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Genova, giovedì 6 febbraio
Lotta e sindacato di classe
contro sangue e sfruttamento operaio
Lorenzo, operaio, è morto a 36 anni in bacino schiacciato dall’elica di prua. Questa la tragedia occorsa ieri alle Riparazioni Navali.
Ogni giorno in Italia 3 operai muoiono sul lavoro. Questa strage è presentata come evento ineluttabile nel quadro “normale” del lavoro. È invece la manifestazione chiara e tragica dello sfruttamento e dell’oppressione della classe operaia. Della normale schiavitù del lavoro salariato.
Le morti sul lavoro sono, nella grande maggioranza dei casi, conseguenza della organizzazione capitalistica del lavoro, cioè della fretta, del risparmio sui costi, della catena degli appalti e subappalti per ingrassare padroni e padroncini e dividere gli operai, in ultima istanza, della corsa al massimo profitto, a ogni costo, innanzitutto sulla pelle dei lavoratori. Oltre mille morti sul lavoro in Italia sono la cifra della guerra di classe di questa società: classe lavoratrice contro classe borghese.
Queste affermazioni, nell’ipocrita mondo borghese non piacciono e non vanno di moda. La classe operaia – dicono anche a sinistra – non esiste più. I capi di Cgil Cisl e Uil nemmeno la nominano, la classe operaia. Però esiste eccome quando serve ai profitti, e se 3 operai muoiono ogni giorno!
Quel che è vero – e non da oggi – è che la classe lavoratrice è debole. Così debole che non riesce a lottare per difendersi dalle leggi del profitto. Così debole che non riesce a lottare come classe sociale unita, con interessi distinti e opposti a quelli della classe borghese.
Di questa debolezza la responsabilità principale è dei falsi partiti operai – che ormai nemmeno si proclamano più tali – e dei sindacati che hanno diretto e che continuano a dirigere. Quei partiti e questi sindacati predicano – e praticano – la pace sociale, la collaborazione di classe, la conciliazione degli interessi delle aziende e dell’economia della nazione (cioè dell’economia capitalistica) con gli interessi dei lavoratori salariati. Che in pratica si risolve nell’aumentare lo sfruttamento.
Per frenare il sangue e lo
sfruttamento occorre
ricostruire un autentico sindacato di classe,
non compromesso coi vertici aziendali e istituzionali, che organizzi
scioperi unendo i lavoratori al di sopra delle divisioni fra aziende
e categorie. Scioperi non simbolici e cronometrati, di poche ore, ma
che blocchino produzione e servizi per più giorni. Scioperi che
abbiano per obiettivo le rivendicazioni che interessano e uniscono
tutti i lavoratori, che difendano anche la loro salute e la loro
sicurezza, quali, innanzitutto:
- forti aumenti salariali, maggiori per categorie e qualifiche peggio
pagate
- riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
- smantellamento del sistema degli appalti e subappalti.
Su questo terreno di lotta i
militanti sindacali e i lavoratori combattivi devono battersi per
unire l’azione dei
sindacati di base (Usb, Cub, SI Cobas)
– nati in reazione al tradimento dei sindacati tricolore – con le
minoranze conflittuali nella Cgil, in
un fronte unico sindacale di classe,
primo passo per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro i sindacati di regime.
Solo la lotta renderà giustizia agli operai sacrificati sull’altare
del profitto.
Qui di seguito pubblichiamo il volantino che i nostri compagni hanno distribuito alle manifestazioni di sabato 15 marzo, a Roma, in Piazza Barberini, e a Genova, in Piazza de Ferrari. Precisiamo i luoghi di queste manifestazioni perché si sono svolte in contrapposizione ad altre, in altri punti delle due città – e di altre in Italia – lo stesso giorno.
La principale, come noto, si è avuta a Roma in Piazza del Popolo, cui ha aderito tutto lo schieramento della sinistra borghese, a sostegno dell’Unione Europea e, in modo esplicito o malamente camuffato, del piano di riarmo lanciato pochi giorni prima dai vertici politici dell’UE.
