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Gli audaci blitz del generale Dalla Chiesa e le confessioni di terroristi "pentiti" hanno permesso di assestare all’eversione un colpo mortale, così dicono i portavoce dello Stato e tutti i gazzettieri sgonfioni inneggiano al valore delle intrepide forze dell’ordine che, con sprezzo del pericolo, abnegazione e con l’astuzia loro propria, hanno saputo sgominare in un battibaleno tutte le organizzazioni armate operanti sul territorio nazionale. Un’altra grande vittoria del regime, troppo sbandierata per essere vera, è la tenuta democratica dei lavoratori, che, con il loro fermo rifiuto della violenza, avrebbero isolato i terroristi tanto da costringerli alla resa e finanche alla collaborazione con la giustizia.
Creare il mito della massima efficienza dello Stato e della collaborazione di classe è sempre stata l’aspirazione della borghesia. Ciò serve a terrorizzare il proletariato presentando ai lavoratori uno Stato onnipotente e onnipresente, capace di controllare e reprimere qualsiasi forma di devianza.
Sarebbe impossibile spezzare il potere dello Stato, mentre, al contrario, (e qui gioca l’infame politica dei traditori del marxismo) possibilissimo riformarlo democraticamente e rimuovere gradualmente ogni sperequazione economica e sociale. Il partito ha il compito di sfatare questi miti e di spiegare al proletariato come lo Stato borghese sia vulnerabile e sia destinato a soccombere sotto i colpi assestatigli dal gigante proletario finalmente ridestatosi. A questo proposito, dalle colonne del nostro giornale, abbiamo più volte messo in evidenza come il pachidermico apparato statale in cui burocratismo, incompetenza, interessi personali e lotte per il potere dominano sovrani, può essere temporaneamente messo in crisi perfino da un pugno di uomini armati. In particolare, riguardo alla efficienza della polizia e carabinieri, siamo convinti che malgrado i grandi mezzi a loro disposizione, sia rimasta al livello di quando gli sbirri, alle frontiere, ispezionavano le valigie degli emigrati nel tentativo di trovarvi le cellule comuniste.
Per vedere di chi è il merito di tutte le vittorie riportate dallo Stato nella lotta contro il terrorismo basta leggere l’intervista che un ufficiale dei carabinieri, venendo meno al motto dell’arma: "usi ad obbedir tacendo e tacendo a morir", ha concesso a Panorama. Al giornalista che chiedeva: «Quali sono state le azioni dell’anti-terrorismo andate in porto grazie alle spiate?», l’ufficiale rispondeva: «Tutte, a cominciare da Robbiano di Mediglia, Cascina Spiotta, Via Gradoli, Via Montenevoso, sino a Via Fracchia. Se io dovessi scrivere un articolo riassuntivo di tutte le catture e le scoperte di covi brigatisti, mi basterebbe una parola: soffiate. (...) L’unica cattura compiuta senza l’aiuto di una soffiata fu quella di Curcio (La seconda n.d.r.), fece l’errore di frequentare troppo assiduamente una macelleria vicina al suo nascondiglio. Uno dei nostri, casualmente, lo vide e lo riconobbe» (Panorama, 28.4.80).
Ma chi sono le spie? Sono agenti della polizia del tipo 007 astutamente infiltratisi all’interno dei gruppi clandestini? Salvo il caso del frate Girotto, sembra che le spiate vengano fatte per lo più da elementi "politicizzati" della malavita, sul potere destabilizzante dei quali il partito armato ha sempre contato molto, e da terroristi catturati che non vedono l’ora di vuotare il sacco gareggiando tra loro a chi la racconta più giusta e nel riuscire a far sferrare i colpi più duri a quella organizzazione che prima era la loro, mercanteggiando la vita dei loro compagni in cambio di promesse di grazia o di riduzione di pena. Altre volte i terroristi vengono catturati soltanto grazie ad una stupidità che rasenta il criminale: abbiamo appena visto come Curcio sia rimasto vittima di una ostentata sicurezza e spavalderia. Non da meno è stato Prospero Gallinari che veniva mitragliato mentre nel centro di Roma, in pieno giorno e all’aperto, montava una targa falsa ad un’auto rubata; o come altri due terroristi, che in un bar di Torino estraevano le pistole solo per riaggiustarsele meglio nelle fondine. Infine non è escluso che alcuni dissidenti vengano "scaricati" per eliminare opposizioni interne.
Quanto sia falsa l’aureola di gloria che i pennivendoli di regime disegnano attorno al generale Dalla Chiesa e all’arma tutta si può notare da come fu condotta l’unica azione meticolosamente preparata: la prima cattura di Curcio. È sempre il citato ufficiale dei carabinieri che parla: «Pieni di invidia per il successo della polizia che aveva catturato a Firenze il colonnello delle Br Paolo Maurizio Ferrari, abbiamo voluto a nostra volta catturare Curcio bruciando così, prima del tempo, padre Girotto. E pensare che quel giorno a Pinerolo non sapevamo nemmeno di mettere realmente le mani su Curcio».
I carabinieri che avevano chiamato sul posto uomini con cineprese e macchine fotografiche per dare poi la massima pubblicità alla cosa, dall’altro canto perché le Br pensassero che l’arresto di Curcio fosse del tutto casuale, casuale come la presenza dei fotografi, imbastirono una commedia del genere. «Il maresciallo Felice Maritano (in borghese) doveva addirittura recitare a soggetto, gli era stato ordinato di gridare ’chiamate i carabinieri’, non appena i brigatisti fossero stati agguantati per far credere loro ad un incidente (...) Secondo la regia, Maritano doveva essere in compagnia di un cane, per rendere la scena più reale. Trovò un volpino randagio ed usò la cinghia dei pantaloni per guinzaglio. Quindi si mise in mezzo alla strada non appena Girotto, che aveva sotto la camicia una piccola trasmittente, avvertì che Curcio e Franceschini, sulla loro macchina, stavano arrivando. Quattro nostri uomini salirono allora sulla giulietta bianca per simulare un incidente e bloccarli. Ma appena l’auto di Curcio si fermò, Franceschini gridò; ’i fascisti, i fascisti’, e Maritano, rifiutando la sua parte, tirò fuori la rivoltella e gridò: ’mani in alto’, mentre gli scendevano i pantaloni» (Panorama, 5.5.80).
Come si vede inefficienza e faciloneria, ammantate da demagogia, sembra siano le caratteristiche sia degli uomini del "generale" che di quelli del partito armato.
Riguardo alla tenuta democratica della classe operaia che ha resistito alle sollecitazioni, dicono gli opportunisti, di chi le prospettava la ingannevole strada della violenza contribuendo così ad isolare il terrorismo, dobbiamo dire che ciò è falso nel modo più assoluto. Oggi il terrorismo non viene battuto perché la classe operaia ha espresso una volontà di difesa del regime democratico. È vero nel modo più assoluto che il terrorismo individualistico è un’arma estranea al proletariato ed ai suoi interessi storici, mentre è propria della piccola borghesia, mezza classe destinata sempre a giocare ruoli subalterni e ad essere, nei momenti di difficoltà dello Stato, arruolata in funzione controrivoluzionaria. D’altra parte il proletariato non è che abbia espresso una volontà di appoggio al regime contro la cosiddetta eversione; esso ha storicamente una sola volontà, o esprime quella o non ne esprime nessuna, ed è la situazione attuale. Ma nemmeno malgrado tutta l’opera dei partiti traditori e dei bonzi sindacali la classe operaia si erge, come essi vorrebbero, in difesa della legalità democratica; resta infatti scolpito nel cuore dei lavoratori quell’istinto di classe che permette di riconoscere un nemico nella figura del padrone, del grande burocrate, del poliziotto e della spia.
Che in alcune fabbriche gli operai abbiano brindato alla notizia che dei rappresentanti della borghesia erano stati colpiti dalle Br non vuol dire, come ne deducono queste ultime, che la classe operaia è per la lotta terroristica, allo stesso modo il fatto che gli operai non abbiano ancora la forza di ribellarsi al regime di schiavitù salariale non dimostra affatto che essi abbiano storicamente scelto di schierarsi in difesa di questa società basata sullo sfruttamento e sul sangue. Ma, a parte ciò, la prova migliore della inconsistenza dell’argomentazione opportunistica, secondo la quale il proletariato si rispecchierebbe nella repubblica democratica e antifascista, poggia sul rifiuto stesso, espresso dagli opportunisti per primi, della classe armata (il "partito armato" è una caricatura dell’impotenza piccolo-borghese).
L’esistenza di uno Stato che meriti l’appoggio del proletariato non solo non esclude, ma anzi implica l’armamento degli operai, altrimenti in quale modo reale lo potrebbero sostenere? Ma, guarda caso, sono quelli che più di ogni altro predicano l’indissolubilità dell’unione classe lavoratrice-Stato democratico a tuonare non appena qualche illuso parli di difesa militante dello Stato.
La classe operaia è disgraziatamente nel modo più completo succube dell’oppressione capitalistica, vittima della peggiore forma della dittatura borghese, che è il regime democratico, della ammorbante ideologia social-pacifista.
Quando si scrollerà di dosso questa cappa di piombo, rifiuterà decisamente sia la violenza piccolo-borghese, sia il pacifismo democratico, mentre se li troverà dinanzi uniti ed armati fino ai denti per dissuaderla dallo sferrare il suo attacco al cuore dello Stato.
La tenuta democratica c’è stata, è vero, ma né ad opera del proletariato, disgraziatamente spettatore passivo, né ad opera della grande borghesia; al contrario è stata espressa dalla palude piccolo-borghese, proprio quella che aveva, anni fa, spinto per la soluzione violenta e che ora, vista l’impossibilità di far scendere a compromesso lo Stato, con il quale si era illusa di poter trattare da pari a pari, si allinea pecorescamente e chiede amnistia e perdono. È appena il caso di citare la maturazione democratica di quella cloaca di Lotta Continua con i suoi continui piagnistei sui valori della vita umana e della pace. I Mimmo Pinto, i Marco Boato, i Corvisieri, i Capanna ecc., questo manipolo di impostori che, sfruttando l’imbecillità studentesca e la sincerità di migliaia di giovani illusi (ora ridotti ad iniettarsi morfina), si sono fatti una posizione onorevole, assieme ai Toni Negri, con le sue accorate lettere dal carcere, invitano a tagliare definitivamente i ponti con qualsiasi forma di violenza, a beneficio del pacifico e civile confronto democratico. Ogni tipo di violenza, dicono, è da condannare, ma tra quella nera e quella rossa, è da condannare con maggior veemenza quella rossa. Sull’atteggiamento di questi signori torneremo più avanti, per ora ci è bastato rammentarli per dimostrare come sia l’ala pacifista-legalitaria che quella violenta della piccola borghesia si compenetrino e si condizionino a vicenda.
Noi forse siamo stati i soli a riconoscere ai terroristi una vasta area sociale in cui affondano le loro radici: essa è composta dalla piccola-borghesia e dal sottoproletariato. Non costituendo essi una classe, ma solo un miscuglio eterogeneo di strati sociali spurii ed emarginati, sono incapaci di esprimere un partito perché sono privi di una dottrina e tantomeno di una finalità storica. Anche i militanti armati non sono le avanguardie di queste mezze classi, intesi come gli elementi più politicizzati, e addirittura non sono necessariamente nemmeno i più radicali (lo dimostra il fatto che fintanto che non passano alla totale clandestinità conducono una vita da cittadini al di sopra di ogni sospetto, tanto è integro, da un punto di vista borghese, il loro comportamento); essi sono semplicemente, secondo la terminologia della nuova sinistra, i più "incazzati". Anch’essi seguono le oscillazioni della loro base sociale e quando questa si fa collaborazionista si fanno anch’essi collaborazionisti ed il detto di Mao: "contare sulle proprie forze", adattato alla necessità dell’ora, si tramuta in "si salvi chi può". Di conseguenza quello che veniva pubblicizzato come un partito solido pari ad un blocco granitico si squaglia come neve al sole, ed è naturale. Perché è ben misera garanzia quella che fa dipendere la tenuta del partito e dei suoi aderenti da una forma organizzativa. Organizzazioni clandestine perfette nei minimi particolari possono riuscire a garantirsi dai carabinieri, mentre rimangono vittime dei loro stessi uomini; capi e gregari. Il partito comunista per la necessità stessa della sua azione prima, durante e dopo la presa del potere, deve possedere una struttura centralizzata e gerarchica.
«Senza una organizzazione salda, preparata alla lotta politica in ogni momento ed in tutte le situazioni – dice Lenin – non si può parlare di quel piano sistematico di azione, illuminato da principi fermi e rigorosamente applicati, che è l’unico che meriti il nome di tattica».
Ma, ed è qui che cascano i nostri rivoluzionari, questa organizzazione non nasce come modello nella testa di qualcuno per essere poi calata nello scontro sociale di classe. Non è possibile affidare la realizzazione dell’indirizzo rivoluzionario di classe all’impianto di una certa struttura organizzativa per perfetta che sia... sulla carta.
Per Lenin l’organizzazione è l’arma senza la quale la tattica unica non può realizzarsi: organizzazione unica come riflesso e prodotto organico di una attività svolgentesi su presupposti unici e secondo un indirizzo unico. Per i "leninisti" del tipo Stalin l’organizzazione unica, il centralismo, la disciplina sono le premesse per arrivare a possedere una tattica ed un indirizzo di azione unica. I "leninisti" del tipo Stalin inseguono il mito piccolo-borghese del modello di partito, garantito, in virtù della sua struttura, oggi, domani e sempre dagli errori e dalle deviazioni.
