Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 422 - maggio -giugno 2023

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Aggiornato al 24 aprile 2023

organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Primo Maggio 2023: CONTRO IL MILITARISMO BORGHESE PER LA DIFESA INCONDIZIONATA DELLA CLASSE OPERAIA
– In Francia la lotta generale di classe travolge i bonzi della Cgt
La crisi bancaria, fallimento del regime del capitale, assedia tutti i santuari della finanza: Negli Stati Uniti - Tasso di interesse e crisi delle banche - Le premesse della crisi in USA - Il crollo della Silicon Valley Bank - Le conseguenze del crollo - A scala mondiale - Alchimie finanziarie - Il crollo del Credit Suisse - Una crisi generale del sistema bancario - I comunisti e la crisi del capitale
PAGINA 2 Cina e Russia unite contro gli USA non per amore ma per forza: Il “pacifico” multilateralismo cinese di oggi prepara la guerra di domani
70 anni di conflitti regionali e imperiali sul Golfo Persico
Per il sindacato di classe – Miraggio del salario minimo per deviare la combattività operaia
– A Portland, in Oregon: Una Rete per la Lotta di Classe - Militanti sindacali di tutte le categorie, lottiamo per ricostruire un forte e combattivo movimento sindacale di classe
PAGINA 4 – Nel Regno Unito scioperi e manifestazioni annunciano il risveglio della classe operaia: Scioperi nella scuola - Nella sanità - Nel pubblico impiego - Nei trasporti
– Si estendono gli scioperi in Germania
PAGINA 5 – Fra il fascismo e la borghese democrazia: A 80 anni dagli scioperi del marzo del 1943
– Resa dei conti fra borghesi in Colombia
PAGINA 6 – Il capitale ha bisogno di inondare il mercato legale o illegale delle armi





PAGINA 1


Primo Maggio 2023
CONTRO IL MILITARISMO BORGHESE PER LA DIFESA INCONDIZIONATA DELLA CLASSE OPERAIA

I blocchi imperialisti si riarmano in preparazione della guerra mondiale - La classe operaia internazionale risponda con la sua arma potente, la lotta di classe!

La spesa militare annuale nel mondo ha ormai superato i 2.200 miliardi di dollari, i trattati sulle armi nucleari tra Russia e Stati Uniti si sgretolano e potenze come Germania e Giappone si stanno riarmando per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, la guerra in Ucraina minaccia di travolgere la totalità dell’Europa e il Mar Cinese Meridionale sta diventando un’enorme zona militarizzata, anticipazione della guerra tra Stati Uniti e Cina che con tutta probabilità coinvolgerà l’umanità intera.

La borghesia internazionale innalza i suoi logori vessilli nazionalisti e chiama i lavoratori a massacrarsi fra loro agitando gli spettri ingannevoli del totalitarismo, del fascismo, del “comunismo”, come quelli delle differenze tra razze e religioni.

Alla turpe propaganda borghese i comunisti rispondono che il nuovo massacro tra proletari che si prepara ha una sola unica causa: la difesa degli interessi della classe dominante e i profitti del capitale! La guerra generale sarà imperialista su ogni fronte!

Nonostante la montante crisi economica e il crescente indebitamento degli Stati e delle imprese, e mentre i governi di tutto il mondo aumentano la spesa militare, negli ultimi tre anni l’economia capitalista è stata investita da turbative di ogni tipo, da un lato sovrapproduzione di merci e difficoltà di smercio, dall’altro l’impossibilità di continuare la produzione capitalistica causata dalla tendenza al calo del tasso di profitto, per la diminuzione della redditività degli investimenti e per il crescente divario tra la produzione, che è sociale, e il consumo, che è solo di pochi.

Il capitalismo globale, afflitto dalla crisi economica, si avvicina al collasso. Sta precipitando in una crisi storica tale da trasformare la vecchia antitesi tra socialismo o capitalismo in quella tra comunismo o annientamento dell’umanità.

L’ultima grande crisi economica del capitale, quella che ebbe origine negli Stati Uniti nel 1929, nonostante il New Deal, poté risolversi solo con le distruzioni e i massacri della Seconda Guerra Mondiale. Quel massacro imperialista portò all’annientamento di più di 70 milioni di uomini, per lo più proletari, e alla distruzione quasi completa della capacità produttiva di interi continenti, dall’Europa all’Asia.

I tre decenni seguiti alla guerra furono un’ “epoca d’oro” per il capitalismo. Mentre i due blocchi imperialisti dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti si spartivano il bottino di guerra e tenevano sotto controllo il proletariato nelle rispettive zone d’influenza, il processo di accumulazione si avvalse dello slancio della ricostruzione delle infrastrutture e delle città distrutte dalla guerra.

Si ebbero anche allora una serie di rivoluzioni borghesi contro i vecchi marci regimi coloniali e feudali, con l’affermarsi del capitalismo in tutti gli angoli della terra, soprattutto nell’Asia orientale e meridionale, in India e in Cina. Ma questa espansione planetaria del sistema capitalistico di produzione, mentre ha permesso l’accumulazione di enormi profitti, non ha portato al benessere la classe operaia, ha solo esteso miseria e sfruttamento al mondo intero. La maggioranza dei 3,3 miliardi di salariati nel mondo lavora infatti ancora oggi per paghe da fame, senza alcuna sicurezza economica, in condizioni di vita indegne.

Tuttavia il continuo sviluppo tecnico dei mezzi di produzione fa crollare la redditività del capitale nella produzione, spingendolo verso effimeri e sterili investimenti nella speculazione finanziaria.

Ma ogni misura degli Stati per contenere la crisi attraverso il debito pubblico infine non dà effetto e la borghesia, per non fallire, spinge il mondo nell’azione militare, che azzera tutti i suoi debiti. La produzione di armi per la guerra e la guerra stessa sono l’unica strada rimasta alla borghesia per uscire dalla crisi di sovrapproduzione che strangola il suo sistema economico.

Per questo i vari Stati e i loro partiti di regime fomentano il nazionalismo, per cercare di legare i lavoratori al destino suicida della classe borghese, costretta, in difesa del proprio modo di produzione, a far precipitare il mondo nell’abisso della guerra, del terrore, della fame.

Ma è il proletariato internazionale, sono i miliardi di lavoratori del mondo a possedere lo strumento per liberare l’umanità dal destino segnato dai capitalisti: lotta di classe!

Nelle settimane passate si sono verificati estesi movimenti di sciopero in alcuni Paesi d’Europa, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, in Grecia. Anche negli Stati Uniti assistiamo a vasti scioperi che hanno interessato diverse categorie. Queste lotte sono l’esempio da seguire.

Poiché il capitalismo è un sistema economico che si basa sullo sfruttamento del lavoro salariato, è con le lotte della classe operaia in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro che si può contrastare il regime capitalista e iniziare a prepararsi per scongiurare la Terza Guerra Mondiale. Ogni lotta contro lo sfruttamento del lavoro, ogni rifiuto degli appelli al sacrificio in nome dell’economia nazionale, è una lotta contro il capitalismo e contro la sua guerra. La lotta in difesa della classe operaia danneggia il capitale ed è la premessa per indebolire il suo infame regime politico.

È necessario unire le lotte rivendicative della classe operaia. A tal fine è fondamentale ricostituire in ogni Paese dei sindacati di classe, rafforzarli dove già esistono, per opporsi al sindacalismo di regime che collabora con lo Stato e con i padroni. Solo dei veri sindacati potranno lottare per l’unità d’azione del proletariato, a livello nazionale ed internazionale.

Solo in questo modo si potranno mettere all’ordine del giorno delle lotte le rivendicazioni che accomunano l’intera classe operaia:
   - la difesa e l’aumento dei salari, con aumenti maggiori per i peggio pagati;
   - la riduzione dei ritmi, dell’orario e della vita lavorativa;
   - il salario pieno ai disoccupati.

Su questi obbiettivi si potranno far convergere gli scioperi e le manifestazioni dei lavoratori, nel tempo e nello spazio.

È questa la premessa indispensabile perché il proletariato possa nuovamente tornare a lottare, sotto la guida del suo partito, il Partito Comunista Internazionale, per l’abbattimento del regime del lavoro salariato, per la rivoluzione comunista!

Un partito depositario del bisogno del comunismo dell’umanità intera, dei sentimenti di solidarietà di classe, della scienza del marxismo rivoluzionario e dell’esperienza ormai di due secoli di gloriose lotte operaie.

Abbasso la guerra! Abbasso il regime del Capitale, Viva il Comunismo!






In Francia la lotta generale di classe travolge i bonzi della Cgt

Nonostante l’imponenza del movimento di lotta, che qui in Italia non può non suscitare ammirazione – con ben 12 giornate di sciopero nazionale intercategoriale dal 19 gennaio al 13 aprile, e un ancora più alto numero di giornate nazionali di manifestazioni enormemente partecipate anche nei centri medi e piccoli – il governo francese è andato dritto per la sua strada, ha fatto ricorso a una legge che, nel pieno rispetto dell’ordinamento democratico, elude il voto in parlamento, ha ricevuto l’approvazione della corte costituzionale alla riforma, che così infine è stata imposta.

Tutto ciò ha un grande significato e offre importanti conferme del comunismo rivoluzionario. Ancora una volta la borghesia dimostra quanto fasulle siano le chiacchiere sul “dialogo” fra le “parti sociali”, e sulla stessa democrazia: se la classe dominante ha una necessità che ritiene fondamentale calpesta ogni altra considerazione, suoi valori e principi. E calpesta innanzitutto gli interessi e le vite dei proletari. È la dittatura del capitale, sempre più mal mascherata dalla democrazia, che in Francia oggi impone la riforma delle pensioni.

I giochi parlamentari si sono rivelati ancora una volta per quello che sono: solo ingannevoli manovre per confondere i lavoratori. I partiti di governo – nonostante la contrarietà alla riforma della maggioranza della popolazione, e non solo fra i salariati – hanno accettato di sacrificare se stessi alla prossima tornata elettorale per adempiere alla funzione che qualsiasi governo che si instauri nel quadro del regime politico capitalistico: servire gli interessi del capitale; i partiti di opposizione hanno comodamente investito sulle future elezioni mostrandosi contrari.

Vedremo in futuro i partiti borghesi di destra, ora all’opposizione, quando andranno al governo se mai abrogheranno la riforma e riporteranno l’età pensionabile a 62 anni!

Altro elemento di insegnamento. L’attuale governo si era costituito sulla base di una propaganda elettorale volta a impedire il successo della destra. Come sempre le alleanze dei partiti della “sinistra” borghese e “operaia” – al supposto fine di impedire forme di governo borghese presentate come un male peggiore del capitalismo in sé – non fanno altro che spianare la strada proprio ai partiti di destra, giacché la sinistra borghese, moderata e radicale, non volendo combattere il capitalismo ma riformarlo, non può che farsi veicolo delle necessità economiche e politiche del capitale.

Questa determinata irresolutezza si verifica in pratica nel corso delle lotte operaie. La sinistra radical-borghese, in Francia capeggiata da “La France Insoumise”, si è schierata verbalmente con le piazze, ma entro il movimento sindacale ha mantenuto una condotta del tutto vaga, non affrontando le questioni che hanno impedito al movimento di piegare il governo, accodandosi alle indicazioni della Intersindacale, invocando un referendum invece che il rafforzamento del movimento di scioperi.

E qui entriamo nella questione centrale del movimento di lotta di questi due mesi in Francia. Il governo non è stato piegato perché, messa da parte la finzione della concertazione, ha agito sul piano della mera forza. L’Intersindacale non ha voluto – composta come è in larga maggioranza da sindacati di regime – accettare questo che è il reale terreno dello scontro fra le classi sociali, non ha voluto quindi dedicare ogni forza all’estensione e radicalizzazione degli scioperi, per colpire al cuore dei suoi interessi la borghesia, e ha mantenuto dall’inizio alla fine del movimento la stessa linea di condotta, con scioperi nazionali “interprofessionali”, distanziati nel tempo, che non sono autentici scioperi generali perché gli apparati organizzativi sindacali lasciano che siano le strutture sul posto di lavoro a decidere se aderire o meno ad essi.

Di fronte alla forza del movimento le dirigenze dei sindacati di regime in Francia non hanno potuto sconfessare il movimento, ma sono riuscite a mantenerlo entro i binari da esse stabiliti. I gruppi e le correnti sindacali combattive, presenti soprattutto nella CGT ma anche, in misura minore, in Force Ouvriere e nella Cfdt, hanno cercato di radicalizzare la lotta, proclamando prolungamenti delle giornate di sciopero nei posti di lavoro e nelle categorie in cui sono presenti. Non, come fanno le dirigenze dei sindacati di base in Italia, disertando gli scioperi proclamati dai sindacati di regime e proclamandone altri in date diverse, dividendo così il movimento.

Ma queste forze del sindacalismo di classe, sebbene abbiano giovato della potenza del movimento e si siano rafforzate, non sono state in grado di rompere il cordone sanitario creato dalle dirigenze della CGT e degli altri sindacati apertamente collaborazionisti.

Sul piano della partecipazione alle manifestazioni e della combattività questo movimento è stato superiore persino a quello del 1995, anche allora contro la riforma delle pensioni. Ma sul piano della forza degli scioperi è stato inferiore ad allora. È però certamente un passo in avanti, nel percorso di rafforzamento della lotta di classe economica del proletariato in Francia. Una simile lotta è una vittoria in sé per i lavoratori, al di sopra della sconfitta. Come recita il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels del 1848: «Il vero risultato delle lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre più».

Risulta che gran parte degli operai delle fabbriche, del settore manifatturiero, non ha scioperato, se non per poche ore. I settori trainanti della lotta sono stati i ferrovieri della SNCF (come in tutto il secondo dopoguerra fino ad oggi), il trasporto pubblico locale parigino della RATP, i petrolchimici delle raffinerie e dei depositi di idrocarburi, i lavoratori della società elettrica nazionale EDF, i netturbini di Parigi, che hanno scioperato a oltranza per due settimane, i portuali. Alle manifestazioni hanno partecipato masse enormi, molto al di là delle categorie in sciopero, e soprattutto molti giovani. La lotta operaia si è incrociata con un generale malessere sociale, che investe anche la piccola borghesia, il che si era ben manifestato negli anni passati col movimento dei gilet gialli.

Riguardo alla partecipazione agli scioperi, vanno tenute in considerazione anche le energie impiegate a settembre e ottobre scorsi dagli operai in diversi settori, in specie in quello petrolchimico, durante gli scioperi per gli aumenti salariali (“Le lotte operaie in Francia indicano la strada a tutti i lavoratori d’Europa e del mondo”).

Inoltre, importante è il ruolo svolto dalle dirigenze sindacali. Delle catagorie dell’industria hanno partecipato al movimento i petrolchimici, i porti, la produzione e distribuzione dell’energia elettrica. Tutti questi vedono le rispettive federazioni di categoria della CGT controllate da correnti conflittuali. Nel settore automobilistico, in cui la CGT è tradizionalmente diretta dall’area collaborazionista, gli operai non hanno scioperato.

Naturalmente vi è un rapporto dialettico fra la combattività operaia, i sindacati e le loro dirigenze. L’orientamento di una dirigenza sindacale – di classe o collaborazionista – è un prodotto e un fattore della forza operaia, che le si aggiunge o le si toglie, non le è ininfluente. Perciò la lotta contro l’opportunismo e gli agenti della borghesia nel movimento operaio è sempre necessaria, anche quando si ha consapevolezza non esservi ancora le condizioni per poter scalzare il nemico.

Riguardo a questo aspetto cruciale della lotta di classe, proprio nelle settimane di questa grande lotta si è svolto in Francia il 53° congresso della CGT, dal 27 al 31 marzo, con la partecipazione di 942 delegati.

Da anni si sono ampliate le divergenze all’interno di questo sindacato, determinate anche dal calo degli iscritti, che lo ha portato a perdere il posto di primo sindacato di Francia in favore della gialla Cfdt. La lotta in corso ha certamente giovato alla CGT, che afferma di aver registrato 15.000 nuovi iscritti, dopo che nel 2020 ne aveva persi ben 40.000. Il corso della crisi di questo sindacato e le sue cause non sono di immediata e semplice lettura.

Per quanto, visto dal movimento sindacale italiano, quello francese appaia un esempio di combattività dei lavoratori, esclusa la vittoria del movimento contro il Contratto di Primo Impiego nel 2006, da anni anche in Francia la classe operaia ha subito una serie di sconfitte: le riforme pensionistiche nel 2003, 2010 e del 2014; le leggi sul lavoro del 2016 e 2017; l’attacco ai ferrovieri nel 2018; la riforma dei sussidi di disoccupazione l’anno passato.

