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Cinquecento migranti il 3 ottobre 2013 partirono dalla Libia a bordo di un peschereccio alla volta dell’isola di Lampedusa, punto più vicino all’Europa dalle coste africane. A mezzo miglio dalla costa diedero fuoco a una coperta per attirare l’attenzione delle squadre di soccorso, ma l’incendio avvolse rapidamente la barca, costringendoli a gettarsi in mare: morirono in 368. Fu definito il peggiore naufragio sulle coste italiane, preso a pretesto dai partiti della borghesia italica, nelle due varianti nazionali di “destra” e di “sinistra”, per rinfacciarsi a vicenda, nei diversi cicli elettorali, la responsabilità di non aver trovato soluzione al “problema dell’immigrazione”.
L’affondamento, il 26 febbraio scorso, a quasi dieci anni di distanza, di una imbarcazione al largo della spiaggia di Steccato di Cutro in Calabria, in cui si contano già 72 morti, fra adulti e bambini, torna a fingere di agitare gli ipocriti animi della politica borghese e ad usare la “questione dell’immigrazione” nella concorrenza politicantesca, solo apparentemente di opposto colore.
Nel 2013 in Italia era al governo la “sinistra”, oggi c’è la “destra”. In quello che a un elettorato, imbonito da decenni di democrazia e di stucchevoli pratiche elettorali, appare come un contesto diverso, in realtà rimane invariato il meccanismo che immola i proletari alle leggi del Profitto.
Destra e sinistra scaricano ogni responsabilità sui falliti accordi tra l’Unione europea e i suoi Stati membri, o se la rifanno con gli “scafisti”, invertendo, perfidi, la causa con l’effetto.
Nel frattempo sui fondali del Mediterraneo negli ultimi dieci anni biancheggiano
le ossa di altri 26.000 disperati.
La “questione migratoria” è strumentalizzata, da una banda per far leva sui più
bassi sentimenti del nazionalismo e del razzismo, dall’altra banda di imbonitori
sull’umanesimo di facciata, finto quanto il primo: fu il Partito Democratico a
negoziare l’accordo con gli schiavisti della Libia per imprigionare e rivendere
uomini e donne. Agenti del Capitale con parole d’ordine diverse ma entrambi in
difesa del profitto.
In realtà al capitale le braccia degli immigrati sono necessarie, in tutta Europa, nelle fabbriche e nei campi, sono la vera e unica ricchezza dei padroni. Per questo la borghesia sistematicamente divide in categorie i proletari, fomenta la guerra tra poveri, per distoglierli dalla lotta di classe. Per questo ogni governo centellina l’accesso alla “salvezza”, dividendo ulteriormente gli immigrati in profughi ed economici. Per questo l’accesso legale degli immigrati viene negato e vengono loro negati i diritti civili: per sfruttarli meglio
L’unica vera soluzione alla tragica fine di quella parte maggioritaria della
umanità che per sopravvivere vende come merce la sua unica proprietà, le proprie
braccia per un lavoro salariato, è quella della fraternizzazione, della unione
con i fratelli di classe di ogni paese, per una lotta che non miri a riformare
il non riformabile e ormai fetido Capitalismo e il suo Stato.
Urge liberare una nuova forma storica, necessaria, nelle condizioni attuali, a
preservare la specie umana: il Comunismo. Solo in una società senza classi,
sgombra dal mercantilismo, ove gli uomini non saranno più merce da sfruttare,
ove le loro relazioni non saranno più regolate dai rapporti di forza fra Stati e
classi, la specie umana troverà la sua piena realizzazione.
Solo una simile umanità potrà risolvere il problema della sana e razionale
distribuzione degli uomini nelle diversi regioni e climi della terra, in un
unico e preveggente piano di sensata ripartizione dell’abitare, del produrre,
del riprodursi, del consumare.
Che il capitalismo conduca alla pace è la più grande menzogna. Da quasi 80 anni esso ha tenuto la guerra lontana da un pugno di paesi imperialisti ma solo dopo avervi provocato 70 milioni di vittime con la prima e la seconda guerra mondiale. In gran parte del mondo invece le guerre non sono mai venute meno: dal Medio Oriente al Corno d’Africa, dallo Yemen al Caucaso, dall’Afghanistan ai Balcani, è stato lo scontro fra gli imperialismi ad aver prodotto una ininterrotta catena di conflitti, morti e distruzioni.
Ora la guerra in Ucraina segna un passo decisivo verso un terzo conflitto imperialista mondiale: è una guerra nel cuore dell’Europa, uno dei maggiori agglomerati capitalistici del mondo, i cui combattimenti avvengono con modalità che non si vedevano da decenni, il cui carattere “per procura” sempre più tende a trasformarsi in scontro diretto fra gli imperialismi.
È già una guerra imperialista su entrambi i fronti: lo è dal lato dell’imperialismo russo come dal lato dell’Ucraina, la cui borghesia, prima pedina di Mosca, lo è diventata di Washington e Londra. Ed è una guerra che si inquadra nella contrapposizione fra l’imperialismo statunitense e quello cinese.
Come tutte le guerre imperialiste a provocarla non è lo Stato aggressore: indicarne la causa nell’invasione russa, o nell’espansionismo della Nato verso Est, significa in entrambi i casi fermarsi alla superficie del problema. Lo stesso bisogna avere il coraggio di affermare per la prima come per la seconda guerra mondiale. Tutti i paesi imperialisti mai cessano di ordire trame e azioni a danno degli avversari, ai fini della tutela degli interessi capitalistici. Gli accordi internazionali sono frutti temporanei della diplomazia fra Stati borghesi, per la sopraffazione, non la pace, che è impossibile nel capitalismo, sia esso a egemonia statunitense, cinese, o “multipolare”.
Responsabile della guerra imperialista è il capitalismo nella sua interezza: tutti gli Stati borghesi coltivano le loro direttive di espansione, i loro “giardini di casa”, proporzionalmente alla potenza economica. L’imperialismo straccione italiano da sempre affonda le grinfie nel Mediterraneo, nel Nord Africa, nei Balcani; la Russia nell’Asia centrale, in Medio Oriente, in Africa; la Cina e gli Stati Uniti si contendono l’egemonia mondiale.
Tutti gli Stati borghesi sono aggressori e aggrediti allo stesso tempo. E sono tutti aggrediti dalla crisi dell’economia capitalistica mondiale: è l’aggravarsi ineluttabile della crisi di sovrapproduzione a esacerbare lo scontro fra gli Stati borghesi per la tutela – sempre più impossibile – degli interessi capitalistici.
La guerra imperialista è la soluzione del capitalismo alla crisi di sovrapproduzione: con le immani distruzioni di città, infrastrutture e fabbriche elimina le merci in eccesso – fra cui la forza-lavoro – permettendo un nuovo folle ciclo di accumulazione del capitale. Fu la seconda guerra mondiale, con i suoi 50 milioni di vittime, a far uscire il capitalismo mondiale dalla crisi economica in cui affondava negli anni ‘30 del Novecento, non le politiche economiche di interventismo statale in economia – cosiddette keynesiane – allora praticate tanto dai regimi borghesi democratici quanto da quelli nazi-fascisti, e ancora oggi invocate dai partiti opportunisti della cosiddetta sinistra radicale.
Ciò che minaccia mortalmente tutti gli Stati borghesi è la rivolta delle masse proletarie che le inevitabili bancarotte di industrie, banche e Stati provocheranno, è la lotta di centinaia di milioni di schiavi salariati che il capitalismo impoverisce ogni giorno di più. La pace, per un capitalismo in piena decadenza, condannato al collasso economico, significa attendere inerme d’essere aggredito dalla lotta della classe sfruttata, oppressa e affamata.
Il capitalismo non può sopravvivere alla pace! Deve aggredire il proletariato internazionale con la guerra: sottoporlo ai bombardamenti terroristici sulle città, trascinarlo al massacro fratricida sui fronti! Non sono perciò gli “uomini di buona volontà” a poter impedire o fermare la guerra imperialista, secondo la predica pelosa e consolatoria della Chiesa e come infatti non è mai stato. Né tantomeno la diplomazia degli aguzzini che la provocano, cioè gli Stati borghesi.
L’esperienza storica del movimento operaio – della Comune di Parigi (1871), della Rivoluzione d’Ottobre (1917), del tentativo rivoluzionario in Germania (1919) – mostra come sia la classe lavoratrice, con la lotta per le sue condizioni di vita e per la sua fraterna unità internazionale, a poter impedire o fermare la guerra: è il disfattismo proletario sul fronte interno, con gli scioperi e la rivolta dei soldati!
Per arrivare a questa mèta occorre innanzitutto ricostruire il movimento di lotta sindacale per i bisogni immediati, elementari, economici dei lavoratori: per forti aumenti salariali, maggiori per le categorie e qualifiche peggio pagate; per la riduzione generalizzata e a parità di salario dell’orario di lavoro; per il salario pieno ai lavoratori disoccupati!
A tale scopo è necessaria l’unità d’azione di tutto il sindacalismo conflittuale – dei sindacati di base, e di questi con le aree conflittuali entro la Cgil e coi lavoratori combattivi ancora inquadrati in essa e negli altri sindacati collaborazionisti – per liberare la classe lavoratrice dal controllo dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil), contrapponendo alla loro unità sindacale tricolore un fronte unico sindacale di classe.
La lotta per i bisogni immediati dei lavoratori è intrinsecamente disfattista perché rompe la pace sociale, rigetta i sacrifici che il regime borghese vuole imporre loro, prima in pace poi in guerra, in nome del “bene del paese”, che altro non è né può essere che il bene del capitalismo.
Ma oltre al sindacato di classe, ai proletari occorre il partito autenticamente comunista, il quale dica loro chiaramente:
- che, come già fu nella prima e nella seconda guerra mondiale, anche oggi tanto l’autodeterminazione dei popoli quanto l’antifascismo e la difesa della democrazia non sono altro che alibi, con cui i regimi borghesi giustificano il massacro di centinaia di migliaia di vite proletarie perpetrato per interessi meramente capitalistici;
- che oggi i lavoratori in tutto il mondo non hanno nessuna patria da difendere né da conquistare ma solo da lottare, uniti al di sopra dei confini nazionali, per difendere le loro condizioni di vita, per conquistare il potere politico, per spezzare gli Stati nazionali borghesi con l’instaurazione di una Repubblica internazionale dei lavoratori;
- che le lotte contro l’oppressione nazionale, progressive in passato, oggi non possono che divenire strumento della guerra fra gli imperialismi;
- che la classe lavoratrice deve rigettare la difesa della patria e lavorare per la sconfitta del proprio regime borghese in guerra perché questa crea la condizione più favorevole al suo rovesciamento rivoluzionario, come la storia insegna;
- che in caso di occupazione militare i lavoratori non devono lottare per scacciare l’ “invasore” ma per fraternizzare coi soldati-proletari dell’esercito occupante, per fomentare anche fra di essi la ribellione alla guerra imperialista e la rivoluzione sociale;
- che bisogna opporsi con lo sciopero generale a oltranza all’ingresso in guerra voluto dal proprio Stato borghese;
-
che laddove il movimento operaio non riesca a impedirla, esso lavora
per la trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione,
rompendo il fronte interno con gli scioperi e fraternizzando coi
soldati-lavoratori dell’esercito “nemico”.
– Alla
guerra imperialista va opposta la guerra di classe, la Rivoluzione!
– Per
l’unità internazionale dei lavoratori di tutti i paese!
– Per
un Fronte Unico Sindacale di Classe!
– Guerra
alla guerra!
L’oppressione delle donne
è una realtà in tutti i Paesi, anche dei più democratici e moderni, non solo
degli arretrati.
Dagli Stati Uniti, all’Europa, dall’Iran all’Afghanistan, dall’Africa
all’America Latina, le donne proletarie pagano le contraddizioni di questa
società dominata dai rapporti di produzione capitalistici: peggiori paghe,
negazione del diritto all’istruzione, all’aborto, violenze.
Donne, lavoratrici,
compagne!
In questo mondo dilaniato dalla miseria, dalle guerre, dagli esodi di masse disperate che fuggono i conflitti e le carestie, in cui gran parte del proletariato consuma i suoi giorni in lavori usuranti e alienanti, la condizione delle donne è sempre più dura. La donna è colei alla quale si chiede di lavorare molte ore nelle fabbriche e negli uffici, dove spesso svolge lavori pesanti per salari da fame, ed è lei che deve fare i conti con i pochi soldi per sfamare la famiglia.
Questo mondo desolato dall’economia demente del capitale non vi assicura una casa dignitosa, non vi promette di salvare i vostri uomini costretti a combattere le guerre infami per arricchire la borghesia assassina, come specula sulle sofferenze dei profughi per ottenere lavoro a basso prezzo. Nemmeno può lenire la durezza della vostra vita divisa tra un lavoro spesso pesante e la cura dei figli e della famiglia.
Questa società non può offrire alcun reale miglioramento delle vostre condizioni di vita e di lavoro. Il regime ignobile del capitale vi priva di quanto gioioso e sublime la vita potrebbe offrire agli esseri umani. Sanno offrirvi solo la parodia della vostra emancipazione, che suona come una beffa per le proletarie.
Donne, lavoratrici, compagne!
Non cadete nell’illusione del femminismo borghese: senza la distruzione degli attuali rapporti di proprietà non è possibile alcuna vera liberazione della donna. Finché esisterà la dominazione del capitale, del lavoro salariato, il reale e pieno affrancamento della donna non sarà mai possibile.
L’oppressione sulle donne verrà meno solo nella società senza classi e senza Stato politico, nel comunismo. Qualsiasi riforma all’interno della società mercantile non può portare alla vostra liberazione in quanto donne.
I diritti strappati allo Stato borghese, al voto, al divorzio, all’aborto, nell’ambito del regime del capitale sono costantemente rimessi in discussione e non eliminano le cause profonde dell’asservimento della donna, nella famiglia e nella società. Arrivano solo a un’uguaglianza formale e giuridica, non effettiva e organica. Anzi è nella parità civile che si mostra evidente la sottomissione sociale di genere.
La liberazione della donna non passa, come sostiene il femminismo borghese, dalla opposizione del “popolo femminile” contro il “popolo maschile”, nel rispetto comunque della conservazione della società presente. Le rivendicazioni delle lavoratrici si aggiungono a quelle della propria classe di salariati, in una comune lotta di classe contro l’intera società borghese. Solo sotto questa bandiera si può collocare la questione femminile e si possono affermare le rivendicazioni specifiche delle donne lavoratrici.
L’esaltazione
della donna in quanto donna, così come del maschio in quanto tale, sono
incompatibili con la loro forma di merce forza lavoro, alla quale li ha ridotti
entrambi la società del capitale.
Per rivendicazioni immediate con lo scopo di ridurre le sofferenze contingenti
si mobilitino proletari e proletarie, inizialmente in difesa dallo sfruttamento
capitalistico, per passare domani all’attacco e all’abbattimento dello Stato
borghese, baluardo della oppressione della classe salariata di entrambi i sessi,
scagliando le rivendicazioni femminili contro il potere e la società del
capitale!
Donne, lavoratrici, compagne!
In questo particolare momento della
storia,
- in cui l’attacco dello Stato borghese agli effimeri diritti conquistati dai
lavoratori con dure battaglie si è esacerbato con l’inevitabile succedersi delle
crisi economiche del capitalismo;
- in cui le “pacifiche” borghesie nazionali tentano di
impedire, soffocare o
deviare aneliti di lotta di classe, che si riaffacciano, seppur ancora deboli,
sospinti dall’ulteriore degradarsi della condizione dei lavoratori;
- in cui miseria e guerre costringono masse sempre più ingenti a fuggire da una
parte all’altra del mondo, che “globale” è solo per gli affari degli
imperialismi;
- in cui ancora una volta il capitalismo fa sprofondare la classe operaia nella
sua guerra per preservare la propria esistenza,
la lotta di classe necessita delle donne, che possono dare
quel di sé che arricchisce e completa il fronte della lotta e della sua determinazione! La
vostra presenza è indispensabile, dalla vostra doppia condizione materiale di
oppressione sociale, sia nella lotta difensiva sia in quella per il comunismo.
Come già affermò Lenin, senza la partecipazione dell’elemento femminile il proletariato difficilmente riuscirà a compiere la sua vittoriosa rivoluzione! Senza la lotta delle donne la società e le nostre vite non possono cambiare. Ogni moto proletario senza il protagonismo delle donne è più debole e condannato alla sconfitta.
Il mondo aspetta che le donne proletarie chiedano il conto delle loro vite
umiliate, degradate, spezzate. La nostra specie ha bisogno che la donna
proletaria intraprenda con fierezza e coraggio la strada della lotta che la
porterà verso un futuro diverso, in cui possa perseguire la sua piena e gioiosa
realizzazione come essere umano.
Nel Belpaese, ogni volta che lo schieramento politico della sinistra del capitale perde le elezioni, sia ha subito un gran vociare per il paventato avvento del fascismo al potere.
Questa tediosa commedia si ripete con una certa regolarità ed è del tutto funzionale alla conservazione borghese.
Era già successo ai tempi della “discesa in campo” del Cavaliere nazionale, nonché padrone di emittenti televisive. Costui aveva avuto il demerito (o il merito per qualcuno!) di avere propiziato il rientro nell’agone politico dei rimasugli del fascismo vero, quello di Mussolini, rimasti senz’altro ai margini dell’area governativa per alcuni decenni, ma che pure non avevano mai smesso di ricoprire posti di un certo rilievo nella compagine statale con una particolare predilezione per la magistratura, le forze armate, i servizi segreti e l’alta burocrazia.
Questa componente politica aveva fornito una rappresentanza a una frazione della borghesia imprenditoriale, compresa quella che mostrava una certa intraprendenza nel mischiare i propri affari a quelli del cosiddetto crimine organizzato che tanto peso ha avuto e ha nella vita economica della loro nazione.
Inoltre questa nicchia di ceto politico fascista, neofascista o postfascista che dir si voglia, era sopravvissuto attraverso quasi mezzo secolo anche grazie all’interessato appoggio ricevuto da oltre Atlantico sin dai tempi della guerra fredda. I vecchi nemici di ieri, americani e repubblichini, avevano deciso poi di stringere una stretta alleanza per contrastare le lotte operaie degli anni ‘60. Fu la stagione della “strategia della tensione” che tanta importanza ebbe negli sviluppi degli assetti di potere interni alla classe dominante italiana.
Lo sdoganamento, allora si chiamò così, operato da Berlusconi nei confronti della destra “postfascista” che portò quest’ultima al governo nel 1994, non fece altro che rendere evidente quello che aveva caratterizzato i primi 48 anni di storia repubblicana: i fascisti erano riusciti a sopravvivere all’ombra del predominio politico democristiano nonostante fossero stati dalla parte degli sconfitti nella seconda guerra mondiale.
Questo apparente paradosso può stupire i politologi di formazione liberale o gramsciana (povero il nostro Gramsci, una volta morto a quali fini loschi hanno piegato la sua confusione teorica!), ma non sorprende affatto la nostra corrente che ha sempre visto nella vittoria del fronte antifascista nella seconda guerra mondiale la vittoria e l’affermazione definitiva del fascismo come metodo si assoggettamento della classe lavoratrice al capitale per mezzo della sovrastruttura statale corporativa.
Per la Sinistra fu dunque sempre fascista anche la Repubblica fondata sulla Resistenza, con il suo occhiuto dispositivo poliziesco, con la disoccupazione di massa, gli operai e i braccianti costretti a vivere di espedienti, le sue galere colme, le sue stragi di scioperanti.
Ma soprattutto a caratterizzare questo stadio eminentemente democratico del fascismo è stato l’assoggettamento dei sindacati dei lavoratori allo Stato di classe capitalista. Un fatto questo che completò quel lavoro di distruzione del movimento operaio che oltre un secolo fa lo squadrismo fascista aveva inaugurato per mezzo della violenza nei confronti dei lavoratori. Con la Repubblica furono gli opportunisti dei falsi partiti operai, quello socialista e quello nazionalcomunista denominato PCI, a svolgere una funzione di essenziale appoggio all’opera di deprivare la classe proletaria di ogni elemento di indipendenza.
Arrivando alle vicende recenti guardiamo all’affermazione e presa della guida del governo da parte della leader più a destra dell’arco parlamentare italiano, alla quale non hanno nociuto le bravate giovanili, aspetti accessori e di nicchia dell’attuale bestia trionfante del fascismo politico, onnipresente nella vita politica e sociale italiana.
Non a caso il cambio di governo non appare così traumatico rispetto ai dicasteri
che lo hanno preceduto. L’elemento di continuità non è obnubilato da certi
dettagli su cui si è suscitato tanto clamore.
La parziale cancellazione del “reddito di cittadinanza” non può essere
considerato un elemento di discontinuità se è tipico dei governi di ogni colore,
anche se con una netta prevalenza della “sinistra”, togliere ai lavoratori quel
poco che in precedenza si era elargito allo scopo di mantenere la pace sociale.
