiste en Ukraine, et continue à éroder les salaires. Dans plusieurs pays du monde, des luttes et des révoltes ont déjà lieu. Le chef de la Cgil dans les semaines écoulées a mis en garde gouvernement et patrons du risque de la reprise de luttes des travailleurs pour le salaires, réaffirmant ainsi la fonction essentielle des syndicats de régime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) d’éviter que cela n’arrive !
Au cours des dernières semaines, la CGIL a montré toute sa servilité à l’égard du régime bourgeois en manifestant son soutien au gouvernement. Le théâtre politique bourgeois, quant à lui, a débattu de l’institution d’un salaire minimum, dans le seul but d’empêcher les travailleurs de lutter pour obtenir par des grèves des augmentations de salaire substantielles.
Cette nouvelle manœuvre judiciaire a toutefois suscité une
réaction rapide de la part de SI Cobas, de l’Usb et du reste du
syndicalisme de base, non pas en dénonçant la violation
de la démocratie ni en invoquant cette tromperie idéologique contre
les prolétaires, mais avec des grèves d’entrepôts et des
manifestations dans de nombreuses villes, dès le lendemain des
arrestations. SI Cobas, Usb et tout le syndicalisme
de base ont finalement répondu de manière rapide,
compacte en convoquant de façon unitaire la manifestation
d’aujourd’hui. Ce FRONT UNI SYNDICAL DE
CLASSE est la voie à poursuivre, non seulement pour se tenir aux
côtés des militants syndicaux arrêtés, mais pour organiser dans
les mois à venir la lutte des travailleurs pour la défense de
leurs conditions de vie, pour de fortes augmentations de salaires,
pour la réduction des heures de travail à salaire égal, contre
l’État, le gouvernement, les patrons et les syndicats du régime !
* * *
İtalya - SI Cobas ve USB Liderleri Tutuklandı
İşçileri Patronların ve Devletin Saldırılarına Karşı Korumanın Tek Yolu Birleşik bir Sınıf Sendikası Cephesidir
SI Cobas ve USB’ye karşı yürütülen ve iki sendikanın 8 ulusal ve yerel yöneticisinin tutuklandığı soruşturma, İtalya’da sınıf sendikalarına karşı yürütülen en son saldırıdır. Geçmişteki polis ve yargı manevraları arasında Ocak 2017’de SI Cobas Ulusal Koordinatörünün tutuklanması, Mart 2021’de Piacenza’da SI Cobas işçilerine ve liderlerine yönelik aramalar ve tutuklamalar ve aynı ay Cenova limanında USB delegelerine yönelik olanlar yer alıyor. Ancak sayıları yüzlerle ifade edilen ihbarlar, işten çıkarma bildirimleri ve kovuşturmalar, grevler sırasında grev gözcülerinin güvenlik güçleri tarafından şiddete maruz bırakılması ile sahada gerçekleştirilen fiziksel saldırılar gerçekleşmiş durumda.
Buna bir de rejim sendikalarının, işçi sınıfının artık geri kazanamayacağı örgütlerin ve her renkten burjuva siyasetinin manevraları ekleniyor. İki yıldır lojistik alanında CGIL’in karşı saldırısı devam ediyor; bir yandan büyük müteahhitlik şirketleriyle imzalanan anlaşmalarla işçilerin doğrudan işe alınması sağlanarak sözleşme sisteminin üstesinden gelinirken, diğer yandan taban sendikalarının (SI Cobas, Adl Cobas, USB) mücadeleleriyle kazanılan en iyi koşullar iptal ediliyor, bunlar müzakerelerden dışlanıyor ve ilgili depolardaki üyeleri azaltılıyor ya da tasfiye ediliyor.
CGIL, CISL ve UIL, lojistik alanındaki mücadelelerin başladığı 2010 yılından bu yana, sektörde "yasallığı" yeniden tesis etmek, yani işçilerin mücadelelerine son vermek, sendikal güçlerini garanti altına almak ve taban sendikalarının gücünü ortadan kaldırmak için her zaman kurumlara müdahale çağrısında bulunmuş ve onlarla işbirliği yapmıştır. SI Cobas ve usb liderlerinin tutuklanması karşısındaki sessizlikleri, bu suça nasıl ortak olduklarını ve rıza verdiklerini gözler önüne sermektedir.
Birbirini izleyen burjuva hükümetleri, parlamenter simya ile mükemmel bir süreklilik içinde, işçi mücadelelerine darbe vuracak ve işçilerin koşullarını kötüleştirecek tedbirler aldılar. Bunun iki çarpıcı örneği, sözde güvenlik kararnameleri ve - Draghi hükümetinin son icraatlarından biri olan - Medeni Kanun’da yapılan ve işçilerin sözleşme değişikliklerinde ödenmeyen ücretleri şirketlerden geri almasını engelleyen "müteselsil sorumluluğu" geçersiz kılan değişikliktir.
Polisiye, adli, sendikal, siyasi tüm bu hareket ve manevralar, açık bir toplumsal ve siyasi gerçeğin ifadesidir: İşçilerin mücadelesi yenilgiye uğradığı sürece, burjuva basınının ve partilerinin ikiyüzlü timsah gözyaşlarını uyandırır, proleterleri kurban rolüne hapsetmeye yarar; öte yandan, kararlılık, örgütlenme ve mücadele yöntemleri açısından zafere ulaştığında, o zaman burjuva sınıfı ve tüm silahlarını ona fırlatan siyasi rejimi tarafından tahammül edilemez. Demokrasinin, sermayenin işçi sınıfı üzerindeki diktatörlüğünün bir maskesi olduğu bir kez daha kanıtlanmıştır.
Bugün bu yeni yargı saldırısı, İtalya’nın en büyük iki taban sendikasını da içerecek şekilde, öncekilerden daha yüksek bir düzeyde gerçekleşmektedir. Bu bir tesadüf değildir çünkü burjuva rejimi ortaya çıkmakta olan sosyal durumdan büyük endişe duymaktadır. Dünya kapitalist ekonomisi çözülemeyen aşırı üretim krizi içinde bocalamaya devam ediyor. Geçen yılın ikinci yarısından bu yana devam eden yükselen enflasyon, Ukrayna’daki emperyalist savaşın patlak vermesiyle daha da kötüleşti ve ücretleri aşındırmaya devam ediyor. Dünyanın çeşitli ülkelerinde mücadeleler ve ayaklanmalar halihazırda devam etmektedir. CGIL başkanı geçtiğimiz haftalarda hükümeti ve patronları ücretler konusunda işçi mücadelelerinin yeniden başlama riski konusunda uyarmış ve rejim sendikalarının (CGIL, CISL, UIL, UGL) bunu önlemedeki temel işlevini yinelemiştir. Son olarak CGIL, hükümete desteğini açıklayarak burjuva rejimine olan tüm uşaklığını göstermiştir.
Burjuva siyasi tiyatrosu ise, işçilerin grevler yoluyla önemli ücret artışları elde etmek için mücadeleye atılmalarını engellemek amacıyla asgari ücretin belirlenmesini tartışmaktadır.
Ancak bu yeni yargı manevrasına SI Cobas, USB ve taban sendikacılığın geri kalanı, tutuklamaların hemen ertesi günü depolarda grevler ve birçok şehirde gösterilerle karşılık verdi. SI Cobas, USB ve tüm taban sendikacılık nihayet hızlı, derli toplu ve birleşik bir şekilde bugünkü gösteriyi düzenleyerek yanıt verdi. Bu birleşik sendikal sınıf cephesi, sadece bugün tutuklanan sendika militanlarının yanında durmak için değil, önümüzdeki aylarda işçilerin yaşam koşullarını savunmak için, güçlü ücret artışları için, eşit ücret için çalışma saatlerinin azaltılması için, hükümete, patronlara ve rejim sendikalarına karşı mücadelesini örgütlemek için devam etmemiz gereken yoldur!
* * *
Vyšetřování proti odborovým svazům SI Cobas a USB, při kterém bylo zatčeno 8 celostátních a lokálních vedoucích představitelů obou svazů, je posledním útokem proti třídním odborům v Itálii. Z předcházejících machinací policie a soudů stačí připomenout zatčení národního koordinátora SI Cobas v lednu 2017, domovní prohlídky a zatýkání v březnu 2021 namířené vůči pracujícím a vedoucím představitelům SI Cobas v Piacenze a v témže měsíci proti delegátům USB v janovském přístavu. Výpovědi, vyhoštění a soudní procesy se však počítají na stovky a následují po fyzických útocích přímo v terénu, kdy policie násilně rozbíjí pikety během stávek.
K tomu se přidávají manévry prorežimních odborů, organizací, které už dělnická třída nemůže dobýt nazpět, a manévry buržoazní politiky všech barev. Již dva roky probíhá protiofenzíva odborového svazu CGIL v sektoru logistiky, kdy se podepisují dohody s velkými subdodavatelskými společnostmi, které na jedné straně umožňují najímat si přímo pracovníky a obejít tak systém pracovních smluv, na druhé straně se likvidují lepší podmínky vydobyté bojem základních odborových organizací (SI Cobas, Adl Cobas, USB), a vylučují je z vyjednávání a dochází k redukci nebo vyhazovu jejich členů v příslušných skladech.
CGIL, CISL a UIL od začátku bojů v logistice v roce 2010 vždy volaly po zásahu ze strany institucí a spolupracovaly s nimi, aby obnovily „právní řád“ v tomto odvětví, tj. aby ukončily boje zaměstnanců, aby si pojistily svou odborovou moc a eliminovaly sílu řadových odborů. Jejich mlčení tváří v tvář zatčení vůdců SI Cobas a USB vyjadřuje jejich spoluúčast a jejich souhlas.
Po sobě jdoucí buržoazní vlády v dokonalé kontinuitě navzdory parlamentním čachrům přijímaly opatření, která potlačují boje pracujících a zhoršují jejich podmínky. Dva do očí bijící příklady jsou tzv. bezpečnostní dekrety a – jeden z posledních aktů Draghiho vlády – novela občanského zákoníku, která ruší povinnost odpovědnosti hlavního objednavatele (pracovní síly), což znemožňuje pracujícím vymáhat po příslušných podnicích nevyplacené mzdy při měnících se kontraktech.
Všechny tyto akce a machinace – policejní, soudní, odborové, politické – jsou výrazem zjevné společenské a politické skutečnosti: dokud je boj pracujících porážen, vyvolává pokrytecké krokodýlí slzy u novinářů a buržoazních stran, jež napomáhají k uvěznění proletářů v roli obětí; když se stává vítězným – a to z hlediska odhodlání, organizace a metod boje –, pak jej buržoazní třída a její politický režim nemohou tolerovat a nasazují proti němu všechny své zbraně. Znovu se ukazuje, že demokracie je maskou diktatury kapitálu nad pracující třídou.
Dnes se tato nová ofenzíva ze strany soudů odehrává na vyšší úrovni než ty předchozí a jsou do ní vtaženy dva největší základní odborové svazy v Itálii. Není to náhoda, protože buržoazní režim je hluboce znepokojen vznikající sociální situací. Světová kapitalistická ekonomika se nadále potácí v neřešitelné krizi nadvýroby. Růst inflace, který trvá od druhé poloviny loňského roku, se s vypuknutím imperialistické války na Ukrajině ještě zhoršil a nadále podkopává mzdy. V několika zemích světa již probíhají boje a vzpoury. Šéf CGIL v minulých týdnech varoval vládu a šéfy před rizikem znovuoživení bojů pracujících ohledně mezd a zopakoval, že základní funkcí prorežimních odborů (CGIL, CISL, UIL, UGL) je zabránit tomu, aby se tak stalo. Nakonec odbory CGIL prokázaly veškerou svou servilitu vůči buržoaznímu režimu tím, že vyjádřily svou podporu vládě.
Buržoazní politické divadýlko zase debatuje o zavedení minimální mzdy, a to jen proto, aby se zabránilo pracujícím vyjít do boje a vydobýt si, prostřednictvím stávek, výrazné zvýšení mezd.
Na tyto nové soudní machinace však SI Cobas, USB a zbytek základního odborového hnutí reagovaly pohotově, nikoli však pláčem nad porušováním demokracie a odvoláváním se na tento ideologický podvod uplatňovaný vůči proletářům, ale stávkami ve skladech a demonstracemi v mnoha městech, a to již druhý den po zatčení. SI Cobas, USB a veškeré řadové odborářské hnutí nakonec zareagovaly pohotově, kompaktně a jednotně svolaly dnešní demonstraci.
Tato JEDNOTNÁ TŘÍDNÍ ODBOROVÁ FRONTA je cestou, po které je třeba pokračovat, nejen stát po boku dnes zatčených odborových bojovníků, ale v následujících měsících organizovat boj pracujících na obranu jejich životních podmínek, za výrazné zvýšení mezd, za zkrácení pracovní doby při rovném odměňování, proti státu, vládě, šéfům a prorežimním odborům!
In Spagna, mentre la borghesia ha i suoi problemi di gestione del dominio politico, per i lavoratori, ai peggioramenti fatti ingoiare dai sindacati di regime, si aggiungono ora i gravi effetti della crisi economica, che avanza inesorabile, e quelli della sua conseguenza: la guerra, che in tutti i paesi europei e del mondo ha già iniziato a scatenare i suoi terribili effetti.
L’anticipazione in Spagna si è avuta con i brutali aumenti dei prezzi dell’elettricità. Nessuno propone un sollievo per i salariati, nessuno parla dei salari se non come variabile dipendente, accessoria. La rivendicazione salariale dovrebbe provenire dai sindacati. Ma non è così: anche in Spagna gli attuali sindacati maggioritari sono tutti sindacati di regime, strumenti utili ai cosiddetti “datori di lavoro”.
La Unión General de Trabajadores, per esempio, “chiede” un “Patto di Stato per l’energia”, di fantomatici e logori “cambiamenti del modello produttivo” e di “accessibilità per tutti” all’energia. Propongono di abbassare il prezzo dell’elettricità, dell’acqua e del gas. Naturalmente l’UGT, come ogni altra confederazione sindacale, chiede un aumento del salario minimo.
Ma è altrettanto noto che non complicheranno la situazione ai padroni, al loro governo e al loro parlamento con appelli alla mobilitazione e allo sciopero per salari più alti e orari di lavoro più brevi. Né laUGT né le Comisiones Obreras intraprenderanno questa lotta. Rilasceranno dichiarazioni ai media e di tanto in tanto convocheranno mobilitazioni di piazza o picchetti di agitazione, ma non organizzeranno mai una lotta reale e unitaria contro i padroni e i loro governi.
L’inizio della inflazione alla fine del 2021 è coinciso con lo sciopero per il rinnovo del contratto collettivo del settore metallurgico nella provincia di Cadice. Con il secondo tasso di disoccupazione provinciale più alto della Spagna, nella regione andalusa in cui il turismo rappresenta il 74% del PIL, i lavoratori hanno sofferto fin dai tempi delle “riconversioni” per il declino nazionale del settore, con notevole emigrazione, e per l’aumento del lavoro precario legato al subappalto. Nonostante ciò lo sciopero che si è svolto nel novembre 2021, con 10 giorni di mobilitazioni e scontri con la polizia, è stato esemplare per la sua determinazione e decisione nel richiedere migliori condizioni salariali (vedi nel numero 413). La determinazione a lottare nelle strade non ha trovato riscontro nelle trattative, che sono state portate avanti solo dai due principali sindacati del regime, CCOO e UGT, al di fuori delle assemblee e in condizioni di segretezza. Gli accordi finali sono stati approvati dal 65% dei lavoratori, con l’opposizione di altri sindacati minoritari presenti nel settore, Confederación General del Trabajo e Coordinadora de Trabajadores del Metal. Gli aumenti salariali raggiunti hanno mostrato la loro esiguità già a pochi mesi dalla firma dell’accordo a fronte dei dati sull’inflazione.