Cresce la determinazione a colpire la classe lavoratrice a causa dell’approfondirsi della generale crisi capitalistica mondiale e dell’irresolutezza e inadeguatezza dei sindacati di regime a farvi fronte. D’altronde, la combattività dei lavoratori in Francia appare non essere mai andata al di sotto di un certo livello, permettendo così una inversione di marcia, con un vasto e risoluto movimento di lotta e con i suoi riflessi entro i sindacati, per quanto ancora non sufficiente a sconfiggere la classe dominante e il suo regime sindacale.

Lo scontro interno alla CGT vede da un lato i partigiani del negoziato e della collaborazione con la borghesia, guidati dal segretario generale uscente Martinez, proveniente dalla CGT metallurgia (come il bonzo nostrano Landini), in carica dal 2015. Dall’altro lato si schierano i partigiani della sindacalismo di lotta, i cui maggiori rappresentanti sono: Olivier Mateu, a capo del sindacato delle Bouches du Rhône, il dipartimento di Marsiglia, legato ai partiti del nazional-comunismo di tradizione staliniana; il segretario generale della federazione chimica Fnic-CGT, Emmanuel Lepine, legato al trozkismo; il segretario generale della federazione del commercio (CGT-Commerce), Amar Lagha. Tutti e tre fanno parte dell’area Unité-CGT, che raggruppa la maggioranza delle correnti e dei gruppi conflittuali in seno alla CGT.

Al congresso il documento della segreteria confederale sull’attività condotta negli anni precedenti è stato respinto dal 50,32% dei voti. Un risultato eclatante che ha dato la misura dello scontro in atto nel sindacato. Nel voto sono confluiti non solo i contrari dell’area conflittuale ma anche alcuni dall’interno della maggioranza, critici verso Martinez per metodi definiti “antidemocratici”, ultimo la designazione del candidato della maggioranza alla carica di segretario generale confederale.

Alla fine il candidato indicato da Martinez è stato messo da parte e a sorpresa è stata eletta Sophie Binet, col consenso anche di una parte dell’area di minoranza. Sophie Binnet era dirigente della federazione dei quadri e dei tecnici, la Ugict-CGT. Appena eletta ha dichiarato «la CGT chiede il ritiro della riforma e non accetterà alcuna discussione o tregua». Ma due deputati fedeli a Macron hanno commentato la sua elezione: «una buona notizia per il dialogo sociale; possiamo solo gioire nel vedere una riformista a capo della CGT».

La nuova segreteria confederale è composta, come la precedente, da dieci membri, scelti tra i 66 della Commissione Esecutiva Confederale, a sua volta eletta dai 942 delegati presenti al congresso e confermata dal Comitato Confederale Nazionale, composto dai segretari generali dei sindacati dipartimentali e da quelli delle federazioni, per un totale di 128 membri.

Il voto per la carica di segretario generale confederale ha visto un dislocamento di forze diverso da quello registratosi sul documento d’attività. Il candidato di Unité-CGT ha raccolto il 36,5%. Sebbene ciò non abbia permesso l’inserimento di nessun rappresentante della minoranza nella segreteria confederale, si tratta di un risultato notevole. In Italia, al recente XIX congresso della Cgil, il documento di minoranza “Le radici del sindacato” ha raccolto il 2,4%.

Non mancano critiche anche all’interno di Unité-CGT circa la disinvoltura nella ricerca di alleanze interne di Olivier Mateu e più in generale alla linea di opposizione considerata non sufficientemente delineata e aggressiva. Ad esempio, non è stata fatta un battaglia contro il regolamento congressuale che non ammette documenti programmatici alternativi a quello della maggioranza. E alla linea di condotta del movimento da parte dell’Intersindacale – detta delle “giornate d’azione” – CGT-Unité contrappone una articolazione alquanto artificiosa della mobilitazione della classe lavoratrice, divisa per categorie e confluenti in una giornata settimanale di sciopero generale: «Una strategia possibile potrebbe essere: lunedì niente navi, martedì niente treni, mercoledì niente camion, giovedì tutti insieme in sciopero e nelle strade, venerdì niente logistica...».

Correttamente da parte di altre correnti conflittuali è stato ribattuto che lo sciopero è un fenomeno sociale vivo, non si mette in moto e si ferma come aprire e chiudere un rubinetto! L’obiettivo deve essere quello dello sciopero generale a oltranza, a cui si giunge valorizzando le energie che sorgono dalla base dei lavoratori, curate coltivate e potenziate nella quotidiana attività sindacale, e che non devono essere svilite in programmazioni che dividono i lavoratori e che avviliscono la spontanea adesione alla lotta allorquando essa finalmente esplode nel corpo sociale e attrae le masse salariate.

Questi limiti dell’area conflittuale nella CGT discendono, come non può essere altrimenti, dalle posizioni politiche dei suoi dirigenti, appartenenti al campo dell’opportunismo.

Un’altra espressione di tale opportunismo riguarda l’affiliazione della CGT agli organismi sindacali internazionali. Gran parte delle aree conflittuali aderenti a Unité-Cgt sostiene l’adesione alla Federazione Sindacale Mondiale, l’internazionale sindacale creata all’indomani della seconda guerra mondiale dal regime borghese e falsamente comunista di Mosca, e che rispondeva alle necessità della sua politica imperialista.

La dirigenza confederale fa aderire la CGT alla Confederazione Sindacale Internazionale (CSI), una internazionale collaborazionista, ma lascia libertà di decisione in questo ambito alle federazioni di categoria e alle strutture territoriali. Sicché, ad esempio, la Fnic-CGT, la CGT del dipartimento di Marsiglia e la CGT-Cheminots di Versailles aderiscono alla FSM.

Al congresso l’adesione alla FSM o alla CSI è stato uno dei temi di scontro fra maggioranza e minoranza. Decisivo è stato l’intervento di un delegato del sindacalismo di classe in Iran, il quale ha denunciato come alla FSM aderiscano le Camere del Lavoro Islamiche, gli organi sindacali creati dal regime borghese iraniano. Non è il solo esempio emblematico della natura borghese di questo organismo, a cui in Italia aderisce l’Usb (vedi “L’“internazionalismo” anti-operaio della Federazione Sindacale Mondiale”).

Sebbene sia indiscutibile l’indicazione pratica conflittuale in seno al movimento sindacale dei dirigenti operai dell’area di minoranza Unité-CGT, tuttavia è inevitabile che, con lo sviluppo e lo svolgersi del corso della lotta di classe verso le sue estreme conseguenze, cioè verso lo scontro rivoluzionario con la borghesia e il suo Stato, l’opportunismo politico finirà necessariamente per entrare in contraddizione con le necessità pratiche della lotta economica dei lavoratori.

Certamente i migliori fra i militanti sindacali, benché aderenti a gruppi e partiti opportunisti, allorquando si paleseranno tali contraddizioni, passeranno col nostro partito, ravvisando la coerenza del suo piano politico con quello sindacale. Lo sviluppo della lotta di classe economica è sempre favorevole al comunismo rivoluzionario, anche quando questo non è ancora in grado di dispiegare una influenza adeguata nel movimento delle masse proletarie in difesa dei loro bisogni immediati.








La crisi bancaria, fallimento del regime del capitale, assedia tutti i santuari della finanza

C’è un fantasma in questi anni ’20 che turba i sonni dei signori del capitale: se finora era la deflazione, causata dalla sovrapproduzione, ora all’attenzione di governi e banche centrali è la sindrome opposta. Si è aperto un ciclo inflazionistico, del quale i sacerdoti del Capitale non riescono ancora a vedere la fine. A determinare questa nuova fase hanno contribuito diversi fattori del tutto intrinseci alla crisi del capitale, fra cui l’inversione del ciclo espansivo prodotto dalle drastiche misure volte a impedire il collasso durante la pandemia.


Negli Stati Uniti

Nel 2021 l’aumento della spesa dei consumatori, causata dai 4.000 miliardi di dollari di stimoli Covid-19, ha provocato una fiammata inflattiva che nel 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, è ulteriormente peggiorata a causa dell’aumento dei prezzi del petrolio e di altre materie prime che nel frattempo erano saliti alle stelle.

Nell’economia in espansione del 2021, dopo anni di aumento della domanda di lavoro, quando le aziende riaprivano dopo il blocco del Covid-19, i capitalisti non hanno trovato un esercito di riserva sufficiente a soddisfare la richiesta di manodopera. Per contro, anni di intensificate espulsioni di lavoratori immigrati e le centinaia di migliaia di proletari morti a causa del coronavirus, hanno provocato una massiccia carenza di forza lavoro: ovunque sulle vetrate esterne delle aziende, negli Stati Uniti come in Europa, si leggevano cartelli “cercasi operai” mentre i borghesi si lamentavano che “nessuno vuole più lavorare”.

Per tutto il 2022 crebbe l’ansia dei capitalisti per l’aumentata forza contrattuale dei lavoratori: i proletari non erano più disposti a lavorare per salari di fame quando la domanda di forza lavoro superava le braccia disponibili. La stampa borghese si preoccupò per le “dimissioni in massa”, quando gli operai cominciarono ad abbandonare in gran numero i posti con salari o condizioni di lavoro indecenti.

Contemporaneamente le nuove campagne di sindacalizzazione presso Amazon e Starbucks hanno generato il timore di una rinascita del movimento sindacale.

Per rimettere in riga il lavoro e prevenire un’iperinflazione, che avrebbe potuto avere esiti gravi per l’economia nel suo complesso, la Federal Reserve ha varato una manovra simile a quella utilizzata nella crisi dell’OPEC del 1970 per attaccare il potere contrattuale dei lavoratori e al contempo contenere l’inflazione. Aumentando i tassi di interesse, rendendo così più difficile per le imprese contrarre prestiti, la FED sperava di rallentare la crescita economica. Man mano che le imprese si ridimensionavano o chiudevano, con conseguenti licenziamenti di massa, l’esercito di riserva si sarebbe ingrandito, facendo così scendere i salari per la competizione tra un maggior numero di operai disponibili per un minor numero di posti, riducendo così il loro potere nella vendita del proprio lavoro. Il piano è volto a preservare i profitti, sgonfiando al contempo l’economia quanto basta per evitare una spirale inflazionistica.

Nella guerra fra le classi, la soluzione per i capitalisti è stata dunque l’aumento dei tassi di interesse, ma anche questa cura non poteva essere indolore.


Tasso di interesse e crisi delle banche

Nel tentativo di contenere la pressione inflazionistica le banche centrali aumentano il tasso di interesse, intervengono sul costo del denaro per ridurne la circolazione. Si riduce il “denaro a buon mercato” immesso nel ciclo economico, tanto produttivo quanto operante nel circuito speculativo. I tassi della banca centrale hanno un effetto diretto su tutti gli altri con cui si presta il denaro, e ne condizionano la circolazione.

Con l’aumento dei tassi aumentano allo stesso tempo i costi di indebitamento delle banche, tanto quelli contratti con la banca centrale quanto con le altre banche. Il rialzo dei tassi si traduce in un aumento dei rendimenti solo dei mutui di nuova emissione, ma gli effetti negativi sui bilanci delle banche si producono velocemente. Basti pensare a quando la banca è costretta a liquidare i propri titoli in portafoglio a prezzi inferiori a quelli di acquisto, o al ricorso a prestiti interbancari a tassi ben più alti.

La crisi della Silicon Valley Bank è stata la vittima prevista e accettata per la conservazione del rapporto lavoro-capitale, un prezzo da pagare necessario per alimentare l’insaziabile sua sete di accumulare sempre più profitti.


Le premesse della crisi in USA

Nel 2021 l’industria tecnologica statunitense aveva toccato i massimi storici nei ricavi di Amazon, Apple, Google, Microsoft e Facebook, che avevano raggiunto i 1.200 miliardi di dollari, mentre il boom delle “start-up” tecnologiche batteva ogni record. Ma nella primavera del 2022 l’annuncio dell’aumento dei tassi di interesse da parte della FED ha avuto come effetto un brusco declino delle attività e i titoli industriali hanno perso miliardi di dollari in borsa nel giro di pochi giorni.

Si è manifestata allora quella che la stampa borghese chiama “crisi dei colletti bianchi”, che ancora dura. Il settore tecnologico è stato il più colpito, con oltre 120.000 licenziamenti l’anno scorso e 148.000 nei primi mesi di questo. Allo stesso modo in tutto il settore si è assistito ad un ritorno a stili di gestione più oppressivi, volti a ottenere il massimo profitto da ciascun lavoratore, forzando il “ricavo per dipendente”, che noi chiamiamo saggio del plusvalore, ovvero dello sfruttamento.

L’apporto di capitale nelle aziende innovative negli ultimi tre mesi si è ridotto a circa un terzo di quello dello stesso periodo dell’anno scorso, passando da 151 miliardi di dollari a soltanto 56,3. Dunque anche per i capitalisti delle “start-up”, elogiati dalla stampa come eroici salvatori, è sempre più difficile trovare finanziamenti.


Il crollo della Silicon Valley Bank

Nel 2021 la SVB aveva beneficiato della crescita del settore tecnologico, detenendo depositi per 190 miliardi di dollari, 89 in più rispetto all’anno precedente, e triplicando il prezzo delle sue azioni dal 2018.

Quando la Federal Reserve ha annunciato l’intenzione di aumentare i tassi, per la Silicon Valley Bank sono iniziati i problemi. Con l’aumento degli interessi, le “start-up” hanno iniziato a prelevare più denaro dai loro conti per far fronte all’aumento delle spese mentre gli investimenti in capitale di rischio si sono bloccati. La banca, approfittando dei bassi tassi di interesse, aveva investito il 75% del suo patrimonio in titoli di Stato a lunga scadenza, più redditizi in tempi di bassi tassi di interesse, mentre di solito le banche di quelle dimensioni investono soltanto il 6%.

Poiché i prelievi sono continuati per tutto l’anno, la banca è stata costretta a cercare liquidità per coprire i prelievi. Quando ha ammesso la necessità di reperire nuovi capitali per coprire i prelievi, che avrebbe richiesto la vendita di gran parte delle sue obbligazioni con una perdita di 1,8 miliardi di dollari, si è scatenata la crisi di fiducia che ha portato alla massiccia corsa agli sportelli, con prelievi per oltre 42 miliardi in un solo giorno, il quale ha determinato il fallimento della banca.


Le conseguenze del crollo

Questa seconda peggiore bancarotta di una banca nella storia degli Stati Uniti si è ripercossa su tutta la finanza, sia sul mercato nazionale sia su quello internazionale. Anche la Signature Bank, che deteneva i fondi di molte delle aziende che emettono criptovalute, è fallita mentre la First Republic, nonostante l’infusione di 30 miliardi di dollari di liquidità da parte di altre banche, continua a vacillare. Anche la Banca d’Inghilterra ha dovuto adottare misure per sostenere le sue “start-up” tecnologiche, finanziate dalla filiale britannica della SVB.

I capitalisti spostano i loro fondi in preda al panico per l’aumento dell’interesse e la contemporanea caduta del tasso di profitto, fenomeno fondamentale dell’economia capitalista! La borghesia di tutti i paesi è preoccupata per qualcosa che avrebbe dovuto sapere da sempre: che il tasso di profitto nell’economia sarebbe sceso così tanto da provocare una crisi. E, come sappiamo, questa crisi ci sarà. L’economia attuale costringe le banche centrali e le agenzie di regolamenti finanziari ad aumentare i tassi per la crescente insicurezza degli investimenti e per contrastare l’inflazione dei prezzi. Questo aumento provoca una riduzione della differenza fra l’interesse pagato per prendere in prestito i fondi finanziari e quello ricavato quando vengono investiti in obbligazioni e azioni. Alla base di tutto c’è che i capitalisti non riescono a generare plusvalore per sé stessi e per i loro investitori a causa della crisi di sovrapproduzione.

Questa crisi si scontra con una contraddizione fondamentale dell’economia capitalista: la necessità dei capitalisti di generare un plusvalore che superi il semplice ripetersi del circuito di scambio mercantile. Il capitale può appropriarsi di plusvalore solo nella produzione di merci, materiali o immateriali, come per le “start-up”, nel circuito Denaro-Merce-Denaro.

In questo processo il lavoro è esso stesso una merce, ricercata durante la crisi pandemica di nemmeno 3 anni fa e brutalmente schiacciata oggi dai governi degli Stati Uniti e di tutti gli Stati del mondo.