La piccola borghesia cerca sempre assicurazioni sulla riuscita della rivoluzione. Ma tali assicurazioni non potranno mai venire da "organizzazioni di ferro" se questa struttura non poggia su una base teorica e programmatica omogenea ed unitaria.
«A conclusione di tutto questo bisogna ristabilire una fondamentale tesi marxista secondo cui il carattere rivoluzionario del partito è determinato da rapporti di forza sociali e processi politici e non da varie forme, dal tipo di organizzazione (...) In tutte queste manifestazioni è un sopravvivere antimarxista e anti-leninista dell’utopismo, in quanto questo consiste nell’affrontare i problemi non partendo dall’analisi delle forze storiche reali, ma vergando una magnifica costituzione o piano organizzativo o regolamento» (L’Unità, 26.7.1925).
Dottrina, programma, tattica sono le basi del partito; l’organizzazione scaturisce da queste e non viceversa. La totale mancanza di programma rivoluzionario, come vedremo poi, impedisce il formarsi di una solida organizzazione di partito, perché nessuno può essere fedele e disciplinato ad una dottrina che non possiede.
Il completo sfascio (delazioni a catena, diserzioni in massa, richieste di amnistia) di organizzazioni che avrebbero dovuto essere imprendibili testimoniano che non si improvvisa un corpo armato, che non bastano mezzi tecnici, logistici, finanziari per sostenere una guerra, se questi non poggiano su una organizzazione politica di primo ordine, che non può essere tale se non è ispirata ad un programma storico, non contingente, se non è sostenuta da ampi strati di puri proletari, da una lotta complessiva su tutti i fronti contro il capitalismo ed il suo regime politico, sociale ed economico. Il comportamento pratico delle organizzazioni del "partito armato" e dei loro aderenti dimostrano la veridicità di quanto affermiamo: la lotta politica interna per la direzione dell’organizzazione, delazioni alla polizia, diserzioni in massa, regolamenti di conti alla moda mafiosa, defezioni e fughe di cassieri con relative casse, uso a scopo personale del denaro dell’organizzazione sono cose divenute di ordinaria amministrazione all’interno del partito armato. Il terrorismo è riuscito solo in una cosa: è riuscito a riprodurre, nella clandestinità, un piccolo mondo borghese con tutte le sue più significative caratteristiche.
* * *
L’operazione Moro il suo rapimento, la detenzione e l’uccisione misero in evidenza diversi aspetti significativi: 1) Dimostrarono una grande capacità militare dei terroristi ed una altrettanto buona rete logistica. 2) Misero in evidenza lo spietato calcolo politico di tutti i partiti (tra i quali si sono distinti per cinismo DC e PCI), che avendo bisogno di un martire hanno praticamente costretto le Br ad uccidere Aldo Moro. 3) Ma, e questa è stata la vittoria del regime, il gioco combinato tra oltranzisti (Piccoli, Berlinguer, ecc.) e il partito della trattativa (Craxi) ha fatto esplodere in modo violento tutte le contraddizioni da sempre esistenti all’interno del "partito armato". Scissioni, defezioni, delazioni si sono susseguite in un crescendo così vertiginoso da stupire innanzi tutto le forze repressive dello Stato che fino a quel punto si erano, nella loro lotta contro il terrorismo, ricoperte di insuccessi. Le fortune delle forze dell’ordine dipendono, come abbiamo visto, esclusivamente dallo sbandamento delle formazioni terroristiche.
Lo Stato, che si era dimostrato del tutto incapace di distruggerle, si è trovato di fronte ad una situazione insperata: per farla finita con il terrorismo deve soltanto fornire una via di uscita a coloro che ormai restano nelle organizzazioni clandestine solo perché perseguiti dalla legge.
Vengono infatti fatte promesse di clemenza per tutti, secondo il peso ed il valore della collaborazione: grazia per i testimoni super (tipo Peci), enormi sconti di pena a chi aiuti fattivamente e soprattutto la non punibilità per gli associati che disertino. Questa è la linea annunciata dal presidente del consiglio Cossiga contestualmente al suo programma di governo.
Se il progetto di Cossiga andasse in porto il meccanismo dovrebbe, grosso modo, essere così semplificato: su proposta del ministro della giustizia verrebbe condotta una breve istruttoria circa la opportunità del provvedimento, subito dopo la richiesta di grazia sarebbe portata all’esame del capo dello Stato per la firma. Inoltre tra i tempi della giustizia e quelli della clemenza lo scarto diverrebbe minimo e la grazia potrebbe arrivare alla fine del processo di primo grado, che, per i reati di terrorismo, è previsto per direttissima. Ma anche se questo snellimento dell’iter giudiziario dovesse venir attuato, sarebbe ancora una volta del tutto inadeguato, perché non si tratta più di singoli aderenti alle formazioni armate che, se presi, potrebbero decidersi a parlare, siamo di fronte ad una richiesta di resa da parte della grande massa dei terroristi, i quali sentono l’urgenza di consegnarsi allo Stato prima di essere traditi. La incolumità di ognuno di loro dipende, infatti, dal comportamento dei propri compagni. È in questo senso che da ambienti autorevoli sempre più spesso si leva la richiesta di amnistia o di altre forme di clemenza generalizzata.
Una proposta di legge presentata da un gruppo di deputati di sinistra prevede, tra l’altro, la non punibilità per il reato di partecipazione a banda armata o ad associazione a fini terroristici verso chi si consegna allo Stato, prima dell’intervento della magistratura e della polizia. Ma anche questa è una novità che non innova un bel niente. Infatti gli articoli 308 e 309 del codice penale Rocco prevedono la non punibilità per gli imputati di banda armata, i quali prima che sia stato commesso il delitto per il quale si erano costituiti in banda, disciolgano l’organizzazione o si ritirino, o si arrendano abbandonando le armi. (Rocco, a sua volta, aveva ricavato questi articoli da vecchie legislazioni che lo Stato sabaudo, agli inizi dell’800, aveva promulgato per combattere il brigantaggio sardo).
Da parte nostra non escludiamo che lo Stato non possa concedere una amnistia anche totale per tutti i terroristi che dichiarino il loro pentimento anche perché in lista di attesa si trovano personaggi molto vicini a chi, dal versante demo-legalitario, maneggia le leve del governo o si trova in uno stato di devota opposizione. Con questo non ci riferiamo solo all’ex vice-presidente della DC, Donat-Cattin, ma anche agli altri «41 politici che – secondo un intervento in aula del socialista Felisetti –hanno figli implicati nel terrorismo» (La Repubblica, 25.7.80).
Se lo Stato concederà amnistia, grazia, sconti di pene ecc., lo farà
solo per poter stroncare le gambe ad un risorto movimento proletario. Vedremo
allora gli ex capi del partito armato dire alla classe operaia che il momento
dell’assalto al cielo non è ancora giunto e che compito dell’ora, visto
che la borghesia viene meno alle sue stesse funzioni di classe, è la difesa
della produzione e della patria, pur non dimenticando, beninteso, che il
compito del proletariato è l’abbattimento dello Stato capitalista, ecc.,
ecc.. Non è forse questo il senso della proposta del terrorista "pentito"
Fabrizio Giai, che indica di «trasformare l’organizzazione combattente
in una organizzazione politico-civile»? Anche se in modo farsesco,
data la sproporzione delle forze, ripercorrono la strada degli ultra rivoluzionari
del primo dopoguerra che, quando veramente giunse il momento dell’azione,
disarmarono moralmente e materialmente la classe operaia per consegnarla
pacificata
alla reazione fascista, quando addirittura, visto che il "movimento" spingeva
in quella direzione, non entrarono personalmente ad ingrossare le file
del partito mussoliniano.
2. Mezze classi e ideologia del partito
armato
Tentare di tracciare un identikit del cosiddetto partito armato è l’arduo compito che in molti si sono prefissi senza riuscire d’altronde a venirne fuori. Si è parlato di trame internazionali i cui burattinai di volta in volta sono stati individuati a Mosca come a Washington, a Berlino e a Tripoli, a Gerusalemme o a Damasco. Altre volte, più semplicemente, è stata tracciata l’equazione terrorismo-comunismo. Evidentemente sono interpretazioni che servono alle varie cosche politico-mafiose per farsi le ficche a vicenda senza avere né la pretesa né la capacità di individuare le vere ragioni del terrorismo piccolo-borghese.
Il fenomeno terroristico odierno, esploso nei paesi altamente industrializzati, è, secondo noi, frutto esclusivo del radicalismo immediatista, proprio della piccola borghesia, specie intellettuale, e degli strati della emarginazione sottoproletaria: le disprezzate, dai marxisti, mezze classi. Esse sono destinate, dalla evoluzione capitalistica, ad essere sempre più compresse e spinte nel campo dei senza riserve: il proletariato; mentre, da parte loro, lottano con tutte le proprie forze per mantenersi i privilegi di cui, in precedenza, hanno goduto.
Più avanti ci soffermeremo in modo più particolareggiato sulla ideologia espressa dai gruppi armati per dimostrare, attraverso i loro stessi documenti, la loro matrice piccolo-borghese, democratica, antioperaia ed anticomunista e di conseguenza reazionaria. Prima di ciò è però importante tratteggiare la posizione del partito comunista rivoluzionario nei confronti delle mezze classi da tutti adulate e da noi guardate con sentito disprezzo.
Abbiamo dedicato molti studi a quei processi storici di grande importanza e frequenza, anteriori alla rivoluzione borghese, che abbiamo chiamato rivoluzioni intermedie, o doppie o multiple. In esse in genere sono presenti più di due classi di prima grandezza oltre le molte e mutevoli sottoclassi. Comune alle vere rivoluzioni, in cui si scontrano due sole classi, esse hanno l’urto armato e sanguinoso. Il caso più semplice di rivoluzione in cui si scontrano due sole classi è la rivoluzione del 1789 in Francia. In essa, senza ombra di dubbio, è egemone la borghesia che travolge il feudalesimo; non sono tuttavia assenti altre classi, e lo stesso nascente proletariato, che però resta classe di seconda grandezza.
Marx ed Engels, per la Germania del 1848, disegnano la classica doppia rivoluzione: feudalità, borghesia e proletariato. La vittoria non viene raggiunta né dalla terza classe, né dalla seconda; si assiste alla totale controrivoluzione. Nel 1848 francese, nel 1871 e nel 1917 russo, varie sono le classi e le semiclassi sulla scena storica; il proletariato ha già però la figura di classe di prima grandezza e tenta di imporsi con la propria forza; viene battuto nel ’49 e nel ’71 a Parigi, ma nel 1917 a Pietroburgo e a Mosca spazza via feudalesimo e borghesia.
Nei nostri studi abbiamo dimostrato come il proletariato di Russia perse il potere non sul campo di battaglia, ma per l’ inquinamento opportunista.
Quando una rivoluzione multipla, come fu quella russa, cade, alla fine, alla realtà dello scontro delle forze sociali si oppone un falso incontro delle ideologie storiche. Da cui la peste delle rivendicazioni di marxismo o di leninismo da parte dei bancarottieri della rivoluzione.
Nelle complesse rivoluzioni multiple fuori dei paesi industrializzati (Asia, Africa) il fatto che le armi restano calde può giustificare entro buoni limiti storici i blocchi di classe. Ma la rovina avanza quando non solo il proletariato non prende la supremazia militare, ma tollera, per mezzo dei suoi falsi partiti di classe, che la supremazia ideologica sia quella delle mezze classi.
La prova di questo è l’orgia dei concetti antimarxisti di Popolo, Nazione, Patria, Democrazia, Libertà, Pacifismo. Una simile situazione di contrasto fra le forze sociali esistenti e le propagande demagogiche può avere una sola formulazione dialettica: non il proletariato può svolgervi un qualche ruolo autonomo, e nemmeno le mezze classi (tale ipotesi è fuori dalla storia), ma ancora una volta è il capitalismo mondiale, a cui ogni pretesa mezza classe è aggiogata, ad imporre la propria dittatura. Il crimine nei paesi sviluppati sta nel tracciare un solco che lasci a "destra" i monopoli e a "sinistra" il fronte dei lavoratori salariati e delle mezze classi con tutte le sue più eterogenee componenti, che non sono che dei leccatori, in varie vesti, di avanzi di plusvalore, manutengoli del grande capitale. La consegna marxista per riarmare la classe e preparare la morte storica del capitalismo, non può che essere: guerra alle mezze classi, rifiuto totale dei loro maledetti ideali!
Nell’occidente industrializzato le mezze classi non possono svolgere alcun ruolo progressivo, possono tutt’al più assumere un atteggiamento di benevola neutralità verso quel movimento rivoluzionario quando ritengano prossima la sua vittoria. È il caso dell’Italia tra il 1919 e la prima metà del 1920. «La classe media e la piccola borghesia tendevano a giocare un ruolo passivo non già al servizio della grande borghesia, ma al seguito del proletariato che stava per ottenere la vittoria» (Rapporto sul fascismo al IV congresso dell’IC).
La piccola borghesia italiana non osò in alcun modo tentare la difesa delle istituzioni nazionali contro le quali il proletariato si scagliava, ma addirittura i bottegai e i commercianti "spontaneamente" si recavano alle Camere del Lavoro per consegnare le chiavi dei loro magazzini mettendo la loro merce a disposizione del proletariato, come si poteva leggere nei tremebondi cartelli appesi ai bandoni abbassati delle botteghe. «Questo stato d’animo si è poi radicalmente modificato (...) Quando la classe media constatò che il partito socialista non era in grado di organizzarsi in modo da ottenere il sopravvento, espresse la propria insoddisfazione, perse a poco a poco la fiducia che aveva riposto nelle fortune del proletariato e si rivolse verso la parte opposta. È in questo momento che ebbe inizio la offensiva capitalistica borghese. Essa sfruttò essenzialmente lo stato d’animo in cui la classe media era venuta a trovarsi».
