Partito Comunista Internazionale
il Partito Comunista Internazionale N. 431 - gennaio-febbraio 2025

anno LI - [Pdf]

Indice dei numeri

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Aggiornato al 27 gennaio 2025

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DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Ubbidienti marionette del capitale per coprire il suo bisogno di guerra e la sua crisi mortale
– La guerra imperialista è solo morte e distruzione
– Nuove vicende della vecchia guerra per procura in Siria
Femminicidi
PAGINA 2 Brics: Non sarà un mondo multipolare a sanare le piaghe del capitalismo
– L’inevitabile declino dell’imperialismo francese
Romania: Neanche i democratici ci credono più alla democrazia
Per il sindacato di classe – Rapporto sulla nostra attività sindacale in Italia (Riunione organizzativa del 23 novembre)
Venezuela - Cresce il controllo delle multinazionali sul petrolio e sul gas e alla classe operaia restano bassi salari e supersfruttamento
– La classe operaia in Turchia si difende
PAGINA 4 – Negli Stati Uniti: Il grosso affare sugli oppiacei
– Milioni di schiavi salariati a costruire stadi nel deserto
– Per una Georgia “indipendente”
PAGINA 5 – Le proteste antigovernative in Kenya
PAGINE 6-8 – Felice convergere dell’impegno dei comunisti nella Riunione Internazionale del Partito, 28-29 settembre [RG150]: La guerra globale in Medioriente - Confronto fra imperi in Ucraina - Bozza di tesi sulla questione femminile - Repressione tradimento e riformismo in America Latina - L’indipendenza del Burkina-Faso alla prova - Storia del socialismo ottomano e del partito comunista di Turchia



PAGINA 1



Ubbidienti marionette del capitale per coprire il suo bisogno di guerra e la sua crisi mortale

È vecchia fandonia borghese che il militarismo espansionista negli Stati sarebbe esaltato dai governi di ideologia fascista, mentre quelli di forma democratica propenderebbero per il ricorso alla diplomazia, rifiutando la guerra per la soluzione delle contese fra le nazioni. Questa illusione ottica è stata recentemente rinnovata con le scemenze sul presunto ruolo delle “personalità” nella storia diffuse dai media in occasione della sceneggiata elettorale negli Stati Uniti.

Con gran fracasso la nuova istrionica marionetta dei capitalisti statunitensi ha proclamato quale sia la politica estera dell’imperialismo decadente numero uno: ha spaziato da un’ipotetica conquista con la forza militare del Canale di Panama e della Groenlandia alla annessione “per via economica” del Canada, che diventerebbe il 51° Stato americano.

Di sicuro il mediatico gioco degli specchi, che capovolgono e deformano, è per confondere i lavoratori e per lanciare messaggi cifrati e minacce ai rivali: capitalisti, aziende, corporations, Stati. Il capitalismo esaspera sempre più un demenziale antagonismo e lotta permanente tra nazioni, gruppi industriali e finanziari, banche e imprese, ciascuno in difesa dei propri egoistici e miopi, ciechi, interessi.

Il capitalismo è sempre militarista, non può non esserlo, in tutti gli Stati, grandi e piccoli, di vecchio e di nuovo industrialismo. Il 2024 si è concluso con il maggior numero di conflitti dalla fine del secondo macello mondiale, scatenati da governi vuoi democratici vuoi autoritari. Spesso indistinguibili: nella borghese propaganda di guerra il nemico è sempre “fascista”.

La guerra in Ucraina, la carneficina a Gaza, i recenti avvenimenti in Siria e in Sudan svelano la vera natura del capitalismo, che oggi domina in tutto il pianeta, con le sue leggi e la sua insaziabile fame di profitto. Tutti questi conflitti non hanno altro scopo storico e generale che la sopravvivenza del Capitale e dettati dalle stesse leggi che regolano il capitalismo, e non dalla malèvola volontà di alcuni singoli uomini, partiti o governi.

Ma non solo verso la guerra, anche negli interguerra esiste una sola politica borghese. I proclami dei governi d’ogni colore, di destra e di sinistra, democratici o autoritari, che illudono di superare la crisi modificando la politica economica, imponendo regole e controlli ai mercati, oppure lasciando libero gioco ai capitalisti, sono solo propaganda per convincere i lavoratori ad accettare sempre nuovi sacrifici: tagli alla spesa sociale, ai salari, ai sussidi di disoccupazione, alle pensioni.

In ogni Paese il padronato chiama tutti a collaborare, per rendere più competitiva la propria economia nazionale. Costretti a subire questa imposizione, i lavoratori legano le proprie sorti a quelle della classe che li sfrutta, e che inevitabilmente li porterà in guerra schierandoli contro altri lavoratori.

L’avanzare della crisi renderà sempre più insopportabili ovunque le condizioni della classe operaia. Aumentando la competizione economica, commerciale e militare tra gli Stati (che ogni anno spendono sempre di più per armarsi) emergerà con chiarezza come l’unica vera alternativa storica è: o guerra mondiale imperialista o rivoluzione comunista internazionale.

Oggi i lavoratori devono in primo luogo organizzarsi per difendere il loro salario, unendosi tra loro, superando le artificiali divisioni nazionali, di religione, di categoria, di razza etc. alimentate e volute dalla classe dominante. In ogni Paese dovranno rinascere, sotto la spinta delle lotte rivendicative, Sindacati di classe pronti alla difesa intransigente delle condizioni della vita operaia, decisi nel rifiutare ogni responsabilità verso l’economia nazionale.

La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è un obbiettivo per cui la classe lavoratrice si dovrà battere.

Nella lotta, condotta con veri scioperi generali, i lavoratori affermeranno la loro verità: che se l’infame regime del Capitale affonda, la classe operaia non affonderà con esso, ma approfitterà della crisi del capitale mondiale per abbatterlo.

Contro ogni metamorfosi della classe nemica, contro questo mostro dalle cento teste, da quelle che latrano e sbavano a quelle che sussurrano adulazioni, ripetiamo il nostro motto secolare: nella fase storica di ripresa internazionale della lotta di classe il nostro Partito, erede del programma storico del comunismo rivoluzionario di Marx e Engels, di Lenin e della Sinistra comunista italiana, raccogliendo le avanguardie dei lavoratori, dirigerà la battaglia per impedire una nuova guerra mondiale e seppellirà con la rivoluzione il capitalismo, il suo dissennato sfruttamento del lavoro umano, le sue guerre permanenti e la miseria che impone a milioni e milioni di uomini.






La guerra imperialista è solo morte e distruzione

Quindici mesi di massacro a Gaza, con l’impiego spietato delle armi d’ogni tipo fornite a volontà dalla massima potenza imperiale, e grandi sofferenze e lutti, non hanno dato alcun risultato, né sul piano politico né su quello strettamente militare. Su quei pochi chilometri quadri si è tornati al punto di partenza.

Alle genti massacrate si offre ora non più la pace, sia pure quella imposta dal vincitore, ma, se va bene, una breve, incredibile, tregua.

Perché per il capitalismo, ormai nel suo ciclo storico di estrema putrefazione, la guerra non ha più uno scopo generale o progressivo né risponde a una strategia. La borghesia non ha più da offrire all’umano consesso alcuna prospettiva, mancandogli ormai ogni idealità e piano di specie.

La guerra è per mantenere in vita un cadavere.

Il capitalismo è da sempre riproduzione all’infinito del capitale: lo scopo della produzione capitalistica è il capitale stesso. L’aumento iperbolico della produzione di merci oltre ogni limite naturale non genera benessere per gli uomini, al contrario li precipita in una serie di catastrofiche crisi di sovrapproduzione, che devastano la vita sull’intero pianeta. Di queste crisi – ritenute inevitabili dal marxismo autentico e negate per decenni dai teorici borghesi – la classe operaia è la prima vittima, sopportando il peso della disoccupazione, della riduzione dei salari, dell’intensificazione dei carichi di lavoro, e della guerra.

La guerra è ormai solo la conseguenza della periodica sovrapproduzione di merci. La guerra capitalista è quindi inevitabile. Solo le enormi distruzioni provocate dalle guerre mondiali moderne permettono al capitalismo di ricominciare il suo ciclo infernale di ricostruzione-accumulazione. Le guerre imperialiste della nostra epoca – anche se sempre nascoste dietro paraventi “umanitari”, “democratici”, “pacifisti”, “difensivi”, “antiterroristici” – sono necessarie ai vari capitalismi per spartirsi i mercati esauriti, per dividersi i continenti. Sono quindi guerre per la conservazione del capitalismo: sia sul piano economico, sia perché lo liberano di quella parte di forza lavoro che eccede la ridotta capacità del capitale di impiegarla. Di fatto sono immense stragi di schiavi, che il capitale non è in grado di sostenere.

L’alternativa è: o la guerra o la rivoluzione.

Il comunismo rivoluzionario di fronte alla guerra moderna denuncia come una tragica illusione l’idea che la pace sia compatibile con il capitalismo e afferma che solo il rovesciamento del potere borghese e la distruzione dei rapporti di produzione fondati sul capitale libereranno l’umanità da questa ricorrente tragedia. Sulla linea di Marx e Lenin, il Partito proclama la tattica dell’antimilitarismo di classe, della fraternizzazione fra soldati degli opposti eserciti, del disfattismo rivoluzionario al fronte e nelle retrovie, per culminare nella trasformazione della guerra tra gli Stati in una guerra tra le classi.

Della morte e della distruzione sparse su Gaza, la Cisgiordania e Israele è quindi responsabile non un popolo, una razza, una nazione, ma l’internazionale dei capitalisti, solidale in questo, e per essa di tutti i suoi rissosi governi, democratici o fascisti, laici o religiosi che si proclamino.






Nuove vicende della vecchia guerra per procura in Siria

Continuiamo a seguire i recenti sviluppi in Siria, attualmente divisa tra l’HTS, insediatasi nella capitale, e l’SDF, che controlla principalmente i territori a est dell’Eufrate. Inoltre, un’altra parte è sotto l’occupazione di due potenze regionali, la Turchia a nord e Israele a sud.

La rottura del “corridoio sciita”, che dal confine tra Iran e Iraq attraversa la Siria fino al Libano e alla Palestina, e la caduta del regime Baath, hanno provocato un indebolimento del blocco Russia-Cina-Iran in Medio Oriente e a un’affermazione dell’imperialismo occidentale. La Russia si è ritirata dal Paese in misura significativa e vede minacciata la sua unica base nel Mediterraneo. Quanto all’Iran, il governo dell’HTS non lo considera nemmeno un’entità legittima: ha dichiarato apertamente di non avere alcuna intenzione di stabilire relazioni diplomatiche e chiede un risarcimento notevole, centinaia di miliardi di dollari, per i danni causati sostenendo il regime di Assad.

È la Turchia presentata vittoriosa in Siria, da Trump, dai media occidentali e da i quelli turchi, ed Erdoğan non ha esitato a vantarla come una sua vittoria personale.

Alla fine di novembre, quando l’HTS ha guidato la carica dei ribelli verso Aleppo, una fonte governativa turca di alto livello l’aveva definita “un’offensiva limitata”, affermando che la Turchia stava cercando di evitare un’ulteriore escalation. Quando in seguito l’HTS ha conquistato Aleppo, il ministro degli Esteri turco si è seduto a Doha con i suoi omologhi: quello russo e quello iraniano, per esprimere congiuntamente il sostegno al “dialogo tra il governo e la legittima opposizione”.

Se l’HTS non ha dato retta ad Ankara allora, è probabile che non lo farà anche in futuro. In effetti, come abbiamo scritto – nonostante vi fossero canali occulti che consentivano di far passare personale e rifornimenti attraverso il confine turco, e nonostante l’intesa che l’HTS non attaccasse lo SNA, il proxy siriano della Turchia – lo Stato che ha fornito più addestramento militare, equipaggiamento e appoggio di intelligenza all’HTS è stata l’Ucraina, dietro la quale ci sono le principali potenze imperialiste occidentali, soprattutto gli Stati Uniti.

Sebbene le potenze occidentali siano attente a prendere le distanze dall’HTS, che tutti, Turchia compresa, fino a ieri definivano un’organizzazione terroristica, il viavai diplomatico tra il governo dell’HTS a Damasco e tutti i principali governi occidentali è stato intenso.

Erdoğan sta recitando la parte del principale sostenitore dell’HTS solo perché va a vantaggio suo e delle potenze imperialiste occidentali. Anche se il numero di siriani che finora sono tornati nel loro Paese è ancora basso, circa 50.000, è probabile che al momento opportuno, la Turchia avrà la sua parte tra i capitalismi che ricostruiranno la Siria, a un prezzo molto alto, che sarà pagato forse da generazioni di proletari siriani.

Al contrario Israele ha scarso interesse nella ricostruzione della Siria, o almeno della sua componente araba. La borghesia israeliana cerca sempre più l’alleanza strategica con i nazionalisti curdi, fra due popoli che sarebbero laici e circondati da fondamentalisti arretrati. In Siria la Turchia non è più bilanciata militarmente dall’Esercito Arabo Siriano, ma dalle Forze di Difesa Israeliane, che hanno già distrutto gran parte della capacità militare della vecchia Siria. Ciò significa che in qualsiasi tentativo di guerra totale contro i nazionalisti curdi, anche in caso di alleanza con l’HTS, la situazione potrebbe risultare in pareggio, con gli israeliani che sosterranno i curdi, il cui primo passo potrebbe essere quello di marciare per pochi chilometri alla conquista di Damasco.

Militarmente l’SNA è solo carne da cannone che non durerebbe un giorno senza il sostegno militare e finanziario della Turchia. Considerando che il vecchio Esercito Arabo Siriano non li ha combattuti, ma si è ritirato o ha disertato, l’HTS è una forza militare per lo più non collaudata, che tuttavia ha il vantaggio di avere la propria base nella maggioranza sunnita del Paese. L’SDF è invece un esercito regolare addestrato dalle forze armate statunitensi, con comandanti esperti di guerriglia e sostenuto da una rete terroristica in grado di colpire chiunque combatta dietro le linee.

Questa situazione ha costretto la Turchia a tornare al tavolo con i nazionalisti curdi, poiché sono venute meno le condizioni che consentivano la precedente intransigenza. In queste circostanze la Turchia, che è afflitta dalla peggiore crisi economica della sua storia, non può rischiare di condurre una guerra aperta contro i nazionalisti curdi.

Il processo negoziale è nelle fasi iniziali, pieno di contraddizioni e incertezze. Continuano i combattimenti tra le SDF e l’SNA nell’area di Manbij, sulla sponda nord-occidentale dell’Eufrate. La magistratura turca continua a occupare le municipalità dei nazionalisti curdi imprigionando i capi, il che provoca proteste, regolarmente attaccate dalla polizia e che portano a ulteriori arresti.

Ciò che alimenta le speranze liberali, democratiche e pacifiste di una soluzione borghese della questione curda è il permesso di visitare Öcalan, il capo supremo del PKK in carcere, concesso a un gruppo scelto di politici nazionalisti curdi.

L’accordo che Bahçeli, capo del tradizionale partito fascista e partner minore della coalizione di governo, offre ai nazionalisti curdi è semplice: libertà per Öcalan in cambio della deposizione delle armi e dello scioglimento del PKK. Lo stesso Öcalan sembra desideroso di accettare l’accordo: “Non voglio andarmene da qui in una bara”, avrebbe detto al nipote e deputato nazionalista curdo Ömer Öcalan, che è stato il primo a fargli visita all’inizio del processo negoziale. Ma c’è la concreta possibilità che una parte o addirittura tutta la dirigenza del PKK, che ha sede sui monti Qandil nel Kurdistan meridionale, non ascolti l’appello; ma questo non implicherebbe un’aperta sfida a Öcalan, intoccabile per il culto della sua persona tra i nazionalisti curdi.

E se la Turchia sta negoziando con il PKK, perché l’HTS non dovrebbe negoziare con le SDF? Dopo tutto entrambe le organizzazioni sono allineate con l’imperialismo occidentale, e soprattutto americano. Già corrono relazioni amichevoli tra l’HTS e l’SDF. Il capo dell’SDF Abdi ha annunciato che le sue forze sono disposte ad integrarsi nel nuovo esercito siriano.

Tuttavia le trattative sono profondamente legate ai negoziati in corso in Turchia. Né le parti turche né quelle curde sono omogenee: da entrambe ci sono sostenitori della continuazione della guerra o della pace. Ironia della sorte, la parte più favorevole alla pace e alla stabilità in Siria è l’HTS, il terrorismo jihadista scisso da Al-Qaeda, perché nel giro di pochi anni si troverebbe ad affrontare un destino simile a quello del regime Baath se la guerra, e la catastrofe economica che ne deriva, dovesse continuare.

Intanto Israele, che continua lentamente ad avanzare da sud, sembra pronto a intervenire più in profondità nel caso in cui la guerra civile scoppi di nuovo in Siria.

In questo contesto l’HTS sta cercando di consolidare il proprio potere in una situazione molto caotica. Per farlo attacca l’unica comunità rimasta senza una reale forza armata né un’entità politica considerata legittima dalla borghesia locale e dalle potenze imperialiste regionali e globali: gli alawiti. L’HTS ha iniziato la caccia contro i resti alawiti dell’Esercito Arabo Siriano, che a loro volta hanno teso un’imboscata e ucciso un gruppo di soldati dell’HTS. Questo ha portato ad arresti più ampi e a proteste di massa. Le proteste alawite sono state attaccate a colpi di arma da fuoco dalle forze dell’HTS; molti manifestanti sono stati picchiati, arrestati, torturati e alcuni addirittura decapitati, come ai tempi dello Stato Islamico. Nelle circostanze attuali, la comunità alawita in Siria è la più vulnerabile alla minaccia di massacro e persino di genocidio.

Ancora guerra o una pace temporanea, queste le opzioni di fronte alle quali si trova il proletariato siriano che, dopo oltre un decennio di guerra ad un tempo civile, imperialista e fratricida, è profondamente traumatizzato, diviso e sconfitto. Il proletariato siriano ha bisogno delle lotte dei fratelli di classe nel tormentato Medio Oriente, che a loro volta hanno bisogno delle lotte dei fratelli di classe ovunque. La Siria, il Medio Oriente e il mondo conosceranno una pace reale e duratura solo quando il proletariato, organizzato nei suoi sindacati di classe e guidato dal suo Partito Comunista Internazionale, riuscirà a prendere il potere nelle proprie mani.





Femminicidi

Recentemente in molti paesi abbiamo assistito a proteste di piazza contro i femminicidi. Questi movimenti sono scollegati dall’analisi materialista, soggiogati alla ideologia del capitale non possono portare a far cessare questo flagello, che oggi, come nel corso della storia, miete quasi 90.000 vittime ogni anno.

La posizione del partito è che l’emancipazione delle donne è possibile solo con l’emancipazione della classe operaia.

Ciò non toglie che già da oggi tutti i lavoratori, indipendentemente dal genere, devono lottare insieme per combattere il patriarcato. La lotta contro l’oppressione delle donne sotto il capitale è una parte insostituibile del movimento operaio e comunista.

È necessario che il partito analizzi e conosca le basi materiali e storiche del problema.

Nei sindacati le donne lavoratrici si trasformeranno in avanguardia nelle lotte, nell’istruzione, nelle organizzazioni di solidarietà di classe, nelle strutture di soccorso sociale per le donne.

La rivoluzione nel suo corso viene a distruggere il patriarcato. La rivoluzione mondiale è un traguardo che noi, umanità intera, possiamo raggiungere trasformando i lavoratori di tutte le razze e di tutti i generi in una classe in lotta, aprendo così la strada al comunismo, in un conflitto di classe, non di genere!

Una delle conseguenze del patriarcato è che i maschi, dopo aver violentemente rovesciato il primitivo ordine sociale comunista e stabilito il proprio potere, si sono arrogati anche il diritto di morte sulle donne, le compassionevoli custodi del matriarcato. Mentre l’assassinio della madre era considerato il peggior peccato nelle società comuniste primitive, i maschi hanno poi ucciso la donna per impedirle di esprimersi come essere umano, di prendere decisioni sul proprio corpo e sulla propria vita.

Secondo il Global Survey on Women delle Nazioni Unite, nel 2022 sono state uccise nel mondo circa 89.000 donne. Mentre gli omicidi sono diminuiti i femminicidi continuano ad aumentare. Circa 48.800 di questi nel 2022 sono stati commessi da partner o familiari. Molte delle donne sono costrette a dormire nell’angoscia sotto lo stesso tetto dei loro futuri assassini. Più di un quarto delle donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni in tutto il mondo ha subito violenze fisiche o sessuali. Non potendo sentirsi al sicuro per strada o persino nelle proprie case, le donne soffrono di patologie fisiche e mentali legate allo stress; la depressione è più alta del 50% nelle donne rispetto agli uomini e il disturbo post-traumatico è due volte più comune nelle donne.

La stragrande maggioranza di questi omicidi avviene ai danni di donne della classe operaia. In misura maggiore di quelle provenienti da Paesi poveri. Ma i capitalisti, che hanno bisogno di manodopera a basso costo, sono i primi a sfruttare e a impoverire le donne dei loro stessi paesi.

Per le donne della classe operaia è sempre più difficile mettere il pane in tavola, talvolta si debbono indebitare per pagare l’istruzione e la salute dei figli. Diventano così vulnerabili, ricattabili e indifese allo spargimento di sangue.

Come ha scritto Engels, in casa la donna diventa l’operaia e l’uomo sfruttato viene ricompensato con il dominio su di lei, facendosi parte della gerarchia patriarcale degli uomini. Che per questo si ritengono in diritto di togliere la vita alle donne e se ne giustificano a vicenda. Anche dove lo Stato borghese ha cessato di proteggere gli assassini con leggi e cavilli, l’ambiente patriarcale continua a sostenere infinite forma di violenza morale, sessuale e fisica e fa sì che il patriarcato si mantenga come un cancro tra le classi.

Nelle guerre che anche oggi stanno lacerando il mondo il corpo delle donne è nuovamente offerto come premio ai soldati e lo stupro è dichiaratamente impiegato come strumento di terrore e di guerra. Le micidiali necessità del capitale, in espansione o in crisi mortale, si manifestano nel costringere i maschi a diventare soldati e le donne a generare figli, futuri soldati o manodopera a basso costo.

Eppure, nel presente ordine patriarcale le organizzazioni che si propongono di prevenire la violenza sulle donne si rivolgono ai legislatori e ai governanti dello Stato borghese.

Negli ultimi vent’anni il numero di organizzazioni femminili è aumentato, ma il numero di femminicidi non è diminuito. Con l’eccezione di un leggero calo in Europa, gli omicidi di donne per motivi di genere continuano ad aumentare in tutto il mondo.

La illusione di un trattamento meno crudele viene spacciata dall’Occidente al resto del mondo come realizzabile, il privilegio di cui godrebbero la borghesia e la piccola borghesia e forse un piccolo gruppo di lavoratori con un buon reddito in Europa e in una parte molto ridotta del Nord America. In realtà, tutto si riduce ad attendersi che i parlamenti deliberino qualche anno in più di prigione per gli assassini: ogni giorno in tutto il mondo, mentre le donne aspettano giustizia davanti ai tribunali, altre 243 sono uccise.