La baruffa fra studenti davanti a un liceo di Firenze ha suscitato un’ondata di proteste. Una preside ha scritto una lettera sull’accaduto colma di invocazioni ai valori della democrazia e dell’antifascismo, ne è seguito un intervento del ministro della “Istruzione e del Merito”, quello che ha spiegato la caduta dell’Impero romano per l’afflusso di migranti, dai toni indisponenti ad agitare gli animi. Un vento di polemiche, verbali, ha attraversato media e social media e sono sfociate in una nutrita manifestazione fiorentina sotto il trito slogan “siamo tutti antifascisti” accomunante tutte le sfumature sinistrorse con molti rappresentanti delle istituzioni.
Nel frattempo una parrocchia politica ha un nuovo segretario designato da elezioni primarie. Ella è il non plus ultra della modernità e del perbenismo progressista borghese, di ampie vedute, liberal, all’americana.
Una delle sue prime uscite è stato un duello parlamentare con la premier Giorgia Meloni sul tema del salario minimo (il Pd cioè “riscopre” i lavoratori dopo averli massacrati col Jobs Act). Per la nuova leader del PD lo “sfruttamento” sarebbe quella condizione che interviene quando un lavoratore non riceve un salario adeguato. Il diavolo alle volte è nei dettagli, questa volta in una grossolana mistificazione. Per il socialismo scientifico, che evidentemente la Schlein ignora che esista, lo sfruttamento corrisponde all’estorsione del plusvalore e nel capitalismo non può esistere un salario che eviti al proletario di essere sfruttato. Quale imprenditore assumerebbe mai un operaio se nel processo produttivo non fosse possibile estorcergli plusvalore?
Per eliminare lo “sfruttamento” è necessario abolire il lavoro a salario. Per
questo rifiutiamo insieme col fascismo la ancora più insidiosa trappola
dell’antifascismo. Il futuro dei proletari è soltanto nel rovesciamento del
regime del capitale, giunto ormai ovunque alla fase imperialista e fascista,
soprattutto quando viene benedetto dai sacerdoti della democrazia.
PAGINA 2
La guerra in Ucraina si determina in una fase di rottura degli equilibri
mondiali basati sul dominio degli Stati Uniti. Il capitalismo si caratterizza
per uno sviluppo non uniforme con un incessante mutamento della potenza
economica e militare degli Stati che si spartiscono il mercato mondiale.
Periodicamente si rende improcrastinabile una nuova definizione delle sfere
d’influenza che porta allo scontro diretto tra gli imperialismi. Stati Uniti e
Cina sono i poli dell’attuale contesa dove il vecchio brigante si difende
dall’ascesa del giovane. In questo quadro si inserisce anche l’atteggiamento
dell’imperialismo cinese rispetto alla guerra in Ucraina.......
La posizione cinese
I falsi comunisti al potere in Cina vorrebbero che l’ascesa del proprio capitalismo nazionale potesse procedere indisturbata. La sua proiezione mondiale è rappresentata dalle Nuove Vie della Seta, imponenti infrastrutture per collegare la Cina al resto dell’Asia, all’Europa, all’Africa, consentendo una accresciuta esportazione di merci e capitali.
La guerra in Ucraina viene oggi a bloccare uno snodo fondamentale della Via della Seta, oltre che a turbare le relazioni commerciali tra i paesi coinvolti. Quindi la Cina ha fin dall’inizio delle ostilità evitato di schierarsi a fianco della Russia, anche per non subire possibili sanzioni economiche da parte dei paesi occidentali. La guerra ostacola l’espansione del capitalismo cinese, per altro oggi in affanno rispetto alla strepitosa crescita degli anni passati, e di fronte alla nuova diffusione del Covid.
A un anno dall’inizio della guerra un intervento della diplomazia cinese propone la cessazione delle ostilità e l’apertura di colloqui di pace. Dal 20 al 22 marzo Xi Jinping sarà in Russia. Se una mediazione del genere avesse successo sarebbe apprezzata da quei paesi che, per difendere i propri interessi nazionali, aspirano a una maggiore autonomia dagli Stati Uniti.
L’aspirazione della Cina a un accresciuto ruolo diplomatico ha già ottenuto un grande successo col riavvicinamento tra l’Iran e l’Arabia Saudita, patrocinato da Pechino, che diventa così un credibile interlocutore di Russia e Ucraina.
Gli Stati Uniti appaiono invece interessati alla continuazione del conflitto. Il documento cinese è stato con sprezzo silurato dagli Stati Uniti e dai loro alleati, che alla vigilia della sua presentazione hanno accusato Pechino di vendere armi alla Russia.
L’atteggiamento “pacifista” della Cina si pone anche l’obiettivo di fare un passo verso l’Europa, allineata ai dettami di Washington e che continua a sostenere militarmente Kiev, benché subisca le conseguenze economiche del conflitto in corso. La Cina potrebbe trovare una sponda in alcuni paesi europei interessati a un cessate il fuoco in Ucraina.
In una recente conferenza stampa il ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha caratterizzato la natura del rapporto fra Cina ed Europa nel non essere soggiogato o controllato da “terzi”, una libera scelta di relazioni tra Cina ed Europa solo fra le due parti, basata sui rispettivi interessi strategici. Indipendentemente da come la situazione possa evolversi, la Cina vede sempre l’UE come un partner strategico globale e sostiene l’integrazione europea: «Speriamo che l’Europa, tenendo presente la dolorosa crisi ucraina, realizzi veramente l’autonomia strategica e la pace e la stabilità a lungo termine». Una posizione quella cinese che prova ad incunearsi tra i contrasti di interessi tra le due sponde dell’Atlantico.
Con la Russia
Benché la guerra in Ucraina rappresenti un problema per il capitalismo cinese, Pechino finora non ha né condannato l’invasione russa, né ha aderito alle sanzioni economiche imposte contro la Russia. Ha però offerto a Mosca di compensare la diminuzione delle vendite dei prodotti energetici verso l’Europa, bloccati dalle sanzioni, comprando gas e petrolio russi, a prezzi scontati. La guerra in Ucraina ha permesso di sviluppare le relazioni commerciali tra i due paesi. Gli scambi commerciali tra Cina e Russia nel 2022 hanno raggiunto i 190 miliardi di dollari, con un incremento del 34% sul 2021, avvicinandosi all’obiettivo fissato per il 2024 di 200 miliardi di interscambio, ma che ora le due parti contano di raggiungere anticipatamente. In questo senso si può dire che la Cina ha sostenuto nei fatti la campagna militare russa.
Ma il legame tra l’imperialismo cinese e quello russo va oltre la sfera economica. La Russia, mentre militarmente è quasi del tutto schierata sul fronte europeo, ad oriente ha una buona relazione di vicinato con la Cina, con la quale svolge esercitazioni militari congiunte in Estremo Oriente. A febbraio c’è stata una esercitazione navale congiunta tra Russia, Cina e Sudafrica al largo delle coste sudafricane dell’Oceano Indiano.
La diplomazia cinese e russa parlano di sviluppare il “multilateralismo”, in opposizione ad ogni forma di “prepotenza unilaterale”, con l’obiettivo di promuovere “la democratizzazione delle relazioni internazionali e la multipolarizzazione del mondo”. Cina e Russia sfidando l’ordine mondiale degli Stati Uniti. Anche se non è affatto detto che Mosca e Pechino, al di là della convergenza attuale, saranno per sempre amici.
Contro gli Stati Uniti
Lo stesso documento non è riferito solo alla crisi ucraina ma va oltre. Il primo punto, “rispettare la sovranità di tutti i Paesi”, che sembrerebbe andare incontro ai desideri ucraini di recuperare l’integrità territoriale, in realtà può essere inteso come una perentoria rivendicazione cinese su Taiwan, parte della Repubblica Popolare, da non mettere in discussione dagli altri Stati, tanto meno dagli USA. Nel secondo punto il documento parla di “abbandonare la mentalità della guerra fredda”, accusa chiaramente rivolta contro gli Stati Uniti, sia riferita all’attuale politica americana verso la Russia ma anche e soprattutto verso la Cina.
Quando si dice che “la sicurezza di una regione non dovrebbe essere raggiunta rafforzando o espandendo i blocchi militari”, ci si accosta alla posizione russa, condivisa dalla Cina circa la responsabilità occidentale con l’allargamento della NATO ai confini con la Russia. Nello stesso tempo il ragionamento si estende al tentativo americano di creare un blocco militare asiatico contro la Cina, una sorta di NATO asiatica anti-cinese, come auspicano gli americani con il coinvolgimento di India, Giappone e Australia e della recente alleanza Aukus, che riunisce le tre potenze anglosassoni, Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, in funzione anticinese.
Che il documento cinese sia rivolto anche agli Stati Uniti lo si ricava dal confronto con un altro, leggibile sul sito del Ministero degli esteri cinese, “L’egemonia degli Stati Uniti e i suoi pericoli”, che porta la recente data del 20 febbraio. Esplicitamente vi si condannano gli Stati Uniti: «Da quando sono diventati il paese più potente del mondo dopo le due guerre mondiali e la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno agito audacemente per interferire negli affari interni di altri paesi, perseguire, mantenere e abusare dell’egemonia, promuovere la sovversione e l’infiltrazione e condurre volontariamente guerre, recando danno alla comunità internazionale».
Gli Stati Uniti sono esplicitamente accusati di aver preparato “rivoluzioni colorate” e fomentato controversie regionali, di avere dato inizio a guerre con il pretesto di promuovere la democrazia, la libertà e i diritti umani. Gli Usa «hanno rovesciato i governi democraticamente eletti in molti paesi in via di sviluppo nel 20° secolo e li hanno immediatamente sostituiti con regimi fantoccio filoamericani. Oggi, in Ucraina, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Pakistan e Yemen, gli Stati Uniti stanno ripetendo le loro vecchie tattiche di guerra per procura, a bassa intensità e con i droni». Sono inoltre accusati di utilizzare «la mentalità della Guerra Fredda», di adottare «un approccio selettivo al diritto e alle regole internazionali, utilizzandole o scartandole a piacimento» e di imporre sanzioni unilaterali agli altri Paesi, questioni queste ribadite nel documento sulla guerra in Ucraina.
È evidente che i toni tra le due potenze si sono inaspriti. Il Ministro degli esteri cinese ha affermato: «Se gli Stati Uniti non freneranno ma continueranno ad accelerare nella direzione sbagliata nessun sistema di sicurezza potrà scongiurare un deragliamento e avremo sicuramente uno scontro». Queste insolite affermazioni, considerati i toni sempre ponderati dei massimi vertici cinesi, rappresentano bene il deteriorarsi dei rapporti col nemico americano.
Come in Ucraina, anche in Oriente è in preparazione un macello in cui tutti gli
Stati imperialisti sono pronti a sacrificare i propri proletari per una
spartizione a loro più favorevole, che, se non prevarrà la rivoluzione di classe
internazionale, lascerà intatto il putrescente ordine borghese.
Il 7 e l’8 marzo in Georgia si sono avute delle proteste di massa. Sono state causate dalla cosiddetta “legge russa”.
L’anno scorso, alcuni parlamentari del partito al governo l’hanno abbandonato per fondare un nuovo movimento, “Potere al Popolo”. Si proponeva come un partito “indipendente” a sostegno dello status quo. È questo movimento che ha presentato la nuova legge sugli “agenti stranieri”. Questa in sostanza prevede che le ONG e i media che ricevono più del 20% dei finanziamenti dall’estero siano considerati agenti stranieri e potranno ricevere multe fino a 25.000 Gel.
La presentazione di questa legge è da collegarsi alla politica generale del governo georgiano in relazione alla guerra russo-ucraina. Dall’inizio della guerra il partito al governo, “Sogno Georgiano”, si è presentato come neutrale, che si preoccupa solo dei cittadini georgiani e cerca di evitare qualsiasi conflitto con la Russia. I funzionari del governo hanno persino iniziato ad accusare l’opposizione politica (è un’altra banda, sebbene diversa), l’ambasciata statunitense e altri gruppi di opposizione o ONG per le loro intenzioni di trascinare il Paese in guerra e di volere aprire qui per la Russia un “secondo fronte”. È facile quindi capire quali siano i “promotori” della nuova legge.
Ma le cose sono ancora molto più losche e complesse. Quello al governo non si presenta affatto come un partito politico tradizionale, fatto di carrieristi e politicanti più o meno convinti di quello che fanno. L’intero partito è di proprietà di un certo Bidzina Ivanishvili che, come altri milionari georgiani, ha accumulato grandi ricchezze in Russia e ha vinto le elezioni georgiane nel 2012. Dopo questa “prima vittoria democratica” nel paese, Bidzina l’ha utilizzato per i suoi interessi personali, mentre l’opposizione (guidata per lo più dal precedente partito al potere e da ex membri di quel partito) sta cercando di tornare al governo solo con nomi, fogge e parole diverse.
Ma poca importanza hanno le guerricciole tra i queste bande borghesi.
Il partito al governo ha presentato due versioni della legge, una simile alla legge russa sullo stesso argomento e l’altra più simile alla versione americana, il “Foreign Agents Registration Act”. Per noi è di scarsa importanza quale somiglianza abbia la legge che si propone. Anche se fosse passata la versione americana al posto di quella russa la gente continuerebbe a etichettarla come russa, perché, secondo loro, soffoca il futuro europeo e democratico del Paese. E in un certo senso si può dire che è vero.
Se qualcuno ripercorre le lotte popolari che hanno avuto luogo negli ultimi 30 anni, che si tratti degli anni ‘90, del 2007, del 2011 o di quelle avvenute sotto l’attuale governo, si vedrà che, nonostante le apparenti differenze nelle cause e negli obiettivi di queste lotte, la somiglianza cruciale sta nel fatto che tutte sono unite dal democratismo antiautoritario. Anche in questo caso il sentimento principale delle proteste e degli scontri con la polizia e le squadre SWAT è l’idea di lottare contro il regime poliziesco, ed è proprio per questo che la gente segue l’opposizione nel definire la nuova legge “russa”. Non è perché i politici di opposizione abbiano ancora un grande sostegno tra i giovani, ma è il fatto che lo Stato russo e la sua significativa pratica repressiva fanno sì che questo popolo combatta contro la “legge russa” a favore del potenziale, ma in realtà illusorio, futuro europeo.
Noi, marxisti e materialisti, quando si tratta di un periodo di disordini sociali cerchiamo contraddizioni che sono molto più fondamentali dei drammi tra i partiti borghesi e gli interessi imperialisti.
Anche in Georgia la povertà sta aumentando senza sosta e stiamo assistendo alla reazione di protesta di piccoli segmenti della classe operaia. Prima lo sciopero dei corrieri Wolt, che perdura parziale già da un mese, poi lo sciopero dei lavoratori della fabbrica Sairme, che non si è ancora concluso dopo quasi 30 giorni. Vediamo ogni settimana e ogni mese inquilini sfrattati dalle banche. Vediamo persone crollare sul posto di lavoro e sacrificare tutte le proprie energie e la propria vita per guadagnare il minimo sindacale per sopravvivere e sfamare le famiglie. Vediamo gli operatori sanitari lavorare senza stipendio per mesi. Di questi problemi che nessun media, nessun politico e nessuna ONG si preoccupa.
La prima e fondamentale mancanza delle lotte di massa georgiane non è solo il fatto che il popolo stia sacrificando la propria vita contro una potenza imperialista a favore di un’altra, ma anche il fatto che queste lotte sono vuote di contenuto sociale. Cosa vuole chi si arrabbia e lancia oggetti contro la polizia? L’assistenza sanitaria europea? Leggi europee sul lavoro? Salari europei? Nessuno dà queste risposte.
Dopo due giorni di scontri tra cittadini e polizia, il partito al governo Sogno Georgiano e il movimento civile Potere al Popolo hanno deciso di ritirare la legge sugli agenti stranieri. In termini legislativi questo non è possibile: deve essere ripresentata e i 78 deputati del partito al governo che hanno votato a favore la devono respingere, altrimenti la legge resterà in vigore. Forse un tatticismo. Ma se consideriamo che si sta preparando un’altra nuova legge che renderà possibile l’arruolamento di qualsiasi giovane nell’esercito quasi senza eccezioni, possiamo anche pensare che questa contro le ONG abbia avuto solo una funzione di distrazione.
In ogni caso, ciò che ci deve preoccupare di più è come trasformare queste
proteste in qualcosa di più grande e reale, con richieste di natura sociale. Ma,
se vogliamo essere onesti, per ora è una possibilità di un futuro non certo
immediato.
Qui come altrove, non inventiamo nulla di nuovo. In generale, la funzione di tutti i periodici del Partito in ogni lingua si basa sulla seguente prospettiva indicata da Lenin in “Da che cosa cominciare?”, del 1901: «Un giornale non ha solo la funzione di diffondere idee, di educare politicamente e di conquistare sostenitori politici. Il giornale non è solo un propagandista e un agitatore collettivo, ma anche un organizzatore collettivo. Sotto questo ultimo aspetto lo si può paragonare alle impalcature che rivestono un edificio in costruzione ma ne lasciano indovinare la sagoma, facilitano i contatti tra i costruttori, li aiutano a suddividersi il lavoro e a rendersi conto dei risultati generali ottenuti con il lavoro organizzato. Attraverso il giornale e con il giornale si formerà un’organizzazione stabile, che si occuperà non soltanto del lavoro locale, ma anche del lavoro generale sistematico, che insegnerà ai suoi membri a seguire attentamente gli avvenimenti politici, a valutarne l’importanza e l’influenza sui diversi strati della popolazione, a elaborare quei metodi che permettono al partito rivoluzionario di esercitare la sua influenza su quegli avvenimenti».
Essendo una pubblicazione in lingua turca, il Komünist Parti sarà naturalmente orientato agli eventi politici, in particolare per quanto attiene alla lotta di classe, in Turchia, un Paese di notevole importanza soprattutto per il Medio Oriente e il Nord Africa. Ma prevediamo che Komünist Parti possa divenire uno strumento organizzativo del nostro partito anche in tutte le parti del mondo ove si impieghi la lingua turca, dall’Europa alla Mesopotamia, dal Caucaso all’Asia centrale e all’Africa.
Naturalmente, non ci aspettiamo di raggiungere questo obiettivo apparentemente ambizioso in un solo giorno, ma attraverso un lavoro assiduo e protratto nel tempo. Di conseguenza, Komünist Parti si propone di includere resoconti e analisi di eventi politici provenienti dalle ampie aree geografiche in cui risiedono turcofoni.
Consideriamo Komünist Parti la prima pubblicazione autenticamente comunista in lingua turca dopo Taarruz (“Assalto”), pubblicato dalla sinistra del Partito Comunista di Turchia nel 1924, una componente dell’Internazionale Comunista.
Sebbene l’ala sinistra dell’Internazionale Comunista, soprattutto sotto la guida di Lenin, abbia dominato i lavori e le tesi dei suoi primi due congressi, in seguito influenze opportuniste cominciarono a infiltrarsi nell’Internazionale fino alla enunciazione del “socialismo in un solo Paese” in Russia e alla trasformazione dell’Internazionale Comunista in uno strumento di uno Stato nazionale. La controrivoluzione a scala mondiale, con il contributo dei degenerati partiti stalinisti, sconfisse l’ondata rivoluzionaria. La sinistra, pesantemente repressa dalla controrivoluzione, si ridusse a piccoli gruppi in alcuni Paesi. L’opposizione, guidata da Trotzki, inizialmente reagì con forza alla controrivoluzione stalinista, ma presto capitolò all’opportunismo. Solo l’ala sinistra del Partito Comunista d’Italia riuscì a mantenere viva la fiamma della vera dottrina comunista e a trarre i giusti insegnamenti dalla controrivoluzione. Sulla base di questi sforzi, nel 1952 fu fondato il Partito Comunista Internazionale.
Pertanto il compito specifico più rilevante di questa nostra nuova pubblicazione
è quello di favorire la restaurazione del comunismo autentico anche in lingua
turca. Per questo siamo orgogliosi di iniziare questa nostra impresa.
Benché nelle elezioni parlamentari si traccino vistose linee di demarcazione tra coloro che pretendono di difendere gli interessi della classe operaia, è un dato di fatto che i parlamenti escono, come afferma Lenin, «da elezioni periodiche per determinare quali membri della classe dominante rappresenteranno e calpesteranno il popolo. In qualsiasi Paese parlamentare, dall’America alla Svizzera, dalla Francia all’Inghilterra e alla Norvegia, ecc. gli “affari di Stato” si risolvono sempre dal punto di vista delle lobby; essi sono sempre condotti da dipartimenti governativi, ministeri, commissioni, mentre nei parlamenti non si fa altro che chiacchierare, con l’unico scopo di ingannare il “popolo credulone”». Perciò discutere ancora sull’opportunità che i comunisti partecipino ai parlamenti, come hanno fatto cento anni fa, è piuttosto peregrino per i proletari coscienti.
Coloro che parlano costantemente di unità della classe operaia non sono stati in grado di addivenire a una visione chiara e univoca su questo tema, nonostante 150 anni di esperienza parlamentare. Come scrisse Rosa Luxemburg, «l’ingresso di un socialista in un governo borghese non è, come si pensa, una conquista parziale dello Stato borghese da parte dei socialisti, ma una conquista parziale del partito socialista da parte dello Stato borghese». Purtroppo, da questo punto di vista siamo ancora più indietro rispetto a più di un secolo fa.
