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PAGINA 1
La guerra in Ucraina sta entrando nel suo dodicesimo mese e in questo periodo ha già dimostrato ampiamente che non si tratta di una guerra come le altre che si stanno svolgendo, anche da anni, alla “periferia dell’Impero”, dallo Yemen alla Siria, dal Corno d’Africa all’Africa subsahariana, dall’Armenia ai confini dell’Himalaya, dove i fantaccini indiani e cinesi si combattono e uccidono addirittura a mani nude.
È una guerra nel cuore dell’Europa, uno dei maggiori agglomerati capitalistici del mondo, contrappone due eserciti regolari ed è il primo conflitto convenzionale e ad alta intensità combattuto sul continente europeo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
I combattimenti avvengono con modalità che non si vedevano da decenni, forse dalla Guerra di Corea (1950-53) o da quella tra Iraq e Iran (1980-88), e alle quali gli eserciti occidentali non sono più abituati e preparati: intenso e continuo fuoco di artiglieria, impiego di decine di migliaia di combattenti, esteso ricorso alle fortificazioni campali con prolungata vita in trincea, attacchi aerei al suolo, scontri tra decine di mezzi corazzati, accanite lotte per il controllo dei centri urbani, elevato tasso di perdite tra i reparti.
Prefigura un nuovo scontro imperialistico mondiale
Da entrambe le parti sono stati mobilitati centinaia di migliaia di uomini, e anche le perdite si contano ormai a centinaia di migliaia, ovviamente in gran parte proletari.
È evidente che per valutare una guerra di questo tipo è indispensabile tenere conto della situazione politica ed economica a livello globale, della crisi che incalza e che spinge tutti gli Stati borghesi verso una politica di riarmo e di guerra.
Nel numero scorso abbiamo scritto «Dal 2014 la guerra si stava preparando in Europa per dare sfogo alle tensioni imperialistiche che camminavano di pari passo con le crisi ricorrenti». L’Ucraina era una ferita aperta da anni ed è lì che la guerra ha preso origine basandosi anche, come sempre accade, su fattori contingenti.
Non è una guerra tra Russia ed Ucraina
La guerra va collocata in questa temperie economica e sociale.
È vero che la Russia è ormai ridotta al rango di una media potenza e non è certo una superpotenza come poteva essere considerata l’URSS, o come sono oggi gli USA o la Cina; è vero che gli Alti Comandi russi hanno commesso degli errori di valutazione e che le Forze armate hanno mostrato non pochi punti deboli, ma è certo che l’Ucraina è riuscita a resistere fino ad ora solo grazie all’aiuto formidabile e non disinteressato, sia sul piano militare che su quello finanziario, degli Stati Uniti e in secondo luogo delle altre principali potenze occidentali facenti parte o meno della Nato.
Solo il pronto aiuto esterno in armi, dollari, informazioni e soldati addestrati ha permesso allo Stato ucraino di mantenere al fronte centinaia di migliaia di uomini e di mantenere in vita una popolazione di qualche decina di milioni di proletari anche se esposti alle più gravi privazioni.
La classe dominante ucraina, quella che sta conducendo la guerra, decidendo di resistere all’invasione, ha deciso di vendere i propri proletari alla Nato per fare guerra alla Russia mascherando l’operazione con le menzogne della difesa della libertà e dell’indipendenza del Paese.
Chi conduce il gioco
Dopo la recente decisione della Nato e degli alleati di fornire i carri armati tedeschi all’Ucraina, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato che la decisione «non è una lotta contro la Russia, ma una lotta per la libertà». Gli ha fatto eco il cancelliere Olaf Scholz che in una intervista televisiva ha tenuto a ribadire che «no, assolutamente no», la Germania non è diventata parte della guerra in Ucraina con la consegna dei carri armati Leopard a Kiev.
Da parte sua il portavoce del Cremlino Dmitrj Peskov ha dichiarato invece che i paesi della Nato sarebbero ormai cobelligeranti: «L’invio di vari sistemi d’arma in Ucraina, compresi i carri armati (...) Mosca percepisce tutto ciò come un coinvolgimento diretto nel conflitto».
È imperialista sui due fronti
Indubbiamente si è trattato di un’aggressione imperialista di uno Stato borghese contro un altro Stato borghese. Ma noi non diamo un giudizio morale sulla guerra.
Noi comunisti non affermiamo, come fanno i borghesi filistei, che ogni guerra di aggressione è una guerra “ingiusta” e ogni guerra “di difesa” è una guerra giusta. Nel rovinare caotico del capitalismo travolto dalla sua crisi mortale le guerre locali sono una costante e la guerra generale una ineluttabile necessità che trascina nella sua voragine la classe borghese e i suoi giganteschi Stati. Gli aggressori sono allo stesso tempo vittime e carnefici quanto gli aggrediti.
Noi rivendichiamo, inoltre, la possibilità per lo Stato socialista rivoluzionario di condurre guerre di aggressione contro gli Stati borghesi, così come fece l’Armata rossa contro la Polonia tra il 1919 e il 1921, come non abbiamo mancato di esprimere apprezzamento anche per le guerre imbastite dalla borghesia rivoluzionaria contro i vecchi imperi feudali.
Il nostro giudizio su questa guerra è dunque molto chiaro: si tratta di una guerra tra Stati imperialisti – e non è rilevante chi sia l’aggressore e chi l’aggredito – la quale vede contrapposti uno Stato più potente, la Russia, ad uno Stato più debole, l’Ucraina, con quest’ultimo che però è sostenuto da potenti alleati, in primis gli Stati Uniti, la Polonia, la Gran Bretagna.
Giustamente Trotski in uno scritto del 1938 descriveva la Cecoslovacchia come un paese imperialista in quanto vi dominava il capitale monopolistico e vi si opprimevano altre minoranze nazionali. Entrambi questi elementi caratterizzano anche l’Ucraina di oggi. Inoltre è evidente che Kiev si è fatta strumento di potenze maggiori, interessate allo scontro con la Russia.
Una volta si parlava, con riferimento agli Stati dell’Europa rientranti nella sfera d’influenza dell’URSS, di “Stati a sovranità limitata”. La Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria ecc., erano liberi di decidere come organizzarsi al loro interno ma non potevano cambiare la loro collocazione sul piano delle relazioni internazionali, pena l’intervento dell’Armata sovietica.
Con la caduta dell’URSS è cambiato tutto per non cambiare nulla: questi Stati hanno semplicemente cambiato schieramento, ma non dispongono di una reale indipendenza nazionale, impossibile per le piccole nazioni in questa fase di fetido imperialismo. Per salvarsi dall’influenza russa hanno dovuto vendersi agli Stati Uniti o alla Germania, sottomettersi all’imperialismo occidentale e divenirne gli strumenti anche in politica estera.
È contro le borghesie di Europa
La rottura dei legami economici tra la Russia e la Germania e tra la Russia e l’Europa, la messa fuori uso dei gasdotti Nord Stream 1 e 2, del quale è emersa la responsabilità diretta degli Stati Uniti, l’embargo sul gas e sul petrolio russo ecc, hanno colpito le economie europee forse ancora più di quella russa. Anche l’economia cinese è stata colpita con l’interruzione parziale della via di transito che, attraverso l’Ucraina, univa Pechino a Berlino. Di tutto questo si sono largamente avvantaggiati i capitalisti degli Stati Uniti, soprattutto del settore energetico, che adesso esportano il GPL verso l’Europa a costi 4 volte superiori di quello che veniva dalla Russia con i gasdotti, e l’industria militare che sta facendo affari d’oro con le forniture all’Ucraina, ma anche agli altri Stati europei che dovranno riempire i loro arsenali rimasti sguarniti.
L’industria tedesca che per anni aveva goduto della possibilità di utilizzare fonti energetiche a basso costo e pressoché inesauribili provenienti dalla Russia dovrà d’ora innanzi pagare molto più caro il gas e il petrolio rispetto agli industriali statunitensi. Questo determinerà la perdita di quote di mercato a vantaggio del concorrente d’oltre Oceano. Questa è anche una guerra contro la Germania e contro i Paesi europei.
Verso il riarmo
La guerra ha ulteriormente accelerato la corsa al riarmo in tutti i Paesi più industrializzati del mondo, a cominciare dalla Germania ma che interessa anche la Francia, l’Italia, la Gran Bretagna, il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia, l’India, oltre naturalmente alla Cina e agli Stati Uniti. Ormai l’obbiettivo di una spesa del 2% del PIL in armamenti che la NATO voleva imporre ai riluttanti Stati europei, è stato di gran lunga superato da piani di riarmo approvati in fretta e furia sotto la spinta della guerra. «Secondo i nuovi dati diffusi dal dipartimento di Stato degli Stati Uniti, a causa della guerra in Ucraina e delle tensioni nell’Indo-Pacifico le consegne di armi sono state pari a 51,9 miliardi di dollari, registrando un incremento del 49% rispetto al 2021. La Germania è stata la principale acquirente in Europa per un totale di 8,4 miliardi di dollari; a seguire la Polonia con 6 miliardi, soprattutto a seguito dell’ordine di 250 carri armati M1 Abrams dell’agosto 2022» (“Limes”, 26 gennaio 2023).
Capitalisti in combutta
Abbiamo più volte evidenziato nelle nostre valutazioni antiche e recenti che la collaborazione tra Mosca e Washington non è mai venuta meno. Per gli Stati Uniti la Russia non è un concorrente, anzi, per lo più è un alleato, come abbiamo visto in Medio Oriente, in particolare in Siria, dove le due potenze hanno collaborato nel proprio ruolo controrivoluzionario e antiproletario.
Per questo la borghesia americana, attraverso il suo Stato, mantiene un dialogo permanente con il Cremlino. Gli Stati Uniti vogliono logorare l’economia russa e le sue Forze Armate e contenere il tentativo russo di espandersi verso Occidente, ma non desiderano che la Russia crolli, perché è un importante bastione controrivoluzionario il quale mantiene la stabilità borghese nell’area dell’Asia centrale e possiede un arsenale con migliaia di armi nucleari, che è necessario tenere sotto un rigido controllo.
Inoltre l’imperialismo occidentale teme che una crisi dell’attuale regime possa innescare una rivolta sociale di proporzioni gigantesche ai confini dell’Europa.
Si tratta dunque per Washington di logorare e indebolire la Russia, ma non fino al punto di rottura.
Quale potrebbe essere allora la politica del Pentagono? Forse cercare di fare in modo che nessuno dei due eserciti possa prevalere, che falliscano le reciproche offensive e che il conflitto si trasformi in una guerra di logoramento, creando le condizioni per un congelamento delle operazioni militari e un successivo cessate il fuoco, naturalmente infischiandosene di quanto questo potrà costare in termini di perdite umane e materiali per il proletariato dei due Paesi.
Mentre il proletariato di Russia e d’Ucraina si svena sui fronti di guerra, gli Stati imperialisti dunque continuano imperterriti la loro corsa verso la crisi economica e l’abisso della grande guerra generale.
In questa tragica situazione, mentre il proletariato europeo tarda a ritrovare i suoi riferimenti di classe, è soltanto ad un Partito che si metta incondizionatamente dalla parte dei proletari, che “non hanno patria” né bandiera, e sia contro patrie e bandiere borghesi, soltanto a questo Partito, che nella tempesta della guerra non perde di vista il fine della rivoluzione comunista internazionale, che è lontana e vicina allo stesso tempo, solo a questo Partito, che è assolutamente al di sopra e contro ogni parte combattente, sarà dato dirigere il movimento di ripresa della lotta rivoluzionaria di classe, quando ineluttabilmente sarà.
“Quello che è successo è successo. Era nei piani del Destino” - Erdoğan
Nella letteratura islamica, il destino, incluso tra i precetti della fede durante il periodo omayyade, è definito approssimativamente come la convinzione che tutto ciò che è accaduto e accadrà proviene da Allah, che nulla può accadere al di fuori della volontà e della onniscenza di Allah. Secondo l’Islam sunnita chi non accetta i precetti della fede non è considerato musulmano.
Parole simili a queste pronunciate da Erdoğan ai terremotati in una delle tendopoli sono spesso usate dalla borghesia turca, in un Paese che sulla carta è musulmano al 99,8%, anche se in realtà la metà, forse più, della popolazione è musulmana non osservante, agnostica o atea. Per questo tirare in ballo il destino dà l’impressione di voler nascondere la propria negligenza e fomenta le contrapposizioni ideologiche fra le componenti religiose e quelle laiche della società.
Erdoğan soffia sul fuoco equiparando le aspre critiche dei suoi oppositori ad inficiare il precetto di destino, impedendo a metà della società di contestare la inevitabilità della distruzione e della morte. Insomma, queste decine di migliaia di uomini sarebbero morte anche senza il terremoto, perché erano destinate a morire! Quel che sarà sarà, le precauzioni non contano. La televisione turca mostra i salvataggi di bambini miracolati dal fantasma della madre che guida i soccorritori sotto le macerie. Il bilancio di questo terremoto si avvicina a 50.000 morti e potrebbe arrivare a 100.000: lo sa il destino!
Se ci addentriamo a considerare la natura materiale del “destino”, delle costruzioni inadeguate, del processo migratorio incontrollato e non assistito, della discriminazione razziale e della prepotenza contro i curdi e le altre minoranze della regione, della corrotta amministrazione e meccanismi di controllo, vedremo come il “destino” ha tessuto le sue reti senza nulla di sovrannaturale. È vero, è “destino” che gli edifici, costruiti sulle linee di faglia, senza tenere conto delle conoscenze scientifiche, senza ispezioni e prove di resistenza ai terremoti, crollino come castelli di carte. Questo “destino” non cambierà finché non se ne cambieranno le premesse terrene.
La Tettonica
Il terremoto che ha colpito dieci province della Turchia e le contrade di Aleppo e Idlib in Siria, è valutato il più distruttivo di questo secolo, dopo quello di Haiti. La Turchia è attraversata da 550 faglie attive e tali disastri non sono una sorpresa. Il 66% del Paese si trova in zone sismiche di primo o secondo grado. Con il terremoto del 6 febbraio si è attivata una delle due principali faglie che l’attraversano, quella che separa la penisola arabica dall’Africa e che, insieme a quella del Mar Morto, è una delle più attive del Medio Oriente. Gli esperti si attendevano che la faglia di Pazarcık si muovesse, ma non quella di Amanos, in corrispondenza di Hatay. Né era previsto il distacco della faglia di Sürgü, avvenuto 9 ore dopo.
Si prevede un terremoto nella regione compresa fra la pianura di Amik fino al Mar Rosso in un periodo tra i 10 e i 30 anni, che interesserà parte della Turchia ma soprattutto Siria, Libano, Israele e Giordania. E gli scienziati avvertono da tempo che è in arrivo un terremoto di simile intensità ad Istanbul, proprio come quello che ha colpito la Turchia meridionale e la Siria. A Istanbul, come nelle altre 10 città in cui si è verificato il terremoto, continuano a essere rilasciati condoni urbanistici per regolarizzare edifici illegali. Il 90% degli edifici non è adatto a resistere alle sollecitazioni sismiche previste nella regione. Entro il 2023 si prevede che gli abitanti di Istanbul raggiungerà i 18 milioni. La sovrappopolazione sta rendendo questa gigantesca città sempre più decrepita e caotica. Dalla gestione di questo terremoto si può prevedere come sarà gestito il prossimo: anche il destino di Istanbul, permanendo il capitalismo, è già scritto.
La gestione capitalista dell’emergenza
Il rapporto preliminare del terremoto, che si è verificato nel distretto di Pazarcık di Kahramanmaraş alle 4:17 del mattino, alle 5 era già nelle mani dei funzionari dello Stato. Il primo comunicato stampa arrivava un’ora e mezza dopo e affermava che le squadre di soccorso erano partite.
Ma, secondo i dati del governo, 40 ore dopo il terremoto soltanto 7.035 soldati erano al lavoro nella regione. Si dice che solo alla 57ª ora 16.785 militari erano presenti ai soccorsi. A quel punto, già circa 6.000 uomini, provenienti da altri Paesi con cani da ricerca e salvataggio, erano attivi a soccorrere. L’esercito era come sempre presente a Malatya, con distaccamenti a Diyarbakır e Adana, e con una brigata a Kahramanmaraş. Quindi, se i reparti fossero stati inviati senza indugio, insieme alle forze locali della Direzione per la gestione dei disastri e delle emergenze (AFAD) e della Mezzaluna Rossa, molte vite avrebbero potuto essere salvate già entro le 6 del mattino. Migliaia di soldati avrebbero potuto iniziare a scavare nelle loro città.
Le squadre inviate dal governo sono arrivate ad Hatay – città che i volontari raggiungevano con i loro veicoli personali – due giorni dopo il terremoto perché le strade, dicevano, erano impraticabili. Molti intrappolati sotto le macerie non potevano essere raggiunti ed estratti, anche se la loro posizione era nota. Migliaia hanno perso la vita dopo giorni di attesa, nonostante i loro cari invocassero disperatamente le squadre di soccorso.
Ma il dolore dei sopravvissuti non si limita ai lutti. Molti edifici pubblici, ospedali, aeroporti e scuole sono inutilizzabili. In molte province i danni alle strade rendono i trasporti molto difficili. Non c’è accesso all’elettricità, all’acqua e al gas.
Le scosse di assestamento saranno forti quasi quanto le maggiori e quelle di minore intensità si faranno sentire ancora per un anno. Ci vorrà del tempo per valutare i danni e predisporre i piani di emergenza. Nel frattempo gli abitanti dovranno restare fuori dalle loro case perché anche gli edifici con danni minori potrebbero nel frattempo crollare. I superstiti della popolazione della regione, che ammonta a 13 milioni e mezzo più i migranti non registrati, sono ora senza casa e bisognosi di tutto. Le tendopoli allestite per i milioni di senzatetto non bastano.
Mobilitazione spontanea della classe operaia
Se non ci fosse stata una grande solidarietà di classe fin dai primi momenti del terremoto, la situazione oggi avrebbe potuto essere ancora peggiore. Molti da sotto le macerie chiedevano aiuto. In assenza di risposta delle istituzioni, i civili si sono riuniti in scuole e palestre comunicando tramite i social e hanno iniziato immediatamente a coordinarsi e a lavorare con efficacia. I lavoratori di molti settori, dagli operatori sanitari ai minatori, sono accorsi spontaneamente.
Proletari hanno fatto pressione sui padroni per essere inviati a soccorrere, ma spesso non è stato loro consentito. Chi disponeva di ferie annuali le ha utilizzate per consegnare aiuti alla regione o identificare i lamenti dei sopravvissuti sotto le macerie.
L’atteggiamento dei sindacati combattivi
Mentre la base più combattiva delle confederazioni sindacali come DISK e KESK è stata attivamente coinvolta nella mobilitazione, il sindacato dei lavoratori della salute di KESK e Gıda-İş di DISK si è opposto, come sempre, agli attacchi razzisti contro i rifugiati. Invece gli interventi dei dirigenti opportunisti di queste confederazioni e dei loro sindacati federati in genere non sono andati oltre le visite di rito nella regione.
L’Umut-Sen, un’organizzazione di sindacati di base combattivi, ha dichiarato lo stato di emergenza e si è recata nelle zone terremotate con tutti i lavoratori disponibili. L’Umut-Sen ha avanzato le seguenti richieste: «Fare il possibile per subito salvare chi è ancora sotto le macerie; informare la popolazione sulla situazione, senza diffondere il panico né ingannare; le società telefoniche riattivino le linee agli utenti morosi; i gruppi di soccorso, istituzionali e volontari, non siano in concorrenza, senza costrizioni legali; i fondi dello Stato devono essere utilizzati senza limiti; i lavoratori delle zone terremotate siano messi in congedo amministrativo finché dura il rischio del terremoto».
Soprattutto nelle regioni con un basso potenziale di voti per l’attuale governo, gran parte della classe operaia, già diffidente, si è resa conto che lo Stato stava lasciando morire i sinistrati.
Molti lavoratori hanno donato quello che potevano, ma per lo più hanno ritenuto opportuno affidarsi a un’associazione di beneficenza fondata da un artista di musica alternativa, piuttosto che alle organizzazioni statali appositamente create.
Costruire per il profitto
Gli interi distretti di Hassa a Hatay, Islahiye e Nurdağı a Gaziantep sono costruiti su faglie. Nessuna norma edilizia lo impedisce. Secondo le indagini dei geologi si è avuta la liquefazione del terreno in parte della pianura di Amik verso Hatay e sulla costa di Iskenderun. Le strutture costruite su questi terreni non avrebbero potuto resistere a un simile terremoto.
Ma quando la natura del terreno fosse ben individuata, e le strutture correttamente progettate e costruite, e nei posti giusti, sarebbe stato assai più contenuto il numero dei morti.
La Turchia è un paese popoloso nel quale negli ultimi anni si è riversata una grande immigrazione. La popolazione è aumentata a un ritmo che le infrastrutture delle città non sono state in grado di accogliere. La difficoltà della situazione non è difficile da comprendere, ma attribuire al disastro naturale l’unica causa del gran numero di vittime, suscita indignazione in chiunque abbia studiato i terremoti altrove nel mondo e le loro conseguenze. I dati dimostrano che in regioni con la stessa densità di popolazione e simili intensità di terremoto, i tassi di mortalità aumentano in modo proporzionale alla potenza economica del paese! Cioè più capitalismo uguale più morti!
Eccessi immobiliari
L’Amministrazione per lo Sviluppo Abitativo (TOKİ), un’istituzione di cui Erdoğan ha assunto la direzione poco dopo essere andato al governo, si è trasformata in un centro di potere a partire dal 2004. Il TOKİ ha acquisito terreni di valore a costo zero o simbolico e li ha messi in vendita con gare d’appalto.