L’angoscia generata inevitabile dalle crisi economiche e dalle guerre porterà a molti altri omicidi. Complessivamente l’80% delle vittime di omicidio sono uomini e il 20% donne; gli uomini sono più spesso uccisi fuori casa, le donne in casa. Uomini e donne sono uccisi per lo più da maschi. È l’educazione e la propaganda patriarcale e capitalista che rende gli uomini così vinti e disperati e a trascinare una esistenza di ossessioni. Queste velenose ubbie più si impadroniscono della classe operaia con il peggioramento delle condizioni sociali. Finché i lavoratori non vedranno la possibilità di por fine alla guerra e alla povertà, finché i conflitti di genere, razziali e religiosi continueranno all’interno della classe, i femminicidi e la violenza patriarcale non avranno fine.

Nei sindacati le donne dovrebbero incontrarsi regolarmente, insieme agli altri lavoratori, eterosessuali o LGBT, per discutere come condurre la lotta in difesa contro ogni discriminazione fondata sul genere. Nella battaglia che condurranno insieme – con i metodi della classe, non con quelli ingannevoli di collaborazione di classe del femminismo borghese – gli uomini della classe operaia saranno alla fine in grado di camminare fianco a fianco con le donne.

Non piangere su singoli omicidi e far solo rumore, ma inserire fra le richieste degli scioperi operai di massa la difesa delle donne accanto a quelle contro le dure condizioni di lavoro. La classe non cadrà nella divisione borghese fra i generi, la razza e la religione, divisione che lascia le donne indifese e trasforma gli uomini in assassini. Mettere i lavoratori gli uni contro gli altri è necessario per difendere il capitale.

Come Partito Comunista Internazionale, sappiamo che la liberazione delle donne, come di tutti gli altri gruppi oppressi direttamente e indirettamente dal capitale, può avvenire solo attraverso il comunismo, cioè attraverso la liberazione della classe operaia.

Ma noi comunisti non ci siamo mai limitati alla semplice osservazione della storia: è fondamentale per la vittoria finale della classe operaia opporsi sempre ad ogni sofferenza dell’umanità proletaria, col partito che accompagna e dirige il movimento verso il suo obiettivo rivoluzionario finale.









PAGINA 2


Brics
Non sarà un mondo multipolare a sanare le piaghe del capitalismo

Dal 22 al 24 ottobre si è tenuto nella città russa di Kazan il XVI vertice dei capi di Stato dei paesi BRICS, acronimo con il quale vengono indicate le principali economie emergenti del mondo. Parliamo di un raggruppamento di Stati che rappresenta il 40% della popolazione e il 35% del Pil mondiale. Si stima controlli il 42% della produzione mondiale di petrolio. Con 10,4 trilioni di dollari, il 21,6% del commercio globale, alla fine del 2023 sono al secondo posto dopo l’Unione Europea.

Ma cosa sono davvero e cosa rappresentano? Essi nascono nel 2009, con l’unione dei primi 4 Stati fondatori – Brasile, Russia, India e Cina (BRIC) – ai quali un anno dopo si è aggiunto il Sud Africa (BRICS), arrivando in seguito, da inizio 2024, a 10 paesi, i BRICS+, con l’aggiunta di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran, mentre l’Argentina con l’elezione di Milei nel novembre 2023 si è per ora ritirata dal progetto in quanto ancora impegnata nelle trattative con l’FMI in merito alle condizioni di restituzione del debito che ammonta a circa 45 miliardi di dollari.

L’allargamento di questa “alleanza” sembrerebbe rivolta a promuovere un’economia in competizione con quella dell’imperialismo in declino degli Stati Uniti e dei suoi alleati, attraverso l’utilizzo nelle transazioni internazionali di una moneta da sostituire al dollaro e la fondazione di una banca alternativa al FMI ed alla Banca mondiale, la Nuova Banca di Sviluppo (NDB, New Development Bank).

La strategia si riassume in alcuni obiettivi principali: una maggiore collaborazione fiscale e doganale tra i paesi membri, maggiore influenza sulla scena finanziaria internazionale e cooperazione tra i sistemi bancari degli Stati aderenti.

La NDB, che concede prestiti alle economie emergenti, soprattutto nei settori dell’edilizia, delle infrastrutture e dell’approvvigionamento energetico, è stata creata nel luglio 2014 in occasione del 6° vertice di Fortaleza, in Brasile, ed eroga finanziamenti dalla fine del 2016. I cinque paesi fondatori hanno ciascuno una quota uguale di capitale che, insieme a quella degli altri membri, Bangladesh, Emirati Arabi, Egitto ed Uruguay, raggiunge i 50 miliardi di dollari. Nessun membro ha il diritto di veto. Attualmente le attività ammontano a 30 miliardi di dollari e finanziano un centinaio di progetti, col proposito di arrivare a 350 miliardi entro il 2030, superando il FMI, che gestisce 110 miliardi e la Banca mondiale con 98.

La realizzazione di tale prospettiva è anche attestata da un recente studio della Goldman Sachs sulla crescita globale al 2075, che vede i paesi BRICS+ in netta espansione rispetto all’Occidente.

L’attuale presidente dell’associazione Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile, che resterà in carica fino al 2025, ha più volte dichiarato che «la bolla dell’indebitamento dei paesi sviluppati, che ammonta a 87 mila miliardi di dollari, è una pesante zavorra e un blocco allo sviluppo dei paesi emergenti e dei paesi più poveri». La soluzione del problema è chiara: «gli aumenti dei tassi di interesse nei mercati internazionali e gli eccessivi deprezzamenti delle valute dei paesi emergenti alimentano un circolo vizioso di indebitamento. La discrepanza tra debito in valuta forte e reddito generato da progetti locali crea un freno agli investimenti e allo sviluppo».

Il problema potrebbe essere superato concedendo al NDB il 30% dei suoi finanziamenti in valute locali. Questo consentirebbe espandere l’influenza dei capitalismi emergenti a danno dell’imperialismo egemone nel mercato internazionale, il tutto all’interno delle regole di mercato, nulla spostando nelle leggi del capitalismo e nelle loro devastanti conseguenze.

Al vertice di Kazan, sotto la presidenza di Vladimir Putin, hanno partecipato, oltre agli Stati membri, un gruppo di candidati-osservatori di 36 paesi. Il vertice ha trattato, oltre ai temi economici e finanziari, le questioni aperte sulla scena internazionale, riassunti infine in 134 punti su 43 pagine.

Xi Jinping, Narendra Modi ed Erdoğan (la Turchia è l’unico paese Nato a chiedere di voler aderire) non hanno mostrato difficoltà a stringere la mano a Putin, dissociandosi dall’ordine di “isolare la Russia” emanato da Washington. Intimazione questa passivamente recepita dalla UE, con le eccezioni di Ungheria e Slovacchia, che si è dimostrata un disastro per le economie europee invece che per la Russia, con la Germania in recessione anche per il rincaro delle materie prime, e a favore dell’economia statunitense, che ha sostituito, in parte, la Russia come fornitrice di gas naturale.

Si conferma che tutte le alleanze tra Stati borghesi sono fittizie e determinate dalle volatili necessità del momento.
Oggi molti paesi non intendono rompere con la Russia per il suo peso strategico e come fornitori di materie prime, energia ed anche armi. La partecipazione del segretario generale dell’Onu António Guterres è stato un ulteriore segnale di uno spostamento della linea politica di quella mondiale organizzazione di ladroni.

Anche nella questione ucraina è stata appoggiata la richiesta di Cina e Brasile di una conferenza internazionale con partecipazione della Russia e dell’Ucraina, già respinta da Zelensky in quanto non prevedeva il mantenimento dell’integrità territoriale ucraina.

Sul Medio Oriente si è condannato Israele ed espressa preoccupazione per l’estensione della guerra in Libano, del quale è da «mantenere l’integrità territoriale», «cessando gli attacchi al personale Unifil».

Dopo l’invasione dell’Ucraina e mentre monta la crisi internazionale di guerra con il massacro di Gaza, il vertice di Kazan ha dato un’ulteriore accelerazione al progetto dei BRICS, che si propongono sempre più come alternativa agli equilibri internazionali del post seconda guerra mondiale.

Però, nonostante i toni distesi e concilianti sulla pace, su un mondo “multipolare” più giusto e di maggiore equità per i capitalismi emergenti, i BRICS, trainati da Pechino e da Mosca, non possono non tendere a sostituirsi all’egemonia statunitense, loro vero obbiettivo.

All’interno del gruppo si trovano India e Brasile che non sempre mantengono le medesime posizioni antioccidentali di Russia e Cina. Fra Cina e India permane una rivalità storica e strategica fatta di contese territoriali che hanno portato soltanto 4 anni fa a scontri lungo il confine himalayano con diversi morti da ambo le parti. Allo stesso tempo i due paesi sono in competizione strategica nell’Oceano Indiano. Delhi, che ambisce a competere con la fabbrica del mondo cinese, è membro del Quad, una alleanza strategica con Stati Uniti, Giappone e Australia il cui scopo principale è contrastare una eventuale egemonia di Pechino nell’Indo-Pacifico

La possibile espansione aggiungerebbe nuove criticità. L’ingresso dell’Iran con l’Arabia Saudita in attesa, porterà inevitabilmente a nuove tensioni nel gruppo per le sempre più complesse questioni mediorientali come dimostrano i fronti opposti nell’ultimo abisso siriano dove i capitalismi regionali, e non solo, impiegano forze per procura.

Se per i borghesi è un groviglio inestricabile, per il marxismo rivoluzionario la questione è semplice: all’interno di qualsiasi alleanza nel capitalismo la competizione tra Stati borghesi li porta inevitabilmente verso lo scontro, commerciale e militare. Le medesime regole del mercato del capitale e della concorrenza valgono in occidente come in oriente.

Anche l’Europa si è creata una propria banca e una unione normativa e doganale per meglio affrontare la concorrenza nel mercato mondiale, ma questo non ha evitato che ogni nazione rivendicasse i suoi interessi. La concorrenza fra le singole borghesie è ineliminabile e non potrà mai consentire una pace duratura per l’umanità. In fase di crisi economica la competizione non riesce più ad essere pacifica.

Tanto meno potrà liberare dalla schiavitù salariata la classe operaia, il cui sfruttamento resta brutale ad est come ad ovest, a nord come a sud, nei capitalismi vecchi o giovani. Nei paesi dei BRICS+ più avanzati, come Cina e India, Brasile e Russia, le differenze sociali restano invariate, proprio come in Europa o in USA e i lavoratori sono chiamati a sostenere per il “bene del paese” grandi sacrifici. Domani saranno chiamati ad immolarsi nella guerra generale che il capitalismo sta maturando.

Non sarà un mondo multipolare, l’ennesima fandonia atta a illudere i lavoratori, a sanare le piaghe del capitalismo ma la lotta di classe sempre più estesa e unita tra i lavoratori occidentali e dei paesi BRICS+, per le proprie rivendicazioni economiche prima e per la costituzione dello Stato della dittatura comunista poi.







L’inevitabile declino dell’imperialismo francese

La borghesia francese vanta una tradizione gloriosa e infame. Nel 1789 ebbe il coraggio di tagliare la testa al monarca pur di schiantare lo Stato erede di un modo di produzione ormai scomparso; cento anni dopo si coprì di infamia nel soffocare la Comune di Parigi.

Dopo di allora la borghesia francese investì energie e risorse nell’imperialismo finanziario e coloniale. Il terrore di gestire una classe operaia che aveva nel sangue i geni della rivolta e della rivoluzione spinse i borghesi ad esportare lo sfruttamento del Capitale. In un patto non scritto la Francia trafficava nel mondo intero come spalla dell’imperialismo britannico, nemici nella competizione, amici nel saccheggio.

Nella prima guerra mondiale uscì vincitrice sul campo di battaglia, ma sconfitta nell’arena mondiale degli imperialismi. Quella prima guerra segna due punti importanti. In Francia nelle trincee occorse il pugno di ferro per riportare l’ordine patriottico. Mitragliatrici e fucili furono rivolti contro i proletari in divisa, migliaia di arresti e centinaia di fucilazioni. In altri Paesi le cose sono andate meglio, per noi, proletari e comunisti, in Russia e in Germania la rivolta spezzò le catene dell’ordine costituito e le borghesie dovettero chiedere la pace

Il ricordo della rivolta militare, la difficile situazione sociale e gli scioperi avevano rovinato l’esercito francese, non più pronto per una guerra imperialista. La dottrina militare è difensiva sul fronte interno, si costruiscono gigantesche fortezze sapendo che i coscritti non saranno più disposti ad affrontare la vita in trincea: solo promettendogli una guerra facile e senza morti è possibile una chiamata alle armi.

Il secondo punto riguarda la sua capacità imperialista di prolungare in maniera autonoma il suo saccheggio coloniale e finanziario. La prima guerra mondiale ne è lo spartiacque, da una condivisione subalterna con la Gran Bretagna diviene sempre più necessario per la borghesia francese appoggiarsi anche ai più forti: USA e Germania.

La disfatta del 1940 è il suggello di una borghesia vigliacca, che precede di 3 anni quella italiana. Cala le braghe e chiede l’aiuto degli altri imperialismi. Nello stesso anno la paura di uno sciopero militare e di una rivolta è tale che alla fine non si combatte. Fra i coscritti il ricordo degli immensi massacri è vivo e presente.

Le colonie sono affidate dove possibile a chi ne è capace. Condomini USA-Gran Bretagna-France libre per gestire buona parte dell’Africa, Condominio Franco Giapponese per gestire l’Indocina, il nord Africa sotto il controllo indiretto della Germania. Nelle regioni del nord capitale tedesco e francese collaborano nell’economia di guerra.

Nel dopoguerra la politica della borghesia francese e del suo Stato non cambia, i timidi tentativi di azione indipendente, magari con il vecchio leone spelacchiato inglese, sono solo velleitari, come a Suez nel ‘56

Alla borghesia francese un aiuto inaspettato, che mitiga la sudditanza all’imperialismo USA vincitore assoluto della Seconda guerra mondiale, arriva dalle maledette, senza onore e senza storia borghesie delle ex colonie. Queste borghesie autoctone, appena arrivate al potere chiedono protezione al vecchio padrone per mantenere il dominio di classe. Hanno fatto una rivoluzione a metà, hanno preso il potere e per conservalo hanno venduto nuovamente il loro paese al padrone di prima.

La storia della Francia post-coloniale è vergognosa, è la France-a-fric.

Sotto l’egida del supermiliardollaro negli anni del dopoguerra, la borghesia francese ha mantenuto un livello di splendore che non corrisponde alla sua reale capacità industriale, in declino storico legato alla caduta tendenziale del saggio di profitto.

Gli studi condotti dal nostro partito mostrano un rallentamento dell’aumento dell’indice di produzione industriale. Questa è la legge storica e inevitabile del capitalismo. Per la Francia nel lungo periodo che va dal 1913 al 1973, l’aumento medio è stato del 3,2%, scendendo all’1,3% nella parentesi tra il 1973 e il 2007. Con l’ultima crisi, quella del 2008-20, che sembra non avere fine, l’aumento è a zero.

L’imperialismo finanziario senza una forza armata che possa proteggere e rivendicare i crediti e gli interessi di rapina non è possibile. Questo spiega la forza militare e le enormi spese per mantenerlo. Le scelte fatte tutti i giorni dai governi di destra e sinistra le vediamo, ad esempio, la riduzione della spesa sanitaria per aumentare la spesa militare.

Nello stesso tempo le banche francesi sono quelle più esposte nell’industria degli armamenti, BNP Paribas, Credit agricole, Societé Generale e Groupe BCE hanno dichiarato di avere investito oltre 37 Miliardi di euro nell’industria militare. Secondo fonti SIPRI la Francia è il secondo esportatore di armi, al pari della Russia.

La classe borghese in Francia concede qualche briciola al proletariato, sperando che queste siano sufficienti a non avere la guerra di classe in casa.

Il ridimensionamento della reale grandezza francese sullo scacchiere internazionale pone seri problemi. Tutte le potenze occidentali assistono impotenti allo sviluppo del capitale nei paesi giovani, un tempo chiamati emergenti. La Cina, con la forza dell’artiglieria pesante delle sue merci e dei suoi capitali, prende il suo posto nel mondo e spinge fuori i decrepiti capitalismi occidentali. Nella stessa Africa le borghesie nazionali fanno a meno del vecchio consigliere protettore.

La borghesia francese, riducendosi le capacità di saccheggio, ha meno soldi per corrompere il proletariato. Come sempre al proletariato è presentato il conto: innalzamento dell’età pensionabile e guerre di rapina.

Il ridicolo carnevale delle commedie parlamentari nasconde giochi di palazzo, alleanze e ricerca di nuovi equilibri fra bande borghesi di una nazione che perde peso economico e politico di anno in anno, incalzata da potenze ormai più robuste. Le sceneggiate elettorali rappresentano la necessaria bugia a distrarre i lavoratori dai loro reali interessi di classe. Si illudono fra il pericolo delle destre e una nuova avventura militare in Europa.

Siamo internazionalisti, noi comunisti: che salti l’ordine borghese, il proletariato non si faccia ingannare da promesse e tartine sempre più misere spalmate di burro rancido. La nazione non va difesa, l’unione di tutti i lavoratori, in patria così come attraverso le frontiere, è l’unica prospettiva contro sfruttamento e guerra.

I gendarmi in ogni paese vestono da manichini cattivi, con pose marziali e muscoli gonfiati, servono a spaventare il proletariato ma sono muscoli flaccidi, di Stati che non hanno nulla da proporre per il futuro, di imperialismi grandi e piccoli, giovani o morenti, ma tutti assetati di sangue proletario.






Romania
Neanche i democratici ci credono più alla democrazia

La Corte Costituzionale romena ha annullato le elezioni presidenziali dopo che al primo turno il candidato della destra Georgescu aveva ottenuto la maggioranza relativa a scapito dell’attuale primo ministro, il socialdemocratico Ciolacu, e alla candidata della destra europeista Lasconi. Ciolacu, a urne chiuse e convinto della vittoria, aveva parlato di “un’elezione assolutamente trasparente”; poi, arrivato terzo, ne ha chiesto l’annullamento. Per la Corte ci sarebbero state manipolazioni dell’informazione, soprattutto tramite Tik Tok, e un contributo elettorale di 381.000 euro a Georgescu da parte di “una potenza straniera”.

Molto probabilmente ciò è vero, ma è poca cosa se pensiamo che la gran parte dell’informazione è in mano al governo e che le spese dell’Occidente saranno state certamente maggiori, a partire dalle NATO per la sua nuova e grande base militare a Costanza.

Georgescu è sicuramente un losco figuro: ha definito eroi Antonescu e Codreanu, i peggiori esponenti della reazione fascista rumena tra gli anni ’30 e la fine della seconda guerra mondiale. Sembra anche che sia caratterizzato da una curiosa miscela di religione ortodossa tradizionale, new age e teorie complottiste. Ma non è certo la sua ideologia fascista che lo ha reso pericoloso per i suoi nemici, piuttosto il fatto che sia vicino alla Russia e non disposto a sostenere l’Ucraina in guerra.

È probabile che gli sarà proibito, in qualche modo, di partecipare alle prossime elezioni. I rumeni lo hanno votato sicuramente come ciclica protesta contro la dilagante corruzione, e anche per paura di essere portati in guerra contro la Russia. I partiti neofascisti europei devono una parte del loro successo al fatto di presentarsi come contrari alla guerra, mentre i partiti della sinistra borghese, e una parte della destra, sono quasi del tutto interventisti.

Ciò che conta veramente è che nessuno metta in discussione le nuove basi NATO in Romania, e che questa appoggi la guerra in Ucraina.

Per i democratici americani ed europei la democrazia è sacra, ma se il risultato elettorale non è quello desiderato le elezioni non sono valide, e si scatena la piazza “democratica” a prendere il potere e indire nuove elezioni, il tutto sempre in nome della democrazia. Questo è già successo in Ucraina con la “rivoluzione arancione”, che forse sarà esportata anche in Georgia e Romania. Ciò è utile anche a far comprendere ai borghesi che governano gli Stati vassalli degli Stati Uniti cosa li aspetta se non obbediscono agli ordini.

La Romania ha già visto una ”rivoluzione democratica” alla fine del 1989, quando coloro che avevano condiviso il potere con Ceausescu fino al giorno prima lo fucilarono per salvare sé stessi e prendere il potere, in nome della democrazia e dell’anticomunismo. Con una farsesca “insurrezione” e “rivoluzione”, benedetta dalle centrali imperialistiche russe e americane, fu ottenuto il favore, o perlomeno la neutralità, del proletariato nei confronti di un cambio di regime.

Da un capitalismo ingessato, in buona parte di Stato, teso all’accumulazione di un capitale nazionale rumeno ai fini di un’industrializzazione in parte realizzata, si passa a una veloce privatizzazione dell’economia, a cominciare dal suolo agricolo. Viene dato più spazio alla piccola borghesia e ai consumi, prima sacrificati sull’altare delle necessità dell’industrializzazione: come in tutta l’Europa dell’Est si cerca di rimediare a una crisi economica catastrofica, dovuta a un capitalismo arrugginito e bisognoso di grandi investimenti che solo l’Occidente poteva fare.

Il tutto mettendo in moto il proletariato il meno possibile, propagandando come soluzione la libertà, la democrazia e il mercato, addossando tutte le colpe a un comunismo in realtà mai esistito in Romania, come negli altri paesi assoggettati militarmente dall’impero “comunista” russo.

I grandi borghesi credono nella democrazia quanto noi comunisti, cioè nulla, con la differenza che non possono dirlo. La democrazia è utilissima al capitalismo e all’imperialismo, fino al momento in cui diventa più utile il fascismo. Il proletariato è sfruttato, massacrato e portato in guerra tanto dal fascismo quanto dalla democrazia, e ciò continuerà fino a quando i proletari non avranno chiaro che il vero nemico da abbattere è il capitalismo, al di là della maschera democratica o fascista che indossa, Vale a dire fino a quando non avranno alla loro testa il loro Partito comunista.






Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale


Rapporto sulla nostra attività sindacale in Italia
Riunione organizzativa del 23 novembre

Da fine settembre, l’attività sindacale in Italia si è concentrata sull’agitazione dell’indirizzo dell’unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo di base. Ciò è stato fatto con una prima lettera-appello, datata 7 ottobre, rivolta agli iscritti e alle dirigenze di tutti i sindacati di base, nella quale si invocava una risposta unitaria di tutti i sindacati di base per opporsi al cosiddetto “Disegno di Leggo Sicurezza” del governo.

Tale disegno di legge prevede l’introduzione del “reato di blocco stradale”, in una forma peggiorativa persino rispetto alla legge introdotta nel 1948, in quanto considera reato il blocco stradale anche con i propri corpi, mentre la legge del famigerato ministro Scelba lo considerava reato solo se compiuto con oggetti (bancali, auto, ecc., atti a formare barricate).