A scala mondiale

Una tendenza al rallentamento della crescita economica se non alla recessione, era attesa come conseguenza dell’aumento dei tassi d’interesse. Riguardo la produzione industriale negli ultimi mesi abbiamo assistito non solo a un forte rallentamento negli Stati Uniti, in Polonia e altrove, ma soprattutto a una recessione in Gran Bretagna, Corea, Giappone, Germania, Italia, Belgio e Francia. Per non parlare della Cina, fortemente colpita nel settore immobiliare e nella produzione di automobili. La recessione colpisce più i Paesi asiatici e il Regno Unito che l’Europa continentale.

Questa recessione corrisponde a un rallentamento generale dei consumi legato all’elevata inflazione dei prezzi delle materie prime, dell’energia e dei prodotti agricoli. Tuttavia, i grandi gruppi internazionali stanno andando molto bene. I produttori e i distributori di energia hanno realizzato profitti senza precedenti negli ultimi due anni. Ma anche alcuni grandi gruppi industriali, soprattutto nel settore automobilistico, hanno realizzato enormi profitti in eccesso aumentando i prezzi, in particolare rifocalizzandosi su prodotti di lusso o di fascia alta. E con loro alcune grandi banche, come ad esempio BNP Paribas.

Per i grandi gruppi industriali, l’aumento dei tassi di interesse non è così dannoso per il momento, poiché l’inflazione elevata fa sì che i tassi di interesse in termini reali siano negativi o molto bassi. La situazione è invece diversa per le piccole imprese, e in particolare per le start-up; per loro sta diventando più difficile ottenere prestiti e un certo numero di esse si trova in difficoltà o addirittura in fallimento. Il rischio che si corre con l’aumento dei tassi di interesse è quindi la moltiplicazione dei debiti non pagati, che a sua volta, se la loro massa aumenta troppo, non può che portare a fallimenti bancari.

Inizialmente, l’aumento dei tassi di interesse è favorevole alle banche: non solo possono concedere prestiti a tassi più elevati, ma aumenta anche la remunerazione dei loro depositi nelle banche centrali. Ma, come abbiamo visto, questo porta a una svalutazione delle obbligazioni precedentemente acquistate, ora con un rendimento molto più basso, al punto che oggi una massa gigantesca di obbligazioni del valore di diverse migliaia di miliardi, che fanno parte delle riserve monetarie di banche e organizzazioni finanziarie, come compagnie assicurative, fondi pensione, ecc., si svalutano tra il 20 e il 30%!

Finché l’istituto finanziario non ha bisogno di vendere queste obbligazioni per ottenere liquidità, la perdita di valore rimane puramente virtuale, perché alla scadenza queste obbligazioni saranno rimborsate al loro valore di acquisto. La situazione è invece ben diversa se l’istituto finanziario, avendo bisogno di liquidità, è costretto a venderne una parte; vendita che avviene al valore di mercato, con forti perdite.


Alchimie finanziarie

Il sistema bancario cerca di contenere i rischi derivanti dall’aumento dei tassi acquistando un’assicurazione sull’evento avverso con un contratto specifico, chiamato “credit default swap”, CDS, con il quale una “controparte” accetta, dietro compenso, di assumersi il rischio “derivato” da una perdita finanziaria.

È questo che è stato rovinoso per la Deutsche Bank, la banca tedesca di riferimento europeo per il mercato dei derivati: era proprio la DB che aveva emesso a garanzia i CDS, e che doveva rimborsare al detentore di quei derivati il prezzo pieno delle obbligazioni andate in default.

Naturalmente, come per ogni contratto di assicurazione, il suo prezzo sale se il rischio è maggiore. Su questa scommessa si basa il guadagno dell’assicuratore. Ma i CDS hanno una sinistra caratteristica che li differenzia dalle normali polizze: possono essere scambiati, ovvero circolare nel mercato finanziario.

Questo può dare adito a speculazioni su vendite “allo scoperto”, le operazioni, dette ribassiste, con le quali anche chi non detiene materialmente il titolo lo può vendere, causandone il crollo del prezzo, inducendo un grave indebolimento finanziario alla banca che l’ha emesso.

Ciò è successo quando fondi speculativi americani, sulla scorta degli accadimenti al Credit Suisse, hanno venduto i CDS che stavano andando in scadenza di due piccole banche tedesche, senza tuttavia possederli, guadagnando sulla differenza tra le azioni vendute ad un prezzo maggiore di quello poi pagato per ricomprarle.

Questo ha prodotto una perdita secca per la DB, che si trovava al momento costretta a svendere quei CDS. Ciò ha poi causato anche la brusca caduta del corso azionario delle sue azioni. Questo si è riflesso su tutti i titoli bancari, causando ulteriori significative perdite.

La BCE si è impegnata ad intervenire con una linea di credito, se necessario, a difesa del settore bancario, e tutto l’apparato di controllo finanziario europeo si è mosso per stendere una rete di protezione al fine di ridurre e poi riassorbire le perdite.


Il crollo del Credit Suisse

Però quando si è determinato l’ennesimo scossone alla banca dei derivati tedesca, periodicamente sotto l’attacco della speculazione internazionale, si era sviluppata e conclusa un’altra violenta crisi di una banca di interesse nazionale, lo svizzero Credit Suisse.

Il Credit Suisse è, anzi, era, una banca con molti problemi da tempo. Coinvolta in una serie di scandali, corruzione, spionaggio, riciclaggio, frodi fiscali (per una delle quali ha dovuto pagare risarcimenti milionari negli Stati Uniti). Ma è sempre stata salvata per le sue dimensioni che la rendevano “troppo grande per fallire”.

Nel 2008 il suo salvataggio era costato 60 miliardi di franchi allo Stato svizzero. La storia successiva è stata di perdite continue. Diventato attivo soprattutto nel settore dell’investiment banking, cioè nella speculazione finanziaria, si era lanciato in operazioni ad alto rischio.

I fallimenti nel 2021 di due fondi di investimento speculativo (che provocarono perdite di miliardi di dollari a numerose e celebri banche e fecero crollare il valore in borsa di alcune aziende della tecnologia e dei media) avevano indotto una perdita di 1,6 miliardi di franchi. Nel 2022 la perdita netta era stata di 7,3 miliardi di franchi.

La situazione patrimoniale del Credit Suisse si era stabilizzata con l’ingresso nel capitale azionario della Saudi National Bank, diventata il maggior azionista della banca e, a seguire, dello Stato del Qatar. Per stabilizzare la situazione ed evitare il deflusso dai conti correnti, era stato aumentato il loro rendimento. Alla fine di marzo lo Stato svizzero aveva concesso un’altra linea di credito di 50 miliardi di euro, che però non è bastata.

Il colpo di grazia alla traballante situazione l’ha dato il rifiuto da parte dei due soci arabi di finanziare un ulteriore aumento di capitale. La situazione è precipitata così in fretta che, per evitare una rovinosa corsa agli sportelli, come alla Silicon Valley Bank, e quindi un fallimento, il cui riflesso sul sistema bancario nazionale ed internazionale sarebbe stato imprevedibile, la UBS ha accettato, con la promessa dell’apertura di una linea di credito di 109 miliardi di franchi da parte della Banca Centrale, di acquistare la banca rivale per il modico prezzo di 3 miliardi di franchi.

Ne è nata una struttura che nominalmente potrebbe avere un bilancio combinato di 600 miliardi di franchi, laddove il Pil svizzero quota 800 miliardi. L’acquisizione ha poi comportato l’azzeramento di 16 miliardi di franchi (al cambio attuale circa 17 miliardi di dollari), per una particolare tipologia di obbligazioni subordinate, emesse dal Credit Suisse, prima ancora di azzerare il valore delle azioni.


Una crisi generale del sistema bancario

Di questi tre episodi, avvenuti in breve lasso di tempo, le cause sembrano diverse: per la Silicon Valley Bank e le altre due banche americane un problema di disponibilità, per il Credit Suisse le perdite dovute ad investimenti andati male, per la Deutsche Bank l’attacco della speculazione alle debolezze intrinseche di una banca centrata sulla speculazione sui derivati.

Idealmente il sistema bancario dovrebbe erogare credito e ricevere depositi. La doppia operazione dovrebbe essere in equilibrio, ma in realtà non è così. La banca genera molto più credito di quanto non ne riceva in depositi. Quando, per la crisi delle produzioni, sui mercati, per fallimenti, per operazioni finanziarie andate male o altri accidenti, questo squilibrio si fa troppo grande, supplisce il credito interbancario, o infine il governo, tramite la banca centrale, in sostegno alle perdite.

Può non bastare, se il “buco” è troppo grande. I correntisti, spaventati dai rischi che minacciano i loro depositi, corrono agli sportelli. Prima del fallimento, allora, per la banca esiste soltanto la vendita dei titoli che possiede e ancora vendibili, che comunque si deprezzano rapidamente.

Nella situazione attuale, questo generalizzato aumento delle insolvenze sta costringendo le banche a raccogliere liquidità.

In risposta a questo pericolo, la FED, insieme alle banche centrali di Gran Bretagna, Giappone, Canada e BCE, ha deciso di fornire dollari alle banche commerciali, che potranno prestarli alle grandi imprese.

IIn tempi di crisi il dollaro rimane la valuta di rifugio e la sua domanda esplode. Sul mercato dei cambi la domanda di dollari si aggira intorno ai 450 miliardi, ma al culmine della crisi nel 2020 la domanda è salita improvvisamente a 5.000 miliardi.

In termini finanziari abbiamo a che fare con un castello di carte, o più precisamente con una gigantesca “piramide di Ponzi”. Tutto regge finché il capitale continua ad accumularsi nella produzione. Ma se arriva la recessione, se lo smercio dei prodotti si blocca, se si innesca la spirale dei debiti non pagati, l’intera piramide finisce per crollare e la crisi esplode.

Oggi molto dipenderà dalla forza della recessione in Cina, negli Stati Uniti e in Europa nei prossimi anni.


I comunisti e la crisi del capitale

L’intervento dello Stato e della Banca centrale ha temporaneamente tamponato le crisi bancarie di questo inizio 2023 ed evitato l’estendersi delle perdite borsistiche nel comparto bancario. Ma la debolezza generale del sistema rimane esattamente nelle stesse condizioni in cui lo porta la strisciante crisi del capitalismo.

Naturalmente dal nostro punto di vista, non ci interessa che il capitalismo risolva i suoi problemi, che la lotta all’inflazione non provochi i fallimenti delle banche, che inflazione e recessione all’orizzonte non minaccino il mondo del capitale, nel quale la finanza fa ormai aggio sulla produzione.

Il nostro fine è distruggere questo mondo incentrato su quel rapporto di forza fra esseri umani che chiamiamo capitale. Non è certo nostro compito proporre le terapie per risolverne i problemi che insorgono in seno al dominio borghese sulla società. A noi interessa capire il come e il quando della crisi e lavorare per l’esito rivoluzionario, solo quello ci compete.

Il maturare della rivoluzione passa anche dalla catastrofe della finanza, sintomo nefasto della crisi generale del modo di produzione capitalistico.








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Cina e Russia unite contro gli USA non per amore ma per forza

Il “pacifico” multilateralismo cinese di oggi prepara la guerra di domani

Una caratteristica delle guerre, anche regionali, nella attuale fase storica di estrema senescenza del capitalismo è di avere un effetto sulla gerarchia fra le grandi potenze, la cui proiezione politica ed economica ha come teatro ormai l’intero pianeta. Alcune guerre successive al crollo dei regimi di falso comunismo dell’Est Europa, come quelle del Golfo, dell’ex Jugoslavia e dell’Afghanistan (nonostante l’insuccesso parziale, in questo caso il ritorno dei talebani al potere) avevano ribadito la netta supremazia globale degli Stati Uniti. Con la guerra in Ucraina invece sembra essersi aperta una fase in cui i rapporti di forza fra gli imperialismi sono sottoposti a nuova tensione e si avverte la possibilità che l’esito del conflitto possa aprire a un certo ridimensionamento della primazia americana.

Al momento dell’invasione russa dell’Ucraina alcuni eventi, dati per scontati dalla propaganda filo-atlantica, avrebbe confermato il primato statunitense: una rapida sconfitta militare della Russia, il suo tracollo economico e isolamento internazionale. Dopo più di un anno nessuno di questi risultati si vede all’orizzonte.

Al mancato isolamento politico ed economico della Russia un peso notevole va attribuito alle relazioni con la Cina: la Cina non si è allontanata dalla Russia, ha incrementato gli scambi commerciali, ha continuato a svolgere esercitazioni militari congiunte e ha approfondito le relazioni diplomatiche: la visita lo scorso marzo di Xi Jinping in Russia, il suo primo viaggio all’estero dopo la rielezione come presidente della Repubblica Popolare Cinese.

Nonostante la guerra e la minaccia delle sanzioni, l’interscambio commerciale tra i due paesi ha raggiunto i 190 miliardi di dollari, con una crescita di oltre il 30% rispetto all’anno precedente. Nell’incontro tra i massimi vertici di Cina e Russia si è previsto un interscambio di 200 miliardi in questo 2023 e si sono stipulati 14 accordi di cooperazione economica in diversi settori, oltre che un significativo aumento dell’uso dello yuan e la disponibilità russa ad utilizzare la valuta cinese nelle transazioni con l’Asia, l’Africa e l’America latina.

Il viaggio di Xi segna anche l’intesa tra Cina e Russia nel perseguire un “mondo multipolare”, cioè l’aspirazione dei due imperialismi a una nuova spartizione mondiale che metta fine al dominio americano. La loro cooperazione avrebbe un significato strategico di lungo periodo, una “nuova era”, come scritto nella dichiarazione congiunta, che riprende la “nuova era” annunciata in Cina da Xi Jinping, con il “ringiovanimento della nazione cinese”.

Evidentemente quello cinese non è più, e non si ritiene, un capitalismo “giovane”. Il nazionalismo cinese, dopo il secolo dell’umiliazione nazionale imposta dall’aggressione delle potenze coloniali, dopo quasi un altro secolo di impetuoso sviluppo economico, è costretto a debordare dal mercato nazionale e accedere al ruolo di grande potenza mondiale.

Cina e Russia si trovano costrette a marciare contro lo stesso nemico, gli Stati Uniti, senza tuttavia poter superare le contraddizioni tra i due imperialismi. Il passato storico delle relazioni tra i due imperi è stato caratterizzato da rivalità e conflitti.

Bloccato a occidente dalle potenze europee, lo Stato russo, lanciato alla conquista delle sterminate pianure siberiane, già alla metà del ‘600 si scontrava sull’Amur con i Manciù. Ma l’impero cinese era allora ancora solido, e la Russia dovrà attendere che sia piegato dai cannoni occidentali per potersi impadronire a metà dell’800 dei bacini dell’Amur e dell’Ussuri. Alla fine del secolo la Russia si assicurò ulteriori possessi in Manciuria e nella Cina orientale, ma fu costretta a regredire in seguito alla sconfitta con il Giappone nel 1905. Dovrà aspettare altri 40 anni per ritornare in forze nell’area, approfittando della sconfitta del Giappone nel secondo conflitto mondiale. L’aiuto russo alle armate di Mao, più che sostenere i “comunisti” nella riconquista nazionale, era volto al saccheggio delle ricchezze della Manciuria. Ma la presenza di interessi divergenti tra la potenza russa e quella cinese si fece manifesta durante la Rivoluzione Culturale e col contrasto culminato nel 1969 nei sanguinosi scontri lungo il fiume Ussuri.

Permangono tuttora divergenze negli interessi tra le due potenze. La Cina preferirebbe che la situazione internazionale si appacificasse per non intralciare l’estendersi della sua sfera commerciale e finanziaria. La crescita del capitalismo cinese è in fase di rallentamento rispetto alla poderosa crescita degli anni passati e può contare solo sulla sua espansione nel mondo. Occorre che il capitalismo cinese accresca anche la sua influenza politica sottomettendo Stati e imprese.

La perdita dei mercati europei spinge la Russia a dirottare in Asia petrolio e gas, a prezzi ribassati. La Cina ne ha approfittato diventandone il primo importatore. Nell’incontro di marzo Putin ha affermato di poter fornire alla Cina 38 miliardi di metri cubi di gas attraverso il gasdotto “Energia dalla Siberia 1” più 10 miliardi di metri cubi di Gnl. I russi vorrebbero completare entro il 2030 la costruzione del gasdotto “2”, con la portata di 50 miliardi di metri cubi.

Ma se a Mosca hanno fretta di invertire il flusso energetico da ovest verso est, Pechino può permettersi di prendere tempo, preferendo mantenersi gli altri fornitori e non legarsi esclusivamente alla Russia.