Più recentemente, lo sciopero dei 20.000 metalmeccanici della Cantabria, iniziato il 1° giugno e durato 20 giorni, ha mostrato nuovamente le caratteristiche di quello della baia di Cadice, ma con maggiori tassi di inflazione e un senso di peggioramento nel futuro più netto rispetto a 7 mesi prima. La volontà di non fermarsi fino al raggiungimento delle richieste, la massiccia partecipazione allo sciopero e il sostegno ricevuto da altri settori dei lavoratori hanno distinto la situazione attuale dal sentimento disfattista degli anni precedenti. Il sostegno ai lavoratori si è dimostrato nella manifestazione del primo giorno di sciopero, che ha riunito circa 8.000 operai, e nell’ultima, di 20.000. Quando gli accordi raggiunti sono stati sottoposti il voto di approvazione è stato lo stesso di Cadice: il 65%. Per i metalmeccanici della Cantabria gli aumenti sono stati maggiori di quelli dei compagni del sud e le clausole di adeguamento futuro al costo della vita migliori. Ma mese dopo mese, inesorabilmente, le statistiche dimostrano che qualsiasi aumento salariale serve solo temporaneamente a fronteggiare un’inflazione in forte crescita, che a giugno ha già raggiunto la doppia cifra.
Tra la fine di giugno e l’inizio di luglio anche i metalmeccanici della Biscaglia (52.000 lavoratori) e della Alava (20.000) – nei paesi Baschi – sono entrati in lotta, con grandi manifestazioni a Bilbao e Vitoria, scioperi “di preavviso” di 3 e 4 giorni e un calendario di scioperi annunciato per il prossimo mese di settembre. Significativo il conflitto alla Mercedes di Alava, dove lavorano 5.000 operai. Dopo diverse settimane di scioperi intermittenti e manifestazioni di massa, CCOO e UGT hanno firmato un preaccordo, al quale però si sono opposti i tre sindacati minoritari presenti nella fabbrica, LAB, ELA ed ESK. Messo ai voti il 13 luglio – sotto il solito ricatto degli investimenti che sarebbero stati bloccati in caso di bocciatura – l’80% dei lavoratori non solo ha respinto gli accordi ma ha anche rifiutato la proposta dei sindacati LAB, ELA ed ESK di non scioperare “in quanto i preaccordi erano già stati firmati” e ha affermato la volontà di continuare lo sciopero.
In assenza di un vero sindacato di classe, ancora imprigionati nei sindacati di regime, i lavoratori in Spagna stanno riprendendo a partecipare ugualmente in massa alle azioni da quelli indette. Di fronte a un improvviso e marcato inasprimento delle condizioni di vita e di lavoro il proletariato è costretto a difendersi.
Anche l’incertezza di un futuro pieno di cattivi presagi fa la sua parte. Con una sincerità che sottolinea la determinazione a condurre la guerra di classe con ogni mezzo, il presidente francese Macron, durante il suo discorso del 14 luglio, ha richiamato alla mente il “sangue, sudore e lacrime” di Churchill, ha invitato alla parsimonia e messo in guardia da un autunno e un inverno prossimi di difficoltà spiegando la necessità di “un’economia di guerra”. E, rivolto allo Stato Maggiore militare e ai suoi fornitori, ha affermato che occorre “un esercito più forte”, un aumento dei bilanci militari, una “mobilitazione generale”, in un clima “di sobrietà”, nella necessità di “lavorare più a lungo”. Minacciosi concetti che ci tolgono ogni dubbio sulla strada da percorrere e sulle sfide che attendono anche il proletariato europeo.
In Venezuela nelle ultime settimane scioperi, fermate parziali e manifestazioni dei lavoratori sono sfuggiti, anche se per breve tempo, al controllo dei sindacati di regime, in particolare della Confederazione Socialista Bolivariana dei Lavoratori (CSBT).
Sebbene anche nel movimento operaio venezuelano domini la confusione politica, vi sono cresciuti l’indignazione e il mal contento, già che ai bassi salari si è aggiunto il mancato compimento di varie piccole migliorie promesse dal governo e dagli industriali, privati e pubblici.
A Ciudad Guayana, nel grande complesso della Siderúrgica del Orinoco – teatro di importanti lotte negli anni passati (vedi nel nostro numero 367) – gli operai hanno fermato il lavoro e svolto assemblee. Di fronte all’apertura di tavoli negoziali inizialmente hanno ripreso il lavoro, ma quando s’è capito che non c’erano risposte alle loro richieste sono nuovamente scesi in sciopero. I capi aziendali, accompagnati dalla Guardia Nazionale e da un rappresentante della Procura, si sono recati negli stabilimenti e hanno stilato una lista nera di 50 lavoratori, minacciandoli di licenziamento se non avessero ripreso il lavoro e contro i quali è stato emesso un mandato di comparizione. Sebbene nel loro reparto la produzione sia stata fatta forzatamente riprendere, altri tre reparti sono rimasti paralizzati.
A ciò si aggiunge la protesta di una buona parte dei lavoratori considerati “in esubero”, che rivendicano il reintegro al lavoro dopo quasi due anni fuori dalla fabbrica con un taglio del 30% del salario, e che si sono riuniti dinanzi ad un cancello dello stabilimento.
Nella Guayana i lavoratori sono in agitazione per rivendicazioni salariali e il mancato rispetto dei contratti collettivi. Questa regione del Venezuela ha una grande area industriale e una significativa concentrazione di lavoratori impegnati, tra le altre attività, nell’estrazione di minerali, nella lavorazione del ferro, dell’acciaio e dell’alluminio. La caratteristica principale delle recenti proteste è che si sono svolte al di fuori, o con uno scarso controllo, da parte dei sindacati di regime e sono state coordinate dalle assemblee.
Il salario minimo in Venezuela copre appena il 5% del costo del paniere alimentare, che alla fine di maggio per una famiglia di 5 persone era di 477 dollari al mese. In molti casi i lavoratori si sono limitati a chiedere solo 130 bolivar al mese, che a giugno rappresentavano meno di 28 dollari. Un piccolo settore dei sindacati e del movimento dei pensionati ha lanciato un appello alla mobilitazione per chiedere un salario equivalente all’importo del paniere di base dei beni.
Un numeroso gruppo di lavoratori della Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA), la compagnia petrolifera statale venezuelana, presso la raffineria “El Palito”, nella regione di Carabobo, è stato mandato a casa anticipando quello che potrebbe diventare un licenziamento in massa. Un’ondata di repressione e terrorismo padronale ha portato ad arresti e licenziamenti di lavoratori accusati di negligenza e di boicottaggio. Tra i lavoratori si sta formando un malcontento che viene contenuto dalla repressione, dalla demagogia politica, dal servilismo e dal tradimento della dirigenza sindacale. Tuttavia, alcuni gruppi di lavoratori sono sfuggiti al controllo dei sindacati e del padronato e hanno compiuto alcune azioni di protesta in cui la partecipazione di pensionati è stata importante. Diversi settori si sono mobilitati anche contro le tabelle salariali imposte dal governo, che hanno finito per portare a una riduzione dei salari soprattutto nel settore pubblico. Ci sono anche molti conflitti sulle violazioni dei contratti collettivi e sui licenziamenti nelle aziende pubbliche e private. Come era prevedibile, l’offensiva antioperaia del governo non ha incontrato alcuna resistenza da parte dei sindacati di regime, che disorganizzano, dividono, smobilitano e disorientano i lavoratori mentre affermano di difenderli.
Cade il governo
Era inevitabile. La crisi economica alla base delle proteste continua, ciò che viene promesso non sono che inconsistenti riforme, cambiamenti nel personale del governo, e poiché il capitalismo nella sua fase agonica non è in grado di risolvere alcunché, la rivolta in Sri Lanka, che coinvolge ormai gran parte della popolazione, ha finito per far cadere il governo.
Il 9 luglio i manifestanti hanno fatto irruzione nella residenza del presidente Gotabaya Rajapaksa, che ne era fuggito. Ma hanno continuato a chiedere le sue dimissioni nell’illusione che una sostituzione del capo dello Stato avrebbe cambiato la situazione. Il presidente ha dichiarato che darà le dimissioni per passare alla direzione dell’”opposizione” parlamentare, quella che ora è chiamata a formare un nuovo governo col blocco di tutti i partiti di opposizione. Inutile dire che è garantita la solidarietà borghese fra i partiti di opposizione e del deposto governo e la loro complicità.
Sapendo che i manifestanti non avrebbero mai accettato un ritorno “alla legge e all’ordine” sotto quel presidente, la borghesia, rappresentata ora dal nuovo “governo di unità nazionale” – cioè il governo di collaborazione di classe che nemmeno nel nome si finge diverso – fa fuori uno dei suoi per mantenere indisturbato il suo potere di classe. Rajapaksa ha solo rifiutato un poco prima di prendere il volo per le Maldive.
I manifestanti sembrano considerarla una vittoria, ma non fermano la rivolta. La casa dell’ex presidente è incendiata e le principali stazioni televisive sono occupate.
Ma lo Stato resta borghese
Altrettanto prevedibile di tutto il corso degli eventi era che la rivolta non avrebbe danneggiato seriamente l’istituzione statale, ben ferma nelle mani della borghesia, con la classe operaia priva di propri organi di lotta, politici ed economici, e rimasta quasi interamente nelle mani dei capi sindacali legati al regime, che hanno fatto del loro meglio per non danneggiare, tanto meno aggredire, le istituzioni statali.
La classe operaia dello Sri Lanka si trova oggi senza gli organi e gli apparati necessari per portare la rivolta fino in fondo. Guidata da partiti borghesi, impantanata nelle illusioni piccolo borghesi sulla possibilità di risolvere la brutale crisi economica in modo riformista attraverso un cambio di governo, non ha attaccato il potere dello Stato, ma solo le sue figure, lasciando l’apparato intatto e pronto a pianificare una controffensiva, con i soliti trucchi per prendere alla sprovvista i manifestanti.
Il primo ministro è stato nominato nuovo presidente il 13 luglio. I militari sono rimasti a guardare mentre i manifestanti si impadronivano del suo ufficio. Emblematico del rispetto dei manifestanti nei confronti delle istituzioni statali è il fatto che, fraternizzando con soldati e poliziotti, inviati per osservare la situazione, nessun tentativo è stato fatto per invitare i soldati ad ammutinarsi.
Il movimento non ha mostrato la risolutezza della rivolta proletaria kazaka d’inizio anno: prima scontri poi fraternizzazione con la polizia, che cede e i lavoratori insurrezionali ottengono armi e armature. Poi arriva l’esercito, ed è la stessa cosa, gli scioperanti fraternizzano con i soldati, travolgendo l’apparato della repressione e costringendo la borghesia kazaka a chiedere aiuto dall’estero.
In Sri Lanka tutto questo non è avvenuto. Lasciare l’esercito intatto mentre cerca il modo migliore per “ristabilire l’ordine pubblico” significa ovviamente lasciare spazio alla repressione.
L’opposizione “democratica”, anche se non è alla testa del movimento, lo controlla facilmente solo facendo mancare direttive politiche, il che rende facile portarlo su indirizzi riformistici. Solo quando l’ufficio del primo ministro viene preso d’assalto dalla folla, l’opposizione ne chiede le dimissioni.
I militari e i vertici della polizia chiedono ai politici di stemperare la situazione e sconsigliano di far sparare sui manifestanti. Il nuovo governo riesce a mantenere l’unità nazionale minacciando la grande maggioranza della popolazione, pur senza sparare! Il nuovo presidente, Ranil Wickremesinghe, un borghese altrettanto squallido di Rajapaksa, lo stesso giorno annuncia la formazione di un comitato composto dai comandanti della polizia e dell’esercito per “ristabilire la pace e l’ordine”. Subito dopo i poliziotti attaccano i manifestanti fuori dal palazzo del Parlamento con i gas lacrimogeni.
Una borghesia divisa
Ma non tutto va liscio per la classe dominante, divisa su come gestire la crisi.
Già il 13 luglio l’ex comandante militare e feldmaresciallo diventato vice Sarath Fonseka invita i comandanti dell’esercito a non applicare le istruzioni impartite da Wickremesinghe, non riconoscendolo come presidente ad interim. I dirigenti del partito in una riunione d’emergenza chiedono le dimissioni del primo ministro.
Wickremesinghe saggiamente accetta, ma cerca di unire la borghesia invitando a scegliere un nome gradito sia dal governo sia dall’opposizione.
Rajapaksa, alle Maldive, nel frattempo non esce dal gioco, non si dimette dalla carica ma nomina Wickremesinghe presidente in carica. Questo decreta il coprifuoco in tutta l’isola. Il giorno dopo l’esercito è autorizzato a “usare la forza necessaria per evitare la distruzione di proprietà e vite umane”. Solo il giorno prima affermavano che non avrebbero sparato!
Ma unita contro la rivolta
La borghesia si compiace che i manifestanti siano stati rispettosi della legge e abbiano accettato di abbandonare gli edifici occupati. Chiaramente non si è trattato di un’insurrezione.
Rajapaksa si trasferisce dalle Maldive a Singapore ed invia la lettera di dimissioni, che secondo lo speaker del Parlamento sarà resa “ufficiale” quando ne sarà verificata l’autenticità.
Il movimento è attestato in un atteggiamento riformista, preda della illusione che basti cambiare il governo per cambiare le cose, che invece possono essere cambiate solo rovesciando il potere di classe. Wickremesinghe si candida alla presidenza mentre il parlamento cerca un altro presidente. Le sue prime “riforme” sono del tutto simboliche: il divieto di usare “Sua Eccellenza” e la bandiera presidenziale. Nella crisi di sovrapproduzione il capitalismo non è in grado di soddisfare le richieste del movimento. Lo potrebbe la rivoluzione proletaria, che può essere diretta solo dal partito comunista, tragicamente assente anche nel movimento srilankese.
Il 22 giugno lo Sri Lanka si ritrova con un nuovo presidente, Ranil Wickremesinghe, e un nuovo primo ministro, Dinesh Gunawardena, capo del Mahajana Eksath Peramuna, o Fronte Unito del Popolo. Il nuovo governo mostra subito al “popolo” che cos’è il socialismo democratico dando il via alla repressione, con la polizia che sgombera e picchia un accampamento di manifestanti a Colombo, la capitale.
Gli imperialismi, per ora, stanno a guardare
Lo Sri Lanka, tradizionalmente sotto l’influenza dell’India, è in una posizione strategica contesa tra l’India e la Cina, diventata il primo investitore straniero e partner commerciale di Colombo e vede i porti dell’isola come un pezzo chiave nel gioco di scacchi imperialista della Via della Seta. La Cina ha messo in atto il noto trucco di elargire investimenti e prestiti per infrastrutture che si sa benissimo che il governo di qualsiasi nazione “in via di sviluppo” non sarà in grado di ripagare, se non in vaste concessioni delle infrastrutture in questione. Nello Sri Lanka quella per 99 anni a un’impresa cinese del 70% del porto di Hambantota.
L’imperialismo indiano non ne è molto contento, per la propria sicurezza, minacciata dal crescente potere che Pechino sta acquisendo nella regione. L’India, come certamente anche gli Stati Uniti, teme che lo Sri Lanka possa ospitare in futuro anche una base militare della marina cinese. Il ritmo vertiginoso dello sviluppo dell’imperialismo cinese, nemico dell’India, negli ultimi anni ha stretto legami anche con il Pakistan. Si aggiunge la questione etnica: l’India inizialmente sostenne le Tigri di Liberazione Tamil nella guerra civile che imperversò dal 1983 al 2009. Il timore era appunto che l’isola sfuggisse al suo esclusivo controllo. Si giunse ad un accordo con il governo nel 1987, impiegando le proprie forze in loco per garantire l’attuazione dell’accordo, osteggiato dalle Tigri.
L’attuale rivolta popolare, priva di contenuto rivoluzionario, sebbene antiborghese, si trova utilizzata da diverse parti del gioco imperialista. La borghesia indiana vuole approfittare della crisi per riguadagnare il terreno perduto nei confronti della Cina. Mentre la Repubblica Popolare Cinese non ha prestato più alcun aiuto finanziario ai fratelli borghesi dello Sri Lanka, l’India avrebbe offerto un sostegno di 4 miliardi di dollari “senza condizioni”.