Nell’attuale fase storica il radicalismo piccolo borghese non può né mettersi alla coda di un movimento operaio; essendo questo del tutto inesistente, né schierarsi, per lo stesso motivo, in difesa dello Stato, sperando di trarne così quei vantaggi che Mussolini, buonanima, sempre promise.
Abbiamo poc’anzi visto che il terrore della piccola borghesia è quello di essere proletarizzata e di perdere così i propri privilegi. Da qui la sua ribellione contro lo strapotere del grande capitale che, specialmente nei periodi di crisi economica, non intende più elargire briciole di plusvalore. Da qui gli strepiti sui valori traditi e le richieste al grande capitale di democrazia e di "diritto alla vita".
Libertà e democrazia, non ci stanchiamo di ripeterlo, sono ideali buoni per il piccolo borghese filisteo, ma sono agli antipodi dei fini storici della rivoluzione proletaria, la cui chiave non è la libertà, ma la dittatura.
Quindi per quanto le lotte della piccola borghesia possano assumere
forme più disparate, fino ad arrivare all’uso della violenza e del terrore,
il partito non solo prende le proprie distanze, ma ha il dovere di combatterle
come reazionarie.
2.1. Ideologismi del partito armato
Ci baseremo esclusivamente su documenti della formazione armata Br,
lasciando da parte tutte le altre miriadi di sigle più o meno note, per
i seguenti motivi:
1) Le Br sono state la prima formazione armata nata in Italia e quindi
è più agevole ricostruirne un albero genealogico, mentre tutti gli altri
gruppi nascono dalle combinazioni più eterogenee, scissioni di gruppi
preesistenti, riorganizzazione di singoli superstiti e gruppi sfasciatisi,
ecc.
2) Perché dal nostro punto di vista marxista, anche se organizzati
sotto diverse sigle, sono espressioni della medesima base sociale ed esprimono
la medesima ideologia.
3) Le Br sono l’unica formazione che abbia tentato di darsi un programma,
anche se la loro tattica è stata oltremodo instabile, passando dall’educazione
dei capo reparto, alla disarticolazione dello Stato, dal mirare
al cuore dello Stato all’annientamento delle forze di polizia,
dal riconoscimento di differenza tra poliziotto e poliziotto, fino a prospettare
un democratico confronto con tutte le forze rivoluzionarie; ed ora
la recente critica del militarismo.
4) Le Br, a differenza di tutti gli altri gruppi terroristici, si dichiarano
comunisti
rivoluzionari, leninisti, soli difensori del patrimonio comunista
da tutti tradito.
Tutti ormai conoscono le origini delle Br: le "lotte studentesche" del ’68 e l’istituto di sociologia dell’università di Trento fornirono i cervelli. Nel settembre 1969, a Milano, nacque il Collettivo Politico Metropolitano. A tale gruppo, oltre i trentini, aderiscono il Cub Pirelli, il Gruppo di Studio Sit Siemens, quello dell’IBM, elementi del movimento studentesco, ecc.
Sarà proprio il Collettivo Politico Metropolitano il nucleo iniziale da cui nasceranno le Br. Questo collettivo, al quale aderiscono anche degli operai combattivi schifati dalla politica di tradimento delle organizzazioni sindacali, in contrasto con l’astratto e falso rigore marxista, non nasce «sulla base di un programma e neppure sulla base di una rosa di principi teorici», l’importante è l’azione.
Gli aderenti al CPM partecipano alle lotte operaie del ’69 e ne sono, in alcuni casi, l’ala più spinta, ma come tutti i gruppettari si dichiarano contro il sindacato, non perché diretto da capi traditori, ma perché imporrebbe la sua volontà sulle masse lavoratrici. Come tutti i gruppettari sono alla ricerca di: «nuove forme di lotta» perché «lo sciopero prolungato ha come effetto che noi non produciamo, ma (...) il padrone per questo tempo non ci paga (...) È necessario trovare forme di lotta che danneggino la produzione più di quanto danneggino noi».
Si ritrovano ben presto, assieme a tanti altri, ad essere delusi dell’autunno
caldo, delle lotte per i rinnovi contrattuali, delle manifestazioni
studentesche. La stessa stampa borghese ed opportunista con tutto il suo
livore contro i perturbatori dell’ordine li aveva convinti di essere alla
vigilia dell’insurrezione armata. La delusione non tardò a venire e con
essa arrivarono le prime riflessioni teoriche:
1) Le avanguardie coscienti non devono rivolgersi verso «tutti
i lavoratori, ma agire per, individuare la sinistra di fabbrica e all’interno
di essa cercarsi lo spazio per costituirsi quale punto di riferimento».
2) Gli organismi di opposizione di base fanno il gioco del sindacato.
3) Secondo il piano del capitale «i sindacati devono sempre più
funzionare oggettivamente da gestori di contratti e non possono quindi
portare un attacco a fondo al piano economico». Non solo gli attuali
sindacati, ma la stessa forma di organizzazione sindacale è considerata
«istituzione politica borghese».
Di fronte dalla offensiva padronale nelle fabbriche, alle sospensioni, ai licenziamenti, alla passività vigliacca dei bonzi, il Collettivo Politico Metropolitano teorizza che l’arma dello sciopero è funzionale al capitale.
Lancia dunque delle nuove parole d’ordine (riprese poi da tutti i gruppetti) quali «riprendiamoci la città, la casa, i trasporti, i libri», ecc..
Il CPM, nel luglio del 1970, pubblica la "Sinistra Proletaria" con il simbolo di falce martello e fucile incrociati. Oggetto della discussione è il problema della violenza e della clandestinità. È proprio allora che si teorizza il rifiuto della lotta rivendicativa e salariale, che sarebbe funzionale ai disegni della Confindustria, per l’organizzazione di nuclei armati di difesa. «Noi sappiamo che incontro al padrone armato (...) non si va disarmati (...) Noi oggi siamo forti ma siamo sempre disarmati (...) siamo ancora senza organizzazione rivoluzionaria. Costruire l’organizzazione capace di dirigere non la lotta rivendicativa, ma lo scontro politico contro il potere dei padroni è oggi il primo compito dell’autonomia operaia (...) Bisogna imparare a colpire all’improvviso concentrando le proprie forze per l’attacco, disperdendosi rapidamente quando il nemico si riprende» (Sinistra Proletaria, luglio ’70).
Anche se nella clandestinità vera e propria entreranno nel ’72, dopo
la perquisizione del "covo" in Via Boiardo, già il 20 ottobre del ’70
"Sinistra Proletaria" informava che: «la parte più decisa e cosciente
del proletariato in lotta ha già cominciato a combattere per costruire
una nuova legalità, un nuovo potere (...) Ne sono esempi l’apparizione
di organizzazioni proletarie per combattere i padroni e i loro servi sul
loro terreno, alla pari, con gli stessi mezzi che essi utilizzano contro
la classe operaia».
2.2. Reclutamento del partito armato
Le Br nascono e si mettono nella clandestinità. Le loro prime azioni si svolgono nelle fabbriche dove erano presenti i Cub e i GdS aderenti alla "Sinistra Proletaria": Pirelli e Sit Siemens.
Alla domanda se si ritengano o meno l’embrione di un futuro esercito rivoluzionario, rispondono che non lo hanno mai affermato: «anche perché nella nostra prospettiva politica non riusciamo a distinguere con sufficiente chiarezza (...) la formazione di un futuro esercito rivoluzionario». Cosa sono dunque le Br? «Sono gruppi di proletari – rispondono – che hanno capito che per non farsi fregare bisogna agire con intelligenza, prudenza e segretezza, cioè in modo organizzato. Hanno capito che non serve a niente minacciare a parole e (...) che gruppi clandestini di proletari organizzati e collegati con la fabbrica, il rione, la scuola e le lotte possono rendere la vita impossibile a questi signori».
Di fronte al fatto che i bonzi sindacali sabotano con tutti i mezzi le lotte operaie svilendo anche i pochi scioperi che sono costretti ad indire, le Br ne traggono la lezione che l’arma dello sciopero non paga, che ci vogliono forme di lotta più incisive quali l’assenteismo, il sabotaggio dei macchinari, ecc. Non riuscendo ad immaginarsi una azione compatta della classe lavoratrice (infatti confessano di non riuscire ad immaginare un futuro esercito rivoluzionario), come solo modo possibile per difendere il salario ed il posto di lavoro, l’unica strada che rimane loro è il terrorismo individuale contro il caporeparto, la spia, ecc., per indurli a più miti consigli. È in questo loro piano di "difesa" che si svolgono le prime azioni delle Br. Vengono bruciate le macchine di alcuni dirigenti di fabbrica, alcuni vengono rapiti, processati o messi alla gogna.
Con questi metodi si illudono di contrastare l’aumento dei ritmi di lavoro, le minacce di licenziamento, la messa in cassa integrazione. In alcuni casi riescono ad imporre la riassunzione di singoli operai. Le loro parole d’ordine sono «per un occhio due occhi, per un dente tutta la faccia» e «castiga uno per educarne cento». È un chiaro programma di riformismo armato.
Con il sequestro Amerio si richiede alla Fiat il ritiro della minaccia di messa in cassa integrazione ventilata da Agnelli. Questo episodio servì a rendere popolari le Br e a creare tra i lavoratori una certa simpatia verso di loro. Le Br avevano, a modo loro, dimostrato che era possibile far capitolare, almeno a parole, l’avvocato padrone mentre le confederazioni sindacali sedevano, in nome di un civile senso di responsabilità, per la prima volta allo stesso tavolo di Umberto Agnelli.
Ancora una volta l’atteggiamento carognesco dei vertici sindacali sta a dimostrare come siano stati proprio loro a dar fiato alle organizzazioni terroristiche e a gettare gli operai più combattivi nella disperazione, facendo loro credere che l’unica alternativa possibile sia il rapimento o il colpo di pistola. Questo sta a dimostrare ancora una volta quello che il nostro partito ha sempre affermato e cioè che sono i falsi partiti operai e i sindacati venduti i peggiori nemici della classe operaia, quelli che dovranno essere sconfitti per primi dal proletariato per poter ricostruire le proprie organizzazioni di difesa immediata e per ricollegarsi al partito della rivoluzione sociale.
In seguito ai primi attentati, altri gruppi, colpiti nella loro fantasia piromane, nascono spontaneamente, non pochi firmano le loro azioni con la famosa stella a cinque punte e le Br ne avallano quasi sempre l’autenticità. Nel 70/71 nascono le Br romane composte esclusivamente da studenti e sottoproletari. Non avendo alcun aggancio con le fabbriche le Br capitoline teorizzano la lotta al fascismo, appiccano il fuoco a qualche sede del MSI o di Avanguardia Nazionale, allo studio di Valerio Borghese e all’automobile di un sindacalista fascista.
«La lotta contro tutti i fascisti – dicono – è una tappa necessaria del nostro cammino verso la liberazione da ogni forma di oppressione e sfruttamento». Niente di più e niente di meno quindi di quanto, all’epoca, era detto dallo stesso PCI. Sono loro stessi infatti ad ammettere che: «anche i revisionisti sono d’accordo che contro i fascisti bisogna lottare, ma concepiscono questa lotta in termini esclusivamente difensivi (...) e sono irremovibili nella convinzione che debbano essere usati solo e senza eccezione mezzi legali». Come si vede la differenza sta solo nei mezzi da usare per raggiungere lo scopo, le Br non considerano il partitaccio come un partito traditore, ma tutt’al più come un partito revisionista composto da "compagni che sbagliano".
Essendo l’organizzazione composta da studenti e sottoproletari se ne scopre la loro funzione rivoluzionaria fino ad arrivare a teorizzare la criminalità come presa di coscienza contro l’oppressione capitalistica.
Nel secondo ed ultimo numero di "Nuova Resistenza" (vedremo poi cosa era questo i giornale) si legge: «La rivoluzione moderna non è più la rivoluzione pulita (...) accumula i suoi elementi pescando nel torbido, avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti coloro che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno (...) In attesa della festa rivoluzionaria in cui tutti gli espropriatori saranno espropriati il gesto ’criminale’ isolato, il furto, l’espropriazione individuale, il saccheggio di un supermercato non sono che un assaggio e un accenno del futuro assalto alla ricchezza sociale (...) ’Il criminale rompe la monotonia e la sicurezza quotidiana, banale della vita borghese’ (K. Marx). Per il fatto stesso di esistere egli pone in crisi l’ideologia della società capitalistica».
Per quello che ci riguarda i Br sono padronissimi di andare a pescare nel torbido (e si è visto i risultati che ne hanno ottenuto!) e credere che tutto fa brodo pur di mettere insieme qualche elemento pitrentottista pronto a sparacchiare su qualche borghese; ma certamente ci vuole tutto il loro coraggio "rivoluzionario" per mettere in bocca a Marx affermazioni sul ruolo rivoluzionario svolto dal sottoproletariato. La citazione di Marx, che è stata interrotta al "punto giusto", continua così: «Egli (il delinquente) preserva così questa vita dalla stagnazione, e suscita quella inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe». Altro che messa in crisi della ideologia borghese!