Negli anni successivi il settore immobiliare si è sviluppato molto rapidamente. Altri paesi hanno dimostrato che un’economia basata sulla rapida crescita del settore immobiliare è destinata ad entrare in crisi. Infatti nel 2014 si è registrata un’enorme eccedenza di unità abitative in tutta la Turchia, in particolare a Istanbul. Quando le banche hanno aumentato i tassi di interesse, i lavoratori a medio e basso reddito hanno cessato di acquistare case. Ci si è quindi rivolti ad acquirenti dall’estero. Mentre i corpi vengono ancora estratti dalle macerie, i funzionari del TOKİ annunciavano che offrivano trentamila appartamenti “la cui costruzione sarà già completata in un anno”.
Si sapeva che la tensione della faglia, la quale non aveva prodotto un forte terremoto da molto tempo, stava aumentando. Ma non lo sapevano gli abitanti. Il fabbisogno di alloggi per la popolazione, in rapida crescita anche a causa dell’immigrazione, faceva gola alle imprese edili. Le case di bassa qualità erano state vendute o affittate a prezzi esorbitanti agli immigrati, in fuga da condizioni impossibili. Molti immigrati erano inoltre costretti a sopravvivere in condizioni di grave povertà in strutture malsane.
La situazione della classe operaia indigena non è molto migliore, con salari che non crescono nonostante l’aumento dei prezzi. Questo ha causato un grande afflusso di masse povere nelle città. Nessuna infrastruttura istituzionale era sufficientemente finanziata per gestire un arrivo di profughi siriani di ampia portata. In molte città della Turchia tutti i servizi, dai trasporti, alla sanità e all’istruzione, è gravemente insufficiente. Le scuole sono sovraffollate, i trasporti pubblici inadeguati e insufficienti, le opportunità di lavoro limitate. Le code per i posti di lavoro sono interminabili. C’è bisogno di medici negli ospedali, di insegnanti e bidelli nelle scuole, ecc. Non sono coperti moltissimi posti di operatori in quasi tutti i settori. Le città, malsane, provocano epidemie e i disastri naturali divengono estremamente letali.
Ma il capitalismo non si preoccupa della perdita di vite umane pur di perseguire il profitto. Accomunati dalla stessa sorte in molte città, i lavoratori abitano nella case peggiori e più vulnerabili.
In Siria
Il governo di Assad non ha praticamente inviato nelle città colpite gli aiuti ricevuti da diverse parti del mondo. Si trattava di aree che il governo ritiene controllate da forze “terroristiche”. Centinaia di donne e bambini rapiti dai gruppi estremisti islamici sono stati lasciati morire sotto le macerie. Assad ha anche proseguito a sganciare bombe sulle vittime del terremoto.
Alla popolazione dell’area, che aveva già un disperato bisogno di aiuti, le Nazioni Unite hanno inviato i rifornimenti di sempre, appena sufficienti a mantenerli in vita, molti di questi nemmeno utili per far fronte all’emergenza del terremoto.
Attualmente si stima che in 5,3 milioni siano senza casa e abbiano bisogno di aiuto.
I profughi siriani
Milioni di profughi in fuga dalla guerra, entrati in Turchia legalmente e illegalmente, i quali vengono utilizzati come manodopera a basso costo e vivono in condizioni di estrema miseria, hanno subito anch’essi gli effetti del terremoto. Molti di loro sono stati sottoposti a manifestazioni di razzismo, anche da parte della polizia che li accusa di saccheggi. Si trovano a contendersi le tende con i terremotati. Essi non possono nemmeno beneficiare degli aiuti elementari che lo Stato fornisce in misura limitata e con grande ritardo. Se aggiungiamo i morti fra i migranti non registrati, che non verranno nemmeno contati, a quante migliaia assommerà il totale delle vittime?
Lezioni e conferme
Nel capitalismo, un regime sociale, nel quale i conflitti di interessi economici e gli attriti politici prendono il sopravvento su tutto il resto, la gestione delle catastrofi è sempre impostata nel modo più redditizio per il capitale.
Su entrambi i lati del confine è stato chiaro che l’urgenza di soccorrere la moltitudine di sopravvissuti era un fatto secondario. Nei primi giorni del terremoto, quando si sarebbe potuto effettuare il maggior numero di salvataggi, i due Stati interessati dal sisma, e anche altri che promettevano di aiutare, hanno ridotto al minimo i loro sforzi.
La borghesia di Turchia – che, per ridurre il numero dei disoccupati, spinge i giovani a invecchiare nelle università, negli “stage”, o a morire nelle guerre in patria e all’estero – ha tratto qualche beneficio dal fatto che migliaia di uomini sono spariti dalle statistiche a causa del Destino. Solo il partito al governo si lamenta che le sue chances alle elezioni si sono ridotte. In Siria, il regime di Assad non ha motivo di lamentarsi se un terremoto colpisce i gruppi di combattenti a lui avversi. Accaparra aiuti internazionali, e assiste a un massacro che può compiere senza sprecare bombe.
Queste catastrofi dimostrano che l’unica forza su cui tutti gli strati inferiori della società possono fare affidamento è la classe operaia. Questo terremoto ci lascia un insegnamento: sarebbe stato possibile salvare molte più vite se i lavoratori in grado di offrire aiuto professionale (tecnici, minatori, edili, sanitari, insegnanti...) fossero stati messi in grado di lasciare i loro luoghi di lavoro e avessero potuto partecipare prontamente ai soccorsi. Una organizzazione di veri sindacati di classe delle diverse categorie, se esistesse, avrebbe permesso di prepararsi in anticipo e mobilitarsi rapidamente. Ma tutto questo sotto il regime del capitale è impossibile.
Contro il razzismo, contro le condizioni di vita insalubri, contro la crisi abitativa, contro la persecuzione dei lavoratori stranieri, i proletari si devono organizzare in sindacati di classe. La risposta della classe operaia turca e siriana, schiacciata giorno dopo giorno nelle sue condizioni di vita, ai borghesi, che si disinteressano della loro stessa vita, non può che essere la lotta di classe, che ha come naturale caratteristica quella di agire collettivamente. Questa attività sindacale potrà adempiere in positivo ai suoi obiettivi sociali solo sotto il potere dello Stato proletario.
Il Partito Comunista Internazionale, che ha appreso le lezioni tratte dal dramma storico, alla luce della dottrina marxista, è la guida che alla classe operaia occorre per vivere come classe e per come classe vincere.
Le celebrazioni regionali della democrazia hanno sfornato per Lazio e Lombardia un verdetto inequivocabile: la destra ha “vinto”, la sinistra borghese ha “perso”. Sebbene l’imbonimento democratico lamenti la caduta dell’affluenza alle urne, divenuta un fenomeno minoritario.
Certo il bestiario politico in voga non brilla per “serietà e competenza”, quegli atteggiamenti compassati e ipocriti che caratterizzavano i primi decenni di storia della repubblica, quando il ceto politico fingeva quel tributo alla virtù che motiva la menzogna. Gli schieramenti non avanzano neanche più la sembianza di idee, non più una visione ideologica di un mondo, ma un brodo primordiale di pregiudizi, di motteggi automatici, che funzionano senza cervello.
Non staremo a cercare la facile analogia con la nibelungica “notte e nebbia” del Terzo Reich, non grideremo al fascismo come se fosse una novità: su quel cavallo la borghesia si dondola da oltre un secolo, nella dittatura aperta come in quella paludata in vesti democratiche, da esso non vuole e non può smontare.
La medesima nebbia avvolge le bande di figuranti nella liturgia elettorale, schieramenti fittizi su questioni “divisive”, infervorando gli uni, rassicurando gli altri, in una universalità delle superstizioni, entusiasmi reazionari e patriottardi ovvero rassegnazione all’esistente camuffata da razionalismo. Immigrazione, sicurezza, terrorismo, criminalità, facile suscitare effimere pulsioni in quell’artefatto mediatico che è l’“opinione pubblica”.
È un eccellente escamotage commissionato a un ceto di politicanti, al servizio della classe dominante borghese, che non dispone ormai di strumenti e margini economici per affrontare la crisi: si ingaggia battaglia con ciò che la situazione consente.
Tutto si macina. Gran parte della propaganda elettorale si è stavolta concentrata sulla vicenda dello sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito. Dalle polemiche sguaiate è emerso che tutto l’”arco parlamentare” è a favore del mantenimento del 41-bis. Anche gli stessi partiti di “sinistra”.
La realtà è che ogni classe dominante attribuisce al proprio Stato un solo fine, principio e norma: difenderne gli interessi, se non la sopravvivenza al potere, con qualsiasi mezzo. Tutto ciò che a questo è utile è legale e giuridicamente consacrato. Vige la legge di guerra.
Ci si accanisce su quel poveraccio non per punire l’azione individuale, ma per oliare i dispositivi legislativi, giurisprudenziali, polizieschi e propagandistici per colpire domani coloro che si pongono agli antipodi della teoria e dei metodi dell’anarchico. La borghesia prende la rincorsa preparando l’opinione pubblica al clima di un aperto controllo poliziesco. Conta di assimilare alla categoria del “terrorismo” ogni moto di malcontento collettivo del proletariato.
Si pone però un interrogativo: quanto si potrà tenere il fiume in piena dei futuri moti operai dentro gli argini della legalità se saranno troppo stretti?
La classe oppressa già mostra una crescente disaffezione verso la finzione e le liturgie della democrazia ed è sempre più difficile convincere che sia utile mettersi in coda per stabilire quale sia la meno abietta delle fazioni politiche borghesi, quale la meno “disonesta” e rapace.
Lavoratori,
In Francia, dalla riforma Balladur del 1993 il sistema pensionistico ha subito tre riforme, quella attuale sarebbe la quarta. Il periodo contributivo è aumentato da 37,5 a 43 anni e l’età da 60 a 62 anni. Questa riforma propone di portarla a 64, o addirittura a 65, per arrivare in futuro a 67, e riducendo anche l’importo delle pensioni. Poiché la maggior parte delle aziende licenzia i lavoratori a partire dai 55 anni, li condanna alla precarietà e all’alternanza di disoccupazione e contratti a termine.
Alcuni “economisti” affermano che i pensionati avrebbero un tenore di vita superiore a quello di chi lavora, ma le statistiche dicono che il salario medio è di 1.789 euro e le pensioni di 1.509.
Per la borghesia e il suo governo si tratta di ridurre gli oneri sociali per aumentare il tasso di profitto. Da qui gli attacchi continui al sistema pensionistico, ai sussidi di disoccupazione, alla legislazione sul lavoro – che viene gradualmente svuotata di tutti i suoi contenuti – e ai servizi pubblici, in particolare al sistema ospedaliero.
Allo stesso tempo i profitti delle banche e i dividendi agli azionisti sono alle stelle: nel 2022 sono andati a questo strato di parassiti 80 miliardi di euro!
Questi giganteschi profitti vengono reinvestiti nelle produzioni e nei servizi? Assolutamente no, le aziende investono il meno possibile. Il grande ruolo storico del modo di produzione capitalista è stato quello di socializzare le forze produttive, sostituendo la piccola produzione familiare del contadino e dell’artigiano con la produzione meccanizzata e centralizzata della grande industria e della grande agricoltura, basata sul lavoro collettivo del proletariato. Questa socializzazione delle forze produttive – base materiale della futura società comunista – entra in conflitto con l’appropriazione privata, e porta inevitabilmente alla caduta del saggio del profitto e alle crisi economiche di sovrapproduzione che scoppiano ricorrenti.
Questo modo di produzione obsoleto, basato sullo sfruttamento del lavoro salariato, è sopravvissuto fino ad oggi solo grazie a due guerre mondiali. Sono state le massicce distruzioni della Seconda guerra mondiale e i suoi 50 milioni di morti a rendere possibile la espansione economica del secondo dopoguerra. Ma dopo la grande crisi internazionale del 1974-75 questo ciclo si è concluso. Da allora il capitalismo mondiale ha rimandato il tracollo solo peggiorando le condizioni del proletariato, reso sempre più precario, oltre che con la corsa all’indebitamento statale e aziendale. Lo sviluppo del capitalismo nel Sud-Est asiatico, in particolare in Cina, ha permesso al capitalismo mondiale di guadagnare trent’anni, ma oggi anche il capitale cinese è investito dalla crisi di sovrapproduzione.
Ci troviamo oggi nella stessa situazione degli anni ’30 che portò alla guerra mondiale. A costo di un indebitamento colossale, la borghesia è riuscita a evitare che la grave crisi del 2008-9 si trasformasse in una devastante recessione come quella del 1929. Ma si tratta solo di un rimedio temporaneo.
La crisi del capitalismo spinge inevitabilmente i diversi Stati verso un confronto generale, di cui quello imperialista fra Russia e Ucraina può essere il detonatore. Domani il confronto coinvolgerà due blocchi guidati dall’imperialismo cinese da un lato e dall’imperialismo americano dall’altro.
Il capitalismo è diventato un modo di produzione totalmente parassitario, sterile. La grande borghesia, industriale, finanziaria e terriera, fa di tutto per mantenere in piedi il suo modo di produzione, che le garantisce immensi privilegi.
Ne sono un esempio le gigantesche rendite che i grandi gruppi del gas e del petrolio stanno raccogliendo.
L’alternativa esiste: la transizione a una gestione comunista, cioè non mercantile, della produzione e della distribuzione è ormai possibile, anzi, necessaria. Ciò implica l’espropriazione della borghesia, l’abbattimento del suo potere politico. Lo Stato borghese, come ha dimostrato la Comune di Parigi, è inutilizzabile per i fini della classe salariata. Il proletariato si deve quindi preparare moralmente e materialmente al confronto con questa classe di uomini inutili che è diventata la borghesia.
Per farlo occorre riscoprire la strada della fratellanza e dell’aiuto reciproco tra i lavoratori, organizzandosi in veri sindacati di classe, che unifichino le lotte per renderle davvero efficaci. Questo non può accadere con i sindacati attuali, diretti verso la collaborazione fra le classi, evitano di centralizzare le lotte, delegano le decisioni a livello locale, disperdendo così il movimento.
È anche necessario un inquadramento politico che recuperi il programma storico del comunismo, con l’avanguardia del proletariato tornata nei ranghi del Partito Comunista Internazionale, sulla linea del Manifesto del 1848 e delle sue gloriose tre Internazionali.
- Per l’abolizione del lavoro salariato e del capitale
- Viva la lotta di classe, Viva la dittatura del proletariato!
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Le roteste che da metà settembre scuotono l’Iran sono ancora lontane dal trovare uno sbocco politico e di mettere in discussione i rapporti di forza fra le classi e gli equilibri di potere consolidati da tempo all’interno del regime della repubblica borghese teocratica.
IIl movimento di protesta, nato spontaneamente dall’uccisione da parte della “Polizia Morale” di Mahsa Amini, non ha saputo darsi una direzione in grado di unificare ed estendere le lotte. Questo si spiega con l’incapacità, o anche la non disponibilità, di questo movimento di saldarsi col malcontento di tipo economico del proletariato e degli strati più deboli della società iraniana.
Dal maggio del 2022 si erano intensificate le proteste e i tumulti che sin dalla fine del 2017 hanno turbato la pace sociale del paese. Alla fine del 2017 ci fu una rivolta spontanea dovuta a cause economiche in cui la componente proletaria fu assai importante. La successiva repressione non la placò del tutto e negli anni successivi il proletariato iraniano e gli strati semiproletari e diseredati hanno continuato a esprimere un certo grado di turbolenza sociale.
Lo stesso stava accadendo a partire dal maggio del 2022 quando il carovita e la miseria aveva dato vita a proteste in cui la componente operaia non era affatto assente. Ad ampliarle nella provincia del Khūzestān anche la mancata fornitura di acqua corrente.
Tuttavia il proletariato iraniano, indocile e combattivo, sprovvisto come è degli organi della propria indipendenza di classe, che sono il partito comunista e il sindacato, non è riuscito a imporre la propria direzione nelle lotte, che hanno finito per assumere un carattere interclassista.
Nei mesi successivi si rafforzato questo carattere delle proteste. L’oppressione della donna e l’umiliante imposizione del velo suscitano indignazione, che però resta senza sbocchi in assenza del protagonismo della classe lavoratrice, saldamente unificata sul piano delle proprie rivendicazioni economiche di classe.
La borghesia e le mezze classi, che mal sopportano gli eccessi dell’occhiuta “polizia morale”, non sono interessate ad alcun moto del proletariato, anzi preferiscono che resti fermo a subire in silenzio il ferreo e terroristico dispotismo, in fabbrica e fuori.
Questa lotta contro il regime non coinvolge soltanto le mezze classi, se con sapiente efferatezza la repressione teocratica si è abbattuta con maggiore violenza sugli elementi proletari o semiproletari, come lo erano i quattro giovani giustiziati. La repressione nei confronti delle donne che rifiutano il velo è assai più blanda nei quartieri dei ricchi che in quelli proletari.
Altro elemento delle proteste è la questione delle minoranze etniche, soggette a gradi difformi di oppressione. Curdi e beluci vi hanno dato un contributo significativo. Come gli arabi del Khūzestān, subiscono, oltre alla discriminazione linguistica, anche quella religiosa dato che, sunniti, restano minoritari e subalterni nell’Iran delle gerarchie chiesastiche sciite. Una certa inquietudine si avverte anche fra la componente turca sciita degli azeri, la minoranza linguistica più importante del paese, la cui borghesia guarda con sempre maggiore interesse al “modello” della Turchia.
Per un paese a capitalismo maturo, sul quale pesano il rallentamento della crescita industriale e le difficoltà per le sanzioni economiche imposte dall’Occidente, al fine di limitarne la produzione petrolifera, esiste evidentemente un problema di gestione della crisi da parte del regime politico teocratico borghese. Il problema della turbolenza sociale rischia di farsi sempre più complesso, con la disoccupazione al 10% della forza lavoro e al 25-30% per i giovani. La costante svalutazione della moneta si fa sentire con rialzi repentini dei prezzi (l’inflazione si attesta sul 40%) e la miseria alligna fra le grandi masse. Il 45% degli iraniani vive al di sotto della soglia di povertà e il 10%, sprofondato nella povertà assoluta, deve fare i conti con seri problemi di denutrizione.
Anche l’andamento demografico non asseconda la stabilità sociale se su una popolazione complessiva di 88 milioni circa il 51% ha meno di 30 anni, mentre la popolazione attiva non raggiunge neanche i 25 milioni di persone. I dati sulla disoccupazione, in particolare giovanile, sono fortemente sottostimati nelle aree rurali, dove risulta occupato nell’agricoltura ancora oltre il 17% della forza lavoro.
Per altro l’Iran è entrato ormai da alcuni decenni nelle piena maturità capitalistica. Da molti anni oltre il 30% della forza lavoro è addetta all’industria. Il settore manifatturiero è abbastanza sviluppato, mentre l’intensità industriale del paese, secondo la produzione di elettricità stimata dall’Onu, vede l’Iran con un indice di 107, in lieve vantaggio rispetto al 106 della Turchia.
In questo contesto di modernità strutturale un elemento lega la stabilità politica a reti di interessi possenti: i pasdaran, i cosiddetti “guardiani della rivoluzione”, oltre che il braccio militare più affidabile della teocrazia borghese, controllano una parte cospicua dell’economia del paese. Un’analogia si trova con l’acquisizione del controllo dell’economia da parte dell’esercito egiziano, che va avanti da alcuni decenni. Come in Egitto i Pasdaran, secondo alcune valutazioni, attraverso le “bonyad”, letteralmente “fondazioni”, esercitano un rigido controllo su oltre il 60% dell’economia iraniana.
Questo indica una netta tendenza al capitalismo di Stato e spiega anche come le lotte dei lavoratori precari del settore privato, in primo luogo quello petrolifero, trovino spesso indifferenti i proletari impiegati nel settore controllato direttamente o indirettamente dallo Stato, i quali contano su maggiori garanzie, come uno stipendio compatibile col livello di sussistenza e una maggiore stabilità del contratto di lavoro.
Questo processo di rafforzamento del ceto militare dei pasdaran segna una lotta politica interna alla classe dominante iraniana, delineando schieramenti in cui gli orientamenti di politica estera hanno avuto riflessi notevoli sui criteri di gestione dell’economia nazionale.
Negli anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo le presidenze di Rafsanjani e di Khatami hanno sviluppato tendenze di politica economica “liberista” e un atteggiamento conciliatorio nei confronti dell’Occidente “capitalistico”, pur nei limiti consentiti dalla cornice della Repubblica Islamica. Essa era nata dal rovesciamento del regime monarchico dei Pahlavi, restaurato nel 1953 dal colpo di Stato pianificato fra Londra e Washington che pose fine al governo di Mossadeq, unico tentativo di politica nazional-liberale espresso dalla borghesia iraniana.
La politica di Khatami che fu presidente fra il 1997 e il 2005 fu di privatizzare gran parte delle imprese di proprietà statale, frutto anche della confisca dei beni della corona successiva al suo rovesciamento. Il carattere tendenzialmente statale assunto dal capitalismo iraniano successivo alla cosiddetta “rivoluzione islamica” del 1979 aveva dato vita a una forma di dirigismo economico che non disdegnò l’adozione di piani quinquennali.
Nel 2005 le elezioni portarono alla presidenza Ahmadinejad, fautore della tradizione più “rigorista”, anche in senso economico, della Repubblica Islamica. La politica economica del suo governo non poté tuttavia discostarsi dal “liberismo” dei due precedenti presidenti e quando si arrivò alla privatizzazione di 300 aziende controllate dallo Stato, per un valore di 70 miliardi di dollari, avvenne che soltanto il 13,5% di esse finì nelle mani dei privati, fra cui i grandi capitalisti iraniani. Quasi tutta la parte rimanente passò nelle mani dei pasdaran.