Da mandataria dell’imperialismo americano, la borghesia indiana sta anche sostenendo che lo Sri Lanka debba essere “aiutato” dal Fondo Monetario Internazionale, cercando cioè di assoggettarlo al capitalismo americano, e quindi al proprio. La Cina non lo apprezzerebbe di certo e ha opportunamente dichiarato di volere che lo Sri Lanka rimanga “indipendente”, cioè non nel campo del nemico.
Senza essere capeggiata dal proletariato, tramite la direzione comunista, quando la classe operaia, con i suoi organi, il più importante dei quali è il suo partito di classe, non può prendere l’iniziativa politica, è probabile che la rivolta popolare dello Sri Lanka sia sconfitta.
Ma la stampa borghese se ne è ugualmente interessata, una delle tante in corso nel mondo, influenzate in gran parte e aggravate dal conflitto imperialista in Ucraina. La borghesia sta iniziando a temere gli effetti che la guerra potrebbe avere sui conflitti sociali in tutto il mondo.
The “Intercept” scrive: «Quando i manifestanti hanno preso d’assalto gli edifici governativi in Sri Lanka abbiamo assistito non tanto al culmine di un processo rivoluzionario quanto al collasso di un Paese in via di sviluppo sotto stress economico. I cittadini dello Sri Lanka hanno dovuto far fronte per mesi all’aumento dei prezzi di alimentari ed energia. Una volta che il governo ha esaurito le riserve di valuta estera necessarie per importare beni di prima necessità come alimenti e gas, la pressione è diventata troppo forte. Il partito al governo ha gestito male l’economia per anni, creando tensioni che si sono esacerbate con la pandemia di Covid19. A spingere lo Sri Lanka oltre il limite, però, sono state le onde d’urto economiche provocate dalla guerra nella lontana Ucraina. Tutto lascia pensare che non sarà l’ultimo Paese a cadere. Il mondo sta affrontando una tempesta perfetta di aumento dei prezzi dell’energia, interruzioni della catena di approvvigionamento e conflitti armati, il tutto aggravato dagli effetti persistenti della pandemia. Nonostante i milioni di morti causati dalla malattia, il mondo è riuscito a evitare le peggiori crisi politiche che si temevano quando il Covid ha colpito per la prima volta. Ora sembra che quei timori siano stati solo rimandati».
È chiaro che la lotta in Sri Lanka, come sempre nel capitalismo, non è il risultato solo di una “cattiva gestione economica”, di un governo incompetente o altro, ma degli sconvolgimenti del mercato mondiale, il vortice furioso della follia mercantile in cui tutto è collegato e dove i capi dei governi sono impotenti di fronte alla crisi che spazza il mondo.
Dove sta andando lo Sri Lanka
Nessuna insurrezione proletaria può riuscire senza il partito comunista rivoluzionario. I lavoratori dello Sri Lanka non sono i protagonisti della lotta in corso, avendo lasciato questo ruolo alle classi medie.
Poiché il regime non è affatto in grado di soddisfare le richieste dei manifestanti, l’unica scelta possibile, nel caso in cui le proteste non si plachino da sole, cosa improbabile, è reprimerle violentemente, affogarle nel sangue. Il che le potrebbe rendere ancora più radicali.
È solo attraverso la difesa dei salari, cioè attraverso le proprie lotte economiche, che i lavoratori che entrano in quest’epoca di crisi, precedente la terza guerra mondiale, possono difendere le loro condizioni di vita dalla caduta nella miseria mortale.
Quando la lotta economica non basta più, quando diventa del tutto impossibile strappare al capitalismo perfino un salario di sussistenza, l’unica soluzione è quella politica: l’insurrezione rivoluzionaria per il rovesciamento del regime capitalistico, che può essere condotta al successo solo dal vero partito comunista.
L’ondata di scioperi che sta investendo il Regno Unito non mostra di attenuarsi. Con un’inflazione ormai superiore al10% e con una riduzione del 3% dei salari reali (la più veloce mai registrata), i sindacati di regime affiliati al Trade Union Congress (TUC) stanno lottando per contenere le mobilitazioni.
Oltre agli scioperi ufficiali, che seguono il lento procedimento fatto di consultazioni, votazioni e negoziati, si sono verificati anche diversi scioperi selvaggi.
Nelle ferrovie
I padroni delle ferrovie stanno cercando di imporre aumenti salariali ben al di sotto del tasso di inflazione, oltre a licenziamenti e cambiamenti nelle condizioni di lavoro. Tranne i macchinisti, i ferrovieri, rappresentati dal sindacato Rail, Maritime and Transport (RMT) e dalla Transport Salaried Staffs Association (TSSA), hanno partecipato a una serie di scioperi di un giorno. Quelli nazionali sono stati giovedì 18 e sabato 20 agosto; venerdì 19 quelli a Londra, che hanno interessato metropolitana, treni locali e autobus. Invece i macchinisti iscritti al sindacato ASLEF hanno scioperato per 24 ore sabato 13.
Nelle poste
Più di 100.000 lavoratori della Royal Mail appartenenti al Communication Workers Union (CWU) hanno votato per lo sciopero il 26 e 31 agosto e l’8 e 9 settembre. 50.000 lavoratori CWU del gigante delle telecomunicazioni BT hanno votato per lo sciopero il 30 e 31 agosto.
I portuali
Essendo un’economia insulare, il Regno Unito è particolarmente vulnerabile agli scioperi nei porti.
Circa 1.900 lavoratori di Felixstowe, che movimenta il 40% dei container britannici, soprattutto beni di consumo e conserve alimentari, hanno votato per otto giorni di sciopero domenica 21 agosto. I portuali, iscritti al sindacato Unite, hanno rifiutato un’offerta del 7% più un pagamento una tantum di 500 sterline. È dal 1989 che non si verifica uno sciopero al porto di Felixstowe, ora di proprietà di un gruppo di Hong Kong. Anche 500 portuali di Liverpool hanno votato per lo sciopero.
Gli avvocati
L’aumento del costo della vita colpisce anche i cosiddetti liberi professionisti, costretti dall’attuale crisi ad azioni sindacali. Come scrissero Marx ed Engels nel Manifesto, «la borghesia ha spogliato della sua aureola ogni occupazione fino ad allora onorata e guardata con riverenza. Ha trasformato il medico, l’avvocato, il sacerdote, il poeta, l’uomo di scienza in suoi lavoratori salariati».
Più di 6.000 udienze sono state annullate tra il 27 giugno e il 5 agosto per lo sciopero dei penalisti. I giovani avvocati lavorano molte ore per compensi minimi, talvolta addirittura inferiori al salario minimo. Una seconda settimana di sciopero è iniziata il 16 agosto.
I lavoratori degli aeroporti
Continuano le agitazioni negli aeroporti, dove i padroni hanno cercato di sfruttare la pandemia per peggiorare le retribuzioni e le condizioni. I membri di Unite e GMB a Heathrow, alle dipendenze di British Airways, hanno votato per lo sciopero dopo che non è stato restituito il taglio del 10% dei salari imposto durante la pandemia. Lo sciopero è stato revocato all’ultimo minuto quando i sindacati hanno proposto un’offerta salariale dell’8%.
Il personale addetto al rifornimento ha accettato un’offerta simile. La maggior parte degli aeroporti britannici è a corto di personale e molti stanno riducendo i voli.
Scuola e sanità
La collera sta per esplodere nella scuola e nella sanità pubblica, entrambi gravemente sottofinanziati mentre il governo, sebbene investito dalla crisi del debito, promette tagli alle tasse. Insieme le due categorie impiegano circa due milioni di lavoratori, molti dei quali hanno votato per lo sciopero, quando ne hanno avuto la possibilità. Infatti i sindacati stanno ritardando questo processo di "consultazione". Al momento in cui scriviamo il sindacato degli insegnanti NASUWT ha convocato una votazione per uno sciopero se l’offerta dei datori di lavoro del 5% non sarà aumentata in modo sostanziale. Altri capi sindacali stanno scrivendo lettere lacrimose ai ministri per implorare ascolto!
Nel Servizio Sanitario Nazionale sono previsti scioperi di medici e infermieri per la fine dell’anno.
Nel pubblico impiego
Il 26 settembre il Public and Commercial Services Union (PCS) ha in programma uno sciopero nazionale su stipendi, pensioni, occupazione e condizioni di licenziamento. Ciò fa seguito a un’offerta salariale irrisoria del 2% e all’annuncio di 91.000 tagli ai posti di lavoro: un quinto di tutto il servizio pubblico. E come se non bastasse, il governo propone di tagliare gli assegni di licenziamento di circa il 25,9%. Un paio di anni fa il sindacato respinse la riduzione del 33% della forza lavoro con un ricorso giudiziario. Attualmente la dirigenza sindacale si limita a colloqui con il governo per «ritardare la decisione fino all’insediamento del nuovo primo ministro»... Il voto per lo sciopero è obbligatorio, prima che possa essere di appoggio a qualsiasi trattativa ed estendere la solidarietà ad altre categorie, soprattutto nel settore pubblico, tutte minacciate da ulteriori massicci attacchi.
Gli scioperi “non ufficiali”
Il malumore dei lavoratori dell’energia è montato perché, da un lato le aziende stanno realizzando profitti record, dall’altro il prezzo al dettaglio del gas e dell’elettricità è salito alle stelle, principale fattore questo del crollo dei salari reali.
I lavoratori in subappalto di questi settori sono coperti da un accordo con i sindacati Unite e GMB che garantisce un aumento salariale di appena il 2,5% nel gennaio 2022 e di un altro 2,5% nel gennaio2023. La Banca d’Inghilterra stima che l’inflazione raggiungerà un picco del 13,3%. Una serie di azioni selvagge di questi lavoratori, sindacalizzati e non, è stata meno riportata dalla stampa borghese. Ma sono la prova che le gerarchie sindacali ufficiali stanno lottando per mantenere le vertenze sotto il loro controllo.
Alla raffineria di petrolio di Grangemouth, vicino a Falkirk, all’inizio di agosto circa 250 lavoratori hanno bloccato le strade di accesso al sito. Azioni simili hanno avuto luogo presso la raffineria di Fawley, nell’Hampshire, e stanno partecipando anche i lavoratori della raffineria Valero nel Pembrokeshire.
Centinaia di lavoratori, nominalmente rappresentati dal sindacato Unite, hanno scioperato alla Drax Power Station, vicino a Selby, nello Yorkshire. L’impianto genera circa il 6% della capacità elettrica del Regno Unito.
Sciopero spontaneo alla Amazon
Infine, c’è stata una serie di scioperi nei centri di distribuzione di Amazon, tra cui quelli di Swindon e Tilbury. I lavoratori si sono infuriati quando l’azienda ha fatto un’offerta irrisoria di un aumento di 35 pence (40 centesimi di euro) della tariffa oraria. Un operaio ha dichiarato: «In reazione alla notizia che Amazon ci avrebbe dato solo 35 pence molti mercoledì pomeriggio hanno smesso di lavorare. Non avevamo previsto di scioperare ma la notizia ha incoraggiato molti a fare qualcosa. Credo che abbiano aderito in ogni reparto, con almeno 200 lavoratori coinvolti. Il turno successivo, quello notturno, si è unito a noi con uno sciopero di massa».
Amazon impone al personale condizioni di lavoro disumane. Al momento in cui scriviamo, i lavoratori di Amazon stanno continuando a intraprendere scioperi bianchi, lavorando al proprio ritmo, non a quello dettato dai loro capi.
Unendo e generalizzando queste lotte, i lavoratori britannici avrebbero l’opportunità non solo di rovesciare l’attuale governo, ma anche di estendere il potere e la fiducia nella loro classe. Ma questa è l’ultima cosa che il TUC e i sindacati affiliati vogliono. Persino i capi sindacali più "militanti", come Mick Lynch dell’RMT, che non è affiliato né al TUC né al Partito Laburista, nemmeno accennano infatti ad uno sciopero generale.
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La decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, che autorizza l’interdizione dell’aborto nei singoli Stati, è un atto della guerra e della dittatura borghese contro l’intera classe operaia, mascherata sotto l’ingannevole apparenza della democrazia. È una reazione alla natura tumultuosa e convulsa della società borghese, sempre sotto la minaccia e il terrore che la riproduzione del capitale si arresti. La borghesia, come ogni organismo morente, non sempre si comporta razionalmente ma ha delle istintive reazioni di difesa: sempre comunque contro le donne.
Dietro la facciata della difesa dei “valori familiari tradizionali”, la sua vera motivazione risiede nella diminuzione del tasso di profitto e nell’aumento del costo dei salari causati dalla carenza di manodopera. Per la classe capitalista, i lavoratori non sono altro che disponibilità di forza lavoro, da cui ottenere il massimo profitto possibile. L’intera questione del controllo delle nascite è ridotta ai calcoli disumani e dispotici della domanda e dell’offerta!
La possibilità per il proletariato di abortire torna ad essere revocata mentre il capitalismo affonda nella sua fase moribonda. Oggi – nel mezzo di una prolungata crisi di sovrapproduzione, aggravata nel 2008, da quando l’intero capitalismo mondiale è artificialmente sostenuto dalle banche centrali e ci sta portando verso il collasso e una terza guerra mondiale – di cosa avrà bisogno la borghesia se non di altra carne umana da sacrificare sull’altare del profitto? E questo è ciò che chiamano “libertà”! È la loro libertà di classe, la dittatura democratica della borghesia. È la loro libertà di sfruttare e distruggere, di spezzare il proletariato con il superlavoro e poi mandarlo al macello.
I comunisti hanno sempre sostenuto l’aborto. La Comune di Parigi del 1871, la prima vittoria del proletariato mondiale, ha garantito l’accesso all’aborto insieme ad altri diritti sessuali e riproduttivi. La Rivoluzione bolscevica del 1917 ha dato alla Russia il sistema di accesso all’aborto più libero della storia, che l’Internazionale Comunista prometteva di estendere a tutto il mondo. Dal 1920 al 1936 in Russia l’aborto è stato liberamente disponibile in ambito sanitario per tutte le donne.
In quell’anno la marea della controrivoluzione staliniana, che aveva ucciso il partito comunista mondiale e data piena libertà al capitalismo sul suolo russo, ripristinò il divieto di aborto, insieme ad altre restrizioni alla libertà sessuale risalenti al periodo zarista. Il motivo era un programma di accumulazione brutale e illimitata del capitale. Ciò non impedisce oggi agli stalinisti, che ancora si spacciano per comunisti, di piangere lacrime di coccodrillo per le attuali restrizioni all’aborto!
Nessuno Stato borghese di oggi in nessun paese del mondo ha concesso alle donne il diritto all’aborto della Comune di Parigi e della Russia comunista: anche dove non è del tutto vietato rimane aleatorio, spesso di fatto limitato ai ricchi, e anche dove disponibile, è circondato di ignoranza e ostacoli.
Non diverso può essere l’aborto sotto il regime borghese. La riproduzione degli uomini è solo un mezzo per il fine di maggiori profitti!
L’opposizione borghese all’aborto, che chiamano “diritto alla vita”, ha un chiaro obiettivo: le gravidanze forzate immiseriscono ulteriormente il proletariato, aggravano la disuguaglianza di genere e assicurano una maggiore disponibilità di braccia da sfruttare in futuro.
Per contro una parte della borghesia sostiene l’aborto, solo per dare al proletariato femminile la “libertà” di farsi meglio sfruttare in ogni stagione della vita, per farle precipitare senza interruzioni nell’inferno del posto di lavoro.
Mentre la decisione della Corte Suprema dovrebbe dimostrare quanto poco significhino in pratica le promesse della democrazia, per i “liberal” e la sinistra piccolo borghese la minaccia di restrizioni all’aborto diviene uno strumento per ingannare il proletariato e farlo partecipe delle loro illusioni democratiche. Vediamo così come l’intera canea borghese sull’aborto serva a tenere in catene il proletariato, in balia della volontà della classe proprietaria.
In realtà, la concessione dei diritti politici all’interno del regime borghese, il voto, ecc. – una illusione diffusa dall’attivismo liberale e finto socialista, che si faceva forza della precedente sentenza Roe contro Wade – non ha potuto impedire la decisione odierna e non assicurerà mai alle lavoratrici la possibilità di abortire in futuro.