Per quanto il cosiddetto piano di riarmo europeo sia ancora una proclamazione d’intenti e pagherà dazio a vari ostacoli che incontrerà sulla strada della sua realizzazione, quali la contrapposizione fra i capitalismi nazionali europei e mondiali e, ciò che a noi interessa, l’opposizione della classe lavoratrice, esso è nondimeno un fatto estremamente significativo, perché indica la rottura degli indugi da parte delle borghesie d’Europa in direzione dell’aperta dismissione della finzione pacifista, con l’avvio di una politica che riconosce apertamente la possibilità del dispiegarsi della guerra e che col tempo diverrà sempre più preparazione ad essa.
A noi interessa la condotta delle organizzazioni dei lavoratori riguardo alle manifestazioni di sabato 15 marzo, in quanto solo la classe operaia potrà impedire la guerra imperialista, o fermarla qualora dovesse iniziare, come già accadde nel 1917 in Russia e alla fine dell’anno successivo col crollo del fronte interno in Germania, a causa degli scioperi e dell’ammutinamento della flotta.
La Cgil
Sintomo chiaro dell’importanza storica dell’annunciato piano di riarmo europeo è quanto avvenuto nel maggior sindacato di regime italiano, la Cgil. La dirigenza, infatti, dopo aver prima ventilato l’adesione alla manifestazione di Piazza del Popolo e poi tergiversato per diversi giorni, si è infine risolta a confermarla, con una decisione presa in una riunione del 7 marzo e una comunicazione pubblica del 9.
Questa condotta ha provocato una vasta opposizione interna, una vivacità quale non si assisteva da anni entro la Cgil, nemmeno durante i congressi. A opporsi non sono state solo le due piccole aree di minoranza – “Le radici del sindacato” e “Le giornate di marzo” – ma anche l’area “Lavoro e società”, schierata con la maggioranza, diverse Rsu di fabbrica, la Filt di Pisa e, soprattutto, la segreteria nazionale della Fiom Cgil, che con una nota interna si è dissociata dalla decisione della dirigenza confederale di aderire alla manifestazione pro-riarmo, affermando che non avrebbe contribuito a organizzare la partecipazione.
A Genova, l’Assemblea generale della Fiom provinciale ha approvato all’unanimità un Odg in cui si è affermato: «(…) riteniamo inaccettabile la partecipazione della Cgil alla manifestazione del 15 marzo che oggettivamente appoggia il rafforzamento dell’Europa potenza (…) Per noi occorre ribadire ancora più di ieri le parole d’ordine scritte sui nostri striscioni quando scioperammo a 24 ore dallo scoppio della guerra in Ucraina: “Per l’unità di tutti i lavoratori, contro tutte le guerre dell’imperialismo”».
Questa opposizione interna ha dato adito a due opposte letture circa la situazione del maggior sindacato di regime d’Italia. Una è stata che dimostrerebbe come sia possibile e necessario militare dentro la Cgil per cambiarne la natura di regime in quella di sindacato di classe.
Il nostro partito ne dà una lettura opposta: il fatto che, nonostante una opposizione interna di tale portata, la dirigenza della Cgil abbia voluto mantenere l’adesione alla manifestazione di Piazza del Popolo, conferma che essa deve obbedire agli ordini superiori della borghesia, anche al costo di nuocere all’organizzazione sindacale stessa approfondendone le divisioni, e con ciò che questo sindacato non è più conquistabile a una direzione di classe, è irreversibilmente di regime e perciò, in Italia, il sindacato di classe non potrà che rinascere “fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl)”.
Supporta questa nostra lettura dei fatti relativi a questo svolto del movimento sindacale in Italia il modo in cui tale decisione è stata presa. Come scritto l’11 marzo su “Progetto Lavoro”, il periodico dell’area alternativa in Cgil “Le radici del sindacato”, ciò è avvenuto in una «riunione di venerdì 7, in cui i segretari generali delle categorie e delle regioni, insieme alla segreteria nazionale, hanno assunto questa decisione. Un ambito informale e statutariamente inesistente».