Questa “militarizzazione” dell’economia iraniana va vista come un elemento di determinazione delle scelte politiche dello Stato in due sensi: 1) i pasdaran hanno bisogno di conservare la presa sulla società iraniana a vantaggio della propria rete di interessi economici, e questo si riflette anche nella necessità di imporre alle masse i canoni di comportamento previsti dall’interpretazione della legge religiosa propria degli ayatollah sciiti; 2) la ripresa del dialogo con l’Occidente implicherebbe necessariamente un rafforzamento degli scambi economici con America ed Europa, indebolendo fatalmente il peso della porzione dell’economia iraniana controllata dai pasdaran, i quali possono giustificare la loro onnipresenza ai posti di comando con la tensione permanente e con la guerra portata avanti dalle milizie filoiraniane in Iraq, Siria, Libano e Yemen.
Da queste premesse e dalla politica delle sanzioni imposta dalle potenze occidentali, in primo luogo dagli Stati Uniti, deriva che le principali risorse di esportazione iraniane, il petrolio e il gas, hanno attualmente un peso ridotto rispetto al passato, sia nella economia del paese sia nelle esportazioni.
QQuesto per vari motivi. La popolazione è cresciuta enormemente negli ultimi decenni passando dai 28,45 milioni del 1970 agli 87,92 del 2021. Negli anni ’70 la produzione di petrolio ha sfiorato in alcuni periodi i sei milioni di barili al giorno. Nel 1978, ultimo anno del regime monarchico, la popolazione iraniana si contava in 36 milioni. Dunque al momento del passaggio al regime teocratico – non possiamo parlare di alcuna rivoluzione sociale per l’Iran, ma di un violento cambio di regime in uno scontro fra fazioni borghesi – l’Iran produceva un barile di petrolio al giorno ogni sei abitanti, e gran parte della produzione era destinata all’esportazione. Nel dicembre scorso, in una fase di ripresa dopo due anni di ribasso dovuto alla pandemia, quando venivano estratti circa 2 milioni di barili al giorno, la produzione nazionale di greggio si è assestata sui 2,8 milioni. Ma nel frattempo la popolazione iraniana è aumentata ad 88 milioni: dunque abbiamo un barile di petrolio ogni 31,4 abitanti. A questo è da aggiungere che oltre due terzi della produzione di petrolio sono attualmente destinati ai consumi interni.
L’andamento delle esportazioni di petrolio getta luce sullo stato attuale delle relazioni internazionali dell’Iran. Sulla carta il petrolio iraniano sarebbe messo al bando dalle sanzioni imposte nel 2018 da Trump quando denunciò l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Vienna nel 2015. Nel 2020 l’effetto combinato delle sanzioni e della pandemia aveva fatto crollare le esportazioni iraniane di greggio a circa 100.000 barili al giorno. In seguito il volume si era assestato fra gli 800/850.000 barili al giorno.
Il paradosso apparente è che una impennata delle vendite di petrolio all’estero si è avuta dopo l’inizio delle rivolte. A dicembre del 2022 l’Iran ha esportato 1,4 milioni di barili, quasi il doppio dell’estate scorsa. A chi sta vendendo il petrolio l’Iran? Fatto è che la Cina ha aumentato assai le importazioni dalla Malesia: a dicembre 1,2 milioni di barili al giorno, quando la produzione malese è inferiore al mezzo milione di barili.
Forze materiali, non ideologiche, spingono il regime teocratico iraniano a guardare verso oriente. Sono motivi economici, dunque politici, a spingere gli ayatollah a vendere droni alla Russia per proseguire la guerra in l’Ucraina. E cause economiche determinano la politica degli Stati Uniti per i quali il cosiddetto “rispetto dei diritti umani” è solo una formula ipocrita che serve a giustificare crimini di Stato di ogni genere o atteggiamenti compiacenti anche verso quelli che la propaganda fa passare come i peggiori nemici.
Gli Stati Uniti avevano intavolato trattative con l’Iran per alleggerire le sanzioni. L’esplosione delle proteste ha sospeso il negoziato. Il tira e molla da parte dell’amministrazione Usa nei confronti dell’Iran è un modo per continuare a esercitare una pressione, ma senza voler arrivare al rovesciamento del regime, alla qual cosa non necessariamente sono interessati. Intanto il regime concede una parziale amnistia per alcuni intellettuali e manifestanti...
In Perù continuano i disordini diffusi in tutto il Paese, dove diversi partiti e movimenti sociali si oppongono al nuovo governo sorto dopo l’arresto del presidente Pedro Castillo con l’accusa di colpo di Stato. Ci sono state proteste massicce e continue per chiedere la sua liberazione, la convocazione di elezioni, lo scioglimento del Congresso e l’insediamento di un’Assemblea Costituente per riformare la Costituzione progettata a suo tempo da Fujimori. La repressione governativa ha già provocato più di 80 morti e molte decine di feriti e arresti.
Non sono state avanzate rivendicazioni proletarie, come la richiesta di aumenti salariali o la riduzione della giornata lavorativa. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica e Informatica del Perù (INEI), più di 18 milioni di peruviani lavoravano nel primo trimestre del 2022, il 4,6% in più rispetto al livello pre-pandemico. Ma di questa massa di lavoratori, il 75% (13,5 milioni) lavorava nelle aree urbane, e di questi solo il 29% (4 milioni) ha un lavoro formalmente riconosciuto, il che implica che il 70% (9,5 milioni) dei salariati nelle città lavora in condizioni di “informalità”, cioè al nero. Le statistiche mostrano che a livello nazionale quasi 8 peruviani su 10 lavorano in modo irregolare, mentre a Lima 4 persone su 9 sono sottoccupate.
Questa situazione va di pari passo con la mancanza di accesso alla sicurezza sociale e con salari molto bassi (coperti dall’informalità), che si aggrava nel caso delle donne e dei più giovani. Tuttavia, la Central General de Trabajadores del Perù non ha partecipato alle attuali mobilitazioni per denunciare la situazione e per avanzare le rivendicazioni dei lavoratori, si è unita invece al coro delle richieste democratico-borghesi dei movimenti sociali e dei diversi partiti attivi in parlamento, siano essi fujimoristi o presumibilmente “di sinistra”.
Il 19 gennaio, migliaia di persone provenienti da tutto il Paese e dalla stessa Lima, si sono riunite nella cosiddetta “Marcha de los Cuatro Suyos”, in manifestazioni che si sono disperse per tutta la città a causa della repressione governativa con il dispiegamento nelle strade di 12.000 uomini della polizia. Il governo ha annunciato nella stessa giornata che avrebbe esteso lo stato di emergenza per altri 30 giorni, e la presidente ha dichiarato che non si sarebbe dimessa e che il governo, il congresso e le forze armate erano “più uniti che mai”. Questa unità del governo e del congresso si è concretizzata anche in una risoluzione che autorizza l’ingresso di navi e di forze militari straniere nel Paese.
Nel frattempo è emerso che la società svizzera Glencore ha sospeso le operazioni di estrazione del rame in Perù dopo il terzo attacco in un mese alle sue installazioni da parte dei manifestanti.
Per quanto la borghesia e le multinazionali minerarie possano prendere in considerazione di cedere al movimento di massa e fare dimettere la Boluarte dalla presidenza, al momento questo esito non sembra affatto scontato.
Il movimento di protesta ha assunto quasi la forma di un’insurrezione, nonostante le debolezze del suo coordinamento e direzione, ma non è né proletaria né rivoluzionaria, viene indirizzata verso la richiesta di più democrazia, cioè più democrazia borghese, con un riordino interno alla classe dominante borghese delle forze politiche che controllano le istituzioni dello Stato peruviano. Di fronte alla pressione delle masse, il Congresso ha valutato la proposta del presidente Boluarte di anticipare le elezioni presidenziali all’anno 2023, convogliando così tutto il malcontento nella trappola del voto. In seguito il Congresso ha rifiutato la proposta.
La Confederación General de Trabajadores del Perú (CGTP) è la più grande confederazione sindacale del paese, con oltre 800.000 iscritti. La maggior parte appartiene al settore pubblico. Ma gran parte dei lavoratori, generalmente precari, non è sindacalizzata. La CGTP ha chiesto l’autorizzazione legale per indire uno sciopero generale nazionale a partire dalla mezzanotte di giovedì 8 febbraio. Le richieste che avanza sono: dimissioni di Boluarte, un governo di transizione, nuove elezioni, un referendum costituente e la fine della strage di dimostranti. Non richiede aumenti salariali o altre rivendicazioni di classe.
La CGTP non aveva proclamato uno sciopero generale da più di 20 anni. È stata la pressione delle mobilitazioni sociali, sia in provincia sia a Lima, che l’ha costretto. Il ministero del Lavoro ha vietato lo sciopero. Tuttavia il 9 febbraio si sono svolte mobilitazioni a Lima e in tutto il paese.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
(Rapporto alla riunione generale di gennaio)
Il 1° febbraio, insegnanti, macchinisti, dipendenti pubblici, docenti universitari, tranvieri e guardie di sicurezza hanno scioperato e manifestato in massa a Londra. Si è trattato della più grande giornata di azione sindacale da oltre un decennio nel Regno Unito. Oltre che per rivendicazioni salariali, è stata anche una protesta contro la nuova legislazione antisciopero che il 30 gennaio è stata approvata dalla Camera dei Comuni e ora deve essere sottoposta alla Camera dei Lord prima di entrare in vigore.
Si stima che circa mezzo milione di lavoratori abbia preso parte allo sciopero e alla manifestazione. Fra loro 100.000 lavoratori del pubblico impiego, organizzati col sindacato Public and Commercial Services Union, 300.000 della scuola, del sindacato National Education Union, 70.000 universitari, macchinisti della Associated Society of Locomotive Engineers and Firemen, e autotranvieri di Londra.
Lo sciopero non ha lasciato circolare quasi nessun treno in Inghilterra e migliaia di scuole e musei sono rimasti chiusi.
Il capo del PCS, Mark Serwotka, ha dichiarato che vi saranno altre giornate di sciopero di questo tipo, poiché “ha senso” che i diversi sindacati lavorino insieme per ottenere risultati. Ha aggiunto che più di un milione di lavoratori saranno interessati dagli scioperi convocati per i prossimi mesi.
Nella sanità quella in corso è definita la più grande ondata di scioperi nella storia del Sistema Sanitario Nazionale. Gli infermieri avevano già scioperato il 10, il 18 e 19 gennaio. Il personale delle ambulanze l’11 e il 23 gennaio. Il 26 gennaio avevano scioperato anche i fisioterapisti di 30 istituti – uno su sette in Inghilterra. Il 6 febbraio per la prima volta i lavoratori delle ambulanze e gli infermieri hanno scioperato insieme, rompendo la tradizionale divisione fra mestieri nelle lotte. Gli infermieri sono stati chiamati allo sciopero dal sindacato Royal College of Nursing.
Fatto importante è che il personale delle ambulanze non ha ceduto alla richiesta del governo di comunicare ai dirigenti ospedalieri se e quando avrebbero scioperato: rifiutandosi hanno messo in difficoltà l’esercito, chiamato a rimpiazzare gli scioperanti.
Il 6 gennaio scorso è stato annunciato che i medici tirocinanti a marzo sarebbero entrati in sciopero per 72 ore, se la loro votazione l’avesse approvato. Lo stesso giorno il sindacato dei medici, la British Medical Association (BMA), «ha lanciato l’allarme sostenendo che dal 2008 i medici in formazione specialistica hanno subito una riduzione “sconcertante e ingiustificabile” del 26,1% del loro stipendio». Da lunedì 9 gennaio per sei settimane il sindacato ha fatto votare più di 45.000 tirocinanti.
Il 25 gennaio a Coventry 300 lavoratori, su un totale di 1.500, hanno partecipato al primo sciopero in un magazzino Amazon nel Regno Unito, contro la proposta di aumento salariale del 5% a 10,50 sterline l’ora. Per i lavoratori – organizzati nel sindacato GMB – una cifra accettabile non dovrebbe essere inferiore a 15 sterline.
Il Trade Union Act del 2016
A fronte della ondata di scioperi, che sembra non arrestarsi, il governo del Regno Unito ha recentemente annunciato un piano per introdurre una nuova legge antisciopero, lo “Strikes (Minimum Service Levels) Bill 2022-23”. La nuova legge dovrebbe consentire ai dirigenti dei servizi pubblici (sanità, vigili del fuoco, ambulanze, ferrovie, centrali nucleari) di citare in giudizio i sindacati e licenziare i dipendenti nel caso in cui non venissero rispettati determinati livelli minimi di servizio. The Guardian riportava che «la nuova legge consentirà ai datori di lavoro di presentare un’ingiunzione per impedire gli scioperi o di chiedere un risarcimento danni in caso di sciopero».
Pat Cullen, segretario generale del Royal College of Nursing, ha osservato: «questi livelli di personale minimi, stabiliti per legge, li vorremmo vedere coperti tutto l’anno, non solo in queste circostanze estreme». Sara Gorton – responsabile per la salute del sindacato Unison – l’ha ribadito: «Il pubblico e il personale sanitario sarebbero favorevoli a livelli minimi di personale nel Servizio Sanitario Nazionale ma tutti i giorni della settimana. Così i pazienti non dovrebbero agonizzare sui pavimenti dei Pronto Soccorso o morire nelle ambulanze. Ma imporre dei minimi legali di personale nei giorni di sciopero e minacciare di licenziare gli operatori sanitari quando ci sono posti vacanti record nel NHS, dimostra che un’assistenza sanitaria adeguata non è ciò che i ministri vogliono. Il governo sta combattendo in modo sconsiderato contro i lavoratori del NHS e i loro sindacati per mascherare anni di fallimenti nell’affrontare la questione dei salari e del personale».
Keir Starmer, capo del Partito Laburista, si è affrettato a dire che, nella eventualità fosse eletto al governo, abrogherebbe la nuova legge. Ma ciò contrasta con la sua proibizione a un membro del gabinetto ombra laburista a farsi vedere ai picchetti lo scorso autunno e con la sua recente descrizione del suo come “il partito delle imprese”. Starmer inoltre si è scordato il fatto che anche il suo predecessore alla guida del Partito Laburista si era impegnato ad abrogare la precedente legislazione antisindacale, il Trade Union Act del 2016, cosa che poi si è guardato bene dal fare.
Quando fu introdotta il regime borghese pensava che la legge del 2016 avrebbe impedito ai sindacati di organizzare azioni efficaci. Ma la determinazione dei lavoratori li ha in gran parte smentiti.
Poiché gli scioperi in corso riguardano in gran parte settori interessati da questa legge, vale la pena ricordare alcune delle sue disposizioni chiave:
1) - Lo sciopero, diversamente da quanto accade in Italia, deve essere previamente approvato da una votazione fra gli iscritti al sindacato che lo promuove. La legge del 2016 ha innalzato le soglie per l’approvazione dello sciopero: debbono votare almeno il 50% degli aventi diritto e a favore dello sciopero il 40% dei votanti.
Il partito indica ai lavoratori di non subordinare le loro lotte alle formalità democratiche, di non farsene un feticcio. Lo sciopero non è una manifestazione di opinioni ma un’azione di viva guerra sociale, un fuoco che, una volta acceso, può estendersi o spegnersi. Uno sciopero, anche se iniziato da una minoranza può – in determinate condizioni – crescere e riuscire vittorioso.
Il sindacalismo di classe non si sottomette al principio assoluto della conta dei voti, in ossequio a calcoli e orientamenti individuali. L’esito della guerra fra le classi è questione di forza, non di forme rappresentative.
2) - Il voto per approvare azioni di sciopero avviene oggi tramite schede inviate per posta, e non in assemblee in presenza. Anche questa prassi è opposta a quella del sindacalismo di classe. Le votazioni per intraprendere, continuare o interrompere un’azione sono certo necessarie, servono a dare conforto e forza ai lavoratori stessi, e indicazioni per le decisioni dei dirigenti sindacali. Ma tali votazioni, quando possibile, devono essere assembleari, in riunioni dei lavoratori e con voto palese. Ciò implica la selezione di chi si reca alle assemblee ed è disposto a prender posizione di fronte ai compagni di lavoro. Invece nelle votazioni segrete, o per posta, il voto di un crumiro ha lo stesso valore di quello di un lavoratore disposto a sacrificare se stesso per gli interessi collettivi. È certo preferibile la prassi usata in Francia, degli scioperi “rinnovabili” (reconductible), in cui i lavoratori riuniti in assemblea decidono per alzata di mano.
Per ironia, da notare la difficoltà nelle votazioni individuali in coincidenza con lo sciopero dei postini!
3) - Altro punto chiave della legge del 2016 è il preavviso di almeno due settimane che i sindacati devono dare al padrone prima di intraprendere uno sciopero. Questa regola è analoga a quella introdotta in Italia con la legge 146 del 1990, e che con gli anni è stata gradualmente resa più stringente, giungendo in alcuni casi a preavvisi ancora più estesi. Essa è un ottimo mezzo per la classe dominante per raffreddare la combattività e per ridurre l’efficacia delle lotte. Inoltre permette alle aziende di anticipare le produzioni, assoldare crumiri, oltre che dispiegare campagne mediatiche e altre azioni contro la lotta operaia. Il sindacalismo di classe combatte tali restrizioni, i lavoratori scenderanno in sciopero senza preavviso, loro intenzione è colpire il padronato e i suoi traffici.
4) - Il Trade Union Act del 2016 prevede poi una “supervisione dei sindacati sui picchetti”, una serie di norme poco chiare il cui scopo è quello di dare ulteriori opportunità di dichiarare illegali i picchetti in forza di piccoli errori burocratici.
5) - Infine vi è la questione dell’”opting in” o “opting out”: un macigno della tradizione dell’opportunismo nel movimento operaio del Regno Unito. È il trasferimento automatico di una parte delle quote di iscrizione al sindacato al partito politico prescelto dalla dirigenza sindacale. Il principale beneficiario di questa prassi è da sempre il Labour Party. La legge del 2016 ha introdotto il cosiddetto “opting in”, ossia la clausola che sia l’iscritto al sindacato ad indicare esplicitamente il partito che intende finanziare. Non stupisce che il capo del Partito Laburista, nel caso in cui tornasse al governo, intenda abolire questa norma per tornare alla precedente prassi, che in italiano diremmo del “silenzio assenso”.
Non è difficile prevedere che le dirigenze collaborazioniste dei sindacati di regime faranno di tutto per presentare come sostanziali le minime o nulle modifiche alla legge, come il ritorno al precedente sistema dell’“opting out”.
* * *
L’attuale ondata di scioperi in Gran Bretagna conferma che, nonostante queste restrizioni, la lotta di classe non è sopprimibile, né che appartene al passato, come hanno scribacchiato tante penne vendute al regime. La borghesia ha interesse a che vengano profuse queste frottole, ma essa stessa è ben consapevole di quanto poco valgano. È consapevole dell’inevitabile ritorno alla lotta della classe proletaria per i suoi bisogni economici immediati. Per questo la borghesia non si affida certo solamente ad argomenti ideologici ed adotta strumenti legislativi. Ma cammina su uno stretto sentiero: da un lato limita quanto più possibile la libertà di sciopero, per impedire con la forza il movimento generale della classe lavoratrice. Dall’altro teme che tali limitazioni siano eccessive, che ottengano l’effetto opposto a quello desiderato, ossia i troppo restrittivi divieti spingano il movimento difensivo sul terreno della illegalità, il che potrebbe favorire una sua radicalizzazione e passaggio alla lotta di classe politica.
Il livello al quale conviene alla classe dominante mantenere questa asticella della illegalità varia a seconda del periodo storico, dei rapporti di forza fra le classi: in determinati contesti la borghesia può vedersi costretta ad abolire ogni libertà di sciopero e di organizzazione sindacale. Questo avviene in genere in occasione di una guerra, ma anche allorquando la lotta operaia assume ampiezza e forza.
La classe dominante è pronta a qualsiasi azione per salvare il suo dominio politico. Preferisce usare la menzogna democratica, ma non tarderà, quando questa non bastasse, a gettarsi fra le braccia del fascismo per resistere alla rivoluzione comunista, nella suprema difesa del capitalismo.
(Rapporto alla riunione generale di gennaio)
In Francia, dopo una drastica riforma dei sussidi di disoccupazione nel 2022, il governo si è lanciato nuovamente all’attacco contro le pensioni.
Nel 1982, con il governo del socialista Pierre Mauroy, fu introdotta la possibilità di andare in pensione, con aliquota piena, a 60 anni invece dei 65 precedenti, a condizione che il periodo contributivo fosse di almeno 37,5 anni.
A partire dal 1993 è iniziato l’attacco al sistema pensionistico. Una prima riforma ha portato a 40 anni il periodo di contribuzione per raggiungere l’aliquota piena. Nel 1995 un nuovo attacco per “unificare” le regole di calcolo per tutte le categorie – compresi i regimi speciali in SNCF (ferrovie), RATP (trasporto locale parigino) e EDF (la compagnia elettrica nazionale), dove i lavoratori potevano andare in pensione a 55 anni – provocò una lotta decisa, ad oggi ancora ineguagliata, che costrinse il governo a fare marcia indietro.
Nel 2003 il governo mise sotto attacco il sistema pensionistico a ripartizione. Le mobilitazioni riuscirono a fermare quella riforma.
Nel 2010, invece, nonostante quattordici giornate di manifestazioni, nell’arco di diversi mesi, indette da tutti i principali sindacati, l’età pensionabile fu innalzata da 60 a 62 anni dal governo Sarkosy.
Nel 2019 il governo ha nuovamente attaccato il sistema a ripartizione proponendo un sistema pensionistico “a punti”, ma è stato fermato da un robusto movimento di lotta, pur inferiore a quello del 1995 (vedi “Il movimento contro la riforma delle pensioni in Francia”).