Engels racconta come i sottoproletari, questa «feccia, avanzo e rifiuto di tutte le classi», durante la rivoluzione tedesca cambiassero fronte dalla sera alla mattina secondo le sorti della battaglia. Nel Manifesto Marx dice che il sottoproletariato: «rappresenta la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società, esso viene qua e là gettato dal movimento di una rivoluzione proletaria, ma per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettersi al servizio delle mene reazionarie». Valutazioni analoghe si ritrovano in tutti gli scritti di Marx ed Engels.
Piccola borghesia e sottoproletariato sono sempre stati comprati ed
usati dalle classi reazionarie a scopi controrivoluzionari.
2.3. Partito armato e Resistenza
Il P.A. come tutta la variopinta costellazione gruppettara considera la resistenza come patrimonio di conquiste proletarie che la borghesia, con tutti i mezzi, cerca di misconoscere. La resistenza, dicono, è stata tradita, o meglio non è stata ancora compiuta, essa deve continuare.
Le Br, sia prima che durante il periodo della clandestinità, si sono più volte richiamate alla resistenza e alle "conquiste" acquisite dalla classe operaia in questo periodo, la maggiore delle quali sarebbe stata l’entrata del PCI al governo. Alla faccia del loro rivoluzionarismo! Nel gennaio ’71 "Sinistra Proletaria" lancia un appello dal titolo: "Organizziamo la Nuova Resistenza"; qualche mese dopo portando lo stesso stemma di "Sinistra Proletaria" (Falce, martello e fucile) esce il primo numero di "Nuova Resistenza". Questo giornaletto che camperà solo due mesi si proponeva di divenire il punto di incontro e riferimento di tutti quei gruppi che riconoscono valida la necessità di opporsi alla controrivoluzione con la violenza. Il problema di una strategia unitaria del movimento di lotta, diceva il giornaletto, trova «molti ostacoli teorici e pratici rendendo difficile la sua soluzione (...) Il lavoro del nostro giornale vuole essere un contributo a sciogliere questi ostacoli presentando la pratica, le tesi e le tendenze di quei movimenti di classe che hanno come base comune lo sviluppo della guerriglia come forma di lotta dominante».
In "Nuova Resistenza", che è il giornale della semi-clandestinità,
si ritrovano due aspetti classici di "Sinistra Proletaria" prima e del
partito armato poi:
1) Alla controrivoluzione borghese si deve rispondere con la guerriglia.
Ma il concetto stesso di controrivoluzione implica che una rivoluzione
ci sia stata, o quanto meno che il proletariato sia all’attacco e tenti
lo scontro rivoluzionario. E infatti, secondo loro, la rivoluzione c’era
stata ed addirittura era stata vittoriosa, solo che le classi dominanti
«non vogliono ammettere di essere state politicamente sconfitte e con
l’ultima cosa che rimane loro – le armi (e dico poco!) –
tentano di soffocare l’aspirazione delle masse ad una giustizia nuova che
nasca dal popolo e da questo sia controllata e gestita»;
2) Altro fatto caratteristico è che di fronte all’urgenza dei
tempi si dichiarano sempre pronti ad unirsi con tutti al di sopra di programmi,
teorie e quisquiglie del genere.
Il richiamo ai valori ed alle conquiste della resistenza appare molto spesso negli elaborati "teorici" del partito armato, come pure ai tentativi della classe padronale di misconoscerle.
Il punto di riferimento dei terroristi è la guerra partigiana minacciata dal ritorno di forme di autoritarismo di tipo fascista o gaullista, quindi contro una borghesia che non sta ai patti, che per mezzo di De Gasperi scacciò, nel ’47, «i comunisti dai centri di potere conquistati» e che oggi non accetta più «mediazioni con l’avanguardia comunista».
Senza stare a riesporre tutta la nostra ben nota valutazione in merito, possiamo affermare che compito della classe operaia è quello di abbattere il regime capitalista, quale che sia la sua forma di governo, e instaurare il proprio regime di classe, non certo quello di resistere alle illegalità e alle forme di aberrazione del potere borghese. La resistenza, in Italia come in tutti gli altri paesi, ebbe il compito specifico di difendere il capitalismo nazionale, gli interessi della borghesia indigena. In Italia, in particolare, anche se è costata il sangue a tanti lavoratori e solo a loro, fu addirittura una carnevalata. Fu proclamata da tutti gli eroici democratici, ma solo dopo che lo stesso gran consiglio fascista aveva decretato la fine del regime nero ed il ritorno ad uno Stato democratico tricolore; dopo che il codardo reuccio si era gettato tra le braccia degli invasori Yankee; solo allora scoprirono che l’alleato germanico era diventato l’invasore tedesco e come tale bisognava scacciarlo dal suolo patrio assieme ai suoi servi fascisti (non tutti, sia ben chiaro, solo quelli che non fecero a tempo a buttare la camicia nera).
Questa è stata la resistenza; per la borghesia un indolore passaggio di consegne dal regime fascista a quello democratico, per il proletariato un inutile spargimento di sangue. «Come si può dire che il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l’antifascismo quale oggi lo vediamo, così può dirsi che la stessa caduta del fascismo, il 25 luglio 43, coprì nel medesimo tempo di vergogna il fascismo stesso, che non trovò nei suoi milioni di moschetti un proiettile pronto ad essere sparato per la difesa del Duce, ed il movimento antifascista nelle sue varie sfumature, che nulla aveva osato 10 minuti prima del crollo, nemmeno quel poco che bastasse per poter tentare la falsificazione storica di averne il merito» (Prometeo, 2.8.1946)
Secondo i teorici del partito armato, durante la guerra partigiana, i comunisti avrebbero conquistato dei centri di potere. Quindi non solo il potere si conquisterebbe a pezzi e bocconi, ma le tappe di questa graduale conquista passerebbero: 1) Attraverso gli appelli, lanciati dal PCI, per la concordia nazionale. 2) Attraverso la lotta armata, sì, ma non contro il capitalismo, bensì contro il nazi-fascismo reo di aver «fatto perdere all’Italia l’impero, la guerra e la sua posizione di nazione rispettata» (L’Unità, 28.2.44). 3) Attraverso il disarmo dei partigiani, operai che si erano illusi di combattere per il comunismo, e l’accoppamento di quei pochi che si rifiutavano di consegnare le armi. 4) Attraverso la partecipazione, prima al regio governo, poi alla Costituente e a quei governi di quello stesso De Gasperi, servo americano, con un ministro di Grazia e Giustizia comunista (Togliatti), che ordinava ai prefetti di ripulire le piazze dai dimostranti e disoccupati dando pene esemplari a tali facinorosi. Da non dimenticarsi infine l’estremo atto togliattiano di riconciliazione che concedeva l’amnistia ai fascisti (1946).
Questi sarebbero i centri di potere conquistati dai comunisti nella
guerra partigiana! Per noi, purtroppo, non sono che delle amare sconfitte
che stanno a dimostrare che il PCI, partito ex comunista, ribattezzato
a Lione prima e a Salerno poi, era passato armi e bagagli, già allora
e già prima di allora, dalla parte della controrivoluzione.
2.4. Nazionalismo piccolo-borghese
Per il partito armato la colpa peggiore dell’attuale regime e del suo principale partito sarebbe quello di aver svenduto all’imperialismo l’indipendenza nazionale. «La DC, dal dopo guerra in poi – dicono le Br – è stato il partito che ha rappresentato nel nostro paese gli interessi tattici e strategici dell’imperialismo americano». In più «la crisi irreversibile che l’imperialismo sta attraversando (...) innesca i meccanismi di una profonda ristrutturazione che dovrebbe ricondurre il nostro paese sotto il controllo totale delle centrali del capitale multinazionale (...) La trasformazione nell’area europea dei superati Stati-Nazione di stampo liberale in Stati imperialistici delle multinazionale (SIM) è un processo in pieno svolgimento anche nel nostro paese (...) La DC è la forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato».
Su questa linea si inquadra il processo contro il regime democristiano con Aldo Moro assiso sul banco degli imputati. Questo processo che doveva essere infatti «un momento della guerra di classe rivoluzionaria (...) indica come obiettivo primario la liquidazione dell’immondo e corrotto regime democristiano».
A questo punto è necessario fare alcune considerazioni.
Le formazioni guerrigliere non si sono mai poste il compito di distruggere l’attuale regime capitalista ed instaurare la dittatura del proletariato; le loro parole d’ordine sono non "abbattimento dello Stato", ma «disarticolare e rendere disfunzionale lo Stato delle multinazionali»; di ritorno per il "nostro paese" a nazione indipendente, di redimerlo dalla tutela straniera.
È vero che il proletariato deve combattere contro l’imperialismo, ma
lo fa soltanto quando lotta contro la propria borghesia interna. Perché
il partito armato non l’ha capito? Non lo ha capito perché suo intento
è quello di conquistarsi la simpatia di sempre più larghi strati della
popolazione genericamente intesa: piccola borghesia, studentume, sottoproletari,
strati di sbandati sociali, che pretendono di difendere se stessi ed il
futuro del "loro paese" lottando per la tutela dei valori nazionali. Questo
loro nazionalismo è frutto insieme e matrice di due macroscopiche deviazioni
del marxismo:
a) L’equiparazione più o meno esplicita fra guerra di emancipazione
nazionale nelle colonie e nelle semicolonie e la lotta proletaria in un
paese ad alto grado di sviluppo capitalistico.
b) Il riconoscimento di potenzialità rivoluzionarie alla piccola-borghesia.
La prospettiva del partito armato è quella di: «staccare l’anello Italia dalla catena imperialista, senza per questo consegnarla all’area socialimperialista (...) Tra le grandi potenze – continuano – si è aperto un grande spazio (?), oggi, nell’area del Mediterraneo (?): lo spazio del non allineamento. È qui che il nostro Paese dovrà trovare il suo posto per ricostruire, nel quadro di un effettivo internazionalismo proletario, una nuova collocazione nella divisione internazionale del lavoro».
Crediamo che non valga la pena spendere delle parole per confutare la possibilità di uno "spazio" tra le grandi potenze in momenti come l’attuale in cui le potenze imperialistiche si preparano alla terza guerra mondiale e si contendono perfino centimetri di terra.
Ma questo cosa è se non una riproposizione della teoria fascista della nazione proletaria che deve scrollarsi di dosso il giogo dell’imperialismo?
E, magari, sempre in nome dell’indipendenza dalle plutocrazie, cercarsi il suo bravo posto al sole! Quale altro significato potrebbe avere la richiesta di una «nuova collocazione nella divisione internazionale del lavoro»?
Il fatto che si rivendichi una equidistanza dai blocchi, in nome dell’indipendenza nazionale, comporta necessariamente che il proletariato dovrebbe fare fronte unico con la propria borghesia nazionale per difendere gli interessi della patria dalle minacce straniere: compito dei lavoratori sarebbe quello di lavorare più e meglio per rendere competitive le merci sul mercato mondiale, rispettare le leggi ed il governo in periodo di pace e difendere i confini, con le armi, in caso di guerra. Si può obiettare che i teorici del Partito armato prospettano tutto questo "nel quadro di un effettivo internazionalismo proletario". La risposta a questa obiezione la dette Lenin 65 anni fa: «Oh, i socialsciovinisti di tutti i paesi sono grandi ’internazionalisti’! Fin dall’inizio della guerra si sono vivamente preoccupati per l’Internazionale. Da una parte essi asseriscono che parlare di crollo dell’Internazionale è ’esagerato’. Infatti non è avvenuto nulla di speciale. Sentite Kautsky: l’Internazionale è semplicemente ’l’arma del tempo di pace’; è quindi naturale che in tempo di guerra questo strumento non si sia dimostrato all’altezza della situazione. D’altra parte i socialsciovinisti di tutti i paesi hanno trovato un mezzo molto semplice – e soprattutto internazionale – per uscire dalla situazione che si era creata. Il mezzo non è complicato: bisogna solo aspettare la fine della guerra. Sino alla fine della guerra i socialisti di ogni paese devono difendere la propria patria e sostenere il proprio governo, e alla fine della guerra "amnistiarsi" reciprocamente, riconoscere che tutti avevano ragione (...) In questo si ritrovano ugualmente d’accordo Kautsky e Plechanov, Vittorio Adler e Heine. Vittorio Adler scrive: "quando avremo superato questo grave periodo, il nostro primo dovere sarà di non rimproverarci a vicenda"» (Lenin, Il Socialismo e la Guerra).
Il programma strategico dei terroristi non può quindi che essere: «liquidazione del corrotto regime democristiano», che svolge una politica antinazionale e filoimperialista. Lottare contro la corruzione del regime significa illudersi che si possa indurre la classe dominante, i suoi partiti, il suo governo a tornare ad un regime di "normalità" ed al rispetto della legge. Fare questo, e farlo a suon di firme o colpi di mitra cambia poco, equivale ad avvalorare la illusione secondo cui l’ambiente borghese, eliminati corruzione e malcostume, presterebbe terreno favorevole alla lotta di emancipazione del proletariato.
«La borghesia commette un unico ’eccesso’: quello di essere al potere. Dire che l’ordine può essere ristabilito placando una parte della borghesia, o con la genuflessione o con la resistenza armata, non è che una traduzione in altri termini della espressione che si può attendere una forma di equilibrio e di assetto sociale senza spezzare il meccanismo del potere borghese, ma solo modificandone alcune forme» (Il Comunista, 7.8.1921).
Da qui a cadere nell’equivoco di assumere l’impegno che se la borghesia rispetterà i limiti delle sue leggi i lavoratori faranno, dal canto loro, altrettanto, il passo è breve. I comunisti non dicono alla borghesia: Bada che se non rientri nella tua legalità faremo la rivoluzione per ricacciartici! Essi si propongono invece di spezzare, con l’azione rivoluzionaria della classe operaia, i limiti posti dal potere borghese.