La critica forse più interessante provenuta dall’interno della Cgil è quella che ha evidenziato come la dirigenza dell’organizzazione “sociale” più grande d’Italia, con 5 milioni di iscritti, abbia ritenuto di doversi accodare a una manifestazione promossa da altri che la divide profondamente, invece di farsi promotrice essa stessa di un’autonoma iniziativa di piazza coi propri contenuti.
Landini ha camuffato la subordinazione alla classe dominante e alla sua marcia verso la guerra imperialista con pretesi distinguo rispetto all’aperta adesione al progetto di riarmo europeo dei promotori della manifestazione. Distinguo simboleggiati dalla indicazione di recarsi in piazza con le bandiere arcobaleno pacifiste invece che con quelle del sindacato.
Sostenuta da gran parte della stampa borghese che l’ha preparata per settimane, dai partiti della sinistra padronale, dagli apparati dei sindacati di regime – giacché anche Cisl e Uil hanno aderito – nonché finanziata finanche dal Comune di Roma, la manifestazione di Piazza del Popolo ha avuto una partecipazione grosso modo di 30.000 persone. La piazza scelta, ben più piccola di San Giovanni, tradizionalmente meta della grandi manifestazioni sindacali, ha garantito di riempirla, e alla stampa di regime di celebrarne il successo e pompare ancora di più la propaganda per il riarmo, con Repubblica che ha dichiarato esservi stati 50 mila manifestanti. Ad ogni modo le bandiere arcobaleno della Cgil sono affogate in quelle blu dell’Unione Europea.
Il sindacalismo conflittuale
In risposta alla manifestazione di Piazza del Popolo, a Roma e in altre città sono state organizzate manifestazioni contro il riarmo e la guerra. A quella di Roma, che da Piazza Barberini ha raggiunto Piazza Esquilino, hanno partecipato 2.500 persone. Trattandosi di una manifestazione sostanzialmente locale e preparata in pochi giorni, si è trattato di una buona partecipazione. La dimostrazione è stata promossa da associazioni e gruppi politici ma ha visto la partecipazione consistente dell’Usb, in misura minore della Cub e della Confederazione Cobas, e quella dell’area alternativa in Cgil “Le radici del sindacato”, con uno striscione e un gruppo di militanti e dirigenti sindacali. Questa è stata l’unica corrente, fra quelle a essersi opposte dentro la Cgil all’adesione alla manifestazione pro-riarmo, a non essersi limitata alla denuncia e ad aver agito conseguentemente, scendendo in piazza insieme ai sindacati di base.
Una delle ultime volte che ciò è accaduto fu 13 anni fa, il 22 giugno del 2012, con l’adesione allo sciopero generale del sindacalismo di base e la contestazione a Maurizio Landini, allora segretario generale della Fiom, che quello stesso giorno partecipava all’assemblea nazionale di Confindustria a Bergamo. Ne conseguì a settembre l’eliminazione dalla segreteria nazionale Fiom dell’unico esponente dell’area di minoranza. La dirigenza Cgil non tollera aperture verso il sindacalismo di base.
Landini ha un curriculum da meritarsi un posto d’onore fra gli “agenti della borghesia in seno al proletariato”. Prima ha impedito un forte movimento di lotta operaia contro il piano Marchionne in FIAT, dilapidando la forza che si era mostrata disponibile nella grande manifestazione del 16 ottobre 2010, con 100 mila lavoratori in corteo. Da allora la Cgil non è più stata lontanamente in grado di portare così tanti lavoratori in piazza. In ciò fu aiutato dai dirigenti della corrente di sinistra interna, che gli diedero credito e che dal palco di quella manifestazione applaudirono, insieme a lui, il discorso dell’allora segretario generale Cgil Guglielmo Epifani. Col far ciò Landini ha dato un fondamentale contributo a piegare il sindacalismo di base nelle fabbriche FIAT – altro grande servigio reso agli industriali – che per oltre 15 anni aveva lottato e provato a costruire in esse una forza sindacale di classe.