Infine, nell’ambito del piano di rilancio europeo per promuovere la “transizione ecologica e digitale” concesso ai paesi dell’Unione dalla Commissione di Bruxelles nel luglio 2021, la borghesia francese ottenne 40 miliardi, a condizione di riformare le pensioni per raggiungere l’età di pensionamento degli altri paesi dell’Unione (da 64 a 67 anni). Il governo prima rinviò la scadenza, ora sta attaccando con forza. L’obiettivo è aumentare l’età pensionabile a 64 anni entro il 2030, con un periodo di contribuzione di 43 anni per ottenere l’aliquota piena. Inoltre finirebbero i regimi speciali di RATP, EDF, SNCF e Banca di Francia. Il testo è stato presentato all’Assemblea Nazionale il 6 febbraio e arriverà al Senato alla fine del mese. In mancanza di approvazione il progetto sarà imposto per decreto.
Giovedì 19 gennaio una prima giornata di sciopero generale è stata indetta dalla intersindacale CGT-Sud Solidaires-FO-FSU e, diversamente dal 2019, anche dalla CFDT, il più collaborazionista fra i maggiori sindacati. Più di 2 milioni di manifestanti sono scesi in piazza in tutta la Francia, di cui 400.000 a Parigi. È stata superata la forza del 2019 che ne aveva mobilitati 800.000. Per le dimensioni ha ricordato il movimento del 1995, ma gli scioperi non sono ugualmente risoluti. Il governo appare determinato e non si arresterà se gli scioperi non riusciranno a paralizzare il paese.
Tuttavia è certamente stato un ottimo primo passo. Lo sciopero ha coinvolto anche settori generalmente estranei alle lotte, come le piccole imprese e il commercio: saloni di parrucchieri, negozi di abbigliamento, supermercati, ristoranti, logistica, assistenti domiciliari e all’infanzia. Le manifestazioni sono state molto partecipate anche nelle città di piccole e medie dimensioni.
Alla SNCF l’adesione allo sciopero è stata del 46%, del 77% fra i macchinisti dei treni ad alta velocità. Ma le assemblee sono state poco partecipate. Nei giorni successivi non hanno mantenuto l’intenzione di svolgere due giorni di sciopero ogni settimana, come durante il conflitto per la privatizzazione della SNCF 4 anni fa.
Martedì 31 gennaio l’intersindacale ha chiamato a una seconda giornata di sciopero generale nazionale. I manifestanti in tutta la Francia e a Parigi sono stati ancora più numerosi rispetto al 19 gennaio: 500.000 a Parigi e il doppio di quelli del 19 a Marsiglia. Alta la partecipazione dei giovani. Ma il numero degli scioperanti pare essere leggermente diminuito. Al fronte intersindacale di CGT, CFDT, Solidaires, FSU, FO, FSU si sono uniti altri 3 sindacati: Unsa, CFTC e CFE-CGC.
Martedì 7 febbraio l’intersindacale indice la terza giornata di sciopero generale.
Le federazioni di categoria della CGT dei chimici, dei portuali, dell’energia e dei ferrovieri hanno chiamato i lavoratori a convergere in uno sciopero di due giorni il 6 e il 7 febbraio. La FSIC CGT (chimici) ha dichiarato adesioni pari al 100% tra gli operai del deposito di carburante di Flandres (Nord), vicino a Dunkerque, dell’80% nella raffineria di Donges (Loira Atlantica), del 70% nella raffineria di Feyzin (Rhône) e del 56% nella raffineria della Normandia.
Queste federazioni di categoria combattive della CGT cercano di spingere verso una radicalizzazione del movimento, consapevoli che singole giornate di sciopero generale, ogni una o due settimane, non saranno sufficienti a fermare il governo. Le correnti più combattive nella CGT denunciano la mancanza di volontà da parte dell’intersindacale di aprire una discussione su come proseguire la mobilitazione e il rifiuto a chiamare a scioperi generali “rinnovabili”, che cioè superino la singola giornata.
Sabato 11 febbraio vi è stata la quarta giornata di mobilitazione nazionale promossa dall’intersindacale, con manifestazioni ma senza scioperi. Contro il parere della dirigenza del sindacato, tuttavia, si è svolto uno sciopero senza preavviso degli assistenti di volo dell’aeroporto di Orly, che ha portato alla cancellazione della metà dei voli. I numeri nelle piazze sono stati superiori a quelli del 7 febbraio. La CGT ha dichiarato 500 mila manifestanti a Parigi.
L’intersindacale ha convocato una quinta giornata di mobilitazione nazionale con manifestazioni e scioperi per giovedì 16 febbraio, giorno in cui l’Assemblea Nazionale doveva esaminare l’articolo 7 del progetto di riforma delle pensioni, quello che prevede l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni.
L’intersindacale ha poi annunciato che, a causa delle vacanze scolastiche, il movimento sarebbe ripreso il 7 marzo con uno sciopero generale, proseguito l’8 marzo, in coincidenza con la Giornata internazionale della donna.
Philippe Martinez, segretario generale della CGT, ha invocato “scioperi più duri, più numerosi, più massicci e rinnovabili” ma ha precisato che lo sciopero rinnovabile dovrà essere deciso nei posti di lavoro, non sarà cioè una indicazione della dirigenza del sindacato. La dirigenza della CFDT – primo sindacato per numero di iscritti in Francia, apertamente collaborazionista – ha ribadito in diverse occasioni di essere contraria al ricorso agli scioperi rinnovabili in questa lotta.
L’intersindacale nella RATP (CGT, FO, UNSA e CFE-CGC) e nella SNCF CGT e SUD Rail hanno già dichiarato che lo sciopero del 7 marzo sarà rinnovabile, cioè a tempo indeterminato. Altri settori sindacali combattivi si impegnano nei luoghi di lavoro a preparare lo sciopero del 7 marzo e a dargli un carattere rinnovabile.
All’interno della CGT, l’opposizione conflittuale si è costituita intorno all’area denominata Unité-CGT, il cui portavoce è il capo della CGT del dipartimento di Bouches du Rhône, con capoluogo Marsiglia.
In tutta la Francia sono stati lanciati fondi di solidarietà per gli scioperanti. La CFDT ha istituito un fondo di sciopero e le azioni legali a difesa dei propri iscritti, finanziato dall’8,6% delle quote associative (600.000 iscritti) e che ammonta a 141 milioni di euro, con un compenso forfettario di 7,70 euro all’ora. Force Ouvrière ha istituito un “fondo di solidarietà per lo sciopero confederale” dedotto dalla quota di adesione. Nella CGT non esiste un fondo centrale per gli scioperi. Esistono poi molti “fondi di solidarietà” per tutti i lavoratori di determinati settori o aziende. Uno dei più importanti è quello gestito in cooperazione intersindacale per i lavoratori statali.
Dal 20 al 25 dicembre, i lavoratori delle consegne (delivery food) in Russia, organizzati nel sindacato Kourier, si sono impegnati in una delle più importanti lotte operaie nel paese negli ultimi anni: oltre 3.800 fattorini hanno scioperato in più di 15 città per le proprie rivendicazioni di classe contro Yandex, il gigante del settore, una sorta di equivalente di Uber Eats, che detiene un monopolio in Russia dopo aver acquisito il suo principale concorrente, Delivery Club, nel settembre 2022.
I fattorini di Yandex lavorano nelle condizioni della cosiddetta gig economy analoghe a quelle dei fattorini negli altri paesi del mondo, dall’Italia al Regno Unito, dagli Stati Uniti alla Turchia, e che li hanno mossi a svariati scioperi in questi paesi. Sono infatti inquadrati come lavoratori autonomi e bombardati da una campagna propagandistica che li presenta come parte di una piccola borghesia emergente, invece di quello che sono in realtà, uno strato estremamente mal pagato e precario del proletariato. Questo loro inquadramento li rende responsabili di tutti i rischi e delle spese che derivano dal lavoro, e li espone alla completa libertà di licenziamento da parte dell’azienda: Yandex può bloccare loro in qualsiasi momento l’utilizzo dell’app Eats, senza alcun preavviso o spiegazione.
In Italia questo è quanto è accaduto lo scorso ottobre a Sebastian, licenziato da morto: il giorno dopo che il ragazzo era deceduto in un incidente stradale mentre effettuava una consegna la famiglia ha ricevuto sul suo telefonino il messaggio automatico del licenziamento, “per non aver rispettato i termini della consegna”.
Durante la pandemia da Covid-19, come per tutti gli altri strati di lavoratori, le condizioni dei fattorini sono peggiorate, mentre le aziende hanno avuto profitti record: i ricavi del settore food-tech di Yandex, che comprende Yandex.Eats e Yandex.Market, sono aumentati nel terzo trimestre del 2022 del 124% rispetto all’anno precedente, raggiungendo i 9,8 miliardi di rubli (135 milioni di dollari) – tutto questo nonostante le sanzioni occidentali dovute alla guerra imperialista in Ucraina.
Secondo la propaganda del regime borghese, la Russia si contrapporrebbe alla decadenza del cosiddetto Occidente, al quale sarebbe estranea. Ma guardando alle condizioni della classe operaia e alle sue lotte si scopre che non di Oriente e Occidente si tratta, ma di capitalismo, uguale sotto tutti i cieli, a Mosca, Parigi, Roma o Berlino.
I lavoratori, col sindacato Kourier, hanno lottato per l’introduzione di un contratto di lavoro che li inquadri come salariati invece che come autonomi, e che migliori i loro salari, garantisca maggiore protezione dal licenziamento, il pagamento dei giorni di malattia e salari indicizzati all’inflazione.
Lo sciopero ha dimostrato come anche il proletariato impiegato attraverso queste applicazioni possa intraprendere azioni di lotta: migliaia di lavoratori si sono rifiutati di prendere ordini attraverso l’applicazione mobile Yandex.Eats, interrompendo il servizio in diverse città. Kourier ha organizzato i lavoratori per fermare il lavoro dei ristoranti convenzionati con Yandex, formando picchetti e bloccando i registratori di cassa e i clienti.
Lo sciopero ha dimostrato ai lavoratori di questo settore, considerato un caso a sé dalla sociologia borghese, una verità fondamentale: che non ci sono “nuovi” modi di lottare, che la strada per il precariato è la stessa per tutta la classe operaia: portare la lotta in piazza, coinvolgendo il massimo numero di lavoratori, con picchetti, interruzione del lavoro nel tentativo di danneggiare i profitti dei padroni.
In risposta, Yandex ha lanciato una campagna di menzogne contro gli scioperanti, sostenendo che godevano già di salari elevati e facendo addirittura scrivere ai pennivendoli al suo servizio che non c’era alcuno sciopero in corso.
Kourier ha reagito con una campagna per abbassare il rating di Yandex online e con lo sciopero, iniziato da circa 600 fattorini a Mosca e San Pietroburgo, cresciuto fino a 3.800, in oltre 15 città, unendo così più lavoratori di quanto gli stessi dirigenti del sindacato si aspettassero.
A seguito dello sciopero, le multe per i ritardi sono state sostanzialmente abolite, è stata introdotta una retribuzione aggiuntiva per il lavoro di Capodanno e Yandex ha fatto marcia indietro rispetto al programma di lavoro “due per due” (due giorni di lavoro, seguiti da due giorni di riposo: cosa non facile quando si devono fare turni di 12-14 ore come quelli dei fattorini).
Il sindacato Kourier è nato nel giugno del 2020, quando i lavoratori dell’azienda Delivery Club – acquisita da Yandex nel settembre scorso – scioperarono per due mesi di ritardo nei pagamenti. L’azienda capitolò e inviò i pagamenti dovuti, e così nacque il sindacato. Si comporta come un sindacato di classe. Dalle sue origini, ha organizzato diverse lotte, soprattutto scioperi su questioni che vanno dalla difesa dei salari al rifiuto delle multe contro i lavoratori per piccole infrazioni alle regole aziendali.
Nell’aprile dell’anno scorso il suo principale dirigente – Kirill Ukraintsev – è stato arrestato per “violazione delle regole di assemblea”, cioè per la sua attività sindacale, e si trova tuttora in carcere. Nonostante ciò, il Kourier ha continuato la sua attività, fino ad organizzare lo sciopero di dicembre.
È da rimarcare di questo sciopero, oltre alla sua estensione, è che sia riuscito a bloccare l’attività produttiva, rompendo con la prassi dei sindacati di regime in Russia, che da anni organizzano manifestazioni che non fermano il lavoro. Il fatto che ciò sia avvenuto nel pieno della guerra imperialista in cui il regime borghese di Mosca sta trascinando la classe operaia, rende ancora più importante questo sciopero, un’azione intrinsecamente disfattista.
Non sono mancati, oltre alla repressione statale borghese, i problemi interni al sindacato. Uno dei partiti operai opportunisti che hanno influenza all’interno del Kourier ha reso pubblico il luogo e la data della riunione per preparare lo sciopero, che così è stata interrotta dall’arrivo della polizia, la quale ha identificato diversi militanti sindacali. I responsabili sono stati espulsi dal sindacato e il gruppo politico ha pensato bene di organizzare un sindacato concorrente.
La lotta in seno alla classe operaia e alle sue organizzazioni contro l’opportunismo politico e sindacale è parte della lotta contro lo sfruttamento capitalistico sul piano economico, e contro il regime del capitale sul piano politico, fintanto che i lavoratori non avranno la forza di affrontare e vincere la borghesia e sino a quando non avranno fatto pulizia all’interno delle loro organizzazioni. Questa lotta, per essere combattuta e vinta, ha bisogno del suo allargamento ad altre categorie di lavoratori.
Georgia: Sciopero dei tassisti e dei corrieri
Anche la Georgia, piccolo paese del Caucaso meridionale, e parte dell’URSS fino al 1991, ha visto scendere in lotta a febbraio due categorie di lavoratori nel settore della cosiddetta gig economy.
I primi a muoversi sono stati i tassisti della società estone Bolt – che opera anche a Londra, Parigi e Lisbona, che hanno avanzato rivendicazioni legate alla loro condizione di lavoratori autonomi: 1) Ritorno alla tariffa precedente al 2023; 2) riduzione della percentuale dovuta all’azienda; 3) compensazione delle lunghe distanze 4) computazione dei tempi di attesa; 4) Apertura di un ufficio in Georgia e attivazione di un call center 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
In seguito, dal 5 febbraio, sono scesi in lotta i ciclo-fattorini dell’azienda finlandese di delivery food Wolt, dichiarando esplicitamente solidarietà e unità con gli autisti della Bolt. In diverse centinaia hanno tenuto una assemblea. Uno dei corrieri, in un’intervista, ha spiegato che mentre i prezzi sono aumentati da due a tre volte, i loro salari sono rimasti gli stessi. I corrieri chiedono di ridurre il raggio delle consegne, un aumento dei salari e un miglioramento dell’assicurazione, che dovrebbe coprire le spese sanitarie, dato che anche a Tbilisi sono molto frequenti gli incidenti stradali.
La direzione di Wolt ha deciso di rivolgersi ai lavoratori con una lettera aperta, non altro che una esortazione a tornare al lavoro fino a quando l’azienda non avrà risolto i loro problemi.
La copertura mediatica di queste azioni di lotta è minima e la maggior parte della popolazione ignora cosa stia accadendo.
Ma il proletariato georgiano dà segni di risveglio dal torpore in cui è stato gettato da decenni di menzogne, prima dal regime falsamente comunista dell’URSS, poi di quello altrettanto fasullo che si mostra affine al cosiddetto mondo libero e democratico, non meno anti-proletario del precedente.
Il Partito Comunista Internazionale denuncia ai lavoratori l’inganno della propaganda del regime borghese georgiano, che addita quali loro nemici lo Stato russo e turco, insieme ai lavoratori immigrati delle varie etnie. Il nemico dei lavoratori è la borghesia di tutti i paesi, a cominciare da quella del paese in cui si è sfruttati, e gli alleati sono i lavoratori di tutto il mondo.
Solo con l’unione internazionale dei lavoratori – delle loro lotte in difesa delle condizioni di vita, organizzati in veri sindacati di classe – i lavoratori potranno impedire di essere trascinati nella fame, nella povertà e nella guerra verso cui il capitalismo li sta conducendo.
I lavoratori georgiani guardino ai loro fratelli di classe in lotta in questi anni e mesi in Kazakistan, in Russia, in Turchia. La unione della parte migliore di loro e al suo grado più elevato si realizzerà quando saranno ispirati e inquadrati nel Partito Comunista Internazionale.
Per la prima volta dopo decenni sono scesi in sciopero i lavoratori comunali della città di Portland che si occupano del trattamento delle acque reflue e della manutenzione dei parchi e delle strade.
Portland è una importante città portuale dell’Oregon, sul fiume Willamette, vicino la costa sul Pacifico settentrionale degli Stati Uniti, 300 chilometri a sud di Seattle.
I lavoratori scesi in lotta sono stati 600. Prima di iniziare lo sciopero hanno organizzato una manifestazione alla quale hanno partecipato 300 di loro.
I compagni della sezione locale del nostro partito hanno redatto tre volantini. Il primo è stato diffuso alla manifestazione che ha preceduto lo sciopero; il secondo, distribuito ai picchetti; il terzo alla consclusione della lotta. Sono qui pubblicati.
Lo sciopero ha bloccato l’impianto di trattamento delle acque reflue della città. L’amministrazione municipale ha proclamato lo stato di emergenza, così da poter reclutare personale in sostituzione degli scioperanti, nel rispetto di una legge dotata di ogni utile scappatoia per tutelare gli interessi borghesi a discapito di quelli operai.
Ma i lavoratori erano fiduciosi che i crumiri sarebbero serviti a poco. Hanno raccontato di aver impiegato anni per imparare a far funzionare l’impianto e le sue attrezzature, costruite negli anni ‘50 e soggette a continui guasti.
Iniziato lo sciopero, si è manifestato un forte spirito di solidarietà fra i lavoratori organizzati in vari sindacati fra cui l’American Federation of State, County and Municipal Employees, il Teamsters, il Service Employees Industrial Union e altri. Gli operai della sezione locale del sindacato Steam Fitters Union, che organizza i lavoratori che installano e manutengono i sistemi di riscaldamento, condizionamento e ventilazione, in solidarietà con lo sciopero, si sono rifiutati di lavorare. Un macchinista ha fermato un treno davanti all’ingresso principale e lo ha bloccato per un bel po’, per poi ritirarsi il più lentamente possibile.
Al picchetto hanno partecipato lavoratori e militanti sindacali di altre aziende, fra cui quelli dell’UPS, che hanno apprezzato l’indicazione contenuta nel nostro volantino per un fronte unico sindacale di classe.
Infine lo sciopero si è concluso dopo cinque giorni con la conquista di un aumento salariale, inferiore alle richieste.
Lo sciopero è stato una piccola dimostrazione di unità e di forza nella lotta economica di classe.
Lavoratori comunali di Portland
Lottiamo per la libertà di sciopero
Di fronte all’amministrazione municipale borghese di Portland che cerca di criminalizzare un potenziale sciopero, è giunto il momento per i lavoratori di unirsi nella lotta e di organizzarsi in un fronte unico sindacale per far capire ai nostri nemici di classe che i loro attacchi alla libertà di sciopero non saranno più sopportati!
Il 14 dicembre il municipio di Portland e il sindacato dei lavoratori comunali avevano firmato un accordo. Nemmeno un mese dopo l’amministrazione locale se l’è rimangiato. Il comune si rifiuta di applicare i salari concordati, collocando i lavoratori in qualifiche errate e con un aumento degli scatti diverso da quello negoziato. Non viene così corrisposto l’aumento del 5% concordato.
L’inflazione globale continua a crescere, riducendo il potere d’acquisto e quindi i salari reali dei lavoratori. I profitti dei capitalisti salgono alle stelle, mentre avanza la preparazione della guerra. La classe capitalista si adopera sempre per privare i lavoratori di quanto più salario possibile, al fine di accrescere i propri profitti. Dunque i lavoratori sono spinti dalla necessità alla lotta.
La classe capitalista locale è spaventata dalla forza espressa dai lavoratori comunali perché la prospettiva della chiusura dello stabilimento per il trattamento delle acque reflue e le strade congelate minacciano in città le attività finalizzate al profitto.
Il recente intervento del Governo federale per vietare lo sciopero dei ferrovieri fino alla minaccia di ingiunzione del municipio di Portland per criminalizzare lo sciopero dei comunali, confermano che è la classe capitalista a decidere cosa è e cosa non è legale, a seconda di ciò che più le conviene. In realtà viviamo in un perenne stato di lotta di classe, il che rende ancora più necessario che i lavoratori di tutte le categorie uniscano le loro forze in un Fronte unico sindacale di classe.
Portland: porre fine alla campagna di intimidazione del capitalismo contro i lavoratori comunali
A pochi giorni dall’inizio dello sciopero di oltre 600 lavoratori comunali, i borghesi in città sono in preda al panico per il possibile riflusso della rete fognaria. Con l’arrivo della pioggia, con l’impianto di depurazione non attivo, il comune potrebbe esser costretto ad un accordo con i lavoratori per evitare conseguenze peggiori.
Grazie alla dichiarazione dello “stato di emergenza” l’amministrazione comunale ha potuto ingaggiare crumiri che, non curanti dello sciopero, si sono messi al lavoro. Tuttavia questa azione non ha avuto successo per la tenacia degli scioperanti, con i loro picchetti, e anche grazie alla solidarietà dei lavoratori di tutta la città. Una condizione, questa che sarà sempre più essenziale per difendere gli interessi collettivi della classe operaia.
In risposta, la capitalista amministrazione comunale, attraverso l’ufficio del sindaco, ha rilasciato dichiarazioni, diffuse dagli ubbidienti media borghesi, per diffamare i lavoratori e preparare la giustificazione di una repressione statale. Come nel Willamette così fra i padroni e i loro media non fanno che scorrere escrementi.