Dire che l’obiettivo primario per la costruzione del regime socialista
è la liquidazione della DC, è la più enorme bestialità. Quei partiti
che sono oggi i maggiori pilastri del regime capitalista, che con più
accanimento degli stessi fascisti si industriano a soffocare ogni azione
di classe, sono quegli stessi partiti che 35 anni fa dissero la stessa
cosa. Sono quegli stessi partiti che mandarono i lavoratori a crepare sui
monti, che oggi festeggiano il 25 aprile, che predicarono agli operai che
abbattere il fascismo sarebbe equivalso ad abbattere il capitalismo. Si
è visto! Il regime fascista è crollato, il partito fascista è addirittura
fuori legge, ma il metodo di governo fascista è più vivo che mai. I lavoratori
hanno, a differenza del ventennio nero, questa sola soddisfazione: adesso
vengono licenziati da un padrone democratico se non addirittura eurocomunista
e le legnate le ricevono da poliziotti che non sono più sbirri al servizio
di un padrone sciacallo, ma sono dei "figli del popolo", dei lavoratori
sindacalizzati che difendono le istituzioni democratiche.
2.5. Lo spirito democratico del partito
armato
Panorama del 10 luglio 1975 pubblicava alcuni stralci dell’interrogatorio al quale era stato sottoposto dalle Br Mario Sossi. Non prenderemo in considerazione la difesa dell’imputato Sossi, anche perché ne verrebbe fuori un ritratto che poco si addice ad un integerrimo servitore dello Stato. Interessante è però la accusa che le Br gli muovono: «noi non diciamo che il giudice non ci deve perseguire secondo le leggi, però c’è modo e modo di applicare la legge. Tu l’hai applicata con il paraocchi per attaccare proprio con spirito anti-comunista, antirivoluzionario, con spirito del fascista». Più tardi, in una circolare interna, i Br affermavano: «Occorre fare una considerazione di giustizia proletaria che i compagni non possono trascurare. Sossi era entrato nella prigione del popolo come persecutore della sinistra rivoluzionaria. Durante il processo ha maturato tuttavia una seria autocritica (...) tutto ciò gli va riconosciuto».
In seguito, al momento della liberazione di quello che oramai, dopo la seria autocritica, potremmo definire il compagno Mario, le Br giustificheranno il loro operato dicendo che la loro mossa serviva a mettere alle strette lo Stato borghese: «Liberando Sossi mettiamo Coco e chi lo copre di fronte a precise responsabilità: o liberare immediatamente i compagni, o non rispettare le loro stesse leggi». Astuti eh?
Da quanto sopra si vede bene come per i brigatisti il conflitto tra le forze dello Stato borghese e quelle della rivoluzione dovrebbe rimanere nell’ambito della legge. Da una parte e dall’altra è la legge che si deve rispettare. Sia essi quando vengono catturati, come quelli che catturano, sono definiti prigionieri di guerra, richiedono l’applicazione della convenzione di Ginevra e assicurano che i loro prigionieri sono stati trattati secondo tale regolamento. Essi riconoscono allo Stato il diritto di perseguire i rivoluzionari, ma pretendono che esso lo faccia in modo democratico, senza un preciso spirito anticomunista. La legge, in una parola, deve essere uguale per tutti e lo Stato, al di sopra delle parti, deve equamente amministrare la giustizia. Dura lex, sed lex!
Quanto rancida ed ammuffita sia questa ideologia lo dimostra il fatto che i rivoluzionari da sempre hanno combattuto questa impostazione piccolo-borghese. Per i comunisti rivoluzionari pretendere dallo Stato giustizia ed imparzialità: «equivale a sottoscrivere un principio squisitamente borghese, un principio contro il quale ha parlato il socialismo marxista tutte le volte che ha parlato, anche per bocca di Filippo Turati. Il principio che, da quando esiste (...) lo Stato democratico e parlamentare, è chiuso il periodo della violenza tra privati, gruppi e classi della società, e lo Stato esiste per trattare le iniziative di violenza alla stregua di azioni antisociali» (Il Comunista, 14.7.21).
Chi avesse dubbi su quanto i terroristi stessi affermano può benissimo fugarli pensando che, quello che era considerato «un persecutore fanatico (Sossi) della classe operaia, del movimento degli studenti, dei commercianti, delle organizzazioni della sinistra in generale e della sinistra rivoluzionaria in particolare» sia stato, dopo l’autocritica, addirittura riabilitato.
Questo fu il volto con il quale il partito armato, nei suoi anni felici, si presentò: pronto al maneggio delle armi; ma pronto anche ad inchinarsi al cospetto di santa democrazia mai vergine e sempre martire.
In occasione del "caso Sossi", la grande battaglia per la democrazia fu vinta dalle Br, e l’intellighenzia ed il progressismo si schierarono dalla loro parte.
A parte quella vecchia cariatide del fu Lelio Basso, che salomonicamente dichiarò di preferire «dei colpevoli in libertà piuttosto che lasciare uccidere un uomo», ben più autorevoli voci si levarono per condannare l’operato dello Stato. Giuseppe Branca, ex presidente della Corte Costituzionale, dichiarava: «Mancando alla parola data, quello Stato cui si chiede di essere autorevole, finisce col perdere ogni credibilità (...) Chi ci garantisce che uno Stato incapace di mantenere oggi la parola data a dei delinquenti saprà mantenerla domani a dei cittadini onesti?» (L’Espresso, 2.6.74). Panorama (30.5.74): «È questo lo Stato che mette legittimamente in libertà i mafiosi e tiene in carcere i suoi cittadini per otto anni senza avere accertato se siano colpevoli, che per non cedere al ricatto ha lasciato ammazzare chi fedelmente lo serve. E vorrebbe lasciare uccidere Mario Sossi (...) per non trattare con misteriose brigate rosse, che hanno tuttavia rivolto al ministro dell’interno Taviani, al P. G. Coco, e al capo dell’ufficio politico di Genova dott. Catalano, accuse che, il meno che si possa dire, lasciano disorientata l’opinione pubblica». L’Espresso (2.6.74): «È giusto reagire alla illegalità e alla violenza fisica di un sequestro con l’illegalità e la violenza della menzogna di Stato?».
Il partito armato poté gioire di questa levata di scudi contro un potere disonorato; esso aveva raggiunto lo scopo che si era prefisso: mobilitare la pubblica opinione in difesa della democrazia contro una degenerazione in senso totalitario.
Un altro aspetto significativo è che il regime parlamentare non venga mai attaccato. Quando i teorici del partito armato toccano questo problema lo fanno solo per rammaricarsi di dover assistere «allo svuotamento progressivo del potere del Parlamento e al rafforzamento di quello dell’esecutivo (...) Lo Stato non è più – dicono – come nella tradizione liberal-democratica espressione dei vari partiti, ma ora sono i partiti ad essere espressione dello Stato; e l’esecutivo (...) lo strumento straniero degli interessi della borghesia imperialista nell’area nazionale» (Malgrado tutto la patria è sempre sul Grappa!).
Anche noi, e molto prima di loro, abbiamo messo in evidenza, ma non denunciato, tale svuotamento. Fin dall’immediato dopoguerra netta fu la nostra posizione: «La guerra in corso è stata perduta dai fascisti, ma vinta dal fascismo. Il mondo capitalista, avendo salvato (...) l’integrità e la continuità delle sue possenti unità statali, realizzerà un nuovo ulteriore sforzo per dominare le forze che lo minacciano ed attuerà un sistema sempre più serrato di controllo dei processi economici e di immobilizzazione dell’autonomia di qualunque movimento sociale e politico minacciante di turbare l’ordine costituito (...) I vincitori dei fascisti e dei nazisti, in un processo più o meno breve e più o meno chiaro, riconosceranno con i loro atti, pur negandolo con le proclamazioni ideologiche, la necessità di amministrare il mondo con i metodi autoritari e totalitari che ebbero il primo esperimento negli Stati vinti. Questa verità fondamentale (...) ogni giorno di più si manifesta nel lavoro di organizzazione per il controllo economico, sociale e politico del mondo» (Prometeo, 1946).
Abbiamo poc’anzi detto che prendiamo atto della fascistizzazione dello Stato. Certo, i comunisti si battono contro il fascismo, organizzano e chiamano le masse proletarie ad insorgere contro di esso, ma allo stesso modo organizzano e chiamano le masse proletarie ad insorgere contro la democrazia, come contro qualsiasi altra forma di potere capitalistico.
Mai si dovrà dare tregua al capitalismo e tanto meno in vista di una democrazia minacciata, considerando positivo l’abbattimento della impalcatura democratica e parlamentare da qualsiasi parte esso provenga.
Con Marx e Lenin è stato una volta per tutte specificato che, anche nella più democratica delle repubbliche, lo Stato costituisce il comitato di interessi della classe dominante. Da allora sono da considerarsi fantasie il pretendere, grazie alla democrazia elettiva, una forma di Stato nel quale, ad uguale diritto, siano rappresentati e tutelati tutti i componenti della società, qualunque sia la loro condizione sociale ed economica. «Lo Stato politico, anche e soprattutto quello rappresentativo e parlamentare, costituisce una attrezzatura di oppressione. Esso può ben paragonarsi al serbatoio delle energie di dominio della classe economica privilegiata, adatto a custodirle allo stato potenziale nella situazione in cui la rivolta sociale non tende ad esplodere, ma soprattutto a scatenarle sotto forma di repressione di polizia e di violenza sanguinosa non appena dal sottosuolo sociale si levino i fremiti rivoluzionari» (Forza-violenza-dittatura nella lotta di classe).
Se in certi paesi e in determinate situazioni, come ad esempio in Italia ed in Germania, si passò dal bengodi democratico alla dittatura fascista, si trattò solo di una nuova forma di organizzazione sociale imposta al capitalismo dalle condizioni economiche e dallo scontro sociale. Ai comunisti non rimaneva che continuare a marciare sul loro immutabile cammino perché non avevano mai pensato di poter arrivare al socialismo evitando lo scontro delle opposte forze di classe. «Il grande errore di valutazione di tattica e di strategia che favorì la vittoria della controrivoluzione fu quello di deprecare questa potente conversione del capitalismo dal terreno della ipocrisia a quello della aperta azione di forza come fosse un movimento revocabile nella storia, e di contrapporgli non l’abbattimento della forza capitalistica, ma la stupida ed imbelle pretesa che questa, rifacendo all’inverso il cammino storico che noi marxisti le avevamo sempre attribuito, e, per comodità di capi politici istrioni e vigliacchi, si compiacesse di rinculare dallo sfoderamento delle sue armi di classe sulla posizione vuota e superata della mobilitazione senza guerra che costituiva il compiacente aspetto del periodo precedente».
Nel periodo del 1° dopoguerra, di fronte al nascere ed ingigantirsi della reazione "illegale" fascista, reazione voluta, allevata, finanziata e protetta dallo Stato liberal-democratico, i comunisti si scagliarono senza mezzi termini contro i Turati ed i Serrati per il loro atteggiamento belante, proprio nella fase in cui la borghesia era costretta a gettare la propria maschera democratica. Questi signori allora, come oggi i teorici del partito armato, chiedevano alla borghesia di continuare la farsa liberistica pur sapendo che la dittatura sul proletariato era sempre esistita e che l’apparato statale da sempre aveva la specifica funzione di difendere il potere politico ed economico della minoranza borghese dall’assalto rivoluzionario.
I marxisti hanno sempre affermato che, dal momento che mai il nemico
ci consegnerà il potere senza combattere, è da preferire la fase in cui
lo Stato capitalista è costretto a svelare le proprie armi perché sarà
per noi meno difficoltoso abbatterlo. «Da questa corretta valutazione
nasce la conseguenza tattica che ogni rivendicazione per il ritorno all’iniziale
democrazia borghese è anticlassista e reazionaria, e perfino antiprogressista».
2.6. Partito armato e partito opportunista
Anche i partiti opportunisti sono restati vittime di attentati da parte dei terroristi. Il loro "contributo di sangue" ha fugato ogni dubbio su una presunta relazione con il terrorismo "rosso". Ma il fatto che il redattore dell’"Unità", Ferrero, sia stato azzoppato ed il sindacalista del PCI, Guido Rossa, addirittura ucciso, non significa affatto che da parte del partito armato sia stata compiuta una critica distruttiva della politica svolta dai partiti traditori del marxismo.
Si è visto come le Br romane, al loro sorgere, riguardo al problema dell’antifascismo dichiarino di perseguire le stesse finalità del PCI, rammaricandosi che esso svolga la sua "lotta" usando solo ed esclusivamente strumenti legali.
In un loro documento del 1971 le Br accusano i revisionisti di adottare una strategia che «si dimostra sempre più suicida di fronte all’attacco reazionario». Dire che il partitaccio conduce una lotta suicida non significa affatto dire che esso svolge una politica controrivoluzionaria, ma soltanto che, a differenza degli sparafucile a cinque punte, non ha compreso quali in realtà siano gli interessi del proletariato ed i metodi di lotta adatti a conseguirli. Infatti l’errore del PCI sarebbe quello di non capire che la classe dominante ha lasciato cadere la soluzione di "sinistra" e lavora: «alla formazione di un blocco d’ordine reazionario quale alternativa al centro-sinistra» e a maggior ragione al compromesso storico; quindi «scartata l’ipotesi del compromesso storico, ai gruppi dominanti della borghesia non rimane che un’unica scelta: quella della svolta a destra (...) Questo progetto mira alla trasformazione della repubblica nata dalla Resistenza nel senso di una repubblica presidenziale» (maggio ’74). Questo «finché ci sarà spazio in Italia per soluzioni controrivoluzionarie che mantengono l’apparenza e la forma della democrazia borghese, pur calpestandone la sostanza», esaurite queste risorse non rimarrà alla borghesia che la soluzione golpista. La lacrimevole apprensione sulla sorte che potrà capitare alla democrazia borghese, calpestata nei fatti e mantenuta solo nell’apparenza, non può che far "onore" al partito armato e forse la giustizia borghese terrà questo loro attaccamento alle istituzioni nella debita considerazione. Noi crediamo di non dovere spendere una sola parola.