Dalla Rivoluzione d’Ottobre, migliaia di elezioni si sono svolte in centinaia di Paesi. Intanto la classe operaia si è organizzata e ha lottato e, dopo aver resistito pagando prezzi altissimi, in molti Paesi si è liberata di decine di governi simili a quello dell’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi, cioè “Partito della Giustizia e dello Sviluppo”, guidato dal Recep Tayyip Erdoğan). Ma nonostante ciò, l’imposizione di sfruttamento e oppressione non è cambiata, anzi si è intensificata, mentre il sistema elettorale si è ancora più legittimato e rafforzato.
Sebbene i governi si alternino di continuo sul nostro pianeta, questo non ha impedito le guerre per procura né le crisi globali in Africa, America Latina, Asia, Iraq, Siria; al contrario, le hanno fomentate. Le crisi economiche e politiche, l’inflazione, le carestie, la fame e la povertà, che sono intrinseche nel mondo del capitale, si sono aggravate. Infine oggi gli attori globali del capitale mondiale, a causa delle loro rivalità reciproche, sono scesi in campo in Ucraina e stanno continuando a preparare la terza guerra mondiale per ridistribuire e rimodellare il mondo in base ai loro interessi di classe e al cambiamento dei loro rapporti di forza. Ecco perché il nostro pianeta è come una bomba pronta ad esplodere in qualsiasi momento.
Nonostante cento anni di buffonate parlamentari ed elettorali, la classe operaia e i lavoratori aspetteranno ancora la liberazione dalle urne? Rinnoveranno la speranza nell’utilità di portare dei loro fedeli rappresentanti in parlamento? Possono ottenere la loro liberazione da altri Ecevit (dirigente della sinistra borghese turca e premier negli anni ‘70), altri Allende, Chavez, Lula?
In Turchia migliaia di proletari stanno dedicando le loro coscienze, doti e capacità a liberarsi del governo dell’AKP. Organizzarsi per la lotta per le rivendicazioni della classe operaia e per la preparazione della dittatura proletaria non è nemmeno nell’agenda dei democratici. Perché? Perché per decenni hanno cercato di legittimare e sviluppare la democrazia borghese, e hanno incanalato tutte le loro energie a democratizzare ulteriormente il sistema delle urne.
Eppure ben sappiamo che anche prima dell’AKP al governo c’erano omicidi sul lavoro, i minatori e altri lavoratori morivano, il salario minimo era al di sotto della soglia di povertà, i curdi erano oppressi e la loro esistenza negata, le donne tiranneggiate e gli aleviti massacrati. Inoltre ogni tipo di governo è stato responsabile del massacro di milioni di proletari durante la prima e la seconda guerra mondiale e le numerose guerre che hanno imperversato negli ultimi 70 anni. La vera causa della sottomissione dei lavoratori sono gli Stati borghesi, definiti alternativamente come regimi parlamentari o totalitari, che santificano e proteggono la legge della proprietà privata e della schiavitù salariale.
Amico lavoratore, considera tutto questo prima delle prossime elezioni.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Domenica 5 marzo a Genova il Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocato (CLA) ha tenuto, nella sala del Circolo dell’Autorità Portuale, una nuova assemblea sul tema “Salute, sicurezza, repressione, nei posti di lavoro e nel territorio” (link al documento di convocazione). Una questione quanto mai attuale, visti anche i recenti disastri ferroviari in Grecia e negli Stati Uniti, di cui riferiamo in questo stesso giornale.
L’assemblea ha visto interventi di diversi militanti sindacali, utili e interessanti per qualità e varietà. Per prima, dopo l’introduzione, ha parlato la madre di una delle vittime della strage alla stazione di Viareggio, del 29 giugno 2009. È stato un intervento nel quale il dolore e la rabbia hanno suscitato un ragionamento lucido e coraggioso, spiegando come la lotta per la salute e la sicurezza, anche negli eventi che travalicano il posto di lavoro – come accadde tragicamente a Viareggio – debba vedere coinvolti e attivi i lavoratori, come l’attività dei familiari delle vittime di quel disastro ferroviario si sia avvalsa dell’appoggio dei ferrovieri e di come i parenti delle vittime dei disastri industriali debbano aiutare i lavoratori a superare passività, paura, rassegnazione, e divisioni.
L’introduzione è stata tenuta da un nostro compagno. Qui di seguito ne riportiamo il testo, appena un poco più lungo di quanto è stato effettivamente esposto, per ragioni di tempo, che può essere visionato sulla pagina facebook del CLA, insieme agli altri interventi.
In seguito sono intervenuti:
- Un ferroviere del Coordinamento Macchinisti Cargo ha raccontato l’esperienza di questo organismo di lotta sindacale trasversale alle organizzazioni sindacali, che ha al centro dei suoi obiettivi quello della sicurezza, e che ha promosso già 8 scioperi nazionali;
- La madre di Emanuela, la ragazza morta a 21 anni nella strage di Viareggio;
- Un portuale della Filt Cgil di Genova, Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, oltre ad affermare di condividere l’intervento introduttivo, ha raccontato l’esperienza sul suo posto di lavoro in merito al tema della sicurezza, molto sentito fra i portuali; il 10 febbraio scorso sono morti sul lavoro due portuali, uno a Gioia Tauro, uno a Trieste;
- Un dirigente del SI Cobas genovese, lavoratore pensionato della sanità, che ha controbattuto all’intervento introduttivo nel merito della questione del rapporto fra ambito politico-sindacale e ambito politico-partitico; ha poi raccontato l’attività e gli scopi della Rete Nazionale Lavoro Sicuro, la quale avrebbe tenuto un’assemblea lunedì 13 marzo a Ravenna, seguita da diversi militanti sindacali del CLA;
- Un militante dell’area di Opposizione in Cgil di Genova, oltre a ricordare come “tutto si tiene”, cioè come la questione della salute e della sicurezza sia legata a quelle del salario, della precarietà, della durata della giornata e della vita lavorativa, ha raccontato della recente lotta cittadina delle lavoratrici dei servizi educativi per l’infanzia (da zero ai 6 anni);
- Una ferroviera pensionata, aderente al CLA, ha raccontato della esperienza della Cassa di Resistenza dei ferrovieri, un importante strumento di solidarietà fra lavoratori e un sostegno per i militanti sindacali colpiti dalla repressione padronale;
- Una lavoratrice della sanità, di Massa, aderente al CLA ha raccontato della drammatica vicenda della pandemia da Covid 19 dal punto di vista dei lavoratori del settore; a tal proposito ha presentato una giornata di mobilitazione del 18 marzo in ricordo dei lavoratori della sanità morti per Covid e ha ricordato che «non ci può essere umanizzazione degli ospedali se non c’è umanizzazione delle condizioni di lavoro», e che ciò deve avere inizio dalle assunzioni; infine ha ricordato di essere una lavoratrice colpita dalla repressione padronale e di essere stata sostenuta dalla Cassa di Resistenza Ferrovieri;
- L’intervento conclusivo è stato tenuto da altro compagno del CLA, dell’area
Cgil in Toscana, ex ferroviere, licenziato per la sua attività di sostegno alla
difesa dei familiari delle vittime nella strage di Viareggio.
* * *
Come intervento introduttivo vogliamo dare una spiegazione generale di ciò che è il CLA e di quelli che sono i suoi caratteri fondamentali.
Innanzitutto diciamo quel che il CLA non è.
Noi non vogliamo essere, costruire, proporre una nuova sigla sindacale.
Quella che avanziamo è una proposta di lavoro, la formazione di una rete, di un coordinamento di militanti e lavoratori che si identificano nel sindacalismo conflittuale, in contrapposizione al sindacalismo collaborazionista, di regime. Una rete che si costituisca e funzioni allo scopo di favorire l’unità d’azione di tutte le forze del sindacalismo di lotta, di classe, ma che operi nel pieno rispetto dell’appartenenza e dall’attività sindacale di tutti coloro che ne condividano gli obiettivi e la funzione.
Il CLA è nato come un piccolo gruppo di militanti sindacali di diverse organizzazioni – di alcuni sindacati di base e dell’area di opposizione in Cgil – che si sono uniti sulla base della identificazione di quella che definiamo una emergenza sindacale.
A fronte del continuo degradarsi delle condizioni di vita e di lavoro dominano ancora fra i lavoratori passività, sfiducia nell’azione collettiva e nel sindacato.
Il sindacalismo conflittuale non ha ancora trovato la forza per ribaltare questo
stato d’animo delle masse lavoratrici e per dispiegare movimenti di lotta
generale in grado di fermare gli attacchi che il padronato e il suo regime
politico, attraverso governi verniciati d’ogni colore, continuano a portare
senza soluzione di continuità.
Non mancano i segnali positivi, che non vanno misconosciuti bensì valorizzati:
da ultimo la manifestazione di 8 giorni fa, convocata dai portuali del CALP.
Ma il distacco fra ciò che si fa e ciò che sarebbe necessario fare per difendere i lavoratori è ancora molto ampio.
Noi pensiamo che uno degli elementi chiave per superare questa situazione risieda nell’unità d’azione fra le organizzazioni, fra le forze del sindacalismo di lotta.
Non dobbiamo e non vogliamo banalizzare il problema, semplificandolo eccessivamente. Ma riteniamo che questa unità d’azione sarebbe un fattore in grado di aumentare in modo importante la forza delle lotte promosse dal sindacalismo conflittuale e il loro impatto sui lavoratori che ancora restano passivi e estranei ad esse.
Entriamo nel merito di come pensiamo si debba perseguire l’obiettivo dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale.
Una prima questione è se tale unità d’azione debba essere realizzata dalla base degli organi del sindacalismo conflittuale o dalle loro dirigenze, e se quindi a tal scopo ci si debba rivolgersi alle une o alle altre.
A noi pare evidente che le attuali dirigenze dei sindacati conflittuali non si siano dimostrate in grado di perseguire tale obiettivo. Quando tale unità d’azione è stata raggiunta, come negli ultimi due anni per alcune mobilitazioni generali, lo è stato sempre solo in modo contingente, si è trattato di un risultato per nulla definitivo, dal quale infatti si è fatto rapidamente marcia indietro.
Oltre a ciò, l’unità d’azione non può essere confinata alle mobilitazioni generali bensì dovrebbe permeare l’attività sindacale a tutti i livelli, sui posti di lavoro, nel territorio, nelle categorie, a livello nazionale, ed essere coronata dalle azioni nazionali intercategoriali unitarie.
Quanto avvenuto in questi ultimi due anni – dal primo sciopero unitario dei sindacati di base nella logistica del giugno 2021, passando per gli scioperi generali dell’ottobre 2021, del maggio 2022 contro la guerra, del 2 dicembre scorso – ci sembra confermare ampiamente quanto avevamo già sostenuto prima che si dispiegasse questo debole nuovo corso unitario messo in campo dalle dirigenze del sindacalismo di base. E cioè che l’unità d’azione del sindacalismo di base potrà aversi solo sulla base della spinta dal basso dei lavoratori e dei militanti più combattivi e determinati di queste organizzazioni. Ed è per questo che è nato il CLA: per unire, coordinare e con ciò potenziare i militanti sindacali che trasversalmente alle organizzazioni di appartenenza ritengono necessario favorire un movimento che le spinga ad agire unite, nel modo più ampio, esteso e organico possibile.
Tuttavia questa azione non può compiersi ignorando le attuali dirigenze dei sindacati, delle aree e delle correnti conflittuali: pensiamo occorra rivolgersi sia alla base degli organismi del sindacalismo conflittuale sia alle loro dirigenze.
Questo per diversi motivi. Innanzitutto occorre rispettare il senso di appartenenza dei lavoratori e dei militanti sindacali alla loro organizzazione. Nell’invitare un organismo sindacale a un’azione unitaria non si può ignorare la sua dirigenza. Questa infatti avrebbe buon diritto e buon gioco a dire ai suoi iscritti di non essere stata coinvolta. Gli iscritti, in una certa misura, hanno buone ragioni per sentirsi disciplinati a ciò che la propria organizzazione decide. Quindi gli appelli per azioni unitarie che non implichino il coinvolgimento sostanziale e formale delle dirigenze sono spesso solo un modo furbesco per voler apparire unitari, ben sapendo di ricevere un rifiuto. L’appello, l’invito alle azioni unitarie deve essere rivolto alla base e alla dirigenza degli organismi sindacali conflittuali, di modo che, a fronte di un rifiuto da parte della dirigenza, l’invito alla base dall’esterno dell’organizzazione sindacale, avrà assai più le carte in regole e quindi la facoltà d’essere ascoltato. In quanto alle dirigenze sindacali, esse vanno coinvolte, invitate, per metterle alla prova, innanzitutto di fronte alla loro base.
Questo è un primo punto su come perseguire l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, come agisce e si propone di agire il CLA, come pensiamo dovrebbero agire tutte le dirigenze sindacali.
Ma, riguardo a quest’ultime, sappiamo bene che le cose non stanno così. È lunghissimo il repertorio di iniziative promosse senza alcun coinvolgimento reciproco fra organizzazioni presenti in quel dato settore di lavoratori, o di furbeschi appelli ad azioni unitarie rivolti solo ai lavoratori delle altre organizzazioni, senza un previo dialogo con le loro dirigenze.
Inoltre, quando faticosamente viene decisa l’azione unitaria, ci troviamo di fronte molti altri problemi, ad esempio quelli relativi alla gestione della manifestazione, come miseramente verificatosi alla pur ben riuscita manifestazione nazionale a Roma il 3 dicembre dell’anno passato.
Questa considerazione introduce un secondo nodo del problema di come perseguire l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, dopo avere affrontato quello del rapporto fra base e dirigenza. Quasi sempre il comportamento pienamente o parzialmente non corretto da parte di una dirigenza sindacale viene preso a pretesto dalle altre dirigenze per non aderire a un percorso unitario precariamente avviato. Nel ribadire che non siamo ingenui e che ben conosciamo i tanti modi per agire in modo divisivo, anche quelli attraverso i quali lo si vuole dissimulare, noi affermiamo che la giusta reazione a tali condotte non è quella di rispondere in modo simmetrico. Il maggior favore che si possa fare a una dirigenza sindacale che non desidera costruire un’azione unitaria, e che perciò la promuove in modo non corretto, è quello di reagire assecondando questo suo obiettivo. Due dirigenze sindacali che non sono guidate dall’obiettivo dell’unità d’azione ma dalla concorrenza reciproca a colpi di azioni separate, si trovano cointeressate a questa azione/reazione che spezza la costruzione di azioni unitarie.
Quanto il CLA sostiene è che i lavoratori di ogni organizzazione del sindacalismo conflittuale debbono indicare alla propria dirigenza che è necessario spezzare questo circolo vizioso che impedisce azioni unitarie, divenendone promotori e perseguendole a prescindere dalle eventuali azioni volte a sabotarle da parte di altre dirigenze, perché l’obiettivo di unire i lavoratori in azioni comuni sopravanza per importanza ogni altra considerazione. L’obiettivo di far agire i lavoratori insieme sopravanza ogni considerazione circa le dirigenze sindacali che parte di quei lavoratori mobilitano.
Bisogna aderire agli scioperi e alle manifestazioni anche se non coinvolti, dimostrando anzi di essere l’organizzazione più coerente e conseguente al principio pratico dell’unità d’azione dei lavoratori, mostrando di perseguirlo a prescindere dalle azioni volte a sabotarlo. Da una simile condotta, ogni forza che davvero persegua il sindacalismo di classe non ha nulla da temere e tutto da guadagnare, perché otterrà l’apprezzamento e la stima dei lavoratori, dimostrandosi superiore alle piccinerie delle dirigenze che agiscono in senso divisivo.
Un esempio concreto. A Roma il 3 dicembre scorso una bella manifestazione operaia, con quasi 10 mila lavoratori, ha sfilato per le vie della capitale, ma è stata spezzata in due dai contrasti fra le dirigenze. Questi contrasti hanno tenuto lontane dalla manifestazione altre forze del sindacalismo di classe, impedendo un risultato ancora migliore sul piano della mobilitazione.
Sembra che la ragione dei contrasti riguardasse chi dovesse tenere la testa del corteo. A parte che noi crediamo che la cosa migliore sarebbe che i cortei operai non fossero divisi per organizzazioni, almeno non rigidamente, bensì mescolati, fra categorie fabbriche e anche sindacati. Questo è avvenuto nella manifestazione nazionale a Piacenza contro la meschina macchinazione della procura locale ai danni di 8 dirigenti locali di Usb e SI Cobas, che ha visto i lavoratori dei due sindacati sfilare insieme, mescolati. Noi pensiamo che i lavoratori d’ogni organizzazione sindacale debbano dire chiaramente che bisogna infischiarsene di queste misere questioni e che è assai più importante che una manifestazione sia unita e compatta, rispetto alla questione di chi ne tiene la testa, e che se vi sono dirigenze tanto meschine da accapigliarsi per simili questioni, che se la tengano pure la testa del corteo: un movimento operaio che ritrovi finalmente la sua forza avrà certamente la maturità per giudicare simili condotte.
Veniamo a un terzo punto molto importante che è quello del rapporto fra
sindacato e partiti, fra politica-sindacale e politica-partitica, cioè politica
in senso stretto.
Per criticarci ci è stato più volte detto che noi vorremmo separare l’azione
sindacale dalla politica. Affermare che noi possiamo pensare qualcosa di simile
non è certo un gran complimento alle nostre intelligenze. Più che altro è una
replica furbesca, sapendo benissimo che non possiamo noi avere un simile
pensiero tanto arretrato. È chiaro infatti che l’azione sindacale ha un valore
politico. Che ogni lotta economica è anche, in nuce e con varia intensità, una
lotta politica.
Quanto il CLA afferma e sostiene è che l’ambito organizzativo sindacale deve restare distinto dall’ambito organizzativo partitico. Che è cosa ben diversa e che spieghiamo velocemente.
Per la debolezza del movimento operaio noi oggi abbiamo partiti operai molto piccoli e sindacati conflittuali che per dimensioni potrebbero essere considerati come dei partiti operai abbastanza grandi. Pensare di ovviare a questo problema oggettivo facendo svolgere ai sindacati i compiti di un partito è una reazione tanto ingenua quanto dannosa su entrambi i versanti, quello sindacale e quello partitico, perché si confondano le rispettive funzioni.
Al sindacato devono poter aderire i lavoratori a prescindere dalla loro opinione politica. Se quel dato sindacato fa il lavoro di propaganda e di mobilitazione per un partito politico, fa un duplice danno a se stesso: in primo luogo mette a disagio al suo interno tutti quei lavoratori di diversa idea politica; in secondo luogo si espone all’esterno alle propaganda dei sindacati collaborazionisti che ammoniscono i lavoratori a stare lontani da un sindacato che in realtà li vuole strumentalizzare per fini politico-partitici.
Ciò non significa che dentro i sindacati non ci sia e non debba esserci la politica e la lotta politica. Ma questo confronto, questa lotta, in ambito sindacale deve venir tradotta in termini di politica sindacale, cioè di linea pratica di lotta da seguire.
Engels diceva che «i problemi teorici sono problemi pratici del domani». Ecco, noi possiamo dire che il sindacato si pone solo problemi pratici, cioè problemi teorici attuali. In esso ci si confronta e scontra sui diversi indirizzi d’azione pratica.
E comunque questo confronto fra indirizzi d’azione deve avvenire sempre nel rispetto dell’unità d’azione dei lavoratori e delle loro organizzazioni di lotta sindacale, perché senza questa unità il movimento non acquisirà mai quella forza necessaria a far diventare i problemi teorici del domani problemi pratici dell’oggi.
Un altro aspetto del rapporto fra politica-sindacale e politica-partitica: un fronte sindacale non deve essere mescolato con organismi partitici o con un fronte politico. I due ambiti devono rimanere distinti. La ragione è la seguente. Un fronte fra sindacati intrecciato con partiti verrà sabotato da quei partiti che non aderiscono a quel fronte politico, e quindi dagli organismi sindacali da essi diretti. Se si mescolano nel fronte sindacale organismi politici il risultato sarà quello di avere più fronti sindacali contrapposti, divisi lungo i confini che separano i partiti operai.
Il fronte del sindacalismo di classe deve essere unico, uno solo, e al suo interno i diversi partiti e gruppi operai devono confrontarsi mostrando la capacità e la maturità di tradurre le loro posizioni politiche in coerenti e conseguenti indirizzi pratici di lotta sindacale.
Quindi ciò che caratterizza il CLA, oltre ad essersi costituito per perseguire l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, oltre ai modi in cui ritiene che tale necessario e urgente obiettivo debba essere perseguito e raggiunto, è ritenere che tutti i militanti politici che sono anche militanti sindacali abbiano il dovere nei confronti della classe lavoratrice di mettersi al servizio della rinascita del movimento operaio compiendo il duplice sforzo di tradurre il proprio posizionamento politico-partitico in indirizzo politico-sindacale e di battersi per la sua affermazione in seno al movimento di lotta sindacale dei lavoratori rispettandone sempre la sua unità d’azione.