Non è da meno l’ala di sinistra del capitale, il Partito Democratico, che, con i suoi consiglieri in Comune, si è schierato contro i lavoratori. A livello nazionale Biden e la “socialista democratica” Alexandria Ocasio-Cortez hanno di fatto stroncato lo sciopero delle ferrovie. L’obiettivo dei democratici locali è lo stesso.
Per evitare che Portland diventi la prossima Detroit, in questi anni sono state incoraggiate le “start-up” sul modello della Silicon Valley e i lavoratori specializzati a trasferirsi in città. Ma, per la prima volta dagli anni ‘80, la popolazione è in declino. Poiché il sistema capitalistico globale è entrato in una crisi economica sempre più profonda, acuita dalla pandemia di Covid-19, in città povertà e degrado sono emersi in diversi quartieri, risultato di un’economia del capitale sempre più decadente la quale distrugge le relazioni sociali rendendo impossibile la vita di una vera comunità umana. È definitivamente svanita l’illusione borghese di poter “fare soldi” a Portland.
L’aggravarsi della crisi ha reso la borghesia cittadina sempre meno disposta a concedere aumenti salariali ai dipendenti comunali. Durante la pandemia, i “lavoratori essenziali”, che mantenevano attive le infrastrutture critiche e producevano i beni di prima necessità, sono stati obbligati a lavorare, sacrificati per un illusorio “bene superiore” della nazione. Centinaia di migliaia di lavoratori sono morti, il che ha creato di fatto una carenza di manodopera. Ora, dal momento che questa crisi pandemica si è attenuata, la propaganda del “siamo tutti nella stessa barca” è stata momentaneamente accantonata. Ma fare ripartire l’economia ha significato intensificare l’attacco padronale ai salari e rifiutare ostinatamente nuove trattative. Ovunque i lavoratori e i sindacati combattivi sono spinti sull’orlo del baratro, con l’obiettivo di spezzare qualsiasi vero organismo di difesa collettiva, al fine di ridurre i costi del lavoro.
Le attuali azioni della città di Portland non sono altro che una delle prove che l’intero ordine borghese è in sostanza una “associazione organizzata e criminale contro la classe operaia”. Suo fine è estorcere plusvalore alla classe salariata che, se non si accontenterà delle briciole, verrà attaccata con violenza.
I lavoratori sono stati educati a credere alla menzogna che il governo del capitale sia “democratico”, “per e del popolo”, in questa “terra della libertà”. La verità vede i lavoratori lottare con le unghie e con i denti per il loro pane quotidiano contro la violenza statale. Questo governo non è altro che una delle espressioni del capitalismo e i “due partiti” (democratico e repubblicano) servono gli stessi interessi di classe del regime del capitale. Perché i sindacati dovrebbero sostenere il partito politico che li pugnala alle spalle?
Noi indichiamo ai lavoratori di tutto il mondo di unirsi in un unico fronte sindacale di classe, libero dalle manovre politiche del capitalismo, che possa condurre le lotte economiche in loro difesa.
Tuttavia, le lotte difensive dei lavoratori un giorno passeranno alla controffensiva proletaria rivoluzionaria, guidata da un centralizzato partito comunista, per abolire definitivamente la società di classe.
Lo sciopero dei lavoratori comunali è finito
Macchinisti che bloccano gli ingressi all’impianto di trattamento delle acque con treni incredibilmente lunghi e lenti. Un autista di camion di fanghi che onora il picchetto e torna a casa per iscriversi al sindacato facendo in modo che i fanghi tracimino dall’impianto. Lavoratori di altre categorie che si sono recati al picchetto prima e dopo il loro turno per mettere i loro corpi tra camion e furgoni di crumiri sotto la costante minaccia di arresto da parte della polizia. I lavoratori comunali stessi che si sono presi il rischio di scendere in sciopero in difesa delle loro condizioni di vita. Lo sciopero dei lavoratori comunali di Portland ha dimostrato la forza di una classe unita.
Alcuni lavoratori sono rimasti sorpresi nel constatare come le istituzioni cittadine li considerino e come vogliano sfruttarli come e più di quanto non facciano le aziende private. Ma questa è l’esperienza di tutti i proletari a livello internazionale, di ogni categoria in ogni qualifica.
È solo attraverso l’unione, al di sopra delle barriere di categoria e delle frontiere che la classe operaia può veramente lottare per porre fine alla sua condizione di sfruttamento sotto il regime economico del capitale e la dittatura politica della borghesia.
Dobbiamo organizzarci come classe per coordinare le attività di lotta. Un attacco a uno è un attacco a tutti.
Gli 8 mesi di sciopero alla New Holland
(Rapporto alla riunione generale di gennaio)
Case New Holland Industrial (CNHi), che negli Stati Uniti in 18 fabbriche produce macchine agricole e movimento terra, è una multinazionale italo-statunitense il cui maggior proprietario è un fondo finanziario nato nel 2012 dalla fusione della statunitense CNH con la FIAT. I padroni sono italiani ma la sede è in Olanda, a conferma di come il capitale sia un rapporto di classe internazionale e il nazionalismo uno strumento ideologico contro il proletariato per mantenerlo diviso e farlo sgobbare.
In due stabilimenti nel Midwest, di Racine nel Wisconsin, sul grande lago Michigan, e di Burlington nello Iowa, distanti 450 chilometri, il 30 aprile sono scaduti i contratti collettivi di lavoro. Le due sezioni locali della United Auto Workers – il sindacato di regime nel settore automobilistico affiliato alla confederazione AFL-CIO – la “UAW Local 180” di Racine e la “UAW Local 807” di Burlington, giudicate insoddisfacenti le proposte padronali di rinnovo, dal 2 maggio hanno chiamato allo sciopero i mille operai delle due fabbriche.
Lo sciopero è durato ben 8 mesi. L’UAW, che dispone di un fondo per gli scioperi di circa 185 milioni di dollari (oggetto di un recente scandalo per appropriazione indebita), ha versato agli scioperanti un assegno di 400 dollari a settimana.
Con un fondo così ampio avrebbe potuto sostenere uno sciopero a lungo termine in tutte le fabbriche CNHi nel paese. Invece la dirigenza del sindacato ha confinato la vertenza nei due stabilimenti, senza provare ad aprire un fronte di lotta più ampio e più forte mobilitando tutte le fabbriche CNHi. Ne risulta che le sezioni sindacali locali di Racine e Burlington abbiano fatto pressione sulla dirigenza dell’UAW affinché la lotta venisse estesa, facendola uscire dai confini delle due fabbriche.
A Racine, il 17 dicembre, a sostegno dello sciopero è stata organizzata una manifestazione dalla UAW e da un insieme eterogeneo di altre organizzazioni, il cui ampio spettro andava da quelle operaie a quelle della sinistra borghese liberale.
L’iniziativa della manifestazione di sostegno è senz’altro utile, a maggior ragione negli Stati Uniti, dove si tratta di un fatto ancora estremamente raro. Ma un’azione simile doveva avere come obiettivo di far crescere l’unità dei lavoratori, estendendo la lotta ad altre fabbriche del gruppo, ad altre aziende nel territorio, ad altre categorie. Avrebbe dovuto avere un carattere di classe invece che popolare, quale essa ha avuto, consono quest’ultimo al rimestare della politica elettoralesca dei partiti borghesi e di quelli operai opportunisti.
La manifestazione ha avuto comunque il buon risultato di raccogliere fondi per la sezione sindacale locale, favorendo così la possibilità di proseguire lo sciopero.
CNHi ha reagito presentando una nuova offerta che le sezioni sindacali UAW hanno nuovamente rigettato organizzando una votazione, a scrutinio segreto, in cui hanno dato indicazione agli operai di votare contro. Sabato 7 gennaio il contratto è stato respinto.
Ma i dettagli della trattativa sono appannaggio esclusivo dei capi sindacali. In otto mesi non sono state mai convocate assemblee per informare i lavoratori e coinvolgerli nella organizzazione della lotta, imponendo così un rapporto fra la massa degli operai e il sindacato che assomiglia a quello fra i clienti e un’agenzia fornitrice di un servizio, in cui spariscono tutte quelle azioni intermedie, come assemblee, riunioni, picchetti e propaganda, che rendono vivo il sindacato grazie all’impegno volontario dei lavoratori più combattivi.
Dopo il voto è intervenuto per mediare nelle trattative il ministro del Lavoro ed è stato proposto un secondo contratto, minacciosamente presentato come “ultimativo”. Nel frattempo l’azienda si era premurata di informare i lavoratori, attraverso messaggi vocali e messaggini, che sarebbero stati sostituiti con altri operai a tempo indeterminato qualora non avessero accettato la proposta.
Il 23 gennaio una seconda votazione ha approvato la proposta padronale col 70% di voti favorevoli, nonostante l’indicazione di voto contrario da parte delle sezioni del sindacato.
I capi locali della UAW durante gli otto mesi di lotta hanno sottolineato il valore positivo dell’unità nell’azione fra gli operai dei due stabilimenti e hanno anche denunciato i contratti collettivi divisi per fabbrica applicati dalla CNHi. Ma mai si sono scontrati con la dirigenza del sindacato affinché sviluppasse un’azione generale per combattere questa ovvia pratica padronale.
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Alla Bekaert si ignora il divieto di sciopero
In Turchia, dal 2003 ad oggi il governo ha fatto ricorso 18 volte alla messa al bando degli scioperi. Questi provvedimenti, che hanno riguardato complessivamente circa 200 mila lavoratori, non hanno lo stesso valore di quelli che in Italia sono emessi dalla Commissione di Garanzia, limitati all’area – ampliata progressivamente – dei cosiddetti servizi pubblici essenziali. Infatti in Turchia il governo può imporre il divieto di sciopero in qualsiasi settore.
Nel dicembre scorso, per la prima volta, gli operai di due fabbriche hanno scioperato nonostante il divieto, e hanno infine ottenuto buona parte di ciò che rivendicavano. Un precedente tanto pericoloso per il regime borghese turco, quanto importante per la classe operaia.
Gli operai della siderurgica Bekaert che hanno sfidato il divieto sono stati un migliaio, divisi in due stabilimenti non distanti fra loro nella provincia di Kocaeli, un centinaio di chilometri da Istanbul.
400 lavorano nella fabbrica di İzmit, organizzati nel sindacato conflittuale Birleşik Metal (Sindacato Lavoratori Metalmeccanici Uniti), appartenente alla confederazione sindacale conflittuale DİSK (Confederazione dei Sindacati Progressisti), 600 sono occupati nella fabbrica di Kartepe, organizzati nel sindacato Öz Çelik İş, appartenente alla confederazione di regime e di orientamento islamico Hak-İş. İzmit è uno dei principali centri industriali della Turchia.
Dopo sei mesi di negoziati, i lavoratori delle due fabbriche decisero di incrociare le braccia. Quando lo sciopero fu vietato, furono gli operai della fabbrica di İzmit a sfidare il divieto governativo, dando vita dal 13 dicembre allo sciopero illegale. Il Birleşik Metal aveva chiesto un aumento del salario pari al 130%. Presto gli operai della fabbrica di Kartepe si unirono allo sciopero. Le minacce e le manovre della dirigenza aziendale non sono riuscite questa volta a fermare i lavoratori.
Il 22 dicembre, il sindacato Öz Çelik İş si è accordato per un aumento dell’80% del salario e la concessione di altri benefici sociali. L’aumento richiesto risponde all’inflazione: ufficiale a novembre di oltre l’84% e stimata al 137%. Il Birleşik Metal ha rigettato l’offerta. Gli operai dei due stabilimenti sono stati così divisi, con quelli di Kartepe che tornavano al lavoro, mentre quelli di İzmit hanno proseguito lo sciopero. Il 30 dicembre, dopo due settimane di sciopero, il Birleşik Metal si è accordato per un aumento dell’85% del salario e del 100% dei benefici sociali.
Lo sciopero non è stato una vittoria completa, ma nemmeno una sconfitta. La sua principale debolezza è stata l’incapacità dei lavoratori dei due stabilimenti a mantenersi uniti, superando le divisioni.
La Hak-İş – cui appartiene il sindacato Öz Çelik İş – è notoriamente una confederazione sindacale di regime, con forti legami con il governo. La sua funzione è sabotare ogni lotta alla prima occasione. All’opposto, il Birleşik Metal è stato al fianco dei lavoratori, firmando infine un accordo migliore. Se i lavoratori di entrambe le fabbriche fossero stati organizzati in questo sindacato conflittuale i risultati sarebbero stati con ogni probabilità migliori.
Tuttavia, anche il Birleşik Metal – come l’intera DİSK – ha una dirigenza opportunista. Di ciò sono un esempio gli argomenti usati per opporsi ai divieti di sciopero, da essa denunciati come “illegali” perché lesivi del “diritto costituzionale”. Non sarebbero i lavoratori ad andare contro la legge ma il governo. Una impostazione che se può essere spiegata come un modo per cercare di mettersi al riparo dalla repressione, nondimeno è espressione dell’idea che il regime politico presente non sia borghese, bensì dalla parte della classe lavoratrice, dunque da difendere, invece che da distruggere con la lotta di classe, fino alla rivoluzione, alla conquista del potere e alla instaurazione della dittatura del proletariato.
Inoltre, la libertà di sciopero può essere difesa solo con la forza, dal suo impiego sulla più ampia scala possibile, non dagli appelli ai “diritti”, alla “democrazia”, alla “costituzione”. La struttura di fabbrica del Birleşik Metal nella Bekaert di İzmit ha agito in questa corretta direzione. Ma sarà tutta la federazione sindacale, e poi tutta la confederazione, che dovrà agire in questo senso con la lotta, abbandonando le illusioni opportunistiche della dirigenza.
Al di là dei suoi risultati economici immediati, l’aspetto importante dello sciopero nelle fabbriche della Bekaert in Turchia è stato di avere segnato un precedente pericoloso per la borghesia turca. Un divieto di sciopero è stato ignorato dai lavoratori, senza che questi abbiano dovuto subire una significativa ritorsione poliziesca o legale. Ora, grazie alla lotta degli operai della Bekaert e del Birleşik Metal, la messa fuori legge degli scioperi appare un’arma spuntata e non è affatto garantito che riesca a fermare gli scioperi. Il proletariato di Turchia ha potuto constatare che portare avanti uno sciopero e vincere è possibile anche di fronte a un divieto governativo.
In linea generale, anche in Turchia come altrove, il raggiungimento del massimo grado di unità dei lavoratori nella lotta sindacale, dipenderà dalla creazione di un fronte unico sindacale dal basso, che includa non solo il DİSK e il KESK, ma anche gli organismi sindacali conflittuali più piccoli, e che diventi un polo di attrazione per i lavoratori disposti alla lotta ma ancora inquadrati nelle confederazioni dei sindacati di regime come Türk-İş, Hak-İş, Memur-Sen e Kamu-Sen.
La lotta politica nel sindacato
È falso e fuorviante sostenere che la lotta economica dei lavoratori sia apolitica. Il movimento sindacale è un’azione politica in sé, ed è influenzato e determinato dalla lotta politica. All’interno del movimento sindacale le correnti e organizzazioni politiche – sia quelle appartenenti al movimento operaio ma anche, nei sindacati di regime, quelle filo-borghesi – cercano di prendere la direzione del movimento attraverso i loro lavoratori impegnati nella milizia sindacale, attraverso le rispettive frazioni sindacali. Questa battaglia politica entro il campo sindacale avviene come un confronto fra diversi indirizzi pratici di lotta sindacale. Noi comunisti non abbiamo timore di combatterla, nella convinzione di disporre dell’indirizzo sindacale corretto, e questo fatto, nel corso della lotta, sarà riconosciuto anche dai lavoratori di altri partiti e da quelli non politicizzati.
Beninteso, per i partiti opportunisti la lotta politica entro il campo sindacale non avviene solo in questo modo “onesto”.
Ciò che distingue il partito comunista da tutti gli altri partiti operai è il nostro indirizzo del fronte unico sindacale di classe, contrapposto a quello del frontismo politico. Come Partito Comunista Internazionale noi ci opponiamo all’inquadramento delle organizzazioni sindacali entro fronti unici politici perché questi dividono invece che unire il movimento di lotta sindacale. Un fronte unico politico si ripropone di unire una parte delle organizzazioni politiche del campo operaio contro altre. Questa divisione si riflette nelle organizzazioni sindacali, laddove alcune di esse aderiscano a un fronte politico.
Noi comunisti indichiamo e ci battiamo per l’unità d’azione di tutte le forze e gli organismi del sindacalismo di classe, mantenendo la separazione fra organizzazioni economiche e quelle politiche del campo proletario, condizione affinché l’unità d’azione dei lavoratori nella lotta sindacale si possa realizzare al massimo grado.
Operai turchi e siriani in lotta uniti nelle fonderie di Gaziantep
Contro i tentativi dei padroni di imporre un salario inferiore a quello minimo e di aumentare il carico di lavoro, gli operai di una ventina di fonderie nel distretto industriale di Küsget, a Gaziantep, in Turchia, una cinquantina di chilometri dal confine siriano, hanno condotto uno sciopero vittorioso. Ha coinvolto 350 lavoratori provenienti dalla Turchia e dalla Siria e si è concluso il 5 gennaio dopo quattro giorni di sciopero, quando i padroni hanno ritirato il preteso aumento del carico di lavoro e accettato un aumento del salario di 3.000 lire turche. I lavoratori ne chiedevano 4.000.
Gaziantep – dove ha sede il governo provvisorio dell’opposizione siriana – è tra le città della Turchia che ha accolto il maggior numero di rifugiati siriani. L’atmosfera nazionale di odio razzista contro i rifugiati non ha impedito ai lavoratori turchi e siriani di Küsget di lottare uniti. Questa è la miglior dimostrazione di come solo la lotta operaia possa sconfiggere il nazionalismo e il razzismo.
Questi operai sinora non si sono organizzati in un sindacato, ma sono stati sostenuti dal Bırtek-Sen (Sindacato indipendente dei lavoratori tessili, della tessitura e del cuoio), il più importante sindacato conflittuale di Gaziantep, città in cui domina il settore tessile.
Il Bırtek-Sen è stato fondato nel 2022 dall’ex capo regionale del Dİsk Tekstil, la federazione dei lavoratori tessili appartenente Dİsk, la Confederazione dei Sindacati Progressisti.
Due capi del Dısk Tekstil in passato sono divenuti segretari generali del Dİsk, per poi entrare in parlamento fra le forze dei socialdemocratici kemalisti. Nel 2021, un altro sindacato del settore tessile – il Dev Tekstİl (Sindacato unitario lavoratori confezioni, tessitura e cuoio) – ha duramente accusato il Dısk Tekstil di non aver sostenuto i propri iscritti licenziati e di aver agito come un sindacato di regime nelle trattative per il contratto collettivo di un’azienda a Istanbul. Fattori questi che indicano in questa federazione del Dİsk una delle roccaforti dell’opportunismo, che domina alla direzione di questa confederazione sindacale conflittuale.
Il settore tessile di Gaziantep ha già visto forti scioperi in passato. Ne abbiamo reso conto nel rapporto “La serie di coraggiose battaglie della giovane classe operaia in Turchia” esposto alla nostra riunione generale del maggio 2021.
Tra il 10 febbraio e il 9 marzo 2022, circa 12.000 operai di 35 fabbriche, la maggior parte delle quali appartenenti al settore tessile, hanno dato vita a scioperi senza preavviso per aumenti salariali, come riportato dal Bİrtek-Sen, fondato proprio in quei giorni.
Lo sciopero alle fonderie di Küsget indica la strada ai lavoratori di tutta la Turchia, dove i proletari turchi lavorano spalla a spalla con curdi, siriani, africani e di altri paesi. Occorre lottare insieme, uniti al di sopra delle diverse nazionalità, organizzati nei sindacati conflittuali, battendosi per l’unità d’azione di tutti i sindacati conflittuali, per un fronte unico sindacale dal basso, foriero della formazione del grande sindacato di classe di cui in Turchia e in tutti i paesi i lavoratori hanno sempre più urgente bisogno.
Per la sua liberazione al proletariato occorre il suo partito di classe, il
partito comunista, che da sempre è internazionalista. Il Partito Comunista
Internazionale vuole essere partito unico mondiale della rivoluzione proletaria.
Si batte per unire le lotte dei lavoratori di tutte le parti del mondo,
indicando la massima unità di classe attraverso il fronte unico sindacale di
classe, e legando le lotte di oggi con quelle del passato, risalendo ai tempi
della Lega dei Comunisti e delle tre Internazionali.
La Confederazione dell’Industria Britannica, o CBI, organo rappresentativo della classe industriale capitalista britannica, ha tenuto la sua conferenza annuale a Birmingham nella settimana del 21 novembre 2022. L’apparizione del segretario del Partito Laburista è un evento annuale: che sia al governo o all’opposizione, l’atteggiamento abituale è di lavorare in collaborazione con la CBI per il “bene del Paese”. Quest’anno il rispettosissimo capo laburista, Keir Starmer, si è comportato come se stesse partecipando a un colloquio di lavoro: “siamo un governo in attesa”– alludendo alla tradizione britannica secondo cui l’opposizione forma un “governo ombra” – pronto a dare alla Gran Bretagna la chiara politica economica di cui ha bisogno. Pronto a lavorare con voi per far progredire il nostro Paese”.
I laburisti ora si scoprono orgogliosi di essere a favore degli affari, credono che il sostegno all’impresa privata sia l’unico modo in cui la Gran Bretagna può farsi strada nel mondo.
“Questo è un partito laburista diverso e non si può tornare indietro”. Il che può sorprendere gli ingenui e coloro che ancora si illudono sul “vecchio Labour”, ma qui non si fa altro che sostituire il falso socialismo del settore statale con il miraggio di un capitalismo più equo e più “verde”.