L’attuale convergenza fra Cina e Russia non ne appiana le divergenze di interessi e di vedute. La fusione organica delle risorse economiche e militari di due Stati, per di più in un processo lineare e pacifico, è impossibile. Non basterà la coniugazione dell’industria cinese con le risorse naturali della Russia ad affratellare i due capitalismi nazionali, quello della spopolata Russia e quello della sovrappopolata Cina.

Per parare i costi economici e politici della guerra in Ucraina la Russia ha dovuto fare concessioni a una Cina, decisa ad approfittare della urgenza del vicino di coprirsi il retroterra asiatico.

Nel loro incontro Putin e Xi Jinping hanno trattato anche la spinosa questione dello sfruttamento dell’Artico, un’area che la Russia ha tenuto a lungo a riparo dalla rapacità delle altre potenze. A partire dal 2013 la Cina ha investito circa 90 miliardi di dollari nelle attività estrattive nell’area. Ora preme per inserirsi nella costruzione di opere infrastrutturali di rilievo. La Cina potrebbe entrare nella join-venture fra Lukoil e Gazprom per la costruzione di un impianto chimico per il gas, mentre è prevista la partecipazione cinese nell’ampliamento del porto di Indiga e nella realizzazione della ferrovia di collegamento con Sosnogorsk.

A uno stadio avanzato è anche lo sviluppo congiunto dei progetti di impianti per il gas liquefatto Yamal LNG e Arctic LNG2 oltre alla presenza cinese nello sviluppo della rotta artica Severny Morskoy Put che, attraverso la zona economica esclusiva della Russia, si stende fra la Novaya Zemlya e l’estremo oriente. Tale rotta è necessaria per collegare Yamal LNG.

Questi progetti si sviluppano contestualmente a un’enorme crescita della penetrazione dei prodotti della manifattura cinese nel mercato russo. Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina le forniture di automobili cinesi sono aumentate del 30%, le vendite di elettrodomestici e prodotti elettronici conquistano nuove fette di mercato: quasi la metà dei laptop acquistati in Russia sono made in China. Questa crescita dell’interrelazione commerciale ha riflessi finanziari tanto che dallo scorso febbraio lo yuan figura al primo posto fra le valute scambiate al Moscow Stock Exchange.

I rapporti di forza fra le due potenze segnano un netto rafforzamento di Pechino. Lo conferma l’intraprendenza della Cina in Asia Centrale, tradizionale area di competenza russa. Pechino sta negoziando una fornitura di 25 miliardi di metri cubi di gas l’anno, tramite il gasdotto Central Asia-China, che dal Turkmenistan arriva in Cina attraverso lo Uzbekistan e il Kazakistan, nonostante le tensioni politiche regionali. E continua ad acquistare Gnl da Stati Uniti e Australia.

La minaccia di un blocco americano delle forniture energetiche mediorientali attraverso l’Oceano Indiano, di cui gli americani controllano i principali snodi, potrebbe legare ancora di più la Cina alla Russia.

Cina e Russia si presentano comunque sull’arena mondiale come potenze revisioniste dell’ordine attuale. Da un lato la Russia con la guerra in Ucraina sta mettendo in discussione l’ordine europeo, nel quale dalla caduta del muro di Berlino ha perduto la sua influenza, arretrata dinanzi alla avanzata della NATO verso Est. Dall’altro lato la Cina, bloccata nel Pacifico da Stati Uniti e alleati, e insidiata a Sud dalla rivalità con l’imperialismo indiano, ha la necessità di mantenere una relazione di buon vicinato con l’imperialismo russo per evitare l’accerchiamento.

Inoltre, la necessità di espansione del capitalismo cinese oltre i confini nazionali deve fare i conti con un mondo dove a dettare le regole è ancora l’imperialismo americano, con la sua forza militare, la sua moneta e le istituzioni internazionali che controlla. Dal momento che la preminenza americana non sarà abbandonata senza una lotta accanita, una nuova spartizione mondiale più favorevole agli interessi cinesi passerà inevitabilmente per lo scontro armato.

In questo contesto, non solo la Cina non può permettersi una sconfitta della Russia in Europa, le cui conseguenze potrebbero portare finanche a un riposizionamento russo più favorevole agli interessi occidentali. Gli Stati Uniti potrebbero tentare di giocare la carta russa in funzione anticinese. È questa possibilità a determinare la ricerca cinese di un allineamento con la Russia, in funzione anti-americana.

Prova della nuova intesa tra Cina e Russia sono le esercitazioni militari congiunte. Due recenti nelle acque dell’emisfero meridionale: la prima a febbraio nell’Oceano Indiano insieme alla marina del Sudafrica, la seconda a marzo nel Mar Arabico con quella dell’Iran. Assai rilevanti sono anche le esercitazioni condotte in Oriente, tra il Mar del Giappone e i Mari cinesi, che dimostrano che, mentre la Russia è impegnata militarmente sul fronte occidentale, ad Est, con la Cina, sfida un arco di forze alleate agli Stati Uniti, i quali mantengono un’alta presenza militare in Corea del Sud e in Giappone, sostengono Taiwan e hanno basi militari anche nelle Filippine.

Dal punto di vista anche della rivalità inter-imperialistiche sui mari Cina e Russia hanno quindi tutto l’interesse – almeno in questa fase e prima di un’eventuale punto di svolta della guerra in Ucraina – a mostrarsi affiancate.

Mentre la Russia fronteggia sul versante europeo l’espansione del blocco militare guidato dagli Stati Uniti, la Cina lo subisce nel Pacifico, attraverso l’anticinese AUKUS (USA, Gran Bretagna e Australia) e l’ipotetica formazione di una NATO asiatica con gli USA insieme a Giappone, Australia e India, il cosiddetto QUAD, a cui si aggiungono i Paesi geograficamente vicini alla Cina che, spaventati dal suo espansionismo, ad esempio nei Mari cinesi, contano sulla protezione americana.

La questione di Taiwan resta una linea rossa tracciata dalla Cina. Il viaggio della presidente di Taiwan Tsai Ing-wen negli Stati Uniti ha visto la pronta reazione cinese con manovre militari attorno all’isola che hanno simulato un suo accerchiamento e un attacco missilistico. Subito dopo le grandi esercitazioni militari Xi Jinping, nel corso di un’ispezione navale, ha invitato le forze armate a “rafforzare l’addestramento militare orientato al combattimento reale”.

Mentre si fa concreta la possibilità di una guerra per Taiwan, già quella in Ucraina segna un passo verso un terzo conflitto mondiale che vedrà coinvolte le maggiori potenze imperialiste in una feroce lotta per una nuova spartizione delle zone di loro dominio. Gli Stati Uniti da attuale gendarme mondiale si batteranno per difendere quelle posizioni predatorie, conquistate attraverso le sanguinose guerre del secolo scorso, dalle ambizioni del più giovane e agguerrito capitalismo cinese che ha fame di risorse e mercati e pretende un ben più largo bottino dal saccheggio imperialistico corrispondente alla sua accresciuta forza economica, politica e militare.

La Russia vorrebbe difendere i precedenti equilibri in Europa, mentre l’attuale “pacifismo” della Cina è funzionale alla preparazione del conflitto che verrà, le serve a prendere tempo per rafforzarsi economicamente, politicamente e militarmente. L’attivismo diplomatico cinese volto alla espansione delle sua sfera commerciale e finanziaria, è la premessa per aumentare le risorse destinate al riarmo, mentre tesse una rete di relazioni con i paesi in contraddizione con gli interessi americani.

Gli accordi di oggi pongono dunque le basi per la guerra di domani.








70 anni di conflitti regionali e imperiali sul Golfo Persico

L’accordo del 10 marzo con cui Iran e Arabia Saudita hanno ristabilito le relazioni diplomatiche segna una conferma del rafforzato peso internazionale della Cina. Il Dragone, che ha mediato e favorito le trattative, esce per la prima volta dal ruolo di semplice acquirente di risorse energetiche da entrambi i paesi per atteggiarsi ad arbitro in una regione in cui il ruolo di Stati Uniti e Russia appare in fase declinante.

L’avvicinamento fra le due rive del Golfo Persico viene a ridefinire gli intricati equilibri politici fra gli Stati del Medio Oriente e il potere delle grandi potenze mondiali sulla regione. Si apre una fase in cui potrebbero cambiare di segno, ma non necessariamente di intensità, i sanguinosi conflitti armati che funestano la regione.

A rendere possibile questo risultato anche la politica di parziale disimpegno da parte degli Stati Uniti in Medio Oriente, portata avanti dall’amministrazione Trump ma già accennata ai tempi della presidenza Obama. Questo mutato atteggiamento è conseguenza del relativo declino degli Stati Uniti nei confronti dell’ascesa del capitalismo cinese il quale, andando incontro ai primi segni di senescenza, tende alla sua proiezione globale, commerciale, finanziaria, diplomatica, militare.

È possibile che la ricucitura delle relazioni diplomatiche fra Iran e Arabia Saudita non implichi una progressione verso la pace dei conflitti in corso in Siria e nello Yemen, che vedono le due potenze regionali schierate su fronti opposti e fra le quali non sarà facile appianare le divergenze di interessi in un’area estesa e cruciale, ricca di fonti energetiche e che controlla importanti rotte marittime. Non si può sottovalutare l’asprezza di conflitti ultradecennali che hanno provocato massacri inenarrabili, sia in Siria sia nello Yemen si stimano oltre 400.000 morti ciascuno.

Gli eventi dagli esordi delle guerre in Siria nel 2011 e nello Yemen nel 2014 dimostrano il progressivo disimpegno degli Stati Uniti nell’area, accelerato dal perseguimento di una politica energetica autarchica. Per un certo tempo un crescente ruolo ha ricoperto la Russia, affermato grazie a una complessa politica di alleanze sull’aspro terreno dell’ancora non risolto conflitto siriano. Per una certa fase Mosca aveva tessuto una fitta rete diplomatica e sembrava quasi che fosse sul punto di assumere quel ruolo che in passato era stato degli Stati Uniti. Nello svolgersi del conflitto siriano la Russia si è introdotta come alleata del regime di Damasco, tiepido alleato dell’Iran e, dopo momenti di attriti, in un rapporto di collaborativa interlocuzione con la Turchia. Nello stesso tempo il mantenimento di buone relazioni con Israele ha richiesto un prezzo che Mosca ha scaricato sui propri alleati autorizzando centinaia di incursioni dell’aviazione dello Stato ebraico in Siria, sia contro obiettivi militari del regime sia contro le milizie filoiraniane alleate di Damasco.

Lo scoppio della guerra in Ucraina ha rimesso in discussione anche l’incipiente egemonia russa sul Medio Oriente, aprendo un vuoto nel quale la Cina cerca di inserirsi.

La inimicizia fra Arabia Saudita e Iran vanta una lunga tradizione di lotte feroci nella contesa imperialistica per la rendita petrolifera, in un gioco di alleanze internazionali che hanno visto sullo sfondo gli Stati Uniti, per alcuni decenni unici burattinai degli Stati mediorientali.

L’incontro storico del febbraio del 1945 a bordo dell’incrociatore statunitense Quincy fra il re saudita Abd al-Aziz e il presidente Roosevelt, di ritorno dalla conferenza di Yalta, fu una pietra miliare nelle relazioni fra i due Stati e che pose le basi dell’egemonia regionale degli Stati Uniti. La più grande potenza imperialista del mondo assegnò alla monarchia saudita il ruolo di garante degli equilibri politici in Medio Oriente: la perpetuazione e il rafforzamento di un regime dispotico, semifeudale e oscurantista, che galleggiava su un oceano di petrolio era quanto di più funzionale alla sua dominazione imperiale.

Finalità analoghe ebbe nel 1953 in Iran l’operazione Ajax con la quale la Cia e i servizi segreti britannici unirono gli sforzi per rovesciare il governo del liberale Mossadeq e per imporre il regime assoluto dello scià Reza Pahlavi.

Questi eventi hanno fatto sì che da allora la dominazione americana nel Golfo sia stata quanto mai salda, non senza che fra Teheran e Riad maturassero già allora tensioni e rivalità incentrate sullo sfruttamento del petrolio e del gas della piattaforma continentale, sul controllo dei traffici marittimi, sui rapporti con gli altri Stati rivieraschi, sulla contrapposizione fra le correnti sunnita e sciita dell’Islam e sul controllo dei luoghi santi di Mecca e Medina, mete dei rituali pellegrinaggi.

La cosiddetta “rivoluzione islamica” del 1979 che rovesciò il regime monarchico iraniano venne a rompere questo equilibrio: i prelati islamici affermavano di voler liberare il paese dalla tutela statunitense e porlo di fronte al mondo come una potenza regionale decisa a svolgere un ruolo autonomo.

Il venire meno di uno dei pilastri su cui poggiava il controllo statunitense sul Golfo innescò la lunga sequela di guerre per l’egemonia regionale. Il conflitto fra Iran-Iraq degli anni ’80, le due guerre del Golfo del 1990-91 e del 2003 furono alcune delle tappe che scandirono l’evoluzione dei rapporti di forza regionali. In tutti questi casi la rivalità fra Arabia Saudita e Iran rimase un aspetto centrale di una tragedia in cui i veri protagonisti rimasero dietro le quinte.

Eppure è sbagliato vedere l’Arabia Saudita come uno staterello medievale foraggiato dagli Stati Uniti e pedina servile della loro politica. Da un certo punto in poi questo Stato, divenuto ricchissimo e potente grazie alla rendita petrolifera, ha iniziato a emanciparsi dalla tutela di Washington. Questo lento processo venne allo scoperto già nella seconda metà degli anni ’80, nella fase finale del conflitto in Afghanistan, successivo all’invasione sovietica del paese. Sono note le peripezie del ricco saudita Bin Laden nel paese centroasiatico quando, da zelante guerrigliero in lotta contro l’invasore “ateo”, incominciò a sviluppare sul terreno della guerriglia quella rete che si rese illustre coi suoi attentati terroristici di dimensioni catastrofiche contro gli interessi statunitensi e che culminarono negli attacchi dell’11 settembre del 2001.

Certo non fu in quel caso il regime saudita in proprio a colpire la potenza americana, ma resta il fatto che lo furono ambienti legati all’apparato di Stato di quel paese. Il messaggio, trasversale ma neanche troppo, lanciato all’America fu talmente fragoroso che in capo a due anni Washington menava una guerra finale contro l’Iraq di Saddam Hussein, il quale, animato da un ambizioso piano di egemonia mistificato da una tenue tintura ideologica panaraba, veniva visto come una pericolosa minaccia per l’Arabia Saudita e per le altre monarchie petrolifere del Golfo. Gli Usa, con il linguaggio paradossale della potenza militare, vollero colpire il nemico più insidioso dell’amico che li aveva pugnalati al fianco, per poi affrontare in un secondo tempo per via politica la potenza repubblicana teocratica sciita, il nemico più possente della monarchia sunnita saudita.

La vicenda della guerra irachena del 2003 si rivelò come un caso paradigmatico di vittoria pirrica: dopo avere sconfitto agevolmente l’avversario sul campo di battaglia, grazie anche alla schiacciante supremazia aerea, la sconfitta politica venne negli anni seguenti grazie all’impossibilità di controllare il territorio.

Gli Stati Uniti erano riusciti a rovesciare e a mandare alla forca Saddam Hussein, il quale fino ad allora era stato visto come il peggiore nemico dell’Arabia Saudita, delle altre piccole monarchie del Golfo e di Israele.

L’aviazione dello Stato ebraico nel 1981 aveva bombardato un impianto nucleare in Iraq costruito in collaborazione con la Francia, la quale durante la guerra Iran-Iraq aveva dotato l’aviazione irachena degli allora aggiornatissimi aerei d’assalto Dassault Super Étendard, mentre Israele aveva fornito pezzi di ricambio all’aviazione iraniana, al servizio di quel regime che nella propria bugiarda propaganda antisemita si poneva la distruzione della cosiddetta ”entità sionista” e un inesistente sostegno alla “causa palestinese”.

La distruzione del regime iracheno era stato per gli Stati Uniti un tentativo di rassicurare i propri alleati storici nella regione, in primo luogo Israele e Arabia Saudita, e si proponeva un velleitario processo di “State building” per creare un regime fantoccio, dalla facciata democratica, che potesse contenere le spinte espansionistiche dell’Iran e garantisse la sicurezza dell’estrazione di petrolio e dei traffici relativi nel Golfo Persico, e mettendo sotto tutela gli stessi “paesi amici”.