I comunisti riconoscono che i pretesi “diritti” sono una finzione borghese per mantenere i lavoratori nell’inganno dell’unità nazionale. Non basta chiedere “libertà” a uno Stato che esiste solo per opprimerci! È il momento dell’azione combattiva di classe, non del voto o delle petizioni. Occorre lottare per l’unità d’azione della classe operaia contro l’ordine capitalista! Occorre che i lavoratori si liberino delle dirigenze sindacali collaborazioniste che li bloccano! Occorre una lotta di classe senza compromessi! Solo il comunismo può garantire la libertà riproduttiva e sessuale.
Un’altra recente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha suscitato la consueta indignazione per i diritti degli americani “alla vita e alla libertà” è quella a favore della New York State Rifle & Pistol Assn. Inc. contro la polizia di New York: ha confermato “incostituzionale” limitare il porto d’armi ai privati. Negli ultimi anni negli Stati Uniti c’è stata un’ondata di sparatorie di massa; uomini maschi, per lo più bianchi, si sentono così frustrati per le condizioni della loro vita da aggredire il prossimo, spesso senza alcun apparente motivo. Naturalmente noi comunisti né chiediamo, come i pacifisti, che lo Stato borghese limiti la vendita delle armi, feticcio “oggetto di potere”, né, al contrario, che continui a permetterlo, perché con le armi leggere “liberi cittadini” potrebbero arrivare ad “opporsi allo Stato”. La borghesia rivoluzionaria negò il monopolio delle armi ai nobili e ai loro bravi per affermare l’armamento del popolo, dei cittadini. Questo si rivelò presto essere un nuovo monopolio di classe: l’uso delle armi era riservato allo Stato e ai borghesi in difesa delle loro proprietà. Di fatto nella maggior parte del mondo per legge ai proletari è severamente vietato possedere qualsiasi tipo di arma, come accadeva per i servi della gleba nella società feudale e per gli schiavi in quella antica. Anche in guerra i soldati ricevono le munizioni individuali solo sulla linea del fuoco. Lo Stato borghese è un corpo separato di uomini armati al di sopra della società.
Nella Costituzione del XVIII secolo degli Stati Uniti la proclamazione del diritto individuale di portare armi si spiega in un paese allora scarsamente popolato, con un apparato statale distante e ancora in via di formazione, e con le ragioni pratiche della guerra di popolo per l’indipendenza. Ma oggi le discussioni giuridiche e costituzionali sull’intento originale del famoso “emendamento” si riducono a una ridicola rappresentazione in costume, con i giudici della Corte Suprema che come negromanti fingono di evocare gli spiriti degli antenati.
Di fatto, nonostante l’apparente “eccezione” statunitense, che tutela l’armamento di ogni cittadino, da quel “diritto” sono esclusi i proletari, seppure attraverso mezzi diversi dal divieto legale, per il costo delle armi da fuoco, al di fuori della loro portata, e con la criminalizzazione della loro esistenza quotidiana, libero oggetto di caccia delle superarmate forze dello Stato.
Nelle società di classe ogni questione di principio suona falsa. Nel capitalismo l’unico principio è il profitto e l’unica questione che si pone è come ottenerlo. Vendere Bibbie? Va bene. Gli oppioidi nelle farmacie? Molto bene. Armi da guerra? Meglio ancora! Basta infilare le giuste promozioni nei film destinati al consumo di massa e pagare quanto chiesto dai “rappresentanti del popolo” che fanno le leggi. Il capitale ogni giorno manda a morire migliaia di proletari in fabbrica e sui campi di battaglia. Poco si duole se gli uomini sono spinti alla follia e all’omicidio.
La classe operaia deve, ovviamente, riarmarsi. Ma non può farlo individualmente, come singoli cittadini. Ogni proletario da solo, isolato, anche se col fucile in braccio, non può pensare e agire che come un piccolo borghese. Il proletariato deve riarmarsi come classe, nella lotta tra le classi e nella organizzazione sindacale di classe. E questo riarmo è incompleto senza il riconoscersi nel partito comunista. Sarà questo un partito armato prima di tutto della scienza e del programma storico della emancipazione di classe. Una classe senza il suo partito è in ogni caso disarmata, divisa e impotente.
Solo con il comunismo possiamo liberarci dalle fobie e dalle deviazioni della solitudine e dell’individualismo della società borghese: sotto la guida del suo partito, il proletariato potrà liberarsi da tutto questo.
La
moltiplicazione dei segni di valore
Nel mondo capitalistico sono in circolo, nel sistema finanziario e commerciale, mediati da quello bancario, molte tipologie di “monete”, monete in senso lato, utilizzate sia come sistema di pagamento sia come riserva di valore. Così tante che gli analisti monetari per controllarne massa e movimenti hanno pensato di catalogarle in una gerarchia secondo il grado di “materialità” e liquidabilità, cioè convertibilità in moneta bancaria, quella spendibile subito e senz’altro. Quello della liquidità è il concetto cardine di questa classificazione.
Questi raggruppamenti progressivi sono caratterizzati dalla lettera “M” (money) seguita da un numero. M0 è la moneta bancaria propriamente detta insieme alle riserve bancarie presso la Banca Centrale. M1 raggruppa i depositi in conto corrente, bancari e postali, insieme a M0. M2 è costituito da M0 più M1 più i depositi a scadenza prestabilita e i depositi rimborsabili a breve preavviso; M3, oltre agli altri tre aggregati, conteggia nella sua massa anche le quote o partecipazioni nei fondi comuni monetari, le operazioni di pronto contro termine e le obbligazioni bancarie.
Tutta questa massa di circolante e di riserva ripete più e più volte lo stesso valore di base, conteggiato nelle diverse forme che assume nel ciclo finanziario: ad esempio le obbligazioni bancarie vengono emesse nel circuito a fronte di un corrispondente esborso, così come tutte le altre nei diversi aggregati. Questa enorme massa crescente ripete quindi tanta parte iniziale della liquidità, in un gioco di moltiplicazioni di valore del tutto fittizio.
Ma questo non è un problema contabile, quel che gli analisti intendono valutare è la massa complessiva, e le sue variazioni, anche se i valori intrinsecamente sono ripetuti più volte nelle differenti forme.
Chi emette e garantisce la moneta
“La legge punisce i fabbricanti e gli spacciatori di moneta falsa”. Questo in altri tempi era scritto sulle banconote stampate in Italia. Frase da tenere a mente per capire come e perché quelle entità del tutto immateriali che hanno il nome di criptomonete necessitano di una complessa struttura di protezione criptografica, nella fase di creazione e scambio, cioè nel loro movimento in un circuito parallelo a quello legale-statale.
L’affermazione che ogni forma di emissione di segni di valore per essere legale debba provenire necessariamente da uno Stato non è vera; quanto emesso da organi dello Stato è soggetto alle sue regole e leggi, ma non è esclusa la possibilità di altri circuiti al di fuori di quello. Che poi ogni Stato voglia disciplinare questi circuiti alternativi, o intenda entrarvi per le possibilità speculative che offrono, è altra faccenda. A volte le autorità monetarie preferiscono prendere tempo e guardare come la cosa si sviluppa, e quanto se ne possa trarre di beneficio in termini di tasse, e proventi vari.
I segni di valore che sono emessi tanto dagli organi dello Stato che dalle altre grandi entità finanziarie sono in certo modo garantiti per la loro esistenza e per la loro circolazione dalle leggi, da un apparato poliziesco che non consente emissioni di valuta “falsa” fuori dai canali previsti e certificati. Ogni emissione di banconote al di fuori di questi canali dello Stato o di un’autorità superiore – ad esempio la Banca Centrale Europea, che rappresenta una aggregazione di Stati diversi – è truffaldina e perseguita dalla legge.
Malgrado tutte queste forme siano emesse anche da altre entità che non gli Stati con i loro organismi preposti, ma da un sistema finanziario spesso opaco, spesso truffaldino, tutte soggiacciono, in certo qual modo, ad un controllo centralizzato e, nei limiti della impossibile pianificazione capitalistica, ad operazioni più o meno (nei periodi di crisi, sempre meno) riuscite di controllo e gestione.
È possibile lo scambio di valori monetari senza che le istanze di controllo ne prendano atto, per quanti accettino questa emissione, quanti entrino in questa modalità di scambio, quanti abbiano fiducia in un meccanismo fuori da ogni controllo legale, è altra faccenda. La cosiddetta “finanza creativa” opera una illusoria moltiplicazione di segni di valore, con operazioni che sono intrinsecamente scommesse su eventi finanziari, senza alcuna reale sostanza e correlazione con un processo economico di creazione di valore. Per dare un esempio, e ci basta qui citare dei nomi senza alcuna spiegazione, ETF, fondi indicizzati, derivati, i CDF a leva, che inducono perdite enormi agli ingenui che credono ai facili guadagni e gli altri strumenti raggruppati sotto quella voce, sono la dimostrazione palese di un sistema finanziario-economico oltre ogni ragionevolezza.
In questo marasma di carta straccia, ci possono stare anche le criptomonete, che di carta non sono.
Le Blockchain: nulla di nuovo
Il denaro, nella sua forma immateriale di scrittura contabile, passa da un conto a un altro e la transazione è registrata su un libro mastro detenuto dalla banca. Il movimento è garantito e certificato da un insieme di regole rigide e precise, e si svolge in un tempo disciplinato dalle varie fasi di registrazione, tempo che può essere anche abbastanza lungo.
Questo meccanismo legale è in fondo lo stesso anche per tutte le operazioni con le ormai onnipresenti carte di debito o di credito, con i sistemi bancomat di erogazione denaro contante, coi tanti sistemi di pagamento digitale. Tutto alla fine è ricondotto ad un sistema di transazioni che ha per agente ultimo il sistema bancario.
Anche le transazioni del sistema finanziario, con le borse telematiche, i sistemi di regolamento tra le parti, le stanze di compensazione, le custodie dei detentori dei titoli, hanno in fondo al loro operare le registrazioni del sistema bancario. Che è quello che fornisce la “certezza” dell’intero ciclo.
Per esemplificare facciamo ricorso a una situazione che è comunissima nel quotidiano economico. Un conto corrente bancario, la forma più comune di struttura per l’utilizzo quotidiano del contante, è in ultima analisi solo una catena di registrazioni contabili di operazioni di accredito e di addebito su quel conto, che sono evidentemente garantite dalla contraffazione (questo solo significa Blockchain). Sono registrate da qualche parte negli archivi della banca, e il saldo del conto è la somma algebrica dei versamenti e dei prelievi.
Non esiste in alcun forziere della banca l’equivalente monetario materiale di quanto registrato nei suoi conti. Di fatto tutto il contante, quello detenuto nei forzieri e quello circolante nel sistema economico, è una parte infima di quel che è in deposito nei conti. Questa stessa catena immateriale, di pura registrazione, cartacea un tempo ora informatica, è la descrizione di eventi finanziari. Ma è una catena in mano alle singole banche del sistema bancario, che nasce e si conserva internamente nella contabilità della banca.
Questa è la grande forza e debolezza del meccanismo monetario, in gran parte così smaterializzato, ridotto a mera registrazione contabile. Forza perché ne può essere emesso ad libitum, secondo la necessità, con il discreto controllo delle banche centrali; debolezza perché va da sé che in svolte critiche, quando sia, o si ritenga necessario da parte dei depositanti, trasformare in materialità, cioè in contanti, tutto il contenuto dei conti, si può determinare la cosiddetta “corsa agli sportelli” e l’impossibilità di trasformare tutti quei segni contabili in moneta contante provoca il collasso della banca. Situazione di inaudita gravità per il sistema finanziario, che al minimo sentore di rischio interviene con estrema durezza, bloccando conti e prelievi ope legis. Una garanzia, anche se debole e temporanea. Ma comunque, garanzia.
La moneta elettronica
Invece la registrazione delle transazioni di emissione e scambio delle criptomonete non è disciplinata da alcuna autorità, è priva di ogni materialità e solo garantita da una cifra, risultato di un sofisticato calcolo matematico, un “algoritmo”.
Tutto il processo si determina in uno spazio virtuale, nella rete internet, nel quale nessuna autorità, si dice, potrebbe intervenire “a portare ordine”. È evidente che questa idea di totale anarchismo finanziario è una semplice utopia e il meccanismo non può funzionare senza che comunque un’istanza superiore operi un controllo in una forma rigorosamente organizzata. Che non è quello di uno Stato, con tutti i suoi apparati, ma esiste. Ed è interno al sistema stesso di produzione e di circolazione del segno di valore.
Il libro mastro delle transazioni è protetto dalla cifratura ed è pubblico, su internet. Le criptomonete – ce ne sono migliaia di tipi – si basano su questo principio di registro aperto e pubblico. Ogni transazione è inserita nella Blockchain, che poi viene diffusa su tutta la rete dei nodi, finché ogni nodo ne abbia una copia valida. A questo punto rimane in modo non cancellabile nella rete. Quindi, ogni rete di criptomonete non è, alla fine, quella struttura anarchica e libera di cui si favoleggia, ma una forma organizzata e rigida.
La crescita esponenziale di questo sistema, la moltiplicazione di tipologie e relative catene, è un “naturale” frutto del sistema della finanza giunto al suo più alto scopo di frode e ladrocinio. Moltissime durano l’espace d’un matin, e spariscono, non prima di avere prosciugato le finanze dei gonzi che si sono fatti irretire dalla straordinaria novità. Le più note, sulle quali insistono ingenti capitali speculativi, resistono molto meglio sul mercato, garantite in certo qual modo dalle dimensioni degli investimenti.
Ogni tipo di criptomoneta, e ce ne sono migliaia, opera in un suo specifico spazio virtuale, cioè in una rete di computer accessibili in internet. I possessori di questo tipo di valuta dispongono di una chiave personale che permette loro lo scambio dei bitcoin. Si acquistano in tre modi, una volta registrati, quindi in possesso della chiave: vendendo un bene o un servizio e facendosi pagare in bitcoin; accedendo a qualche sito di cambio e scambiare moneta tradizionale con criptomoneta; partecipando alla sua prima emissione. Per ogni trasferimento da un utente a un altro il sito che ha validato l’operazione ottiene una commissione, pagata dal cedente.
Qualche nome di piattaforme? Tanto per citarne alcune, eToro, Binance, Coin- base, Kraken, Crypto.com, Coinmama, Bisq, Gemini, Trade Station e Robinhood, molte delle quali oltretutto quotate in borsa, e non in criptomonete. Queste piattaforme di scambio consentono molte altre operazioni finanziarie speculative ad alto rischio, connesse anche con le criptomonete che trattano.
I titolari delle piattaforme guadagnano le provvigioni. I possessori di bitcoin, curvi sulla tastiera di un computer o di un semplice smartphone, sperano di moltiplicare i propri risparmi investendo nel gioco di specchi della finanza, la “gente nova e i sùbiti guadagni”. I grandi speculatori tramite le piattaforme di cambio operano massicce compre-vendite e, di solito, si appropriano degli investimenti degli utenti minori.
L’algoritmo di generazione della cifratura è così complesso da richiedere enormi batterie di computer. Man mano che i bitcoins vengono generati, inoltre, la soluzione dell’algoritmo richiede sempre maggior dispendio di potenza di calcolo. Questa ricerca di sempre nuove chiavi, detto “mining”, richiede una quantità spropositata di energia elettrica per far funzionare elaboratori in continuità 24 ore al giorno, con costi crescenti.
Che fine faranno le criptomonete?
Qual è, dal punto di vista finanziario, l’effettiva consistenza delle criptomonete? Il mondo della finanza è avido di novità su cui poter imbastire affari di qualunque genere, che raccolgano soldi per ogni tipo di speculazione, anche la più ardita e cervellotica. E, naturalmente truffaldina.
Come la speculazione dei tulipani del diciassettesimo secolo, la prima a causare la famigerata bolla e il suo scoppio; quella delle criptomonete si è naturalmente spostata dall’assurda idea di diventare una moneta di conto senza uno Stato che la emetta e che la difenda da ogni attacco, senza alcun collegamento con la realtà politica ed economica alla quale fa capo, ad uno strumento complesso e arzigogolato di pura speculazione finanziaria.