Un quarto punto caratterizza il CLA.
Nei pochi esempi concreti, in senso positivo o negativo, cui sinora abbiamo fatto richiamo, ci siamo riferiti solo all’ambito del sindacalismo di base. Ma noi riteniamo che l’unità d’azione debba riguardare tutto il sindacalismo conflittuale, quindi andare oltre il perimetro dei sindacati di base, e coinvolgere le aree e le correnti conflittuali in seno alla Cgil e i gruppi di lavoratori combattivi presenti in essa e negli altri sindacati collaborazionisti.
L’unità d’azione dei sindacati di base in linea generale è la premessa all’allargamento dell’unità d’azione oltre il loro perimetro. In sua assenza le aree e le correnti conflittuali in Cgil hanno più remore, comprensibilmente, a varcare quel confine, che la maggioranza di quel sindacato vuole inviolabile, della sacra unità sindacale con Cisl e Uil, pietra angolare del sindacalismo collaborazionista.
Nei due anni di flebile, traballante, incompleta unità d’azione, le dirigenze dei sindacati di base non si sono mai poste il problema di allargare l’unità d’azione ai gruppi e alle aree conflittuali in Cgil.
Vi è alla base di questo atteggiamento anche la questione se il sindacalismo di classe possa e debba svilupparsi dentro o fuori il maggior sindacato di regime in Italia, una volta che si è escluda che ciò potesse avvenire in Cisl e Uil.
L’atteggiamento del CLA di fronte a questo problema, che non vogliamo affatto eludere, è che ognuno nel CLA è libero di avere la propria opinione in tal senso, ma riteniamo che questo nodo potrà essere sciolto nella verifica empirica, sulla base della ritrovata forza del movimento operaio.
A tal scopo l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale deve essere aperta. Per questo siamo intervenuti in diverse manifestazioni promosse dalla Cgil, anche ai margini di alcuni congressi di categoria, indicando alle aree conflittuali interne l’indirizzo di sostituire l’unità sindacale collaborazionista di Cgil Cisl e Uil con l’unità d’azione di tutto il sindacalismo conflittuale.
Infine, ultimo punto che caratterizza il CLA.
L’unità d’azione del sindacalismo conflittuale non è un fine in sé ma un mezzo:
è uno strumento fondamentale per ottenere al massimo grado il fine dell’unità
d’azione dei lavoratori.
La critica che ci è stata rivolta di voler fare una mera sommatoria di sigle è
tanto superficiale quanto quella di voler dividere politica e sindacato.
Per perseguire la massima unità dei lavoratori nella lotta è giusto e necessario rivolgersi anche direttamente alle masse lavoratrici ma è ineludibile il ruolo e la funzione svolta dalle organizzazioni del movimento operaio.
In coerenza col fine dell’unità dei lavoratori nella lotta sindacale, il CLA si è fatto promotore di un altro indirizzo pratico coerente, conseguente e che lo caratterizza, che è quello di sostenere l’adesione dei sindacati di base – in modo unitario al loro interno – agli scioperi promossi da Cgil Cisl e Uil.
Gli scioperi non si sabotano, si rafforzano. Il miglior modo per togliere il controllo del sindacalismo collaborazionista sulla classe lavoratrice è estendere gli scioperi e radicalizzarli. L’indirizzarsi dei lavoratori verso i metodi e le rivendicazioni del sindacalismo conflittuale è un fatto di forza e di istinto, prima che intellettuale. Se i lavoratori si sentono forti diventano disponibili a indirizzi di lotta più radicali. Quindi, contrariamente alle apparenze, portare le forze dei sindacati di base agli scioperi promossi da Cgil Cisl e Uil non è un modo per portare acqua al mulino del sindacalismo di regime, ma il miglior modo per combatterlo.
Con questo abbiamo dato conto dei punti caratterizzanti il CLA e la sua proposta rivolta ai lavoratori e ai militanti del sindacalismo di classe.
Concludendo, non vogliamo si pensi che noi crediamo che l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale sia il rimedio taumaturgico alla debolezza della classe lavoratrice, ma consideriamo che esso sia uno strumento fondamentale per rimediare alla situazione presente.
Essa deve essere perseguita e praticata non in modo contingente, ma duraturo e
organico, a tutti i livelli dell’azione sindacale, dal più basso al più elevato
e generale.
Quanto accade in queste settimane in Francia ci pare di importante insegnamento.
Anche qui non vogliamo banalizzare. Le differenze col movimento sindacale
italiano sono grandi. I lavoratori hanno conservato un buon livello di
combattività. La CGT che per anni è stata assimilabile alla CGIL in Italia, e in
parte lo è ancora, ha al suo interno intere federazioni di categoria combattive,
come quella dei chimici, che pochi mesi fa ha promosso uno sciopero a oltranza
di oltre venti giorni nelle sei raffinerie del paese. Per fronteggiare il nuovo
attacco alle pensioni del governo Macron si è formata una intersindacale che
include anche la CFDT, il sindacato più collaborazionista di Francia.
Noi, per l’Italia, non pensiamo si debba proporre una intersindacale con la
CISL, ma fra le forze del sindacalismo conflittuale certamente sì, è
assolutamente necessario. Questa è la proposta di lavoro del CLA: un lavoro per
promuovere questo obiettivo dentro e trasversalmente alle nostre organizzazioni.
Gli interventi del partito nel movimento e nelle organizzazioni sindacali da
ottobre a gennaio offrono un quadro completo dei suoi diversi livelli in seno
alla classe lavoratrice:
- In strada coi volantinaggi e lo strillonaggio del giornale, privilegiando
luoghi frequentati da lavoratori;
- Davanti ai posti di lavoro;
- Fra le masse lavoratrici, nelle manifestazioni promosse dalle organizzazioni
sindacali;
- In seno alle organizzazioni sindacali, nelle riunioni dei loro organismi
interni, territoriali e sul posto di lavoro;
- Nelle riunioni dell’organismo intersindacale (CLA) al quale aderisce la
frazione sindacale del partito per promuovere con esso l’unità d’azione del
sindacalismo di classe, cioè il Fronte Unico Sindacale di Classe, quale
strumento fondamentale per raggiungere il grado più elevato di unità dei
lavoratori nella lotta di classe economica.
Si sale quindi da un livello molto generale, qual è quello della propaganda per strada fra le masse indistinte, a livelli più ristretti e qualificati. Ognuno rappresenta una rotella di un meccanismo che consente al partito di entrare nel migliore dei modi in rapporto con le masse proletarie.
Tale meccanismo opera attualmente a un numero di giri molto basso, sembra quasi fermo, ma sappiamo prenderà a funzionare a giri assai più elevati col ritorno inevitabile dei lavoratori alla lotta.
Naturalmente, il buon funzionamento di tale meccanismo dipende dal corretto indirizzo pratico che il partito offre ai lavoratori nella loro lotta per gli interessi immediati, cioè economici. Tale correttezza di indirizzo è possibile in quanto deriva dalla dottrina marxista, da cui discende tutto il bagaglio ormai secolare di esperienza pratica comunista nel campo sindacale, che il partito conserva gelosamente e tramanda, di generazione in generazione, cercando di metterlo in pratica, nei limiti in cui le condizioni storiche lo consentono.
La stessa sicurezza e convinzione che la classe lavoratrice tornerà a lottare in modo generale, ampio, intenso, fino allo scontro rivoluzionario, deriva dalla nostra dottrina e ci distingue dal sentimento di rassegnazione che pervade oggi in Italia anche buona parte del sindacalismo conflittuale.
È sulle spalle della nostra dottrina che noi possiamo affrontare lunghi anni di passività della classe lavoratrice, così come è stato in grado il partito di affrontare un ancora più largo periodo storico di controrivoluzione, che perdura ma che vede le sue basi economiche e ideologiche soggette a progressiva erosione.
L’ineluttabilità della lotta di classe oggi è confermata dai movimenti di lotta operaia in corso nel Regno Unito, in Francia, dal ritorno alla lotta sindacale negli Stati Uniti. Si tratta di una lotta economica nei paesi imperialisti di più antico, decrepito e decadente capitalismo. Questo è ciò che attende tutti i paesi capitalisti del mondo. Quando coinvolgerà i nuovi giganti industriali, oramai capitalisticamente maturi, a cominciare dalla Cina, torneranno a tremare le gambe ai borghesi di tutti i paesi.
In Italia il movimento sindacale e la nostra attività si sono sviluppati in
questi ultimi 4 mesi intorno a 4 elementi:
- Lo sciopero generale del sindacalismo di base indetto il 24 settembre per il 2
dicembre;
- L’azione del nuovo governo insediatosi il 22 ottobre, dopo le elezioni
politiche del 25 settembre;
- Gli scioperi generali regionali indetti da CGIL e UIL dal 12 al 16 dicembre
contro la Legge di Bilancio varata da governo;
- Il XIX Congresso della CGIL.
La preparazione dello sciopero generale unitario del sindacalismo di base di venerdì 2 dicembre si è sviluppata attraverso tre tappe di mobilitazione: un’assemblea nazionale unitaria del sindacalismo di base il 15 ottobre a Milano; una manifestazione nazionale a carattere prevalentemente interclassista il 22 ottobre a Bologna; una manifestazione nazionale il 5 novembre a Napoli.
Il partito è intervenuto nelle prime due mobilitazioni: l’assemblea milanese e la manifestazione a Bologna. Della preparazione dello sciopero del 2 dicembre sono già stati riferiti in modo dettagliato sul numero del dicembre scorso di questo giornale. Qui ne ribadiamo i caratteri essenziali.
Tutto il percorso di preparazione e lo svolgimento delle due giornate di mobilitazione del sindacalismo di base – lo sciopero del 2 dicembre e la manifestazione a Roma del 3 dicembre – hanno offerto una limpida conferma di quanto sempre affermato dal nostro partito. Le dirigenze sindacali opportuniste del sindacalismo conflittuale assecondano la necessaria unità d’azione delle loro organizzazioni solo per calcoli contingenti, di convenienza, solo perché – entro certi limiti – vi sono costrette. Ma non potranno mai perseguire fino in fondo, in modo coerente e conseguente, la costruzione di un fronte unico del sindacalismo conflittuale, che rappresenterebbe un importante passo in avanti verso la formazione di un sindacato di classe. La loro azione unitaria è sempre parziale, esitante e in ogni momento revocabile: “un passo in avanti e due indietro”.
Ne deriva una ulteriore conferma, riferita all’indirizzo pratico di lotta del partito entro le organizzazioni sindacali: per perseguire in modo coerente l’indirizzo dell’unità d’azione degli organismi del sindacalismo conflittuale è necessario condurre una battaglia al loro interno ed esso potrà imporsi soltanto a discapito e contro le dirigenze opportuniste.
Il fatto che il partito, nel condurre tale battaglia, sia pure alle dimensioni minime attuali, comunque proporzionate alla scala attuale della combattività operaia, trovi il sostegno di militanti sindacali estranei ad esso e talora aderenti ad altri partiti operai, conferma che il suo indirizzo d’azione troverà consenso e seguito in una platea di lavoratori estesa ben al di là del perimetro della sua compagine di partito, ciò in quanto è il solo indirizzo d’azione concorde con le necessità della lotta di classe difensiva dei proletari, per i loro interessi più comuni e generali, non limitati a settori particolari e non in contrasto con i loro interessi complessivi.
È questo carattere dell’indirizzo sindacale comunista a rendere possibile la conquista della direzione delle organizzazioni e del movimento sindacale di classe e il funzionamento della cosiddetta cinghia di trasmissione, cioè il legame fra partito e masse proletarie attraverso gli organi difensivi intermedi.
La battaglia per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale e della lotta operaia è stata condotta in questi mesi sia attraverso il CLA, sia con l’intervento diretto del partito fra i lavoratori.
La condotta delle dirigenze opportuniste dell’Usb e del SI Cobas, che hanno spezzato a metà il corteo di 8 mila lavoratori del 3 dicembre a Roma, ha confermato la necessità del lavoro condotto dal CLA. L’attività è proseguita con due riunioni, una on line e una in presenza. A Genova è stato redatto e distribuito a due congressi provinciali di categoria della CGIL – trasporti (Filt Cgil) e istruzione (Flc Cgil) – un volantino che ha indicato come le correnti sindacali conflittuali interne alla Cgil, per dimostrarsi coerenti, debbano battersi per spezzare l’unità del sindacalismo di regime (che comprende Cgil, Cisl, Uil e Ugl) contrapponendovi l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, comprendente cioè i sindacati di base.
Circa questo indirizzo occorre fare alcune considerazioni:
1 - Come già si è palesato in passato, per le correnti sindacali che si dichiarano conflittuali dentro la Cgil, perseguire l’unità d’azione col sindacalismo di base comporterebbe incorrere nella reazione da parte della dirigenza che, come tradizione dell’opportunismo, è sempre pronta ad “aprire a destra” quanto lo è a bastonare e chiudere a sinistra; tale reazione può condurre fino all’espulsione, come avvenuto alla FCA di Melfi nel 2015, o comunque alla estromissione da posizioni, concesse piuttosto che conquistate, nella gerarchia interna.
Ad esempio, nel giugno 2012, giorno dell’ultimo sciopero generale unitario del sindacalismo di base prima di quello dell’ottobre 2021, l’allora segretario nazionale della Fiom Maurizio Landini – oggi segretario generale confederale della Cgil – si recò, invitato, all’assemblea nazionale dell’Associazione degli industriali di Federmeccanica a Bergamo. La opposizione interna conflittuale sostenne lo sciopero dei sindacati di base e alcuni gruppi di fabbrica si recarono a Bergamo a contestare il segretario Fiom. La reazione fu, nel settembre successivo, l’estromissione dalla segreteria nazionale della Fiom del rappresentante della minoranza conflittuale.
Diverse componenti interne alla Cgil che si dichiarano conflittuali manifestano il loro opportunismo guardandosi dal perseguire l’unità d’azione col sindacalismo conflittuale per non perdere le posizioni direttive loro concesse dalla dirigenza.
2 - La propaganda dell’indirizzo dell’unità d’azione del sindacalismo
conflittuale, cioè dei sindacati di base e di questi con le correnti
conflittuali in Cgil, serve perciò dentro la Cgil:
- a smascherare l’incoerenza delle dirigenze delle correnti conflittuali, frutto
del loro opportunismo politico;
- nella misura in cui esso si fa strada, a palesare l’incompatibilità del
sindacalismo classista con la Cgil di regime e la necessità di organizzarsi
fuori e contro di essa;
- infine, naturalmente, a rafforzare le mobilitazioni promosse dal sindacalismo
di base, estendendo l’unità d’azione oltre il perimetro delle sue organizzazioni.
Come detto, siamo intervenuti in una manifestazione nazionale a Bologna il 22 ottobre. Anche questa l’abbiamo già commentata. Il volantino che abbiamo diffuso rispondeva al Collettivo di Fabbrica GKN che, aderendo a questa manifestazione, le aveva dato un rilievo nazionale. Infatti i capi del collettivo, in oltre un anno di mobilitazione contro la chiusura dello stabilimento, hanno raccolto un buon seguito, con varie manifestazioni anche con diecimila partecipanti. Uno degli slogan più ripetuti è stato “unire e convergere”. Ma tale unione dai capi del Collettivo GKN è stata intesa e cercata in senso interclassista, col movimento ambientalista e studentesco, più che con gli altri lavoratori. Il nostro volantino ha indicato invece la necessità di usare ogni energia per costruire l’unità di lotta operaia e, quale mezzo per ottenerla al massimo grado, battersi per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale. Battaglia, questa, elusa dai capi del Collettivo GKN.
Nella manifestazione di Bologna i sindacati di base sono intervenuti per propagandarvi lo sciopero del 2 dicembre. Lo stesso hanno fatto in un’altra manifestazione a Napoli il 5 novembre.
Quel giorno però i nostri compagni sono intervenuti in un’altra manifestazione nazionale, a Roma, promossa da varie organizzazione del movimento pacifista borghese, a cui aveva dato adesione la Cgil. Nel volantino abbiamo denunciato la guerra in Ucraina come prodotto inevitabile del capitalismo, demolendo la sciocca tesi che essa fosse conseguenza della particolare attitudine guerrafondaia di uno o dell’altro fronte borghese. Quindi abbiamo dato l’indicazione che non la buona volontà e la diplomazia degli Stati borghesi, bensì il disfattismo proletario su entrambi i fronti della guerra imperialista, sarà in grado di impedirla o di fermarla.
Infine abbiamo propagandato lo sciopero generale unitario del sindacalismo di base del 2 dicembre, indicando come tutti i lavoratori combattivi entro la Cgil dovevano aderirvi e lavorare per la sua migliore riuscita, nel segno dell’unità d’azione dei lavoratori, del sindacalismo conflittuale, contro l’unità antioperaia del sindacalismo di regime.
Uno degli elementi che hanno manifestato l’opportunismo delle dirigenze dei sindacati di base nella preparazione dello sciopero unitario del 2 dicembre è stato il loro rifiuto a lavorare per coinvolgere le minoranze conflittuali entro la Cgil, sfidando su questo terreno le loro dirigenze opportuniste. Questo rifiuto è emerso dal rigetto della proposta in tal senso del CLA, nell’assemblea nazionale del 15 ottobre a Milano, affinché essa desse mandato di costituire in ogni città Comitati unitari per la costruzione dello sciopero aperti a tutti i lavoratori e a tutti gli organismi sindacali che lo sostenevano. Questa proposta era stata fatta precedentemente – ed ugualmente rigettata – in vista dello sciopero del 20 maggio scorso contro la guerra, da parte di un delegato della opposizione interna alla Cgil di La Spezia, che segue l’attività del CLA.
Il partito, nei limiti della sua disponibilità di forze, si è fatto carico del compito, eluso dalle dirigenze dei sindacati di base, propagandando lo sciopero del 2 dicembre fra i lavoratori e i militanti combattivi nella Cgil. Nel giorno dello sciopero, venerdì 2 dicembre, abbiamo diffuso il volantino scritto per l’occasione alle manifestazioni di Genova e Firenze. Il giorno dopo alla manifestazione nazionale a Roma, ben riuscita, nonostante tutto, e a carattere prevalentemente operaio.
Un altro elemento che ha segnato in Italia questi 4 mesi di movimento sindacale e la nostra attività in esso, è stato la costituzione del nuovo governo borghese. Ancora prima della sua costituzione, l’8 ottobre, la Cgil ha organizzato una manifestazione nazionale a Roma. Essa si è svolta dopo il successo della destra alle elezioni del 25 settembre, ma prima della formazione del nuovo governo, il 22 ottobre.
Un tema impostosi in quei giorni è stato quindi quello del “ritorno del fascismo”. La dirigenza Cgil si è attestata su una posizione che ha ribadito in modo ancor più chiaro il suo corporativismo: «Non siamo qui contro qualcuno ma perché venga ascoltato il Lavoro» ha dichiarato Landini dal palco. L’opposizione conflittuale in Cgil ha invece sfilato dietro a uno striscione con scritto “Pregiudizialmente antifascisti”.
Il nostro volantino ha quindi fatto chiarezza sulla fuorviante contrapposizione fra democrazia e fascismo, sulla natura del governo borghese e su quella della dirigenza Cgil, e ha dato indicazione ai lavoratori e ai militanti combattivi in Cgil di assumersi il compito di organizzare un movimento di difesa delle condizioni di vita dei lavoratori, innanzitutto per forti aumenti salariali a fronte dell’inflazione, come già in quei giorni stava avvenendo in Francia, costruendo l’unità d’azione col sindacalismo di base, aderendo e sostenendo lo sciopero generale del 2 dicembre.
In seguito, dopo l’insediamento del nuovo governo e dopo lo sciopero nazionale dei sindacati di base contro la Legge di Bilancio e i suoi contenuti anti-proletari, la Cgil ha proclamato degli scioperi generali regionali, di 8 o 4 ore, nella settimana dal 12 al 16 dicembre.
Il CLA vi è intervenuto con due documenti. Il primo, appellandosi ai militanti del sindacalismo di base, affinché promuovessero la partecipazione dei sindacati di base, in modo unitario fra di essi, agli scioperi generali regionali e alle manifestazioni promosse da Cgil e Uil, nel segno dell’unità d’azione dei lavoratori nella lotta economica, quale miglior strumento per combattere il controllo dei sindacati di regime sulla classe operaia, cercando di radicalizzare le mobilitazioni da essi stessi convocate sempre in modo blando e rado. Il secondo documento è stato il volantino del CLA alle manifestazioni per lo sciopero Cgil e Uil a Genova e Firenze, in cui si ribadiva l’indicazione contenuta nel volantino distribuito ai congressi provinciali di categoria della Cgil, cioè di spezzare l’unità del sindacalismo di regime di Cgil Cisl e Uil con l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale.