Il risultato dal punto di vista degli Stati Uniti si rivelò in seguito fallimentare. L’occupazione fu costretta a ripiegare su obiettivi più limitati dopo l’attacco della guerriglia irachena. Il contingente militare statunitense rinunciò presto a controllare il territorio e il risultato fu una guerra di lunga durata in cui uno schieramento filo-iraniano, che faceva leva sulla componente religiosa sciita maggioritaria fra la popolazione irachena, si confrontò con i gruppi armati legati alle monarchie arabe del Golfo.

L’incubo di un Iraq sotto l’egemonia di Teheran venne contrastato con risultati soltanto parziali, anche attraverso l’estensione della guerra in Siria, dall’azione congiunta dello Stato Islamico, delle monarchie del Golfo (un ruolo di primo piano ebbe il Qatar, prima alleato e poi nemico di Riad), della Turchia e degli Stati Uniti.

Durante il secondo mandato presidenziale di Barack Obama gli Stati Uniti avviarono un processo di “uscita” progressiva dal Medio Oriente e un rapporto più dialogante con Teheran. Il primo risultato di rilievo fu l’accordo sul controllo del nucleare iraniano, noto come Jpcoa, firmato a Vienna nel luglio del 2015. Fra i paesi firmatari dell’accordo figuravano oltre all’Iran e agli Stati Uniti, anche la Germania, la Francia, il Regno Unito, la Russia e, non a caso, la Cina, che così esordiva sulla scena della diplomazia mediorientale. Quel patto fra potenze si proponeva di favorire una transizione morbida in un Medio Oriente che non si poteva più pensare di dominare con interventi militari e che si riteneva di affidare a un delicato quanto improbabile gioco di equilibri.

L’Iran vide un alleggerimento delle sanzioni economiche, riprese a esportare petrolio e il governo, guidato allora dal presidente Rouhani, ritenuto incline a una politica di apertura verso l’Occidente, ebbe modo di riprendersi dopo una delle ondate di proteste che nel paese si sviluppano periodicamente contro il regime teocratico.

L’esito dell’accordo di Vienna era di intralcio a Riad, la cui reazione rabbiosa non tardò troppo: nel gennaio del 2016 un macabro messaggio pervenì al rivale iraniano, il capo religioso della minoranza sciita saudita Nimr Baqir al-Nimri veniva decapitato insieme ad altri 46 correligionari. La conseguenza fu il saccheggio del consolato saudita a Mashhad in Iran e la rottura delle relazioni fra i due paesi.

Se la contesa per la spartizione della rendita petrolifera si inasprisce incessantemente a causa della crisi generale del capitalismo, anche la lotta per il controllo delle rotte commerciali diventa più accanita.

La guerra nello Yemen ha visto l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti impegnati sul terreno a fianco del governo ufficiale, mentre l’Iran si è schierato a sostegno dei ribelli Houthi, che da un punto di vista religioso si richiamano in maggioranza allo zaydismo, una delle correnti religiose nell’ambito dell’Islam sciita. La posizione geografica dello Yemen ne fa un paese chiave nella scacchiera internazionale dato che controlla l’accesso al Mar Rosso. Occorre ricordare che sull’altra sponda dello stretto di Bab el-Mandeb, il piccolo Stato di Gibuti ospita le basi militari di Stati Uniti, Cina, Giappone, Francia, Italia, Spagna e della stessa Arabia Saudita, mentre nella contigua Eritrea convivono, insieme con un avamposto russo, le basi militari degli arcinemici Iran e Israele.

I successi militari riportati dagli alleati dell’Iran nella guerra siriana, la sconfitta dello Stato Islamico, lo spettro del cosiddetto “Corridoio sciita” che collega l’Iran al Mediterraneo attraverso i territori controllati dai suoi alleati, la presenza della finanza iraniana in paesi rivieraschi del Golfo Persico come Kuwait, Qatar, Oman e gli stessi Emirati Arabi Uniti, e la guerra nello Yemen a un certo punto hanno posto Riad in una reale situazione di accerchiamento. Allora la monarchia saudita si è spinta a cercare un più deciso sostegno statunitense contro Teheran, con scarsi risultati, tranne la denuncia dell’accordo sul nucleare iraniano nel 2018 da parte dell’amministrazione Trump e il ripristino delle sanzioni economiche nei confronti dell’Iran, che ha dovuto limitare di nuovo le esportazioni petrolifere.

La reazione iraniana è stata nel 2019 un attacco compiuto per mezzo di droni, partiti dal territorio yemenita controllato dagli houthi, contro gli impianti sauditi di prima raffinazione del petrolio, limitando in maniera cospicua per alcuni mesi le esportazioni petrolifere di Riad.

La guerra in Ucraina ha modificato ancora una volta sensibilmente gli equilibri in Medio Oriente.

LL’Iran ha eluso in maniera più vistosa che in passato le sanzioni alle proprie esportazioni di petrolio verso la Cina che, grazie a un complesso sistema di triangolazioni che vedono un ruolo di primo piano della Malesia, hanno raggiunto il cospicuo volume di 1.500.000 barili al giorno.

Le esportazioni dell’Arabia Saudita verso la Cina sono assai più cospicue: sui 3,5 milioni di barili al giorno. Per contro, l’Arabia Saudita aiuta Mosca ad eludere le sanzioni alle esportazioni importando petrolio russo, che miscela con il proprio prima di rivenderlo all’estero.

La firma dell’accordo del 10 marzo, quindi, difficilmente porterà alla fine della rivalità su tutti i terreni di scontro come lo Yemen, il Libano, la Siria e l’Iraq, sui quali Iran e Arabia Saudita si trovano su fronti opposti. Ma resta il fatto che la diplomazia cinese ha compiuto il suo ingresso trionfale in Medio Oriente.








Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale

Miraggio del salario minimo per deviare la combattività operaia

L’aggravarsi della crisi economica e il ritorno dell’inflazione in alcuni paesi europei hanno avuto come effetto un’ondata di agitazioni sindacali. In Francia, Gran Bretagna, Grecia, e sia pure con dimensioni minori anche in Germania, da mesi sono in corso forti movimenti di sciopero. La stessa cosa non è ancora accaduta in Italia dove, nonostante l’evidente peggioramento delle condizioni di vita dei proletari, i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) non chiamano i lavoratori allo sciopero per tentare di fermare la diminuzione dei salari reali conseguente al carovita e che, anche precedentemente alla crescita dell’inflazione, è in atto da almeno tre decenni (“Il declino costante dei salari in Italia”).

Per dissimulare questa condotta imbelle e traditrice Cgil Cisl e Uil hanno proclamato tre manifestazioni interregionali in tre sabati di maggio – a Bologna (6 maggio), Milano (13 maggio) e Napoli (20 maggio) – «al fine di ottenere un cambiamento delle politiche industriali, economiche, sociali e occupazionali».

Così facendo, i sindacati di regime rinunciano, anzi tentano di impedire, che si sviluppi una lotta condotta attraverso gli scioperi per imporre aumenti salariali alle imprese, private e pubbliche. In tal modo la difesa del potere d’acquisto delle paghe è demandato a una ipotetica riforma del fisco che riduca la tassazione sui salari. Tale manovra demagogica, ordita di concerto fra governo e sindacati corporativi, non deve trarre in inganno. Ci sono infatti vari aspetti che sconsigliano qualsiasi accondiscendenza proletaria verso questa prassi del collaborazionismo sindacale.

Occorre considerare che, anche qualora il prelievo fiscale diretto sui salari venisse alleggerito, si dovrebbe tenere in conto che, mentre lo sciopero potrebbe imporre un aumento salariale al padronato nel giro di poche settimane, la strategia dilatoria dell’opportunismo sindacale allungherebbe oltremisura i tempi di riforme di origine parlamentare per le quali, anche nel migliore dei casi, occorrerebbe attendere anni. Nel frattempo i salari dei lavoratori continuerebbero a ridursi. Se si volessero accelerare i tempi, bisognerebbe imbastire mobilitazioni talmente forti da imporre quelle riforme al governo borghese. Tutto ciò è assai inverosimile, un tale esito richiederebbe scioperi ancora più potenti ed estesi di quelli in corso in Francia.

Sappiamo per certo che la Cgil – di Cisl e Uil nemmeno ne parliamo – è del tutto contraria a un simile livello di mobilitazioni. C’è un’illustre precedente storico: di fronte alla riforma delle pensioni Fornero – che fu assai più dura per i lavoratori di quella appena varata in Francia – la Cgil non seppe far altro che promuovere la miseria di 3 ore di sciopero generale nel settore privato e 8 ore per i lavoratori statali.

Altro aspetto è che aumentare i salari netti tagliando le tasse sul salario lordo è un modo per non entrare in urto con il padronato e mantenere la pace sociale, procrastinando il riaccendersi della lotta di classe. Gli industriali sono ben favorevoli a questi maneggi, vedendosi per un certo arco temporale sgravati della pressione del malcontento della propria forza lavoro.

L’ipotesi di aumentare in tal modo i salari anche evita la cosiddetta spirale inflazionistica prezzi-salari, preoccupazione ribadita l’11 aprile dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) nella nota sul Documento di Programmazione Finanziaria del Governo: «Un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi […] sosterrà il potere d’acquisto delle famiglie e contribuirà alla moderazione della crescita salariale […] Questa decisione testimonia l’attenzione del Governo alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e, al contempo, alla moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi».

Quindi Cgil, governo e industriali sono d’accordo sulla via “per aumentare i salari”: riducendo le tasse senza toccare i profitti. Lo ha confermato il viceministro dell’Economia intervistato dal Corriere della Sera del 13 aprile in merito al taglio da tre miliardi del cuneo fiscale per i salari sotto i 35 mila euro lordi annui: «Un intervento che […] si muove nella direzione richiesta sia dai sindacati sia dalla Confindustria».

Da certe premesse appare evidente la modestia dell’aumento salariale che si otterrebbe in tal modo, col quale si confermerebbe la riduzione in corso da anni dei salari reali, alla quale verrebbe posto soltanto un piccolo freno. I due ultimi provvedimenti di taglio dell’Irpef sui salari adottati dal governo sommati insieme in media non arrivano a 50 euro di aumento mensile.

La rivendicazione della riduzione della pressione fiscale sui salari pone altri inconvenienti. Riducendo le tasse sui salari, si riduce il gettito fiscale in favore dello Stato borghese, elemento i cui effetti la classe dominante cercherà di scaricare sulla spesa sociale in favore della classe lavoratrice. Questo non significa però che sia vero il contrario, cioè che aumentando il gettito fiscale automaticamente aumenti anche la spesa sociale e che perciò i lavoratori debbano farsi carico di rivendicazioni atte a tale scopo, quale ad esempio la rinomata “tassa patrimoniale” (“La Patrimoniale”).

In una fase storica di crisi di sovrapproduzione dell’economia capitalistica, quale quella avviatasi da metà anni ‘70 nei paesi capitalisticamente maturi, in assenza di una lotta sindacale per difendere disponibilità e gratuità delle prestazioni sociali – scuola, sanità, trasporti, assistenza – incentrata sulla richiesta di assunzioni e aumenti salariali dei lavoratori di quei settori, l’aumentato gettito fiscale andrebbe in favore della borghesia, in sostegni alle imprese, al sistema bancario e dell’apparato repressivo e militare del suo Stato.

Viceversa, anche in presenza di un diminuito gettito fiscale, una lotta sindacale della forza adeguata, quindi generale di tutta la classe salariata, potrebbe imporre comunque miglioramenti nelle prestazioni sociali in favore dei lavoratori, a danno delle altre classi sociali e della forza repressiva e militare dello Stato borghese.

All’assise finale del diciannovesimo congresso della Cgil, il 16 marzo scorso a Rimini, il bonzo generale Landini ha dichiarato che «il fisco è la madre di tutte le battaglie». L’ex segretario genovese della Fiom – esponente di un gruppo che si vuole sindacalmente di classe e politicamente leninista – si è detto d’accordo! Si tratta invece null’altro che di un ennesimo diversivo con cui mascherare l’avversità di questo sindacato di regime verso le vere battaglie per obiettivi che servono agli interessi dei lavoratori. Tali lotte devono essere per forti aumenti salariali, per la riduzione della giornata e della vita lavorativa, per il salario pieno ai disoccupati. Per usare le parole di Lenin, Landini è un agente della borghesia in seno al proletariato e chi non lo riconosce è un opportunista.

Inoltre, indicando quale fine del movimento sindacale «un cambiamento nelle politiche industriali, economiche, sociali e occupazionali» – in luogo di obiettivi strettamente sindacali – la Cgil offre sostegno ai partiti borghesi ora all’opposizione, nella prospettiva di un eventuale “ribaltone” o delle future elezioni politiche con cui ai proletari sarà garantito il diritto poco apprezzabile di scegliere da quale banda di politicanti borghesi farsi opprimere.

* * *

Oltre alla riforma fiscale, un altro tema è agitato dai partiti borghesi all’opposizione e ha animato il dibattito in seno alle organizzazioni sindacali, comprese quelle conflittuali: il salario minimo legale.

Vale anche qui quanto detto sopra: si tratterebbe, per i lavoratori che ne beneficerebbero, di attendere gli esiti della politica parlamentare. Tempi assai lunghi, quindi, per un problema che affligge i lavoratori coi salari più bassi e che quindi è per essi estremamente urgente.

Per i partiti borghesi che agitano la questione, si tratta di un comodo strumento di propaganda demagogica ed elettorale. Lo conferma la vaghezza delle proposte, che si aggirano intorno ai 9 euro l’ora, non si capisce neanche se al netto o meno dei contributi previdenziali e assistenziali. Quel di cui possiamo essere certi è che, allorquando tornassero alla guida del governo, i partiti politici che oggi si mostrano sostenitori di tale proposta di legge, ritroverebbero il loro senso di responsabilità verso l’economia nazionale e verso i capitalisti che si arricchiscono grazie ai salari bassi, e finirebbero in un compromesso al ribasso.

Anche qui, come per un lieve aumento salariale in ragione di un taglio delle tasse o del reddito di cittadinanza, non si tratta di essere a favore o contrari bensì di spiegare come si tratti di provvedimenti che mirano, col minor costo possibile, a evitare l’esplosione del malcontento sociale.

Si tratta perciò, piuttosto che di soluzioni utili a difendere veramente le condizioni di vita della classe lavoratrice, di condotte di quella parte di borghesia non priva di lungimiranza verso i propri interessi, utili a garantire la pace sociale, la moderazione salariale, la difesa dei profitti. Tanto più che per il salario minimo, come per il reddito di cittadinanza, si tratta di misure suggerite dalle istituzioni dell’Unione Europea. Un coro cui si aggiunge anche il presidente dell’Inps Tridico, che nel contempo raccomanda di «non toccare la riforma Fornero« (“La Stampa”, 18 aprile).

Sorgono però altre considerazioni in merito a questa questione. La Cgil, prima contraria, poi si è detta possibilista, ma vincola la proposta del salario minimo legale alla questione dei cosiddetti “contratti pirata” e, da questa, a quella di una legge sulla rappresentanza.

I contratti pirata sarebbero quei contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) firmati da sindacati poco rappresentativi, e in ogni caso non firmati da Cgil Cisl e Uil, che, secondo la Cgil, opererebbero una spinta al ribasso delle condizioni d’impiego dei salariati.

Ma è un documento dello scorso febbraio della stessa Cgil – della Fondazione Giuseppe Di Vittorio – relativo all’anno 2022, a mostrare come dei circa 14 milioni e mezzo di lavoratori salariati del settore privato, esclusi i lavoratori del settore agricolo e domestico, il 96,6% sia coperto da contratti collettivi firmati da Cgil Cisl e Uil e solo il 3,4% (474.755 lavoratori) lo sia da contratti collettivi siglati da altri sindacati. Sempre secondo lo stesso documento, a dicembre 2022 risulterebbero registrati dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) 959 contratti collettivi nazionali nel settore privato. Di questi 211 sottoscritti da Cgil Cisl e Uil; 748 da altre organizzazioni sindacali. Secondo Affari e Finanza del 27 marzo, che riporta numeri che si discostano di poco dal documento della Fondazione Di Vittorio, dei circa 750 contratti non firmati da Cgil Cisl e Uil, la metà sarebbero firmati da Ugl, Cisal e Confsal «spesso identici o molto simili a quelli dei sindacati confederali».

Quindi la questione dei contratti pirata riguarda meno del 3,4% dei lavoratori e appare un pretesto della Cgil per chiedere una legge sulla rappresentanza che garantisca ulteriormente ad essa, e alla Cisl e alla Uil il monopolio della contrattazione, onde difendersi non dall’Ugl e dagli altri sindacati di comodo creati da associazioni padronali per ottenere contratti ancora peggiori per i lavoratori, ma dal sindacalismo di classe.