Se potevano aversi dubbi sulle intenzioni del governo, queste sono state dissipate dall’intervento del Ministro degli Interni in Parlamento ai primi di ottobre, nel quale ha spiegato come l’obiettivo del Disegno di Legge sia impedire i picchetti organizzati dai sindacati di base dinanzi ai magazzini logistici, per bloccare l’ingresso e l’uscita dei camion, quale arma fondamentale per vincere gli scioperi.

In questa lettera – scritta insieme ad altri militanti sindacali che non fanno parte del nostro partito – si indicavano due opzioni per un’azione unitaria del sindacalismo di base: o aderire allo sciopero generale proclamato dal SI Cobas per il 18 ottobre, o definire un’azione unitaria in un giorno successivo.

Nessun sindacato di base ha infine aderito allo sciopero del SI Cobas, che lo ha così condotto da solo. Si è trattato perciò di uno sciopero nella sola logistica, indebolito anche in questa categoria dalla mancata adesione degli altri sindacati di base che negli ultimi anni si sono in essa rafforzati (Adl Cobas, Usb, Sol Cobas). Non ha aderito nemmeno l’Adl Cobas, che per anni ha sempre affiancato il SI Cobas negli scioperi nazionali generali o della sola logistica.

La lettera del 7 ottobre ha raccolto una trentina di adesioni di delegati e militanti del sindacalismo di base – dell’Usb e del SI Cobas – e anche della Cgil. Infatti in essa si auspicava l’allargamento dell’unità d’azione oltre i confini del sindacalismo di base, coinvolgendo le minoranze conflittuali in Cgil.

Le adesioni a questi appelli, che abbiamo reiterato nel corso degli anni, sono ancora molto ridotte. L’obiettivo non è ancora cambiare le decisioni delle dirigenze sindacali opportuniste, o addirittura spodestarle, ma tessere una rete di relazioni fra militanti sindacali che segua questo indirizzo sindacale del partito.

Tale lavoro, fintanto la lotta operaia resta a bassi livelli, come negli ultimi decenni in Italia, non può che, se va bene, avanzare a piccolissimi passi. Tuttavia, fra arretramenti e progressi del movimento, la sua correttezza è sperimentata e confermata, e rafforza l’esperienza pratica del partito.

I contenuti della lettera sono stati esposti a Genova dai nostri compagni in due interventi:
     - in un’assemblea promossa il 9 ottobre dai portuali dell’Usb contro il Disegno di Legge Sicurezza, con una sessantina di partecipanti, metà lavoratori metà studenti;
     - nel Coordinamento confederale dell’Usb il 12 ottobre, con una trentina di delegati sindacali.

In entrambe le assemblee la lettera ha trovato quali nuove adesioni rispetto ad analoghe iniziative del passato, quelle dei delegati Usb dell’aeroporto e dell’igiene ambientale (netturbini) di Genova.

Due giorni prima dello sciopero “generale” del SI Cobas, il 16 ottobre i sindacati di base Cub e Sgb hanno proclamato uno sciopero generale per il 29 novembre. Il 30 ottobre Cgil e Uil hanno proclamato anch’esse lo sciopero generale per la stessa data. Il fatto che sia stato scelto lo stesso giorno non è casuale: per le leggi anti-sciopero introdotta a partire dalla 146 del 1990 (votata da PCI e DC, invocata da Cgil Cisl e Uil) la scelta della data per scioperare subisce varie limitazioni. Quella del 29 novembre, già a metà ottobre, era una delle poche giornate disponibili.

Alla dirigenza della Cub, o almeno a una parte di essa, non è dispiaciuto il fatto che la Cgil scioperasse nello stesso giorno. Anzi, non è da escludere che la data del 29 novembre sia stata scelta allorquando era già chiaro che la Cgil si stava approntando a proclamare anch’essa lo sciopero generale, e che verosimilmente avrebbe scelto quel giorno.

Al di là di queste manovre e tatticismi, l’elemento importante è stato un cambiamento nella condotta tenuta da decenni dalle dirigenze del sindacalismo di base, quella cioè di organizzare scioperi separati e in concorrenza con quelli proclamati dai sindacati di regime.

Il nostro Partito si è sempre battuto entro i sindacati di base per l’indirizzo di scioperare uniti, a prescindere da quale sindacato proclami lo sciopero. Perché solo sulla base materiale di scioperi forti può crescere il sindacalismo di classe, non su scioperi minoritari.

Questo ribaltamento della condotta tenuta per decenni non ha riguardato solo la Cub e il Sgb, che lo hanno praticato senza ancora affermare esplicitamente di perseguirlo. Pochi giorni dopo che – il 30 ottobre – Cgil e Uil hanno anch’esse proclamato lo sciopero generale per il 29 novembre, altri sindacati di base si sono uniti, un gruppo dei quali (Adl Cobas, Confederazione Cobas, Sial Cobas) hanno spiegato in un comunicato congiunto che occorreva unire l’azione per rafforzare gli scioperi, sull’esempio di quanto fatto negli ultimi anni in Francia. Nei giorni successivi si sono aggregati uno dopo l’altro tutti gli altri sindacati di base.

L’unica a non farlo è stata l’Usb, la cui dirigenza si è così dimostrata la più pervicacemente ottusa nel negare l’elementare regola della lotta di classe proletaria: l’unità d’azione dei lavoratori e dei sindacati. Questa dirigenza, il 17 ottobre, aveva proclamato lo sciopero generale per il 13 dicembre. Sicché i nostri compagni, insieme ad altri militanti dell’Usb, hanno redatto una seconda lettera-appello, datata 13 novembre, rivolta ai soli iscritti Usb, in cui si chiedeva alla dirigenza di convergere sullo sciopero del 29 novembre, ed eventualmente, se si riteneva vi fossero le condizioni, propagandare in esso un secondo sciopero generale, il 13 dicembre.

Questa seconda lettera titolata “Fare come in Francia: anche Usb deve convergere sullo sciopero generale del 29 novembre, come già deciso da tutti gli altri sindacati di base!”, pur in numeri ancora molto piccoli, ha avuto adesioni di iscritti e delegati Usb maggiori di quella precedente.

Per lo sciopero del 29 novembre è stato preparato un volantino di Partito, che avremmo poi diffuso a Genova, Firenze, Roma e Napoli.

Oltre a quanto sin qui esposto, abbiamo pubblicato il 9 ottobre un volantino in merito all’aggressione subita da alcuni lavoratori e militanti sindacali durante uno sciopero in una piccola azienda nel distretto tessile di Prato. Lo sciopero è stato condotto dal sindacato di base Sudd Cobas, che si è formato dal distacco della locale struttura dal SI Cobas.

Abbiamo poi seguito lo sciopero nazionale dei tranvieri dell’8 novembre. Questo era stato proclamato sin da fine settembre dai sindacati di regime (Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasposti) e autonomi (Faisa Cisal), che erano ricorsi alla possibilità concessa dalla legge antisciopero di poterlo proclamare senza le cosiddette “fasce orarie di garanzia”. Si tratta sostanzialmente di uno sciopero più vicino a essere totale, rispetto a quanto normalmente concesso dalla legge. Tale possibilità è data solo per un singolo sciopero, solo nel quadro della vertenza per il rinnovo del contratto nazionale, solo dopo 3 precedenti scioperi avvenuti nel rispetto delle “fasce di garanzia” e solo per i sindacati firmatari del contratto nazionale. Questo offre un’idea dei cavilli e limiti posti in Italia dalle leggi contro lo sciopero. Per l’8 novembre i sindacati promotori hanno organizzato una manifestazione nazionale a Roma.

Questa decisione faceva prevedere una forte partecipazione a uno sciopero sentito finalmente “vero”, anche per il crescente malessere nella categoria, con numerosi casi di dimissioni a Roma e Milano e difficoltà delle aziende a reperire nuovi assunti. Infatti il precedente sciopero dei sindacati di regime, l’8 settembre, era andato molto bene, e così pure quello di 12 giorni dopo – 20 settembre – dei sindacati di base, nonostante i pochi giorni di distanza.

Il 20 settembre aveva visto la partecipazione di tutti i sindacati di base, Usb compresa, con la sola esclusione dell’AL Cobas, che ha una buona presenza solo a Milano, che però naturalmente è un’azienda importante sul piano nazionale, la seconda per numero di addetti dopo l’ATAC di Roma.

Per lo sciopero dell’8 novembre oltre all’altissima adesione è da rimarcare l’adesione della maggioranza dei sindacati di base, le cui strutture confederali anche in questo caso hanno deciso di abbandonare la pratica di disertare gli scioperi promossi dai sindacati di regime. Di nuovo l’Usb ha fatto eccezione, qui accompagnata dall’AL Cobas.

Continuiamo a seguire nelle ferrovie le mobilitazioni dei manutentori organizzatisi nell’Assemblea Nazionale Lavoratori Manutenzioni (ANLM), costituita la scorsa estate in sindacato, e quella del personale viaggiante (macchinisti e capi treno) organizzati nella Assemblea Pdm-Pdb (Personale di macchina e di bordo) e col sostegno dei sindacati di base (Cub, Sgb, Usb).

L’ottavo sciopero della ANLM, lo scorso 13 novembre, ha confermato il calo del movimento di lotta. I primi 4 scioperi avevano avuto adesioni di oltre il 70%; i successivi 3 intorno al 40%. Anche la manifestazione a Firenze ha avuta scarsa partecipazione. Il movimento sembra rifluito ma ha sedimentato un’organizzazione. Vedremo se avrà le forze e il giusto indirizzo per resistere e organizzare lotte future.

È in preparazione il settimo sciopero del personale viaggiante, per il rinnovo del contratto, che si terrà il 23-24 novembre. I precedenti sei sono andati molto bene.







Venezuela
Cresce il controllo delle multinazionali sul petrolio e sul gas e alla classe operaia restano bassi salari e supersfruttamento

Tra gennaio 2023 e luglio 2024, la produzione di petrolio in Venezuela è aumentata del 27%. Di questo aumento Chevron ne ha estratto il 96%. Il restante 4% è di Petróleos de Venezuela (PDVSA), ma anche di Eni, Repsol e Maurel & Prom. Insomma, la crescita della produzione petrolifera venezuelana dipende ampiamente dalle transnazionali nella gestione dei pozzi e nella estrazione di greggio e gas. La PDVSA non ha la forza finanziaria per incidere autonomamente sulla ripresa della produzione.

A questo si aggiunge un accumulo di limiti operativi, la mancanza di manodopera qualificata, non attratta da stipendi adeguati, e una dirigenza che devia parte delle entrate petrolifere nei canali della corruzione. Così le entrate generate da PDVSA coprirebbero a malapena il 60% del budget di spesa del borghese Stato venezuelano. Si stima che il Venezuela abbia un debito di 154 miliardi di dollari nei confronti di finanziatori stranieri. Il governo non è stato in grado di pagare questo debito sia per le sue insufficienti risorse finanziarie, sia per le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, che impediscono alla PDVSA e ad altre aziende statali di effettuare o ricevere pagamenti nelle banche internazionali.

Per di più nel contesto globale c’è sovrapproduzione di petrolio e gas, smorzata solo a causa delle sanzioni che limitano le esportazioni dalla Russia. La sovrapproduzione finirà per deprimere i prezzi.

I vari ministri del petrolio e i presidenti della PDVSA hanno promesso ambiziose crescite della produzione, ma a luglio 2024 solo 2 impianti di perforazione sono operativi sui 27 promessi, su un totale di 121 impianti. I dirigenti di PDVSA e delle altre aziende del settore spendono milioni di dollari in pubblicità e per rifare l’immagine di aziende semi-paralizzate e in attesa di capitali e diffondono menzogne per mantenere i lavoratori passivi e speranzosi di miglioramenti economici, proletari che ricevono solo briciole.

I sindacati del settore, traditori e servili, partecipano al partito della corruzione. Il tipo di business del governo venezuelano è determinato dalle alleanze con le potenze imperialiste. Finora questo è manovrato dall’imperialismo statunitense tramite una serie di sanzioni che impone quali compagnie si occuperanno dei pozzi e quali della commercializzazione del petrolio. Gli Stati Uniti hanno l’ultima parola nello stabilire chi entra e chi no. Anche l’accordo tra i governi di Venezuela e Trinidad per l’estrazione del gas dalla piattaforma marittima, che consentirebbe l’ingresso della British Shell, dipende dalla decisione del governo statunitense.

Per meglio collocarsi in questo confronto tra settori borghesi, venezuelani e non, per il controllo dello Stato e del business del petrolio, del gas e delle altre materie prime, l’attuale governo si è rivolto al gruppo imperialista dei BRICS, guidato dalla Cina, al quale metterebbe a disposizione queste sue risorse minerarie.

Questo spiega perché i governi dei BRICS hanno riconosciuto la vittoria di Nicolás Maduro nella sua rielezione a presidente. Dietro gli scontri politici e i negoziati sui risultati delle elezioni del luglio 2024 in Venezuela si nascondono quindi delle contese inter-imperialiste.

Ma durante i clamori post-elettorali non si sono fermate le esportazioni: i portali che tracciano il trasporto marittimo riportano che nei 19 giorni successivi al 29 luglio, 12 navi sono partite per gli Stati Uniti dai moli di Jose, Amuay e Puerto La Cruz con carichi appartenenti alla statunitense Chevron e alla spagnola Repsol, le quali da luglio hanno iniziato a inviare greggio alle raffinerie nordamericane. Parte di queste esportazioni sono scambiate con benzina, diesel e diluenti.

Nel frattempo, i lavoratori continuano a subire salari bassi, condizioni di lavoro insalubri e poco sicure. Peggio tra i pensionati e i disoccupati, ridotti alla miseria, perché i diversi bonus non sono conteggiati nel calcolo delle prestazioni sociali. Il rinnovo dei contratti collettivi di lavoro in tutti i settori dell’attività economica sono bloccati. Anche i salari nel settore petrolifero, petrolchimico e del gas, sebbene migliori rispetto agli altri settori, sono molto al di sotto del costo della vita. Le multinazionali non si lasceranno sfuggire l’opportunità di operare in Venezuela con bassi salari e bassi costi di licenziamento.

La classe operaia è chiamata a mantenere la propria indipendenza di classe e a esprimerla nelle proprie lotte rivendicative e sindacali.

Il movimento sindacale di classe che risorgerà anche tra i lavoratori del settore petrolifero, petrolchimico e del gas deve assumere le seguenti posizioni:

- Non limitarsi all’organizzazione sindacale per azienda o ramo d’industria ma promuovere l’integrazione dell’organizzazione e della lotta in un Fronte Sindacale Unico di Classe a livello locale, regionale, nazionale e internazionale, integrando lavoratori di diverse aziende, di diversi mestieri, di diverse nazionalità e persino affiliati a diversi sindacati, lavoratori attivi, pensionati e disoccupati in un unico movimento di lotta di classe.

- Rompere con gli appelli dei governi, dei capi sindacali e dei vari partiti opportunisti alla difesa del Paese, dell’economia nazionale, delle imprese e che chiedono ai lavoratori di paralizzare le lotte e di sacrificare le loro richieste in attesa della “ripresa economica del Paese” e del “miglioramento della produzione delle imprese”. La ripresa dell’economia, e anche la riattivazione degli impianti e della produzione nei settori del petrolio, del gas e della petrolchimica, saranno possibili solo tramite il sovra-sfruttamento operaio, i bassi salari e peggiorando l’ambiente di lavoro.

- Il sindacato di classe rifiuta di aiutare i governi nel reclutare lavoratori per le guerre tra Stati capitalisti. Il sindacato di classe nel settore petrolifero deve denunciare la guerra contro la Guyana per il territorio dell’Essequibo, poiché i lavoratori di entrambi i Paesi, così come tutti gli immigrati, saranno sfruttati da qualunque impresa verrà ad estrarvi il petrolio e il gas.

- Promuovere assemblee dei lavoratori per discutere la loro situazione, le richieste da avanzare, le azioni da intraprendere e le commissioni e i comitati da formare. Promuovere assemblee locali che includano lavoratori di diverse aziende e mestieri, nonché pensionati e disoccupati.

- Rilanciare lo sciopero e la mobilitazione di piazza come principali forme di lotta. Appena c’è la forza, la massiccia partecipazione, gli scioperi devono essere indetti senza preavviso, senza servizi minimi e a tempo indeterminato. Il nuovo movimento sindacale deve preparare sistematicamente uno sciopero generale che integri tutti i lavoratori nella richiesta di un aumento significativo dei salari e delle pensioni e chieda la piena retribuzione dei disoccupati. Alle rivendicazioni salariali il movimento unirà la richiesta della riduzione dell’orario di lavoro, dell’età pensionabile, il passaggio dei lavoratori a contratto a lavoratori a tempo indeterminato, l’eliminazione del lavoro straordinario. Può anche chiedere l’eliminazione del sistema di pagamento di bonus di vario tipo, che diventano tutti parte del salario, e conteggiati nel calcolo delle prestazioni sociali.

- Le elezioni di presidenti, governatori, sindaci e deputati decidono solo chi sarà il nuovo rappresentante della borghesia. Il sindacalismo di classe non partecipa alle elezioni della democrazia borghese, non fa campagna per nessun candidato e non presenta “candidati dei lavoratori”.Il sindacato di classe organizza la mobilitazione operaia e spiega ai lavoratori che qualsiasi candidato o partito prevalga nelle elezioni, dal governo agirà contro i lavoratori, nemico della classe operaia.

- I problemi della capacità di gestione e della corruzione in aziende come PDVSA e altre sono problemi della borghesia venezuelana. I lavoratori non chiedono la sostituzione o il mantenimento di qualche dirigente di azienda, per non distogliere la concentrazione sulle richieste operaie. Il movimento sindacale di classe non si illude che una diversa gestione dell’azienda possa portare miglioramenti ai lavoratori.

- Non si deve creare l’illusione che dalla crescente presenza di multinazionali nel settore del petrolio si ottengano salari migliori. Le multinazionali vorranno avvantaggiarsi dai salari bassi, come fa attualmente la PDVSA. Nemmeno il movimento sindacale di classe si impegna contro le privatizzazioni delle imprese o contro la penetrazione delle multinazionali, preferendo il capitale nazionale, statale o privato. Per il sindacato di classe non importa se il padrone è pubblico o privato, nazionale o transnazionale, tutti allo stesso modo rappresentano il capitale, con cui confrontarsi con lo sciopero.

- In particolare in Venezuela occorre prendere precauzioni contro la repressione del governo e dei padroni, sostenuti anche in questo dagli infidi dirigenti sindacali. Il movimento alla base dovrà spesso organizzarsi in modo discreto, senza esporsi inutilmente fino a quando non si sarà consolidato tra i lavoratori. L’avanzata verso la rinascita dei sindacati di classe si basa sulla moltiplicazione e l’estensione delle lotte operaie, fino a sfuggire al controllo degli attuali sindacati di regime, alleati e complici dei padroni e del governo. Oltre che per tutta la classe operaia, anche i lavoratori del settore petrolifero dovranno andare alla lotta, organizzati alla base, passando al di sopra degli attuali dirigenti sindacali traditori.






La classe operaia in Turchia si difende

La classe operaia turca sta dando nuovamente prova di sé. Circa 1.600 lavoratori metallurgici si sono battuti organizzati nella Birleşik Metal-İş. A Çayırhan hanno dimostrato solidarietà e fiducia nel movimento operaio, anche se per un breve periodo. Ma i capi sindacali, opportunisti e borghesi, stanno facendo del loro meglio per sopprimere e spegnere questo movimento.

Ad agosto il sindacato United Metal-Is aveva avviato negoziati con Hitachi, GE Grid Solutions, Schneider Electric, Arıtaş Cryogenic e Green Transfo. Ma, dopo che il padronato ha ridotto al 40% l’aumento salariale medio del 125% per il primo semestre concordato dal Birleşik Metal-İş, è stata presa la decisione di sciopero con l’impegno di 2.000 lavoratori di 9 fabbriche. L’aumento del 40%, anche se è porta il salario al doppio del minimo legale, non basta per vivere. Questi bassi salari reali, nonostante l’inflazione reale, porta a enormi profitti in tutti i settori.

Il 4 dicembre è iniziato lo sciopero di 500 lavoratori degli stabilimenti Hitachi di Kartal, Tuzla, Dilovası e Dudullu, il 13 dicembre quello nei tre stabilimenti di GE Grid Solutions e Schneider Elektrik, il 19 dicembre dei lavoratori di Arıtaş Cryogenic a Balıkesir Gönen e il 25 dicembre dei lavoratori di Green Transfo a Kocaeli-Çayırova.

Il 14 dicembre il governo di Erdoğan ha rinviato di 60 giorni lo sciopero della Birleşik Metal-İş perché “dannosa per la sicurezza nazionale”: non quindi un semplice rinvio ma un divieto di sciopero.

Nonostante questo contrattacco, la classe operaia non ha perso la sua determinazione.

In Hitachi è stato ottenuto un aumento del 60,5% nei primi 6 mesi del contratto, e tutte le clausole sulla flessibilità sono stati rimosse. I lavoratori di GE Grid Solution invece, continuano la lotta: non accettano l’aumento e affermano che non torneranno al lavoro senza un aumento del 125%. Alla Schneider Electric lo sciopero di 25 giorni ha portato i salari a 56.200 lire nei primi 6 mesi e a 71.150 nei successivi 6.

Lo sciopero alla Arıtaş Cryogenic, al quale aderiscono tutti i 132 operai, è ancora in corso; è anche contro la minaccia al diritto di sciopero, che la classe operaia turca ha conquistato solo con le sue lotte. Alla Green Transfo, gli scioperi sono iniziati il 25 dicembre dopo il rifiuto dell’offerta di aumento del 38%: i 263 lavoratori continuano determinati la lotta.

Il 6 novembre, i lavoratori del comune di Ataşehir hanno rifiutato l’offerta del padrone di 1.405 lire giornaliere, contro la loro richiesta di 2.100, è sono scesi in sciopero. Tuttavia, segretamente il DİSK Genel-İş ha firmato per l’aumento a 1.466 lire, promettendo un “protocollo aggiuntivo”.

L’11 novembre anche al Comune di Maltepe è iniziato lo sciopero. I camion della spazzatura e dei crumiri stati bloccati. Dopo 2 giorni l’aumento dei salari giornalieri è stato di 1.465 lire oltre altri miglioramenti.

Il 12 novembre i lavoratori organizzati sotto Genel-İş presso İMAR A.Ş., un’azienda del Comune di Buca di İzmir, hanno rifiutato l’offerta salariale di 42.000 lire al mese e sono scesi in sciopero. Ma Genel-İş ha nuovamente pugnalato alle spalle i lavoratori accordandosi col padrone.

Il 19 novembre era iniziato lo sciopero a Kadıköy, ma dopo solo un 1 minuto è stato revocato dai dirigenti del sindacato General-İş.