Tornando ai rapporti del P.A. con il PCI, date simili premesse, ci sembra del tutto ovvio che si vada a ricercare: «l’origine dell’involuzione socialdemocratica dei partiti comunisti (...) nell’incapacità della loro organizzazione a far fronte ai livelli di scontro che la borghesia progressivamente impone al movimento di classe».
Non c’è quindi all’origine di tutto il "tradimento" dei capi quanto l’inadeguatezza strutturale dell’arma che essi utilizzano. Il problema starebbe ancora una volta non nel programma, cioè nella politica di tradimento che oramai da più di 50 anni i partiti stalinisti conducono, ma nel loro tipo di organizzazione non "al passo con i tempi".
Detto questo il Partito armato si dichiara ottimista pensando che la storia gli darà ragione e che: «la sinistra subirà, con il progredire dello scontro di classe, un processo di polarizzazione in cui la discriminante sarà inevitabilmente la posizione sulla lotta armata. In questo processo sarà coinvolto anche il PCI. Per questo – dicono le Br – rifiutiamo ogni settarismo ideologico, proprio degli intellettuali pseudo-rivoluzionari e riaffermiamo la nostra posizione fortemente unitaria» (settembre ’71).
Senza fare ulteriori indagini sulla loro teoria, ne abbiamo più che a sufficienza per affermare che non hanno niente a che fare con il marxismo rivoluzionario.
Per i comunisti, da sempre, il peggiore nemico è la socialdemocrazia. È sempre stata la socialdemocrazia, e proprio nei momenti in cui la reazione borghese gettava la maschera per passare all’aperta repressione antioperaia, a disarmare il proletariato, sia ideologicamente che materialmente, quando addirittura non si è presa, in prima persona, il compito di sterminare le avanguardie rivoluzionarie e le masse in lotta per il comunismo.
Ritenere che un partito, con una tradizione semisecolare di tradimento, possa prendere le armi in difesa degli operai oppressi significa soltanto essere al servizio (anche senza saperlo) di questo partito, significa stare dalla parte della controrivoluzione. Il partito armato, pur dichiarando che il PCI segue una politica opposta alla sua, afferma che si tratta di una «grande forza democratica (e) non sembra né utile, né importante continuare ad attaccarlo con raffiche di parole» (marzo 73).
È vero, ultimamente i terroristi hanno ricominciato a sparare le loro raffiche (di parole ed anche di piombo) anche sugli opportunisti. Berlinguer viene definito Kautsky in sedicesimo e i berlingueriani, a seconda dei casi, spie, agenti della controrivoluzione, ecc. Ma le loro accuse, per quanto ci risulta, sono sempre rivolte contro Berlinguer ed i berlingueriani, come se all’interno del PCI convivessero le due famose "anime": quella revisionista e quella rivoluzionaria.
Come tutti i gruppettari, senza distinzione, anche i cervelli del partito armato credono che nel PCI alberghino ancora forze comuniste e rivoluzionarie tanto è vero che al momento buono «gli aderenti comunisti che ancora militano o credono in quel partito sapranno certamente fare le loro scelte».
Dire che gli operai che stanno nel PCI sono in buona fede e che al momento dello scontro rivoluzionario intuiranno da quale parte stare è un conto, ed è vero; riconoscere loro una patente di comunisti è un altro, ed è falso.
Comunista è solo colui che è inquadrato e milita nel partito comunista rivoluzionario. Chi è in buona fede è per definizione in errore, non ne ha colpa, ma il fatto di non averne colpa non lo innalza certamente al livello di combattente rivoluzionario.
Anche il compromesso storico, secondo i terroristi dipenderebbe: 1) dalla incomprensione «delle profonde trasformazioni strutturali e politiche che si stanno compiendo per opera della DC e della Confindustria all’interno della controrivoluzione globale imperialista»; 2) dalla «incapacità di indicare una strategia di classe alternativa». In altre parole i partiti social-traditori non avrebbero capito «il carattere reazionario ed imperialista della DC».
Malgrado tutto, però, «il compromesso storico costituisce un potente fattore di crisi politica del regime; incute timore ed accelera contraddizioni nei settori più conservatori e reazionari» (aprile ’75).
Queste enunciazioni si innestano perfettamente nella rivendicazione di riconquistare quei centri di potere, che i comunisti avrebbero conquistato durante la resistenza e dai quali il servo americano De Gasperi li avrebbe estromessi; di reimporre al potere borghese la "mediazione dell’avanguardia comunista".
Il partito armato va piagnucolando per il fatto che la borghesia italiana adegua l’apparato «economico e finanziario nazionale (...) ai programmi già stabiliti a livello internazionale» con conseguente «blocco degli investimenti e crescita verticale della disoccupazione». Questa, cari signori, è la classica tesi di tutti i peggiori socialdemocratici ed anche dei fascisti, secondo cui il nostro paese dovrebbe intraprendere una politica autonoma dall’imperialismo, i nostri padroni dovrebbero sviluppare gli investimenti per dar lavoro ai nostri operai; i nostri operai si dovrebbero accontentare del giusto per permettere ai padroni di fare gli investimenti senza i quali la disoccupazione aumenterebbe in modo vertiginoso ed il paese cadrebbe nelle mani dell’imperialismo straniero.
Per essere dei rivoluzionari non c’è proprio male!
2.7. Il premarxismo del partito armato
Sia da parte dei guerriglieri metropolitani che da parte dello Stato e dei suoi striscianti pennivendoli si cerca di fare intendere agli operai che esistono due sole strade: o si è fedeli allo Stato ed alla democrazia con i suoi pregi ed i suoi difetti, oppure si imbraccia individualmente un fucile e con questo si tenta di colpire lo Stato nei suoi organi vitali.
L’alternativa sarebbe: o conservazione, o guerriglia. In entrambi i casi, e secondo i "teorici" di entrambe le parti, la classe lavoratrice non ha da svolgere un ruolo autonomo, ma semplicemente attendista. A difendere la libertà del popolo ci penserà, dicono i servi del regime, il gioco e la dialettica parlamentar-democratica; mentre i terroristi si propongono di difendere gli emarginati dalle ingiustizie che ledono i diritti dell’uomo.
Negando un ruolo autonomo alla classe operaia, i gruppi terroristici ne negano il programma autonomo e quindi rifiutano pure, e con accanimento, la necessità del partito della classe operaia.
Le Br, ad esempio, in tutte le loro riflessioni ideologiche o risoluzioni strategiche mettono in evidenza il loro programma antipartito, negando tutto ciò che si riferisce all’insegnamento della nascita dei partiti comunisti e dell’Internazionale di Mosca, da loro considerata, a seconda dei casi, come «una esperienza storica del movimento operaio già battuta in passato e senza fiato per l’avvenire» oppure come una politica «liquidazionistica che dà per scontata la sconfitta politica della classe operaia».
Unica forma organizzativa per combattere il capitalismo sarebbero i gruppi clandestini ed unico mezzo efficace il terrorismo e la guerriglia urbana; e attraverso questi divulgare «l’idea forza della possibilità e della necessità di far decollare un processo rivoluzionario per la conquista del potere». Alcuni anni fa, quando la predicazione dell’uso della guerriglia era più di moda di ora, scrivemmo: «la rivendicazione della lotta armata non basta a fare un marxista più che non basti a farlo il riconoscimento della lotta di classe: anche il rivoluzionano nazionale borghese rivendica la prima, e ammette, sebbene non la predichi alla classe oppressa, la seconda. Non è marxista chi ’non spinge il riconoscimento della lotta di classe al riconoscimento della dittatura del proletariato’, quindi chi non possiede la visione dell’intero processo che ad essa dittatura conduce, del suo significato nel quadro della lotta internazionale della classe operaia, del ruolo del partito nella conquista del potere e nel suo esercizio» (Programma Comunista, n.16 - 1967).
Non è nostro compito indagare se sia sincero il disgusto che, individualmente presi, i terroristi hanno verso la corruzione, la codardia ed il conformismo dei partiti sedicenti comunisti o socialisti (anche se tutto il loro comportamento lasci pensare il contrario). Ammettiamo pure che questo sentimento, in alcuni di loro, sia sincero; ma essi non si chiedono se tale degenerazione non sia la conseguenza necessaria del passaggio dell’Internazionale e del primo Stato operaio nel campo della politica demo-popolare, né, quindi, se l’unico modo per uscire non sia far piazza pulita di ogni "innovazione" teorica e pratica, visto che sono proprio le "innovazioni" a far passare il tradimento all’interno delle file del proletariato, e tornare ai fondamenti stessi del marxismo rivoluzionario.
Per loro, al contrario, esiste un’altra ricetta per guarire dall’imborghesimento che è, ai loro occhi, di natura essenzialmente morale: la violenza come mito. Al di sotto degli stessi Sorel ed anarco-sindacalisti vecchia maniera, per i quali la violenza aveva come protagonista il proletariato, per gli attuali guerriglieri essa non è esercitata dalla classe operaia e nemmeno dal popolo, ma dall’individuo cosciente che si schiera su un fronte, non di classe, ma di guerriglia nazionale, a fianco di altri individui coscienti che, senza badare da quale ideologia ispirati, abbiano scelto la stessa via.
Per Sorel, la violenza rigeneratrice era arma del proletariato e culminava nello sciopero generale. È chiaro come questa sia una posizione antimarxista. Al 2° congresso dell’Internazionale comunista si dichiarava infatti che: «con il solo sciopero generale, con la sola tattica delle braccia incrociate la classe operaia non può riportare vittoria completa sulla borghesia. Il proletariato deve spingersi fino all’insurrezione armata».
La lezione che i moderni "combattenti per il comunismo" ne traggono è che l’azione violenta per essere ben esercitata presuppone il distacco da qualsiasi azione proletaria di massa. Lo sciopero generale viene cancellato dalla ideologia e della storia come meschina forma di difesa economica: lo sciopero viene definito intrinsecamente conformista, minimalista e aperto al compromesso; la guerriglia offensiva, quindi è il solo metodo di sovversione.
Le lotte rivendicative ed economiche del proletariato non vengono considerate di interesse, ma al contrario vengono valutate come degli intralci alla presa di coscienza ed alla presa del potere.
Accanto a questa, che potremmo definire come posizione ufficiale, ne esiste un’altra, quella "movimentista", che però fa perfettamente il paio con la prima: essa si basa sulla "idea-forza" del rifiuto del lavoro. Non solo ci si stupisce che il proletariato possa lottare contro i licenziamenti, la disoccupazione, ma addirittura negano che «una simile arretratezza possa divenire propulsiva per il processo rivoluzionario». Come dire: «Visto che fino a che ci sarà il lavoro salariato ci sarà lo sfruttamento capitalistico; lottare per la difesa del salario e del posto di lavoro equivale a lottare per il mantenimento del regime di sfruttamento». Come dialettica non c’è male!
La paura di contaminarsi con tutto ciò che appare vile materia è del resto comune a tutti i gruppi della "nuova sinistra".
Visto che il proletariato, fino a che non si impossessa come classe di una teoria rivoluzionaria, può arrivare solo all’ organizzazione trade-unionista e condurre delle lotte di difesa anche possenti, ma senza riuscire a superare l’ambito del sistema di produzione capitalistico, questi signori ne deducono che, una volta propagandata l’"idea-forza" della rivoluzione e della dittatura proletaria, la lotta rivendicativa di difesa è superata, quando addirittura non sia reazionaria.
Constatando che i partiti tradizionali erano finiti nel pantano della corruzione, gli anarco-sindacalisti deducevano che il partito doveva sparire dalla scena politica per far posto al sindacato; i "combattenti per il comunismo" liquidano allo stesso tempo partito ed organismi sindacali sostituendoli con commandos partigiani.
La guerriglia, essendo unione di uomini legati da slancio morale e da una generica volontà di fare la rivoluzione, non ha un programma direttivo perché essa si dirige da se stessa; la lotta armata stessa farà trovare il programma ed organizzare il partito.
Per noi marxisti, al contrario, la violenza è di classe: la esercita il proletariato costretto da condizioni oggettive, deterministiche ed economiche. L’organo della sua direzione è il partito della classe operaia perché: «il partito comunista non ha interessi diversi da quelli della classe operaia. Il partito comunista si distingue dall’intera massa degli operai in ciò, che esso possiede una visione generale della via che la classe deve storicamente percorrere (...) Finché il proletariato non avrà conquistato il potere statale, finché il suo dominio non si sarà per sempre consolidato, rendendo impossibile ogni restaurazione borghese, il partito comunista non comprenderà di regola nella sua organizzazione che una minoranza di operai (...) La necessità del partito politico del proletariato sparisce solo con la completa eliminazione delle classi» (Risoluzione del 2° Congresso dell’IC).
Alla base di ogni rifiuto del partito inteso come patrimonio di dottrina e di lotte noi vediamo solo l’ideologia borghese con le sue metafisiche categorie di libertà, uguaglianza, fratellanza.