Per altro, risulta che, ad esempio, la Fisascat Cisl (Federazione Addetti Servizi Commerciali, Affini e del Turismo) non sia favorevole a una legge sulla rappresentanza. E che in ormai 10 anni non sia mai stato messa in pratica la misura della rappresentanza prevista dal Testo Unico del gennaio 2014, come media dei voti Rsu e degli iscritti, certificata dall’INPS. Quindi, nemmeno fra Cgil Cisl e Uil vi è accordo circa la legge sulla rappresentanza, forse perché, in una certa misura e a seconda delle categorie, essa favorirebbe un sindacato a discapito degli altri.

La questione dei contratti pirata assume anche il contorno di una giustificazione alla miseria dei risultati della tanto decantata contrattazione di Cgil Cisl e Uil.

Infatti, sono circa 4 milioni i lavoratori coperti da contratti collettivi nazionali di lavoro siglati da Cgil Cisl e Uil che fissano minimi salariali inferiori ai 9 euro lordi:
 - turismo: trattamento orario minimo di 7,48 euro;
 - cooperative servizi socio-assistenziali: 7,18 euro;
 - pubblici esercizi, ristorazione e turismo: 7,28 euro;
 - tessile e abbigliamento: 7,09 euro;
 - servizi socio-assistenziali: 6,68 euro;
 - imprese di pulizia e dei servizi integrati o dei multiservizi: 6,52 euro;
 - vigilanza e servizi fiduciari: 4,60 euro all’ora per il comparto dei servizi fiduciari e poco superiore a 6 euro per i servizi di vigilanza privata.

Il 6 aprile una sentenza del tribunale del lavoro di Milano ha condannato un’azienda, a seguito di un’azione legale promossa dall’Adl Cobas, a risarcire una lavoratrice perché il CCNL applicato non garantiva «un trattamento retributivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36 della Costituzione). Si trattava del contratto vigilanza e servizi fiduciari siglato da Cgil Cisl e Uil. Quindi la Cgil, che difende la Costituzione borghese quale principio politico assoluto e intangibile, firma contratti che la magistratura borghese afferma violino la stessa Costituzione!

A ciò si aggiunga un ultimo elemento. Il tempo medio di ritardo per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro nel settore privato è di 33,9 mesi, quasi 3 anni.

Tutto ciò serve a mostrare come gli elefantiaci apparati di questi sindacati di regime, con migliaia di funzionari, siano del tutto inutili ai fini della difesa dei lavoratori, e servano invece a controllare e immobilizzare la classe lavoratrice.

Sulla questione dei salari, e in particolare sulla questione del salario minimo, l’Unione Sindacale di Base ha organizzato a Roma un convegno il 31 marzo scorso, ospiti il capo del Movimento 5 Stelle Conte e il presidente dell’Inps Tridico.

I capi dell’Usb da un lato giustamente affermano che solo la lotta può difendere i salari, e hanno promosso uno sciopero generale per il prossimo 26 maggio con al centro la rivendicazione di un aumento salariale medio di 300 euro. Dall’altro offrono e cercano sostegno in un partito politico borghese che agita la rivendicazione del salario minimo.

Ma anche questa rivendicazione dovrebbe essere sostenuta da un forte movimento di lotta dei lavoratori onde evitare che si risolva, nell’ambito della politica borghese e parlamentare, in una misera legge assai più utile al mantenimento della pace sociale che alla difesa dei salari. D’altronde, se vi fosse la forza per imbastire un movimento di lotta sindacale finalmente potente, perché mai bisognerebbe rivendicare un salario minimo invece che, appunto, aumenti salariali maggiori e per tutti?

Se, come è, il problema è la lotta, bisognerebbe concentrarsi sul dato per cui in Francia come in Inghilterra le categorie che più hanno scioperato in questi mesi sono quelle che in Italia sono sottomesse alla legge anti-sciopero, la 146 del 1990 e la 83 del 2000. Leggi che vennero anticipate dai codici di autoregolamentazione, sottoscritti dai sindacati tricolore al fine di impedire che la lotta economica dei proletari dilagasse fuori dal loro controllo. Quindi a una parte consistente della classe salariata in Italia è di fatto vietato scioperare in modo efficace da due leggi fasciste, invocate dai sindacati di regime e approvate, in piena democrazia, da un governo democristiano e da uno di centro-sinistra (D’Alema).

Un partito che volesse dimostrarsi dalla parte della classe lavoratrice dovrebbe porre al centro dei suoi obiettivi non il salario minimo ma l’abrogazione di queste leggi e il ripristino della piena libertà di sciopero. Cosa che, non a caso, nessun partito oggi presente in parlamento si sogna lontanamente di fare, dimostrando anche in questo modo la sua natura borghese. Da molti decenni ogni partito presente in parlamento non può non essere espressione degli interessi della classe capitalistica.

I dirigenti dell’Usb, dunque, invece di persistere nella loro condotta opportunista, cercando alleanze con tali partiti, dovrebbero perseguire l’unità d’azione con tutte le forze del sindacalismo conflittuale, cioè coi sindacati di base e le aree conflittuali in seno alla Cgil, ponendo, oltre alla giusta rivendicazione salariale dello sciopero del 26 maggio, la questione della libertà di sciopero. Invece i capi dell’Usb promoovono questo sciopero senza coinvolgere gli altri sindacati di base, tornando alla pratica degli scioperi “ciascuno per sé”, precedente ai tentativi di scioperi unitari degli ultimi due anni. Un bel passo indietro, di cui naturalmente sono responsabili tutte le dirigenze opportuniste dei maggiori sindacati di base.

La lotta contro l’opportunismo politico-sindacale è aspetto cruciale della lotta di classe e conferma la necessità e la funzione del comunismo rivoluzionario, del suo partito e della sua azione in seno al movimento sindacale, per mettere finalmente a disposizione dei lavoratori le armi teoriche e organizzative con cui difendersi dallo sfruttamento capitalistico e, su questa base, passare all’offensiva sul piano politico.







A Portland, in Oregon
Una Rete per la Lotta di Classe

A Portland, la capitale dello Stato dell’Oregon, nella parte settentrionale della costa pacifica degli Stati Uniti, i nostri compagni hanno promosso, insieme ad altri militanti sindacali, un coordinamento che hanno chiamato Class Struggle Action Network (CSAN), Rete per la Lotta di Classe, volto a unire le lotte operaie. Si ispira agli stessi principi e metodi su cui si è costituito in Italia il Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati.

È stato redatto un primo volantino che presenta questo coordinamento e i compagni lo hanno distribuito nella prima occasione di piazza, il 19 aprile, a una manifestazione di lavoratori della scuola che minacciano di scendere in sciopero, sostenuti da genitori e alunni. Su un cartello era scritto “Ready to strike”: pronti a colpire.

Lo riproduciamo qui di seguito.

Nell’area di Portland così come in tutti gli Stati Uniti, il personale scolastico è in sciopero o impegnato in vertenze contrattuali. In questo momento, per rafforzare la sua lotta con sforzi coordinati e solidali, è stato preparato un altro volantino del CSAN, rivolto specificamente ai lavoratori della scuola. È stato distribuito in inglese, spagnolo e russo: infatti, nella zona di Portland dagli anni ’60 esiste una comunità di circa diecimila immigrati russi.

Nel frattempo i lavoratori presenti alla manifestazione hanno ottenuto un contratto che comprendeva aumenti del 18% dei salari, stabilendo un significativo precedente per i lavoratori della scuola della regione.

* * *


Militanti sindacali di tutte le categorie, lottiamo per ricostruire un forte e combattivo movimento sindacale di classe
 
Chi siamo

Il Class Struggle Action Network (CSAN) è una rete di militanti sindacali di industrie e mestieri che condividono i principi del sindacalismo di classe. Il nostro scopo è rafforzare la difesa della classe operaia raccogliendo le forze disperse, per sviluppare iniziative comuni fra sindacati e fra lotte diverse.
Lo facciamo creando canali di comunicazione e forum in cui i militanti del sindacalismo di classe possono incontrarsi, condividere notizie, discutere e sviluppare strategie e tattiche. I membri del CSAN lavorano insieme per avviare azioni intersindacali, come il sostegno a picchetti, manifestazioni congiunte e altre iniziative.
   Il CSAN non vuole essere o diventare un nuovo sindacato. Lavora per unire i militanti del sindacalismo di classe al di sopra dei falsi confini tra sindacati e lotte. Lo sviluppo di questa iniziativa non può che rafforzare l’opposizione al dominante sindacalismo del regime.
   Il CSAN non si propone di competere con i gruppi politici di sinistra nel reclutare e nel ruolo. Il nostro obiettivo è dare un contributo significativo al rafforzamento della capacità di lotta collettiva della classe operaia, fornendo uno spazio di comunicazione e di confronto fra militanti. Il CSAN non è né vuole diventare un organismo di un particolare partito politico. Tutti i lavoratori che si identificano con il sindacalismo di classe sono i benvenuti, indipendentemente dal loro orientamento politico.

Principi del CSAN

   Organizzato da lavoratori, per la lotta difensiva di classe
   L’adesione è aperta a lavoratori iscritti o meno ad organizzazioni sindacali, al di sopra dei mestieri e delle categorie di appartenenza, che vogliano coordinare le proprie attività per unire le lotte operaie.

Azioni di solidarietà e unificazione

CSAN dà la priorità all’unificazione fisica di lotte, scioperi, manifestazioni. Dobbiamo far confluire le lotte nate nei singoli posti di lavoro nella lotta generale dell’intera classe operaia.

Unità nella lotta

Vogliamo far avanzare rivendicazioni che si basino sugli interessi della classe operaia e che la unifichino, invece di quelle che la dividono. Respingiamo qualsiasi dichiarazione di "fine degli scioperi" fino a quando non sia stata proposta e approvata dall’assemblea degli scioperanti.

I picchetti non si toccano

Riconosciamo lo sciopero come una delle armi più importanti nella lotta della classe operaia. Rifiutiamo i limiti definiti dall’attuale quadro normativo voluto e difeso dagli attuali sindacati, che mirano a limitare la libertà di sciopero dei lavoratori. I picchetti vanno rispettati!

Indipendenza degli interessi di classe

I lavoratori non hanno interessi comuni né con i democratici né con i repubblicani. Ci opponiamo a qualsiasi utilizzo della lotta operaia a fini elettorali e affermiamo che la lotta di classe è l’unico strumento utile per difendere i nostri interessi.

Opposizione alla guerra imperialista

La classe capitalista ci sta conducendo verso la guerra imperialista che minaccia i lavoratori di tutto il mondo.








Nel Regno Unito scioperi e manifestazioni annunciano il risveglio della classe operaia

Il 15 marzo, giorno della pubblicazione del bilancio del Governo britannico, si è svolto un grande sciopero che ha riunito i lavoratori dei settori della sanità, della scuola, dei servizi pubblici e dei trasporti. Si è trattato di una ulteriore estensione e intensificazione delle lotte iniziate nel 2022.

L’ondata di proteste, che sta coinvolgendo sempre più settori anche del lavoro qualificato e dei colletti bianchi, è causata dal forte aumento del costo della vita, in particolare alimentari, carburanti e alloggi. A ciò si aggiungono i tagli alle pensioni e una generale intensificazione dello sfruttamento: si chiedono ai lavoratori ritmi sempre più disumani, sottoposti a crescenti snervanti controlli sul posto di lavoro.

Con le categorie in sciopero che appartengono al pubblico impiego, o legati in qualche modo allo Stato, il governo si è rifiutato di cedere, prolungando le trattative. Così i sindacati rischiano incorrere nella violazioni della legislazione, in particolare per la scadenza di validità delle votazioni richieste per indire gli scioperi.


Scioperi nella scuola

La NEU (National Education Union) è uno dei sindacati che hanno partecipato allo sciopero del 15 marzo, forte di una approvazione altissima nel voto tra i lavoratori nelle 23.400 scuole di Inghilterra e Galles.

Nel settembre scorso molti insegnanti avevano ricevuto un aumento salariale, ma inferiore alla incalzante inflazione. Il 28 marzo, vista la forza dello sciopero del 15, la NEU ha chiesto agli iscritti di rifiutare la proposta del governo di un aumento del 4,3% più un bonus da 1.000 sterline.

Il 16 marzo si era unito allo sciopero della NEU il sindacato University and College Union (UCU), che aveva già indetto diversi scioperi negli ultimi cinque anni, ma quest’ultimo è stato il più grande. A febbraio l’UCU ha avvisato che 70.000 lavoratori di 150 università avrebbero scioperato per 18 giorni, a partire dal 1° febbraio. Ciò ha fatto seguito alla mossa provocatoria da parte della UCEA, l’“Associazione dei datori di lavoro di università e college”, che aveva rinnovato la precedente offerta di un aumento del 4-5%, già rifiutata dal sindacato.

La NEU ha cercato – senza successo, come per gli altri settori – di trattare direttamente con il governo, rifiutando la mediazione degli organi di revisione salariale indipendenti, poiché in realtà non sono affatto indipendenti, essendo il governo a nominarne i membri e a stabilire i limiti della “sostenibilità” degli aumenti salariali.

Dunque, nel settore della scuola il malcontento generalizzato dilaga e non sembra accenni a diminuire.


Nella sanità

Il 15 marzo è stato anche l’ultimo giorno di uno sciopero di tre giorni organizzato dalla British Medical Association (BMA) che ha visto protagonisti i medici tirocinanti. Questi rappresentano il 45% dei medici; due terzi sono iscritti alla BMA e alla Hospital Consultants and Specialists Association (HCSA). Quest’ultimo sindacato ha convocato per la prima volta uno sciopero per il 15 marzo.

I medici denunciano la drammatica carenza di personale con orari impossibili e i bassi salari, ridotti di un quarto dal 2008. Minacciano che «in assenza di cambiamenti lasceranno il Servizio Sanitario Nazionale o emigreranno dal Paese per trovare altrove un lavoro meglio retribuito».

Oltre a tutto ciò il medico alla fine del tirocinio si ritrova con un debito di 100.000 sterline, spese per sopperire alla paga insufficiente. Non c’è da stupirsi se così tanti medici si trovino nelle file dei partiti operai, dai tempi del cartismo in poi!

In seguito allo sciopero del 15 la BMA ha indetto un altro sciopero dei tirocinanti, questa volta della durata di quattro giorni, dall’11 al 15 aprile. Il precedente sciopero era durato tre giorni. L’adesione è stata quasi unanime e ha comportato il rinvio di quasi 200.000 appuntamenti non urgenti in tutto il Paese. Il sindacato BMA chiede che il salario del personale medico sia adeguato ai livelli dell’inflazione. Rivendicazioni simili erano state avanzate dagli infermieri, in sciopero qualche settimana prima. Il governo vorrebbe risolvere la questione con una misera somma forfettaria.

Per la prima volta dopo molti anni l’aspettativa di vita dei meno abbienti è in diminuzione, a causa del crescente divario economico e dell’impoverimento di ampi strati della popolazione, oltre che degli insufficienti investimenti nella sanità. Nel sistema sanitario la carenza di personale è drammatica: la stima è di 10.000 medici e 40.000 infermieri. Dopo la sospensione dell’attività e delle visite non urgenti durante il Covid le liste d’attesa hanno continuato ad allungarsi e le visite dei medici di base sono ancora al di sotto dei livelli pre-pandemici. Il risultato – come evidenziato da ulteriori studi – è un aumento della mortalità associata a diverse patologie, come il tumore ai polmoni (il cui tasso di mortalità entro 90 giorni dalla diagnosi è passato in due anni dal 20% al 30%».


Nel pubblico impiego

Nel frattempo continuano gli scioperi dei ferrovieri e degli insegnanti.

Il 15 marzo anche i dipendenti pubblici di 123 dipartimenti governativi hanno aderito in decine di migliaia allo sciopero, partecipando ai picchetti e alle manifestazioni a Belfast, Birmingham, Bristol, Cardiff, Glasgow, Edimburgo e Manchester. A Londra si sono radunati davanti a Downing Street per chiedere al governo di soddisfare le loro rivendicazioni: aumenti salariali e delle pensioni e sicurezza sul lavoro.

Migliaia di iscritti al PCS (Public and Commercial Services Union), un sindacato che inquadra lavoratori sia del pubblico impiego sia del privato, si sono poi recati a Trafalgar Square per aderire alla manifestazione sindacale unitaria. Erano lì presenti i lavoratori del RMT (National Union of Rail, Maritime and Transport Workers) e dell’ASLEF (trasporti).