Eliminata la sinistra dalla segreteria Fiom nel 2012, Landini è approdato nel 2016 alla firma di quello che è stato considerato il peggior contratto collettivo nazionale metalmeccanico, piegando la Fiom ai due contratti separati di Fim e Uilm precedentemente non firmati. Per cotanto lavoro, il premio che gli stato riconosciuto, giustamente, il ruolo di segretario generale del grande sindacato di regime italiano. Oggi, con l’adesione alla manifestazione pro-riamo, coprendo pudicamente le vergogne con la bandierina arcobaleno, non può dirsi che non si sia dimostrato responsabile e riconoscente!
Uno dei dirigenti dell’area alternativa in Cgil “Le radici del
sindacato” ha scritto che occorre «sviluppare un movimento di
massa disfattista e antimilitarista». Questo compito può essere
assunto solo dalle forze del sindacalismo conflittuale e solo se esse
– sindacati di base e correnti sindacali di classe in Cgil –
agiranno in modo unitario. La manifestazione di Piazza Barberini è
stato un piccolo passo in questa giusta direzione. Ma per far ciò i
militanti sindacali devono battersi contro le dirigenze opportuniste
del sindacalismo conflittuale che si oppongo a questo indirizzo:
quelle dei sindacati di base perché subordinano l’unità d’azione
alla competizione con le altre sigle; quelle delle correnti di classe
in Cgil perché vi antepongono il mantenimento di ruoli o la mera
agibilità entro il sindacato di regime.
Roma, sabato 15 marzo
Il capitalismo ha bisogno della guerra
Solo la lotta rivoluzionaria della classe lavoratrice vi si può opporre
Le miserabili esternazioni di Trump, alle quali si adeguano i governanti
europei, vengono a smascherare alcune delle menzogne e illusioni propagate per decenni dalle borghesie di tutto il mondo, e dai loro partiti di destra e di “sinistra”, per nascondere la ferocia del mondo del capitale, portatore ormai solo di morte e distruzione.
- Il diritto internazionale è una finzione, è il diritto del più
forte.
- Nel capitalismo la guerra è una necessità economica: capitalismo e pace sono incompatibili.
Trump non è più furbo, stupido o folle di chi l’ha preceduto. Solo mostra il vero volto del capitalismo: è esso il mostro anonimo che minaccia l’umanità! Non è Trump che ha il potere, bensì il complesso industriale e finanziario, in mano alla classe borghese, che difende i suoi interessi con quella macchina statale. Questo è vero per gli USA e per tutti gli Stati del mondo: tutti sono regimi borghesi contro la classe lavoratrice. E lo sono a prescindere dalla ideologia e dalla forma di governo con cui lo mascherano: da quella “democratica”, ai falsi socialismi come in Cina o in Venezuela, alla teocrazia degli ayatollah in Iran, allo “Stato ebraico” in Israele.
La stessa borghesia non può “decidere” nulla perché la sua politica le è imposta dalla crisi economica di sovrapproduzione del capitalismo mondiale. Tutti i capitalismi nazionali e i settori industriali sono aggrediti e piegati da una pluridecennale sovracapacità produttiva: Europa, USA, Cina e tutti i minori devono inondare il mondo di merci che non riescono a vendere entro i confini nazionali, con ciò venendo a scontrarsi con i concorrenti.
Gli Stati Uniti, in quanto maggiore capitalismo mondiale, sono i più fragili di fronte alla crisi economica perché fanno sempre più fatica a mantenere il loro dominio sul mondo. Oggi devono ridurre le spese e ne presentano il conto agli “alleati”. Revocano gli “aiuti umanitari”, già utili strumenti di corruzione internazionale. Sono costretti ad alleggerire l’apparato statale di tutto ciò che è “superfluo” (scuola, sanità, assistenza sociale), riducendolo alla sua essenza di macchina per opprimere la classe operaia.
La politica che oggi si afferma negli Stati Uniti non è “isolazionismo” che, pur nell’interesse di quel capitalismo nazionale, porterà la pace nel mondo. È invece un diverso dislocamento delle forze USA, che vanno a concentrarsi nell’Indo-Pacifico, teatro di preminente interesse strategico, a discapito dell’Atlantico e dell’Europa. Serve a preparare la guerra contro l’emergente imperialismo cinese per una nuova spartizione dei mercati mondiali.