Starmer ha poi fatto il punto sui problemi economici di un decennio di stagnazione, il peggiore degli ultimi due secoli: il reddito disponibile è sceso ai livelli del 2013 e il Regno Unito è l’unico Paese del G7 più povero di prima della pandemia. E quello che si prospetta è un inverno senza precedenti: è chiaro che molti resteranno senza riscaldamento e senza un’alimentazione adeguata.
Per assicurarsi che la questione non fosse unilaterale, Starmer si è affrettato a sottolineare: “so che anche quanti sono presenti in questa sala stanno lottando”. Le imprese sono colpite da tassi di interesse più elevati, da bollette energetiche più alte e le piccole imprese stanno fallendo ad un ritmo senza precedenti.
La soluzione prospettata dal Labour è “un nuovo modello di business”. Starmer ha affermato che si tratta di un compito difficile ma necessario per trasformare l’economia e aumentare la produttività. È stato proclamato il “nuovo” mantra del Segretario del Tesoro statunitense, Janet Yellen: “moderna economia dell’offerta”, cioè il vecchio preconcetto dell’economia liberista secondo cui una minore tassazione delle imprese incentiverebbe gli investimenti.
In questa logica si considerano le migrazioni in relazione alle esigenze dell’industria focalizzandosi sulle situazioni in cui mancava la forza lavoro con le competenze necessarie. Si chiedeva così all’industria di effettuare gli investimenti e la formazione necessari.
Secondo Starmer le soluzioni ai problemi economici del Paese potrebbero essere trovate nella stabilità economica, nelle competenze più elevate della forza lavoro e nella crescita “verde”. È stata fatta una dichiarazione per un “Piano di prosperità verde”, che utilizzi la finanza privata per trasformare e ripulire il pianeta. Questo in poche parole è ciò che la strategia industriale e la concertazione devono realizzare.
La CBI è stata grata a Stammer per il suo discorso, poiché molti dei temi, come la richiesta di selezionare l’immigrazione sulla base delle competenze della forza lavoro, li ha avanzati da più di un anno. Tutto ciò dimostra che il Partito Laburista è ancora più vicino che mai al campo capitalista. Quanto prima coloro che ancora si fanno illusioni sul Partito Laburista si renderanno conto di ciò che bolle in pentola, tanto meglio sarà.
Mentre il governo federale degli Stati Uniti e le ferrovie tentano di evitare l’interruzione delle forniture causate da una forza lavoro ribelle, incombe un’altra minaccia di caos sull’economia. Il fiume Mississippi, la grande arteria dei trasporti di merci degli Stati Uniti, per la mancanza di precipitazioni ha raggiunto i livelli più bassi in 40 anni, impedendo il pescaggio delle chiatte. Il livello dell’acqua a Memphis, nel Tennessee, un importante snodo logistico, è quasi 11 piedi al di sotto della media. Il tempo di navigazione di una chiatta, la modalità di trasporto preferita per la maggior parte dei prodotti agricoli, da St. Louis, il centro commerciale principale sul fiume, alla confluenza del Missouri, a New Orleans, alla foce del grande fiume sul Golfo del Messico, è raddoppiato.
Le chiatte devono essere meno cariche per il ridotto pescaggio, nove piedi rispetto ai dodici in tempi normali e quattordici sul Mississippi inferiore. Inoltre sono aumentati assai i tempi di viaggio, un rimorchiatore può spingere un numero minore di chiatte a causa della larghezza navigabile, ridotta dalle acque basse: un convoglio tipico di 40 chiatte ora ne spinge solo 25. Una chiatta standard carica 1.500 short tons, circa 1.361 tonnellate metriche, per esempio 50.000 bushel di semi di soia. Ogni piede in meno di pescaggio riduce la portata di una chiatta di 150-200 short tons: un 25-30% in meno.
I genieri dell’esercito in ottobre hanno iniziato a dragare il fondo e hanno sollevato una berma di fango sul letto del fiume, il che ha ulteriormente limitato il traffico: era possibile viaggiare lungo il Mississippi solo di giorno e nell’area del berma alternativamente a senso unico. Oltre 1.000 chiatte attendevano in coda.
È importante per le aziende agricole statunitensi spedire i loro prodotti sul mercato internazionale mentre l’emisfero meridionale, in particolare il Sud America, è ancora in inverno. Il più grande produttore di soia al mondo è il Brasile, dove la stagione di semina inizia a settembre. I fagioli si raccolgono in media dopo quasi 4 mesi. Man mano che arriva la produzione brasiliana i prezzi iniziano a scendere. Ciò comporterà profitti ridotti. Inoltre si sta avvicinando il raccolto del mais, che richiederà nuove spedizioni.
Il problema non mostra alcun segno di riduzione nel prossimo futuro. Anche se presto tornassero le precipitazioni il terreno prosciugato della lunga siccità ne assorbirebbe la maggior parte. Per contro se la pioggia fosse troppo concentrata il suolo agricolo inaridito non avrebbe tempo di farla percolare dalla superficie, ad alimentare le falde e le sorgenti, e sarebbe dilavato via.
La borghesia, tuttavia, non è disposta a prendere alcuna misura per mitigare questo problema.
I grandi poteri capitalisti rimangono bloccati in combustibili fossili, in particolare petrolchimici, in quanto fonte enorme di profitti e di rendite.
Dal petrolio si trae non solo energia ma le sostanze chimiche per i fertilizzanti. Il riscaldamento causato dalle emissioni dei combustibili fossili, insieme all’interruzione del ciclo di azoto causato dall’uso eccessivo di fertilizzanti, ha gravemente interrotto i cicli climatici naturali che sostengono la vita su questo pianeta.
La distruzione di capitali per miliardi di dollari investiti in questo settore è impensabile, sono in gioco troppi soldi.
Anche se tutti sanno che emissioni negative di carbonio e il ripristino del ciclo di azoto per facilitare la crescita delle piante, che catturano il carbonio, sono necessari per evitare la catastrofe, la borghesia impassibile insiste sul fatto che dobbiamo produrre e consumare sempre più merci. Solo la rivoluzione comunista può portarci fuori da questo corso senza uscita.
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Secondo gli accordi presi e i dettagli delle istruzioni del centro, siamo convenuti alla riunione generale di lavoro del partito, della quale in queste pagine diamo un primo sommario resoconto per i compagni forzatamente assenti e per i lettori.
Alla connessione, in remoto, da dieci paesi si sono ordinatamente e stabilmente collegati gruppi e singoli sperimentati militanti. Si è confermata l’efficacia dell’organizzazione, ormai collaudata, che prevede la presentazione dei resoconti delle sezioni e i rapporti tematici tradotti in precedenza in italiano, inglese e spagnolo, ai quali seguono a viva voce le domande, le considerazioni e le integrazioni dei compagni, tradotti all’immediato nelle altre due lingue.
Come risulta già dai brevi riassunti qui riportati si è confermato l’eccellente livello dei nostri studi, il cui scopo non è scoprire nuove verità nella teoria del partito, che correggano o integrino la originaria, o nuove vie impreviste che la storia si starebbe aprendo. L’utilità delle nostre ricerche è attingere all’inesauribile bagaglio del marxismo e della viva esperienza del partito storico per costruire, su questa pietra, il partito di domani.
Questo l’ordine dei lavori.
Venerdì 27 riunione organizzativa, riservata alle comunicazioni a tutto il partito dei vari gruppi di lavoro e delle sezioni, più in dettaglio, ampiamente e compartecipato rispetto a quanto svolto nella continua corrispondenza interna con il centro e all’interno dei gruppi di intervento e di studio.
Sabato e domenica esposizione dei rapporti sugli argomenti specificatamente
approfonditi. Questo l’elenco:
SABATO |
Teoria della conoscenza: il formarsi dell’ideologia borghese |
Nostro nuovo approccio allo studio dell’economia marxista |
Origini del Partito Comunista di Cina |
La rivoluzione ungherese del 1919 |
Effetti della crisi sul Giappone di oggi |
La parola del partito sulla guerra in Ucraina |
DOMENICA |
L’ ”Armata Rossa” nel 1923 in Germania |
Corso della crisi capitalistica |
Le attuali proteste sociali in Iran |
Lotte sindacali in corso: - nel Regno Unito - negli Stati Uniti - in America Latina - in Francia - attività sindacale in Italia |
Ogni seduta, della durata di sei ore, si è interrotta per due brevi pause.
L’esposizione di alcuni importanti rapporti è stata rimandata alla prossima riunione per mancanza di tempo.
Al termine ci siamo lasciati dopo aver ascoltato le conclusioni del centro e il riassunto degli impegni futuri prossimi della nostra piccola ma salda ben intonata e collegata compagine.
Teoria della conoscenza
L’ideologia borghese: In principio era il Verbo
Nelle religioni troviamo talvolta delle intuizioni di grande potenza, a cui la filosofia e la scienza della borghesia, a distanza di secoli e a volte di millenni, non arrivano. Ciò non è poi così strano, se pensiamo che le religioni più antiche erano più vicine alla base materiale della società, mentre le stesse religioni, in fasi successive, hanno prodotto costruzioni ideologiche che hanno trasportato la società, con i suoi rapporti sociali, nell’alto dei cieli.
Lo stesso ha fatto la borghesia, in varia maniera, da Kant ed Hegel fino ad oggi. Il cristianesimo delle origini era più vicino alle basi materiali di quello successivo; l’ebraismo, in quanto espressione di rapporti sociali più arcaici, era più vicino a tali basi del cristianesimo. Gli ebrei, nella Bibbia, pregavano il loro dio per l’abbondanza delle messi e per la fecondità delle donne e degli armenti. Non lo pregavano per la salvezza di un’anima che, possiamo dire, non era ancora stata inventata. Gli stessi cristiani del I° secolo non avevano la concezione di anima che conosciamo, ma parlavano di resurrezione dei corpi nel giorno del giudizio, dopo il lungo sonno della morte.
Il prologo del vangelo di Giovanni recita: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. L’autore, riferendosi a Cristo e quindi a Dio, usa il termine greco “logos” che significa parola, discorso, ragione, causa, legge. Girolamo tra IV e V secolo traduce “logos” con il latino “verbum”, che significa parola, discorso, verbo. In italiano viene tradotto con “verbo”. Logos è un termine già presente nella filosofia greca più antica, ma è con il filosofo ebreo Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù, che viene inteso alla maniera che sarà poi dei neoplatonici, e fatta propria dal cristianesimo, di termine medio tra dio e il mondo, di cui dio si serve per creare il mondo. Tale termine medio che unisce dio e mondo, che è dio e mondo, quindi dio e uomo, si prestava bene ad essere inteso come Cristo.
“Logos” era a sua volta la traduzione di un termine ebraico più antico: “Davar”. Anche questo termine significava “parola”, ma parola che non si distingue dal fatto, e che è tutt’uno con esso. Evidentemente faceva parte del linguaggio di una società che precede “il peccato originale” della divisione in classi.
La traduzione latina è più felice di quella greca. Dio è il verbo, Dio è la parola, ma non una parola qualsiasi. Non è neanche il “motore immobile” dei greci. Il verbo è una parola in movimento, una parola che è movimento. La migliore traduzione dell’incipit giovanneo è quella di Goethe che fa dire al suo Faust: “In principio era l’azione”.
Questo dio, questa realtà che non è statica, ma che è azione, movimento, modificazione, creazione, tensione verso il futuro, altro non è che la materia. Le caratteristiche qui elencate sono le caratteristiche della materia. Una intuizione davvero potente, espressa nel linguaggio del mito, della religione, della magia.
Il pensiero più antico era magico: la parola non indicava la cosa, la evocava, era la cosa. La distinzione tra significato e significante appare nel mondo greco solo con Aristotele e ancora più con gli stoici. Abbiamo già detto che questa dimensione magico-religiosa era il lontano ricordo e la nostalgia del comunismo primitivo.
Il tempo dei greci, degli ebrei, dei marxisti
Il roveto ardente che parla a Mosè è movimento e non stasi. Le parole che rivolge a Mosè, note come “Io sono colui che sono”, in realtà vanno tradotte come “Io sarò colui che sarò”. Ancora tensione verso il futuro, in unione col presente e col passato. I greci avevano una concezione ciclica, circolare del tempo, paradossalmente più “religiosa” di quella ebraica, concezione arrivata fino a Vico, Hegel, Nietzsche, il quale parlava appunto di un “eterno ritorno”. La visione ebraica del tempo e della storia era invece lineare, tesa verso il futuro, verso il “Io sarò colui che sarò”. Questa linearità non era perfetta e senza scossoni: le vicissitudini del popolo ebraico narrate nella Bibbia, le sue sconfitte che hanno significato schiavitù e dominazione straniera, hanno portato tale popolo a concepire una direzione verso Dio sì lineare, ma interrotta da varie dolorose e tragiche cesure. Una concezione tutto sommato meno “religiosa”, meno metafisica, di quella dei positivisti del XIX secolo, e delle loro “sorti magnifiche e progressive”. La concezione del tempo e della storia marxista è più debitrice di quella ebraica che di quella greca. Nel nostro “Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista”, 1951, leggiamo:
«Una teoria del tutto errata è quella della curva discendente del capitalismo che porta a domandarsi falsamente come mai, mentre il capitalismo declina, la rivoluzione non avanza. La teoria della curva discendente paragona lo svolgersi storico ad una sinusoide: ogni regime, come quello borghese, inizia una fase di salita, tocca un massimo, poi comincia a declinare fino ad un minimo; dopo il quale un altro regime risale. Tale visione è quella del riformismo gradualista: non vi sono sbalzi, scosse o salti. L’abituale affermazione che il capitalismo è nel ramo discendente e non può risalire contiene due errori: quello fatalista e quello gradualista. Il primo è l’illusione che, finito il capitalismo di scendere, il socialismo verrà di per sé, senza agitazioni, lotte e scontri armati, senza preparazione di partito. Il secondo, espresso dal fatto che la direzione del movimento si flette insensibilmente, equivale ad ammettere che elementi di socialismo compenetrino progressivamente il tessuto capitalistico.
«La visione marxista può raffigurarsi (a fine di chiarezza e brevità) in tanti rami di curve sempre ascendenti fino a quei vertici (in geometria punti singolari o cuspidi) a cui segue una brusca caduta quasi verticale; e dal basso un nuovo regime sociale, un altro ramo storico di ascensione … Marx non ha prospettato un salire e poi un declinare del capitalismo, ma invece il contemporaneo e dialettico esaltarsi della massa di forze produttive che il capitalismo controlla, della loro accumulazione e concentrazione illimitata, e al tempo stesso della reazione antagonistica, costituita da quelle forze dominate che è la classe proletaria. Il potenziale produttivo ed economico generale sale sempre finché l’equilibrio non è rotto, e si ha una fase esplosiva rivoluzionaria, nella quale in un brevissimo periodo precipitoso, col rompersi delle forme di produzione antiche, le forze di produzione ricadono per darsi un nuovo assetto e riprendere una più potente ascesa … Occorre appena notare che il senso generale ascendente non vuole legarsi a visioni idealistiche sull’indefinito progresso umano, ma al dato storico del continuo ingigantirsi della massa materiale delle forze produttive, nel succedersi delle grandi crisi storiche rivoluzionarie».
Ribadiamo che l’unico criterio per valutare una ideologia sta nel mandare o meno avanti la conoscenza della società cui appartiene, e soprattutto nel costituire o meno un’arma per distruggere un ordinamento sociale ormai esausto. Non sono state e non saranno le sole armi della critica a distruggere una società di classe ormai fradicia, ma la critica delle armi esercitata dai senza scienza, dai diseredati. Sarà solo con la fine dell’ultima società di classe, e con il comunismo, che sarà ricomposto ciò che è stato spezzato, che, per adoperare la terminologia cristiana, il Verbo si farà Carne.
La rivoluzione ungherese - Conclusioni
Con questo rapporto si è completata l’esposizione del lungo lavoro sulla Rivoluzione in Ungheria del 1919, iniziata alla riunione del settembre 2016. Abbiamo letto le conclusioni da una prima analisi di Béla Kun, il quale nel 1924 nello scritto “Sulla Repubblica ungherese dei Consigli” sintetizza così i motivi principali del fallimento: «Perché è crollata la Repubblica ungherese dei Consigli? […] Si può così riassumere: 1. La piccola superficie della Repubblica dei Consigli che non consentì operazioni militari di ritirata; 2. Il fatto che mancarono le fortuite e favorevoli circostanze della situazione politica internazionale, che il compagno Lenin cita a più riprese come uno dei fattori del successo della rivoluzione russa; 3. La mancanza di un PC organizzato, centralizzato, disciplinato, capace dunque di manovra; 4. Il non aver risolto il problema dei contadini, vale a dire la questione agraria».
Di questo scritto abbiamo letto ampie parti, che sottolineano, fra gli altri motivi elencati, la questione del Partito: «È l’assenza di un partito che segnò la sorte della dittatura. Questo partito era insufficiente a causa della fusione [...] Il Partito Comunista che era debole e inorganizzato, non avrebbe potuto evitare in alcun caso d’essere assorbito dalle istituzioni dei Consigli […] Come Lenin ripeteva incessantemente, i Consigli operai devono appoggiarsi, così come la Repubblica dei Consigli, sulle organizzazioni di massa della classe operaia. Errore del Partito: non aveva come organizzazione di massa degli operai che i sindacati. È su di essi che dovevamo appoggiarci, anche per l’organizzazione dell’Armata Rossa. È stata la causa interna della caduta della dittatura […] Le esperienze della dittatura rendono assolutamente necessaria, ma anche possibile, l’organizzazione d’un Partito Comunista interamente conforme al principio dell’organizzazione bolscevica […] organizzato per la clandestinità, centralizzato e chiuso […] Se amate e stimate il Partito, sopra ogni cosa, se essere fieri d’appartenerci è del feticismo, allora si tratta del feticismo della rivoluzione, perché il Partito Comunista è la personificazione della coscienza rivoluzionaria, dell’azione rivoluzionaria».
Abbiamo proseguito con l’ultimo capitolo dal titolo “La ‘lezione’ finale”, dove si dava lettura di alcuni brani tratti dall’opuscolo di Ladislao Rudas: “I documenti della scissione”, che tratta in modo ampio e abbastanza dettagliato quanto di abominevole i socialdemocratici fecero nei giorni poco prima della rivoluzione proletaria e, soprattutto durante.
Riportiamo alcuni passi: «Come dappertutto così anche in Ungheria furono i socialdemocratici ad abbassare la bandiera rossa davanti a quella nazionale. Furono essi a nascondere al proletariato la bancarotta del capitalismo e l’impossibilità della rivoluzione borghese. Furono essi che sospendendo la lotta di classe (discorso di Sigismondo Kunfi nei primi giorni del novembre 1918), vollero dare alla borghesia la sensazione della sicurezza e nello stesso tempo al proletariato l’illusione della vittoria. Le frasi sentimentali, confuse, piccolo-borghesi di Kunfi mascheravano bellamente la fredda truffa di Garami […] Il Partito socialdemocratico s’atteggiò subito a partito dell’ordine, naturalmente di quello capitalistico, che esso voleva mantenere, data l’impotenza del capitalismo stesso, con l’aiuto del proletariato organizzato. Il socialdemocratico Garami si prese come collaboratore, a questo scopo, Kálmán Méhely, direttore dell’”Unione nazionale industriali siderurgici”, famigerata organizzazione di lotta dei datori di lavoro; difatti, chi meglio del famigerato direttore della più provocante unione dei datori di lavoro poteva appoggiare la socialdemocrazia nella sua azione di salvataggio del capitalismo? […]
Se un partito, che per decenni si è proclamato proletario e rivoluzionario, proprio nella rivoluzione non compie nemmeno per caso sia pure un solo passo rivoluzionario e invece della forza organizzata del proletariato, e della influenza acquisita per mezzo delle masse organizzate fa sempre uso conseguentemente e coscientemente contro la rivoluzione del proletariato e nell’interesse del capitalismo – non commette allora un errore, ma un vero tradimento. E quando un partito, come dappertutto i partiti socialdemocratici, rivolge tutto il meccanismo oppressivo dello Stato capitalista contro la rivoluzione proletaria, sparge sangue fraterno nell’interesse della rivoluzione capitalista, che cos’è questo se non un tradimento?».
Il compagno riassumeva i molteplici tradimenti attuati dai socialtraditori.
L’opuscolo di Rudas, che traccia l’insegnamento di questa sconfitta della rivoluzione, sottolinea, a proposito dei socialtraditori: «Essi non possono venir convinti a nessun costo, non possono che essere combattuti. Questo il grande insegnamento che questo scritto vuole porgere al proletariato […] soltanto la lotta può essere la strada su cui il proletariato potrà arrivare a vincere. È tramontata l’epoca della lotta di classe pacifica; questa è l’epoca della rivoluzione armata, e la rivoluzione cade, se vuole vincere con i compromessi. Il compromesso non è possibile: il proletariato deve battere fatalmente la via della lotta fino alla fine, e dove la scansa, paga il fio col terrore bianco […] Ogni compromesso coi socialisti antirivoluzionari significa rovina della rivoluzione. Colui che non si può guadagnare alla rivoluzione che mediante la lezione dei fatti, va combattuto. Colui che non può essere guadagnato neanche in tal modo, muoia».
Concludiamo con Lenin che affermò, il 6 agosto 1919 alla Conferenza degli Operai e Soldati senza Partito: «Gli ultimi avvenimenti ci hanno dimostrato che i social-conciliatori non sono affatto cambiati. A quanto pare, ciò che è accaduto in Ungheria, riproduce su grande scala ciò che è recentemente accaduto sotto i nostri occhi a Bakù [...] Ma il fatto è che anche gli uomini di Denikin ci cantano il loro ritornello sull’assemblea Costituente; in nessun posto la controrivoluzione si presenta a viso aperto, e perciò diciamo: nessun insuccesso temporaneo, come gli ultimi avvenimenti dell’Ungheria, ci sgomenterà. Non c’è via d’uscita da tutte le sventure, se non nella rivoluzione; non c’è che un solo mezzo sicuro: la dittatura del proletariato. Diciamo: ogni sconfitta dell’Esercito Rosso non fa che temprarlo, renderlo più forte e consapevole, perché gli operai e i contadini hanno ora capito, in base a una sanguinosa esperienza, che cosa ci porta il potere della borghesia e dei conciliatori. La belva agonizzante del capitalismo mondiale compie gli ultimi sforzi, ma creperà lo stesso!».