La PCS ha prolungato lo sciopero per tutto il mese di aprile, che confluirà in un altro sciopero ad oltranza di 133.000 dipendenti pubblici con inizio il 28. I lavoratori dell’Ufficio passaporti sciopereranno per cinque settimane fino al 6 maggio. Anche i lavoratori del gas e dell’elettricità a Canary Wharf e Glasgow hanno indetto sei giorni di sciopero dal 10 al 14 aprile più lunedì 17 aprile.


Nei trasporti

Anche l’ASLEF nella metropolitana di Londra ha scioperato per 24 ore il 15 marzo. I macchinisti, i tecnici e anche gli impiegati avevano votato per il 99% a favore dello sciopero con un’affluenza del 77%.

La direzione dei Trasporti per Londra, che lamenta difficoltà finanziarie dopo la pandemia, ha tagliato sulla sicurezza e nasconde dietro le parole di “modernizzazione” e “flessibilità” la volontà di recedere dagli attuali accordi di lavoro e di ridurre le prestazioni pensionistiche.

I sindacalisti però si dichiarano già pronti a cedere: «Siamo sempre disposti a discutere e negoziare sui cambiamenti, ma non vogliano cambiamenti per il peggio imposti senza previo accordo. I cambiamenti devono essere concordati».

L’RMT organizza anche lavoratori del servizio metropolitano e il 15 marzo intraprenderà uno sciopero per le pensioni, gli accordi contrattuali e contro la perdita di posti di lavoro. La London Underground ha tagliato 600 posti di lavoro tra il personale delle stazioni, ha attaccato le pensioni e le condizioni di lavoro.

Comune alle vertenze dell’ultimo mese – in realtà a quasi tutte le vertenze sindacali – è la questione della “disponibilità economica”: le aziende sostengono che non ci sono soldi per pagare salari più alti. Dietro queste argomentazioni si nasconde un conflitto di classe: i lavoratori, per difendere condizioni di vita degne, si trovano in diretta contrapposizione con la necessità del capitale: estorcere plusvalore dalla forza lavoro, trarne profitto.

Le lotte attuali, nel Regno Unito e altrove, rendono chiaro che il problema è generale, e in quanto tale deve essere affrontato.

I capitalisti, che hanno dovuto organizzarsi per liberarsi dalle catene del feudalesimo e hanno reclutato la classe operaia a tale scopo, ora non hanno più nulla da offrire all’umanità e devono essere, a loro volta, rovesciati.

Tutte le singole vittorie, in termini di benefici immediati, che emergeranno dall’attuale ondata di scioperi, saranno ottenute con la lotta di classe. Questa concrescerà attraverso il coordinamento tra i diversi settori della classe operaia, al di là dei confini di categoria e mestiere, al di là delle barriere locali, regionali e nazionali, perché i loro problemi sono essenzialmente gli stessi. E in effetti, dettagli a parte, le rivendicazioni avanzate in queste settimane da tutti questi scioperi sono notevolmente simili.

Affinché tali rivendicazioni si realizzino stabilmente, quella stessa piena solidarietà dovrà affrontare la questione su di un piano sociale generale, cioè politico, affrontando la necessità di rovesciare l’attuale regime, che sostiene le esigenze del capitale e non dei lavoratori. I lavoratori, protagonisti di sempre più ampie agitazioni, e oggi non scoraggiati neanche dalle leggi sindacali altamente restrittive del Regno Unito, dovranno connettere le loro lotte difensive e a sfondo economico al partito di classe, il Partito Comunista Internazionale.

Questo organo della classe sarà lo strumento essenziale per lottare per una società che metta in primo piano i bisogni degli esseri umani e non dica, come l’opportunista Partito Laburista, che ciò che basta è modificare le leggi del capitalismo per crearne uno più “giusto”. Il capitalismo non può essere “giusto” e non lo è mai stato!

Manteniamo quindi i nervi a posto e prepariamoci, già nelle lotte di oggi, a rovesciare il capitalismo! Fra il fascismo e la borghese democrazia.








Si estendono gli scioperi in Germania

In Germania il malcontento dovuto all’incremento dell’inflazione, come era già avvenuto nel Regno Unito e in Francia, ha determinato negli ultimi mesi un aumento del numero degli scioperi. Si è trattato soprattutto dei cosiddetti “Warnstreiks”, “scioperi di avvertimento”, di un solo giorno, limitati a determinati settori e spesso circoscritti territorialmente.

La Deutsche Bahn – si noti per coloro che invocano le nazionalizzazioni a difesa dei lavoratori – è al 100% di proprietà dello Stato tedesco. Ciò significa che i ferrovieri devono confrontarsi direttamente con il governo federale, attualmente una coalizione cosiddetta “a semaforo” composta da SPD (Partito Socialdemocratico Tedesco), FDP (Partito Liberaldemocratico Tedesco) e Verdi.

In Germania, i consigli di sorveglianza delle grandi imprese includono rappresentanti dei sindacati di regime. Il vicepresidente del consiglio di vigilanza della DB è Martin Burkert, presidente dell’EVG. Ha fatto parte del Bundestag per la SPD dal 2005 al 2020. Anche Cosima Ingenschay, direttore esecutivo federale dell’EVG, siede nel consiglio di vigilanza, così come i presidenti dei consigli di fabbrica delle filiali della DB.

Ciò significa che i membri della burocrazia sindacale adeguano la loro retribuzione a quella dei dirigenti: ovvio che si identifichino con gli interessi di classe dei padroni. Allo stesso tempo, devono agire da valvola di sfogo della rabbia della classe operaia. Da qui la necessità di indire occasionali “Warnstreik” quando la situazione si fa critica.

Aderente alla confederazione sindacale DGB (Deutscher Gewerkschaftsbund), l’EVB è un sindacato di regime con stretti legami con il governo. Nell’ottobre 2020, ha firmato un accordo collettivo anticipato con un aumento pari a zero euro per l’anno in corso. In Germania, tali accordi rendono illegali le azioni di sciopero per tutto il periodo della loro vigenza. Implicano cioè clausole di “pace sociale”.

Abbiamo già scritto nel numero del dicembre scorso dell’accordo raggiunto dall’IG Metall nel Land del Baden-Württemberg, che ha previsto un aumento salariale dell’8,5% in due anni, ben inferiore al tasso di inflazione annuo che in quel mese era del 10,4% e che a febbraio si è attestata all’8,7% (“Anche in Germania il sindacalismo di regime sottoscrive aumenti salariali al di sotto del tasso d’inflazione”).

Il maggior sindacato delle ferrovie e dei trasporti, la EVG (Eisenbahn und Verkehrsgewerkschaft) ha indetto lo sciopero per un solo motivo: l’umore dei suoi iscritti. C’è una diffusa volontà di lotta tra i ferrovieri che, di fronte all’aumento vertiginoso dei prezzi, si rifiutano di accettare ulteriori tagli ai salari reali. L’EVG ha quindi chiamato nella Deutsche Bahn (DB) a scioperare per 24 ore il 27 marzo. Ha chiesto aumenti salariali del 12% per i 180.000 lavoratori che rappresenta e altri piccoli cambiamenti strutturali nei contratti collettivi.

La direzione della DB ha definito queste richieste un’assurdità, affermando che equivalerebbero a un aumento del 25%. L’offerta padronale, di gran lunga inferiore, equivarrebbe a un drastico taglio del tenore di vita dei ferrovieri. I salari aumenterebbero in due fasi per un totale del 5%: dal 1° dicembre 2023 del 3% e dal 1° agosto 2024 del 2%. A ciò, si aggiungerebbe un cosiddetto premio di compensazione dell’inflazione sovvenzionato dal governo federale, una misura una tantum che ammonterebbe a 2.500 euro.

L’argomentazione dei padroni secondo cui l’aumento dei salari implicherebbe una riduzione degli investimenti nelle ferrovie si è rivelata falsa. I governi di coalizione che si sono succeduti hanno smantellato la rete ferroviaria per decenni, indipendentemente dai salari, per renderla più attraente per gli investitori privati, eliminando le tratte ritenute non redditizie. Chiunque si affidi alle ferrovie per viaggiare in Germania può rendersene conto. Cancellazioni e ritardi sono diventati la norma.

Questa crescente inefficienza non riguarda soltanto le ferrovie. Anche altri servizi pubblici, come la sanità e l’istruzione, sono sottofinanziati a causa del calo dei profitti e delle risorse federali dirottate verso il riarmo. Nel frattempo, gli stipendi e i “bonus” dei vertici delle grandi imprese continuano a crescere, come avviene in tutte le principali economie.

Insieme allo sciopero dei ferrovieri vi è stato quello indetto dal sindacato Verdi che rappresenta 2 milioni e mezzo di lavoratori del settore pubblico. Gli aeroporti, le aziende municipali di trasporto pubblico, i porti municipali, le aziende autostradali e la gestione delle acque e della navigazione sono stati fermati.

Oggi per i sindacati di regime è più difficile tenere la situazione sotto controllo. In primo luogo, perché ci sono stati scioperi in altri settori, come quello postale, in secondo luogo perché i lavoratori tedeschi in generale sentono la pressione del calo del tenore di vita e, in terzo luogo, perché la classe operia sta scendendo sul terreno della lotta a scala internazionale. Questo rende più difficile per i borghesi agitare la demagogica retorica del “rimanere competitivi”.

Man mano che l’ondata di scioperi si generalizza la pressione diventerà sempre più difficile da contenere. In un’Europa sempre più integrata sarà più che mai importante coordinarsi con i lavoratori dei nove Paesi confinanti con la Germania, e non solo di Europa.





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Fra il fascismo e la borghese democrazia
A 80 anni dagli scioperi del marzo del 1943

Gli scioperi che 80 anni fa, in piena guerra mondiale, videro protagonista la classe operaia del Nord Italia furono un esempio di come il proletariato, nei casi in cui sia spinto dalla necessità di soddisfare i propri bisogni vitali, sia capace di mandare in frantumi l’ammorbante pace sociale che lo lega alla sottomissione al capitale.

Quando agli inizi di marzo del 1943 prese avvio quel vasto movimento di scioperi che per una breve fase intralciò l’incedere della macchina della guerra imperialista, già da lunghi mesi il malcontento serpeggiava fra i lavoratori delle città del Nord Italia, sempre meno rassegnati a pagare il prezzo dell’impegno nella seconda guerra imperialista. Dopo oltre due anni e mezzo di guerra le condizioni dei proletari erano peggiorate in maniera drammatica.

Mentre i primi bombardamenti alleati squarciavano i quartieri proletari delle città, agli infernali ritmi di lavoro in fabbrica, esasperati dalla disciplina militare e dal ricatto del cottimo, si aggiungeva una drastica caduta del potere d’acquisto dei salari, accelerando un processo che andava avanti da almeno un decennio prima dello scoppio delle ostilità. Infatti la borghesia italiana, col divieto legale dello sciopero e la repressione di qualsiasi iniziativa indipendente del movimento operaio, costretto alla clandestinità, era riuscita a scaricare sui proletari le conseguenze della crisi economica internazionale esplosa nel 1929. Se ne trova il dettaglio quantitativo nel nostro “Comunismo” n.40.

La denutrizione che serpeggiava, specie fra la popolazione operaia delle grandi città industriali, faceva crescere le preoccupazioni del regime, che avvertiva di non essere più in grado di fronteggiare la situazione con le “elargizioni” con cui in precedenza, grazie anche alla repressione, veniva soppresso ogni moto proletario.

Nell’agosto del 1942 nel palazzo dei sindacati fascisti di Milano si svolse un’adunata alla quale parteciparono 2.000 fiduciari sindacali della città e della provincia. In quell’occasione venne ammesso che il salario operaio era di 5,20 lire giornaliere inferiore rispetto al costo ufficiale della vita, valutazione certo ottimistica. Allo stesso tempo era però enunciata l’indisponibilità a procedere ad aumenti salariali che, a detta dei dirigenti fascisti, avrebbe fatto crescere l’inflazione. Al regime non restò che ricorrere a espedienti propagandistici come pesare i lavoratori per negare il loro dimagrimento.

Già nel 1942 si erano avuti scioperi spontanei e le prime manifestazioni di piazza. A Grugliasco, nella cintura torinese, 150 donne avevano ottennuto una distribuzione supplementare di generi alimentari, a Melegnano, in provincia di Milano, altre 300 donne, convocate con una cartolina precetto, avevano manifestato nell’ufficio di collocamento rifiutando il lavoro che le autorità fasciste volevano imporre loro. All’Alfa Romeo di Milano e alla Tedeschi di Torino gli operai erano ricorsi allo “sciopero bianco” che consisteva nel rispettare alla lettera i regolamenti e i mansionari aziendali, intralciando così la produzione. Una forma di lotta questa che avrà una certa diffusione anche nel prosieguo della guerra e durante la Repubblica di Salò.

La lotta dei proletari torinesi incominciò alle 10 del mattino del 5 marzo del 1943 alla Fiat Mirafiori e si estese immediatamente ad altre fabbriche. I reparti si svuotarono spontaneamente, in maniera pressoché unanime, senza una vera organizzazione preventiva dell’azione di sciopero. L’adesione fu totale persino nei reparti laddove era cospicua la presenza di operai che avevano accettato la tessera del partito fascista. Lunghissimo l’elenco delle aziende in cui si diffuse lo sciopero: Fimet, Ambra, Manifattura Tabacchi, Viberti, Concerie Florio, Fest di Rivoli, Concerie Runite, Fatis, Frigt, Savigliano, Passard, Gütermann, Talco, Fergat, oltre che tutti gli stabilimenti della Fiat.

La direzione della Fiat si rassegnò presto alle prime concessioni: il 18 marzo accordò un anticipo di 300 lire a tutti gli operai che si fossero mantenuti “disciplinati al lavoro”. Tutte le aziende di Torino si adeguarono e gli operai tornarono al lavoro dopo avere ottenuto questa prima vittoria.

Lo sciopero arrivò a Porto Marghera il 14 marzo coinvolgendo la Vetrocoke, la Breda, la Fertilizzanti e la Azotati.

Il movimento, sospeso a Torino, dilagò a Milano a partire dal 23 marzo e si protrasse per diversi giorni coinvolgendo anche qui decine di migliaia di operai. Quel giorno alla Falck una squadraccia fascista interveniva con manganelli e pistole per ingiungere ai lavoratori di riprendere il lavoro, ma furono costretti a una rapida ritirata. La Pirelli scioperò dal 24 al 27 marzo. Gli interventi della polizia e degli squadristi non riuscirono a convincere gli operai a riprendere il lavoro. Anche qui è lungo l’elenco delle fabbriche in cui si scioperò: Ercole Marelli, Borletti, Brown-Boveri, Face-Bovisa, Caproni, Bianchi, Cinemeccanica, Olap, Motomeccanica, Kardes, Breda Aeronautica, la Magnaghi-Turro.

Il regime fascista si trovò impreparato ad affrontare questa ondata di scioperi, anche perché la lotta del proletariato, quando esplode, estende la sua azione su tutta quanta la classe sbarazzandosi delle artificiali divisioni ideologiche che la classe dominante riesce a imporre fintanto che è possibile corrompere alcuni strati operai. Di conseguenza l’azione repressiva della polizia fu piuttosto blanda perché una repressione più dura avrebbe provocato un inasprimento delle lotte.

Anche le azioni squadristiche, dopo i primi ridicoli risultati, furono abbandonate. Si preferì giocare la carta della minaccia di invio al fronte facendo sfilare davanti alle fabbriche in sciopero gruppi di mutilati di guerra, provocando però ancora una volta la reazione sdegnata da parte degli operai.

A scioperare non furono soltanto gli operai, che ancora conservavano la memoria delle gloriose lotte degli anni ’20, ma anche gli organizzati nei sindacati fascisti, gli iscritti al PNF e anche gli appartenenti alla Milizia.

Il padronato, conscio del pericolo di risposta operaia ad una dura repressione, si vide costretto a cedimenti sul piano economico. Il governo fu indotto ad accettare parte delle richieste operaie ed il 2 aprile annunciò ufficialmente che «le due confederazioni fasciste interessate stanno elaborando i provvedimenti che entreranno in vigore il 21 aprile». Tali provvedimenti consistevano in una indennità giornaliera di carovita. Questo non era che una piccola parte di quanto avevano rivendicato gli operai in lotta, ma rappresentava un cedimento di fronte alla classe operaia.

Gli scioperi del 1943 dimostrarono alla classe dominante che per salvare se stessa il metodo dello squadrismo non funzionava più ed ora era costretta a liquidare quel fascismo che 20 anni prima l’aveva salvata, approfittando del riflusso del moto proletario, complice il tradimento socialdemocratico. Il fascismo era ormai un’arma inservibile di fronte alla determinata mobilitazione della classe operaia. I margini della politica di conservazione sociale in quel tempo di guerra si stavano restringendo e imponevano una nuova forma di demagogia.