Il rifiuto del partito dimostra che alla base della società e della storia c’è, secondo le Br, l’individuo anche se a più riprese parlano di classe operaia e di proletariato. Queste parole, nelle loro bocche, hanno un significato del tutto diverso da quello che dà loro il marxismo. Per i comunisti la classe non è la somma di individui e la coscienza di classe non è la media delle opinioni dei suoi membri. Rivendicare una "autonomia operaia" contro il partito equivale a pretendere che questa coscienza sia uniformemente distribuita su tutti i membri della classe, per arrivare poi, dopo aver appreso che la maggioranza degli operai, individualmente presi, non sono al momento rivoluzionari, alla conclusione che la classe operaia non è più rivoluzionaria e che la rivoluzione è compito di pochi valorosi votati al sacrificio.
È impossibile pretendere che ci sia una coscienza generale nel senso che tutti la condividano; finché ci sarà il capitalismo la coscienza integrale del proletariato non può essere che patrimonio del partito.
Anche la borghesia sa che il suo ordinamento sociale non ha nulla da temere finché si trova di fronte a degli individui e che il vero pericolo è la costituzione del proletariato in classe e che questa si compie solo nel partito e mediante il partito. «Questa minoranza, il partito, non è qualcosa di esterno alla classe, ed è ciò grazie al quale la classe esiste come classe, solo esso può integrare tutte le lotte parziali e spontanee della lotta storica per il comunismo. A coloro che cianciano di spontaneità noi rispondiamo: la vera spontaneità storica del proletariato è il partito» (Programma Comunista. n.6 - 1969).
Lenin, contro i partigiani della spontaneità, ha ripetutamente insistito su questo aspetto: «la coscienza politica di classe può essere portata agli operai solo dall’esterno; cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno dei rapporti della sfera operai e padroni».
Rieccoci quindi alla questione di prima: il movimento rivoluzionario per noi, come per Marx e Lenin, si definisce prima di tutto per il suo contenuto, la sua dottrina, il suo programma. Appunto per ciò non può che essere centralizzato e antidemocratico. Il partito rappresenta la coscienza storica del proletariato come classe e non può essere che unitario e fondato sulla dittatura dei principi.
A questo punto risulta più che evidente il motivo per cui tutta la produzione "teorica" del partito armato si schieri contro quelli che sono gli insegnamenti della III Internazionale, del partito e dell’azione di classe.
Ammettiamo pure che i teorizzatori della guerriglia vogliano combattere
la dittatura del capitalismo internazionale, ma non sanno come. Essi non
vedono che la classe operaia senza il suo programma storico è un corpo
senza testa. Per costoro ogni lavoratore dovrebbe, partendo dalle proprie
condizioni immediate, percorrere in modo autonomo la strada che porta là
dove essi sono, cioè in piena ideologia borghese.
3. Fedeltà allo Stato da parte delle
mezze classi
e dei socialtraditori
L’unico effetto, a parte quelle che potevano essere le sue intenzioni, che ha avuto tutta l’attività del partito armato è stata quello di rafforzare il regime borghese. Il terrorismo è servito da pretesto allo Stato per imporre a tutti un atto di fede al regime democratico; tutti sono stati chiamati ad esprimersi in merito all’uso della violenza come metodo di lotta politica.
Chi non sta con lo Stato e non si impegna a difenderlo – si è detto – si trova ipso facto nell’area del terrorismo, è un agente delle brigate rosse, sarà quindi considerato un nemico della democrazia, non gli saranno garantiti né il lavoro, né la libertà. La risposta, come si è visto, è stata da parte di tutti – noi esclusi – unanime: Viva il patto sociale, viva la democrazia, abbasso la violenza!
La risposta del partito di classe deve necessariamente essere un’altra. I comunisti, prima ancora di esprimere un giudizio, devono constatare che ogni volta che a dei rappresentanti della borghesia capita un incidente sul lavoro, essa inscena una evidente speculazione e, con l’incondizionato appoggio dei traditori della classe lavoratrice, sfruttando i facili motivi sentimentali, riorganizza e potenzia il proprio apparato repressivo per soffocare il proletariato rivoluzionario sotto la cappa della concordia nazionale, della collaborazione di classe, della galera e del piombo democratici. La borghesia che vive ed ingrassa sui cadaveri dei lavoratori, quotidianamente immolati sull’altare del profitto, non si commuove nemmeno di fronte ai corpi esanimi dei propri servi. Sono morti che servono al potere soltanto per gettare definitivamente la maschera legalitaria, divenuta ormai solo ingombrante, e giustificare l’aperto ricorso a quei metodi consoni alla sua natura reazionaria di classe. Nemmeno i pavidi i bottegai si commuovono, sebbene abbassino prontamente le loro saracinesche in segno di lutto. I bottegai chiudono, ma per continuare, dietro il bandone abbassato, la caccia al profitto in cui sta tutta la loro morale di classe. Oltre a ciò avrebbero anche la spudoratezza di pretendere, dai proletari e dai comunisti, un giudizio di condanna verso chi usa, nei loro confronti, violenza.
«Ben altra sia la nostra parola. La canata avversaria non ci impegna a dire il nostro giudizio su atti che essa sceglie ad argomento gradito delle sue manovre. Il nostro programma è noto; non va rabberciato o scusato per dare spiegazioni all’insolenza della stampa antiproletaria. L’accendersi di una lotta che dà luogo a tragici episodi non si giudica da noi col dare sanzioni o rifiutarne. Le nostre responsabilità risultano chiare dalle nostre dichiarazioni programmatiche. Per il resto, noi vediamo riconfermata la grande verità storica proclamata dal comunismo, che alla situazione attuale non c’è altra uscita che la vittoria rivoluzionaria dei lavoratori in un nuovo ordine veramente civile, o l’infrangersi di ogni forma di convivenza sociale in un ritorno alla barbarie più tetra. La borghesia piuttosto che scomparire dalla storia vuole la generale rovina della società umana. Le bande bianche, che si formano per spezzare l’avanzata emancipatrice dei lavoratori, lavorano per questa seconda tenebrosa soluzione. Noi crediamo e speriamo che saranno spazzate dalla forza cosciente del proletariato, ma anche se ciò non fosse, in nessun caso esse salveranno dalla rovina finale il fradicio ordinamento borghese». Questa fu la parola che il P.C.d’ltalia, nel 1921, all’indomani dell’attentato al teatro Diana, rivolse ai lavoratori; questa stessa parola rilanciamo noi oggi alla classe operaia.
Ancora una volta, oggi come nel 1921, la nostra parola si distingue da quella di tutti gli altri, soprattutto da quella dei peggiori nemici della classe operaia: ieri i socialisti, oggi il PCI.
Il PCI per bocca dei suoi giannizzeri chiede a gran voce: «solidarietà politica fra tutte le forze democratiche per consentire al governo di fare il salto (...) ad un grado di efficienza eccezionale, creare con energie straordinarie le nuove strutture di polizia, per i servizi di informazione, per i servizi segreti».
PCI e sindacati accorrono con estrema solerzia a puntellare il fradicio carrozzone democratico, dichiarandosi pronti ad accollarsi la gestione degli interessi capitalistici, anche sostituendosi a quel regime e a quei capitalisti da essi definiti rinunciatari.
Quanti predicano il rifiuto della violenza lo fanno solo per disarmare la classe operaia, ma sono pronti, al contrario, ad usare la violenza ogni volta che il proletariato si ribelli al suo stato di sfruttamento. In occasione dell’uccisione dell’operaio piccista Rossa, Luciano Lama dichiarava legittimo l’uso della violenza e la sua personale disposizione anche ad impugnare le armi contro chiunque si proponga di abbattere questo Stato capitalista. A distanza di qualche giorno, dalla colonne dell’Unità, Pajetta rivendicava per gli iscritti al suo partito il diritto di fare la spia definendolo dovere di italiano, e lanciava il seguente appello: «contribuiamo a far identificare e a far condannare il nemico. Come una volta abbiamo fatto, come sempre abbiamo fatto» (L’Unità, 29.1.79).
Di fronte alla solennità della difesa del regime, anche i recalcitranti gruppettari hanno subito fatto pubblica abiura del loro passato. Sono stati anzi prontissimi a dimostrare la loro maturità non disdegnando nemmeno di mescolare le loro firme "rivoluzionarie" con quelle del pretume oscurantista in calce ad appelli lacrimevoli. I dottorini hanno bisogno di dimostrare che sono persone civili, istruite, ben educate e come tali non possono non schierarsi dalla parte della difesa della vita umana, da loro considerata sacra (se si tratta di quella dei borghesi; i lavoratori, si sa, sono soggetti ad... incidenti). Noi gli chiediamo: "da quando i rivoluzionari, perché da rivoluzionari vi travestite, hanno avuto bisogno di certificati di buona condotta rilasciati dal sistema che si propongono di abbattere"?
Noi siamo rivoluzionari non benché, ma perché predichiamo la necessità della lotta di classe e della presa violenta del potere politico e perché ci permettiamo di affrontare l’opinione pubblica con tutto il bagaglio dottrinale e storico del comunismo rivoluzionario senza nulla togliere o nulla aggiungere per "adeguarlo" ai tempi, e sentire il bisogno di dover rendere conto a nessuno salvo alla nostra immutabile dottrina. Gli altri, i Piperno, i Negri, i terroristi pentiti o penitenti compiano la loro "evoluzione" fino in fondo, arrivino a proporre i loro servigi allo Stato. Ci auguriamo che ciò accada quanto prima, perché quando questo avverrà sarà caduta un’altra barriera innalzata dalla ideologia borghese per impedire al proletariato di ricollegarsi al proprio partito rivoluzionario di classe.
Le presunte lotte contro il terrorismo, contro le variabili impazzite, i compagni che sbagliano, l’eccessivo militarismo ecc., servono a questi signori solo per combattere la violenza tout court, a farsi garantisti del sistema.
Tutta la feccia ex-sessantottesca ed extraparlamentare è sulle stesse posizioni.
Si paragona l’attuale situazione politica a quella degli anni 1921/22 e si reclama a furor di popolo, come allora venne fatto dai rinnegati socialisti, uno Stato forte che sia in grado di difendere con tutti i mezzi le istituzioni democratiche dalla eversione totalitaria.
Il Sig. Negri Dr. Antonio, dopo lo scherzetto che il duo PCI-Calogero gli ha fatto, da persona intelligente quale è, ha capito subito (anche se in ritardo) da che parte stare ed abbandonando velleità sanguinarie proclama: «la pace come arma, come elemento mortale contro lo sviluppo capitalistico». Ad una così alta considerazione della via pacifica al socialismo non era arrivato nemmeno il PCI, che si limita a parlare di "sviluppo verso forme di socialismo", di "democrazia progressiva", ecc..
L’uso della violenza da parte della classe operaia nasce dal fatto che le classi possidenti vivono dello sfruttamento delle classi lavoratrici e non possono mantenere i propri privilegi che adoperando, contro queste ultime, la violenza armata del loro Stato politico. Chi nella società divisa in classi si batte contro l’uso della violenza non fa altro che disarmare la classe sfruttata ed appoggiare le classi dominanti. A chi ciancia di comunismo volendoci presentare un Carlo Marx barbuto e pacioccone come antesignano della lega per la difesa dei diritti umani, mentre la teorizzazione della violenza di classe sarebbe una distorsione asiatico-leninista, a questi signori sbattiamo sul grugno alcune citazioni del vecchio rivoluzionario di Treviri: «Vi è un sol mezzo con il quale l’agonia mortale della vecchia società e i sanguinosi dolori che accompagnano il parto della nuova società possono essere abbreviati, semplificati, concentrati – un sol mezzo – il terrore rivoluzionano».
Vi è di più, per Marx ed Engels l’uso della violenza ha anche un valore pedagogico determinante: «La rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere rovesciata in nessun altro modo, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire soltanto in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto lo sterco secolare, e diventare così capace di fondare su nuove basi la società» (Marx, Ideologia Tedesca).
Quando ai comunisti era ancora concesso scrivere sull’Unità affermavano: «La democrazia ha fatto il suo tempo, lungi dal restaurare gli ideali sui quali piangono i vari Amendola e Turati, la rivoluzione delle grandi masse occidentali li farà assistere ad una satanica girandola di calci nel culo a Santa Democrazia mai vergine e sempre martire» (L’Unità, 16.4.24).
Così rimane invariata la nostra posizione sulla proposta avanzata dalle sinistre, vecchie e nuove, di uno Stato forte. «Noi comunisti non siamo così fessi da chiedere un governo forte. Se pensassimo che quello che chiediamo può essere conseguito, chiederemmo un governo veramente debole, che ci garantisse l’assenza dello Stato e della sua formidabile organizzazione. Siccome il proletariato ha il compito di spezzarlo questo vostro maledetto ordine, per costruire il suo sulle rovine di esso, il peggiore nemico è chi si propone di mantenerlo con maggiore energia(...) Quindi i comunisti denunciano come fraudolento il programma della sinistra, sia quando geme per le pubbliche libertà, sia quando si lagna che non c’è il governo forte (...) Non siamo dunque né per il governo debole, né per quello forte, né per quello di destra né per quello di sinistra (...) siamo per un solo governo: quello rivoluzionario del proletariato. Viva il governo forte della rivoluzione» (“Il Comunista”, 2.12.21).
La borghesia ed i suoi "sinistri" servitori orchestrino pure le loro
macabre adunate in difesa delle istituzioni democratiche, noi saremo estranei
a simili manifestazioni, che hanno un preciso scopo controrivoluzionario.