L’imposizione di dazi sulle importazioni – che nuoce in parte anche al capitalismo USA, ma nuoce di più ai concorrenti – è una politica disperata, una guerra economico-commerciale che prepara la guerra con le armi. La storia si ripete: il protezionismo di tutti gli Stati precedette la Seconda Guerra Mondiale. La nuova “età dell’oro” promessa da Trump sarà di lacrime e sangue per la classe lavoratrice americana, sacrificata per salvare i profitti della borghesia e il suo privilegio sociale, con la preparazione della guerra.
Ma non saranno i regimi borghesi concorrenti degli USA a salvare la classe lavoratrice mondiale dalla Terza Guerra imperialista! Un pacifico mondo multi-polare nel capitalismo è solo un’altra menzogna.
Spinta dalla crisi, riuscendo sempre meno a vendere altre merci, la borghesia di tutti i paesi si getta nell’industria bellica. La marcia verso il riarmo accelera. L’Unione Europea, dopo che per decenni ha imposto ai lavoratori di stringere la cinghia con la scusa di ridurre il debito, si dice pronta a indebitarsi fino al collo per produrre armi! Al di sopra delle contrapposizioni falsamente ideologiche, tutti gli Stati borghesi sono accomunati dall’interesse a investire cifre enormi nella produzione bellica per tamponare la crisi e preparare la guerra! Per questa ragione tutti hanno il comune interesse a portare i lavoratori alla guerra, convincerli che il nemico non sia il capitalismo, a cominciare dal proprio regime borghese, ma una alleanza “nemica”. A questo scopo è fondamentale ubriacare i lavoratori con l’ideologia nazionalista.
L’Unione Europea non è solo reazionaria, è anche impossibile – come affermò Lenin fin dal 1915 – perché gli Stati borghesi non rinunceranno mai ai loro interessi nazionali. Non esiste un imperialismo europeo, bensì una alleanza fra alcuni imperialismi d’Europa: del piano di riarmo per 800 miliardi in 4 anni, 650 miliardi dovrebbero essere destinati agli eserciti nazionali. Il nazionalismo – che oggi chiamano “sovranismo” – è solo l’altra faccia della menzogna ideologica dell’Unione Europea. L’Europa dei "sovranismi", “multipolare”, sarà risucchiata nel vortice del Terzo conflitto imperialista mondiale, come già accadde nei precedenti due conflitti mondiali del Novecento, per la pressione delle stesse determinazioni economiche e politiche che spingono oggi l’Unione Europea ad armarsi. I partiti borghesi anti-UE che oggi si ammantano di pacifismo, saranno domani guerrafondai come lo sono oggi i partiti pro-UE e Trump.
La sola forza che può impedire la guerra è quella della classe lavoratrice unita al di sopra dei confini nazionali, che rifiuti di versare il suo sangue in difesa della patria. Per i lavoratori è indifferente essere sfruttati e oppressi dalla propria borghesia nazionale o di un altro paese. Ma è certamente da preferire combattere la propria guerra sociale, con potenti scioperi, fino alla rivoluzione, contro ogni borghesia sia al potere, nazionale o straniera, invece che morire a centinaia di migliaia sul fronte della guerra fra Stati capitalisti, nei campi di battaglia e sotto i bombardamenti!
L’autentico Partito Comunista augura e promuove la disfatta militare del proprio Stato borghese nella guerra imperialista perché essa pone fine al massacro della guerra, perché il disfattismo proletario nel fronte interno, con scioperi nelle fabbriche e fra i soldati, contagia e unisce i lavoratori in divisa al di sopra dei fronti, perché la sconfitta militare indebolisce la propria borghesia e favorisce la rivoluzione!
Per impedire o fermare la guerra imperialista la classe lavoratrice deve essere organizzata. Ciò significa inquadrata in forti sindacati di classe che unifichino le lotte dei lavoratori in scioperi sempre più estesi e potenti, finalizzati a difendere il salario e a ridurre ritmi e durata della giornata lavorativa. Queste elementari rivendicazioni del proletariato sono di per sé anti-patriottiche, perché danneggiano il capitalismo nazionale e la sua competitività.