Il 6 gennaio, quando la municipalità metropolitana di Smirne si è vista tagliare 1,6 miliardi di stanziamenti e ha annunciato che avrebbe pagato solo un terzo degli stipendi, i lavoratori delle ditte, organizzati sotto nel General-Is, hanno interrotto il lavoro o smesso gli straordinari, annunciando che continueranno fino al pagamento integrale degli arretrati.

500 lavoratori hanno scioperato contro la privatizzazione della miniera di Çayırhan, nel distretto di Nallıhan. Gli operai si sono opposti alla privatizzazione non perché la ritengono un passo in direzione del socialismo, che sarebbe una illusione, ma perché nella maggior parte delle miniere privatizzate sono sottoposti a uno sfruttamento più grave, condizioni di vita molto più pericolose e aumenti salariali più incerti di prima. Tuttavia, anche questo sciopero è stato interrotto dal sindacato Maden İş, affiliato a Türk-İş, dopo il rinvio della privatizzazione.

I recenti scioperi in Turchia hanno dimostrato che di fronte alla crisi economica, che diventa sempre più insopportabile ogni giorno che passa, la classe operaia sta gradualmente cercando di reagire. Ma, tanto nei sindacati di regime quanto in alcuni sindacati di base affiliati alla DISK, le dirigenze vendute e opportuniste costituiscono il primo ostacolo eretto dal padronato contro la ripresa delle lotte della classe operaia.

I sindacati si schierano sì contro il governativo Partito della Giustizia e dello Sviluppo, ma a favore del kemalista Partito Popolare Repubblicano. Invece la classe operaia non ha altri partiti di cui fidarsi se non il proprio partito comunista d’avanguardia! Non importa quale partito borghese sia a capo dello Stato, la nostra lotta è la lotta della classe operaia contro l’intera classe dei capitalisti!

La classe operaia non ha bisogno né dei partiti borghesi né dei loro tirapiedi nei sindacati. La classe operaia troverà la forza per porre fine alla storia delle società di classe nel sindacalismo di classe, diretto dal partito comunista internazionale.





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Negli Stati Uniti
Il grosso affare sugli oppiacei

Secondo i recenti dati del Center for Disease Control, per la prima volta nei molti anni trascorsi dall’inizio della crisi, il tasso di mortalità annuale legato agli oppioidi negli Stati Uniti ha iniziato a diminuire: da 84.181 morti nel 2022 a 81.083 nel 2023. Tuttavia questi numeri rappresentano ancora una quantità sconcertante di proletari morti, schiacciati dal rullo compressore impersonale di un mercato in via di sviluppo. Quella che è stata chiamata “crisi degli oppioidi” ha devastato le famiglie della classe operaia per oltre due decenni, accumulando la morte di oltre un milione di americani.

La prima ondata della crisi è iniziata negli anni ‘90 con la comparsa di nuovi farmaci che sostenevano di poter affrontare il “quinto segno vitale” del dolore. Questi farmaci – come l’ormai famigerato Oxycontin prodotto dalla Purdue Pharma – venivano somministrati ai lavoratori che soffrivano per gli infortuni sul lavoro e il deterioramento corporeo a lungo termine che deriva da una vita di lavoro forzato. Non è una coincidenza che gli studi abbiano dimostrato che i lavoratori impiegati in industrie che riportano un maggior numero di infortuni sul lavoro hanno anche maggiori probabilità di morire per overdose da oppioidi.

Le nuove droghe cercavano di estendere i limiti naturali della sopportazione della fatica sotto l’esigente controllo del capitale e di anestetizzare il dolore del proletariato schiavo, placando qualsiasi malcontento verso la loro miserabile condizione. Ma lo scopo primario era assicurarsi un nuovo mercato che portasse un profitto per la borghesia, sono irrilevanti le conseguenze sui mercati emergenti e su intere nazioni (guerra, embargo, sanzioni), molto meno sul singolo consumatore.

Per continuare a espandere questo mercato promettente, l’industria farmaceutica ha creato un’alleanza di “scienziati” borghesi per darsi una legittimità scientifica per il loro “quinto segno vitale” e alla fine lo Stato borghese ha avuto tutte le “prove” necessarie per iniziare ad allentare le norme sulla produzione e la distribuzione dei farmaci, liberando completamente il capitale che stava sgomitando per prescriverne il più possibile al maggior numero di persone possibile. Nel 2001, Purdue Pharma aveva già accumulato una fortuna di 2,8 miliardi di dollari di entrate e tra il 2000 e il 2010 le vendite di oppiacei erano quadruplicate.

Nel frattempo, le masse continuavano a sviluppare una crescente dipendenza attraverso le prescrizioni legali di Oxycontin nel mercato interno, insieme all’ascesa di piccoli “pillolifici”, il cui unico scopo era sfruttare l’ambiguità semi-legale del mercato e incassare l’alta domanda. In questa fase di crisi, gli effetti dell’eccesso di prescrizione e le conseguenti controversie legali sui dati fasulli dei produttori di farmaci hanno portato alla lenta reintroduzione di alcune leggere restrizioni; ma il danno era già fatto: tra il 1999 e il 2019, l’overdose da oppiacei è aumentata di cinque volte

L’invasione di oppiacei nel mercato legale ha provocato un forte calo dei prezzi al “dettaglio”, come l’eroina, nei mercati “illegali”. La combinazione di oppiacei illeciti più economici, l’aumento delle restrizioni sul mercato legale e il boom della domanda da parte dei tossicodipendenti hanno portato a quella che oggi è nota come la “seconda ondata” della crisi degli oppioidi dal 2010. I cartelli della droga messicani hanno aumentato contemporaneamente la produzione di eroina e la fornitura costante di prodotto a basso costo negli Stati Uniti. Ciò ha aumentato in modo significativo il capitale investito nella produzione, accrescendo la sua partecipazione al mercato globale dell’eroina, divenendo il quinto produttore in Messico. Non a caso il precedente presidente messicano, López Obrador, veniva accusato di aver ricevuto 2 milioni di dollari dai cartelli per la sua prima campagna presidenziale, nella speranza di un trattamento di favore.

Nuovi terribili livelli di crisi hanno iniziato a manifestarsi con l’introduzione del Fentanil – un oppiaceo sintetico circa 100 volte più potente della morfina -raddoppiando il tasso di decessi legati ad esso negli Stati Uniti da 10,4 a 21,4 su 100.000, arrivando all’attuale “terza ondata” che dura dal 2016 circa fino a oggi. Grazie al suo costo di produzione più basso (non più dipendente dai vincoli di tempo e dai limiti riproduttivi naturali dell’agricoltura) e alla sua maggiore efficacia rispetto ad altri oppiacei, il Fentanil richiede meno tempo di lavoro, producendo un tasso di profitto molto maggiore per gli intraprendenti cartelli messicani.

La Cina è il maggior fornitore dei componenti necessari per la sintesi nella produzione di Fentanil e, sebbene il Paese abbia “vietato” la produzione e la vendita di Fentanil completamente sintetizzato dal 2019, i precursori utilizzati nella sua produzione sono ancora forniti da piccole aziende e meno regolamentate; le spedizioni arrivano poi nei laboratori dei cartelli messicani dove i componenti vengono sintetizzati e avviati alla distribuzione negli Stati Uniti.

L’ingresso della droga negli Stai Uniti, è un argomento frequente per i partiti borghesi nella loro retorica sull’immigrazione dal confine meridionale. Nonostante la famigerata strategia del muro di Trump, che i democratici hanno quasi formalmente adottato come propria, la mitica “mano invisibile del mercato” borghese passa attraverso tutte le barriere fisiche. La maggior parte delle droghe illegali passa attraverso punti di ingresso legali, a volte anche con l’aiuto degli agenti di frontiera, e il muro non è altro che un risibile fallimento simbolico della borghesia nell’affrontare la crisi all’interno.

La risposta borghese alla crisi degli oppiacei è stata in gran parte incentrata sulla soppressione o sulla critica di alcuni mercati a favore dei propri; la borghesia degli Stati Uniti ipocritamente incolpa solo i cartelli, il governo cinese e quello messicano. La borghesia messicana incolpa l’elevata domanda americana. La borghesia cinese ha lasciato inalterata la produzione di precursori del fentanil, avendo sospeso ogni trattativa contro il narcotraffico con gli Stati Uniti alla luce delle crescenti tensioni tra le due potenze imperiali e visto che il capitale non fa mai beneficenza.

Gli Stati Uniti destinano la maggior parte delle loro risorse alla DEA, all’FBI e alla polizia, per reprimere le linee di approvvigionamento, mentre lasciano i lavoratori e le masse che lottano contro la dipendenza all’industria privata della riabilitazione, che è naturalmente cresciuta fino a diventare essa stessa un’industria multimiliardaria.

La condizione delle masse non è mai una preoccupazione per la borghesia, finché i mercati “tirano” la sofferenza è “niente” ai loro occhi. La borghesia non ha mai esitato a immischiarsi nei mercati illegali. Al di là della corruzione quotidiana di singoli politici e poliziotti nel piccolo commercio di droga, la tradizione dell’azione organizzata della borghesia imperialista nel mercato della droga può essere vista fin dalla prima guerra dell’oppio.

Ma la partecipazione della borghesia ai mercati illegali della droga e i suoi appetiti imperialisti non sono cessati. Negli anni ‘80, in quello che è stato tristemente noto come l’Affare Iran-Contra, una cooperazione segreta delle potenze borghesi violò l’embargo sulle armi. La borghesia statunitense incanalò i profitti del commercio illegale di armi nella milizia paramilitare reazionaria nicaraguense, nota come i Contras, nel tentativo di rovesciare il governo del Nicaragua e garantire l’influenza americana nel Paese. I Contras erano coinvolti nella distribuzione di cocaina negli Stati Uniti, in particolare in un periodo in cui l’epidemia di crack era ai massimi storici.

Analogamente, negli anni ‘80, la CIA – in una guerra per procura contro l’Unione Sovietica – era coinvolta nel finanziamento delle forze mujaheddin in Afghanistan, che facevano affidamento sulle esportazioni di oppio ed eroina per finanziare l’acquisto di armi. Queste transazioni “droga in cambio di armi” si sono trasformate in imprese piuttosto lucrative e, una volta che l’Iran ha limitato la produzione di semi di papavero, l’Afghanistan è diventato la scelta naturale come fornitore primario. Oggi l’Afghanistan detiene un monopolio quasi completo sulla produzione globale di eroina.

Nel frattempo, la classe operaia è diventata sempre più dipendente, incarcerata, lasciata alla mercé dell’industria della riabilitazione e, purtroppo, uccisa in massa dall’economia borghese del veleno; riflettendo la cinica realtà della logica ultima del capitalismo e gli effetti della profonda alienazione dei lavoratori che vivono in assenza di un forte movimento operaio e della disperazione che molti provano al di fuori del piacere effimero del consumo individuale di fronte alla brutalità capitalistica.

Sebbene il tasso di morti per oppioidi abbia iniziato a diminuire - per ragioni ancora in gran parte sconosciute - il tasso è ancora drasticamente più alto di quello precedente alla pandemia ed è ancora una tragedia in corso. La ragione più cupa potrebbe essere che la popolazione più a rischio di morire, semplicemente, è già morta, in attesa che arrivi la successiva generazione.

Solo attraverso la realizzazione di un forte movimento operaio, insieme alla restaurazione dello storico Partito Comunista, i veleni della borghesia non saranno più l’unica opzione per lenire il dolore fisico del lavoro obbligatorio, e per riempire i vuoti interiori creati dalla società borghese. Nel comunismo non saremo più le cavie della scienza borghese, e saremo in grado di sviluppare i nostri sensi e di impiegare il nostro lavoro in un modo che non ci è estraneo, ma naturale e che afferma la vita, e non vedremo alcun motivo per sfuggire alla realtà materiale, oggi fatta di merci che alterano i nostri sensi e vedute.






Milioni di schiavi salariati a costruire stadi nel deserto

Lo scorso 11 dicembre la Federazione internazionale delle associazioni calcistiche ha annunciato che nel 2034 il ricco circo dei mondiali di calcio si svolgeranno in Arabia Saudita, unica candidatura dopo il ritiro dell’Australia e precedentemente dell’Indonesia.

Diverse organizzazioni dell’associazionismo borghese, innocue e spesso utili al capitale, capeggiate da Amnesty International, hanno pubblicato una dichiarazione congiunta per condannare la scelta della FIFA definendola “pericolosa” a causa delle ripetute violazioni dei diritti dei lavoratori da parte della petro-monarchia saudita.

Ma gli interessi in gioco sono poderosi. Si stima che negli ultimi anni la borghesia saudita avrebbe investito o messo a preventivo centinaia di miliardi di euro, in vari ambiti: dalla promozione del calcio nazionale, alle sponsorizzazioni, dall’acquisto di campioni per la Saudi Pro League, fino alla costruzione di 11 nuovi stadi e tutte le infrastrutture necessarie per l’evento.

È previsto infatti che i Mondiali verranno giocati in 15 stadi per ospitare 48 compagine nazionali. Solo 4 stadi attualmente utilizzati dalla lega saudita saranno ristrutturati, gli altri 11 verranno costruiti da zero. Tre di questi dovrebbero essere disponibili già nel 2027 per la prossima edizione della Coppa d’Asia, che si giocherà anch’essa in Arabia.

Il business è enorme, oltre agli stadi e ai campi di allenamento gli investimenti riguarderanno strade, autostrade, hotel, centri commerciali, ristoranti etc. Sulla sabbia del deserto è prevista anche la costruzione di una nuova città, Neom, nella provincia di Tabuk, nel Nord-Ovest del paese.

Se in Qatar nel 2022 fu investita la cifra record di 200 miliardi di euro, oggi la monarchia saudita ne ha previsti circa il triplo.

La casa reale cerca di presentarsi in una nuova veste, anche nella vetrina del calcio internazionale, in apparente discontinuità con la precedente, gelosa della chiusura e impenetrabilità della società saudita.

È comunque ben aperta alla manodopera operaia, da sfruttare fino alla morte. Oggi Riad “ospita” oltre 13 milioni di lavoratori immigrati, più dell’80% della forza lavoro del settore privato e un terzo della popolazione del paese. Arrivano principalmente dall’Asia e dall’Africa. Per i mondiali ne sono attesi altri 1,5 milioni. In tanti stanno già lavorando nei cantieri degli stadi, costretti ad accettare pessime condizioni, turni massacranti e bassi salari.

In Arabia lo sciopero e la formazione di sindacati sono vietati.

Nella lunga giornata lavorativa in un caldo torrido e umido è concessa solo una breve pausa. A fine giornata i lavoratori esausti sono portati nelle loro piccole stanze condivise con altri operai. Si mangia per terra e un materasso è a volte l’unico oggetto nella casa. Molti di loro sono legati ai padroni grazie alla kafala (“garanzia” in arabo): il padrone si appropria dei passaporto e dei permessi di lavoro tenendo sotto ricatto gli operai. Spesso i lavoratori denunciano la non restituzione del passaporto, lo stipendio non pagato e contratti fittizi.

Abbiamo ancora vivo il ricordo e la rabbia di quanto accaduto in Qatar nel 2022, quando migliaia di lavoratori immigrati furono sacrificati sull’altare del capitale durante la preparazione dei mondiali. Nel numero 381 del nostro “Il partito comunista” descrivevamo quanto accaduto, ammonendo l’internazionale classe dei lavoratori a quale fine fosse destinata senza una adeguata organizzazione dedita alla lotta, senza una ripresa della solidarietà di classe su scala internazionale. Scenario che purtroppo sembra ripetersi in Arabia.







Per una Georgia “indipendente”

Il nazionalismo “indipendente” è diventato la bandiera del governo georgiano, deciso a reprimere ogni settore della società per garantire il dominio della borghesia.

Tutto è iniziato nel 2023 con l’introduzione della cosiddetta legge sulla trasparenza, seguita da un’altra che proibisce la propaganda LGBT e quella sulle società estere.

Dopo la “legge sulla trasparenza dell’influenza straniera” e la brutale repressione delle proteste che ne sono seguite, il governo ha usato l’intimidazione e l’acquisto di voti per assicurarsi la vittoria elettorale – una perfetta dimostrazione di cosa è in realtà il cosiddetto “processo democratico”.

Dall’annuncio del congelamento dell’integrazione nell’UE fino al 2028 sono state organizzate proteste contro il governo, che ha risposto con esecuzioni extragiudiziali, torture, arresti di massa e violenze di teppisti di estrema destra. Ogni giorno il governo diffonde una propaganda fuorviante, la borghesia e la piccola borghesia si combattono, le condizioni della classe operaia peggiorano e lo Stato, con i suoi poteri accresciuti, dove non basta la propaganda reprime con la forza e l’intimidazione qualsiasi segno di dissenso tra i lavoratori.

Il governo difende la “indipendenza” della nazione georgiana contro l’influenza straniera e legittima la repressione contro i “traditori della nazione”. La legge sulla trasparenza in realtà è uno strumento che il governo usa per schiacciare la classe media. Per contro il governo ha anche approvato una legge che rende più facile per le società straniere operare in Georgia. Ma questa legge sarà usata dalla borghesia con legami con la Russia per meglio riciclare il proprio denaro.

Non ci sono quindi dubbi su cosa significhino il nazionalismo e la sovranità nazionale: il dominio della classe borghese.

In Georgia i mestieranti di tutto lo spettro politico esaltano il nazionalismo come bene supremo in un ridicolo teatrino messo in scena per decenni. Destra, sinistra e centro condividono le stesse e altrettanto assurde fantasie e formule. Tutti predicano le stesse parole, rimproverano gli stessi peccati e glorificano le stesse virtù.

Tutti sono d’accordo, eppure si odiano. Persino il partito al governo, che simpatizza per la Russia, è costretto a promettere l’adesione all’UE nel 2030. Tutti affermano di desiderare l’Europa, la nazione georgiana, la democrazia, la sovranità, e condannano i traditori, l’autoritarismo, l’influenza straniera. Ma in realtà nessun partito sa cosa significhi tutto questo, né forse l’ha mai saputo. Dietro queste ideologie si nascondono le brutture della società borghese, gli interessi della classe dirigente e le divisioni al suo interno.

Allora diventa chiara l’origine della “polarizzazione”: non ci può essere “dialogo” tra “visioni opposte” perché non ci sono visioni opposte, ma solo gli opposti interessi fra le classi e le sotto-classi. Da un lato c’è la piccola borghesia, relativamente ricca, che ha legami finanziari con l’Europa e vi si reca spesso. Dall’altra ci sono membri influenti della grande borghesia con legami con il capitale russo, attualmente rappresentato dal partito al potere. Ma c’è anche una parte della grande borghesia che dipende dal capitale occidentale.

A capo dello Stato è Bidzina Ivanishvili, di gran lunga l’uomo più ricco della Georgia, “Presidente onorario” del partito al potere, il “Sogno georgiano”. I liberali si mostrano sorpresi da questa disfunzione autoritaria. I più stupidi attribuiscono questo “difetto” al demone non ancora esorcizzato della “mentalità sovietica”. Ma il funzionamento del governo georgiano non è diverso da qualsiasi del governo borghese: nei tanto decantati Stati Uniti, essendo un Paese con una borghesia più ricca, hanno molti oligarchi invece di uno solo.

Il programma del governo vorrebbe garantire la “sovranità georgiana”, in una zona di pace e stabilità in mezzo al caos, alla guerra, alla instabilità e alla crescente globalizzazione del mondo, fantasie simili alla ideologia di altri Paesi, la pretesa di un mondo multipolare.

Naturalmente questa multipolarità significa la libertà delle borghesie nazionali di opprimere e sfruttare le classi lavoratrici locali, piuttosto che l’interferenza della globalizzazione nei loro affari interni.

Per questo si paventa l’egemonia imperialista statunitense e si guarda all’asse imperialista rivale di Russia, Cina e Iran. Come se questo asse fosse meno integrato nel sistema di oppressione imperialista.

L’ala sinistra che la destra del capitale si alternano in questa miserabile farsa. Nonostante insistano nell’affermare di opporsi al capitalismo, sono ben desiderose di sostenerne la marcia verso l’autoritarismo e la repressione. L’“anticapitalismo” di entrambi si riduce in un impotente nazionalismo. Ma, nonostante i loro piagnistei contro il “capitalismo”, eseguono puntualmente gli ordini dei loro rispettivi padroni. La differenza sta solo che mentre la sinistra ricorre alla propagandistica di intellettuali senza cervello, l’estrema destra ricorre direttamente alla forza muscolare.

Ma anche i presunti difensori della classe operaia hanno applaudito l’apparato repressivo della classe dominante e gioito dei patetici tentativi statali di propaganda patriottica e religiosa. Ora è chiaro, e non era difficile da vedere prima, che l’unica preoccupazione di questi utili idioti ignoranti di politici corrotti non è mai stata la classe operaia, ma l’opposizione ideologica al “liberalismo”, qualsiasi cosa questo significhi nelle loro illusioni.

La sinistra si rifiuta ostinatamente di ammettere che è questo governo che reprime la classe operaia e ne garantisce le condizioni di lavoro invivibili.

Nello stesso tempo il governo si serve di militanti fascisti per scopi terroristici. I media chiamano questi sgherri “titsushkiy”, riferendosi a quelli usati da Victor Yanukovych in Ucraina. Questi teppisti, di ideologie di estrema destra, sono membri di varie organizzazioni militanti fasciste.

L’unica opposizione è costituita dai liberali piccolo borghesi, che condannano lo Stato perché si è rivoltato soprattutto contro di loro. Ma è una opposizione moderata, debole. I liberali, nonostante la repressione, non si oppongono allo Stato in linea di principio e si limitano a sostenere che l’attuale governo è “illegittimo”. Sperano nel profondo del loro cuore che, con il tempo necessario, si possa dimostrare la correttezza del dogma liberale. In breve, sono senza speranza come sempre.

Naturalmente i liberali stanno diventando sempre più confusi ed alcuni estremisti. Parlano di difesa della Costituzione come di una forma di rivoluzione, senza alcuna comprensione di cosa sia.

Come sempre è la classe operaia a essere abbandonata e tenuta da parte. Lo Stato e l’estrema destra la fustigano e le impongono il silenzio; la sinistra la ignora. La piccola borghesia però, impotente, implora il sostegno del proletariato: grida “Sciopero!”. Sembrano aver dimenticato che erano stati loro a sostenere la repressione di lunga data che ha immobilizzato il proletariato. Si lamentano infatti degli scioperi che chiedono migliori condizioni di lavoro e salari, invece di chiedere di ripetere le elezioni. Cioè, si lamentano che la classe operaia segue i propri interessi e non quelli delle classi medie.

Intanto lo Stato rafforza il suo apparato coercitivo contro i lavoratori.

Nel bel mezzo della repressione dei dipendenti pubblici, degli insegnanti, ecc. il governo ha lanciato un osso ai lavoratori: le pensioni sono state aumentate di 35 Lari, passando da 315 a 350 Lari. Non basterà nemmeno a coprire l’aumento dei prezzi, ma è solo una questione di orgoglio patriottico. Lo stesso giorno è stato deciso di raddoppiare lo stipendio dei parlamentari. Possiamo immaginare quanto i “compagni” dell’Unione dei Deputati abbiano lavorato duramente per questo risultato.