Anche qui la spinta a separare gli sciocchi dal loro denaro è diventato il motivo dominate delle operazioni. Si dice che una delle funzioni della moneta tradizionale, quella emessa dall’autorità statale, funge anche da riserva di valore, quando esce dal circuito di circolazione; ebbene la “moneta di nessuno”, non è più utilizzabile come mezzo di pagamento, essendo la sua quotazione in balia delle pulsioni di mercato, quindi mancando di certezza di valore nel medio periodo, con una volatilità altissima. Ma anche come strumento speculativo è aperta a rischi enormi per chi la utilizzasse come strumento di riserva di valore, considerata la vertiginosa salita in termini di quotazioni di cambio e gli altrettanto veloci crolli. Per dare un minimo di stabilità a uno strumento così drammaticamente volatile, è stato anche escogitato un sistema artificiale per legare la criptomoneta ad un valore sottostante e prefissato che ne garantisse un livello costante. Poteva essere l’oro in tempi lontani che garantiva il valore intrinseco della moneta. Quelle sono state chiamate “stablecoin”, e sono ancorate al dollaro, almeno nelle prospettive di chi l’ha progettate. Ebbene, sono state le prime a crollare, risultando non sostenibile questo collegamento. Ovviamente con perdite molto grosse da parte di chi ci aveva speculato.
Ma infine, quanto potranno durare, e quale sorte avranno le attività di scambio con le criptomonete? Considerato che quella è oramai soltanto una speculazione finanziaria, durerà, almeno per quelle più “serie e stabili”, quanto durerà ogni altra attività finanziaria ad alto rischio. Con quello vive e con la fine di quello scomparirà. Ma prima di tutto dovrà scomparire la forma monetaria in cui si sostanziano i rapporti mercantili della produzione capitalistica di merci.
L’idea di sciogliere dai vincoli degli Stati e delle banche lo strumento di pagamento, per creare qualcosa che consentisse in totale libertà vendita ed acquisto, si è rivelata un altro sogno piccolo borghese di non sottostare alle “Autorità” per i propri traffici e bisogni, fino ad assumere alla fine dei salmi, la giusta connotazione di truffa finanziaria. Truffa come può essere il gioco del casinò. Almeno fin quando la roulette non è alterata per illeciti guadagni da parte del gestore, che sia legale o illegale.
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La prima parte del rapporto ha descritto il percorso del PKK dal 1978 al 1999.
Sebbene una sezione del KDP di Barzani in Turchia fosse stata fondata nel 1965, dopo il 1968 si ha un ritorno nel Kurdistan settentrionale di movimenti stalinisti di vario tipo. Il maggiore era il Partito Socialista pro-sovietico del Kurdistan, che perorava un percorso pacifico e parlamentare all’autonomia, altri si proclamavano per l’indipendenza. Queste organizzazioni erano in guerra armata non solo contro i Lupi grigi fascisti, ma anche tra loro. Nel 1975 emerse ad Ankara dal movimento studentesco un gruppo che si faceva chiamare Rivoluzionari del Kurdistan fra i cui dirigenti erano Abdullah Öcalan e Haki Karer. Suo scopo era una “guerra popolare” per un Kurdistan unico e indipendente. Öcalan ammetterà di aver mantenuto contatti con l’Agenzia Nazionale di Intelligenza turca. Nel 1977 Haki Karer fu assassinato, pare su ordine di Öcalan.
Da questa organizzazione prese origine, alla fine del 1978, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Il suo programma collocava il PKK in una posizione nettamente stalinista: solo la liquidazione dei trotskisti e dei bukharinisti avrebbe reso l’URSS irreversibilmente socialista. Sebbene anti-kruscioviano, il PKK non si era staccato dalla Russia né avvicinato alla Cina e all’Albania. Sostenendo che in Kurdistan esisteva un capitalismo turco ma non curdo, il PKK negava l’esistenza di una borghesia curda. Pertanto prevedeva che un blocco di tre classi – piccola borghesia urbana, contadini e proletariato – avrebbe condotto la rivoluzione nazionale contro gli occupanti coloniali turchi, arabi o persiani e i loro collaboratori feudali.
Il PKK passò ad organizzare scontri armati contro altre organizzazioni curde e turche di sinistra.
Di fronte alla incapacità dei partiti parlamentari di contenere la intensificazione della lotta di classe, le forze armate turche, sostenute dagli Stati Uniti, nel 1980 organizzarono un colpo di Stato. In tutto il Paese la maggior parte degli esponenti della sinistra, anche borghese, e alcuni fascisti furono imprigionati e molti giustiziati. I detenuti di questo periodo subirono torture, ma quelli della prigione militare di Diyarbakır, in prevalenza curdi, ebbero la peggio: la gravità di quei metodi di tortura quasi inconcepibili sono tra i peggiori della storia umana. La tortura era accompagnata da una sistematica negazione ideologica della cultura curda. Numerosi capi del PKK si suicidarono in carcere, dandosi fuoco o con lo sciopero della fame.
Lo Stato, dopo gli attacchi della guerriglia, spesso arrestava a caso persone di origine curda. Gli abitanti dei villaggi, il cui unico contatto con il PKK poteva essere stato la fornitura inconsapevole di alimenti, erano imprigionati insieme ai nazionalisti.
Il PKK stabilì basi in Siria e nel Kurdistan meridionale. Per renderlo possibile ammorbidì la sua posizione contro lo Stato siriano e i nazionalisti curdi del Sud. Il PKK aveva il suo quartier generale nella valle della Bekaa.
La direzione di Öcalan nel PKK fu contestata nella emigrazione in Europa, da Güngör, assassinato dal PKK nel 1985, e da Karer, che evitò per un soffio una sorte simile, dissidenti che dalla lotta armata erano passati a una linea riformista nazionale.
Şener, fuggito ai sicari di Öcalan, formò il PKK-Vejin (Resurrezione). Sebbene il PKK-Vejin facesse riferimento ai bolscevichi e agli spartachisti e accusasse il PKK di socialdemocrazia all’europea, difendeva comunque una posizione nazionalborghese. Rimproverava al PKK l’alleanza con vari oppressori storici dei curdi, in particolare l’Iraq di Saddam contro la rivolta del 1991, e atteggiamenti di vero schiavismo nei confronti delle militanti.
Şener e due suoi compagni furono uccisi a Qamishlo, nel Kurdistan occidentale, alla fine del 1991, in un’operazione congiunta del PKK e dell’intelligenza siriana. Il PKK-Vejin, attaccato dal PKK e dagli Stati turco e siriano, non poté operare ancora a lungo.
Dal 1990 il PKK si volse alla via parlamentare e i suoi sostenitori si unirono agli attivisti per i diritti umani e ai socialdemocratici curdi scissi dal Partito Popolare Socialdemocratico per formare il Partito del Lavoro Popolare. Questo partito legale, dopo l’arresto dei suoi deputati per aver aggiunto una frase curda al loro giuramento parlamentare, nel corso del decennio è stato sostituito da una serie di partiti, il Partito della Democrazia, il Partito della Democrazia Popolare e il Partito Democratico del Popolo. Nel 1993 Öcalan accettò un cessate il fuoco con la Turchia. Accompagnato da Talabani, in una conferenza stampa in Libano Öcalan dichiarò che il PKK non cercava più uno Stato separato, ma la pace, il dialogo e la libera azione politica per i curdi in Turchia nel quadro di uno Stato democratico.
Con la dichiarazione di cessate il fuoco del PKK in mano, Turgut Özal, il presidente neoliberale dell’epoca, aveva intenzione di proporre un importante pacchetto di riforme alla successiva riunione del Consiglio di Sicurezza Nazionale turco, ma morì in circostanze misteriose e i piani non furono mai realizzati.
Presto ricominciarono gli scontri. Lo Stato turco distrusse oltre 4.000 villaggi, cacciando 3.000.000 di curdi, e incendiò le foreste del Kurdistan settentrionale. Circa 20.000 civili, per lo più curdi, furono uccisi da “sconosciuti”, in operazioni segrete e da bande appoggiate dallo Stato. A sua volta il PKK uccideva i contadini che non lo sostenevano e, a un certo punto, lanciò una campagna per l’uccisione di centinaia di insegnanti al fine di combattere l’influenza culturale turca in Kurdistan.
La guerra tra Turchia e PKK è costata la vita a decine di migliaia fra guerriglieri e soldati di leva.
Nel frattempo il PKK partecipava alla guerra civile del Kurdistan meridionale, durata dal 1994 al 1997, tra il KDP, sostenuto dall’Iran dal 1995, e il PUK sostenuto invece dall’Iraq. La guerra causò quasi diecimila morti e si concluse, dopo un paio di interventi militari turchi nel Kurdistan meridionale contro il PKK, con il sostegno degli Stati Uniti ad un accordo fra il KDP e il PUK.
Alla fine del 1998 la Siria cedette alle minacce turche di invasione e il PKK dovette lasciare il Paese. Öcalan, dopo aver trascorso diversi mesi cercando di trovare asilo politico in Europa, finì a Nairobi, in Kenya, dove fu catturato dalla intelligenza turca. Subito dichiarò «Amo la Turchia, amo il popolo turco, credo di servirla bene, se ne avrò la possibilità».
L’ultima scissione dal PKK è avvenuta in seguito all’atteggiamento di Öcalan. Una piccola minoranza fuggì in Europa per formare il PKK-Guerrieri della Linea Rivoluzionaria. La stragrande maggioranza del PKK, tuttavia, rimase al fianco del Grande Leader, a prescindere da tutto.
La seconda parte del rapporto ha descritto la questione curda oggi.
Il PKK ha completato il passaggio ideologico dallo stalinismo al “confederalismo democratico”. Di conseguenza nelle diverse parti del Kurdistan si sono formati partiti fratelli. Nel Kurdistan meridionale, nel 2002, il Partito della Soluzione Democratica del Kurdistan, nel Kurdistan occidentale nel 2003 il Partito dell’Unione Democratica e nel 2004 nel Kurdistan orientale il Partito della Vita Libera del Kurdistan. Lo stesso PKK nel 2002 ha cambiato nome in Congresso per la Libertà e la Democrazia del Kurdistan, cambiato poi in Congresso del Popolo del Kurdistan, e nuovamente in PKK nel 2005. I nuovi nomi e i cambiamenti ideologici e organizzativi avevano lo scopo di farlo apparire accettabile e utile agli americani che, dopo gli attentati dell’11 settembre, sembravano decisi a svolgere un ruolo più deciso in Medio Oriente.
A trarre il maggior vantaggio dal nuovo coinvolgimento americano in Medio Oriente furono i partiti nazionalisti curdi meridionali. Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2003, sia il KDP, ormai un aperto partito conservatore, sia il PUK, ormai un tipico partito socialdemocratico, si presentarono subito come i sostenitori della transizione democratica dal sanguinario regime di Saddam Hussein. Sono stati ricompensati profumatamente. Al KDP fu assegnata la presidenza del Governo Regionale del Kurdistan, istituito nel 2005, che sarebbe stato governato in collaborazione con il PUK, mentre a quest’ultimo fu affidata la simbolica ma prestigiosa presidenza dell’Iraq. Sotto questi due partiti presto il Governo regionale del Kurdistan sarebbe diventato una delle amministrazioni più corrotte al mondo, spesso perfino incapace di pagare gli stipendi ai lavoratori pubblici.
Rivolte e, in misura minore ma significativa scioperi, sono diventati eventi comuni nel Kurdistan meridionale, dove i manifestanti hanno più di una volta incendiato le sedi di tutti i partiti. Sono frequenti gli omicidi e gli arresti dei manifestanti.
Sebbene lo sfortunato referendum sull’indipendenza di Masoud Barzani del 2017 sia stato ampiamente sostenuto dalla popolazione del Kurdistan meridionale, in generale la partecipazione elettorale rimane estremamente bassa.
Se l’affiliato del PKK formatosi nel Kurdistan meridionale non ha avuto molto successo, lo stesso non si può dire dei partiti del Kurdistan orientale e occidentale. Nel primo il Partito della Vita Libera del Kurdistan ha lanciato un’insurrezione a bassa intensità contro lo Stato iraniano nella quale si ritiene che finora siano morti circa in 1.500. L’affiliato del PKK è stato sostenuto dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Bush, politica rivista sotto Obama, che ha designato il partito come “terrorista”.
Il maggiore successo è stato del Partito dell’Unione Democratica (PYD) nel Kurdistan occidentale. A causa dei legami storici del PKK con il governo siriano, il PYD non ha attaccato lo Stato di Siria come il suo affiliato orientale ha fatto contro l’Iran.
Nel 2013, dopo mesi di negoziati per porre fine al conflitto tra lo Stato turco e il PKK, il primo ministro turco islamista Erdoğan lesse un messaggio di Öcalan al popolo, in turco e in curdo, che chiedeva il cessate il fuoco, il disarmo e il ritiro dal territorio turco, dichiarando la fine della lotta armata. Il PKK annunciò che avrebbe obbedito.
Nel frattempo il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) faceva anche il tifo per lo Stato Islamico che nel 2014 assediava Kobanê, nel Kurdistan occidentale, tenuta dal PYD.
Dopo un periodo di cessate il fuoco ampiamente rispettato, le elezioni generali turche del 2015 portarono un forte guadagno per l’HDP, all’opposizione, (13% dei voti, +7,5%) e un notevole calo per l’AKP, al governo, (41% dei voti, -9%). Di lì a poco nel Kurdistan settentrionale furono uccisi due poliziotti e il governo turco lanciò contro il PKK operazioni militari nelle città e nelle campagne, ponendo fine al cessate il fuoco e al processo di pace. Le operazioni sarebbero continuate negli anni successivi, portando alla distruzione di numerose città del Kurdistan settentrionale.
Nel 2011, in Siria è scoppiata una rivolta contro il governo. Nei mesi successivi l’opposizione armata ha preso il controllo di diverse regioni. A metà 2012 la Siria ha ritirato l’esercito dalla maggior parte del Kurdistan occidentale, lasciando il potere alle milizie del PYD. Queste hanno ripagato il favore concentrando la maggior parte delle loro energie nella lotta contro l’Esercito Siriano Libero, il Fronte al-Nusra e infine lo Stato Islamico. Fino al 2013 il PYD ha collaborato con il Consiglio Nazionale Curdo, composto per lo più da sostenitori del KDP, ma in seguito ha abbandonato questa alleanza.
Nel 2015 il PYD era il più stretto alleato degli Stati Uniti in Siria e sotto l’influenza americana creò un fronte armato con milizie di alcune organizzazioni arabe e non solo, sotto il nome di Forze Democratiche Siriane. Dopo la sconfitta dello Stato Islamico, l’esercito turco invase la città di Afrin e alcune zone del Kurdistan occidentale. Prive del sostegno militare americano, di cui godevano contro lo Stato Islamico, nell’affrontare l’esercito turco le FDS sono state aiutate dalle Forze di Difesa Nazionale, la maggiore milizia filogovernativa della Siria. Nonostante le perdite subite, grazie al sostegno politico americano, le FDS hanno mantenuto gran parte del loro territorio.
Nel 2018, le FDS fondarono l’Amministrazione Autonoma della Siria Settentrionale e Orientale (AANES). Nonostante si dipinga come sostenitore dei diritti delle minoranze, il PYD non ha abbandonato il nazionalismo. Ha dichiarato: «La politica del governo siriano ha portato molti arabi nelle aree curde. Questi arabi dovranno essere espulsi». I cristiani assiri si sono lamentati delle evacuazioni forzate, dell’educazione storica curdizzata e dell’indottrinamento apoista impartito nelle scuole. Contro chi manifesta si spara, i dissidenti imprigionati e torturati. In breve, nulla di nuovo nell’AANES.
I curdi sono una nazione che ha sviluppato tardi il capitalismo. La causa nazionale curda, in una regione schiacciata dai vari imperialismi e dai loro alleati reazionari locali, non ha alcuna possibilità di riapparire e le formazioni nazionaliste oggi svolgono una funzione reazionaria, contribuendo ad allontanare il proletariato curdo dall’organizzarsi su basi di classe, in unità con il proletariato turco e internazionale.