L’esplosione delle lotte operaie aveva sorpreso gli operai stessi i quali, dopo due decenni di sconfitte, avevano riacquistato fiducia nella loro forza. La compattezza e l’estensione degli scioperi avevano dimostrato che non erano sufficienti né la dittatura né lo stato di guerra, con la militarizzazione della vita sociale e la legge marziale, a fermare gli operai. Del tutto inefficaci si erano rivelate anche le vessazioni dell’occhiuta polizia politica, la minaccia della revoca dell’esonero dal fronte per gli operai, la galera, i pestaggi.

Per piegare la classe proletaria ci fu allora bisogno di ben altro. Era venuto il tempo del cambio di regime, del capovolgimento delle alleanze con il passaggio dell’Italia al fronte imperialista occidentale.

Mentre al popolo era fatto balenare il miraggio della restaurazione democratica, in tutta Italia migliaia di proletari morivano sotto le bombe alleate. Il 12 e 13 luglio le “fortezze volanti” scaricarono su Torino 763 tonnellate di bombe, di cui un terzo incendiarie. I vigili del fuoco non furono in grado di spegnere gran parte degli incendi a causa dei danni alla rete idrica. Oltre 800 furono i morti e 900 feriti fra la popolazione civile. Bombardamento sei giorni dopo superato per effetti devastanti e numero di vittime da quello di Roma sul quartiere proletario di San Lorenzo.

La riunione del Gran Consiglio del Fascismo nella notte del 25 luglio poneva fine al governo di Mussolini. Venne allora il primo governo post-fascista guidato dal pur fascista Pietro Badoglio, un generale che in passato si era illustrato per la sua incompetenza nella prima guerra mondiale, in cui ebbe un ruolo di primo piano nella disfatta di Caporetto, poi per le efferatezze delle guerre coloniali di Libia e durante la conquista dell’Etiopia.

Il primo atto del nuovo governo fu la circolare, datata 26 luglio, riguardante l’ordine pubblico, legata al nome del generale Mario Roatta, nominato Capo di Stato maggiore dallo stesso Badoglio. Il principio ispiratore enunciato dalle prime righe della circolare era lo stesso dei tanti eccidi polizieschi della storia italiana: «poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito». Fra le direttive l’ordine di sparare a vista in caso qualsiasi «gruppo di individui» perturbasse l’ordine o non si attenesse «alle prescrizioni dell’autorità militare». La consegna alle forze di sicurezza, costituite in gran parte dall’esercito, era la seguente: «si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche».

Così la caduta del regime fascista venne ad inasprire la guerra dello Stato del capitale contro i proletari. Le poche settimane dal 25 luglio all’armistizio dell’8 settembre videro numerose stragi di lavoratori. Le cifre ufficiali, con ogni probabilità fortemente sottostimate, parlarono di 93 morti, 536 feriti e 2.276 arresti. Il governo Badoglio inviando l’esercito a mitragliare la folla fece quello che in vent’anni non aveva fatto il regime fascista.

In altri due anni di guerra fascismo e democrazia completeranno l’opera di piegare il proletariato a suon di bombe, mitraglia, massacri al fronte ed eccidi.

In campo democratico le repressioni vedranno la complicità dei vecchi partiti operai, il Pci e il Psi, che parteciparono alla guerra dei capitali schierandosi col fronte imperialista antifascista.

Verrà infine la pace borghese per un proletariato estenuato che, con le menti e i cuori ingannati, sarà di nuovo soggiogato al Golem del capitale nelle galere del lavoro salariato. In Italia e nel mondo intero la borghesia sanguinaria e sterminatrice si assicurerà un nuovo straordinario ciclo pluridecennale di accumulazione capitalistica postbellica in cui, pur sotto la veste democratica, la natura fascista del regime del capitale non è mai venuta meno.







Resa dei conti fra borghesi in Colombia

Dopo le proteste del 2021 e l’elezione a presidente della repubblica, appoggiata dalla “sinistra” colombiana, Gustavo Petro ha puntato su due obbiettivi: evitare il ripetersi di episodi di mobilitazione e protesta di massa come quelli del 2021 e promuovere riforme a scapito dei proprietari terrieri. Il “governo popolare” continua a muoversi cauto sulle riforme, cercando di evitare crisi politiche. Nel contempo sfrutta le tensioni latenti e fa approvare in parlamento leggi che danno l’impressione di un cambiamento al fine di illudere i lavoratori.

Un chiaro esempio è stata la riforma fiscale, in cui il governo ha fatto di tutto per evitare di aumentare l’IVA preferendo aumentare le tasse sulle classi possidenti. Questa riforma, presentata il giorno dopo l’insediamento del presidente, tende a dimostrare la “volontà di cambiamento” e a raccogliere il favore dei lavoratori.

Ma una delle questioni più importanti in questo momento si sta discutendo nel Paese è la riforma del lavoro. L’obiettivo del governo è rendere più flessibile la legislazione per aumentare il numero dei lavoratori cosiddetti “regolari”, cioè con i requisiti per chiedere il salario minimo, con un contratto, l’accesso ai servizi sanitari e la contribuzione al sistema pensionistico, cose non previste per i lavoratori “informali”. Questa riforma, oggetto di controversie e dibattiti nella società colombiana, deriva da un accordo a tre: le associazioni padronali, i sindacati e il governo.

Alla base del dibattito c’è la questione del costo del lavoro che, secondo il padronato, con il lavoro regolare, andrebbe ad aumentare. Su questo le imprese non hanno intenzione di cedere.

Le associazioni padronali cercano di portare al massimo lo sfruttamento del lavoro. Chiedono l’eliminazione delle maggiorazioni per il lavoro notturno, la riduzione delle prestazioni sociali per i lavoratori part-time, la reintroduzione delle multe a chi non avvisa con un mese in anticipo l’intenzione di dare le dimissioni, l’aumento della giornata lavorativa a dodici ore al giorno mantenendo il numero di ore settimanali e, infine, leggi che semplifichino e rafforzino la possibilità di lavoro in appalto o l’uso dei dipendenti mascherati da fornitori di servizi esterni.

D’altra parte, i sindacati nazionali hanno avanzato una serie di controproposte incentrate sull’aumento del diritto di sciopero e dei diritti del lavoro. Queste proposte includono la creazione di un congedo di paternità di 12 settimane, l’eliminazione del requisito del voto unanime sul posto di lavoro per la proclamazione di uno sciopero, la tutela legislativa del diritto di associazione sindacale, il divieto di assumere dipendenti attraverso società interinali e l’aumento dei diritti nel contratto di apprendistato Inoltre, si cerca di ridurre il lavoro informale e la prestazione di servizi.

PPreso nel mezzo di queste posizioni, il governo è disposto a fare concessioni per incanalare il malcontento verso le trattative ed evitare di ripetere quanto successo nel 2021, quando una simile proposta di legge portò a massicce proteste di tutte le classi, compreso il proletariato.

La necessità del governo ovviamente è, all’interno di questa riforma, limitare il più possibile quanto possa andare contro la capitalistica economia nazionale. C’è da affrontare il conflitto di diverse forze interne, la maggior parte reazionarie e prive di un sostegno popolare.

Fuori da queste emerge la lotta proletaria. I lavoratori della scuola hanno scioperato per chiedere migliori prestazioni sanitarie. Le proteste si sono diffuse a scala nazionale. La Federazione colombiana dei lavoratori dell’istruzione (FECODE) avanza quattro ambiti di richieste: migliorare l’istruzione pubblica; aumenti salariali e riduzione delle loro differenze, straordinari pagati; migliori protezione sanitaria e prestazioni sociali, applicando le leggi vigenti; più sicurezza del lavoro nelle scuole.

Si tratta di un movimento proletario ma con scarsa coscienza di classe, che mescola pretese su come il sistema educativo dovrebbe funzionare e richieste degli insegnanti in quanto lavoratori. Nel suo elenco di rivendicazioni finiscono l’istituzione di tornei sportivi, l’istruzione estesa a tutti, l’inclusione di alcune materie nei programmi e molto altro, mettendo in secondo piano gli aumenti di stipendio, il miglioramento della sicurezza, ecc.

Il governo ha recentemente dovuto affrontare anche lo sciopero dei tassisti, che hanno protestato contro l’irruzione sul mercato delle piattaforme digitali e il prezzo elevato della benzina. Questa categoria ha anche caratteristiche piccolo-borghesi, in quanto proprietari di taxi che temono di essere estromessi dal mercato e di precipitare nelle file proletarie a causa dell’affermarsi del grande capitale nella loro attività. Lo sciopero è durato meno di un giorno perché il governo ha accettato di migliorare le leggi relative alle piattaforme digitali e di instaurare sussidi per il prezzo della benzina.

A seguito dell’annunciata riforma della sanità, delle pensioni e del lavoro hanno protestato piccoli imprenditori e lavoratori, fedeli al partito del precedente governo, il quale ora svolge diligente il suo ruolo di opposizione. Questi movimenti sono stati brevi e privi di slancio, caratteristici della piccola borghesia, che rimane mobilitata sulla scena politica e della quale sia l’opposizione sia il governo cercano di attirare i favori elettorali.

Lo Stato colombiano sta attualmente riformando a fondo il sistema della sanità in una centralizzazione capitalistica che prevede la eliminazione degli intermediari privati nella gestione dei fondi sanitari statali, nel fornire la copertura assistenziale ai cittadini. Lo Stato medierà direttamente tra le aziende sanitarie, molte in insolvenza finanziaria, e gli utenti.

L’associazione padronale si oppone all’eliminazione degli ospedali privati e al controllo dei prezzi delle prestazioni sostenendo che limiterebbero la “innovazione” nel sistema sanitario. In realtà la borghesia vede nell’eliminazione della sanità privata una minaccia ai propri investimenti nel settore. Il governo cerca di attuare una politica che favorisce il capitale nazionale in generale, anche se ciò può andare a scapito di una particolare sezione della borghesia.

La nuova amministrazione borghese colombiana dimostra di voler evitare lo scontro e ristabilire l’unità nazionale. Chiede alla borghesia qualche briciola, il non aumento delle tasse sul proletariato, qualche miglioramento delle condizioni di lavoro e così via. Questi sono necessari per placare una classe operaia appena risvegliata. Non a caso le riforme passano al Senato con una velocità mozzafiato.

Il proletariato fino ad ora è rimasto in gran parte passivo grazie alle aspettative e alle illusioni che questi annunci di “cambiamento”. Non è prevedibile quale direzione prenderanno le attuali lotte nell’immediato futuro, ma evidentemente è necessario che la classe si muova autonomamente per i propri interessi e sulla strada indicata dal suo partito.









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Il capitale ha bisogno di inondare il mercato legale o illegale delle armi

L’"operazione militare speciale” russa contro l’Ucraina iniziò il 24 febbraio 2022 e subito si pose il problema degli aiuti militari all’esercito di Kiev, sostenuto in primis dagli Usa e dalla Nato. L’esercito russo, dopo un primo attacco, fallito, alla capitale ucraina, quasi subito fu costretto a ritirarsi frettolosamente abbandonando armi e munizioni in gran quantità. Alcuni nostrani commentatori ironizzarono che «l’esercito russo era diventato il primo fornitore di armi di Zelensky».

A questa euforia si affiancarono ovvie preoccupazioni circa il reale utilizzo di quella gran massa di materiale bellico in circolazione. Leggiamo dal sito della “Opinio Juris” del 14 aprile 2022: «La dottrina occidentale in materia di criminalità organizzata concorda nel definire le fasi di transizione storico-politiche come momenti di espansione (economica, politica e territoriale) delle mafie. Esempio caratterizzante del secolo passato fu l’esplosione dei business criminali degli uomini d’onore calabresi e siciliani all’indomani del crollo del muro di Berlino nei territori dell’ex Repubblica Democratica Tedesca […] Dalle atrocità della guerra in corso alcuni soggetti traggono vantaggio, ovvero le mafie e le organizzazioni criminali. Il dibattito pubblico in tal senso pone l’attenzione ad alcuni settori che per primi potrebbero essere raggiunti dalla longa manus mafiosa: il traffico di armi, spesso ritrovate abbandonate nei teatri di battaglia o trafugate dalle braccia dei caduti; il contrabbando di beni introvabili nei luoghi di conflitto, pagati a carissimo prezzo nei mercati neri […] il traffico di profughi».

Da ribadire, a scanso di equivoci, che nella nostra analisi comunista tutto il sistema capitalista nel suo insieme è un’organizzazione criminale da abbattere, dove è superflua la distinzione tra bande buone e legali e quelle cattive illegali. Sappiamo che ci saranno contro tutte unite.

Anche “Analisi Difesa” negli stessi giorni aveva espresso simili preoccupazioni nell’articolo: I rischi della belligeranza: «Le armi distribuite alle milizie potrebbero venire impiegate per compiere azioni criminali o finire sul mercato clandestino che alimenta malavita organizzata e gruppi terroristici, specie in una nazione che registra un elevatissimo tasso di corruzione negli apparati pubblici. Meglio non dimenticare che la mafia ucraina è ramificata anche in Medio Oriente e Caucaso e che almeno due battaglioni di jihadisti ceceni combattono al fianco degli ucraini in contrapposizione alle truppe di Mosca e ai governativi ceceni filo-russi presenti anch’essi in questo conflitto. L’ipotesi che un buon quantitativo di missili e lanciarazzi anticarro o antiaerei possano finire nelle mani di milizie jihadiste è un incubo per la sicurezza della stessa Europa che quelle armi sta fornendo a Kiev senza alcun apparente controllo circa la loro destinazione. Di fronte a questa minaccia l’opzione che tali arsenali cadano in mano ai russi o vengano distrutti in battaglia appare quasi auspicabile rispetto al rischio di armare pesantemente malavitosi e terroristi che potrebbero impiegare missili anticarro nelle nostre città e antiaerei per abbattere aerei di linea».

Il “Sole 24 Ore” del 4 marzo 2022 già aveva avvisato: «Dal 2014 le bande euroasiatiche vendono milioni di pistole, mitragliatrici, granate, mine e razzi, gestendo gli affari nella nazione invasa dall’esercito russo. Le armi invadono poi la UE e il Medio Oriente». Il 31 ottobre poi precisa: «Sono state stabilite le rotte dall’Ucraina alla Finlandia per il contrabbando di armi».

Il contrabbando di armi non è una sorpresa. Il 22 luglio Europol rilasciava una dichiarazione in cui affermava che «la proliferazione di armi da fuoco ed esplosivi in Ucraina potrebbe portare a un aumento delle armi da fuoco e delle munizioni trafficate nell’UE attraverso rotte di contrabbando consolidate o piattaforme online». Questa “profezia” si è avverata: le armi inviate in Ucraina sono state trovate anche in Svezia, Danimarca e Paesi Bassi.

Il giornale cattolico “L’Avvenire” ha parole consolatorie per i fedeli filo-americani nell’articolo: “Le mani delle mafie dell’Est sulle armi ‘donate’ a Kiev dall’Occidente” dell’11 novembre 2022: «I servizi segreti statunitensi e il dipartimento di Stato non se la sentono di accusare Kiev. Ritengono più verosimile che ad alimentare i circuiti illeciti siano i russi e i loro “proxy” dell’est ucraino, entrati in possesso di molte armi occidentali, bottino di tante battaglie contro i regolari di Zelensky».

Ma la guerra produce caos e gli ufficiali americani non si spingono al fronte, dove il confine fra il lecito e l’illecito svanisce e prosperano i crimini. Su una cosa gli americani hanno tuttavia ragione: le armi occidentali catturate dai russi offrono a Mosca il destro per orchestrare altri traffici. Secondo “Skynews”, almeno un aereo cargo dell’intelligence militare russa avrebbe fatto la spola con l’Iran: stivava a bordo missili anticarro anglo-svedesi e armi antiaeree statunitensi. Un carico prezioso, ceduto ai pasdaran in cambio dei famigerati droni-kamikaze. Il Pentagono finora non conferma, ma neppure smentisce. L’affare sarebbe vantaggioso sia per gli iraniani, maestri nel copiare le tecnologie altrui, integrarle in armi indigene e cederle ai vassalli mediorientali, sia per Mosca: in un colpo solo il Cremlino avrebbe ottenuto sistemi iraniani “chiavi in mano” senza urtare gli amici israeliani, timorosi che cacciabombardieri russi di ultima generazione fossero barattati con Teheran in cambio di armi.

Solo la rivoluzione proletaria potrà mettere fine alle guerre del capitalismo, agli immani massacri e ai loschi affari che immancabilmente le accompagnano!