Come detto nell’introduzione di questo lavoro, prosegue la scolpitura dei capisaldi del marxismo rivoluzionario, che abbiamo il dovere di ribadire oggi, domani e sempre, ovvero che «non può esistere nessuna coalizione, nessun tipo di compromesso con i socialisti tanto inclini al tradimento». Questo si può leggere esplicitamente nelle condizioni di ammissione all’Internazionale Comunista, note come “21 Punti”:
«Nessun comunista può dimenticare gli insegnamenti della Repubblica ungherese dei soviet. La fusione dei comunisti ungheresi con i cosiddetti socialdemocratici di “sinistra” è costata cara al proletariato ungherese. Di conseguenza il secondo Congresso dell’Internazionale comunista ritiene necessario stabilire con la massima precisione le condizioni per l’accettazione di nuovi partiti, e richiamare quei partiti che sono accolti nell’Internazionale comunista ai doveri che hanno di fronte».
Il corso del capitalismo mondiale
Gli anni 2021 e 2022, successivi alla recessione del 2019-20, esacerbata dalle misure di contenimento del Covid-19, sono stati caratterizzati da caos, inflazione e aumento dei tassi di interesse. L’aumento del costo dei cereali è stato causato dalla siccità, dall’invasione dell’Ucraina, e soprattutto dall’impennata dei prezzi delle materie prime e dell’energia: al loro massimo, il prezzo del metano è aumentato di 20 volte e quello dell’energia elettricità di 10.
L’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia è dovuto soprattutto al sotto-investimento degli ultimi decenni, dopo il crollo del loro prezzo sul mercato mondiale. Ecco, in tutta la sua bellezza, la natura caotica del corso del capitalismo. A questo quadro generale, come sempre, si aggiunge la speculazione, soprattutto perché per gli speculatori, con l’inflazione, il denaro rimane più a buon mercato.
In questo contesto, tenendo conto del forte indebitamento di Stati e imprese, potremmo aspettarci, come temevano gli economisti borghesi, una brutale recessione mondiale. Ma cosa è successo? A seconda del Paese, stiamo assistendo solo ad un forte rallentamento della crescita o a una leggera recessione, soprattutto nei Paesi europei, ad eccezione del Regno Unito. I Paesi più colpiti sono quelli asiatici: Cina, Giappone e Corea del Sud. Lo dimostra il forte calo delle importazioni e delle esportazioni.
Abbiamo iniziato la nostra panoramica con gli Stati Uniti. I tassi di crescita dell’industria, che è trainata dai prodotti minerari, in particolare il petrolio e il gas di scisto, la cui produzione sta battendo tutti i record, sono piuttosto forti, con incrementi del 5,0%, 3,3% e 2,5% da settembre. Tuttavia, questi indicano un chiaro rallentamento. Se ci riferiamo alla produzione manifatturiera, il rallentamento è ancora più marcato, con il 3,8%, il 2,4% e l’1,2% per questi stessi mesi. Possiamo quindi aspettarci incrementi negativi nell’industria manifatturiera per il 2023.
L’anno 2022 ha segnato un miglioramento per la manifattura, poiché rispetto al 2007, l’incremento negativo che era pari a -8,3% nel 2021, è sceso a -5,5% nel 2022. Un piccolo miglioramento, quindi, ma che probabilmente scomparirà nel 2023. Va notato che da diversi mesi si registra una netta diminuzione dell’inflazione, che a dicembre è stata del 5% su base annuale.
Il Giappone: dopo la forte ripresa nella prima metà del 2021, che compensa in parte il calo della produzione nel 2020, gli incrementi da settembre 2021 in poi sono per lo più negativi, tanto che il 2022 è stato un anno di recessione con la produzione che è scesa a -18,6% rispetto al 2007, contro il -17,8% del 2021.
La Germania, insieme al Belgio è stato l’unico grande Paese europeo ad aver superato il picco del 2008. Ma dal 2019, come la maggior parte degli Stati, è di nuovo in recessione e i suoi guadagni sono scomparsi. Il risultato è -1,6% nel 2022 rispetto al picco del 2008, contro il -5,7% del 2021, un piccolo miglioramento. Tuttavia, dopo due incrementi positivi in agosto e settembre, la crescita tende di nuovo a zero.
Il Regno Unito è in forte recessione dall’ottobre 2021: dopo il -5,7% del 2021 rispetto al massimo del 2000. La produzione industriale è scesa pesantemente: -9% nel 2022, avvicinandosi al -10% del 2020. Oltre all’impennata dei prezzi dell’energia e delle materie prime, la situazione economica del Regno Unito è chiaramente peggiorata in seguito alla Brexit. La recessione, unita all’inflazione, ha gravemente peggiorato le condizioni di vita del proletariato britannico, provocando numerosi scioperi e manifestazioni in tutto il Regno Unito.
La Francia alterna incrementi debolmente negativi e positivi, e dunque la situazione non è cambiata rispetto al 2021. Ma possiamo notare che la situazione è peggiorata rispetto al 2019, quando l’incremento negativo rispetto al picco del 2007 era del -7,5%, mentre è stato di -12,4% nel 2022. La Francia è quindi di nuovo in recessione.
L’Italia mostra un piccolo miglioramento nel 2022 rispetto al 2021, con un -18,5% se si considera il picco del 2007, ma migliore del -19,1% del 2021. Nel 2022 si torna quindi al livello del 2019. Si noti, tuttavia, che tutti gli incrementi, ad eccezione di agosto, sono negativi da giugno. Si prevede quindi un peggioramento nel 2023.
La Corea del Sud è stata caratterizzata da tassi di crescita piuttosto forti, almeno fino a luglio 2022, ma da agosto gli incrementi sono diminuiti e sono entrati in terreno negativo.
La Cina, come è noto, ha subito una forte recessione nel 2015-16, accompagnata da fughe di capitali e da un’emorragia di valuta. Come ovunque, c’è stata una ripresa nel 2017-18, poi di nuovo una recessione dal 2019. Questa si esprime con una grave crisi nel settore immobiliare, che rappresenta un quarto della produzione cinese, e nel settore dei consumi, con un calo in particolare delle vendite di automobili, nonostante la Cina sia diventata di gran lunga il più grande mercato per le auto. Questa recessione è stata aggravata dalle misure contro il Covid-19 e dall’esplosione della disoccupazione.
La curva esposta alla riunione rappresenta le importazioni cinesi e quindi la forza del mercato interno. Si è notato la forte ripresa da dicembre 2020 a febbraio 2022 dopo la fine del contenimento sanitario, poi il crollo a scaglioni fino a -17,2% nel dicembre 2022.
Dopo l’enorme accumulo di capitale degli anni ‘90, la crisi internazionale del 2008-9 ha portato a un brusco rallentamento che è sfociato nella recessione del 2015-16, poi in quella che la Cina sta vivendo dal 2019. Da qui i tentativi del delegato cinese di avvicinare la Cina agli Stati Uniti durante il Forum di Davos, tenutosi dal 17 al 20 gennaio di quest’anno.
Infine abbiamo analizzato le esportazioni. Chiaro il rallentamento delle esportazioni negli ultimi mesi, ma ciò che è particolarmente degno di nota è lo spettacolare calo delle esportazioni dai paesi asiatici: Cina, Corea del Sud e Giappone. Il Giappone, non a caso, ha visto le sue esportazioni in rosso dall’aprile 2022, circa -5%. Ma soprattutto si nota, dopo un forte rallentamento, la spettacolare caduta delle esportazioni di Cina e Corea del Sud: -15% per la Corea del Sud e -17% per la Cina!
In realtà, si possono distinguere tre gruppi: oltre ai Paesi asiatici, c’è il gruppo che comprende Germania, Francia, Inghilterra e Italia, che hanno un andamento simile. Sopra di loro ci sono gli Stati Uniti e il Belgio. Ma tutti mostrano un chiaro rallentamento delle esportazioni.
In sintesi: tutte le condizioni sono mature per una grave crisi di sovrapproduzione globale. Il livello di indebitamento degli Stati, delle famiglie e delle imprese è elevato, la produzione industriale nella maggior parte dei principali Paesi è ben al di sotto del massimo raggiunto nel 2007. Il capitalismo mondiale è riuscito a evitare una grave deflazione, come nel 1929, grazie alla formidabile accumulazione di capitale nel Sud-Est asiatico, soprattutto in Cina, ma questo ciclo si sta concludendo; la Cina è a sua volta in crisi di sovrapproduzione.
L’arma finanziaria usata inizialmente dalle banche centrali, il “quantitative easing”, ha aggravato l’inflazione. Il conseguente aumento dei tassi di interesse rischia ora di provocare una catena di fallimenti. Finora i governi e le imprese sono riusciti a ripagare i loro debiti indebitandosi nuovamente sul mercato, ma allo stesso tempo il debito continua a crescere, rendendo queste acrobazie sempre più pericolose. A questo si aggiungono i trilioni di debiti della “finanza ombra”, che sono fuori controllo e comprendono 96.000 miliardi di dollari di derivati. È proprio in questo mercato dei derivati che i fondi pensione britannici hanno rischiato di crollare. Solo l’energico intervento della Banca d’Inghilterra ha potuto evitare il fallimento generale dei fondi pensione dei lavoratori britannici.
Prima o poi la caduta di alcune tessere del domino porterà a un crollo generale. Sarà quest’anno, o l’anno prossimo, o l’anno dopo ancora? Questo non possiamo saperlo ma il futuro del capitalismo è segnato.
L’ “Ottobre tedesco” e l’insurrezione di Amburgo
Questa serie di relazioni si concentra sugli aspetti militari degli eventi in Germania dal 1918 al 1923, ma è necessario ricordarne il contesto politico ed economico.
Nel 1923 la Germania era in ginocchio e il proletariato in una situazione disperata. La disoccupazione cresceva vertiginosamente: 160.000 i senza lavoro a Berlino alla fine di ottobre e più di 2.000.000 in tutta la Germania. Iperbolica l’inflazione. L’occupazione della Ruhr nel gennaio aveva provocato il totale crollo della moneta, fame e miseria inimmaginabili. Lo sciopero generale, proclamato dalla Conferenza dei Consigli dei Lavoratori di Berlino l’11 agosto, aveva scatenato un potente movimento che costrinse il governo guidato da Wilhelm Cuno a dimettersi, sostituito da una “Grande Coalizione” (Partito Popolare Tedesco, Centro Cattolico, Democratici e SPD).
Mosca era convinta che la rivoluzione maturasse rapidamente in Germania. Il KPD alla fine si adeguò alla decisione del Comintern di avviare la battaglia per la conquista del potere.
Mosca decise di includere rappresentanti del KDP nei governi di Sassonia e Turingia. Brandler si oppose a questa politica: sapeva che i socialdemocratici di sinistra in Sassonia erano alleati inaffidabili.
Durante l’estate si verificarono numerosi scontri tra le unità di combattimento del KPD, le Centurie Proletarie, e la polizia, controllata dal ministro socialdemocratico Liebman. A settembre, diverse decine di lavoratori furono uccisi a Lipsia.
Nel frattempo il nemico si stava preparando. Il 29 settembre il generale Müller, capo della Reichswehr nella regione, dichiarò lo stato d’assedio e il 5 ottobre vietò tutte le pubblicazioni comuniste.
Il 7 ottobre fu distribuito un volantino dei consigli di fabbrica che invitava gli operai a prepararsi allo sciopero generale, come risposta a qualsiasi tentativo controrivoluzionario, costituendo comitati d’azione e gruppi di autodifesa, organizzando assemblee quotidiane nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro.
Il nuovo governo Zeigner si insediò il 10 ottobre con tre ministri comunisti.
Ma i comunisti tedeschi sapevano che la classe operaia era demoralizzata dalle ripetute sconfitte subite dal novembre 1918 e paralizzata dalla collaborazione di classe tra i socialdemocratici e la burocrazia sindacale. Questo indusse molti comunisti a nuovi errori, sostenendo iniziative opportuniste, come l’ingresso nei governi statali, ritenute un passo avanti.
Il generale Müller rispose immediatamente decretando il 13 ottobre lo scioglimento delle Centurie Proletarie e delle altre organizzazioni e ordinando la consegna delle armi alla Reichswehr. Il 17 ottobre Müller lanciò un ultimatum. Zeigner denunciò l’ultimatum come “incostituzionale”, ma rimase neutrale. Nel frattempo la Reichswehr passava all’offensiva. A Mannheim, sette manifestanti furono uccisi e 250 feriti. Furono arrestati i membri di un comitato d’azione dei disoccupati ad Amburgo Altona. I socialdemocratici si limitarono a protestare.
Il 18 ottobre una riunione di delegati sindacali decise di indire lo sciopero generale nazionale in caso di attacco della Reichswehr alla Sassonia.
A quella data 700.000 persone, un settimo della popolazione della Sassonia, rischiava di morire di fame: il Ministro dell’Economia, del Partito Comunista, chiese denaro alle banche di Dresda per alleviare la fame, ma gli fu negato.
I comunisti di Sassonia, e non solo, compreso Zinoviev, credevano che imminente l’Ottobre tedesco, e che il movimento si sarebbe diffuso in tutta la Germania.
Ma il lavoro di preparazione mancava. Guidato da esperti di guerra civile del Comintern e da generali dell’Armata Rossa, un apparato politico-militare (MP) fu organizzato parallelamente all’organizzazione politica del KPD e, salvo interconnessioni al vertice, indipendente da essa. Un generale sovietico, nome in codice “Rose”, ne fu nominato comandante, ma privo di esperienza di insurrezioni armate in condizioni di illegalità, mentre nell’Armata Rossa aveva goduto del sostegno dell’apparato statale rivoluzionario.
Delle Centurie Proletarie si dovevano formare, principalmente su iniziativa dei comunisti. Ma in molti casi queste formazioni di cento uomini si limitavano a proteggere le riunioni e le manifestazioni. Inoltre operavano apertamente e nel rispetto della legge, il che rendeva impossibile il loro armamento prima di un’insurrezione.
Dei comandanti regionali solo quelli della Ruhr e della Baviera avevano esperienza di insurrezioni. Si lamentarono che le direttive di Rose significavano “combattere le formazioni pesantemente armate della Reichswehr e della Schupo con risoluzioni di carta”. Trotski affermerà nel 1924 che “non erano stati affrontati minimamente i problemi della preparazione e della realizzazione dell’insurrezione armata”.
Il 20 ottobre, il Presidente del Reich Ebert (SPD) dichiarò deposto il governo operaio sassone “ai sensi della Costituzione di Weimar” e il generale Müller ricevette l’ordine di trasferirsi in Sassonia.
Lo stesso giorno l’organo direttivo del KPD decise di proporre lo sciopero generale l’indomani alla conferenza delle organizzazioni operaie sassoni a Chemnitz. Ma 400 delegati delle organizzazioni operaie sassoni, a grande maggioranza, respinsero lo sciopero generale.
La “Zentrale“ del KPD decise comunque di chiamare allo sciopero generale, pensando che avrebbe portato al sollevamento armato in tutta la Germania. Dopo interminabili dibattiti fu infine deciso che in una città sarebbe iniziata la rivolta. Se questa si fosse estesa il KPD si sarebbe dato l’obiettivo della presa del potere.
Fu scelta la città di Kiel, porto militare sul Baltico che aveva dato il segnale della rivoluzione nel novembre 1918. Perché non fare lo stesso nel 1923? Ad Amburgo il comando del MP per il Nord-Ovest si oppose alla decisione: la Kiel del 1923 non era quella del 1918, in cui decine di migliaia di marinai erano stanchi della guerra. A Kiel nel 1923 il KPD aveva solo un piccolo gruppo locale e l’apparato del MP era in uno stato embrionale. Quindi si dette l’ordine dell’insurrezione ad Amburgo.
Qui il Partito Comunista contava circa 18.000 iscritti; la sua Organizzazione di Combattimento (OD) circa 1.300. L’OD di Amburgo disponeva di armamento insufficiente. In generale imparato a usare le armi, conosceva il combattimento di strada, il dispiegamento delle truppe nemiche e della polizia. Era pronta a lanciare la lotta non appena il Partito avesse dato il via.
Ad Amburgo c’erano inoltre quindici Centurie Proletarie. Queste dovevano costituire la maggior forza di combattimento del proletariato, ma non avevano praticamente armi e l’obiettivo e la tattica non erano ancora chiari. Né le furono date istruzioni chiare.
Il nemico aveva venti stazioni di polizia nella zona, di cui otto appositamente rinforzate; la caserma di Wandsbek conteneva circa 600 poliziotti, con sei autoblindo armate di due mitragliatrici ciascuna. L’armamento dell’organizzazione operaia era molto ridotto, non una mitragliatrice! Il nemico godeva, quindi, di una superiorità schiacciante.
Fu ordinata l’azione alle 5 del mattino del 23 ottobre. Ogni gruppo doveva attaccare a sorpresa l’obiettivo designato. I primi successi dovevano essere il segnale alla massa dei lavoratori per prendere il potere.
Ma durante il percorso dai centri di raduno alle stazioni di polizia circa un terzo degli uomini scomparve, scoraggiati dalla mancanza di armi.
Ciononostante, alle 5.30 gli insorti avevano già invaso e disarmato 17 stazioni di polizia. Alle 6 circa 130 uomini si erano radunati armati di mitragliatrici, revolver e tre fucili mitragliatori.
I poliziotti, stanchi dopo i precedenti giorni di allerta, furono presi di sorpresa: il quartier generale della polizia di Amburgo non si aspettava l’insurrezione, gli uomini dormivano.
I compagni che non disponevano di armi furono inviati alle stazioni ferroviarie, ai cancelli delle fabbriche e in altri punti di riunione degli operai per invitarli allo sciopero generale e chiamare i lavoratori alla lotta. Tutti i trasporti e le fabbriche si fermarono e gli operai confluirono nei centri di combattimento.
Tuttavia un numero di autoblindo arrivò a difesa delle stazioni di polizia non ancora assaltate, che divennero impossibili da prendere. Si passò alla guerriglia di piccoli gruppi, con gli insorti messi sulla difensiva. Barricate furono erette in tutti i quartieri, grazie alla partecipazione delle masse operaie, in particolare delle donne.
Il comando insurrezionale nei quartieri non sapeva nulla dalle altre zone. Nella seconda metà della giornata si apprese che non c’era più alcuna azione al centro e ad Altona.
La mattina del 23 ottobre ci furono tentativi in altri quartieri ma, a causa della cattiva direzione militare e politica e della mancanza di armi, non ebbero successo. Dove la situazione era favorevole gli insorti passarono all’offensiva, con contrattacchi decisi e di fianco. Tuttavia la lotta rimase isolata nei distretti nord-orientali. Il piano di mobilitazione delle masse in tutta la città per un attacco concertato al centro non si concretizzò.
Nei quartieri giunse infine l’ordine di smettere di combattere, l’insurrezione era stata revocata e si dovevano nascondere le armi fino a nuovi ordini del Partito.
La mattina del secondo giorno arrivarono nel porto da Kiel l’incrociatore Hamburg e due torpediniere con a bordo 500 poliziotti di Lubecca. Anche le organizzazioni piccolo-borghesi e fasciste della città erano state rifornite di armi dalle riserve segrete ed erano ormai in assetto di guerra.
All’alba, la polizia iniziò un’avanzata concertata su Barmbek. Tutte le forze disponibili della polizia e dei fascisti parteciparono all’operazione. La ricognizione fu effettuata da alcuni aerei. I marinai dell’incrociatore Hamburg si rifiutarono di muoversi contro gli insorti. Ma questi avevano ormai abbandonato le posizioni, tranne alcuni cecchini sui tetti.
La polizia aprì il fuoco anche contro la popolazione civile, con molti morti e feriti.
L’insurrezione di Amburgo fu sospesa per ordine del Partito. Non fu una sconfitta schiacciante e la ritirata ben eseguita. Il prefetto di Amburgo ammise ai suoi superiori di Berlino che non era riuscito a piegare la resistenza degli operai, che si erano ritirati portando con sé le armi. Avevano partecipato attivamente ai combattimenti solo 250-300 uomini, ma la rapida costruzione di un’intera rete di barricate fu possibile per la partecipazione delle masse operaie.
L’insurrezione di Amburgo fu il segnale di una rivolta generale nei principali centri industriali. Era scoppiata in un momento in cui la crisi politica ed economica era al massimo. La sua preparazione politica era stata praticamente inesistente. La commissione d’inchiesta dell’Internazionale giunse alle conclusioni: 1. L’insurrezione fu mal preparata dal comando del MP, se non preparata affatto. “Alla vigilia dell’insurrezione erano a disposizione non più di 19 fucili e 27 pistole, la metà dei quali inutilizzabili”. 2. Le Centurie Proletarie non parteciparono all’insurrezione.
L’insurrezione di Amburgo dimostrò che ad ottobre 1923 non vi era una situazione realmente rivoluzionaria in Germania, o non lo era più. L’apice della crisi era stato raggiunto con lo sciopero generale che aveva costretto Cuno alle dimissioni. Se una politica diversa e più attiva di quella adottata dal Partito Comunista dopo l’occupazione della Ruhr avesse potuto portare a risultati diversi è un’altra questione.
Le radici della sconfitta non erano militari ma politiche: la teoria e la tattica del fronte unico e del “governo operaio” avevano creato confusione nella coscienza delle masse e nel partito. Questo errore fece sì che dal 1923 ogni prospettiva di successo rivoluzionario in Germania svanisse.