Il proletariato in Kurdistan deve organizzarsi come classe indipendente, attraverso propri sindacati e gruppi di avanguardia comunisti inquadrati nell’unica struttura del partito internazionale.
Il partito comunista in Kurdistan, di fronte a un tessuto industriale povero e un’agricoltura arretrata, propaganderà una riforma agraria radicale per spingere i contadini ad allearsi con il proletariato. Riforma che dopo la rivoluzione realizzerà, per dare migliori condizioni di vita ai contadini e permettere un uso più efficace delle risorse agricole.
I proletari e i contadini del Kurdistan continuano ad essere sottoposti a una dura oppressione: direttamente dalle borghesie al potere nelle enclave autonome del Sud e dell’Ovest, di quelle dei quattro Stati, e indirettamente di molte altre.
Le enclave curde non sono Stati nazionali indipendenti e vitali che possano sviluppare liberamente il capitalismo: la loro esistenza è semplicemente tollerata dalle borghesie irachena e siriana, e garantita solo finché siano sostenute dalle potenze imperialiste.
Nel Kurdistan di oggi tutti i partiti e i movimenti nazionalisti sono reazionari, dipendono dal sostegno di questa o quella potenza imperiale, che utilizza le loro milizie come carne da cannone.
La rivalità tra le enclave e tra i partiti nazionalisti curdi viene a dividere anche il proletariato. Come gran parte delle classi lavoratrici turche, irachene, iraniane e arabe, continua a sostenere le aspirazioni nazionali delle proprie borghesie, tutte contro-rivoluzionarie, rinunciando alla lotta di liberazione di classe.
La prospettiva comunista è una federazione di Stati di dittatura proletaria, che travolga le fradice istituzioni borghesi in tutto il Medio Oriente, superando attraverso la comune lotta rivoluzionaria le divisioni razziali, etniche, religiose.
Rapporto dei compagni venezuelani
L’invasione russa dell’Ucraina ha avuto un impatto diretto sull’America Latina, con aumento del prezzo delle materie prime, compresi gli idrocarburi, e una ripresa dell’inflazione. La lotta interimperialista globale per il controllo e l’accesso alle risorse energetiche ha portato a una rivalutazione di alcuni Paesi produttori di petrolio, come il Venezuela. Se il conflitto si protrae il Brent potrebbe raggiungere i 130 dollari/barile e la miscela messicana i 115, mentre due anni fa era sotto i 50.
Nella situazione politica interna dei Paesi si è assistito a una ripresa dei disordini di massa e degli scontri tra partiti e movimenti di destra e di “sinistra”.
La crisi ucraina ha avvantaggiato i Paesi produttori (Venezuela, Brasile, Ecuador, Messico e Colombia) e punito i non produttori (Caraibi, America Centrale, Perù, Cile). Non è ancora chiaro in che misura l’aumento del prezzo di altri beni primari (minerali e alimentari) influirà sulla crescita del PIL. Deve essere visto nel contesto dell’andamento dell’economia globale, che è in crisi e sta ancora risentendo della pandemia del Covid 19.
Le prime previsioni indicano che la regione crescerà meno del previsto a causa del conflitto in Ucraina: la Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) ha abbassato le previsioni per la regione dal 2,6% al 2,3% rispetto a sette mesi fa.
Alcuni Paesi potrebbero guadagnare quote di mercato esportando i loro prodotti agricoli (cereali), data la carenza causata da un conflitto che colpisce i due grandi produttori Russia e Ucraina. La Spagna, ad esempio, per alleviare la carenza ha temporaneamente alleggerito i requisiti per l’importazione di mais dall’Argentina e dal Brasile.
All’aumento dei prezzi di benzina e gasolio alcuni governi della regione, per mantenere popolarità e per calmare i movimenti di protesta, hanno reagito riducendo le tasse associate o applicato sussidi. Questo rappresenta un aumento della spesa pubblica e uno squilibrio di bilancio.
In un’ipotetica crisi degli idrocarburi si esaspererebbe la lotta inter-imperialista per il loro controllo ed è prevedibile che gli Stati Uniti rafforzerebbero la loro influenza nella regione. Il Brasile è un importante produttore di biocarburanti.
Ma queste oscillazioni nel mercato degli idrocarburi e delle materie prime nella regione sono cicliche e questi Paesi non potranno sfuggire alla crisi internazionale del capitalismo.
Possiamo aspettarci il ritorno di proteste di massa come quelle del 2019 e vedremo le correnti della destra e della “sinistra” cercare di incanalare il malcontento verso cambiamenti elettorali di presidenti e parlamenti o verso riforme politiche e istituzionali.
Gli investimenti esteri in America Latina potrebbero crescere in aree specifiche da parte di Stati Uniti e Cina, in preparazione di una futura guerra. Cercheranno approvvigionamenti alternativi: il nichel in Colombia e Guatemala, il litio in Bolivia, Argentina e Cile, il rame in Cile e Perù e i fosfati in Venezuela. A ciò si aggiunge la produzione alimentare di Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, che attirerebbe investimenti esteri.
In seguito alle sanzioni contro la Russia, una delegazione della Casa Bianca si è incontrata a Caracas con il governo venezuelano per sondare una possibile fornitura di prodotti energetici agli Stati Uniti. L’iniziativa mirava non solo a ridurre l’influenza geopolitica della Russia tra i latinoamericani, ma anche a trovare un’alternativa ai 500.000 barili al giorno di greggio pesante e derivati che Washington acquistava dalla Russia e che fino al 2019 provenivano dal Venezuela.
Allo stesso tempo è stato negoziato un accordo tra l’Iran e il Venezuela: il Venezuela importerebbe condensato dall’Iran per diluire il greggio extra-pesante, mentre l’Iran fornirebbe al Venezuela ingegneri, prodotti raffinati e pezzi di ricambio per l’industria petrolifera.
Nel caso di Cuba e del Nicaragua, un riavvicinamento agli Stati Uniti non è così chiaro, poiché non hanno l’attrattiva del petrolio venezuelano.
La classe operaia non può aspettarsi che più sfruttamento, occupazione informale e disoccupazione, calo dei salari reali e repressione, anche in quei Paesi in cui si verificasse una effimera ripresa economica, indipendentemente dalla corrente politica al governo.
Le lotte della classe operaia
Gli sviluppi recenti nella regione includono:
- Disordini politici in Perù: in aprile si sono svolte grandi mobilitazioni contro l’aumento del prezzo del carburante e in generale. Gran parte della partecipazione è stata spontanea e non in risposta alle chiamata di partiti politici o dei sindacati. Si sono riempite le strade di diverse città e attorno al Palazzo del Governo. Il governo prima ha proclamato il coprifuoco, ma ha dovuto sospenderlo perché ignorato. Ha ridotto la tassa sul carburante e aumentato il salario minimo, ma questo non è bastato a placare il malcontento. Le mobilitazioni sono state represse. I partiti politici e i sindacati spingono, come sempre, per una soluzione democratico-borghese, a partire dalla richiesta di destituzione o di dimissioni del Presidente della Repubblica Pedro Castillo.
- Venezuela: in aprile il governo borghese ha annunciato un aumento del salario minimo per il settore pubblico da 1,6 a 28 dollari al mese, mentre il valore del paniere dei beni di base supera gli 800 dollari. Nella contrattazione collettiva gli aumenti salariali continuano a rimanere simbolici: sia il settore pubblico che le imprese private mantengono la politica di pagare bonus in aggiunta ai salari, il cui importo non influisce sul calcolo delle prestazioni sociali.
Tra marzo e aprile, i dipendenti pubblici hanno annunciato manifestazioni di piazza per protestare contro i bassi salari. I pensionati sono stati i più attivi stimolando la mobilitazione dei compagni ancora in forza.
Lavoratori pubblici e privati hanno manifestato il 7 aprile presso il Ministero del Lavoro a Caracas rifiutando il nuovo salario minimo annunciato dal governo. 6.300 dipendenti delle farmacie hanno minacciato di scioperare a livello nazionale per aumenti salariali e altre richieste.
Il governo venezuelano minaccia nuove tariffe per i servizi pubblici e diverse tasse; alcune centrali altre dei governatori o dei sindaci; tutto ciò aggiungerà motivo di protesta dei lavoratori.
Ad aprile i pensionati hanno inscenato diverse proteste nella capitale e hanno occupato gli uffici del Ministero del Lavoro in diverse città.
Nella seconda metà di aprile si sono verificate agitazioni diffuse tra i lavoratori dell’azienda siderurgica SIDOR, che hanno scioperato per quasi una settimana per il rispetto del decreto sull’aumento dei salari. La lotta è nata spontaneamente dai lavoratori, al di fuori del controllo del sindacato.
Gli operai hanno dovuto affrontare la repressione del governo, le squadre di crumiri e la demagogia. La lotta era condotta dalle assemblee. Ma alla fine una parte dei lavoratori, manipolati dai politici che si offrivano di trattare, è tornata a lavorare, contro le direttive dell’assemblea.
In seguito, nella prima metà di maggio, i lavoratori della Ferrominera dell’Orinoco, della SIDOR e della Bauxilum hanno tenuto diverse fermate e assemblee con la stessa richiesta di pagamento dei salari e dei benefici contrattuali. Anche nella Guayana è montata l’agitazione dei lavoratori.
Il Primo Maggio il governo ha indetto le sue adunate, tradizionali sfilate di carnevale organizzate e guidate dalle aziende e dai loro dirigenti. Il concentramento progovernativo si è tenuto a Caracas per ottenere l’effetto mediatico. Ma contemporaneamente in diverse città si sono svolti cortei alternativi, guidati da diversi sindacati dei lavoratori del settore pubblico e delle aziende private. Qui notevole la partecipazione dei pensionati. Gli slogan si sono concentrati sulla richiesta di aumenti salariali, ma presenti anche diverse invocazioni nazionaliste tipiche dell’opportunismo. Ma vi si respirava un’atmosfera unitaria. Evidentemente ampia la presenza di rappresentanti di organizzazioni opportuniste, soprattutto stalinisti e trotskisti.
Il 1° maggio, il Presidente Maduro non ha fatto il consueto annuncio di un aumento dei salari. Tuttavia il portavoce delle imprese venezuelane presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha affermato che i futuri aumenti salariali nel Paese saranno effettuati attraverso una “trattativa tripartita”, coinvolgendo i sindacati, le associazioni imprenditoriali e il governo, procedura abbandonata negli ultimi 20 anni e che si riattiverebbe.
- In Brasile i partiti opportunisti e i cosiddetti “movimenti popolari” stanno promuovendo agitazioni di piazza con lo parola “fuori Bolsonaro”, bandiera imposta dai media alla insofferenza e alla mobilitazione contro l’aumento dei prezzi dei viveri e del carburante e contro la corruzione all’interno del governo. L’opportunismo cerca di incanalare il malcontento verso la via senza uscita delle elezioni presidenziali. Chiedono la destituzione di Bolsonaro, la vaccinazione per tutti e un bonus di emergenza di 600 reais.
La crisi del capitale della regione continuerà a colpire i lavoratori, soggetti a disoccupazione, precariato e bassi salari. Anche nei Paesi in cui si parla di ripresa economica non si registra una ripresa significativa dell’occupazione né aumenti salariali che superino il tasso di inflazione.
Le attuali centrali sindacali continuano la loro opera di smobilitazione, conciliazione di classe e divisione tra i lavoratori.
I partiti sulla guerra in Ucraina
I media e i social network, in gran parte controllati dall’Occidente, insistono sui “crimini russi contro l’umanità”. In America centrale e meridionale dove sono presenti governi cosiddetti “progressisti” o “di sinistra”, alcuni organi di stampa si sono allineati con l’apparato mediatico russo e cinese, che enfatizzano il “nazismo e il fascismo ucraino” o le “provocazioni della NATO”.
All’Assemblea generale delle Nazioni Unite le delegazioni governative di Bolivia, Nicaragua, El Salvador e Cuba si sono astenute al momento della votazione della condanna della Russia. La rappresentanza venezuelana era assente! Messico, Cile, Colombia ed Ecuador si sono espressi a favore; tuttavia, i governi di Messico, Brasile e Argentina mantengono posizioni ambigue mantenendo accordi di cooperazione economica e commerciale con la Russia. I governi di Venezuela, Cuba e El Salvador sono interessati a mantenere relazioni aperte con gli Stati Uniti per superare le sanzioni e si danno a contorcimenti verbali per mantenere relazioni anche con Russia e Cina.
I partiti politici che si definiscono “di sinistra” o “progressisti”, ma che non sono altro che opportunisti, sono equamente divisi tra i filo-russi e quelli schierati con l’Ucraina.
Il Partito “comunista” del Venezuela sostiene Putin e rifiuta il riavvicinamento del governo venezuelano agli Stati Uniti e il vendergli il petrolio.
L’Unità Internazionale dei Lavoratori - Quarta Internazionale (ITU-CI), un movimento trotskista, grida “Putin fuori dall’ucraina! No alla NATO” e sostiene la resistenza ucraina, arrivando a organizzare una rete di solidarietà internazionale con i miliziani ucraini al fronte e promuove l’invio di contributi e medicinali.
Mentre il governo messicano ha ripudiato l’invasione russa dell’Ucraina, il partito Morena si è schierato a favore della Russia e ha chiesto la formazione di un “gruppo di amicizia” in parlamento.
In Brasile, con argomenti diversi, Bolsonaro e Lula coincidono nel loro sostegno al governo russo. Ma, nell’ambiguità tipica borghese, Lula ha dichiarato che “nessuno può essere d’accordo con la guerra”. La posizione della “sinistra” brasiliana di fronte alla guerra in Ucraina è subordinata alla difesa degli interessi e degli affari della borghesia nazionale.
Se in Cile il Presidente ha denunciato l’invasione russa dell’Ucraina, il Partito “Comunista”, condanna “gli atti di guerra nella soluzione dei conflitti”, ma anche gli Stati Uniti e la NATO con le loro “provocazioni e ambizioni espansionistiche”.
La cosiddetta “sinistra” in America Latina, anche quella con una fraseologia e un’iconografia pseudo-rivoluzionaria, cerca solo di consolidarsi come alternativa per l’amministrazione degli interessi borghesi e non esita a unirsi alla campagna patriottica, dalla parte dello schieramento imperialista che più le conviene. Sarà pronta a gettare le masse di salariati nella carneficina e nel supersfruttamento che la guerra porta con sé. Non troveremo partiti o movimenti della cosiddetta “sinistra” in America Centrale e Latina con una posizione di classe, proletaria e comunista. Sono partiti politicamente castrati, incapaci di assumere la guida di una ripresa della lotta di classe, che faccia uscire il proletariato dalla sottomissione al controllo politico della borghesia, tanto meno di fornirgli un orientamento rivoluzionario.
Se questa congiuntura è servita a qualcosa, è stata di mostrare l’antimperialismo caricaturale della cosiddetta sinistra latinoamericana, policlassista, controrivoluzionaria e complice del maggior sfruttamento dei salariati nella regione.
La perdita della parte orientale del Pakistan portò ad una riorganizzazione dell’economia e alla ricerca di nuovi mercati: negli anni 1969-70, il 50% delle esportazioni era destinato al Pakistan orientale, per un valore di 169 milioni di dollari. Quel mercato è stato soppiantato dal boom del mercato del Medio Oriente, dove tra il 1974 e il 1982 si sono spostate le esportazioni. Per contro la quota verso il Pakistan delle esportazioni dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (per lo più petrolio) è passata dal 14% al 24,4%.
Negli anni ‘70 e fino al 2000 l’economia è stata colpita da gravi recessioni, nonostante una crescita media annua del PIL del 5,6% tra il 1972 e il 1991/92. Pesanti le importazioni di petrolio, che passano da 59 milioni di dollari nel 1972/73 a 374 milioni nel 1975/76 e a 862 milioni nel 1979-80. La quota delle importazioni sul prodotto nazionale lordo è cresciuta dal 9,1% nel 1972 al 20,8% nel 1979/80, mentre le esportazioni sono cresciute solo dal 6,0% al 10,0%.
Nel 1995-96 l’agricoltura rappresentava il 26% dell’economia.