A Genova siamo intervenuti in una riunione pubblica di militanti sindacali portuali della Filt Cgil e dell’Usb, ribadendo la necessità dell’unità d’azione del sindacalismo conflittuale.
Sul piano redazionale abbiamo prestato cura e attenzione ai movimenti di lotta
operaia negli altri paesi sviluppatisi in reazione all’incremento
dell’inflazione, in Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Turchia. Questo per
trarre ad esempio ed esperienza di lotta la combattività dei lavoratori in quei
paesi. Abbiamo anche riportato una puntuale descrizione dell’accordo salariale
per i metalmeccanici in Germania, dove attualmente prevale, come in Italia, la
pace sociale.
Nel complesso possiamo affermare che l’attività sindacale migliora in qualità,
grazie al nostro costante allenamento ad affrontare nei suoi tanti piani i
problemi che essa pone, e, a ritmo non dipendente da noi, anche in quantità.
Diversi lavoratori, nei loro discorsi, hanno fatto notare la possibilità che l’intero paese venga travolto dagli scioperi perché l’inflazione, anche in Georgia, sta rendendo la vita durissima.
Una delle principali industrie in Georgia è l’imbottigliamento e la distribuzione di acqua minerale. Alla Sairme, una delle maggiori aziende del settore, le condizioni di lavoro sono molto dure. L’azienda non ammoderna le attrezzature, i macchinari sono obsoleti, danneggiati e pericolosi. A fronte del rigido clima invernale del Caucaso, la fabbrica non dispone di un sistema di riscaldamento decente. Vi è un solo lavoratore addetto alle pulizie per un’area di oltre 1.000 metri quadrati, il quale riceve un misero salario mensile di 600 Lari, circa 250 dollari.
Dal 13 febbraio gli operai sono scesi in sciopero a oltranza. Hanno allestito un accampamento, bloccando l’ingresso per 24 ore, sotto la neve e al gelo. Rivendicano un aumento dei salari del 30%, la loro indicizzazione, la copertura dei costi pensionistici a carico della parte padronale, condizioni di lavoro dignitose, salubri e sicure. E la fine dei ricatti e delle minacce padronali.
Poiché la direzione aziendale nemmeno ha concesso un incontro per la trattativa,
lo sciopero, organizzato dal sindacato “Labor”, dura da un mese. Si tratta di
una lotta esemplare per tutti i lavoratori.
Wolt
Già nel numero scorso avevamo scritto che i fattorini della Wolt sono entrati in sciopero. Dopo un mese intero non è stato raggiunto alcun progresso in termini di negoziati. Diverse manifestazioni di massa, con la partecipazione di centinaia di corrieri, hanno avuto luogo nella capitale Tbilisi. I lavoratori hanno chiesto a Wolt di affittare un grande auditorium in modo che TUTTI i lavoratori potessero partecipare alla trattativa. Una richiesta del genere è sicuramente positiva perché dimostra che i lavoratori vogliono un contratto collettivo che serva i loro interessi e che i capi della lotta difendono questa volontà.
Per alcuni giorni i fattorini in sciopero sono persino riusciti a costringere l’azienda a disattivare l’applicazione mobile per gli ordini, ma l’azienda non sembra ancora abbastanza colpita.
L’ultima protesta ha avuto luogo il 1° marzo.
PAGINA 5
Nell’inserto economico del Corriere della Sera del 13 febbraio scorso, a corollario di un articolo titolato “I giovani in trappola. Pagati poco, fin dall’inizio” è stato pubblicato un grafico sulla serie storica dei salari dei lavoratori in Italia che prende in esame gli anni dal 1975 al 2018. Il grafico è interessante oltre che per il fatto di analizzare un arco di tempo abbastanza lungo, quasi 50 anni, perché divide i lavoratori in tre fasce di età: da 15 a 29 anni, da 30 a 49, sopra i 50.....
Nei mesi passati hanno suscitato clamore le statistiche dell’OCSE secondo cui il salario medio in Italia sarebbe inferiore del 2,9% rispetto il 1990. I dati del grafico confermano il quadro arricchendolo di elementi importanti.
Per la fascia dei giovani lavoratori, dai 15 ai 29 anni, il salario medio dal 1975 al 2018 non è mai cresciuto, anzi è sceso costantemente! Se nel 1975 il salario medio era a un indice 80, nel 2018 era all’incirca a 58, cioè oltre un quarto in meno. Quindi per i giovani proletari, il salario medio non è sceso del 2,9% dal 1990, bensì di oltre il 27,5% dal 1975!
Una tipica azione padronale, avallata dai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), è quella di introdurre un doppio regime contrattuale, di dividere i lavoratori permettendo alle aziende di introdurre peggioramenti per i neoassunti.
Questo è avvenuto e continua ad avvenire con accordi aziendali e, sul piano generale, con l’introduzione di forme contrattuali flessibili, che hanno fatto dilagare la precarietà lavorativa. Sicché oggi i giovani ricevono salari autenticamente da fame e subiscono in massimo grado il ricatto del licenziamento.
Questa condizione del proletariato giovanile è inoltre mistificata con l’infame propaganda ideologica che dipinge i giovani, naturalmente considerati come un gruppo sociale omogeneo al di sopra della divisione in classi, senza voglia di lavorare: così in tanti, sgobbano ancora di più e i padroni possono sfruttarli meglio.
Passiamo alla fascia d’età da 30 a 49 anni. Per questi lavoratori si osserva che il salario medio è restato sostanzialmente invariato dal 1975 al 1990: indice 124, circa. È dal 1990 che inizia un calo, fino che nel 2018 si ha un indice 108, circa. Quindi, anche per questi lavoratori il salario medio nel 2018 è inferiore a quello del 1975, grosso modo di poco più del 15%! E oggi, dopo 4 anni, sarà certamente peggio, con l’aumento dell’inflazione.
Terza fascia d’età, cioè i lavoratori sopra i 50 anni. Questa frazione della classe lavoratrice è l’unica che ha visto il salario medio crescere in modo sensibile dopo il 1975, allorquando l’indice era pari a 120. La crescita si ha fino al 2000, quando si raggiunge l’indice 148: un aumento del 23,3%. Dal 2000 inizia un calo che porta il salario medio per i lavoratori sopra i 50 anni nel 2018 a un indice 122. Appena sopra all’indice del 1975, ma possiamo supporre ormai – nel 2023 – uguale o inferiore a quello.
Il grafico conferma quanto affermato dal nostro partito: con la crisi economica 1973-’74 si è chiuso il ciclo di crescita dell’accumulazione del capitale per i paesi capitalisticamente maturi – cosiddetti occidentali – e si è aperto il ciclo di crisi di sovrapproduzione, che si manifesta attraverso l’esplosione di periodiche crisi recessive.
Ciò si è riflesso sul piano delle condizioni della classe proletaria, in un arresto del loro progresso e nell’inizio del loro arretramento, prima graduale e poi sempre più accentuato.
I giovani proletari, che fino al 2000, potevano sperare, col passare degli anni, di porre rimedio ai primi duri tempi di magri salari d’ingresso con salari crescenti col maturare dell’anzianità lavorativa, oggi vedono progressivamente svanire anche questa labile speranza e si ritrovano con la prospettiva di salari sempre più vicini alla pura sussistenza, per di più per tutta la vita.
Si vede bene il risultato a lungo termine dell’azione padronale di divisione dei lavoratori: prima hanno colpito i giovani lasciando indenni gli adulti e gli anziani. Dopo 15 anni, nel 1990, quei giovani, divenuti adulti, abituati a salari in calo, hanno continuato a ricevere salari decrescenti rispetto a quanto prima ricevevano i lavoratori di quella fascia d’età. Dal 2000 la discesa ha iniziato a interessare anche gli ultra cinquantenni che oggi raggiungono le altre due fasce d’età nello scendere a livelli salariali precedenti il 1975.
In questa situazione e nella aspettativa che essa non si invertirà affatto, essendo determinata dall’avanzare della crisi economica mondiale del capitalismo, è certo il ritorno della classe lavoratrice alla lotta in difesa del salario. Questo naturalmente, essendo il capitalismo una società internazionale, fin dalle sue remote origini nel mercantilismo del XV secolo, sarà un fenomeno internazionale, del quale già registriamo i primi evidenti sintomi, con le lotte in Francia, nel Regno Unito, in Turchia, negli Stati Uniti, per fare gli esempi più vistosi.
Sorge naturalmente la domanda del perché in Italia, con salari al di sotto della media europea, la classe lavoratrice permanga ancora in uno stato di passività.
Non è un quesito semplice e i fattori sono sicuramente vari. Uno può essere la forte propensione al risparmio delle famiglie italiane, che ha permesso loro di accumulare una certa riserva che temporaneamente mette al riparo almeno una parte della classe lavoratrice dalla miseria avanzante. Questo si accompagna con una riduzione dei consumi, con i giovani che “scelgono” di non sposarsi, non riprodursi e vivere in famiglia fino a 30 anni e oltre.
Un altro fattore che spiega questo stato di passività della classe operaia italiana può essere la persistenza di un ampio strato di piccola borghesia, che smorza i contrasti fra proletariato e borghesia, coi suoi mille legami che danno all’ambiente sociale un’apparenza interclassista. Il tessuto di piccole imprese, la maggioranza in difficoltà a sopravvivere alla crisi, assicura da un lato salari bassi e precari, dall’altro – finché non riesploderà la lotta di classe – la sudditanza dei dipendenti al paternalismo padronale, e difficoltà ad organizzarsi e a lottare.
Vi è un terzo fattore su cui è da riflettere. In Francia e in parte anche in Gran Bretagna, le categorie che più sono scese in sciopero in questi ultimi mesi e anni sono i lavoratori della scuola, della sanità, dei trasporti, dei porti e, per la sola Francia, del settore petrolchimico. Per ottenere aumenti salariali, i petrolchimici francesi a novembre hanno scioperato per 20 giorni consecutivi, guidati da una delle federazioni di categoria combattive della CGT, che è invece a maggioranza collaborazionista.
Tutte le categorie succitate in Italia sono sottoposte alla legge anti-sciopero, la 146 del 1990, modificata nel 2000 dal governo D’Alema. Questa legge fu invocata dai sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil) per fermare in quelle categorie – e non solo – l’avanzata del sindacalismo di base, che giustamente si distingueva per la promozione di numerosi scioperi.
In virtù di quella legge, col tempo modificata in senso ulteriormente restrittivo, una vasta parte della classe lavoratrice – le stesse categorie protagoniste delle lotte in corso in Francia – può compiere scioperi non più lunghi di 24 ore, e in rare eccezioni di 48 ore. Oltre a ciò, lo sciopero deve essere annunciato con largo anticipo. Non può essere deciso, per esempio, da una assemblea sul posto di lavoro. Inoltre, fra uno sciopero e l’altro, deve passare un certo intervallo di tempo, in media due settimane.
Questa legge non riguarda solo i dipendenti statali, come erroneamente si crede, ma tutti i lavoratori, anche dipendenti di aziende private, che si trovano ad operare in un settore rientrante nei cosiddetti “servizi pubblici essenziali”. Ad esempio le inservienti alla mensa, addetti alle pulizie, alla manutenzione, giardinieri, magari dipendenti di una cooperativa, operante all’interno di un ospedale.
Di fatto in Italia la libertà di sciopero per una parte consistente dei lavoratori è negata da una legge fascista approvata in regime democratico, guidato da un governo di sinistra, voluta dai sindacati di regime.
Quindi, a ben vedere, Landini, invitando la Meloni al Congresso Cgil, compie un atto in piena consonanza col percorso politico sindacale della Cgil ricostituita “dall’alto” sul finire della seconda guerra mondiale. Per giustificarsi s’è richiamato all’opera di Bruno Trentin segretario generale della Cgil dal 1988 al 1994 e in precedenza segretario generale della Fiom, dal 1962 al 1977. Colui che, due anni dopo aver incassato la legge contro lo sciopero e contro i sindacati di base, siglava l’accordo per finire di smantellare la scala mobile e avviare la cosiddetta “politica dei redditi”. Per questo, a Firenze, prima si prese un cazzotto in faccia da un lavoratore, poi dovette farsi proteggere dalle forze dell’ordine mentre cercava di parlare dal palco, sotto una pioggia di bulloni.
Landini è una lugubre e slavata comparsa a guida del barroccio che trasporta il
feretro del sindacalismo di regime verso il suo mesto destino. Infatti noi
sappiamo che la classe lavoratrice, spinta dalle condizioni materiali, tornerà
alla lotta spezzando ogni vincolo, anche legislativo, contro ogni repressione.
Ne scriveremo nel prossimo numero, sull’esempio degli scioperi del marzo del
1943, in pieno fascismo.
In Grecia non si ferma la protesta per il disastro ferroviario del 28 febbraio. Sulla linea Atene-Salonicco un treno passeggeri e uno merci si sono scontrati frontalmente causando la morte di almeno 57 passeggeri e decine di feriti.
Il Paese è bloccato da otto giorni per lo sciopero dei trasporti indetto dai sindacati. Fermi i trasporti pubblici ad Atene e i traghetti per le isole.
Sin dal luglio dell’anno scorso il Movimento sindacale democratico unitario dei Ferrovieri (Desk-S) in successivi comunicati aveva lanciato l’allarme sullo stato di abbandono delle ferrovie greche. In occasione del precedente grave incidente avvenuto il 24 gennaio il Desk-S aveva denunciato: «Ci si chiede davvero cos’altro debba accadere perché il governo e i padroni se ne assumano finalmente la responsabilità. Dobbiamo piangere i morti prima di prendere misure per proteggere la vita umana?».
Il 7 febbraio 2023, in un altro comunicato si sottolineava che una serie di incidenti, pur non avendo provocato vittime, erano il segnale di una situazione di grave pericolo: «Non aspetteremo l’incidente per vederli versare lacrime di coccodrillo mentre faranno i rilievi. Finché non si adotteranno misure di protezione nei luoghi di lavoro e per la sicurezza nella circolazione dei treni gli incidenti non avranno fine (…) È sempre più scandaloso che questi fatti siano divenuti quasi quotidiani e che non si prendano misure sostanziali, non si avviino miglioramenti infrastrutturali e operativi (…) Come i governi precedenti anche l’attuale ha altre priorità che la sicurezza della circolazione dei cittadini, dato che è percepita come un costo».
Affermava un sindacalista del Desk-S: «I sistemi di sicurezza non sono stati completati, il personale che avrebbe dovuto esserci non c’è, le assunzioni che avrebbero dovuto essere effettuate ieri non sono state effettuate (…) Ogni anno 130-140 dipendenti con una certa esperienza se ne vanno: non vengono sostituiti da nessuno (…) Le due società TrainOse e Hellenic Train si incolpano a vicenda, ma alla fine la colpa è solo degli intensi fenomeni atmosferici che inondano la linea, degli incendi, della neve... E colpa anche dei ferrovieri!».
Nel bel mezzo della crisi del debito pubblico, il governo greco varò un piano di privatizzazioni da 3 miliardi di euro in cui ricadeva anche TrainOse. Nel 2013 la proprietà venne trasferita dallo Stato alla Hellenic Republic Asset Development Fund, il fondo per la gestione delle privatizzazioni. In una gara internazionale nel settembre del 2017 il Gruppo FS acquistava la società per 45 milioni di euro.
In questo processo i primi a farne le spese furono i ferrovieri. Nel 2000 le ferrovie greche avevano 12.500 dipendenti, ridotti a 2.000 nel 2021, sufficienti per gestire in sicurezza solo su 300 dei 2.500 chilometri della rete.
Questo contenimento dei costi per la sicurezza si è tradotto in una buon andamento dei conti aziendali: nel 2020 la Compagnia ha registrato un fatturato di 106 milioni di euro e un utile netto di 9,6 milioni.
Spesso l’opportunismo di sinistra attribuisce alle privatizzazioni i mancati investimenti nelle infrastrutture, nella manutenzione degli impianti e nel rinnovo del personale. Ma le privatizzazioni sono solo il mezzo che la borghesia usa per risparmiare e far quadrare il bilancio. La vera causa di questa tendenza di molti Stati borghesi al taglio della spesa per i servizi pubblici, sanità, scuola, trasporti risiede nel regime capitalistico stesso e nella crisi economica che da decenni lo sta investendo.
Le aziende, siano esse pubbliche o private, per far quadrare i bilanci e aumentare i profitti tagliano sul personale, sulla sicurezza, sulla manutenzione ecc. Ma il vero colpevole è questo regime che punta solo al profitto e non si interessa delle condizioni di vita dei lavoratori, ma potremmo dire, di tutti gli esseri umani.
Prova ne sia che incidenti simili si sono verificati e continuano a verificarsi in tutti i Paesi. In Italia nel 2009, a Viareggio, un deragliamento causato dalla mancata manutenzione ai carri causò la morte di 32 persone. Il 4 febbraio scorso, vicino a Pittsburgh, nell’Ohio, è deragliato un treno che trasportava cloruro di vinile provocando un inquinamento del terreno e delle falde che ancora non si sa quali conseguenze potrà avere sulla popolazione e sull’ambiente.
In Grecia l’incidente ha sconvolto l’opinione pubblica. Al grido di “Assassini!” scioperi e manifestazioni di protesta contro il governo si sono svolte nelle principali città. La reazione della polizia, con i reparti speciali antisommossa (MAT), è stata durissima contro la massa dei manifestanti.
I ferrovieri hanno scioperato per diversi giorni consecutivi. Il sindacato dei ferrovieri Desk-S ha chiesto e continua a chiedere forti assunzioni di personale, formazione del personale sulla sicurezza, completamento delle infrastrutture, investimenti nella manutenzione e nella modernizzazione degli impianti, del materiale rotabile e fisso.
Ogni giorno di più questo regime sociale dimostra di essere ormai un cadavere che cammina, incapace di rispondere ai bisogni della specie umana, che anzi nega, aumentando le minacce di guerra, la produzione di armi e lo sfruttamento del proletariato in tutti i paesi.
Solo
la rivoluzione comunista potrà invertire la sua
catastrofica
rotta.
Il 3 febbraio scorso, nei pressi di un piccolo villaggio al confine tra Ohio e Pennsylvania chiamato East Palestine, è deragliato un treno mastodontico, composto da 150 vagoni e lungo un chilometro e mezzo. 51 carri sono usciti dai binari, dei quali 5 cisterne che trasportavano 440 metri cubi di cloruro di vinile, un agente cancerogeno ed estremamente infiammabile.
Il personale addetto alla tutela ambientale per evitarne l’esplosione lo ha fatto defluire dalle cisterne e dopo tre giorni l’ha incendiato. Sia il governatore dell’Ohio sia quello della Pennsylvania hanno ordinato l’evacuazione dell’area fino all’8 febbraio. Questo non ha impedito che nell’area siano morti 43.000 capi di bestiame.
L’Agenzia di protezione ambientale (EPA) ha subito dichiarato che il luogo è sicuro e che nell’immediato non c’è motivo di preoccuparsi. Quello immediato è l’unico lasso di tempo che il modo di produzione capitalistico riesce e ha interesse a prendere in considerazione.
Chi può fidarsi del governo in un mondo sopravvissuto a Chernobyl?
Gli esperti della Università del Texas, invece, sostengono che se le concentrazioni di quelle sostanze chimiche si manterranno nei prossimi mesi, potrebbero esserci gravi effetti a lungo termine sulla salute dei residenti nell’area, con mal di testa, irritazione polmonare e agli occhi, oltre a rischi di tumori. L’EPA non avrebbe rilevato inquinamento all’interno delle case, ma non si sa quali saranno gli effetti a lungo termine sulla salute degli abitanti.
Sui social media si è scatenata l’isteria di ogni tipo di imbonitori, diffondendo disinformazione: nella società del mercato ogni comportamento antisociale trova il suo spazio ed è impossibile arrivare a conoscere la realtà.
I politicanti hanno colto subito l’occasione per affermare che ciò non ha nulla a che fare con la crisi economica e la decadenza sociale, vere cause di simili disastri. Trump ha visitato il posto offrendo i sui soldi. Vance, senatore dell’Ohio, ne ha approfittato per apparire nei talk show e definire ambiente e razzismo “falsi problemi”. Pete Buttigieg, del partito democratico, ha risposto come fa qualsiasi governo al potere di fronte a un disastro: “non è il momento di parlare di politica né delle cause, uniamoci come nazione per risolvere il problema!”.
Ma la borghesia non è riuscita a nascondere le sue responsabilità. Il personale alla conduzione del treno nel momento dell’incidente ha avuto poco tempo per intervenire ma l’ha fatto in modo appropriato. La Commissione per la sicurezza nazionale dei trasporti (NTSB) ha dichiarato nel suo rapporto: «Non abbiamo prove che l’equipaggio abbia fatto qualcosa di sbagliato».
È quindi evidente l’inadeguatezza dei regolamenti capitalistici che non qualificano questi trasporti come pericolosi. Sebbene i freni elettronici dal 2015 fossero obbligatori per i treni, la precedente amministrazione presidenziale ha eliminato questa regola, mentre l’attuale non ha fatto nulla per ripristinarla. Forse tali freni da soli non avrebbero impedito il deragliamento, ma almeno avrebbero diminuito il numero delle cisterne uscite dai binari.