La colpa non era né della destra del KPD né tanto meno della sinistra, e nemmeno del KPD tutto. Era della politica e della tattica promossa dall’Internazionale. Il Comitato esecutivo del Comintern aveva deciso, senza alcuna consultazione preliminare con il KPD, di forzare il movimento in Germania e di preparare l’insurrezione senza considerare le circostanze oggettive, che erano tutt’altro che favorevoli, e senza una preparazione adeguata. Sebbene nell’agosto del 1923 ci fossero accese lotte economiche, non c’era alcun paragone con la Russia dell’ottobre 1917. Non c’erano soviet e quindi non si poteva parlare di doppio potere. Inoltre l’organizzazione militare, in via di costituzione, non era attrezzata per la guerra urbana e, cosa fondamentale, non disponeva delle armi necessarie per affrontare la Reichswehr e le formazioni fasciste.
La politica del fronte unico rafforzava la confusione su ciò che il KPD rappresentasse all’interno della classe operaia. Avrebbe dovuto essere già chiaro che i socialdemocratici mai avrebbero preso le armi per la rivoluzione. Era quindi assurdo aspettarsi che il governo Zeigner utilizzasse la polizia o gli armamenti della polizia a sostegno di un’insurrezione, e la decisione dei socialdemocratici alla Conferenza di Chemnitz di bloccare lo sciopero nazionale era del tutto scontata.
I militanti del Partito Comunista di Barmbek e di altri distretti di Amburgo condussero una lotta eroica e il loro coraggio non deve essere sminuito, ma fu impiegato per una tattica errata ed impossibile.
Il cosiddetto “Ottobre tedesco” segnò la fine definitiva dell’ondata rivoluzionaria del 1917-23.
Lotte per il salario in Venezuela
Tutti i governi latinoamericani promettono una ripresa economica, ma tutti i segnali indicano che questa “ripresa” sarà accompagnata da un aumento irrilevante dei posti di lavoro, da un aumento della disoccupazione (e della sottoccupazione e del lavoro nero), da un calo dei salari.
Le elezioni presidenziali e parlamentari hanno dato spazio a forze politiche nuove e meno nuove, all’interno del gioco demagogico e mediatico della democrazia.
I lavoratori, pur nel loro disorientamento politico, tendono a muoversi in lotte per aumenti salariali, uscendo in molti casi dal controllo delle centrali sindacali le quali, invece di essere uno strumento di lotta, impediscono gli scioperi e l’unità dei lavoratori. I nuovi governi propagandano effimeri miraggi di prosperità che subito svaniscono per lasciare spazio al malcontento dei salariati.
* * *
In Venezuela i lavoratori della scuola hanno iniziato l’anno con interruzioni del lavoro in tutto il paese. L’ampia partecipazione non è stata il risultato organizzativo dei sindacati, bensì del malcontento per il calo dei salari, che sono i più bassi dell’America Latina. Alle mobilitazioni ha aderito anche il sindacato degli operatori sanitari e diverse aree del settore pubblico. Sono state aperte anche vertenze isolate nelle aziende private.
Questi conflitti hanno in comune la richiesta di aumento salariale. Sono state rifiutate le offerte del governo di pagare con buoni di acquisto e alcuni settori del sindacalismo propongono l’indicizzazione dei salari e altri il pagamento in dollari, per proteggersi dalla svalutazione del bolivar. Non esiste una direzione intersindacale che integri queste lotte, ma la tendenza è di farle convergere in un’unica richiesta di aumenti salariali.
Come era prevedibile, alcuni gruppi hanno cavalcato questi conflitti per usarli come trampolino elettorale per la presidenza della repubblica e del parlamento, ma i lavoratori hanno rifiutato i dirigenti sindacali e politici screditati. Le agitazioni sindacali hanno permesso a molti lavoratori di disilludersi dei sindacati favorevoli al governo e della Central Socialista Bolivariana de Trabajadores; ma non si fidano troppo nemmeno delle altre centrali, federazioni e sindacati. Questo rifiuto non riflette necessariamente un avanzamento della chiarezza politica. Deve ancora emergere una nuova direzione, la quale favorisca i conflitti di lavoro, consistente nella influenza politica del partito comunista.
In un tentativo demagogico di calmare gli animi, il governo è stato costretto a mostrare la sua “intenzione” di aumentare i salari e ora cercherà di logorare il movimento, cosa che ha funzionato in passato. Resta da vedere se questa volta il movimento operaio riuscirà a crescere in ampiezza e durata. Nel frattempo, il governo ha avviato azioni repressive selettive per intimidire i lavoratori e ha denunciato le manifestazioni come “parte di un piano di destabilizzazione”.
Ma anche i circoli imprenditoriali hanno espresso la necessità di un adeguamento dei salari per difendere i livelli minimi di consumo. Il partito Copei (cristiano-sociale) ha presentato un progetto di legge sulla “emergenza salariale”, che ovviamente non soddisferà le richieste dei lavoratori. In questo senso il governo e la maggior parte delle centrali sindacali puntano a un accordo tripartito, secondo la metodologia proposta dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e ampiamente utilizzata in molti Paesi. Alcune centrali sindacali hanno chiesto un salario minimo di 300 dollari al mese (pari al 66% dell’importo del paniere alimentare e al 35% del paniere di base). Fedecamaras, il sindacato degli imprenditori venezuelani, ha indicato un salario minimo di 50 dollari al mese.
Il governo si aggrappa al pretesto di non poter migliorare i salari a causa delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti, quando invece vanta una crescita economica, che non si è tradotta in un aumento del tenore di vita dei salariati. Il governo ha cinicamente invitato i lavoratori a scendere in piazza per protestare contro il blocco economico.
I lavoratori della Siderúrgica dell’Orinoco (SIDOR) hanno scioperato per 5 giorni nella seconda settimana di gennaio. Sebbene il governo non sia riuscito a reclutare i crumiri nella regione, in una riunione convocata dal governatore dello Stato di Bolivar, i lavoratori, di fronte al ricatto della repressione, hanno accettato di sospendere la protesta in cambio della liberazione di 18 di loro detenuti, della rinuncia dell’azienda al licenziare i manifestanti e con un ”impegno” a discutere le richieste salariali in un “gruppo di lavoro” a livello nazionale.
Nel frattempo la SIDOR ha pagato i buoni d’acquisto ai lavoratori che non hanno partecipato alla lotta, lodandoli come “eroici” e definendo “sequestratori” quelli che hanno scioperato.
Lunedì 16 le mobilitazioni e i partecipanti hanno continuato a crescere in tutto il Paese, con i lavoratori dell’istruzione come nucleo principale. Il governo ha pagato a questi un bonus di 580 bolivar (29 dollari), che ha poi esteso ad altre categorie del settore pubblico, ma i lavoratori hanno ribadito le loro richieste di aumento salariale.
Lunedì 23 mobilitazioni in tutte le principali città. Insegnanti e amministrativi delle scuole si sono mobilitati in modo massiccio. In misura minore hanno aderito gli universitari, gli operatori sanitari e i lavoratori di alcune istituzioni e aziende statali.
Per controbilanciare le mobilitazioni nelle scuole, il governo ha indetto una marcia a Caracas e alcune manifestazioni regionali, mobilitando i dipendenti di istituzioni governative, spaventandoli con liste di presenza, lanciando la richiesta del rifiuto delle sanzioni e del blocco economico.
Il 30 gennaio le mobilitazioni hanno mantenuto il loro ritmo, estendendosi a tutto il Paese e con accresciuta presenza dei lavoratori della sanità. Lo stesso giorno si è tenuta la riunione tripartita, con la presenza dell’OIL, e, come previsto, non ci sono stati annunci di aumenti salariali, il governo si è rifiutato e ha proposto il pagamento di buoni d’acquisto compensativi. Tutto lascia pensare che la riunione tripartita serva a evitare l’aumento dei salari.
Martedì 31 gennaio, i lavoratori nelle aree delle colate a caldo della SIDOR hanno interrotto le attività in risposta al mancato pagamento delle buste paga e ai bassi salari. Inoltre richiedono il pagamento del premio sugli utili aziendali, del fondo di risparmio e del pagamento dei benefit, sequestrati dal maggio scorso.
La dispersione persiste per la complicità dei sindacati con il governo, lasciando il movimento alla deriva, senza promuovere assemblee e meccanismi di coordinamento, il che favorisce la strategia del governo di puntare a logorare il movimento.
Occorrono due salti qualitativi per mantenersi e avanzare: da una parte sviluppare la propria organizzazione di base per coordinare le azioni e convocare le assemblee; dall’altra coinvolgere tutti i settori per far confluire le energie in uno sciopero generale. Altrimenti sarà molto difficile ottenere quanto rivendicato.
Dalla base si è iniziato a considerare la costituzione di comitati di lotta al di là dei sindacati. Solo la continuare e l’approfondire il conflitto potrà cambiare i rapporti di forza a favore della classe operaia.
FINE DEL RESOCONTO NEL PROSSIMO NUMERO
PAGINA 8
Dopo decenni di conflitto armato tra Stato colombiano e movimenti della guerriglia, e dopo le ampie mobilitazioni di diversi strati sociali contro l’alto costo della vita e le politiche del governo di Iván Duque, da quasi un anno è arrivato alla presidenza della Colombia Gustavo Petro, un opportunista appartenente al campo della cosiddetta “sinistra” che in una certa fase dettero vita alla guerriglia, senza alcun legame con le posizioni rivoluzionarie. Il futuro presidente in gioventù fiancheggiò le attività del gruppo guerrigliero M19.
Approfittando delle massicce proteste Petro ha proposto un programma interclassista per rafforzare il capitalismo in Colombia attraverso la crescita del settore industriale. È riuscito così a coinvolgere molte organizzazioni sociali nella sua campagna elettorale, principalmente nelle zone rurali, ottenendo voti sufficienti per ottenere la presidenza della repubblica, dopodiché ha assunto le sue funzioni dall’agosto 2022.
I primi 180 giorni di governo confermano che la sua è una politica borghese volta a proteggere il saggio del profitto, a rilanciare il mercato dei terreni agricoli, a espandere l’esercito industriale di riserva, per abbassare il costo della forza lavoro e a rendere disponibili territori dove l’investimento di capitali era reso difficile a causa del conflitto armato. Questo avveniva in un contesto di indebolimento della tradizionale classe dei proprietari terrieri a favore della classe borghese-industriale. Petro ha messo in moto il suo programma borghese, e alla classe operaia non resta che gettare via le proprie illusioni, ingigantite da promesse e demagogia, e prepararsi alla lotta.
Un elemento importante del programma di governo è la proposta di riforma agraria. Questa mira all’acquisto di terreni da parte dello Stato, per la loro successiva distribuzione a piccoli agricoltori. Tuttavia questo programma deve fare i conti con una forte pressione degli allevatori e dei proprietari terrieri, che storicamente si sono opposti a tali riforme, motivo per cui il governo ha pianificato l’acquisto della terra, invece dell’espropriazione. In un’intervista, il presidente ha affermato che ciò sarebbe costato 60 miliardi di pesos, tramite buoni del tesoro o altri mezzi. Ciò rappresenta un grande trasferimento di ricchezza ai proprietari terrieri colombiani in generale, e in particolare alla federazione degli allevatori (Fedegan). Il fine è conciliare gli interessi dei proprietari terrieri con quelli dell’attuale governo e raggiungere così una abietta e instabile cooperazione tra i due.
Questo tentativo di riforma agraria dall’alto dà continuità al progetto storico della borghesia industriale colombiana, e non rompe con il passato, come era stato prospettato durante la campagna elettorale. La riforma agraria del presidente Lleras (1966-70) aveva obiettivi equivalenti. Ha reso i terreni più a buon mercato, ma gravando fiscalmente le grandi proprietà. Inoltre ha favorito i miglioramenti sulla terra effettuati dal proprietario e scoraggiato quelli dei contadini in affitto. Infine presenta un tentativo di porre fine al conflitto armato soddisfacendo una delle principali rivendicazioni dei piccoli contadini, sui quali si basano i gruppi della guerriglia.
La fine del conflitto armato è diventato un obiettivo politico dell’attuale governo. Anche se è troppo presto per vedere le conseguenze della cosiddetta “pace totale”, si possono osservare alcune tendenze. Con la legge 2272 è stato affermato un rafforzamento del potere dell’esecutivo, che consente di concordare e portare avanti processi di pace con i gruppi armati e la criminalità organizzata, insieme a maggiori garanzie per il loro adempimento rispetto ai processi precedenti, caratterizzati da inadempienze e dalla scala limitata. Inoltre, si propone di rispettare rigorosamente il processo di pace del 2016, dimostrando l’impegno per il reintegro dei guerriglieri nella società.
Questi cambiamenti economici e sociali salveranno senza dubbio molte vite, ma la pace borghese si basa sull’asservimento del proletariato e sulla sua immolazione nel tempio dello sfruttamento del lavoro salariato. Queste riforme cercano di rimuovere gli ostacoli all’accumulazione di capitale nelle campagne, riducendo gli affitti e incentivando l’aumento della produttività agricola. Tale accumulazione libererà forza lavoro rurale da utilizzare nelle industrie, portando a una riduzione dei salari, aumentando l’offerta della merce forza lavoro rispetto alla domanda. Mantenendo queste riforme sociali all’interno dell’orizzonte della produzione generale di merci, l’accumulazione del capitale ha queste conseguenze. In questo quadro, l’aumento della produzione e della produttività è legato a uno sfruttamento più intensivo del lavoro e ad un utilizzo più “efficiente” del capitale, obiettivo di questa manovra.
Un’altra importante riforma sul tavolo è quella fiscale. Questa mira, tra l’altro, ad aumentare le tasse sul settore minerario ed energetico aumentando le imposte sul reddito, in base ai prezzi dei prodotti sui mercati internazionali. In totale, queste rappresentano fino al 57% delle entrate della riforma, che si propone così di incamerare parte di tutta la rendita di queste terre nelle casse dello Stato. Un altro elemento importante è l’eliminazione delle esenzioni per alcuni settori, come il turismo. Infine, cerca di raccogliere di più dai percettori di redditi elevati attraverso l’aumento delle imposte sui guadagni occasionali, sul patrimonio e sul reddito.
Questi aumenti delle tasse, che mirano al dominio del settore industriale sullo Stato, sono presentati come una risposta alle richieste delle masse nelle strade durante il 2021. Cercano di migliorare la sostenibilità fiscale dello Stato a spese dei proprietari terrieri e delle persone fisiche, senza colpire le società industriali. Per queste si prevede una futura riduzione delle tasse.
Ogni autonomia del movimento operaio è impedita dai suoi dirigenti traditori, che decisero di formare fronti popolari con il presidente, senza alcuna indipendenza di programma, sotto la promessa di riforme “progressiste”, incanalando la rabbia degli operai verso la sconfitta di una frazione della borghesia e il prevalere di un’altra. Invece occorre affrontare entrambi i settori capitalistici.
La classe latifondista affronta Petro in varie forme, la più usata ora è la critica alla svalutazione del peso, che fino a novembre si è rapidamente svalutato rispetto al dollaro, più velocemente di altre monete, come quella messicana. La svalutazione è stata usata dai media tradizionali per colpire l’amministrazione di Petro, attaccando anche le altre misure governative, la riforma agraria, la politica petrolifera, incolpando il governo di generare incertezza tra gli investitori internazionali.
L’attuale svalutazione del peso colombiano ha diverse ragioni. Il rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve statunitense aumenta la pressione al rialzo del dollaro. Il Banco de la República, la banca centrale colombiana, ha aumentato di molto i tassi di interesse, senza tuttavia rallentare la svalutazione. Per spiegare questo fenomeno bisogna considerare anche l’aspettativa di crisi che esiste nei mercati internazionali, a causa della quale gli investitori cercano di vendere le obbligazioni in loro possesso e acquistare obbligazioni più sicure, come quelle in dollari, che restano la valuta di riserva più comune. A ciò si aggiunge la speculazione, con ulteriore pressione degli investitori che si aspettano la cessazione delle esplorazioni petrolifere in Colombia e le spese per l’acquisto di terreni, e che quindi vendono le loro obbligazioni colombiane. Assumendo una posizione contro il declino del peso, si promuove lo sfruttamento del petrolio e si condanna la riforma agraria in un confronto che permette al governo di assumere una posa “popolare” e “progressista”, mentre favorisce lo sfruttamento capitalistico con politiche antioperaie.
In conclusione, l’ascesa al potere di Petro è stata segnata da massicce proteste e dal malcontento dei lavoratori, tuttavia questo è stato incanalato verso politiche che promuovono gli interessi della borghesia industriale, con politiche demagogiche che cercano di mantenere il favore popolare al governo, che tuttavia poggia su un ambiente politico instabile.
Quando il dominio della borghesia industriale sarà assicurato e quello dei settori tradizionali sradicato, questa demagogia non sarà più necessaria e il pugno di ferro dello Stato si mostrerà senza guanti.
Per la classe operaia, l’unica soluzione è il perseguimento di un programma proletario, attraverso un movimento indipendente, per sé stessa, che non confonda i suoi interessi con quelli della borghesia, che si esprimono attraverso politici opportunisti come Petro. Questo obiettivo può essere raggiunto solo sotto la guida del partito comunista e con la ripresa della lotta operaia.
In Brasile, la borghesia e il suo nuovo governo stanno rilanciando gli sforzi per intorpidire e disorientare i lavoratori, al fine di distoglierli dalla lotta di classe, attraverso tre prime messe in scena, ad alto impatto mediatico, che possiamo riassumere come segue: 1°) L’atto di insediamento di Lula come nuovo presidente, 2°) L’assedio degli edifici governativi e l’irruzione al loro interno da parte di migliaia di manifestanti bolsonaristi e 3°) La repressione del bolsonarismo con lo slogan “contro il colpo di Stato e contro il fascismo”.
PRIMA MESSA IN SCENA: L’insediamento di Lula Da Silva come presidente della Repubblica il 1° gennaio ha rotto la tradizione istituzionale; la fascia presidenziale è stata consegnata dai rappresentanti dei popoli indigeni, dei contadini, degli operai e altri. L’evento si è svolto in uno spazio aperto con una massiccia partecipazione di seguaci, trasmettendo il ben noto messaggio demagogico e populista di essere un “governo del popolo e per il popolo”, per velare la vera essenza del governo, che resta l’amministratore degli interessi e degli affari della borghesia. L’idea è quella di vendere l’illusione che i lavoratori vedranno migliorare il loro tenore di vita con il nuovo governo.
SECONDA MESSA IN SCENA: Dopo avere dato vita l’8 gennaio a un raduno di 4.000 sostenitori dell’ex presidente Bolsonaro, questi hanno marciato verso il Palazzo del Planalto, sede del potere esecutivo, del Congresso e del Supremo Tribunale Federale e, di fronte alla debole resistenza della polizia, sono entrati in queste strutture, in quella che è sembrata una copia carbone degli eventi del 6 gennaio 2021 al Campidoglio degli Stati Uniti, inscenati dai seguaci di Donald Trump. Il bolsonarismo ha “calcato la mano” per far capire che ha la “capacità di mobilitare” le masse per opporsi al governo di Lula e per enfatizzare la polarizzazione politica tra “sinistra” e “destra”, tra democrazia e fascismo, cioè per seppellire sotto questa finzione l’unica polarizzazione reale: l’antagonismo e la lotta tra borghesia e proletariato.
TERZA MESSA IN SCENA: la condanna del “terrorismo” e del “fascismo”. Il 9 gennaio, le prime tre cariche dello Stato brasiliano, il presidente Lula, la presidente della Corte Suprema Rosa Weber e il presidente del Congresso hanno firmato una lettera congiunta di condanna, definendoli atti terroristici, e hanno fatto appello a “mantenere la serenità, in difesa della pace e della democrazia”. Il Supremo Tribunale Federale ha ordinato la sospensione del governatore del Distretto Federale di Brasilia, lo sgombero di gruppi di filo-bolsonaristi da tutti gli spazi pubblici (comprese le autostrade) e ha definito i loro assembramenti come “accampamenti terroristici”.
Più di 1.000 manifestanti sostenitori di Bolsonaro sono stati immediatamente arrestati e si parla di un complotto golpista. Con questo atto il nuovo governo: a) ha serrato i ranghi di tutte le istituzioni dello Stato contro i suoi avversari bolsonaristi; b) ha posto le basi per l’appoggio dei diversi partiti riformisti, della cosiddetta “sinistra”, dei sindacati e dei movimenti sociali sotto il ricatto di “non cedere al fascismo”; c) ha posto le basi per la repressione del movimento operaio, potendo reprimere qualsiasi lotta rivendicativa, definendola “terrorista” e “fascista”.
Il braccio di ferro tra il governo e i bolsonaristi permetterà al governo di continuare a tenere i lavoratori lontani dalla lotta di classe, con l’aiuto delle centrali sindacali. C’è da aspettarsi che il nuovo governo inizi il suo mandato in un’atmosfera di relativa pace sociale e che le masse salariate siano fiduciose nelle promesse di miglioramento delle loro condizioni di vita. Il presidente Lula ha incontrato le confederazioni sindacali e ha presentato loro la sua proposta di adeguamento del salario minimo, fissato a 1.302 reais (255 dollari), mentre la proposta della Central Unitaria de Trabajadores (CUT) è di migliorarlo di almeno il 15% e di arrivare a 1.342 reais (263 dollari), e il governo spera di istituire un tavolo di trattativa nazionale che avrà 90 giorni per raggiungere un accordo. Lula ha anche annunciato la riattivazione del pagamento di un buono di acquisto alle famiglie che vivono in povertà.
Resta da vedere quanto a lungo funzioneranno queste manovre politiche degli agenti della borghesia brasiliana.