Il debito totale in percentuale del PIL ha raggiunto il 99% nel 1999, il più alto dell’Asia meridionale, rispetto al 47,2% dell’India e al 91,1% dello Sri Lanka.
Nel ciclo 2000/2007 si è assistito a un periodo di vigorosa ripresa economica. Il valore aggiunto della produzione industriale (manifatturiera) è cresciuto a una media annua dell’8,5% dal 2001 al 2004; dalla separazione del Pakistan orientale, la crescita industriale nel 2005 è stata la più alta mai registrata, come quella del PIL ha raggiunto il 7,6%. Anche l’inflazione non ha registrato grandi aumenti fino al 2005.
La crescita industriale, secondo i dati della Banca Mondiale per lo Sviluppo, ha raggiunto il suo massimo nel 1961, sfiorando il 19%, tasso che non sarebbe più stato recuperato. Le statistiche pakistane sono ulteriormente complicate a causa della separazione del Pakistan orientale nel 1971, rendendo difficili i confronti. Poi la recessione del 2008-2009 ha fatto sprofondare l’economia, risollevata ancora una volta solo dal salvataggio del FMI. In seguito si è assistito a una piccola ripresa, seguita però da profondi cali, soprattutto intorno al 2018.
Nel periodo 2008-2013 le importazioni sono passate da 39,9 a 44,9 miliardi di dollari, ma le esportazioni sono cresciute solo da 19 a 24,5 miliardi. Dal 2014 al 2018 le importazioni sono cresciute da 45 a 60,7 miliardi, mentre le esportazioni sono scese da 25,1 a 24,8.
La bilancia commerciale è quindi peggiorata passando da -15.355 milioni di dollari nel 2013 a uno sconcertante -32.018 milioni nel 2019, pre-Covid.
In dollari le esportazioni nel giugno-luglio 2021 sono state per 25.304 milioni di dollari contro i 21.394 milioni del periodo corrispondente del 2020, con un aumento del 18,28%. Le importazioni nello stesso periodo sono state per 56.380 milioni di dollari contro i 44.553 milioni del 2020, con un aumento del 26,55%.
Nel 2021 si è registrata una ripresa della produzione industriale, che per alcuni mesi ha raggiunto picchi vicini al 2007, per poi calare.
La crescita percentuale annua del PIL, depurata dall’inflazione, è stata del 4,2% nel 1999, del 3,9% nel 2000, dell’1,8% nel 2001, seguita da una modesta crescita costante che ha raggiunto il suo massimo nel 2005 con 7,6%, per poi diminuire, ma riprendersi, nel 2007; da questo massimo è sceso al 4,99% nel 2008, fino a un minimo 0,36% nel 2009. Dal picco degli anni ‘60 l’industria non si è ancora ripresa. Prima del Covid era al 2,1%, scendendo poi a -0,5%; una ripresa si è vista nel 2021 al 3,9%, ma a causa dell’impatto della guerra in Ucraina e della crescente crisi economica è da aspettarci un forte calo.
Il saldo delle partite correnti in percentuale del PIL era di -2,6% nel 1999, seguito da un miglioramento fino a -0,3% nel 2000, per poi registrare il suo aumento più marcato fino al 2003 con il 4,9%. Scende a -1,4% nel 2005, fino a un tremendo calo a - 4,9% e -8,4% nel 2007/8 durante la recessione mondiale. Sceso a -1,1% nel 2013, in termini assoluti a 3,1 miliardi di dollari, non si è più ripreso, registrando un ulteriore brusco calo a -5,8% nel 2018 a 18,16 miliardi di dollari in termini assoluti, arrivando infine a -4,5% nel 2019.
I tassi di crescita annui del PIL pro-capite sono stati dell’1,60% nel 2013, del 2,50% nel 2016, seguiti da un brusco calo a -1,00% nel 2017 e a -1,4% nel 2020.
I salari reali sono diminuiti essendo la loro crescita nominale al di sotto dell’inflazione, con grave declino delle condizioni dei lavoratori. Aumenta la disoccupazione e manca il pagamento delle pensioni, all’esiguo numero di lavoratori che le percepiscono.
Le interruzioni di corrente elettrica hanno subito un’ulteriore impennata in queste calde estati (quest’anno le temperature più alte nell’emisfero settentrionale sono state registrate in India e Pakistan); ma il 27% della popolazione è ancora privo di accesso all’elettricità. I prezzi del carburante, sovvenzionato negli ultimi mesi, a maggio sono aumentati.
Gli scioperi e le proteste della classe operaia, riportati solo sui media sociali, non mostrano un aumento generale, ma nel sempre turbolento Baluchistan si registra un forte aumento delle mobilitazioni, scioperi e proteste per l’acqua, per i beni di prima necessità e contro la brutalità della polizia e dell’esercito.
In assenza di una reazione spontanea delle masse la rivalità tra le varie bande borghesi ha preso il centro della scena. L’estromissione del governo centrale di Imran Khan in aprile – una mossa sostenuta dall’esercito – porterà a un governo di coalizione di partiti dominati dall’élite terriera (Partito del Popolo, Lega Musulmana N, Jamiat-ulema-islam), tutti quanti timorosi di dover prendere le misure economiche che porteranno a un forte aumento dei prezzi del carburante e dei sussidi, necessarie per ottenere un nuovo prestito dal FMI. Stavolta non vedremo nemmeno i tentativi di modernizzare il Paese, tentati negli anni ‘70 durante il governo “islamico-sociale” di Bhutto.
Il 25 maggio il partito di Imran (PTI) ha indetto una marcia di protesta in tutto il Paese verso Islamabad, chiedendo lo scioglimento del parlamento e l’indizione di nuove elezioni; le strade di accesso alla città sono state bloccate da battaglioni pesanti della polizia e dell’esercito. La manifestazione ha visto la partecipazione soprattutto delle classi medie e dei giovani della classe operaia, ma anche ex membri di alto rango dell’esercito. È stata annullata la mattina del 26. I morti accertati sono stati circa 5.
Gli scambi commerciali tra Pakistan e Russia sono stati di 381 miliardi di dollari nel 2015, rispetto ai 454 milioni del 2014. Le esportazioni in Russia ammontano principalmente a 285 milioni di dollari e consistono in frutta, abbigliamento, prodotti agricoli; le importazioni dalla Russia ammontano a 95,7 milioni di dollari e consistono in carta, materie prime, prodotti chimici e macchinari. Dal 2011 al 2020 le esportazioni sono diminuite del 24%, mentre le importazioni sono cresciute di un incredibile 270%, raggiungendo il massimo nel 2020 a seguito della crisi del Covid.
Il commercio con l’Ucraina nel 2021 ammonta ad esportazioni per 61,7 milioni e importazioni per 739,51. Oltre ai veicoli militari, l’importazione di grano è stata di 496 milioni nel 2020.
La guerra ha avuto un forte impatto sull’economia. C’è una significativa crisi del grano, il cui prezzo ha raggiunto i massimi storici, del petrolio (dato che il Pakistan è un forte importatore), delle materie prime (i prezzi dei prodotti farmaceutici sono saliti alle stelle). Inoltre la guerra ha prodotto una carenza di fertilizzanti agricoli.
Le riserve sono scese sotto gli 11 miliardi di dollari. Di essi, nel 2020, 7-8 miliardi erano costituiti da prestiti dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. L’Arabia Saudita ha appena firmato un’estensione di un prestito di 3 miliardi di dollari, ma sollecitando Islamabad a seguire le condizioni del FMI; per Riad Islamabad è importante nel suo gioco imperiale di contrastare la presenza iraniana. Il 30 marzo anche la Cina ha esteso un prestito di 4,2 miliardi di dollari.
Questo mese si sono verificati 3 attentati a Karachi, il primo dei quali ha preso di mira gli insegnanti di lingua cinese dell’Istituto Confucio.
L’aumento della militanza Baloch va visto alla luce di diversi fattori: l’uscita degli Stati Uniti dall’Afghanistan, la ricerca di risorse per attentati di calibro sempre più elevato nonostante una repressione sempre più severa, l’attuale intelligenza afghana costituita dalla rete Haqqani, che fa parte degli stessi Talebani pakistani ed è storicamente attiva nelle aree “tribali” pashtun di frontiera. In diversi momenti si assiste a dichiarazioni dei talebani pakistani a sostegno del movimento Baloch che “invitano” a rovesciare i servizi segreti pakistani.
I sanguinosi assalti ai lavoratori del Balochistan provengono da gruppi islamisti e Baloch, apparentemente contrapposti ma in cooperazione logistica tra loro; queste bande borghesi si sostengono da un lato grazie a donatori internazionali, al traffico di droga, al contrabbando e alle estorsioni nelle miniere, nelle fabbriche (dove vengono presi di mira soprattutto i lavoratori), dall’altro dall’India e dall’Iran.
Presenza crescente dell’India in Afghanistan e in Iran.
In Iran sta costruendo il suo porto a Chabahar, nell’instabile Balochistan iraniano, importante per contrastare la Cina nella regione.
In questo gioco imperiale l’Arabia Saudita, da tempo partner del Pakistan, cerca di ridurre la presenza iraniana sostenendo i separatisti Baloch, sunniti, all’interno del Balochistan iraniano. Islamabad si adegua prontamente ospitando quei gruppi nel Balochistan pakistano. Per contro l’Iran sostiene i gruppi all’interno del Pakistan, soprattutto contro l’India.
Il corso della crisi economica
Dopo la ripresa economica del 2017-18, una nuova recessione economica ha colpito l’accumulazione di capitale mondiale nel 2019. Questa è stata aggravata dalle misure di contenimento adottate da alcuni Paesi in seguito all’infezione da Covid-19. Grazie alle ingenti misure di sostegno economico adottate dai vari Stati e dalle banche centrali, il 2020 è stato seguito da una vigorosa ripresa della produzione industriale, anche se non ha compensato completamente il calo produttivo dei due anni precedenti.
Questa ripresa della produzione è stata accompagnata da una disorganizzazione generale, soprattutto in termini di logistica, dovuta all’approccio “just-in-time” praticato da tutte le aziende e alla delocalizzazione di una parte della produzione in Paesi a basso costo della manodopera, che richiede un flusso continuo di merci da questi.
Per rilanciare la produzione e garantire lo sviluppo delle nuove tecnologie, gli Stati Uniti, sul modello del “New Deal”, hanno varato vasti piani per diverse migliaia di miliardi di dollari per incrementare i consumi, rinnovare le infrastrutture obsolete e sviluppi tecnologici. L’Europa ha seguito lo stesso cammino, ma dimensionando il proprio piano di sostegno secondo le sue possibilità, cioè a una scala più ridotta.
Come di consueto abbiamo iniziato la nostra panoramica sullo stato della produzione industriale nei principali Paesi imperialisti partendo dagli Stati Uniti.
Il primo grafico esposto alla Riunione, che traccia gli incrementi annuali della produzione industriale, mostra il calo della produzione nel 2019 e nel 2020, rispettivamente con –0,8% e –7,2%, seguito nel 2021 da una ripresa con una crescita del 5,6%, cosicché la produzione per il 2021 rimane inferiore a quella del 2019, del 2%.
La seguente curva di incrementi mensili mostra la forte ripresa all’inizio del 2021, seguita da un brusco rallentamento, che si traduce in una curva a massimo visibile nei grafici della produzione industriale di altri Paesi. Tuttavia, a differenza degli altri Paesi imperialisti occidentali, i tassi di crescita rimangono relativamente forti, tanto che, sulla base degli incrementi del primo trimestre, si può prevedere che la produzione industriale nel 2022 supererà di circa il 2% il livello raggiunto nel 2019.
Le tabelle seguenti mostrano che nel 2018 gli Stati Uniti hanno superato il picco del 2007 dell’1,5%, per poi scendere a –1,4% nel 2021. Come già detto, questo superamento del massimo del 2007 è dovuto all’industria estrattiva, cioè essenzialmente degli idrocarburi. D’altra parte, l’industria manifatturiera è ancora molto indietro con un –8,3% nel 2021, rispetto al –7,7% del 2019.
In conclusione, questo nuovo “New Deal” non ha creato un miracolo. Sappiamo che gli effetti del New Deal furono di breve durata tra le due guerre mondiali, perché nel 1938 era tornata la recessione e fu solo la Seconda Guerra Mondiale a permettere alla macchina produttiva americana di sperimentare una crescita prodigiosa.
Passiamo al Giappone e alla Germania. Entrambi i grafici mostrano la stessa curva a massimo con un forte rallentamento dopo il picco, seguito da una serie di incrementi negativi, soprattutto per la Germania, tanto che la produzione per entrambi i Paesi rimane al di sotto del livello raggiunto nel 2019, che era già di recessione.
Ciò è meglio illustrato nella tabella seguente, che include i principali Paesi europei oltre al Giappone. Gli incrementi per il 2021, rispetto al 2019, vanno dal –2,9% della Spagna al –5,7% della Germania. C’è un’eccezione per il Regno Unito con un +0,9%, ma è dovuta alla manipolazione degli indici; il governo britannico vuole far credere che la Brexit abbia un effetto positivo sulla Gran Bretagna, ma al contrario, sta causando molte difficoltà all’industria e soprattutto alle piccole e medie imprese, sia per l’importazione che per l’esportazione nel continente. La Gran Bretagna non è mai riuscita a superare il livello di produzione raggiunto nel 2000. Da allora l’indice della produzione industriale, a parte la recente revisione, non ha mai superato quel massimo.
Ora, se confrontiamo il livello di produzione del 2021 con il massimo raggiunto nel 2007, il divario è enorme: abbiamo un –17,8% per il Giappone, un –19,1% per l’Italia, un –12,2% per la Francia, etc. La Germania, che nel 2018 ha superato il massimo del 2008 dell’8,2%, si ritrova con un –5,7%. In Europa, gli unici Paesi che hanno superato il massimo del 2007 o del 2008 sono giovani capitalismi come la Polonia, l’Ungheria e persino il Belgio. In Asia, la stessa cosa accade con un Paese come la Corea del Sud.
È difficile ottenere dati affidabili sulla Cina. Abbiamo utilizzato la produzione lorda di elettricità per rappresentare il corso dell’accumulazione di capitale nell’industria. La curva annuale mostra una forte ripresa nel 2021 con un +9,2% dopo un indebolimento nel 2020.
Con gli indici mensili abbiamo una migliore rappresentazione dell’andamento dell’accumulazione di capitale in Cina. Troviamo la nostra curva a massimo, con una forte ripresa, sicuramente sovrastimata, che è seguita da un forte rallentamento per finire con un incremento negativo nel dicembre 2021.
È noto che nel 2019 il capitalismo cinese era in recessione in molti settori: costruzioni, settore automobilistico, ecc. E probabilmente lo è ancora oggi. E le drastiche misure di contenimento, data la loro portata, hanno sicuramente un ruolo di controllo politico sulla popolazione. Il 2021 ha visto molti scioperi in cui i lavoratori sono riusciti a ottenere concessioni. Scioperi, dimostrazioni e persino rivolte sono piuttosto comuni in Cina.
La curva seguente riguarda la produzione annuale di energia elettrica in Corea del Sud. Questo dato riflette molto bene il forte rallentamento dell’accumulazione di capitale, come si può vedere nella tabella seguente che riporta gli incrementi medi annui della produzione industriale secondo i diversi cicli. Si passa così da un incremento medio annuo del 17,6% per il ciclo dal 1954 al 1979, al 9,4% per il ciclo successivo (1979- 1997), poi al 7,5% dal 1997 al 2007, per finire con il 2,8% per il ciclo attuale.
La tabella della produzione di petrolio ci mostra che gli Stati Uniti ne rimangono il maggior produttore, con 562 milioni di tonnellate, rispetto ai 488 milioni della Russia e ai 455 milioni dell’Arabia Saudita. Questi ultimi due produttori potrebbero, se volessero, aumentare la loro produzione, ma la tengono deliberatamente bassa per mantenere alti i prezzi. Questa è la legge dei monopoli. Questo spiega il prezzo elevato di benzina e diesel; la produzione è mantenuta leggermente al di sotto della domanda di mercato. Lo si vede chiaramente nell’ultima colonna, dove la produzione è ben al di sotto del livello raggiunto nel 2019, dato che gli incrementi, a parte il Canada, vanno dal –7 al –13%!