Come non stupirci delle dimensioni del treno e del numero dei carri? Come può essere affidabile un simile convoglio ferroviario? Il capitale, per sua natura miope, impone questo gigantismo dissennato allo scopo di ridurre i costi e massimizzare i profitti. La Norfolk Southern Railway, la compagnia proprietaria del treno deragliato, è riuscita a liberarsi del 30% del personale adottando convogli di queste dimensioni. Nella società futura, si guarderà indietro inorriditi su come, nell’adorazione del denaro, si sia soppresso un ferroviere su tre per adottare una composizione dei treni palesemente incurante delle più elementari misure di sicurezza.
La borghesia afferma che sarebbe un “incubo logistico” rendere più sicuri i treni. Domani l’uomo comunista sarà cosciente di essere finalmente uscito da “l’incubo capitalista”, inorridito della demente visione del mondo dell’attuale classe dominante.
È prevedibile, e in una certa misura anche inevitabile, che una società
industriale debba sperimentare talvolta sinistri e anche catastrofi. Ma
nell’attuale fase di decadenza sociale borghese tali eventi si moltiplicano
oltremisura e a ritmo sempre più ravvicinato. Soltanto il comunismo può salvarci
da questo mondo funestato di disastri, sui quali il capitale si arricchisce.
PAGINA 6
Origini del Partito Comunista di Cina - La questione dell’adesione dei comunisti al Kuomintang
All’inizio di settembre 1922, i primi comunisti, tra i quali Chen Duxiu, venivano ammessi nel Kuomintang e da quel momento iniziarono a partecipare alla riorganizzazione del partito nazionalista. Intanto, tra settembre e dicembre, inviati di Sun Yat-sen conducevano con Joffe una serie di discussioni sulla possibile assistenza militare sovietica. In questo contesto, che vedeva l’inizio della messa in pratica della tattica caldeggiata da Maring di ingresso dei comunisti nel Kuomintang, nel novembre del ’22 si svolse il Quarto Congresso dell’Internazionale....
Particolarmente interessante fu il rapporto del delegato cinese Lin-Yen-Chin che tratteggiò la situazione politica in Cina e la situazione della lotta di classe, considerata particolarmente positiva in quanto nel corso del 1922 si era dispiegato un vasto movimento di scioperi, prevedendo lo sviluppo del Partito Comunista. Si soffermò quindi sui suoi compiti individuandoli nel fronte unito con il Kuomintang, realizzato con l’ingresso individuale dei comunisti nel partito nazionalista: «Il nostro partito, tenendo presente che il fronte unito antimperialista deve essere istituito per espellere l’imperialismo dalla Cina, ha deciso di stabilire un fronte unito tra noi e il partito rivoluzionario nazionalista: il Kuomintang. La forma di questo fronte unito prevede che entriamo in questo partito con i nostri nomi e capacità individuali».
Veniva così annunciato l’inizio della sciagurata tattica di infiltrazione nel Kuomintang, giustificata con l’illusione di poter strappare ai nazionalisti l’influenza sulle masse. Erano i primi passi che avrebbero portato il PCdC e il proletariato in Cina a sottomettersi alla direzione e alla disciplina del partito della borghesia cinese, il tutto sotto la guida dell’Internazionale che iniziava a mostrare i primi pericolosi sbandamenti dalla corretta via rivoluzionaria.
L’intervento di Radek sulla questione orientale descrisse una situazione molto meno favorevole di quella che prospettava al tempo del Secondo Congresso, nel 1920. Radek non condivise i toni ottimistici del delegato cinese sulle prospettive di sviluppo del partito in Cina, mettendo in evidenza l’arretratezza del movimento rivoluzionario nei paesi orientali. Per cui, proprio come in Occidente, si sarebbe dovuto lanciare la parola d’ordine di “andare alle masse” e dedurne l’opportunità di collegarsi a qualunque forza in grado di svolgere un ruolo antimperialista, il che implicava legarsi indissolubilmente a fazioni borghesi che inevitabilmente sarebbero passate all’attacco contro il movimento rivoluzionario.
Si compromettevano i giovani partiti comunisti con forze borghesi, che in quel momento svolgevano una funzione antimperialista. Non passerà qualche mese che l’illusione di poter utilizzare simili partiti si scontrerà con la realtà della violenta repressione armata del movimento e dell’organizzazione dei ferrovieri nel febbraio del 1923.
Ma le direttive che i vertici dell’Internazionale indirizzavano al PCdC erano il frutto di una svalutazione della forza del partito, ritenuto lontano dall’aver stabilito legami con le masse. Così Radek delineò i compiti dei comunisti cinesi: «Il primo compito dei compagni cinesi è concentrarsi su ciò di cui è capace il movimento cinese. Compagni, dovete capire che in Cina non sono all’ordine del giorno né la vittoria del socialismo né l’instaurazione di una repubblica sovietica. Purtroppo, anche la questione dell’unità nazionale non è stata ancora storicamente posta all’ordine del giorno in Cina. Quello che stiamo vivendo in Cina ricorda il Settecento in Europa, in Germania, dove lo sviluppo del capitalismo era ancora così debole da non aver ancora dato vita a un unico centro nazionale unificatore [...] Il capitalismo sta cominciando a svilupparsi in una serie di centri diversi. Con una popolazione di oltre 300 milioni di abitanti, senza ferrovie, come potrebbe essere diverso? Abbiamo ampie prospettive, che dovreste sostenere con tutto il fuoco delle vostre giovani convinzioni comuniste. Nonostante ciò, il nostro compito consiste nell’unificare le forze reali che si stanno formando nella classe operaia con due obiettivi: primo, organizzare la giovane classe operaia e, secondo, stabilire un giusto rapporto tra questa e le forze borghesi oggettivamente rivoluzionarie, al fine di organizzare la lotta contro l’imperialismo europeo e asiatico».
Radek non commentò quanto affermato dal delegato cinese sulla tattica di far entrare individualmente i comunisti nel Kuomintang, ma era proprio questo l’aspetto centrale della questione dei rapporti tra le forze rivoluzionarie in Cina. Tale tattica non andava certamente nella direzione di quel “giusto rapporto” tra il proletariato e la borghesia rivoluzionaria, perché, dal momento che i comunisti sarebbero andati a lavorare per il partito nazionalista borghese, si sarebbe imposta nei fatti la sottomissione del partito comunista e del proletariato cinese alla borghesia del Kuomintang.
L’Internazionale approvò delle “Tesi sulla questione orientale”, nelle quali la parola d’ordine del “fronte unico antimperialista” veniva lanciata facendo un chiaro parallelo con la situazione nei paesi a capitalismo maturo: «Proprio come in Occidente la parola d’ordine del fronte unico proletario è servita e serve ancora a smascherare il tradimento socialdemocratico nei confronti degli interessi proletari, così la parola d’ordine del fronte unico antimperialista contribuirà a smascherare i tentennamenti dei vari gruppi nazionalistico-borghesi».
Al Quarto Congresso dell’Internazionale, 1922, la nostra Corrente espresse netta la posizione sul fronte unico. Nell’intervento sulla relazione Zinoviev osservammo. «La conquista delle masse non deve essere ridotta alle oscillazioni di un indice statistico. Essa è un processo dialettico, determinato anzitutto dalle condizioni oggettive sociali, e la nostra iniziativa tattica non può accelerarlo che in certi limiti, o, per meglio dire, a certe condizioni che noi consideriamo pregiudiziali. La nostra iniziativa tattica, vale a dire l’abilità di manovra, si basa sugli effetti che essa produce nella psicologia del proletariato, adoperando la parola psicologia nel senso più largo per riferirsi alla coscienza, allo stato d’animo, alla volontà di lotta della massa operaia. In questo campo bisogna ricordare che vi sono due fattori di primo ordine, secondo la nostra esperienza rivoluzionaria: una chiarezza ideologica completa del partito, ed una continuità severa ed intelligente nella sua struttura organizzativa».
Nel “Progetto di Tesi” presentato dal P.C. d’Italia era definita in maniera chiara la questione dell’organizzazione. «Gli statuti organizzativi, non meno della ideologia e delle norme tattiche, devono dare un’impressione di unità e di continuità [...] È necessaria l’eliminazione di norme di organizzazione affatto anormali [...] la penetrazione sistematica e il “noyautage” in altri organismi che abbiano natura e disciplina politica». Proprio quanto iniziava ad essere messo in pratica in Cina con l’ingresso dei comunisti nel Kuomintang.
La nostra Corrente aveva ben chiaro che elevare a sistema tali “anomalie”
avrebbe condotto a una ricaduta nell’opportunismo. Il tragico epilogo della
lotta rivoluzionaria in Cina, con la sanguinosa sconfitta proletaria del 1927,
affonda le radici nelle tattiche pericolose e negli errori organizzativi che
iniziarono a delinearsi al IV Congresso e costituisce una ulteriore conferma
della correttezza di tutte le tesi difese dalla Sinistra riguardanti gli errori
di valutazione storica e di tattica dell’Internazionale in fase di degenerazione.
L’accumularsi del debito nipponico
In Giappone gli scorsi 40 anni si concludono con l’aumento del deficit commerciale a 3 trilioni di yen (26.1 miliardi di Dollari) e la contrazione drastica delle esportazioni: verso la Cina -17,1%, verso gli USA -10,2%, verso la UE -9,5%.
La Banca centrale del paese ha rappresentato a lungo un punto di riferimento per le politiche di stabilità monetaria, sia per i capitalisti giapponesi sia internazionali. Ma, per la prima volta dopo decenni, l’avanzamento del capitalismo mondiale ha rimesso in discussione i due caratteri principali di questo suo ruolo, ovvero la sua raffinata capacità di controllo dell’inflazione agendo sulla curva annuale dei rendimenti e il mantenimento di una politica restrittiva nel lungo periodo sull’aumento dei tassi.
Il venir meno del primo atteggiamento è dovuto all’abbandono della tradizionale prudenza nella gestione della curva dei rendimenti, tramite un massiccio piano di “buyback” (ossia, di riacquisto) di buoni del Tesoro; quest’ultimo, a fronte di un enorme indebitamento preesistente, ha aggravato il debito statale in modo irrimediabile ed ineluttabile, contribuendo a far precipitare l’economia giapponese nella grave crisi del primo trimestre del 2023.
L’origine di questa mossa va rintracciata nella convinzione della borghesia giapponese alla tendenza alla crescita inflazionistica globale e che l’aderenza alle regole sul comportamento da tenere da ciascuno Stato sarebbe stata la miglior risposta per proteggere il sistema economico nazionale dall’attacco di eventuali speculatori.
Dal punto di vista del mercato del lavoro, questa economia, la cui inflazione ha ora superato il picco ultraquarantennale del 4%, non vede una complessiva crescita dei salari da circa 30 anni. Nel trentennio 1991-2021, stando ai dati OCSE, i lavoratori giapponesi hanno visto accrescere i salari di solo il 5%, rapportato al 34% della media dei lavoratori degli altri paesi del G7. Nel periodo 1990-2021, inoltre, la percentuale di lavoratori costretti a lavorare oltre l’orario stabilito o in orari irregolari è passata dal circa 20% a oltre il 40%.
Il governo diretto da Kishida Fumio intendeva allinearsi ai consigli dei principali economisti statunitensi, ovvero di imporre un ancor più grave immiserimento del proletariato in cambio di un mercato del lavoro più “dinamico”, considerato un beneficio dalla maggior parte del politicantume borghese. Ma, pressato dall’opinione pubblica in un frangente critico per la persistenza dell’emergenza Covid-19 e della posizione sempre più coinvolta del Giappone nello scacchiere dei conflitti interimperialisti tra USA-UK, Cina, e Russia, ha avanzato la proposta di fissare un aumento dei salari nominali del 3%.
Davanti a questa prospettiva, le parti sociali, rappresentate per i lavoratori dalla Confederazione delle unioni sindacali (Rengo), si sono divise, rimanendo tuttavia unitarie nel bocciare la proposta del Governo, considerata irrisoria in confronto all’incisività che sarebbe necessaria per rilanciare l’economia giapponese, soprattutto sul piano dei consumi.
Muovendosi in ordine sparso, diverse compagnie giapponesi (FRCOF, Suntory, ecc.) tentano di precedere l’avanzata autonoma delle rivendicazioni operaie e sindacali, con annunci di miglioramenti salariali di gran lunga superiori, ma sinora rimasti sul piano delle buone intenzioni.
Lungi dal concedere qualsiasi beneficio ai lavoratori, queste compagnie sono in realtà preoccupate da una ripresa della combattività del proletariato, dopo una pausa quasi quarantennale.
(Fine del resoconto della riunione)
Quella delle sanzioni è una storia lunga e travagliata, un atto di forza che dovrebbe risolvere o condurre a soluzione le controversie tra Stati. O usate come minaccia che poi ce ne saranno più gravi. Per la loro natura sono intrinsecamente legate ai rapporti tra Stati nel mondo capitalistico. Si colpiscono gli scambi commerciali, le importazioni e le esportazioni di manufatti e di materie prime, al fine di strangolare i profitti degli Stati, delle borghesie sanzionate.
Nel secolo scorso furono applicate all’Italia per le imprese coloniali, poi alla Germania, senza successo. Nel secondo dopoguerra le sanzioni hanno avuto un utilizzo ampio e variegato, in America Latina, in Medio Oriente, in Asia e sono state quasi sempre, comminate dagli Usa a Stati vassalli riottosi o “non allineati”.
Più o meno severe, hanno sempre colpito in modo drammatico per prime le classi inferiori con privazioni e miseria. Naturalmente chi le impone ha sempre dalla sua la forza politica, militare ed economica per farlo. Che poi riescano a farlo in modo rigoroso, o permettano scappatoie agli Stati sanzionati, è altro discorso. Alle volte sono solo ammonimenti formali, altre crudeli restrizioni per distruggere il tessuto sociale del sanzionato.
* * *
Già in atto dopo l’annessione del febbraio 2014, nel marzo l’Unione Europea vietò le importazioni dalla Crimea e cominciarono a proporsi sanzioni internazionali contro la Russia. Vennero poi applicate con criteri sempre più stringenti in seguito alla “Operazione Speciale” in Ucraina. Ma non ebbero conseguenze rilevabili. Per la Russia i ricavi dell’esportazione di petrolio nell’arco del 2022 non hanno subito gravi ripercussioni, col blocco dell’esportazione di petrolio compensato, anche se parzialmente, dall’importazione di Cina ed India, ma anche da Stati insospettabili, quali l’Arabia Saudita che, pur produttrice, ha aumentato il proprio export lucrando sul minore prezzo pagato ai russi. Anche i fertilizzanti prodotti in Russia, prodotti non soggetti all’embargo almeno fino al termine del 2022, hanno consentito notevoli guadagni.
Il sequestro delle risorse finanziarie russe detenute all’estero, che ha decurtato il tesoro del 40% delle sue riserve, non si è rivelato il colpo fatale alla finanza russa.
L’idea guida che la Russia fosse un’economia poco sofisticata, basata essenzialmente sull’export di materie prime, dipendente dall’estero per le tecnologie essenziali nell’economia ipersviluppata del capitalismo e delle sofisticazioni militari, ha costituito un criterio sul quale sono state fondate molte speranze da parte occidentale. Ma il sistema delle triangolazioni, sia per le importazioni sia per le esportazioni ha aggirato il blocco. Il risultato è stato che tra gennaio e settembre 2022 il saldo commerciale russo ha registrato un attivo di 200 miliardi di dollari. Non male per un’economia soggetta a dure sanzioni!
Insieme alle sanzioni commerciali, al fine di costringere l’invasore alla bancarotta, gli Stati Uniti hanno imposto agli alleati europei e anglofoni un blocco finanziario sempre più stringente. Gli Usa sono i padroni, dall’alto della loro forza militare e finanziaria, dei meccanismi fondamentali della circolazione dei capitali. Il divieto di accesso al sistema di pagamenti internazionali SWIFT, domiciliato in Svizzera ma totalmente controllato dagli USA, per un certo numero di banche russe, via via esteso alle altre, ha prodotto il ricorso ad altri strumenti finanziari, quali “swap valutari”, cioè operazioni tra banche centrali senza usare il dollaro. Molti altri Stati hanno adottato un sistema di pagamento alternativo allo SWIFT, cui ha aderito per prima la Cina, che ha regolato oltre la metà del suo commercio con la Russia in renminbi e rubli.
Inoltre la valuta digitale emessa dalla Cina e detenuta in portafogli elettronici, forma “immateriale” che ha preso il posto della valuta sovrana in tante transazioni finanziarie e commerciali, è un notevole aiuto a violare il blocco finanziario
Hanno poi bloccato le riserve russe detenute dalle banche occidentali, tanto statali quanto di privati, iniziativa mai applicata in precedenza se non in caso di guerra tra le parti: cosa che non risulta formalmente nel conflitto in atto tra Russia ed Ucraina, ma che smaschera, se ce fosse bisogno, la natura vera di questa guerra.
La decisone è stata, al solito, imposta dagli Usa e tutti gli Stati europei si sono accodati. Ma ora sta diventando un’arma a doppio taglio, perché ha causato una emorragia di ritiri da parte degli altri depositanti non occidentali, arabi, asiatici, latino-americani dalle banche svizzere, europee, inglesi ed americane. Una fuga che stanno cercando di tamponare con l’aumento dei tassi di rendimento, l’altra faccia dell’aumento dei tassi di interesse per ridurre l’inflazione. La stessa Cina, grande acquirente nel passato di obbligazioni statali americane, sta fuggendo dai Tresury Bond. La Russia, ovviamente, non può più investire, ed è fuori dal gioco.
* * *
Oggi, dopo un anno di guerra nel cuore dell’Europa, i provvedimenti messi in atto per isolare la Russia dal commercio mondiale e dai meccanismi finanziari occidentali non hanno avuto conseguenze evidenti sul conflitto relativamente alla sua efficienza militare, ma hanno invece prodotto un effetto enorme sull’intero assetto economico europeo e messo in condizioni di straordinario vantaggio economico e produttivo i capitalisti degli Stati Uniti, a cui si sono volenti o nolenti accodati gli alleati sotto il contratto leonino della NATO.
È stato interrotto il legame che univa la Germania, prima economia europea, con la Russia, e l’Europa si è trovata a dipendere quasi totalmente dai prodotti energetici provenienti dall’America, diventata il primo produttore e fornitore mondiale. Gas e petrolio arrivano in grandissime quantità, non certo a costi più bassi di quelli che arrivavano dalla Russia.
Negli USA sono stati estratti nel 2022 12 milioni di barili al giorno, contro 10,6 dell’Arabia Saudita e 10,7 della Russia.
Che poi l’estrazione dagli scisti bituminosi sia una pratica nefasta per l’ambiente nulla conta per il capitalismo, che ha per solo imperativo il profitto.
Questa enorme produzione ha avuto anche un effetto calmieratore sulle quotazioni. Del gas naturale liquido gli USA hanno prodotto più del Qatar e dell’Australia, con l’Europa diventata la prima acquirente. La borghesia degli Stati Uniti è riuscita così a cogliere importanti vantaggi sul piano politico, produttivo e finanziario. Ha rianimato un ramo di produzione, quello degli scisti, che era in difficoltà per i costi crescenti, di estrazione e di distribuzione oltre oceano. Divenuto il GPL assolutamente necessario per l’Europa, ora sono loro a controllare i rubinetti e i prezzi. Intanto i capitali europei non vanno più a ingrassare le finanze russe e prendono la via degli Stati Uniti, che politicamente hanno di nuovo sottomesso al loro imperio l’Europa continentale, che stava assumendo una pericolosa (per loro) deriva verso Est.
È quindi inutile chiedersi chi sia l’autore del sabotaggio dei metanodotti
russo-tedeschi sotto il Baltico.
In questo senso le sanzioni sono state il capolavoro geostrategico americano.
Dei nuovi Piani Marshall e European Recovery Program del secondo dopoguerra ma, a senso e tempi invertiti. Nel ’47 dello scorso secolo la fase storica era di vigorosa ripresa mondiale quando, dopo Grande Depressione del ’29 e una guerra immane, il ciclo di accumulazione capitalistica si era rimesso in moto potente e pervasivo e l’Europa ricostruiva le sue rovine. Con poco più di 14 miliardi di dollari (di allora) in quattro anni gli Stati Uniti si comprarono l’Europa.
Questa attuale è invece la fase storica della crisi generale del capitalismo, e non saranno incentivi statali o manovre finanziarie spericolate a invertirne il segno e a non farla alla fine convergere nella terza guerra imperialistica.
La guerra in Ucraina sta facendo il suo corso, mentre, tanto nel campo economico
quanto in quello finanziario, le sanzioni si aggiungono alla sanzioni.
Il meccanismo non sarà abbandonato, anzi, si estenderà al grande avversario
d’Oriente, la Cina.