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Le proteste antigovernative in Kenya

Uno spettro si aggira per il Kenya. Il governo del presidente William Ruto - un convinto servitore del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale - sta cercando di imporre tasse assai esose alle masse lavoratrici. La protesta è dilagata rapidamente con manifestazioni in molte città che hanno visto per protagonisti giovani proletari che si sono posti contro il governo con radicale determinazione. I lavoratori kenioti chiedono ora uno sciopero generale.

Il Presidente Ruto ha chiamato l’esercito dopo che una formidabile massa umana ha invaso le strade per opporsi alle sue severe misure di austerità. In un primo discorso televisivo, Ruto ha etichettato i manifestanti come "traditori" e "pericolosi criminali", giurando di trattare ogni minaccia come un pericolo esistenziale per la Repubblica.

Martedì 25 giugno, i manifestanti contrari al disegno di legge sulla finanza hanno circondato l’edificio del Parlamento a Nairobi, nel tentativo di paralizzare l’economia e costringere Ruto, ad abbandonare il suo progetto di imporre oltre 2 miliardi di dollari di nuove tasse sui lavoratori e sui poveri delle aree rurali.

Il disegno di legge segue un periodo di instabilità economica in cui il Kenya, un paese neanche troppo povero rispetto all’area geografica in cui è inserito, ha vacillato sull’orlo del baratro finanziario. Una vendita di obbligazioni da 1,5 miliardi di dollari a febbraio ha temporaneamente salvato il governo, permettendogli di pagare un’altra rata del debito in scadenza.

La situazione del Kenya è diventata così grave che il nuovo debito viene accumulato per pagare quello vecchio a tassi di interesse sempre più alti. Il 30% del bilancio del governo viene speso per il servizio del debito. Entrano in gioco il FMI e la Banca Mondiale, con i loro "aiuti" sotto forma di prestiti, apparentemente per aiutare il Kenya a ripagare i suoi creditori parassiti. Ma il trucco è che questi debiti devono essere ripagati trattando i proletari kenioti come mucche da mungere.

Seguendo i dettami del FMI, il Parlamento ha proposto il Finance Bill 2024, un pacchetto di brutali misure di austerità che ha scatenato le proteste. Il disegno di legge mira a raccogliere 2,7 miliardi di dollari di tasse aggiuntive per ridurre il deficit di bilancio facendolo passare dal 5,7% del PIL al 3,3%, nella prospettiva di ripianare il debito pubblico del Kenya che è pari al 68% del PIL. Di fronte alle sfide economiche e all’incertezza sull’accesso ai mercati dei capitali, il Kenya si è rivolto al FMI, che ha chiesto al governo di aumentare le entrate per ottenere maggiori finanziamenti. Il disegno di legge prevede imposte indirette su beni di prima necessità come pane, olio vegetale, zucchero, cioè i beni di primaria necessità per la fascia più povera della popolazione. La cosa più esasperante è l’introduzione di "eco-tasse", che includono una "eco-imposta" sui pannolini igienici e sugli assorbenti mestruali, una cinica beffa che ha scatenato l’indignazione delle giovani donne keniote. Inoltre, la manovra prevede un aumento delle tasse sulle transazioni finanziarie.

Di fronte a queste nuove tasse che mettono ulteriormente a dura prova le loro già scarse finanze, i lavoratori kenioti sono scesi in piazza. I social media sono diventati rapidamente una piattaforma per condividere il loro sentimento di rabbia e coordinarsi nelle azioni di protesta. Senza un leader centrale o un partito capace di assumere la direzione della protesta, i giovani di tutto il Paese si sono sollevati per puro istinto di classe: una prassi senza teoria, ma naturalmente spontanea. Il governo ha risposto con la violenza poliziesca che ha fatto largo uso di armi da fuoco contro i giovani proletari in rivolta, tanto che almeno 20 di loro sono morti e parecchie centinaia sono rimasti feriti. Molti di loro sono caduti martedì 25 giugno durante l’attacco all’edificio del parlamento che è stato devastato e dato alle fiamme. A questo si aggiunge il pesante clima di intimidazione da parte della polizia e la chiusura di Internet e con l’arresto di centinaia di persone nelle ultime settimane, nel tentativo di schiacciare il movimento. Ruto e i suoi scagnozzi hanno rapito diversi blogger, attivisti e influencer dei social media, nella speranza di intimidire i manifestanti ma con scarso successo.

Quelle che erano iniziate come piccole proteste a Nairobi martedì scorso, si sono trasformate in un movimento nazionale mercoledì, quando le manifestazioni si sono diffuse nelle principali città e in molti centri minori in seguito alla seconda lettura della legge finanziaria. La giornata si è conclusa tragicamente con l’uccisione da parte della polizia di un altro manifestante di 29 anni, alimentando le richieste di un blocco nazionale mercoledì. I cittadini chiedono ora uno sciopero generale, oltre a manifestazioni programmate e potenziali azioni spontanee.

Inizialmente, il governo ha risposto con la repressione, dispiegando cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e arrestando centinaia di persone. Tuttavia, queste tattiche non sono riuscite a reprimere le masse. Il numero delle proteste è cresciuto nel corso della serata, nonostante la violenza poliziesca. Sono circolati video che mostravano prigionieri che cantavano nelle loro celle. Molti slogan esprimevano l’odio profondo per l’élite al potere. Sui cartelli si leggeva: "Ruto è un ladro!". "Ruto deve andarsene!" "Svegliatevi, ci stanno derubando!". Le masse sono perfettamente consapevoli del fatto che il Kenya è il perno degli interessi strategici dell’imperialismo statunitense in Africa orientale e che i loro leader sono solo burattini dell’imperialismo e agenti del capitale.

La maggior parte dei kenioti è incredibilmente giovane e questa energia giovanile è la forza trainante delle proteste. Anche se questa generazione non ha ricordi diretti dell’austerità imposta dal FMI negli anni ’80 e ’90, c’è la sensazione palpabile per impedire che si ripeta lo stesso copione dell’austerity a spese della classe lavoratrice.

Il FMI è un drago che accumula il suo tesoro di sangue e che chiama i capitali internazionali ad accorrere quando avrà scelto una nuova vittima. Questa procedura è fin troppo rinomata. Si potrebbero ricordare molti Paesi dell’America Latina, dell’Africa del Nord come di quella subsahariana ecc.

Inizialmente, molti parlamentari arroganti hanno respinto le proteste, guadagnandosi il soprannome di "MPigs". Un parlamentare ha persino affermato che le immagini delle manifestazioni che circolavano sui social media erano solo creazioni di Photoshop.

Quando il panico si è diffuso, il governo ha cercato di fare delle concessioni, introducendo una serie di emendamenti. Ha eliminato le tasse sul pane e sull’olio vegetale e ha assicurato al pubblico che le "ecotasse" si sarebbero applicate soltanto ai beni di importazione finite col pretesto che il paese produce in proprio molti di questi prodotti. Ma è stato troppo poco e troppo tardi.

Le masse scese in piazza, dopo avere intuito la portata potenziale della loro forza, sono ora più sicure che mai. Sia la repressione che le concessioni sono servite solo ad alimentare ulteriormente il movimento.

Le tattiche del governo sono state inutili contro i giovani manifestanti che non hanno nulla o poco da perdere. I politici kenioti avevano dato per scontato che i giovani fossero apatici e poco propensi a mobilitarsi e una scadente letteratura li descriveva come individualisti ed egoisti dopo il crollo delle reti solidali retaggio delle relazione del Kenya che non aveva ancora conosciuto il capitalismo. A tenere in piedi questa narrazione di comodo il fatto che le giovani generazioni di proletari si tenessero lontane dagli stanchi riti della democrazia parlamentare. Ad esempio alle elezioni del 2022, quelle che hanno portato Ruto al potere, meno del 40% degli elettori registrati erano giovani, nonostante l’età media in Kenya fosse inferiore ai 20 anni e il 65% della popolazione avesse meno di 35 anni.

Queste vibranti azioni della giovane classe operaia keniota, anche se forse prive dell’educazione rivoluzionaria delle generazioni passate, riecheggiano lo spirito descritto a suo tempo Lenin: «Ma, inutile dirlo, le masse imparano dalla vita e non dai libri, e perciò certi individui o gruppi esagerano costantemente, elevano a teoria unilaterale, a sistema tattico unilaterale, ora una ora un’altra caratteristica dello sviluppo capitalistico, ora una ora un’altra “lezione” di questo sviluppo».

Questa "interazione tra tutte le classi" si manifesta nel momento in cui la classe operaia keniota si rivolta contro un moderno Golia. Tuttavia, i lavoratori consapevoli avranno sempre una collina contro cui combattere. Marx afferma nella “Ideologia tedesca” che: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè, la classe che è la forza materiale dominante della società è allo stesso tempo la sua forza intellettuale dominante. La classe che ha a disposizione i mezzi di produzione materiale, di conseguenza, controlla anche i mezzi di produzione mentale, cosicché le idee di coloro che non hanno i mezzi di produzione mentale sono nel complesso soggette ad essa... per esempio, durante il periodo in cui l’aristocrazia era dominante, erano dominanti i concetti di fedeltà all’onore, eccetera, durante il dominio della borghesia i concetti di libertà, uguaglianza, eccetera».

La classe dirigente ha commesso un errore fatale, confondendo il distacco con l’apatia. Con un tasso di disoccupazione che raggiunge il 35% tra i 18 e i 35 anni, molti giovani kenioti hanno poche speranze per il futuro. Il messaggio dei manifestanti kenioti è chiaro: avendo poco da perdere, si rendono conto di avere tutto un mondo da conquistare.

L’anno scorso, Raila Odinga, un influente oligarca keniota, ha annullato l’opposizione di massa a Ruto sulla legge finanziaria per l’anno precedente, il 2023, quando il movimento ha rischiato di incrociarsi con le richieste di sciopero dei dipendenti pubblici. Odinga appartiene allo 0,1% più ricco della popolazione keniota, che possiede più ricchezza del restante 99,9% (oltre 48 milioni di kenioti). Il governo sostiene che le nuove misure fiscali sono necessarie per finanziare i programmi di sviluppo e ridurre il debito pubblico. Tuttavia, in tutto il Paese, centinaia di migliaia di insegnanti e operatori sanitari, che hanno scioperato ripetutamente negli ultimi cinque anni contro i bassi salari e i contratti di lavoro precari, esprimono il loro netto disaccordo.

Il nostro partito ha già parlato degli scioperi del 2012 dei lavoratori della sanità keniota nel numero 352 di “Il Partito Comunista” «La lotta generale indetta dal sindacato Kenya Health Professionals Society, partita la domenica del 1° marzo, viene già boicottata dall’associazione di categoria il martedì. Dopo aver ricevuto dal tribunale l’ingiunzione alla ripresa del lavoro, una riunione interna della dirigenza sindacale decide di smettere lo sciopero in attesa della convocazione del Governo. Ma i lavoratori del Moi Teaching Hospital scendono immediatamente in lotta, e marciano lungo le vie della città protestando contro le pessime condizioni di lavoro e per l’applicazione dell’accordo. Via via tutti i lavoratori degli altri ospedali cittadini fraternizzano e proseguono la lotta. Lo sciopero si estende alla provincia sulla costa e di nuovo a tutto il paese, fuori dal controllo sindacale. I lavoratori, in maggioranza donne, denunciano il tradimento della direzione sindacale. Queste loro dirette dichiarazioni: “Non siamo stati consultati e nessuna questione è stata messa sul tappeto: hanno saputo fare solo promesse. Non torniamo indietro senza la sicurezza del mangiare in tavola. Nemmeno crediamo che l’accordo in realtà ci sia; le trattative non ci hanno fatto guadagnare nulla e ci sentiamo ingannate. Per questo continueremo con lo sciopero fino a quando tutte le nostre richieste saranno soddisfatte. Non vogliamo più promesse, vogliamo risultati immediati e tangibili”».

In questi giorni, nel porto di Mombasa, seimila lavoratori potrebbero bloccare i piani di privatizzazione di Ruto, portando la regione a una situazione di stallo. Migliaia di lavoratori dell’aviazione, compresi quelli della Kenya Airways, potrebbero bloccare lo spazio aereo del Kenya. Milioni di lavoratori del tè, del caffè e di altri settori agricoli nelle aree rurali potrebbero paralizzare la campagna in un Paese in cui il 60% delle entrate proviene dal settore agricolo.

Nonostante il movimento in corso, i sindacati stanno diventando il principale freno per i lavoratori che si uniscono alle proteste anti-austerity con le loro rivendicazioni. I sindacati si rifiutano di mobilitare le decine di migliaia di lavoratori impiegati nei settori manifatturiero, alimentare, chimico, plastico e metallurgico della zona industriale di Nairobi. L’Organizzazione centrale dei sindacati (COTU), che è composta da 36 sindacati e rappresenta più di 1,5 milioni di lavoratori, ha alle spalle una storia di scioperi, proteste e repressioni, tra cui quella di 4.000 medici all’inizio di quest’anno.

Francis Atwoli, il segretario generale del COTU, ha difeso la legge finanziaria, affermando che "la gente viene tassata ovunque e, in effetti, se paghiamo le tasse e il denaro viene utilizzato in modo corretto, eviteremo il debito.

L’atteggiamento "Lasciamoli mangiare la torta!" dei presunti rappresentanti dei lavoratori verso il governo non potrebbe essere più azzeccato.

Il Presidente Ruto si sta preparando a imporre ulteriori misure di stato di polizia, come l’ Assembly and Demonstration Bill del 2024, che limita i luoghi in cui possono avvenire le proteste e impone multe draconiane per le "violazioni" fino a 770 dollari, equivalenti a mezzo anno di stipendio medio.

Tuttavia, dopo le manifestazioni della scorsa settimana, il governo ha ammorbidito la sua posizione, con Ruto che ha appoggiato le raccomandazioni di eliminare alcune nuove tasse, tra cui quella sul possesso di automobili, sul pane e la tassa ecologica sui beni prodotti localmente. Il Ministero delle Finanze ha dichiarato che tali concessioni avrebbero causato un buco di 200 miliardi di scellini kenioti (1,56 miliardi di dollari) nel bilancio 2024/25 e avrebbero reso necessari tagli alla spesa.

I manifestanti e i partiti di opposizione hanno affermato che le concessioni sono insufficienti e vogliono che il disegno di legge venga abbandonato. E il governo borghese sta iniziando ad ascoltare il recente tumulto nazionale, con la stessa grazia con cui ha ucciso i lavoratori.

«Dopo aver riflettuto sulla conversazione in corso sul contenuto della legge finanziaria 2024 e dopo aver ascoltato con attenzione il popolo keniota, che ha dichiarato a gran voce di non voler avere nulla a che fare con questa legge finanziaria 2024, ammetto che non firmerò la legge finanziaria 2024", ha dichiarato il Presidente Ruto durante un discorso televisivo mercoledì. "Il popolo ha parlato", ha detto Ruto. "In seguito all’approvazione del disegno di legge, il Paese ha sperimentato un’ampia espressione di insoddisfazione nei confronti del disegno di legge così come è stato approvato, sfociata purtroppo nella perdita di vite umane, nella distruzione di proprietà e nella profanazione delle istituzioni costituzionali».

Questo passo indietro arriva dopo che Ruto ha sostenuto la controversa riforma fiscale di fronte all’opposizione dell’opinione pubblica. Tuttavia, Rotu sembra aver dimenticato, o almeno non riconosciuto, che questo avviene dopo che le proteste di massa sono diventate violente il giorno prima, causando 23 morti.

Ora gli occhi del mondo sono puntati sul Kenya, dove la lotta tra la classe operaia e l’élite borghese al potere si svolge in tempo reale. Mentre il fervore rivoluzionario cresce, i lavoratori kenioti, in particolare i giovani, si trovano in un momento critico. Il messaggio dalle strade è chiaro: non avendo più nulla da perdere, sono pronti a lottare per un futuro libero dalle catene dell’austerità e del debito.

La battaglia per il futuro del Kenya è tutt’altro che conclusa e, man mano che la storia si dipana, il coraggio e la determinazione dei suoi lavoratori ispireranno senza dubbio i movimenti proletari di altre parti del mondo. Lo spettro che infesta il Kenya è un chiaro appello alla classe operaia internazionale: i proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene; hanno un mondo da conquistare.


Kenya - Qui e ora

Il Kenya rappresenta oggi uno dei paesi più avanzati nello sviluppo capitalistico dell’Africa. Dopo la crisi finanziaria globale del 2008, che ha visto la crescita del PIL del Kenya scendere all’1,6%, il Paese ha sperimentato una robusta ripresa economica, con una media di crescita annua del PIL del 5,4% dal 2015 al 2023. L’inflazione, salita al 14% nel 2011, si è stabilizzata negli ultimi anni, attestandosi in media intorno al 6% nel 2023. Questa relativa stabilità è dovuta a fattori interni e internazionali.

L’economia di esportazione del Kenya è incentrata sulla produzione agricola. Nel 2023, le principali voci di esportazione comprendono il tè (19%), i prodotti agricoli (18%), i manufatti (16%) e il caffè (5%). Il valore delle esportazioni di tè, un pilastro tradizionale, continua a crescere, anche se a un ritmo più moderato del 12% annuo. Inoltre, l’aumento delle esportazioni di fiori e prodotti freschi ha rafforzato il settore agricolo, contribuendo alla resistenza e allo sviluppo economico del Kenya.

Anche l’attenzione del governo keniota allo sviluppo delle infrastrutture, alla tecnologia e alle energie rinnovabili ha favorito la crescita economica. Gli investimenti nella ferrovia a scartamento normale e nell’espansione del porto di Mombasa hanno migliorato l’efficienza logistica e commerciale. Allo stesso tempo, il fiorente polo tecnologico di Nairobi, soprannominato "Silicon Savannah", ha posizionato il Kenya come leader dell’innovazione digitale in Africa.

Le iniziative di sviluppo cinesi, in particolare nell’ambito della Belt and Road Initiative, hanno avuto un impatto profondo sulle infrastrutture del Kenya. Tra i progetti più significativi c’è la costruzione della ferrovia a scartamento standard, che collega Nairobi alla città portuale di Mombasa, migliorando in modo significativo l’efficienza del commercio. Inoltre, le imprese cinesi stanno sviluppando reti stradali e progetti energetici di importanza cruciale, fornendo capitali e competenze indispensabili per promuovere i progressi infrastrutturali del Kenya.

Anche gli Stati Uniti sono stati un partner fondamentale per lo sviluppo del Kenya. Gli Stati Uniti hanno contribuito a vari settori, tra cui la sanità, l’istruzione e l’energia, attraverso programmi come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e l’iniziativa Power Africa. Gli investimenti americani sono stati fondamentali per promuovere progetti di energia rinnovabile, in particolare geotermica ed eolica, in linea con l’obiettivo del Kenya di raggiungere l’accesso universale all’energia entro il 2030.

A livello nazionale, il Kenya ha visto l’ascesa di una solida classe di capitalisti locali che guidano la crescita economica. Importanti imprenditori e aziende kenioti, in particolare nei settori bancario, delle telecomunicazioni e dell’agricoltura, hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo del Paese. Aziende come Safaricom, Equity Bank e KCB Group sono importanti datori di lavoro e attori fondamentali nel promuovere l’inclusione finanziaria e l’innovazione tecnologica. Questi capitalisti nazionali sono stati determinanti nel plasmare la traiettoria economica del Kenya, promuovendo un settore privato che integra gli investimenti stranieri e guida la crescita economica del 5% annuo.

Tuttavia, il proletariato keniota non partecipa ai dividendi del capitale. Al contrario, deve affrontare una riduzione del potere d’acquisto dei salari a causa dell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Tra il 2020 e il 2022, i salari effettivi hanno subito un calo costante, con una diminuzione media del 2,7%. Questa tendenza è proseguita con l’impennata dei tassi d’inflazione nel 2022, con un’inflazione media dell’8,7% tra giugno 2022 e giugno 2023, con un picco del 9,6% nell’ottobre 2022, il livello più alto dal 2017. Uno sconcertante 77% dei lavoratori guadagna al di sotto del salario minimo, e i lavoratori medi spendono il 60% del loro reddito solo per il cibo.

I lavoratori sono costretti a impegnarsi in una lotta serrata per la sopravvivenza economica, acquisendo una preziosa esperienza nella lotta anticapitalista. Questa lotta, che inizia a livello locale e all’interno di settori specifici, deve evolvere in un fronte unico dal basso della classe operaia.

L’attuale ondata di proteste e scioperi testimonia la crescente disponibilità all’azione dei lavoratori kenioti. Si stanno sollevando contro le politiche oppressive di austerità e sfruttamento imposte dai capitalisti locali e internazionali. Questo movimento non si limita a opporsi a politiche specifiche, ma a questioni di ampio respiro: i movimenti internazionali si stanno avvicinando sempre di più a sfidare le fondamenta di un sistema che privilegia il profitto rispetto ai bisogni umani.


Non fidatevi di loro!

Questo governo capitalista, come tutti i suoi predecessori e tutti i suoi figli, ignora spudoratamente gli interessi della classe operaia, scaricando invece su di essa gli oneri del capitalismo. Ruba il prodotto del loro lavoro e poi li incolpa degli inevitabili fallimenti del sistema. Il peso colossale del capitale nazionale e internazionale grava sulle spalle dei lavoratori e questo non cambierà, indipendentemente da chi sia al potere. I cambiamenti economici a breve termine sono reazioni alla fiducia degli investitori nel modo in cui l’amministrazione serve l’élite capitalista.

L’inarrestabile crisi del capitalismo alimenta continui assalti alla classe operaia, che persisteranno a prescindere dalle vuote promesse del governo o dalle affiliazioni di partito. I membri del Parlamento non sono altro che guardiani degli interessi capitalistici, che si arricchiscono fintanto che non offuscano la facciata del sistema in modo troppo evidente. Nel frattempo, lo sfruttamento della classe operaia, la stragrande maggioranza della società, rimane incontrastato fino a quando il proletariato non entra in lotta.

La classe operaia incomincia a conoscere questa verità attraverso la sua azione di lotta, ma non ha ancora raggiunto un grado di organizzione sufficiente per prendere il potere. I lavoratori costruiscono e ricostruiscono il mondo ogni giorno, esercitando un potere immenso che ha il potenziale di immaginare e creare un mondo libero da sfruttamento, povertà, denaro, categorie mercantili, crisi economiche, Stato e guerre. Tuttavia, per realizzare questa visione è necessario rovesciare il capitalismo, instaurare la dittatura rivoluzionaria del proletariato e spianare la strada a una società comunista, in cui i contributi siano basati sulle capacità di ciascuno e siano soddisfatti i bisogni di tutti. Il comunismo sradicherà la sovrapproduzione dilagante, gli sprechi e la devastazione ecologica causati dal capitalismo, sostituendoli con una produzione razionale che serva veramente l’umanità senza la vuota retorica della sostenibilità "verde".