Il 28 febbraio scorso milioni di lavoratori hanno scioperato e sono scesi in piazza in enormi manifestazioni per lo sciopero generale in Grecia. Il massacro sociale a cui è stata sottoposta dal 2010 la classe lavoratrice greca, dalla sua borghesia in combutta con quelle dell'Unione Europea, è la condizione verso cui il capitalismo sta portando i lavoratori di tutta Europa e di tutto il mondo: marciando verso la guerra, con conflitti sempre più numerosi e gravi, indebitandosi per espandere sempre più la produzione bellica, lo Stato sociale, i salari e le condizioni di lavoro peggioreranno ancora di più e ancor più rapidamente di quanto non abbiano fatto negli ultimi 4 decenni.
Difendere con la lotta sindacale i propri interessi economici oggi significa porsi già sulla strada che porterà domani a difendere i propri interessi politici, opponendosi al militarismo e alla guerra dei borghesi!
Oggi il maggiore sindacato italiano, la Cgil, partecipa a una manifestazione che promuove il riarmo. Ciò è avvenuto nonostante al suo interno si sia sviluppata una forte opposizione, che la dirigenza nazionale ha bellamente ignorato. Landini deve ubbidire a ordini superiori! Questa è la conferma che la Cgil è definitivamente un sindacato del regime capitalista e che il sindacato di classe, in Italia, può rinascere solo fuori e contro Cgil, Cisl e Uil!
Il sindacalismo conflittuale – sindacati di base e aree conflittuali in Cgil – per ricostruire la forza del movimento sindacale di classe, per liberare i lavoratori dal controllo dei sindacati di regime, deve agire unitariamente nelle lotte in tutte le categorie, per rafforzarle e unificarle, e nel promuovere la lotta contro la guerra, per l’unità internazionale dei lavoratori!
- Solidarietà fra i lavoratori di tutti i paesi !
- Contro ogni patriottismo !
- Guerra di classe contro guerra imperialista !
Nelle principali città della Grecia, Atene, Salonicco, Patrasso, lo scorso 28 febbraio enormi manifestazioni hanno mobilitato un milione e mezzo di scioperanti, in una nazione che conta 11 milioni di abitanti! Era il secondo anniversario della strage ferroviaria di Tempi quando, nello scontro frontale tra un treno passeggeri e un merci persero la vita 57 persone, tra cui molti giovani.
Certamente c’è lo sdegno per la strage causata dalla mancanza delle più elementari strumentazioni di sicurezza e dalle condizioni di lavoro sempre più gravose per un personale ormai ridotto al minimo. Nonostante le denunce dei sindacati infatti, l’azienda privata che gestisce le ferrovie, la Hellenic Train, appartenente al gruppo italiano Ferrovie dello Stato, ha continuato la sua politica tesa al massimo profitto risparmiando anche sulla sicurezza. Una politica comune a tutti i Paesi.
La collera è contro il governo che sta ostacolando la ricerca delle responsabilità, forse più gravi di quelle subito evidenti. È probabile che l’enorme incendio seguito all’impatto sia scaturito dalla presenza sul merci di sostanze non dichiarate, forse xilene, usate per adulterare i carburanti, un business redditizio per le organizzazioni mafiose in combutta con il mondo politico e imprenditoriale.
Ma non solo questo ha spinto i lavoratori in piazza. Lo sciopero è stato contro il padronato e contro lo Stato contro i bassi salari, contro le condizioni di lavoro precarie e insicure, contro le pensioni troppo basse, contro un sistema sanitario che non cura i proletari.