Per il gas, invece, non c’è questo differenziale: gli incrementi, rispetto al 2019, vanno dal –2,3% della Norvegia al +3,6% della Russia. Per il Regno Unito abbiamo un –17,2%, ma questo è dovuto al fatto che i pozzi sono in esaurimento.
Gli alti prezzi del gas non si spiegano con la mancanza di gas, piuttosto con la miopia del capitalismo neo-liberista, che opera secondo il principio del just in time, per cui le riserve invernali di gas erano al livello minimo e tutti si sono affrettati a comprare il gas in pieno inverno, e con la forte speculazione dei grossisti. Tanto più che la Russia, nonostante la guerra in corso, non ha mai tagliato il gas durante questo inverno, nemmeno in Ucraina. L’ha tagliato, solo adesso, come misura di ritorsione, alla Finlandia.
I Paesi sulla costa atlantica, Spagna, Francia e Inghilterra, importano gas naturale liquefatto dal Qatar e dagli Stati Uniti. La Francia, per liberarsi dal gas russo, che rappresenta solo il 17% delle sue importazioni, ha aumentato le importazioni di gas liquefatto dagli Stati Uniti.
La tabella seguente riporta le esportazioni dei principali Paesi imperialisti. Si può notare che per tutti i Paesi, tranne la Cina, che è diventata l’officina del mondo, le esportazioni del 2021, espresse in dollari correnti, sono nettamente inferiori a quelle del 2019. Questo dato va dal –15,3% del Regno Unito al –5,5% della Corea del Sud.
A causa dei prezzi elevati delle materie prime, in parte dovuti ad anni di investimenti insufficienti, molti economisti prevedono una nuova recessione entro la fine dell’anno. Dopo la Fed, che ha iniziato ad aumentare i tassi di sconto, molte banche centrali vogliono seguire la stessa strada. L’ultima volta che lo hanno fatto è stato nel 2018, ma presto nel 2019, a causa della recessione e del crollo del mercato azionario nell’inverno 2018-19, hanno dovuto fare marcia indietro e tornare al quantitative easing. Ma non possono, pena la catastrofe, riportare indietro l’orologio e tornare alla situazione precedente al 2008. Lo stesso avverrà questa volta. La fine del quantitative easing e l’aumento dei tassi di interesse possono essere solo temporanei. La Banca Centrale del Giappone dal 1990 non è mai riuscita ad uscirne.
Passiamo alla Russia. Abbiamo riportato due curve, una che rappresenta la produzione manifatturiera annuale, l’altra la produzione di energia elettrica. Altra tabella mostra gli incrementi medi annui, secondo i cicli, della produzione industriale e manifatturiera.
Entrambe le curve mostrano la recessione del 2020, seguita da una forte ripresa poi un forte rallentamento. La tabella mostra che dopo la terribile recessione degli anni ‘90, la produzione industriale si è ripresa. Tuttavia gli investimenti sono stati destinati principalmente all’industria mineraria, che rappresenta la maggior parte delle esportazioni russe, mentre la produzione manifatturiera è ancora in ritardo, con meno del 17,3% rispetto al picco del 1990.
È proprio qui che sta il problema, poiché la produzione manifatturiera dipende da molti componenti realizzati in Europa e negli Stati Uniti. In seguito al disgelo delle relazioni russo-americane, molte aziende europee e americane avevano investito nella produzione russa. Ad esempio, l’industria automobilistica russa è principalmente un’industria di assemblaggio con oltre il 50% dei componenti prodotti in Europa occidentale. Molti componenti high-tech, tra cui ovviamente i chip elettronici, non sono prodotti in Russia.
A seguito delle sanzioni le imprese europee e americane si sono ritirate dal mercato russo, mettendo in sciopero tecnico molti operai. Per il momento la Russia sta reggendo bene grazie ai proventi del gas e del petrolio. La drastica riduzione delle importazioni e i rigidi controlli sui cambi hanno permesso al rublo di recuperare il 25% rispetto al dollaro e alla banca centrale di abbassare leggermente il tasso di sconto, che era salito al 20%! Il tasso di inflazione, a seconda del prodotto, è compreso tra il 18 e il 23%! La crisi in Russia sta arrivando e si farà sentire forte.
La questione militare
La guerra civile in Russia
L’8 marzo 1918 il Soviet locale di Murmansk, temendo un’invasione tedesca al porto e ai depositi militari, aveva richiesto l’appoggio militare britannico, che inviò un piccolo contingente. Il villaggio originario si era ingrandito durante la guerra per la costruzione della ferrovia da Leningrado, che serviva per far pervenire i rifornimenti dell’Intesa all’esercito zarista. Per effetto di un ramo della calda Corrente del Golfo quelle acque non gelano mai.
Dopo la firma del trattato di Brest-Litovsk si interrompe la collaborazione coi bolscevichi in funzione antitedesca degli ex-alleati. Questi nel settore ora hanno tre obiettivi: primo, impedire ai bolscevichi e ai tedeschi di impadronirsi di oltre un milione di tonnellate di materiale bellico depositato nei numerosi depositi, del valore di 2,5 miliardi di dollari. Secondo, sostenere la Legione cecoslovacca, distribuita lungo la Transiberiana, perché raggiunga Vladivostok per essere poi utilizzata sul fronte occidentale, dopo adeguata riorganizzazione negli Usa. Terzo, sostenere il fronte orientale della guerra civile russa, dove le forze bianche e quelle cecoslovacche stanno avendo la meglio su quelle bolsceviche. Tutto doveva concorrere ad indebolire la rivoluzione e impedirne la diffusione in Europa. Si apre così il Fronte Nord della guerra civile, rimasto comunque secondario.
La Legione cecoslovacca era composta di militari volontari cechi e slovacchi che avevano combattuto a fianco dell’Intesa, dietro alla promessa di poi ottenere uno Stato indipendente cecoslovacco, al momento parte dell’impero austroungarico. Analoghe forze avevano combattuto con l’esercito zarista con lo stesso scopo. Disponeva di 50.000 uomini ben organizzati e armati. Una clausola del trattato di Brest garantiva il loro libero transito lungo la Transiberiana, che avveniva con estrema difficoltà per le pessime condizioni della linea e per l’intenso traffico in entrambi i sensi di marcia, dislocando le formazioni di quei volontari lungo oltre un migliaio di chilometri.
In seguito a un incidente fra soldati di opposte formazioni il comando bolscevico ritirò il permesso di libero transito alla Legione, la quale reagì impegnando in diverse aspre battaglie le disorganizzate truppe comuniste locali e riuscendo ad assumere il controllo di vaste aree lungo la Transiberiana. Questi successi alimentarono la formazione di un variegato numero di gruppi paramilitari controrivoluzionari, impropriamente denominati Armata Bianca, che non riuscì mai a costituire una struttura unica e coordinata perché i diversi gruppi avevano obiettivi discordanti e rimase una sorta di caotica confederazione antibolscevica.
Gli Alleati ordinarono alla Legione cecoslovacca di conquistare Ekaterinburg, a poca distanza dalla quale lo zar e la famiglia erano tenuti prigionieri. Le disorganizzate truppe bolsceviche locali non riuscirono a fermare la contemporanea avanzata della Legione cecoslovacca e delle formazioni dell’Armata Bianca. Il Comitato esecutivo del soviet locale autorizzò allora l’esecuzione dello zar e della famiglia, eseguita il 17 luglio 1918.
L’intenso lavoro organizzativo di Trotski permise all’Armata Rossa di crescere di numero ed efficienza al punto che in breve riuscirono a respingere i cecoslovacchi dalle posizioni appena conquistate. Al comando della Legione premeva ricompattare le varie formazioni per raggiungere Vladivostok il prima possibile, soprattutto dopo la costituzione della nuova repubblica cecoslovacca avvenuta nell’ottobre 1918. Conclusero un accordo con i bolscevichi per un rapido trasferimento, contro la consegna della parte dell’oro imperiale che detenevano e del controrivoluzionario Kolčak. Secondo i rapporti della Croce rossa americana furono evacuati 68.000 volontari.
Riprendiamo la cronologia principale.
10 marzo: Pietrogrado ora è troppo vicino al nuovo confine tedesco per cui il partito comunista decide di spostare la sede del governo e degli organismi centrali del partito a Mosca. Pesò la situazione nella vicina Finlandia dove le formazioni rosse erano in seria difficoltà a sostenere la controffensiva del governo bianco, assistito militarmente dalla Germania.
Nell’arco di poche settimane la rivoluzione bolscevica è duramente attaccata su tutti i suoi confini, compreso lo sbarco di truppe giapponesi a Vladivostok. In questa situazione di fortezza assediata vengono introdotte varie misure economiche, successivamente chiamate “comunismo di guerra” atte a sopperire alle impellenti necessità alimentari e di materiali per l’industria bellica.
Con la pace separata tra Russia sovietica e Germania si alterano gli assetti strategici della guerra, già provati da 4 anni, che ora si ritiene nella fase finale. I governi francese e britannico chiedono a quello americano di intervenire nel settore, soprattutto per difendere i depositi di Murmansk e Arkhangelsk.
L’Inghilterra rifiuta di evacuare le navi dai due porti, al contrario iniziano sbarchi di truppe francesi, inglesi, americane canadesi e italiane per un totale di circa 24.000 unità. Gli organici internazionali non sono di grande qualità militare perché formati da reduci già feriti in precedenti combattimenti o reclute frettolosamente addestrate. Al loro contrasto sono assegnate la Sesta e la Settima Armata Rossa, inizialmente mal equipaggiate e impreparate, come emerse dai primi scontri di maggio con le truppe britanniche nel tentativo di riprendere il controllo della città russa di Pečenga, occupata dai finlandesi bianchi per conto dei tedeschi per utilizzarla come base dei sottomarini.
Il 2 agosto lo sbarco britannico è preceduto da un colpo di mano del capitano zarista Chaplin alla guida di forze antibolsceviche. Il comandante inglese Poole istituisce un governo fantoccio e impone in città la legge marziale. È affondato vario naviglio militare russo e le residue forze bolsceviche non sono in grado di reagire e arretrano.
Il piano strategico britannico prevede due linee di penetrazione usando sulle ferrovie esistenti treni blindati: una da Arcangelo sulla linea per Mosca con l’obiettivo di conquistare Vologda, sede del comando centrale russo, l’altra in direzione KotlasVjatka per collegarsi al fronte est della controrivoluzione, tenuto saldamente dai cecoslovacchi, che cercavano di raggiungere Arcangelo per imbarcarsi per il fronte occidentale. Poole si rende subito conto che senza consistenti rinforzi di uomini e mezzi l’obiettivo primario non sarebbe raggiunto. Fallisce ogni tentativo di arruolamento di volontari. Lenin impone di tenere ad ogni costo Kotlas e Vologda e Trotski imposta una strategia di difesa basata su trincee e fortificazioni, visto l’arrivo dell’inverno. Anche il nuovo comandante inglese Ironside imposta una prudente campagna invernale di consolidamento degli enormi territori controllati mediante un sistema di fortini attrezzati.
Nella Carelia a sud di Murmansk le operazioni militari si svolgono lungo la linea ferroviaria per Pietrogrado dove gli alleati sono avanzati di 600 chilometri; sono fermati da una tenace offensiva di forze rivoluzionarie internazionali guidate da Spiridonov, un operaio di Pietrogrado. La sospensione bellica invernale decisa dal comando inglese permette alla VI Armata Rossa di riorganizzarsi. Il punto di forza era nella 18° divisione, costituita da operai altamente politicizzati di Pietrogrado. Gli effettivi raggiungono le 13.000 unità.
L’11 novembre 1918 la firma dell’armistizio tra Germania e Intesa sancisce la fine della guerra. Nei giorni precedenti, quando il vento artico ha gelato le acque dei fiumi e della baia attorno a Murmansk mentre i fiumi a sud sono ancora navigabili, parte la controffensiva bolscevica presso Tulgas, con alterni risultati. Si intensifica la propaganda e l’agitazione politica contro la guerra nell’esercito alleato.
L’11 dicembre si ha il primo ammutinamento di un discreto numero di soldati bianchi, che si rifiutano di andare a combattere. Una generale diserzione metterebbe in serio pericolo l’intero fronte est. Come repressione sono fucilati 13 organizzatori. Il comando inglese prende atto dell’impossibilità di ottenere una conquista con il minimo sforzo con le loro ridotte forze disponibili. Il morale delle truppe crolla di colpo per la ben organizzata reazione dell’Armata Rossa e soprattutto perché i soldati, dopo la fine della guerra, si chiedono per chi e a che scopo ancora combattere in quelle gelide regioni artiche: tutti vogliono un rapido ritiro dalla Russia.
Nonostante le proibitive condizioni climatiche i combattimenti proseguono in gennaio e febbraio; alcuni attacchi alleati contro i bolscevichi hanno esito positivo.
Il 20 gennaio 1919, ad una temperatura di -45°, presso Shenkursk avviene la battaglia che rappresenta il punto di svolta della guerra; dopo alcuni giorni di combattimenti la città è conquistata dall’Armata Rossa costringendo gli alleati ad arretrare notevolmente. Le proteste si estendono anche ai soldati inglesi, mettendo in forse l’intera campagna.
Il 25 aprile un battaglione russo Bianco si ammutina: 300 di loro, passati ai bolscevichi, attaccarono le truppe alleate presso Tulgas. Sempre più emergono notizie di rifiuto a combattere delle truppe britanniche e alleate.
Tra maggio e giugno inizia il rimpatrio delle forze inglesi e francesi, parzialmente sostituite da volontari inglesi a cui era stato garantito il solo ingaggio difensivo. Anche le truppe francesi dichiarano di partecipare solo ad azioni di difesa. Protesta il contingente italiano per il prolungato dispiegamento dopo tanti mesi dall’armistizio.
Il 10 luglio un’unità Bianca sotto il comando inglese si ammutina e uccide gli ufficiali britannici. 100 soldati si uniscono ai bolscevichi.
Il 20 luglio 3.000 soldati Bianchi nella città chiave di Onega, unica via terrestre invernale per Murmansk, si ammutinano e consegnano la città ai bolscevichi. Vani i tentativi di riprenderla del comando inglese che non si fida più dei suoi reparti.
Le operazioni finali registrano numerose e incisive azioni di sabotaggio allo scopo di ostacolare l’evacuazione delle truppe alleate. Lo scopo del comando bolscevico è di non permettere una pacifica ritirata bensì una precipitosa fuga sotto il fuoco bolscevico.
Il comando inglese reagisce con dure offensive allo scopo di colpire il morale dell’Armata Rossa. A settembre una compagnia di volontari inglesi si rifiuta di partecipare all’attacco. 93 sono arrestati e 13 condannati a morte.
Il 27 settembre le ultime truppe alleate partono da Arcangelo.
Il 12 ottobre 1919 Murmansk è abbandonata. I resti dell’Armata Bianca sono lasciati soli ad affrontare l’Armata Rossa, la quale migliora in organizzazione ed efficienza ad ogni combattimento. L’Armata Bianca, poco disciplinata e con difficoltà di approvvigionamento crolla rapidamente davanti all’offensiva bolscevica lanciata nel dicembre 1919.
Il 21 febbraio 1920 l’Armata Rossa entra ad Arcangelo e il 13 marzo 1920 a Murmansk. I resti del governo bianco fuggono su un rompighiaccio in Francia. Dal punto di vista strategico il comando inglese aveva commesso l’errore di organizzare la campagna contemporaneamente su due fronti su diverse direttrici in un territorio vasto e inaccessibile disponendo di limitate forze fidate, contando su incerti arruolamenti di inesperti volontari locali.
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Il rapporto sul RIARMO DEGLI STATI e già apparso in forma completa sull’ultimo numero di Comunismo.
Il rapporto sulla GUERRA IN UCRAINA già si legge sullo scorso numero di questo giornale.
Il rapporto sull’ATTIVITÀ SINDACALE DEL PARTITO è riportato su Per il Sindacato di Classe inserito nel precedente numero.
FINE DEL RESOCONTO DELLA RIUNIONE DI MAGGIO