* * *
Seppure non assistiamo ancora a capovolgimenti negli assetti imperiali, si evidenzia come lo strapotere della moneta e della potenza americana sia messo in discussione da una parte non piccola di Stati. Ne è un esampio il recente accordo tra nemici giurati Iran ed Arabia Saudita, con la mediazione della Cina, che per gli USA è il vero prossimo avversario nel controllo del mondo.
Dal canto nostro rileviamo potente verifica del nostro assunto di base che il capitalismo, nella sua fase suprema, è destinato necessariamente allo scontro militare tra gli imperi finanziari, se la rivoluzione sociale non lo fermerà nel suo precipizio mortale.
Il segno imperialistico di questo conflitto, da entrambi i lati, ci è perfettamente chiaro. Sui fronti insanguinati soffrono e muoiono proletari ingannati dai miti borghesi della patria e della nazione. Naturalmente la propaganda del regime dell’una e dell’altra parte parla di resistenza, di difesa del sacro patrio suolo.
Di cosa veramente accada nel martoriato corpo sociale ucraino e russo quasi nulla si sa. Il pochissimo che filtra parla di sorda resistenza al macello, conati di ripulsa ma che non si concretizzano in un movimento organizzato. Del resto il movimento operaio internazionale è assente di fronte a questa tragedia, l’unica forza che potrebbe dare una condanna e una rivolta contro il conflitto in nome dell’internazionalismo di classe.
Non ci sono altre possibilità di pace al di fuori di questo indispensabile moto rivoluzionario della classe operaia.
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Abbiamo ascoltato recentemente il patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill dire che la guerra in nome della patria è giusta e doverosa, e che chi muore per la patria ha un posto riservato accanto a Dio. Premettiamo che noi comunisti vorremmo che tale onore e gioia fossero riservati a lui, e non ai proletari russi e degli altri paesi.
La Chiesa cattolica, al di là delle apparenze, non la pensa in maniera diversa. È la propaganda bellica che rappresenta i russi perfidi e guerrafondai, con la loro Chiesa Ortodossa, contrapposti a un Occidente, comprendente la Chiesa cattolica, amante della pace e sempre pronto a mettere i fiori nei cannoni. Cannoni invece sempre oliati e pronti all’uso, nonché impiegati abbondantemente in tutto il mondo, oltre che in Ucraina, ma sempre in nome della pace.
L’unica pace perseguita dai vari capitalismi consiste nell’assenza della guerra di classe condotta dal proletariato: in nome di tale “pace” non arretrano di fronte a nessuna guerra e a nessuna strage.
Che la Chiesa, e in particolare quella cattolica, sia a favore della pace e contro l’uso della violenza è una sciocchezza smentita da 2.000 anni di storia, e anche dai documenti ufficiali della Chiesa stessa. Già con Agostino di Tagaste, con Tommaso d’Aquino e con la seconda Scolastica, si parla di “guerra giusta”.
Venendo a tempi più recenti, tale concezione perdura anche nel XX secolo. Papa Benedetto XV non fa eccezione: con la sua famosa “Nota” del 1° agosto 1917, in cui definisce la guerra “inutile strage”, si rivolge ai vari governanti tentando un’opera di diplomazia, senza mettere in discussione il principio della “guerra giusta”, secondo il quale ai governanti è legittimo dichiarare la guerra. Altrimenti avrebbe potuto revocare l’obbedienza dei cattolici verso i loro governanti, dato che la guerra, ora “inutile strage”, perdeva le caratteristiche di una “guerra giusta”. Naturalmente si guardò bene dal farlo, nonostante i vari governi, compresi quelli cattolici, ignorassero totalmente la sua Nota e in Germania fosse definito “il papa francese”, in Francia “il papa crucco”, in Italia “Maledetto XV”.
Del resto le Chiese cattoliche delle varie nazioni si posero a difesa della patria, ignorando il tentativo diplomatico papale. Nemmeno in Italia i borghesi cattolici seguirono la loro guida, il papa, come i borghesi liberali non seguirono la loro guida, Giolitti. La borghesia italica, come le altre, seguì il suo “richiamo della foresta”, cioè la guerra.
Il papa, in perfetta continuità con i predecessori, considerava la guerra una punizione divina per l’allontanamento dalla vera fede. Per la Chiesa il Male nella storia è apparso in tre forme diverse: la prima il protestantesimo, la seconda l’illuminismo con la rivoluzione francese, la terza, più orribile di tutte, il socialismo. Pio XI, successore di Benedetto XV, considerò giusta la guerra civile spagnola, nonché una crociata contro il comunismo, in cui impartì la benedizione «a quanti si sono assunti il difficile e pericoloso compito di difendere e restaurare i diritti e l’onore di Dio e della Religione».
Nel 1928 la posizione della Chiesa è espressa in un importante manuale di teologia morale, dove leggiamo: «Ai nostri tempi e nelle nostre regioni non compete affatto ai semplici soldati o agli ufficiali inferiori giudicare circa la liceità o l’illiceità della guerra; è infatti del tutto impossibile al privato individuo conoscere tutti i motivi che indussero la cosiddetta diplomazia nazionale a intraprendere una guerra [...] Dunque praticamente ogni soldato o ufficiale subalterno può sospendere il suo giudizio in ordine alla giustizia o ingiustizia della guerra e, se è costretto alla guerra, può andare al combattimento senza alcuno scrupolo di coscienza».
Ma già nel catechismo di Pio X del 1905, che rimpiazzava quello tridentino di Pio V del 1556, leggiamo: «È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si eseguisce per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto; e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa della vita contro un ingiusto aggressore».
Nel catechismo del 1930, redatto in buona parte dal cardinale Pietro Gasparri, non si accenna alla guerra giusta, né al dovere di obbedire all’autorità suprema: «Dio proibisce di arrecare al prossimo la morte o altro danno del corpo o dell’anima, come pure di cooperarvi». Ma alla guerra si accenna pudicamente in una nota: «Ma tutte le leggi e tutti i codici consentono di respingere con la forza contro un ingiusto aggressore, salva però quella moderazione che deve accompagnare ogni giusta difesa».
Anche Pio XII, pur considerando la guerra una punizione divina, ribadisce il concetto di guerra giusta. L’antica e tradizionale dottrina dice che perché una guerra sia “giusta” sono necessarie tre condizioni: legitima auctoritas, che la guerra sia dichiarata dalla legittima autorità, iusta causa, che sia intrapresa per una giusta causa, e debitus modus, che sia condotta con modi proporzionati al fine. Ovviamente l’autorità legittima, che in passato era quella romana imperiale, è ora quella dello Stato borghese.
Pio XII, in un discorso del 4 settembre 1940 ai dirigenti dell’Azione Cattolica italiana, dice: «Siccome non è potestà se non da Dio, e quelle che sono, sono da Dio ordinate, rendano gli iscritti all’Azione Cattolica il debito rispetto e prestino la leale e coscienziosa obbedienza alle Autorità civili e alle loro legittime prescrizioni [...] Per tal modo i soci dell’Azione Cattolica, la quale non è e non vuol essere un’associazione di partito, bensì un’eletta di esempio e fervore religioso, dimostreranno di essere non solo ferventissimi cristiani, ma anche perfetti cittadini, non estranei agli alti compiti della convivenza nazionale e sociale, amanti della patria e pronti a dare per essa anche la vita, ogni qualvolta il legittimo bene del Paese riecheggia questo supremo sacrificio».
Infatti nella seconda guerra mondiale i cristiani delle varie confessioni hanno continuato ad obbedire alle “legittime autorità”. Ci sono state alcune eccezioni, molto limitate, come La Rosa Bianca tra i cattolici tedeschi o Dietrich Bonhoeffer tra i luterani; eccezioni degne di rispetto, ma insignificanti da un punto di vista storico e di classe. Bonhoeffer, che partecipò a un attentato contro Hitler, e Camilo Torres, il prete guerrigliero, almeno avevano accettato di opporre alla violenza dei proprietari e del potere politico un’altra violenza.
Il papa polacco, in visita in America latina, trattò molto duramente gli esponenti della “teologia della liberazione”. Aveva ragione lui nel sostenere che cristianesimo e marxismo sono inconciliabili. Ciò che spaventava il papa e la Chiesa ufficiale era però il secondo, non il primo.
La seconda guerra mondiale, con l’irrompere delle armi atomiche, poco ha cambiato il tono delle gerarchie ecclesiastiche. Il cardinale Alfredo Ottaviani, prosegretario del Santo Uffizio, nel 1958 scrive: «Non sarà mai lecito dichiarare guerra per pretendere i propri diritti; anzi non si dovrà intraprendere nessuna guerra difensiva, a meno che l’autorità legittima, cui spetta deciderla, insieme alla certezza della vittoria, non abbia motivazioni sicure sulla superiorità del bene che si procura al popolo attraverso la guerra difensiva, al di sopra di quegli immensi mali che dalla guerra deriveranno al popolo e a tutto il mondo».
Alcuni teologi cattolici si rendevano conto che la “guerra giusta”, che tra l’altro non faceva nessuna distinzione tra guerra difensiva e offensiva, poteva essere invocata da tutti e per tutte le cause. Con il Concilio Vaticano II il concetto di guerra giusta viene abbandonato, per il momento, ma senza arrivare alle logiche conseguenze, in quanto l’obbedienza alla “legittima autorità” non viene messa in discussione. Nell’enciclica “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, nel 1963, al punto 67 titolato “Segni dei tempi” leggiamo: «Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato. Vero è che sul terreno storico quella persuasione è piuttosto in rapporto con la forza terribilmente distruttiva delle armi moderne; ed è alimentata dall’orrore che suscita nell’animo anche solo il pensiero delle distruzioni immani e dei dolori immensi che l’uso di quelle armi apporterebbe alla famiglia umana. Per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia».
Ma già con l’enciclica “Gaudium et spes” di Paolo VI, nel 1965, se non c’è un esplicito ritorno alla “guerra giusta” c’è però la giustificazione delle guerre difensive e la ubbidienza ai capi degli Stati. Nel capitolo V, sezione 1 “Necessità di evitare la guerra”, punto 79, ”Il dovere di mitigare l’inumanità della guerra”, leggiamo: «La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa. I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza. Ma una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. La potenza delle armi non rende legittimo ogni suo uso militare o politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto. Coloro poi che al servizio della patria esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli; se rettamente adempiono al loro dovere, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace».
Anche la “obiezione di coscienza”, di cui pure si parla negli anni del Concilio, non significa rifiuto della guerra, ma possibilità di “servire la patria” con altri mezzi e non con le armi, ovviamente senza arrecare disturbo ai non obiettori. Nel 1991 i gesuiti di “Civiltà Cattolica” scrissero un articolo, voluto da Giovanni Paolo II, sostenendo che la guerra non è in alcun modo permessa. Ma tale papa, ennesimo “dottor sottile”, si dichiarò contrario alla “guerra”, ma non ai “conflitti armati”, giustificati in caso di legittima difesa e di ingerenza umanitaria. Giovanni Paolo II fu contrario alla guerra del golfo, ma fu anche il papa che si affacciò alla finestra del Vaticano con alle spalle un soldato croato in uniforme, manifestando quindi un pieno e chiaro appoggio a una delle parti in causa nella ignobile guerra imperialista che stava travolgendo la ex-Jugoslavia. Il Vaticano fu anche il primo Stato a riconoscere l’indipendenza della Croazia. Nonostante le “novità” del Concilio la posizione della Chiesa cattolica sulla guerra manifestava una sostanziale continuità dal suo catechismo del 1905 a quello del 1992.
Continuità che troviamo anche nel Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, opera dell’allora cardinale Ratzinger, del 2005: «L’uso della forza militare è moralmente giustificato dalla presenza contemporanea delle seguenti condizioni: certezza di un durevole e grave danno subito; inefficacia di ogni alternativa pacifica; fondate possibilità di successo; assenza di mali peggiori, considerata l’odierna potenza dei mezzi di distruzione. (La valutazione delle condizioni necessarie perché una guerra possa essere definita “morale”) spetta al giudizio dei governanti, cui compete anche il diritto di imporre ai cittadini l’obbligo della difesa nazionale, fatto salvo il diritto personale all’obiezione di coscienza, da attuarsi con altra forma di servizio alla comunità umana».
Veniamo infine all’attuale papa Francesco e alla sua enciclica “Fratelli tutti” del 3 ottobre 2020, al punto 258: «È così che facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune “rigorose condizioni di legittimità morale”. Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano “mali e disordini più gravi del male da eliminare”. La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, “mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene”. Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!».
Anche per il papa quindi il concetto di “guerra giusta” può essere stiracchiato da tutte le parti, come quello di “legittima difesa”, benché riconosca che anche questa può essere invocata a giustificazione di tutte le guerre.
Le Chiese ortodosse sono autocefale, ognuna ha il suo capo, per cui quasi sempre si identificano con il proprio Stato e con il suo sciovinismo. Anche la Chiesa anglicana si identifica con la propria nazione; anche le Chiese protestanti, col tempo, si sono organizzate nazionalmente.
La Chiesa cattolica ha un’autorità centrale, il papato, che non si identifica con i singoli Stati, e può agire quindi come un grande centro diplomatico mondiale. Ma le Chiese cattoliche delle singole nazioni, come mostrato da due guerre mondiali, in caso di guerra ignorano ciò che dice il papa e seguono la propria patria. Talvolta la guidano anche. La Chiesa cattolica ucraina è in prima fila nel sostenere la “guerra patriottica” contro la Russia, esattamente come la Chiesa ortodossa russa dall’altra parte.
Nell’epoca dell’imperialismo tutte le guerre sono guerre imperialiste; non ha senso distinguere tra guerra di difesa e di offesa. Tutti si difendono: l’Ucraina si difende dall’imperialismo russo, La Russia si difende dal più forte imperialismo statunitense che ha portato la Nato fino ai suoi confini. Con l’Ucraina nella Nato, la Russia avrebbe i soldati e le armi americane a trecento chilometri da Mosca, con davanti un territorio senza barriere naturali: per la Russia sarebbe la fine.
Non esiste un imperialismo migliore di un altro, perché più debole o più “progressista”. È una guerra tra cosche mafiose. Ci vengono a dire che una cosca è stata vilmente aggredita, che dobbiamo intervenire a favore degli aggrediti, che lo vuole la Giustizia, il Diritto, e anche Dio. Questo dicono i preti, i pennivendoli e i politici borghesi, venduti all’imperialismo più forte, ma sempre pronti a cambiare padrone quando il vento cambia.
Se le guerre sono tutte difensive, al tempo stesso sono tutte offensive nei confronti del vero nemico di tutti gli Stati e di tutte le borghesie: il proletariato. Come la storia ha ampiamente dimostrato, quando il proletariato si muove, e non è più disposto a fare da carne da cannone per le rispettive patrie, gli Stati fermano tutte le guerre che li oppongono, e come un sol uomo si gettano sul loro vero e mortale nemico: il proletariato rivoluzionario.
Resta confermato che per le Chiese 1) spetta alla “legittima autorità“ giudicare se una guerra è “giusta”; 2) i cittadini-soldati le devono sempre cieca ubbidienza. Nessuno può pretendere di più da un papa!
E potremmo essere anche noi d’accordo, in una visione generale di storiche guerre fra Stati di classe, al di fuori di vuoti pacifismi. Anche la “legittima autorità“ dello Stato della dittatura comunista deciderà le sue guerre “giuste”, e dovrà inquadrare militarmente i proletari a sua difesa. Noi comunisti non abbiamo niente a che spartire con le concezioni di quella parte, minoritaria, del mondo cristiano che parla di non-violenza, di pacifismo e di abbandono anche della “guerra giusta”. La nostra considerazione sulla giustezza di una guerra non è morale ma storica e di classe. Il giusto non è un astratto ma un derivato del maturare della lotta fra le classi.
Anche noi siamo per la “guerra giusta”. A differenza della Chiesa cattolica, per
cui possono esserci guerre “giuste” o “ingiuste”, per noi una guerra è sempre e
sola giusta: la guerra di classe.
Un morbo tra i tanti che si è impadronito della piccola borghesia oltre che, ahinoi, del proletariato, è la superstizione della legalità. I borghesucci ripetono convinti che tutti i problemi sociali dipendono dal fatto che abbiamo una classe dirigente di ladri ed incapaci, per cui basterebbe sostituirli con altri onesti e capaci e avremmo risolto tutti i problemi. L’impero della legge e del diritto sarebbe il taumaturgo che guarirebbe tutti i mali. In questa visione le classi sociali o non esistono o non hanno comunque alcuna importanza..
Questa concezione, presentata come moderna, è in realtà antichissima, e dimentica che già nel IV secolo a.C. i sofisti greci avevano definito la giustizia come “l’utile del più forte”.
Non neghiamo che esistano dei borghesi onesti e in buona fede, anche se probabilmente sono pochissimi, ma ciò non li rende meno pericolosi e feroci nei confronti del proletariato: sono l’imbiancatura di un sepolcro che nasconde la vista e il fetore dei cadaveri.
I politici borghesi sanno bene che la legge e il diritto di cui parlano non hanno alcun significato, che essi non fanno altro che obbedire ai voleri della propria borghesia, e a quelli dell’imperialismo cui soggiacciono. Il loro ruolo è quello di Ponzio Pilato, di esecutori delle volontà imperiali, a cui la sorte dei poveri cristi non può interessare: anche se ne provassero pietà, ciò avrebbe un’importanza secondaria di fronte alla propria funzione e alla propria carriera.
Prima di disobbedire alle volontà imperiali e di trovarsi un nuovo padrone ci penseranno cento volte: per quanto riguarda l’Italia, la sorte di Enrico Mattei e di Aldo Moro mostra loro cosa li aspetta. La borghesia stabilisce le regole del gioco, dà le carte, e se questo non basta a vincere, bara. Il proletariato non può accettare né le regole del gioco (la legge e il diritto della borghesia), né il mazzo di carte truccate (lo Stato presunto neutrale della borghesia).
Per l’ideologia borghese più banale e diffusa i rapporti di classe, ammesso che siano da prendere in considerazione, sono aspetti del tutto accessori: tutto dipende dalla capacità o incapacità della classe politica, dal capitalismo finanziario cattivo che prevale sul capitalismo produttivo buono, dall’opera di servizi segreti “deviati”.
È scontato che per i vari Ponzio Pilato borghesi, come non vale nulla la vita dei proletari non vale nulla neanche la vita dei singoli borghesi, né quella di militari e poliziotti che difendono il loro Stato. Ricordiamo un evento tra tanti, la strage di Peteano, vicino Gorizia, nel 1972. In quel caso saltarono in aria tre carabinieri mandati a controllare un’auto imbottita di tritolo. Fatto raro ci fu anche una condanna definitiva nei confronti di un generale e di due colonnelli degli stessi carabinieri, per depistaggio a favore degli autori della strage. L’esplosivo secondo un giudice proveniva da un deposito segreto dell’organizzazione “Gladio” e quindi della Nato. Come è noto i servizi segreti italiani non vanno neanche in bagno senza essere accompagnati dal papà d’oltreoceano, per cui non è difficile trarre le conclusioni.
E che dire poi dell’agente di polizia Antonio Marino ucciso a Milano il 13 aprile del 1973 da una bomba a mano lanciata dai fascisti durante una manifestazione non autorizzata dell’MSI alla quale prendeva parte in qualità di organizzatore anche l’attuale presidente del Senato? Non ci stupisce che il povero agente sia scomparso dai martirologi mediatici per non imbarazzare il principale partito di governo che dell’MSI è l’erede e il prosecutore.
Noi certo non siamo partigiani della legalità dei borghesi, né ci sentiamo leali nei confronti di quell’ordinamento istituzionale dello Stato di classe capitalista che altro non è che infamia e barbarie.
Nella società capitalistica l’unica vita che conta è quella del capitale. L’unica legge è quella del suo accrescimento. L’unico diritto realmente esistente è quello della forza al servizio della classe dominante, che si riflette nel mantenere sottomesso il suo unico e mortale nemico: il proletariato.
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Il testo che ripubblichiamo è l’adattamento di uno studio che apparve la prima volta nel 1990 su “La Gauche Communiste”, numeri 18-19, 20-21 e 22-23, poi tradotto in italiano su “Il Partito Comunista” nei numeri 187-195 del 1990, infine in lingua inglese in “Communist Left”, dal numero 4 del 1991 al numero 25-26.
* * *
Il 23 febbraio 1919 su “Il Soviet”, l’organo di stampa della Frazione Comunista Astensionista (ancora la scissione all’interno del Partito Socialista Italiano non si era verificata) venne pubblicata una breve nota, ma con un titolo estremamente significativo: “Il Bolscevismo, pianta d’ogni clima”. Nell’articolo si metteva in evidenza come il bolscevismo non fosse un fenomeno solo russo, ma internazionale, perché bolscevismo e marxismo rivoluzionario erano la stessa cosa.