Il comunismo porrà fine alla povertà, alla divisione in classi della società e alla guerra, ma questo non potrà essere ottenuto votando per qualsiasi partito, specialmente quelli mascherati da comunisti o socialisti. Il cambiamento effettivo avverrà solo quando la classe operaia, guidata dal Partito Comunista Internazionale, prenderà il potere per via rivoluzionaria.






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Felice convergere dell’impegno dei comunisti nella riunione internazionale del partito

28-29 settembre
[RG150]
 

A seguito di accordi e convocazione tempestivi rivolti a tutti i compagni del partito, abbiamo tenuto in tele-conferenza la nostra riunione autunnale nei giorni di sabato 28 e domenica 29 settembre.

Come è uso dei comunisti, tutto il lavoro si è svolto in una fattiva atmosfera di comprensione e aiuto fra compagni, impegnati in un grande compito che sappiamo andare ben oltre le nostre modeste persone. L’unica nostra personale grandezza sta nella coscienza della nostra piccolezza, di fronte alle forze materiali sociali e ai loro codificati opposti programmi storici. La funzione della compagine vivente del Partito è conservare e difendere la fede e la scienza del comunismo e presentarla alla classe, permanentemente in lotta contro il morente mondo nemico.

Nella seduta preparatoria al sabato, dopo l’introduzione del centro, i compagni e le sezioni hanno riferito dell’attività svolta nei mesi precedenti: lo studio e la comprensione collettiva della nostra dottrina e le sue applicazioni; la regolarità e l’ambito delle riunioni, da quelle delle sezioni alle internazionali del Partito; i canali e le modalità degli stretti collegamenti di lavoro fra i compagni, le sezioni e il centro; il difficile intervento nelle lotte operaie; gli strumenti per il proselitismo e i suoi risultati; le traduzioni nelle diverse lingue; la redazione, stampa e distribuzione degli organi periodici; il contributo al sito internet; il sostegno finanziario all’organizzazione...


Dalla relazione della sezione nordamericana

Abbiamo indagato su come il Partito si è comportato in passato e abbiamo presentato alle riunioni di sezione uno schema di lavoro per il futuro. Abbiamo cercato che tutti i compagni abbiano un’idea di base di come svolgiamo le diverse attività, sostenendoci a vicenda nello scambio delle competenze necessarie, facendo sì che più di uno sia disponibile per qualsiasi necessità organizzativa: traduzioni (alle quali tutti sono chiamati), gestione del sito, giornale, diffusione e proselitismo.

Tutti i compagni sono invitati a rafforzarsi come scrittori, propagandisti, agitatori, organizzatori, responsabili, redattori, e nelle competenze tecniche necessarie.

Il lavoro redazionale per produrre il “The Internationale Communist Party” si sta sviluppando. Siamo riusciti a stampare e distribuire il numero 59 (con un mese di ritardo), appropriandoci dell’intero processo dall’inizio alla fine. Con più esperienza potremo darci sistemi e tempi più definiti, resi trasparenti a tutti i compagni. Giovani e attempati lavoreranno assieme alla redazione e all’impaginazione. Del lavoro per il giornale si è discusso nelle riunioni della sezione.

Per la distribuzione, nel Partito, agli abbonati e alle librerie, è mantenuto un apposito indirizzario, il cui aggiornamento è affidato a due compagni.

I compagni tutti si sentono fortemente uniti dalla nostra dottrina, dal nostro programma e dal nostro metodo, impegnati nel lavoro continuo per il Partito, al servizio della grande e definitiva rivoluzione proletaria per il comunismo.


Dal resoconto del tesoriere, della posta e del sito

Abbiamo ascoltato il rendiconto cumulativo di cassa del Partito, riassuntivo delle varie contabilità delle sezioni. Evidenziati anche i più significativi impegni di spesa.

Riferito quindi sulla rispondenza del sito e dei media sociali del Partito alle richieste dei lettori, divisi per paesi di provenienza, e sulle nuove richieste di contatti pervenute all’indirizzo centrale. A ognuno è stata data puntuale risposta.

È continuato l’invio delle newsletters, che annunciano l’uscita degli organi di stampa e le varie prese di posizione del Partito. L’indirizzario è suddiviso per lingua. Dalla scorsa riunione di maggio abbiamo inviato 6 newsletters, arrivando alla numero 229.

* * *

Questi gli esposti che abbiamo ascoltato:

- La guerra globale in Medioriente
- Confronto fra imperi in Ucraina
- Bozza di tesi sulla questione femminile
- Rapporto sulla attività sindacale in Italia
- Lotte operaie in America Latina
- Storia del movimento operaio negli Stati Uniti
- L’indipendenza del Burkina-Faso alla prova
- Storia del partito comunista in Turchia

 

La prima parte del rapporto sulla storia del movimento operaio negli Stati Uniti è già stata pubblicata nelle nostre riviste “Comunismo” e “Communism”. Il resoconto alla riunione del 23 novembre sull’attività sindacale in Italia è pubblicato in altra pagina di questo numero del giornale.


La guerra globale in Medioriente

L’asimmetria nella guerra fra lo Stato di Israele e Hamas a Gaza non definisce però la natura del conflitto. Due fronti di potenze imperialistiche si battono per i loro obiettivi borghesi e usano le popolazioni per tali scopi, speculando sulle loro sofferenze. Le vittime del massacro del 7 ottobre nei kibbutz meridionali per mano dei miliziani di Hamas e Jihad Islamica sono utili al regime borghese di Tel Aviv per irregimentare la classe lavoratrice d’Israele alla politica imperialista sua e delle potenze che lo spalleggiano.

Non diversamente da come sono sfruttate dal regime israeliano le vittime del 7 ottobre, le migliaia di vittime palestinesi delle bombe dell’aviazione israeliana servono ad Hamas per mantenere il controllo sulle masse proletarie e diseredate di Gaza, nonché alle potenze regionali che la spalleggiano – innanzitutto Iran e Turchia – per sviare la rabbia delle rispettive classi operaie contro il nemico esterno – il binomio “USA-Israele” – evitando che si indirizzi contro la propria borghesia nazionale, per deviare la lotta di classe sul terreno reazionario della guerra fra Stati.

Alla politica apertamente borghese che nega la lotta di classe e vuole che in ogni Stato la classe lavoratrice sia solidale con la propria borghesia nazionale, in concorrenza e guerra coi lavoratori degli altri Paesi, fa da puntello e fasullo contraltare la politica opportunista dei falsi partiti operai che trasfigurano la lotta di classe fra proletariato e borghesia in una lotta fra nazioni del Nord e del Sud del mondo. Una mistificazione ideologica anticomunista che fu opera originale del Fascismo, il quale contrappose le nazioni cosiddette proletarie alle demo-plutocrazie, e che è stata ereditata dall’opportunismo nelle sue diverse sfumature, da quelle statolatre a quelle anarcoidi.

L’obiettivo proclamato del governo israeliano con l’invasione di Gaza è la distruzione di Hamas e, più in generale, del “terrorismo”. Tuttavia le valutazioni sul grado effettivo di distruzione di Hamas non sono affatto univoche. Un ex Generale di divisione dell’esercito israeliano ha dichiarato che «tra non molto non saremo più in grado di effettuare quei ripetuti raid, perché ogni giorno che passa le Forze di Difesa Israeliane si indeboliscono e aumenta il numero di morti e feriti in azione tra i nostri soldati». Il 17 settembre ribadiva: «I continui combattimenti hanno perso ogni scopo e la guerra di logoramento sta distruggendo tutto ciò che di buono c’è in Israele: la sua economia, le sue relazioni internazionali, la sua tenuta sociale e la motivazione dei suoi combattenti. Molti riservisti rifiutano di essere richiamati ancora e ancora... Poiché l’alto comando dell’IDF ha ridotto le forze di terra del 66% rispetto a quelle che erano 20 anni fa, non ha abbastanza truppe per rimanere a lungo in qualsiasi territorio conquistato, né ha truppe per dare il cambio a chi sta combattendo. Di conseguenza, l’IDF è costretta a lasciare qualsiasi territorio conquistato, come è successo a Gaza e come succederà in Libano» (Haaretz, 17 settembre).

Sul piano militare vi è una ovvia differenza fra azioni aeree e terrestri, e fra queste se fuori o entro l’ambiente urbano. Ancor differenti difficoltà implica il controllo sociale del territorio che richiede vasti numeri e risorse, logoranti per qualsiasi Stato. Per un piccolo Paese come Israele tali difficoltà sono maggiori, dato che dispone di una popolazione di poco meno di 10 milioni, di cui un quinto, due milioni circa, di arabo-israeliani, i quali non sono chiamati a prestare servizio nell’esercito.

Per questo motivo, a meno di non ricorrere a una politica genocida e di pulizia etnica, per Israele sarà necessario affidare il controllo sociale e politico delle masse a partiti borghesi locali. Questa è la ragione per cui, anche ammesso che consegua l’obiettivo di distruggere completamente Hamas, non potrà impedire la formazione di organizzazioni politiche analoghe.

Hamas è un partito: non si sradica, al più può essere momentaneamente limitato attraverso le operazioni in corso e l’eliminazione dei dirigenti. Ciò non significa che la borghesia mondiale non possa giungere in futuro col genocidio o con la pulizia etnica alla “soluzione” della questione palestinese. Ma questa barbarie, benché presentata come coerente alla specifica ideologia sionista, si inserirà nel corso storico del capitalismo, nel quadro di un conflitto imperialista verso cui marcia il capitalismo mondiale, così come fu con l’olocausto, prodotto del precipitare dell’imperialismo nel secondo conflitto.

Quindi non è affatto scontato che genocidio e pulizia etnica non avvengano domani a parti invertite, col soccombere di nuovo degli ebrei. Se Gaza è un ghetto per due milioni e 100 mila gazawi, lo Stato d’Israele è solo un ghetto più grande.

È il terzo conflitto imperialistico mondiale che matura nel grembo del capitalismo, ogni città sarà un ghetto proletario e il presente di Gaza in macerie è il futuro promesso dalla società del Capitale a gran parte delle metropoli del mondo, come e peggio di quanto accadde nella seconda guerra per l’Europa e il Giappone.

E anche oggi solo la rivoluzione internazionale del proletariato potrà impedire il ripetersi di simili massacri.

Già le difficoltà riscontrate dall’esercito israeliano nelle operazioni di terra a Gaza si riflettono sul controllo interno della popolazione. Queste hanno avuto apice il primo settembre, con centinaia di migliaia di manifestanti per le strade di Tel Aviv e di altre città, una protesta che da mesi invoca il cambio di politica del governo per un accordo con Hamas finalizzato alla liberazione degli ostaggi. Cresce il malessere per il perdurare della guerra, per gli ostaggi, per la morte dei soldati e per le difficoltà economiche, che gravano sulle aziende e ne scaricano gli effetti sui salariati.

Per quanto la società israeliana e la classe lavoratrice siano ancora incatenate alla politica borghese dello Stato, espressa dai successivi governi, queste manifestazioni si pongono contro la guerra a Gaza.

Il giorno delle grandi manifestazioni del primo settembre il sindacato di regime Histadrut, la più grande confederazione sindacale del Paese, ha proclamato uno sciopero generale a sostegno di una soluzione negoziale che riporti gli ostaggi a casa.

L’Histadrut ha una radicatissima tradizione di collaborazionismo di classe. Lo sciopero generale del 3 settembre è stato sostenuto dagli industriali del Paese. Ma per i lavoratori il movente dello sciopero sono state le loro condizioni, schiacciate dalla guerra. Inoltre lo sciopero ha avvicinato i lavoratori arabo-israeliani a quelli ebrei, incrinando il muro eretto dalle borghesie israeliana e arabe per dividerli. Alcuni deputati hanno presentato due progetti di legge, per proibire gli scioperi nei servizi essenziali e per ostacolare la sindacalizzazione dei posti di lavoro.

Con lo spostamento del baricentro delle operazioni militari da Gaza al Nord contro Hezbollah sono riaffiorati i timori per una estensione del conflitto a scala regionale.

Solo il ritorno della lotta di classe del proletariato internazionale potrà impedire la guerra, unendo i lavoratori al di sopra delle gabbie etniche, religiose, nazionali. In Libano – ma anche in Iraq – vi sono stati negli anni passati dei segnali con proteste trasversali alle divisioni etnico-religiose. Scioperi sono in corso anche in queste settimane in Iran.

Le borghesie nazionali nell’area Mediorientale mantengono disciplinata la classe operaia solo con una costante condizione di guerra e con periodici massacri.


Il confronto fra imperi in Ucraina

Sono ormai più di due anni e mezzo che la NATO e la Russia hanno invaso l’Ucraina, riportando la guerra in Europa.

Le conseguenze sono state devastanti per il proletariato ucraino, ma anche per quello russo. Gli effetti economici si stanno allargando all’Europa, soprattutto ai Paesi più legati economicamente alla Russia.

Da parte ucraina si attribuisce alla politica espansionista russa l’innesco e lo sviluppo della guerra. Ma la borghesia ucraina non si batte per la libertà e l’indipendenza nazionale, come recita la sua propaganda. Il proletariato ucraino è spedito al fronte per difendere gli interessi economici e politici del capitale occidentale, mentre la borghesia ucraina si è venduta ai capitalisti d’America e d’Europa. E il proletariato ucraino, dopo aver versato il suo sangue nella guerra, dovrà ripagare i debiti accumulati dalla propria borghesia, oggi per comprare le armi, nei futuri decenni per la “ricostruzione”.

La guerra maturava da tempo, necessaria per dar sfogo alle tensioni imperialistiche, che montano di pari passo con le ricorrenti crisi economiche. Lo scontro tra NATO e Russia fu preparato dalla Nato fin dal 2014. Una guerra “per interposta persona”, combattuta mandando al massacro i proletari ucraini.

Nelle intenzioni degli Stati Uniti lo scopo non era solo indebolire la Russia, ma anche la Germania, alleata ma temibile concorrente sui mercati internazionali. Il patrimonio russo di materie prime ha permesso a Berlino negli ultimi decenni di sviluppare il suo potenziale industriale, facendo della Germania uno dei massimi Paesi esportatori al mondo. La Germania, capofila dell’Europa unita, è un competitore imperialista per gli Usa, insieme alla Cina. Significativo della volontà degli Stati uniti di rompere il legame tra Germania e Russia è stato il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream.

Diverso è l’impatto che la guerra sta avendo sulla Russia. Le industrie di armamenti lavorano a pieno; la manifattura, l’alimentare, il settore agricolo sono stati protetti, paradossalmente, dalle sanzioni occidentali. L’esportazione di combustibili fossili si è spostata verso i mercati asiatici e la Turchia ma continua quella del gas naturale verso l’Europa.

Questa guerra non ha alcun carattere progressivo né realmente difensivo. È una guerra imperialista sui due fronti, quello russo e dei suoi alleati, quello ucraino e dei suoi alleati. È una guerra contro il proletariato internazionale, una guerra che prepara lo scontro più generale tra i massimi imperialismi.

Il governo tedesco, che appare soggiogato alle imposizioni d’oltre Oceano, sta però espandendo la sua già importante industria militare, un settore che non teme crisi di sovrapproduzione e che è destinato a crescere enormemente nei prossimi anni, anche se attualmente non è sufficiente a portare il Paese fuori dalla crisi economica.

Per contro la pretesa di escludere l’Europa dal gas russo non è del tutto riuscita visto che pesa ancora per circa il 15% nel Vecchio Continente e, fuori, la Turchia si posiziona come hub per il GNL di Mosca.

Gli Stati Uniti, che mantengono ancora 36.000 armatissimi soldati in Germania, sono ancora i padroni del mondo. Ma la loro egemonia si sta progressivamente indebolendo. Il nemico principale è la Cina, che non può non allargare la propria sfera di influenza. Ma gli Usa intanto bacchettano gli alleati in Europa e la Russia, che rappresenta un imperialismo minore, soprattutto economico, rischiando però di spingerla nelle braccia della Cina.

Pechino è ormai la maggiore potenza commerciale al mondo e ha un apparato produttivo secondo solo a quello degli Stati Uniti. È arrivata però a presentarsi come potenza globale quando il mondo era ormai occupato pesantemente da altri Stati imperialisti, in primis gli Stati Uniti. La Cina dunque in questo frangente storico è in posizione di debolezza dal punto di vista strategico militare. La sua azione diplomatica quindi non si mostra aggressiva, rivendicando l’apertura del mercato mondiale, il dialogo e la collaborazione tra gli Stati – il “multilateralismo” – e ad evitare i conflitti.

È la stessa politica seguita da Washington negli anni Venti del secolo scorso, quando ancora la Gran Bretagna era padrona dei mari con le sue flotte di cannoniere. Gli Stati Uniti, con la forza del loro giovane apparato industriale, attendevano di divenire preponderanti sul mercato mondiale.

È la stessa logica del profitto capitalistico che, invece di rafforzarla, ha messo in crisi l’industria bellica degli Stati Uniti. Domani accadrà anche con la Cina.


Sul fronte ucraino

L’offensiva russa nel Donbass prosegue. Mobilitate nuove truppe negli ultimi mesi, adesso dispone di un esercito più numeroso e meglio armato di quello ucraino: gli Ucraini schierano a malapena 250.000 soldati, i russi più del doppio.

I soldati ucraini dipingono un quadro desolante della situazione. Appaiono sempre più evidenti le difficoltà nel rimpiazzare le perdite al fronte. L’industria è in ginocchio, perduto il 90% della capacità produttiva a causa dei bombardamenti russi, soprattutto sulle centrali elettriche.

Anche il richiamo al fronte di militari dalle retrovie, e la caccia ai fuggiti all’estero e ai renitenti all’interno non ha dato risultati.

Inoltre «Il calo costante della qualità dei militari ucraini, dovuto anche ai ridotti tempi di addestramento, determina perdite sempre più elevate favorite anche dal fatto che i russi riescono ad esprimere un volume di fuoco sei o sette volte superiore» (Analisi Difesa, 8 giugno).

Notizie recenti della statunitense CNN parlano di forte demoralizzazione nelle forze armate ucraine e segnalano che le diserzioni crescono a ritmi vertiginosi. «Nei primi quattro mesi del 2024 i procuratori militari hanno aperto procedimenti contro quasi 19.000 soldati che hanno abbandonato le loro posizioni o disertato.

Probabilmente sono dati incompleti perché molti ufficiali non segnalano le diserzioni e le assenze sperando che i soldati rientrino volontariamente, senza incorrere in punizioni. Questo è così comune che l’Ucraina ha depenalizzato la diserzione e le assenze se commesse per la prima volta.

«I nuovi soldati, visto quanto sia difficile la situazione, alle prese con i numerosi droni, pezzi d’artiglieria e mortai nemici, assegnati a una posizione, se sopravvivono non ci tornano più. Rifiutano di andare a combattere, o trovano il modo di lasciare l’Esercito».

La mancanza del Partito di classe, l’assenza di un movimento operaio organizzato, la controrivoluzione imperante, il dilagante individualismo impediscono che oggi questo rifiuto a combattere assuma un aspetto collettivo, si trasformi in un moto contro la guerra imperialista che partendo dalle trincee coinvolga i proletari delle città ucraine assumendo connotazioni classiste e anticapitaliste. Ma certo rappresenta un primo passo in questa direzione.

Anche da parte russa ci sono difficoltà a questo riguardo, pur se in misura minore visto che la Russia ha più del doppio della popolazione ucraina. «Il New York Times ha riferito che in maggio le forze di Mosca avrebbero perso in media ogni giorno più di mille militari tra morti e feriti» (Analisi Difesa, 2 luglio).

Il 16 settembre un decreto ha portato gli effettivi nelle Forze armate a 1,5 milioni di uomini rispetto ai precedenti 1,32 milioni. Dall’inizio del conflitto in Ucraina la Russia ha arruolato oltre 600 mila militari a contratto e, secondo fonti ucraine e occidentali, continua a reclutarne 30 mila al mese nonostante il mercato del lavoro in Russia registri la piena occupazione e offra stipendi crescenti.


L’industria militare occidentale

La guerra in Ucraina sta mettendo in evidenza il carattere sempre più distruttivo della guerra moderna. Distruggere quanto più possibile è il mantra che si impone ai generali, con bombe, missili, droni, dal potere distruttivo sempre maggiore. Pare che le Forze armate ucraine necessitino di più di 200.000 proiettili al mese, che costano in media $ 4.000 al pezzo. Certamente i russi ne useranno ancora di più, ma a loro sembra costino $ 1.000 al pezzo! Un vero affare per il capitale atlantico!

Ma l’industria militare occidentale attualmente non riesce a far fronte ai quantitativi richiesti. «L’Unione Europea ha dovuto posticipare a fine 2024 la consegna di un milione di proiettili d’artiglieria promessi a Kiev nel marzo 2023 con forniture entro un anno. Limiti produttivi legati peraltro anche alla carenza di materie prime con carenza di acido nitrico e nitrocellulosa. Ai proclami bellicosi dei vertici politici europei non sembrano corrispondere capacità concrete di sostenerli».

I Paesi occidentali sono impegnati nell’incremento delle loro capacità produttive di armi, e anche a rivedere le scelte di politica industriale in questo campo che dovrà puntare di più sulla quantità che sulla qualità. Ma l’industria militare per fare investimenti vuole garanzie che la guerra continui per non rischiare che, una indesiderata pace, porti a riempire i magazzini.

Il proletariato, quello ucraino e quello di Russia, in questi anni massacrati per la politica guerrafondaia dei loro governi, trarranno le giuste lezioni e si rivolteranno contro il criminale mandante, il regime borghese e il suo Stato.

Questa è l’unica vera speranza di pace duratura, la trasformazione della guerra tra gli Stati in guerra tra le classi per l’abbattimento del regime del lavoro salariato e l’instaurazione della dittatura del proletariato, che apre la strada al comunismo.


La questione femminile

Le compagne che studiano l’argomento hanno proposto questa bozza di una prima parte di tesi, presentate alla riunione, relative alla storia che precede il capitalismo.

1. Chiamiamo famiglia l’insieme delle relazioni riproduttive e di parentela. Come le prime comunità si sono disposte per il lavoro produttivo, sulla base di una tecnologia rudimentale, così lo sono state in vista dell’accoppiamento e della procreazione nonché dell’educazione e della protezione dei figli. La famiglia è quindi, nelle sue varie forme, un rapporto di produzione, adatto ai diversi ambienti e alle forze produttive disponibili. L’economia comprende tutto il vasto complesso delle attività umane, con influenza sull’ambiente naturale. Il determinismo economico riguarda l’intera storia della specie e spiega tanto la cosiddetta sfera pubblica quanto quella domestica. Così come la proprietà privata e lo Stato non sono eterni, anche l’attuale modalità di relazioni sessuali e di parentela, la famiglia patriarcale, etero-normativa e monogama, non è eterna. Questo preteso valore sociale fondamentale, che caratterizza le società basate sulla proprietà privata, è solo un’istituzione transitoria. Non avendo alcuna base al di fuori della determinazione materiale, sarà distrutta dalla vittoria del comunismo: la teoria materialista ha analizzato la totalità del suo sviluppo e l’ha già condannata.