La Grecia è, in piccolo, il futuro del capitalismo europeo. Durante la crisi del debito il padronato ha applicato senza pietà il ricatto tra l’accettare un lavoro a condizioni di estremo sfruttamento o il restare disoccupati. Questo non è cambiato dopo che è finita la crisi dei conti dello Stato. In Grecia i giovani proletari continuano a lavorare 40 o 50 ore settimanali per un salario di 700, 800 euro quando il costo della vita è pressoché uguale ai Paesi dove i salari sono il doppio o tre volte tanto. I pensionati, che hanno visto le loro pensioni tagliate del 40% da un giorno all’altro, continuano a tirare avanti con pensioni da fame mentre l’economia è in ripresa e lo Stato sta rimettendo a posto i conti.
Lo Stato greco, in questa stagione in cui tutti i governi d’Europa spingono per trasformare le fabbriche dal produrre auto e trattori a carri armati e aerei da combattimento, si conferma un modello da seguire: mentre altrove la leva militare è stata abolita, in Grecia è rimasta, con la scusa della difesa dall’aggressiva Turchia. E la spesa militare, anche nel periodo più buio per i conti dello Stato, è sempre stata mantenuta al 3,5-4% del PIL.
In questa situazione di estrema stratificazione sociale, dove un piccolo numero di borghesi, di imprenditori, di politici, di mafiosi e di tutto l’apparato che li serve e li difende vive nel lusso, mentre la grande maggioranza del proletariato e della piccola e media borghesia impoverita tira avanti con difficoltà, sono i partiti populisti di opposizione e di governo che, dirottando la rabbia delle masse verso obiettivi propri di altre classi, ne impediscono l’organizzazione indipendente di classe, sia a livello economico sia politico.
Certo sono da apprezzare le manifestazioni oceaniche che hanno invaso le città della Grecia. Dimostrano che il proletariato greco non ha piegato la testa e che è disposto a lottare per migliorare le sue condizioni di vita e di lavoro, ma il potere della borghesia resta ben saldo, anche se il governo di destra vacilla. La borghesia ha ben chiaro che per mantenere il potere si può cambiare governo e personale politico. L’importante è che lo Stato, cioè l’apparato di potere, la polizia, l’esercito, la magistratura restino sotto il suo controllo.
A questo gioco si presta il KKE, “partito di lotta e di governo” come un tempo si definiva il PCI in Italia.
Ma è un gioco sporco. Non si può lottare per la difesa del proletariato dagli scranni dei parlamenti borghesi. Il potere proletario non si conquista a piccoli passi, a tappe, penetrando nelle crepe del sistema. Il proletariato otterrà la sua emancipazione con la rottura rivoluzionaria dell’ordine borghese, del suo Stato e di tutti i suoi organi di repressione e di gestione del potere.
Il problema della sicurezza non si risolve con il trasferimento di Hellenic Train al settore pubblico, nemmeno “senza indennizzo”, magari “con il controllo dei lavoratori e della società”. Tutte parole vuote. Il fatto che un’azienda sia di proprietà pubblica anziché privata non dà nessuna garanzia al proletariato né può esserci un “controllo” da parte dei lavoratori sulla gestione aziendale. Solo quando il potere politico sarà in mano al proletariato esso potrà esercitare il suo controllo su tutte le attività sociali e produttive.
La parola d’ordine che risuonava nelle manifestazioni: “O i vostri profitti o le nostre vite” la possiamo fare nostra, anzi è nostra e solo nostra perché afferma che questo regime, non il governo Mitzotakis o la Commissione Europea, ma è questo regime capitalista che impesta tutti gli Stati del mondo, alla ricerca del profitto ad ogni costo, nemico non solo al proletariato ma alla specie umana.
Per questo è necessario che gli elementi di avanguardia del proletariato intraprendano la strada di una seria preparazione rivoluzionaria che rifugge da ogni velleità ribellistica ma si basa su un lavoro quotidiano per la creazione di sindacati dei lavoratori veramente indipendenti dai partiti borghesi. Tra questi sono compresi il KKE, il PASOK e tutto il codazzo di gruppetti della cosiddetta “sinistra”.
Occorrono sindacati che difendano i lavoratori puntando all’unità del proletariato nella lotta quotidiana, superando le divisioni di nazionalità, di religione, di razza.
Si tratta inoltre di ricollegarsi alla tradizione del Comunismo rivoluzionario di sinistra, al Partito Comunista Internazionale.