«Per combattere il pregiudizio patriottico e il sofisma della difesa nazionale noi non abbiamo atteso che Lenin e i bolscevichi, nostri compagni di fede e di tendenza da lunghi anni, riuscissero a trionfare in Russia; e anche senza il loro glorioso e luminoso esempio, il giorno che le vicende storiche ci avessero portato alla vittoria, avremmo fatto come loro hanno fatto. Appunto perché noi ed essi lavorammo e lavoriamo per lo stesso programma, per la lotta di classe che nega la solidarietà nazionale, per il socialismo rivoluzionario, per la conquista del potere e per la dittatura dei lavoratori, dei senza-patria. Perché questa dottrina e questo metodo non furono improvvisati nel 1917 [...] ma fin dal 1847 erano stati proclamati dall’Internazionale Socialista; e noi che, come l’ala sinistra dei socialdemocratici russi, siamo stati e siamo contro tutte le posteriori revisioni del marxismo, a quel programma ci siamo ispirati [...]
«Il bolscevismo vive in Italia, e non come articolo d’importazione, perché il socialismo vive e lotta ovunque vi sono sfruttati che tendono alla propria emancipazione.
«In Russia esso ha fatto la sua prima grandiosa affermazione, e noi, ritrovando negli svolgimenti formidabili della rivoluzione russa intero il nostro programma, abbiamo scritta in testa a queste colonne la magica parola slava: SOVIET, assurta a simbolo della Rivoluzione internazionale».
E quanto scritto nell’articolo era confermato dai fatti.
Nel turbine della prima guerra mondiale che coinvolse praticamente tutti i partiti della Seconda Internazionale e le grandi confederazioni sindacali, se in Italia il Partito Socialista si salvò dal precipitare nell’aperto tradimento non fu tanto per merito suo, quanto per opera della borghesia nazionale che, non avendo ancora deciso a quale delle due coalizioni belligeranti vendere la carne dei propri proletari, si era dichiarata, inizialmente, neutrale. Dapprima, eccettuato uno sparuto numero di nazionalisti, il popolo italiano, di ogni classe sociale, si era schierato per la neutralità.
Intanto la diplomazia borghese apriva trattative con entrambe le coalizioni belligeranti cercando di strappare i maggiori vantaggi possibili. Non contenta delle offerte degli austro-tedeschi, con i quali era legata da patto di alleanza, finì con l’entrare in guerra a fianco della opposta coalizione, siglando il 26 aprile 1915 il “Patto di Londra”. Questi eventi furono preceduti da una intensa campagna interventista in cui un ruolo della massima importanza ebbe colui che fino a pochi giorni prima era stato riconosciuto come il capo della corrente intransigente rivoluzionaria: Benito Mussolini.
Dopo aver opportunisticamente tergiversato, trattenuto dall’ala sinistra del partito, Mussolini passava apertamente al nemico di classe e fondava un suo giornale, “Il Popolo d’Italia”. Naturalmente presentò la sua adesione alla guerra come fatto “rivoluzionario”, che avrebbe aperto la strada dell’emancipazione dei lavoratori. Non è piacevole ammetterlo, ma a questa tesi aderirono sia Antonio Gramsci sia Palmiro Togliatti, futuri dirigenti del Partito Comunista d’Italia in via di degenerazione.
Però solo una insignificante minoranza degli iscritti al partito seguì Mussolini, la stragrande maggioranza si astenne dall’aderire alla guerra. Si disse che il Partito Socialista Italiano si era “salvato l’anima” per non avere aderito alla guerra. Ma la “non adesione”, quando non sia accompagnata da una vigorosa opposizione, non è che una ipocrita maschera che lascia allo Stato capitalista e alla borghesia ogni libertà di inquadrare militarmente il proletariato e mandarlo al macello nei campi di battaglia.
La equivoca formula di Lazzari, fatta propria dalla Direzione del partito a guida “rivoluzionaria”, del “né aderire, né sabotare la guerra”, di fatto non rappresentava altro che la capitolazione del partito nei confronti delle necessità dell’imperialismo nazionale.
A questa linea conciliativa si oppose l’ala intransigente del partito, che in seguito si organizzerà nella Frazione Astensionista.
Scriverà la Frazione Comunista Astensionista all’Internazionale Comunista in una prima lettera il 10 novembre 1919:
«Durante tutto il periodo della guerra vi fu in seno al Partito un forte movimento estremista che si opponeva alla politica troppo debole del gruppo parlamentare, della Confederazione Generale del Lavoro – perfettamente riformisti – e della stessa Direzione del Partito, sebbene fosse rivoluzionaria intransigente secondo le decisioni dei Congressi di prima della guerra. La Direzione è sempre stata divisa in due correnti di fronte al problema della guerra; la corrente di destra faceva capo a Lazzari, autore della formula “né aderire né sabotare la guerra”; la corrente di sinistra a Serrati, direttore dell’“Avanti!”. In tutte le riunioni tenute durante la guerra le due correnti si presentavano però solidali tra loro, e pur facendo riserva sul contegno del gruppo parlamentare non si mettevano decisamente contro di esso. Elementi di sinistra estranei alla Direzione lottavano contro questo equivoco prefiggendosi di scindere dal Partito i riformisti del gruppo e assumere un atteggiamento più rivoluzionario».
Al terzo congresso del PCd’I, a Lione nel 1926, quando ormai la direzione del partito era nelle mani dei Gramsci e dei Togliatti, dovemmo ricordare come «durante la guerra mondiale, se tutto il partito, o quasi tutto [riferimento questo a Gramsci e Togliatti, ndr], si oppose contro una politica di unione sacra, ancora meglio si ravvisò nel suo seno l’opera di una ben individuata estrema sinistra la quale nei convegni di Bologna (maggio 1915), di Roma (febbraio 1917), di Firenze (novembre 1917) e al Congresso di Roma del 1918 sostenne direttive leniniste come la negazione della difesa nazionale e il disfattismo, l’utilizzazione della disfatta per la impostazione del problema del potere, la lotta incessante e la richiesta di espulsione dal partito contro i capi opportunisti, sindacali e parlamentari.
«Subito dopo la guerra la direttiva dell’estrema sinistra si concretò nel giornale “Il Soviet” che fu il primo ad impostare e difendere le direttive della rivoluzione russa negandone le interpretazioni antimarxiste [Allusione all’Articolo di Gramsci “La rivoluzione contro il Capitale” del gennaio 1918, ndr], opportuniste, sindacaliste e anarcoidi, e ponendo correttamente i problemi essenziali della dittatura proletaria e del compito del partito, sostenendo fin dal primo momento la scissione del partito socialista».
Nel marzo 1919 si tenne in Russia il primo congresso della Terza Internazionale. Nessun rappresentante della nostra Frazione fu allora in grado di partecipare a quello storico incontro, però fu presente nel 1920 al secondo, vero congresso di fondazione, dove svolse un ruolo importante dando un notevole contributo dal punto di vista sia teorico sia tattico.
Ma già all’indomani del primo congresso di Mosca la Frazione Comunista Astensionista aveva tentato di mettersi in contatto con la Terza Internazionale inviando due successive lettere, unite alla collezione de “Il Soviet”; la prima, che abbiamo ricordato, in data 10 novembre 1919, la seconda il 10 gennaio 1920. Sfortunatamente nessuna delle due arrivò a destinazione perché furono intercettate dalla polizia.
La Frazione si presentava con queste parole: «La nostra frazione si è costituita dopo il congresso di Bologna del Partito Socialista Italiano (6-10 ottobre 1919) ma aveva iniziato prima la sua propaganda a mezzo del giornale “Il Soviet” di Napoli, indicendo quindi un convegno a Roma il 6 luglio 1919 nel quale venne approvato il programma poi presentato al Congresso [...] Dopo la guerra, apparentemente tutto il Partito prese un indirizzo “massimalista” aderendo alla Terza Internazionale. Il contegno però del Partito non fu soddisfacente dal punto di vista comunista. [Qui la lettera rimanda alla lettura dei giornali allegati, ndr].
« [...] Subito noi, con altri compagni di tutta Italia, ci orientammo verso l’astensionismo elettorale, che abbiamo sostenuto al congresso di Bologna. Desideriamo sia chiaro che al Congresso ci siamo divisi da tutto il resto del Partito non solo sulla questione elettorale, ma anche su quella della scissione del Partito [...]
«La frazione “massimalista elezionista”, vincitrice al Congresso, aveva anche essa accettata la tesi della incompatibilità della permanenza nel Partito dei riformisti, ma vi rinunziò per considerazioni puramente elettorali nonostante i discorsi anticomunisti di Turati e Treves».
Esaminando la questione parlamentare la lettera così continuava: «La democrazia parlamentare nei paesi occidentali assume forme di tale carattere che costituisce l’arma più formidabile per la deviazione del movimento rivoluzionario del proletariato [...] La sinistra del nostro partito fin dal 1910-1911 è impegnata nella polemica e nella battaglia contro la democrazia borghese, e questa esperienza conduce a concludere che nell’attuale periodo rivoluzionario mondiale deve essere troncato ogni contatto col sistema democratico [...] Noi diamo importanza alla questione dell’azione elettorale e pensiamo che non sia conforme ai principi comunisti lasciare la decisione in merito ai singoli partiti aderenti alla III Internazionale. Il Partito comunista internazionale dovrebbe esaminare e risolvere tale problema».
Riguardo al Partito era specificato: «Oggi noi ci prefiggiamo di lavorare alla costituzione di un partito veramente comunista, e per ciò lavora la nostra frazione nel seno del P.S.I. [...] Occorre notare che non siamo in rapporti di collaborazione coi movimenti fuori dal partito: anarchici e sindacalisti, perché seguono principi non comunisti e contrari alla dittatura proletaria, anzi essi accusano noi di essere più autoritari e centralizzatori degli altri massimalisti del partito. Vedete le polemiche su Il Soviet».
L’“Avanti!” il 30 o 31 dicembre 1919 (a seconda delle sue edizioni locali) riportava una lettera di Lenin indirizzata ai comunisti tedeschi. Nella sua lettera Lenin ribadiva la necessità della lotta contro tutte le deviazioni dal marxismo rivoluzionario, comunque camuffate. «Gli Scheidemann, i Kautsky, i Federico Adler – qualunque sia la differenza fra quei signori dal punto di vista della onestà personale – si sono mostrati dei piccolo-borghesi, dei traditori del proletariato, degli alleati della borghesia. Hanno sottoscritto tutti il manifesto del 1912 di Basilea nella imminenza della guerra imperialistica, parlavano tutti di “rivoluzione proletaria” e tutti ci si presentano oggi come dei democratici piccolo-borghesi, degli alabardieri della repubblica borghese, degli illusionisti della democrazia, degli aiutanti della borghesia controrivoluzionaria [...] Attraverso la critica diretta e franca noi giungeremo presto a spazzare via in ogni paese, per mezzo della massa operaia educata marxisticamente, tutti i traditori del socialismo, giacché ve ne sono in tutti i paesi».
Nella stessa lettera Lenin ribadiva tanto il concetto della necessità della partecipazione parlamentare, quanto di non uscire dai sindacati gialli per quanto reazionari fossero, ma ammetteva che «le diversità di opinioni tra comunisti [...] sono differenze fra i rappresentanti di uno stesso movimento che cresce in modo incredibile [...] Sopra una simile base le diversità di opinione non sono un pericolo. Sono la crisi di crescita e non la debolezza della vecchiaia». Inoltre ribadiva l’assoluta necessità di «unire il lavoro illegale con il legale, di dare un sistematico e forte controllo dell’attività legale per mezzo del Partito illegale e delle sue organizzazioni».
La seconda lettera che la Frazione Astensionista indirizzò alla Terza Internazionale prendeva spunto proprio dall’appello di Lenin:
«Scopo della presente lettera è il sottoporvi alcune osservazioni alla lettera del compagno Lenin ai comunisti tedeschi che l’Avanti! del 31 dicembre 1919 riportava dalla Rote Fahne del 20, per chiarirvi bene quale sia il nostro atteggiamento politico [...] Il partito [socialista] italiano non è un partito comunista e nemmeno rivoluzionario; la stessa maggioranza “massimalista elezionista” è piuttosto sul terreno degli indipendenti tedeschi. Noi al congresso [di Bologna, ndr] ci dividemmo da essa non solo per la tattica elettorale ma altresì per la proposta di esclusione dal partito dei riformisti capitanati da Turati»
Riguardo alle critiche rivolte da Lenin ai “sinistri” tedeschi, la Frazione chiariva: «Programmaticamente il nostro punto di vista non ha nulla a che fare con l’anarchismo e il sindacalismo. Siamo fautori del partito politico marxista forte e centralizzato di cui parla Lenin, anzi siamo i più tenaci assertori di questa concezione nel campo massimalista. Non sosteniamo il boicottaggio dei sindacati economici ma la loro conquista da parte dei comunisti, e le nostre direttive sono quelle che leggiamo in una relazione del compagno Zinoviev al Congresso del Partito comunista russo pubblicata dall’Avanti! del 1° gennaio».
Riportiamo per intero la parte della lettera dedicata alla posizione della Frazione su elezionismo e parlamentarismo:
«Siamo per la partecipazione alle elezioni di qualunque rappresentanza della classe lavoratrice a cui prendono parte solo lavoratori. Siamo invece apertamente avversi alla partecipazione dei comunisti alle elezioni pei parlamenti, consigli comunali o provinciali o costituenti borghesi, perché riteniamo che in tali organismi non sia possibile fare opera rivoluzionaria, e crediamo che l’azione e la preparazione elettorale ostacolino la formazione nella massa lavoratrice della coscienza comunista e la preparazione alla dittatura proletaria in antitesi alla democrazia borghese.
«Partecipare a tali organismi ed evitare le deviazioni socialdemocratiche e collaborazioniste, è una soluzione che non esiste in realtà nell’attuale periodo storico [...]
«L’intransigenza parlamentare era realizzabile, sempre però tra continui urti e difficoltà, in periodo non rivoluzionario, quando non si prospettava possibile la conquista del potere da parte della classe operaia; e le difficoltà dell’azione parlamentare sono tanto maggiori quanto più il regime e la composizione del parlamento stesso hanno tradizionale carattere democratico. È con questi criteri che noi giudicheremmo i confronti colla partecipazione dei bolscevichi alle elezioni della Duma dopo il 1905.
«La tattica seguita dai compagni russi di partecipare alle elezioni per la Costituente e poi di sciogliere colla forza questa stessa assemblea, anche se non ha costituito una condizione sfavorevole al successo, sarebbe pericolosa in paesi dove la rappresentanza parlamentare, anziché essere una formazione recente, è un istituto costituito saldamente da molto tempo e radicato nella coscienza e nelle abitudini dello stesso proletariato [...]
«Contrapponiamo alla attività elettorale la conquista violenta del potere politico da parte del proletariato per la formazione dello Stato dei Consigli, e quindi il nostro astensionismo non discende dalla negazione della necessità di un governo rivoluzionario centralizzato».
Si fa poi riferimento al Partito Socialista Italiano: «Le elezioni generali del 16 novembre, pure svolte da parte del P.S.I. sulla piattaforma del massimalismo, hanno ancora una volta provato che l’azione elettorale esclude e fa dimenticare ogni altra attività e soprattutto ogni attività illegale. In Italia il problema non è di unire azione legale ad azione illegale, come Lenin consiglia ai compagni tedeschi, ma di cominciare a diminuire l’attività “legale” per iniziare quella “illegale”, che manca affatto».
La lettera si concludeva con l’affermazione che «se finora siamo rimasti nel P.S.I. disciplinati alla sua tattica, tra poco tempo [...] la nostra frazione si separerà dal partito che vuol tenere nel suo seno molti anticomunisti, per costituire il partito comunista italiano, il cui primo atto sarà quello di mandarvi la sua adesione alla Internazionale Comunista» (11 gennaio 1920).
La Frazione Comunista Astensionista partecipò al secondo Congresso dell’Internazionale dove ebbe un ruolo della massima importanza. Ne “Il Soviet” del 5 novembre 1920 leggiamo: «I deliberati del Congresso di Mosca concordano pienamente con quanto la nostra frazione ha sempre sostenuto sulla necessità di creare un partito veramente comunista, sulle funzioni e la costituzione di questo partito e sui suoi rapporti colla Terza Internazionale. Così pure concordano perfettamente con quanto da noi è stato sostenuto sulla questione dei soviet, facendo implicitamente giustizia sommaria del deliberato, da noi combattuto, del PSI di costruirli fin da ora».
È vero, sulla questione del parlamentarismo non ci fu accordo, ma si trattò, allora, di divergenza puramente tattica e la Frazione, pur ribadendo la propria posizione, non esitò ad accantonare l’astensionismo. Infatti l’azione parlamentare prospettata dalla Terza Internazionale non aveva niente a che vedere con il parlamentarismo socialdemocratico e collaborazionista.
«La tesi votata a Mosca ribadisce come premessa il concetto fondamentale che il parlamentarismo è un sistema di governo borghese, che non può costituire la forma dello Stato proletario, che non può essere conquistato dal di dentro ma spezzato insieme con gli altri organi congeneri e locali per essere sostituiti dai soviet centrali e locali ecc. Questa valutazione del parlamentarismo risponde precisamente a quanto al riguardo ha costantemente sostenuto la nostra frazione, la quale ha tenacemente insistito perché essa fosse accettata anche dalla maggioranza del partito [...] La tesi di Mosca rileva giustamente che il metodo fondamentale della lotta contro il potere politico della borghesia è quello dell’azione di massa che si trasforma in lotta armata, come sempre abbiamo sostenuto noi, e relega l’azione parlamentare ad essere subordinata agli scopi dell’azione extraparlamentare, considerando la tribuna parlamentare come uno dei punti di appoggio, ossia una posizione legale che il partito, che dirige le azioni di massa, ovvero la lotta armata, deve costituire alle spalle del proletariato in lotta. Ciò è profondamente diverso e avverso a quanto ha fatto, prima e dopo Bologna, il PSI, il cui epicentro è restato sempre e unicamente l’azione parlamentare, che domina e guida tutta la lotta politica» (“Il Soviet”, 5 novembre 1920).
Questo a dimostrazione di come, anche su questo problema, se la valutazione tattica differiva, quella dei principi coincideva perfettamente. Quindi le tesi sul parlamentarismo adottate al secondo Congresso Internazionale non rappresentarono una sconfitta per la nostra Frazione, al contrario confermano quanto da noi affermato, perché stabilivano fino a che punto la funzione parlamentare poteva essere utilizzata ai fini dell’azione rivoluzionaria e ribadivano che la lotta per la conquista del potere si gioca fuori dall’azione parlamentare.
Chiarito questo aspetto, è da mettere in evidenza il ruolo avuto dalla Frazione italiana in una questione molto più importante: la determinazione delle cosiddette “21 condizioni” di adesione.
Su questo cruciale sbarramento si svolse un dibattito notevole. Mentre quasi tutti gli oratori accampavano delle particolarità dei propri paesi, che facevano loro accettare “tutto”, ma “con riserva”, il nostro delegato, al contrario, parlò nel senso di chiedere la massima severità in delle universali condizioni di ammissione: l’adesione avrebbe dovuto essere totale e senza riserve, nei campi tanto della teoria quanto dell’azione. La Frazione Astensionista riconobbe, forse unica fra i partecipanti, l’importanza capitale del secondo Congresso internazionale. Il suo portavoce affermò: «Esso deve difendere e assicurare i principii fondamentali della Terza Internazionale. Quando, credo nell’aprile 1917, il compagno Lenin tornò in Russia e tracciò le grandi linee del nuovo programma del Partito Comunista, parlò anche di ricostituzione dell’Internazionale. Disse che quest’opera doveva poggiare su due basi essenziali: bisognava da un lato eliminare i socialpatrioti, dall’altro eliminare i socialdemocratici, quei socialisti della Seconda Internazionale che ammettevano la possibilità dell’emancipazione del proletariato senza una lotta di classe spinta fino al ricorso alle armi, senza la necessità di realizzare la dittatura del proletariato dopo la vittoria nel periodo insurrezionale».
Il nostro rappresentante notò come la vecchia distinzione tra “riformisti” e “rivoluzionari” fosse ormai superata, perché ormai tutti quanti si professavano “rivoluzionari”. Passata ormai la guerra era facile affermare che “in futuro” non si sarebbe più ricaduti nell’errore della difesa nazionale. La stessa cosa si poneva per l’adesione da parte dei centristi al potere dei soviet, alla dittatura del proletariato, etc., nella speranza che la rivoluzione non avvenisse, e senza far niente per realizzarla. Sarebbe stato quindi un grave errore accoglierli nella nuova Internazionale.
Il nostro compagno ribadì la necessità del massimo rigore nell’applicazione delle 21 Condizioni proponendo quello che divenne poi il ventunesimo punto: «Quei membri del Partito che respingono per principio le Condizioni e le Tesi formulate dall’Internazionale Comunista devono essere espulsi dal Partito. Lo stesso vale specialmente per i delegati al Congresso straordinario».
Però, malgrado le condizioni di ammissione fossero ancor meglio precisate e completate, i nostri compagni non si facevano soverchie illusioni: «il senso della discussione fu che in massima i “ricostruttori” potranno entrare sotto certe garanzie nell’Internazionale. È nostra opinione che in certi paesi, e soprattutto in Francia, vi è il pericolo dell’entrata di elementi troppo destri» (“Il Soviet”, 3 ottobre 1920).