2. La prima forma di società preistorica, chiamata selvaggia dalla letteratura scientifica del passato e attualmente di cacciatori-raccoglitori, è stata definita comunismo primitivo dal marxismo. In questo vasto periodo, la specie umana non conosceva né la proprietà privata e lo sfruttamento, né lo Stato. Era il periodo in cui predominava l’appropriazione da parte dell’umanità dei prodotti allo stato naturale; i prodotti dell’arte umana erano principalmente strumenti che assistevano questa appropriazione. Le principali attività di quest’epoca erano la caccia e la raccolta. La maggior parte dei cacciatori era di sesso maschile, la maggior parte dei raccoglitori di sesso femminile, ma alcuni erano cacciatori e raccoglitori e l’essere cacciatore o raccoglitore non era determinato dal sesso. L’opposizione dei ruoli di uomo e donna, e le relative limitazioni, non erano ancora apparsi.

Le relazioni sessuali e amorose poligame tendevano a essere tra i cacciatori e i raccoglitori invece che tra i sessi maschile e femminile, ma non erano escluse nemmeno tra cacciatori e tra raccoglitori. La scelta dei partner si basava essenzialmente sulla condivisione delle abilità necessarie alla sopravvivenza materiale. Di conseguenza, l’etero-normatività non era ancora comparsa.

La cosiddetta barbarie aveva tre stadi: inferiore, che descrive i primi esseri umani anatomicamente moderni; intermedio, che inizia con l’uso del fuoco; e superiore, che segna l’ascesa dell’homo sapiens con l’invenzione dell’arco e della freccia. Le relazioni familiari dei primi due stadi sono state chiamate famiglia consanguinea, in cui i gruppi matrimoniali sono separati in base alle generazioni e solo gli antenati e la progenie, e i genitori e i figli, sono esclusi dalle relazioni amorose e sessuali.

Durante lo stadio superiore è emersa e si è gradualmente diffusa nella specie quella che è stata chiamata famiglia punaluan (da pun aluan, che significa caro compagno), in cui i fratelli e le sorelle da parte di madre sono esclusi dalla riproduzione. Qui comparve una relazione di parentela chiamata gens, che consisteva nelle sorelle e nei loro figli, insieme ai fratelli da parte materna, e in cui alle donne erano attribuite le funzioni di responsabilità e delle decisioni, tanto nella casa quanto negli affari della tribù. Le forme di famiglia che esistevano durante l’epoca della barbarie erano matrilineari, e infine matriarcali con lo sviluppo della gens.

3. Alla barbarie seguì il barbarismo, il periodo in cui l’umanità imparò ad allevare animali domestici e a praticare l’agricoltura, acquisendo metodi per aumentare l’offerta di prodotti naturali attraverso l’attività umana organizzata. Anche la barbarie ebbe tre fasi: quella inferiore, che risale all’introduzione della ceramica, basata sull’uso del calore per trasformare le materie prime; quella intermedia, che inizia nell’emisfero orientale con l’addomesticamento degli animali e in quello occidentale con la coltivazione delle piante per l’alimentazione, mediante l’irrigazione; e quella superiore, che inizia con la fusione del minerale di ferro e passa alla civiltà con l’invenzione della scrittura. Gli stadi inferiori e medi del barbarismo, come la barbarie, erano società comuniste primitive. Con l’avvento della prima fase del barbarismo è comparsa una nuova forma di famiglia, chiamata famiglia di coppia.

Rapporti sessuali per un periodo più o meno lungo fra gli stessi individui si verificavano già nelle forme familiari precedenti; divennero più stabili man mano che la gens si sviluppava e il numero di “fratelli” e “sorelle”, tra cui il matrimonio era escluso, diventavano più grande, il che portò al divieto di matrimonio tra tutti i parenti. In questa fase la coppia viveva insieme, ma il vincolo matrimoniale poteva essere facilmente sciolto da uno dei due partner e, dopo la separazione, i figli appartenevano ancora, come prima, alla madre. Il rapporto di coppia non era ancora esclusivamente riproduttivo etero-sessuale, ma del tipo ereditato dalla barbarie, anche se l’opposizione fra i ruoli sociali di uomini e donne cominciavano gradualmente a svilupparsi. La famiglia di coppia, di per sé troppo debole e instabile per rendere necessaria o addirittura imposta una abitazione separata, non sostituì la casa comune ereditata dai tempi precedenti. L’economia domestica comunista si basava sulla supremazia delle donne nella casa e la continuazione del matriarcato.

Nel periodo di transizione tra lo stadio medio e quello superiore della barbarie, tuttavia, la famiglia monogama si sviluppò a partire dalla famiglia di coppia. Si distingueva dal matrimonio di coppia per il fatto di essere definita su concetti di genere socialmente definiti di uomo e di donna e per la forza molto maggiore del vincolo matrimoniale, che non poteva più essere sciolto per volontà di uno dei due partner ma solo dall’uomo.

Il matrimonio monogamico trasse le donne alla violenta sottomissione al volere degli uomini. Nasceva così il patriarcato, e con esso la prima forma di schiavitù. Sulla base della famiglia monogamica, durante la barbarie superiore, apparvero i modi di produzione chiamati dispotico, asiatico o schiavista. Insieme alla proprietà privata si rese necessaria l’istituzione chiamata Stato. “La prima opposizione di classe che appare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile (...) È la forma cellulare della società civile, nella quale si può già studiare la natura delle opposizioni e delle contraddizioni pienamente attive in quella società» (Engels).

4. Alla barbarie seguì la civiltà, ovvero la successione delle società di classe. L’aumento della produzione in tutti i settori aveva dato alla forza-lavoro umana la capacità di produrre quantità maggiori di quanto necessario al suo mantenimento. Allo stesso tempo aumentava la quantità di lavoro richiesto. La guerra le fornì queste nuove forze lavoro: i prigionieri di guerra furono trasformati in schiavi. Nacque così la divisione della società in due classi: padroni e schiavi, sfruttatori e sfruttati. La distinzione tra ricchi e poveri apparve presto accanto a quella tra liberi e schiavi. Infine le disuguaglianze di proprietà tra i singoli capifamiglia vennero a spezzare le vecchie comunità domestiche, laddove erano ancora riuscite a sopravvivere, e con esse la loro coltivazione comune della terra.

Accanto alla ricchezza in merci e schiavi, accanto alla ricchezza in denaro, apparve ora anche la ricchezza in terra. Così il modo di produzione chiamato schiavitù, la forma peculiare del mondo antico, si evolse dal modo di produzione dispotico e divenne dominante. L’esistenza della schiavitù, accanto alla famiglia monogama, segnò il patriarcato fin dall’inizio. La monogamia, sempre per la donna, spesso non era imposta all’uomo. L’amore e la sessualità, dapprima libera attività di vita della specie, furono sottoposti alle rigide norme morali dell’ordine classista, portando a una diffusa repressione abitudinaria e legale.

Gli istinti sessuali alienati divennero uno strumento nelle mani della classe dominante. Agli uomini in guerra furono promessi donne e bambini da stuprare o schiavizzare. Nasce la prostituzione di donne, di condizione e posizione sociale miserevoli, sebbene vi siano eccezioni. L’opposizione rigida ed esclusiva di uomo e donna ebbe la conseguenza tardiva dell’emergere dell’omofobia e della transfobia, fino ad allora sconosciute nelle comunità umane.

Le mogli legali erano confinate in casa, escluse dalla vita pubblica. Anche il piccolo numero di regine regnanti che emersero in quest’epoca governarono in nome e in difesa del patriarcato.

La forma di famiglia che corrispondeva alla civiltà, e che con essa si affermò definitivamente, era la famiglia patriarcale, etero-normativa e monogama, con il dominio dell’uomo sulla donna e del padre sui figli e sulla casa, nonché la definizione di ruoli di genere predefiniti e la trasformazione degli esseri umani in proprietà privata.

5. Il feudalesimo è un modo di produzione basato su servi della gleba legati alla terra, invece che su schiavi, che appartengono a un padrone. Sorse come conseguenza dello scontro tra civiltà schiavistiche e barbare. Era già apparso nell’antichità, ma divenne dominante solo con il disfacimento delle vecchie società schiavistiche.

Il patriarcato si intensificò durante il feudalesimo. Era nell’interesse del signore che i suoi servi si riproducessero, perché i loro figli avrebbero accresciuto il numero dei suoi lavoratori e incrementando il suo reddito. Il feudatario aveva un potere quasi illimitato sui suoi servi. In molte società feudali poteva obbligare qualsiasi uomo e donna maggiorenne a sposarsi, e imporre chi dovevano sposare, anche nel caso di vedove e vedovi. In quanto signore dei suoi sudditi, si riteneva autorizzato a intrattenere rapporti sessuali con le sue serve.

Intanto cresceva la prostituzione, nelle città erano gestiti bordelli, di proprietà comunale, statale o ecclesiastica, i cui profitti andavano a rimpinguare le rispettive casse. Tuttavia le persecuzioni contro le prostitute, talvolta feroci, provenivano dagli stessi uomini che richiedevano e mantenevano la prostituzione.

L’ideologia religiosa predicava la morale corrente e diffondeva la paura e i sensi di colpa fra le donne, insieme all’omofobia e alla transfobia, mantenendo e rafforzando così l’istituzione della famiglia patriarcale.

6. Il patriarcato e la civiltà si imposero in un mondo che per centinaia di migliaia di anni era vissuto nel comunismo primitivo. L’emergere dello sfruttamento e dell’oppressione portò alla rivolta degli sfruttati e degli oppressi. Le civiltà antiche furono scosse da grandi ribellioni di schiavi e quelle medievali di contadini, in entrambe le quali le donne parteciparono attivamente.

Si sono avute correnti filosofiche, sia antiche sia medievali, che espressero sgomento e disgusto per la condizione delle donne, lamentando l’immenso spreco di potenziale umano causato dalla loro prigionia domestica. Non a caso gli stessi filosofi che rifiutavano la famiglia monogamica auspicavano anche l’abolizione della proprietà privata e sognavano un futuro comunistico per l’umanità. Furono i precursori dei moderni socialisti utopici, quindi anche del marxismo, un anello della traiettoria millenaria che collega l’umano tribale ancestrale al membro della futura comunità armoniosa.

Sebbene le grandi ribellioni di schiavi e contadini abbiano dato dei rudi e temibili assalti alla conservazione sociale, nelle società antiche e medievali le condizioni non erano mature per la vittoria e l’emancipazione degli sfruttati e degli oppressi; di conseguenza questi movimenti furono sconfitti senza eccezioni. Poiché si trattava ancora di economie di scarsità, non era possibile né un ritorno al comunismo primitivo né un’avanzata verso il comunismo moderno. L’emergere di un movimento potenzialmente in grado di prendere il potere e di far progredire la società umana verso il comunismo è stato possibile solo con l’emergere del proletariato moderno, la classe sfruttata di un mondo che finalmente produceva in abbondanza, pur continuando a non soddisfare i bisogni dei molti.


Repressione tradimento e riformismo in America Latina

Mentre i borghesi parlano di crescita economica nei Paesi della regione, continuano a diminuire i salari e a crescere l’instabilità del lavoro, la disoccupazione, l’insicurezza alimentare e lo scarso accesso all’acqua potabile, all’elettricità, ai servizi sanitari e al cosiddetto “welfare sociale”. I governi si concentrano su misure fiscali, controllo dell’inflazione e la riduzione della spesa dei sussidi.

I governi che si definiscono “di sinistra” o “progressisti” sono i più aggressivi e non esitano a ricorrere alla repressione contro i loro oppositori. In questo spiccano: Venezuela, Brasile e Colombia, dove gli “anti-neoliberali” impongono l’aumento dello sfruttamento e la riduzione del deficit fiscale.

Il movimento sindacale in America Latina mostra tutte le ben note posizioni erronee e opportuniste che storicamente hanno spinto i lavoratori alla conciliazione di classe, alla paralisi, alla divisione e alla disorganizzazione, lasciandoli disarmati e indifesi nella lotta per le loro rivendicazioni. Le centrali sindacali traditrici dominano la scena, integrate nello Stato borghese, sottomesse ai governi e alle leggi.

Solo sporadicamente vediamo lavoratori scontenti intraprendere lotte, uniti alla base, sfuggendo al controllo delle direzioni sindacali. Ma anche in questi casi i sindacati traditori colgono la prima occasione per boicottare le lotte e raggiungere accordi al ribasso con i padroni.

È rilevante che queste lotte spontanee si siano concentrate sulla richiesta di aumenti salariali o di miglioramenti delle condizioni e dell’ambiente di lavoro. In queste lotte spontanee, in cui i lavoratori sono andati oltre le infide dirigenze, il movimento sindacale ha adottato lo sciopero come forma di lotta, si è concentrato sulle rivendicazioni economiche di classe e si è unito al di là delle divisioni artificiali, come l’affiliazione sindacale, la nazionalità e i mestieri.

E quando i lavoratori si sono mobilitati spontaneamente, nonostante la conciliazione delle direzioni sindacali con i padroni, abbiamo visto come i governi hanno rafforzato la criminalizzazione delle proteste, accusando le lotte di essere parte di “piani terroristici”, “golpisti”, “destabilizzanti”, di “tradimento” e di natura “criminale”.

In Venezuela si è tenuto un “Congresso antifascista” e il governo sta facendo approvare una legge “contro il fascismo”, che ha già come precedente la legislazione “contro il terrorismo” e “contro l’odio”.

In generale, si vuole promuovere in tutta l’America Latina la falsa opposizione tra democrazia e fascismo, nonostante si tratti di due facce del regime di dominazione borghese. In questa trappola si vuol far cadere la cosiddetta “opinione pubblica”, imponendo una nuova versione della polarizzazione politica tra le fazioni borghesi che lottano per il controllo dei governi, è in realtà diretta contro i salariati e le loro organizzazioni di lotta economica.

I lavoratori sono sottoposti a una guerra psicologica e ideologica che, tramite i media e le reti sociali, i governi e i diversi partiti parlamentari ed elettorali li distraggono, confondono e disorientano, invitandoli a far proprie le istanze democratico-borghesi: difesa del voto, della Costituzione, della patria, dell’economia nazionale, in una conciliazione di classe con la borghesia. Seppure in questo contesto, i lavoratori riescono a sottrarsi a questa grande coercizione ideologica per intraprendere le loro lotte economiche.

Le reali rivendicazioni della classe operaia rimangono così sepolte sotto le rivendicazioni democratico-borghesi e diluite in movimenti di orientamento poli-classista o piccolo-borghese e generalmente subordinate agli interessi dei gruppi politici in lizza per il controllo del governo.

Il nostro Partito insiste nell’appello a formare in tutti i Paesi un Fronte Sindacale di Classe, che esprima l’unità d’azione nella lotta economica e superi le divisioni artificiali associate alla nazionalità e ai mestieri. Abbiamo anche insistito sul fatto che nelle lotte i lavoratori devono unirsi anche se sono affiliati a sindacati diversi. Questo fronte dovrebbe emergere in un clima di moltiplicazione delle lotte dei lavoratori salariati, come modo per liberarsi dalle catene del tradimento delle centrali sindacali del regime. C’è la necessità che il movimento sindacale di classe riprenda l’agitazione per lo sciopero generale come unico modo per imporre le rivendicazioni operaie ai padroni e ai loro governi.

In Brasile, spicca lo sciopero dei lavoratori dell’Istituto Nazionale di Sicurezza Sociale (INSS), che dal 10 luglio hanno iniziato una lotta per chiedere migliori salari e condizioni di lavoro. Alla fine di settembre questo sciopero sarà in corso da circa 11 settimane (il 23 settembre era arrivato ai 70 giorni). I lavoratori si sono organizzati a livello locale e hanno rifiutato le varie offerte del governo. Hanno rifiutato un accordo firmato dai sindacati e sono rimasti in sciopero. Ma il governo è rimasto inflessibile e ha dichiarato che i lavoratori sono infiltrati del “bolsonarismo”, complici e seguaci del “golpismo” dell’ex presidente Bolsonaro.

A prescindere dai risultati di questo sciopero e dalla debolezza di alcune delle sue rivendicazioni, abbiamo visto ancora una volta come quando i lavoratori si uniscono alla base e si gettano nella lotta, nonostante l’atteggiamento passivo e conciliante dei vertici sindacali, il movimento tende ad avvicinarsi ai metodi della lotta e dell’organizzazione di classe: dibattiti e decisioni nelle assemblee, sciopero a tempo indeterminato senza servizi minimi, concentrazione sulle rivendicazioni economiche proletarie e rottura di qualsiasi tipo di divisione artificiale nel movimento.

Finché il governo padronale rimarrà intransigente, è prevedibile che il movimento di lotta tenderà a logorarsi e, per andare avanti, dovrà cercare contatti con altri settori dei lavoratori per estendere lo sciopero. La borghese Corte Giudiziaria Superiore ha cercato di utilizzare misure legali per intimidire i lavoratori, l’imposizione di una multa giornaliera ai sindacati e il limite di adesione agli scioperi solo al 15% dei lavoratori della categoria, garantendo un “servizio minimo” dell’85%. La stampa borghese sta cercando di mettere gli utenti del servizio contro i lavoratori. In alcuni comuni sono stati utilizzati i crumiri

In Colombia finora il governo è riuscito, con l’appoggio dei sindacati traditori, dei partiti opportunisti e dei cosiddetti movimenti sociali, a mantenere i lavoratori passivi, in attesa di un’offerta di riforme presentate al parlamento, che però lasciano da parte le richieste economiche fondamentali dei lavoratori.

Il governo colombiano sta cercando di eliminare sussidi di vario tipo e di attuare politiche neoliberali che hanno un impatto sociale. Tra il 31 agosto e il 6 settembre si è svolto uno “sciopero” dei camionisti. Non si è trattato di un’azione dei lavoratori, ma di piccoli, medi e grandi imprenditori del settore dei trasporti. Protestavano contro un adeguamento del prezzo del gasolio. Il governo è riuscito infine ad imporre la liberalizzazione dei prezzi del carburante, nonostante l’impatto che avrà sui trasporti pubblici per i lavoratori, sui prezzi di alimenti e servizi, senza che nessuno abbia sollevato la questione dell’aumento dei salari.

In Venezuela continua l’effetto della campagna elettorale sulle lotte dei lavoratori, che tendono a smobilitarsi. Questo effetto si è prolungato a causa della lotta delle fazioni borghesi e dei loro partiti sul riconoscimento o meno dei risultati delle elezioni presidenziali del 28 luglio.

I lavoratori, oltre che distratti dall’offensiva mediatica, sono spaventati dalla repressione nel momento di avanzare le loro richieste e iniziare la loro lotta. Non ci sono sindacati di classe a difendere i lavoratori. Gli ispettorati del lavoro sono a favore dei padroni e applicano ritardi procedurali e silenzio amministrativo, allungando i tempi finché il lavoratore si stanca o è costretto a cercare un altro precario lavoro per sopravvivere lui e la sua famiglia.

Il governo mantiene congelati il salario minimo e i bonus nel settore pubblico; nel privato paga solo bonus più alti. Ma in generale i lavoratori si trovano salari che non coprono il costo della vita.

I lavoratori della scuola, che nel 2023 hanno inscenato massicce mobilitazioni per aumenti salariali, abbandonati dalle federazioni sindacali, non hanno ottenuto nulla. Tuttavia hanno imposto lo stesso orario attuato durante il Covid 19: non ricevendo un aumento di stipendio, hanno concentrato le 36 ore settimanali del contratto in 2 o 3 giorni la settimana e per poter fare un secondo lavoro che integri il loro insignificante stipendio. Ma con l’inizio delle lezioni questo ottobre il governo ha minacciato di licenziare coloro che non rispetteranno il calendario. I lavoratori, senza l’appoggio delle federazioni sindacali, sono disorganizzati e non sappiamo se saranno in grado di opporsi collettivamente e di riprendere la lotta.

In Argentina, il 2 settembre, il presidente Javier Milei ha posto il veto alla legge sull’adeguamento delle pensioni all’inflazione. Da allora, i lavoratori anziani hanno manifestato nelle strade fino a subire una dura repressione poliziesca. Il governo pagherà solo un bonus di 70.000 pesos. Le pensioni erano già state svalutate di oltre il 60% durante i governi Macri e Fernández. Ancora una volta il governo e il parlamento uniscono le forze per legiferare contro i lavoratori e le confederazioni sindacali continuano a non agire né ad indire uno sciopero generale.

Nel frattempo continua l’ondata di licenziamenti nel settore pubblico: entro la fine di settembre ne sono annunciati altri 65.000.


L’indipendenza del Burkina‑Faso alla prova

Il Burkina Faso è un Paese senza sbocco sul mare nell’Africa occidentale, confinante con il Mali a nord e il Ghana a sud. Dal punto di vista economico è un Paese arretrato, con gran parte dell’attività incentrata sull’agricoltura, che impiega circa l’80% della forza lavoro, con una parte consistente dedicata all’agricoltura di sussistenza. La popolazione contadina è molto numerosa nel Nord, mentre l’industria capitalista è concentrata nel Sud, vicino a Ouagadougou, nuova sede del governo. Nel Sud hanno sede i servizi, che nel 2023 rappresentavano il 48% del PIL, mentre il manifatturiero è inferiore al 10%, secondo la Banca Mondiale. Il PIL pro capite del Paese era di soli 774,84 dollari nel 2019; la popolazione, stimata in 21 milioni al 2020, cresce al rapido tasso del 2,86% annuo.

L’economia mercantile è storicamente basata sulla coltivazione del cotone. Negli ultimi anni le esportazioni di oro hanno guadagnato grande importanza. Nel 2018 l’oro e il cotone hanno rappresentato l’85% delle esportazioni.

Nonostante ciò, la maggior parte della popolazione rurale rimane impoverita, in particolare le donne, che hanno un accesso limitato alla terra e al potere decisionale. La povertà, pur essendo diminuita dal 47% nel 2009 a circa il 40% nel 2014, rimane molto estesa, soprattutto nelle aree rurali. Le cause principali della povertà dei contadini sono: la carenza di terreni coltivabili, l’inadeguatezza delle reti di trasporto e comunicazione, il clima e la bassa produttività agricola.

A causa dei bassi livelli di meccanizzazione e della limitata diversificazione delle colture, l’agricoltura del Burkina rimane vulnerabile ai cambiamenti climatici, in particolare alla siccità, rendendo la produttività agricola volatile e dipendente dai prezzi del mercato internazionale.

Tra il 2010 e il 2016 quella del Burkina è stata una delle economie africane a più rapida crescita, con tassi medi del 6,82%. Tuttavia nel 2019 la crescita è scesa al 5,68% a causa di una combinazione di crescenti minacce alla sicurezza da parte dei gruppi islamisti e della pandemia Covid-19.


Nel 2024

Il tracrollo dell’imperialismo francese nella Regione si è manifestato per la prima volta in Mali, dove due colpi di Stato in meno di un anno hanno dimostrato il declino dell’influenza francese. Come abbiamo scritto sulla nostra stampa: «in Burkina Faso una successione altrettanto rapida di due colpi di Stato ha portato all’ascesa al potere nel settembre 2022 del capitano dell’esercito Ibrahim Traoré». Questo allontanamento del dominio francese ha spianato la strada al coinvolgimento russo, in particolare attraverso il Gruppo Wagner e altre compagnie militari private (PMC) russe, che nel frattempo si sono riorganizzate nell’Africa Corps, che ha stabilito una presenza nella Regione. Il grosso di queste forze si trova in Mali, a combattere i separatisti tuareg.

Il malcontento che ha alimentato questi colpi di Stato non era dovuto solo all’incapacità dei precedenti regimi di combattere le insurrezioni jihadiste, anche il drammatico aumento dei prezzi dei generi alimentari e la diffusa instabilità sociale hanno giocato un ruolo fondamentale.

Nel 2023 oltre 2 milioni di burkinabè erano sfollati all’interno e quasi 150 mila avevano cercato rifugio nei Paesi vicini. Le Nazioni Unite riferiscono che quasi la metà del territorio del Burkina Faso è ora fuori dal controllo governativo, e i due principali gruppi estremisti islamici – l’affiliato di al-Qaeda Jama’at Nusrat al-Islam wal- al Muslimin (JNIM) e lo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS) – sfruttano il caos per espandere la loro influenza, in particolare nelle Regioni settentrionali, dove si concentra la popolazione contadina e dove c’è anche un gran numero di giovani disoccupati. Questi due gruppi sono spesso in competizione tra loro per il territorio e l’influenza, ma sono noti per cooperare contro le forze governative.


L’insurrezione islamista

Le condizioni dei contadini nel Nord sono particolarmente disastrate. Poiché gruppi islamisti come JNIM hanno rafforzato il loro controllo, i contadini si sono trovati tra la violenza di questi gruppi e le dure rappresaglie dell’esercito. Il nord ha visto alcuni degli attacchi più brutali. Tra queste l’esecuzione di 223 civili da parte dell’esercito burkinabè nell’aprile 2024: le autorità ne hanno incolpato i combattenti islamici sostenendo che spesso si travestono da soldati.

Nel 2020, prima del colpo di Stato, il precedente presidente Roch Marc Christian Kaboré, dopo un attacco terroristico a un convoglio minerario avvenuto qualche mese prima, aveva formato i Volontari per la Difesa della Patria (VDP), una milizia di cittadini separata dall’esercito creata appositamente per combattere gli insorti islamisti. Dopo il colpo di Stato, il governo della giunta ha dichiarato di aver reclutato 90.000 uomini. I gruppi islamisti del Nord spesso attaccano e tendono imboscate ai villaggi che si sospetta si uniscano al VDP o all’esercito.

A causa del conflitto il processo di proletarizzazione si è accelerato in Burkina Faso, con molti contadini costretti ad abbandonare le loro terre. Poiché i villaggi sono invasi dagli islamisti o distrutti dalle operazioni militari, questi contadini non hanno altra scelta per cercare lavoro che migrare verso i centri urbani o attraversare i confini dei Paesi vicini. Questa migrazione è spesso guidata dalla necessità di inviare rimesse alle famiglie, che rimangono intrappolate in condizioni sempre più disperate.

La giunta burkinabè ha cercato di militarizzare la società come soluzione alla crisi, ma questo non ha fatto altro che aggravare le sofferenze della classe operaia e contadina. Il bilancio dello Stato, messo a dura prova dagli impegni militari, ha portato all’imposizione di nuove tasse, aggravando le terribili condizioni del proletariato. L’arruolamento obbligatorio dei membri dei sindacati nell’esercito, come denunciato dall’Unité d’action syndicale (UAS), riflette la disperazione del regime di rafforzare i propri ranghi militari.

Nonostante questi sforzi, l’efficacia dell’esercito rimane in discussione. Nel giugno 2024, il JNIM ha ucciso 107 soldati in un unico attacco; all’inizio di agosto, più di 200 persone, di cui 50 civili, sono state uccise in un’altra imboscata dallo stesso gruppo; più tardi, nello stesso mese, in un altro attacco ha ucciso circa 200 persone. Queste continue perdite militari hanno indebolito la legittimità della giunta e del suo capo Traoré, salito al potere sulla base dell’assicurazione che, a differenza della precedente amministrazione, avrebbe affrontato l’insurrezione islamista. Non a caso, il governo sembra sventare un numero crescente di tentativi di colpo di Stato da parte di forze interne ed esterne.


Relazioni con la Russia

L’allineamento con la Russia ha portato con sé una nuova forma di sfruttamento imperialista. L’arrivo di consiglieri militari russi e la consegna di grano dalla Russia non sono segni di liberazione ma indicatori della continua dipendenza del Burkina Faso dalle potenze straniere. Come abbiamo osservato, «ancora una volta la guerra diventa un modo per scolpire la società a immagine e somiglianza del capitale, inquadrando la forza lavoro con la disciplina militare, creando eserciti proletari di riserva spopolando le aree rurali, intercettando gli investimenti e gli aiuti delle potenze imperialiste esterne». L’aumento dell’influenza russa, soprattutto sotto forma di aiuti militari, ha aumentato la militarizzazione della società burkinabè, con conseguenze disastrose per il proletariato e i contadini.


Crisi umana ed ecologica

La recente ondata di caldo in Burkina Faso, che ha visto le temperature salire a oltre 45 gradi, sottolinea la vulnerabilità ambientale di questa nazione, esacerbata dal capitalismo globale, non ultimo quello dei grandi Stati capitalisti, e dal suo incessante sfruttamento della natura. La crisi ha raggiunto livelli catastrofici. Alla fine del 2023, 42.000 burkinabè soffrivano di estrema insicurezza alimentare e altri milioni ne erano prossimi. La situazione è grave nelle città bloccate sotto il controllo degli islamisti, dove le restrizioni alla circolazione impediscono la consegna degli aiuti. Oltre 6.100 scuole sono state chiuse e le strutture sanitarie sono gravemente insufficienti, lasciando 3,6 milioni di persone senza accesso alle cure mediche.

Il conflitto in corso e la risposta militarizzata della giunta hanno anche alimentato un’impennata del traffico di droga attraverso il Sahel, con il Burkina Faso che è diventato terra di transito per gli stupefacenti destinati all’Europa. L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) ha riferito che nel 2022 sono stati sequestrati 1.466 chilogrammi di cocaina in Mali, Ciad, Burkina Faso e Niger, in netto contrasto con i soli 13 chilogrammi sequestrati tra il 2013 e il 2020. Questa impennata del traffico di droga evidenzia l’incapacità degli Stati saheliani di controllare i propri confini. In Burkina Faso, come abbiamo detto, il governo della giunta controlla solo la metà del Paese.


Il sostegno al regime

Il sostegno popolare alla giunta, in particolare tra il proletariato e la piccola borghesia, è in gran parte frutto della retorica nazionalista e “antimperialista” del regime. Tuttavia, questo sostegno è fragile e dipende dalla capacità della giunta di mantenere le sue promesse di sicurezza e stabilità. La recente estensione di 60 mesi del governo della giunta, con il pretesto del “dialogo nazionale”, ha ulteriormente esteso il potere nelle mani di Ibrahim Traoré, consentendogli di candidarsi alle future elezioni e di consolidare il suo regime.


Controllo sovrano e investimenti esteri

Con una mossa che indica un maggiore controllo sulle proprie risorse naturali, il governo ha nazionalizzato due miniere d’oro, ma a caro prezzo. Le miniere erano state oggetto di controversia tra la Endeavour Mining, con sede nel Regno Unito, e la Lilium Mining, una filiale della società di investimenti statunitense Lilium Group. L’accordo raggiunto prevede che Lilium trasferisca la proprietà delle miniere al governo burkinabè, mentre Endeavour riceve 60 milioni di dollari e una royalty del 3% su un massimo di 400.000 once d’oro prodotte in una delle miniere. Se da un lato la nazionalizzazione afferma la sovranità del Burkina Faso sulle proprie risorse, dall’altro evidenzia la continua dipendenza del Paese dai capitali stranieri per la generazione di entrate.

Il Gruppo della Banca africana di sviluppo (AfDB) ha approvato un pacchetto di finanziamenti agevolati da 6 milioni di euro del Fondo per l’energia sostenibile per l’Africa (SEFA) per la costruzione di una centrale solare da 18 MW a Dédougou, 250 km a ovest della capitale Ouagadougou. Sebbene l’accordo fosse stato originariamente concordato prima della presa di potere della giunta, le borghesie dell’Africa occidentale e dell’Europa sembrano essersi adattate ai nuovi governi del Sahel, vedendovi opportunità di profitto. Il progetto solare, di proprietà in parte dell’AfDB e gestito dalla società francese di energie rinnovabili QAIR, intende vendere energia al governo a un prezzo fisso, come concordato prima del colpo di Stato.


La Confederazione

L’anno scorso, Niger, Mali e Burkina Faso – ognuno dei quali ha subito colpi di Stato negli ultimi anni – hanno formato l’Alleanza degli Stati del Sahel (AES), con l’obiettivo principale di rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza contro i gruppi islamisti e le insurrezioni etniche che destabilizzano la Regione.

Quest’anno l’alleanza si è evoluta nella Confederazione degli Stati del Sahel, con l’obiettivo espresso di approfondire ulteriormente i legami economici e politici tra i Paesi membri. L’ambizione dell’AES è darsi una moneta comune. Discussioni sulla condivisione di settori come l’agricoltura, l’acqua e l’energia, fanno parte di ampi progetti per raggiungere la “sovranità economica”. L’AES ha deciso di ritirarsi dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), accusata di non fornire un sostegno adeguato contro le minacce islamiste. Dichiara anche di opporsi al dominio imperialista delle potenze occidentali, in particolare della Francia e degli Stati Uniti. Tuttavia, come la storia ha dimostrato, una vera indipendenza economica è impossibile nell’ambito del capitalismo, poiché queste nazioni rimangono inserite nel sistema imperialista globale dominato da imperialismi più potenti.

La formazione della Confederazione segnerebbe comunque uno sviluppo significativo nella Regione, la più stretta fusione degli Stati del Sahel rappresenta uno sviluppo progressivo: unificare l’economia, le infrastrutture e le istituzioni di diversi Paesi significa unificare anche la classe operaia. Questo anche se la Confederazione venisse ad avvantaggiare gli imperialismi di altri Paesi, come la Russia, la Cina, la Turchia o l’Iran.

Tuttavia, la traiettoria di questa nuova Confederazione rimane incerta. Resta da vedere fino a che punto si realizzerà questo elemento progressista. Potrebbe evolvere in un proxy della Russia in Africa, in alternativa alla oppressione dell’Occidente, oppure potrebbe crollare sotto le pressioni esterne, tramite colpi di Stato, insurrezioni islamiste o instabilità indotte. Oppure la Confederazione potrebbe rivelarsi solo simbolica e inefficace, tranquillamente acquiescente alle potenze straniere e dipendente da esse come prima, nonostante la retorica della “sovranità” e dell’“anti-imperialismo”.



Storia del socialismo ottomano e del Partito Comunista di Turchia
L’apogeo del Partito Comunista e dei Sindacati Rossi

Nel 1922 raggiunse il massimo l’influenza del Partito Comunista di Turchia. In questo periodo la fazione opportunista e conservatrice di Resmor per motivi patriarcali si opponeva alla presenza di compagne nelle riunioni, costringendo la vecchia guardia del partito all’opposizione. Nelle sezioni regionali del partito si formò una frazione di sinistra e rivoluzionaria attorno a Ruşen Zeki, mentre i dirigenti centrali della sinistra erano Navshirvanov e Hacıoğlu. Nel frattempo la sezione di Eskişehir del Partito Socialista di Turchia, che contava 2.000 lavoratori, chiese di aderire e molti furono ammessi su base individuale.

Sotto l’influenza del Partito Comunista di Costantinopoli migliaia di lavoratori turchi, greci, armeni, ebrei, ecc. si riunirono in loro sindacati, come l’Unione Internazionale dei Lavoratori, e celebrarono il Primo Maggio a Costantinopoli. Nel 1924 Ginzberg descriverà gli eventi della manifestazione a Costantinopoli: «Il Partito Comunista di Costantinopoli aveva la massa dei lavoratori sotto la sua influenza, come dimostrato dalla manifestazione del 1° maggio 1922, nonostante la legge marziale, il tribunale militare e l’ordinanza speciale di divieto. Questo partito riuscì a portare in piazza oltre 6.000 lavoratori di diverse nazionalità sotto la sua guida assoluta (...) L’organizzazione sindacale comprendeva più di 4.000 lavoratori e forti nuclei comunisti in quasi tutti i sindacati che li guidavano (...) Il Partito Socialdemocratico fu completamente azzerato dal Partito Comunista e non esisteva più come partito».

Ma la sinistra a Costantinopoli non dovette affrontare solo la repressione governativa. Dopo la manifestazione del Primo Maggio, gli anarchici nell’Unione Internazionale dei Lavoratori si allarmarono per la crescente influenza comunista e decisero di agire. Ginzberg così descriverà gli eventi: «Dopo il 1° maggio 1922 iniziò un’aspra lotta tra la tendenza anarco-sindacalista e quella comunista (...) Il segretario generale al plenum di giugno chiese il ritiro dall’Internazionale Sindacale Rossa. Tuttavia risultarono in minoranza di fronte all’attività e all’atteggiamento energico dei membri del Partito Comunista di Costantinopoli. Nelle elezioni che seguirono, i membri del Partito Comunista di Costantinopoli furono eletti come segretario generale, nel Comitato Centrale e nel giornale».

Il Partito Comunista di Costantinopoli spingeva per la formazione di una Confederazione Generale del Lavoro e invitò il circolo della rivista “Aydınlık” (Chiarezza) – composto dai resti del Partito Socialista Operaio e Contadino – al fine di estendere la propria influenza sulle masse musulmane. Nella relazione citata, Ginzberg descriverà gli eventi: «Il 15 luglio si è aperta la conferenza. Vi parteciparono 23 delegati in rappresentanza di 22.000 lavoratori organizzati. Le prime due sessioni furono dedicate alla lettura di relazioni sullo stato delle organizzazioni e a discorsi. Nella terza sessione si decise all’unanimità che tutti i sindacati avrebbero dovuto fondersi e sciogliersi in una Confederazione Generale del Lavoro (...) Pensavamo di indire uno sciopero generale per costringere il governo ad accettare l’IWU come Confederazione Generale del Lavoro (...) Ma Aydınlık si rifiutò di impegnarsi nell’attività pratica».

Il governo mise fuori legge il Congresso del Partito Comunista Popolare di Turchia perché tra i partecipanti c’erano delegati stranieri del Comintern. Il 15 e 16 agosto vicino ad Ankara si tenne, illegale, il Secondo Congresso del Partito Comunista di Turchia. La sezione di Costantinopoli non poté essere presente. Il Partito stabilì prioritaria l’organizzazione del movimento sindacale in tutto il Paese, portando alla formazione dei Sindacati Rossi dell’Anatolia.

Il progetto di programma del Partito recitava:
    «Il Partito considera suo dovere diffondere tra le masse di lavoratori e proletari gli ideali della lotta di classe, della rivoluzione sociale e del comunismo.
    «Il Partito organizzerà le masse del popolo lavoratore e utilizzerà tutte le forze a sua disposizione per difendere queste aspirazioni volte a garantire gli interessi della classe operaia e dei contadini poveri.
    «L’atteggiamento del Partito Comunista nei confronti delle organizzazioni borghesi e piccolo-borghesi, con una visione idealistica del mondo e un carattere conservatore, si basa sul seguente punto di vista: combattere senza sosta contro tutti i tipi di gruppi filo-occidentali, stabilire relazioni e cooperare su alcune questioni politiche con i populisti e altri partiti e gruppi che difendono gli interessi dei medi contadini e degli intellettuali.
    «Il Partito Comunista Popolare di Turchia non è un partito di individui, ma dei settori più progressisti della classe operaia e contadina, con una disciplina organizzativa interna d’acciaio, persistente e determinata, pronta a sacrificare tutto per la liberazione del proletariato e dei contadini. Armato degli invincibili metodi marxisti, il Partito invita tutti i proletari coscienti della Turchia a scendere sul terreno della lotta di classe per la liberazione di tutta l’umanità lavoratrice dallo sfruttamento e dall’oppressione in corso».

Ruşen Zeki, membro della frazione più a sinistra e rivoluzionaria, e alcuni altri compagni avvertirono il Comintern di non considerare la Grande Assemblea Nazionale di Turchia un governo rivoluzionario. M. Golman, delegato al Congresso, riferì: «(Alcuni compagni) ci avvertono con un linguaggio molto duro di non considerare la Grande Assemblea Nazionale turca come un governo rivoluzionario e di non aiutarla, perché con il nostro oro la polizia può compiere il suo lavoro, e con il nostro oro e le nostre armi il governo può sparare sugli operai e sui contadini turchi».

La Russia sovietica regalò al governo di Mustafa Kemal 3.065.000 rubli d’oro e 100.000 di oro ottomano nel 1920, 9.400.000 rubli d’oro nel 1921 e 4.600.000 rubli d’oro nel 1922, per un totale di 10.791.42 lire, oltre a 37.812 fucili, 324 mitragliatrici pesanti e leggere e 44.587 casse di munizioni. Le critiche della sinistra anatolica al fatto che la Russia sovietica avesse regalato tutto questo oro e queste armi ai kemalisti, senza che il movimento comunista ne avesse beneficiato, erano condivise dalla sinistra del Partito in generale.

Tuttavia, nonostante il disaccordo con le obiezioni dei militanti più radicali della sinistra anatolica sull’opportunità di sostenere il kemalismo, il Comintern appoggiò la sinistra contro i sostenitori di Resmor.

Durante il Quarto Congresso del Comintern, 1922, fu presa la decisione di fondere tutte le organizzazioni aderenti al Comintern a Costantinopoli e in Anatolia. Le proteste dei delegati del Partito Comunista di Costantinopoli, come Ginzberg, contro tali decisioni del Congresso furono escluse dai registri stenografici.

Anche il delegato di Aydınlık Sadreddin Celal espresse critiche sul sostegno dato ai kemalisti. La lettera di Hacıoğlu alla Sezione Orientale del Comintern esprimeva l’umore generale del Partito in merito: «Il recente attacco e l’offesa subita dal Partito Comunista di Turchia in Anatolia da parte della borghesia nazionale, che ha acquisito la sua influenza sulla classe a seguito dell’aiuto finanziario e politico del governo sovietico, per quanto questa sia intensa, non può costringere i comunisti di Turchia a inchinarsi di fronte alla borghesia nazionale, né può interrompere le correnti della rivoluzione sociale in Turchia».

Al Congresso la risposta a questo sentimento generale della sinistra turca fu data da Karl Radek: «Non ci pentiamo nemmeno un istante di aver detto ai comunisti turchi che il loro primo compito, dopo essersi organizzati come partito a sé stante, è quello di sostenere il movimento di liberazione nazionale in Turchia (...) Anche in questo momento di persecuzione diciamo ai comunisti turchi: Nella situazione attuale non dimenticate il futuro immediato. Il compito di difendere la sovranità turca, che ha una grande importanza rivoluzionaria internazionale, non è finito. Dovete difendervi dai vostri persecutori, dovete rispondere colpo su colpo, ma dovete capire che storicamente il momento della lotta di liberazione non è ancora arrivato; dovrete ancora percorrere una strada considerevole con le forze rivoluzionarie che già ora cominciano a cristallizzarsi in Turchia».

In effetti c’era una grande mancanza di chiarezza da parte del Comintern sulla situazione reale della Turchia, la cui storia capitalista e rivoluzionaria nazionale non era presa in considerazione e il potenziale del movimento di classe ignorato.

Il 12 dicembre, al Secondo Congresso del Profintern, l’Unione Internazionale dei Lavoratori di Costantinopoli, che contava circa 10.000 membri, e le Unioni Rosse dell’Anatolia, che anch’esse contavano 10.000 iscritti nelle altre città, si fusero, formando la Lega delle Unioni Rosse della Turchia.

L’IWU, sotto la direzione del Partito Comunista di Costantinopoli, entrò in azione contro le provocazioni e le aggressioni ai non musulmani in seguito alla presa di Smirne da parte dei kemalisti. Nel suo rapporto del 1924 Ginzberg descriveva così l’atteggiamento generale della sinistra nei confronti dei kemalisti dalla fine della guerra e la sua reazione contro il sentimento di frenesia nazionalista:

«Per illuminare i lavoratori sui loro interessi di classe e sul significato della “vittoria” kemalista, il Partito Comunista di Costantinopoli stampò una dichiarazione in turco: “La classe operaia accoglie con favore ogni colpo inferto all’imperialismo. Tuttavia la borghesia kemalista è scesa a un compromesso con gli imperialisti con l’armistizio di Mudanya. La borghesia kemalista non realizzerà le aspirazioni materiali dei lavoratori. Mentre prima era la polizia britannica, francese e italiana, sotto il comando degli imperialisti stranieri, a reprimere gli scioperi, oggi è la polizia turca, sotto il comando della borghesia kemalista, a reprimere lo sciopero dei tranvieri contro un’azienda francese pochi giorni dopo la sua “vittoria”. Tanto la borghesia turca quanto quella straniera sono nemiche della classe operaia. Solo attraverso la lotta e la forza i lavoratori possono imporre i loro diritti alla borghesia di ogni tipo. La borghesia turca sta cercando di indebolire le file dei lavoratori con la demagogia sciovinista. I lavoratori turchi, greci, armeni, ebrei sono fratelli e hanno un nemico comune: l’insieme della borghesia. L’unità di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla razza e dalla nazionalità, è la lotta contro la borghesia kemalista e l’imperialismo”. Approfittando delle grandi manifestazioni di piazza, questo volantino fu distribuito tra gli operai che manifestavano e incollato su quasi tutti i muri della città.
    «Allo stesso tempo c’era la tendenza a massacrare i greci. In ogni quartiere formammo segretamente comitati di lavoratori turchi, greci e armeni il cui compito era trasformare un possibile massacro razziale in una lotta di classe. I membri greci, armeni e turchi dell’IWU partecipavano insieme a tutte le manifestazioni di piazza. Un fenomeno molto significativo: mentre le masse toglievano i cappelli dalle teste dei passanti e molestavano chi non portava il fez, i membri greci, ebrei, armeni dell’IWU con il cappello in testa, insieme ai loro compagni turchi, camminavano indisturbati tra decine di migliaia di manifestanti e partecipavano ampiamente all’azione di spaccare con le pietre le finestre delle case dei borghesi di diverse nazionalità nei quartieri ricchi»