Da parte nostra non verrà mai una condanna morale contro i terroristi
che colpiscono i rappresentanti della classe a noi nemica. La nostra condanna
e la critica impietosa che facciamo al terrorismo si fonda, non sul rifiuto
dell’azione violenta, ma sulla base del programma del marxismo rivoluzionario.
4. Le leggi speciali contro il proletariato
La riforma della legge Reale sulla quale si trovarono uniti tutti i partiti dell’accordo a cinque, la legge contro il terrorismo, varata per il rapimento Moro con decreto legge del governo, sempre con il pieno appoggio di tutti i partiti della maggioranza, le nuove "leggi speciali" e le ancora più speciali proposte di legge costituiscono un ulteriore rafforzamento dello Stato borghese ed hanno una funzione esclusivamente anticomunista ed antiproletaria. L’azione dei gruppi terroristici, le manifestazioni violente, gli scontri tra gruppi estremisti ed ora il ritorno dei bombardieri neri, forniscono alla borghesia il pretesto per perfezionare le sue leggi, per renderle atte al piano di controrivoluzione preventiva, che rappresenta una carta in mano alle classi sfruttatrici di fronte ad una situazione economica e sociale che si fa ogni giorno più critica per il regime. Vediamo ora, dal 1974 in poi, quali siano stati i cambiamenti in questo senso.
Fermo di polizia: Prima dell’entrata in vigore della legge Reale, la polizia poteva fermare, in caso di pericolo di fuga, le persone gravemente indiziate di reati per i quali è obbligatorio il mandato di cattura, ora possono fermare le persone «nei cui confronti ricorrono sufficienti indizi di delitto per il quale la legge stabilisce la pena non inferiore a 6 anni di reclusione, oppure per delitti concernenti le armi». Grazie all’art. 7 del D.L. 15.12.79 la polizia deve dare notizia del fermo al magistrato non più «immediatamente», ma solo «senza ritardo e comunque entro le 48 ore». Il fermato può essere trattenuto non più «per il tempo necessario per i primi accertamenti», inoltre il risultato delle sommarie indagini non debbono più essere comunicate al giudice assieme ai motivi per i quali il fermo è stato effettuato, nelle prime 48 ore, ma nelle 48 ore successive alla comunicazione del fermo e quindi siamo alle 96 ore dal fermo stesso. L’art.11 del D.L. 59/78 prevede il potere dalla polizia di fermare, indipendentemente da indizi per reati gravi, le persone che rifiutino di dichiarare le proprie generalità e di trattenerle non oltre le 24 ore. Questo fermo è possibile anche quando ricorrono sufficienti indizi per ritenere false le generalità fornite dal fermato o documenti da esso esibiti. Commenta il giudice Antonio Bevere: «Una vecchia patente o una scolorita carta di identità può quindi tradursi nella privazione della libertà personale per 24 ore» (A. Bevere, Siamo ancora il paese più libero del mondo?).
Perquisizioni: L’art. 4 della legge Reale prevede che può essere perquisito dalla polizia chiunque il cui atteggiamento o la cui presenza «in relazione a specifiche e concrete circostanze del tempo e del luogo non appaiono giustificabili». Questo potere ha recentemente ricevuto una ulteriore estensione in virtù dell’art. 9 del D.L. 625/79. Gli ufficiali di polizia giudiziaria nel caso di «particolare necessità ed urgenza», anche di propria iniziativa, cioè senza l’autorizzazione del magistrato, possono disporre perquisizioni di interi edifici o blocchi di edifici eventualmente sospendendo la circolazione di persone e veicoli nelle aree interessate. Il potere di perquisizione domiciliare senza autorizzazione del magistrato, già previsto dal I comma dell’art. 224 del codice di procedura penale, diventa praticamente illimitato sino a sfociare in veri e propri rastrellamenti.
Uso delle armi: Con queste norme sono stati ufficialmente ampliati i poteri della polizia di usare le armi. «In realtà queste norme, grazie specialmente alla promessa di impunità dal processo e dalla pena per gli agenti di polizia, hanno lasciato un tacito invito per questi ultimi ad usare le armi in maniera indiscriminata e a disporre in maniera incontrollata della incolumità dei cittadini» (A.Bevere, cit.). Infatti l’art. 12 del D.L. 625/79 dice testualmente: «le eventuali misure restrittive della libertà personale nei confronti dell’indiziato o dell’imputato sono eseguite in caserma». Questo articolo è stato poi cambiato come segue: «per reati commessi da ufficiali ed agenti della P.S. per causa di servizio le eventuali misure restrittive della libertà personale possono essere eseguite in una sezione speciale di un istituto penitenziario o in un carcere militare» (Legge n. 15/80). Come si vede cambia la forma che precedentemente era espressa in modo estremamente sfacciato, ma la sostanza rimane la medesima.
Il D.L. 21.3.78 n.59 ha reintrodotto l’interrogatorio di polizia anche in assenza del difensore per chi è stato fermato o arrestato.
Inasprimento delle pene: L’art. 1 del D.L. 625/79 prevede un aggravante speciale quando i reati siano commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. L’aumento della pena è fissato nella metà e «le circostanze attenuanti (...) non possono essere ritenute equivalenti rispetto a questa ed alle circostanze aggravanti».
L’art. 2 introduce il reato di «attentato alla vita e all’incolumità delle persone per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico», aggravato quando sia rivolto contro persona dell’apparato statale (polizia, magistratura, uomini politici, ecc.).
L’art.3 introduce la figura del reato di «associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico». Questa norma punisce non tanto chi compie atti, ma chi si associa per fini ritenuti eversivi, con la pena di reclusione dai 4 agli 8 anni.
Carcerazione preventiva: L’orientamento è quello di fare della carcerazione preventiva (che attualmente rappresenta la condizione di circa 2/3 della popolazione carceraria) un normale strumento della anticipazione della pena, indipendentemente da una sentenza di condanna definitiva.
Il prolungamento dei termini di carcerazione preventiva è cominciato con la legge n.99 del 1974, è seguita la legge Reale, la legge del 7.6.1977 ed infine con l’art.10 del D.L. 625/79 si aumenta di 1/3 la sua durata per i reati di terrorismo ed eversione dell’ordinamento democratico. Questa disposizione consente che un imputato possa subire una carcerazione preventiva fino a 2 anni ed 8 mesi nella fase istruttoria, fino a 5 anni e 4 mesi prima che sia pronunciata la sentenza di condanna nel dibattimento di I grado, e fino a 10 anni e 8 mesi prima che arrivi la sentenza definitiva.
L’art.11 dello stesso D.L. prevede l’applicazione del prolungamento dei termini preventivi anche per i procedimenti già in corso alla data dell’entrata in vigore della legge. Come si vede la repubblica democratica ha superato anche il codice fascista del 1930 dove di legge: «All’imputato, che si trovi in stato di custodia preventiva nel momento in cui il nuovo codice entra in vigore, si applicano le condizioni del codice abrogato, in quanto siano più favorevoli. Questa disposizione non è motivata soltanto dall’equità, ma anche da ragioni giuridiche. Infatti le norme del codice di procedura penale che dispongono sulla libertà personale dell’imputato hanno carattere restrittivo e debbono soggiacere ai criteri di diritto penale materiale e di ogni altra legge che restringa il libero esercizio di diritti, e non a quelli del diritto penale processuale».
Di questo sorpasso democratico sul fascismo il primo a gioirne è stato certamente il PCI che chiedeva l’aumento dei termini di carcerazione preventiva perché i magistrati non rimanessero vittime del ricatto del tempo.
Per reati di terrorismo ecc. è vietata la concessione della libertà provvisoria. La legge Reale prevede la punizione dei sospetti (di compiere atti preparatori) con il confino. Nel 77 sono entrati in vigore i carceri speciali senza che una legge, un decreto od un regolamento li abbia istituti.
Quando nel febbraio del 1923 migliaia di comunisti italiani furono arrestati fu molto facile al partito prendere la seguente posizione: «comprenderemmo benissimo che il fascismo si sbarazzasse dei suoi avversari e prendesse provvedimenti dittatoriali contro di noi. Esso ha perfettamente ragione di giudicarci e condannarci, perché siamo comunisti e perché il nostro scopo è l’abbattimento del governo esistente mediante azione rivoluzionaria; però, dal punto di vista giuridico ciò che noi facciamo non è proibito. Sono bensì vietate altre cose, ma voi non possedete nessuna prova della sedicente congiura, della presunta associazione a delinquere su cui poggia la vostra accusa. Non solo abbiamo mantenuto questo punto di vista, ma in forza di esso siamo stati assolti dai tribunali perché era assolutamente impossibile condannarci in base alle leggi vigenti» (Rapporto sul fascismo al V congresso dell’Internazionale).
Non solo i comunisti, in faccia a Mussolini, potevano fare pubblica esposizione dei loro intenti rivoluzionari e venire assolti perché ancora esisteva un codice penale estremamente liberale che lasciava aperte molte possibilità soprattutto nel campo dei reati politici e di opinione, ma in tribunale potevano perfino beffarsi della impotenza della legge: «La storia insegna ed ammonisce che la prevenzione contro i moti rivoluzionari si realizza non con i codici applicabili ai reati comuni, ma con misure e leggi di eccezione, che perseguono quanto la legge comune tollera e consente in materia di attività politica dei cittadini. Se, per scongiurare un movimento rivoluzionario, si attendesse di raccogliere prima gli estremi della prova del complotto, obiettivamente parlando, si agirebbe in modo troppo lento per il disarmo di un avversario alla vigilia dell’azione. Non è un paradosso concludere che se c’è il processo il complotto non c’è» (Il processo ai comunisti italiani 1923).
La borghesia ha imparato bene la lezione e con le leggi speciali di Mussolini prima e dell’antifascista repubblica poi, basa tutta la sua forza repressiva non su prove, ma su sospetti. L’attuale sistema punitivo trova il suo presupposto non nella consumazione di un fatto che costituisca reato, ma nel sospetto che esso stia per essere compiuto.
I cosiddetti atti preparatori legittimano l’arresto provvisorio da parte della polizia, quando «si palesi la necessità e l’urgenza di verificare la fondatezza di indizi relativi alla preparazione» dei delitti previsti dagli articoli precedenti (Art.22 del Disegno Legge n.1798 del 1977).
Secondo le attuali disposizioni e le proposte di legge, in particolare quella Andreotti-Cossiga-Bonifacio, il potere dello Stato diviene del tutto discrezionale e non diretto a punire fatti commessi, ma l’atteggiamento ritenuto potenzialmente criminoso.
Accanto all’apparato repressivo dello Stato esiste, anche se meno noto, ma non per questo meno efficiente, un corpo di polizia privata al servizio degli interessi capitalistici. Nel 1972 in Italia c’erano 20.000 poliziotti privati, nel 79 sono arrivati a 87.500. La loro ripartizione è molto eloquente: di essi 23.000 dipendono da istituti privati, 3.000 da consociazioni di proprietari, 1.500 (investigatori) da aziende private, 60.000 da fabbriche ed enti pubblici (La Repubblica 20.2.1979). Ma questa è solo una parte del fenomeno perché vigili urbani, carabinieri, poliziotti fanno il doppio lavoro, impiegando il loro tempo libero presso agenzie private. Il 14 ottobre 1977, il pretore La Valle dichiarava al Corriere della Sera che «i pubblici ufficiali fanno i detectives al servizio delle agenzie, costituendo una rete spionistica che copre il paese con gangli in tutti i comuni».
L’affare ha assunto tali proporzioni da richiamare anche il capitale straniero, cosa che scandalizzò il PCI tanto da spingerlo a fare una interrogazione parlamentare. I processi sullo spionaggio Fiat, Alfa Romeo, ecc., la rete spionistica citata dal pretore La Valle «dimostrano – dice il giudice Bevere – che sia i colossi dell’industria pubblica e privata, sia le piccole aziende industriali e commerciali possono facilmente accedere ad una illegale ’banca di dati’ e accertare le opinioni politiche e religiose e finanche le abitudini sessuali dei lavoratori».
La borghesia sa che la ribellione operaia scoppierà e che questo pericolo aumenta con l’avanzare della crisi economica. Al verificarsi della insurrezione non serviranno più né leggi speciali, né tribunali, la giustizia si amministrerà con le armi, però leggi speciali e tribunali altrettanto speciali possono servire nel tentativo di stroncare sul nascere l’organizzazione della guida rivoluzionaria e la rinascita di genuini sindacati di classe. Le attuali leggi tendono infatti a colpire gli atti preparatori. Cosciente di questo il capitalismo vuole attaccare prima di essere attaccato; questo è il senso delle misure antiterroriste varate in questi ultimi anni dai partiti della destra e della sinistra borghese. Questo spiega perché appena tacciono i mitra dei terroristi "rossi" riprendono ad esplodere puntualmente le bombe dei "neri" che, colpendo nel mucchio, danno la possibilità ai rinnegati del comunismo di vomitare sulla classe operaia tutta la loro sozzura collaborazionista ed interclassista.
Le ragioni di questa "svolta" repressiva sono le conseguenze del deteriorarsi dell’equilibrio economico capitalistico e non il contrario.
La crisi capitalista (che, come affermiamo, non è il prodotto del malgoverno di questo o quel partito, ma un elemento ciclico del sistema di produzione capitalistico fondato sullo sfruttamento) fa saltare tutti gli equilibri precedenti e rischia di mettere in crisi la pace fra le classi, che consente tutte quelle libertà democratiche dei tempi d’oro. Il capitalismo ha bisogno di poter imporre ai lavoratori sempre più pesanti sacrifici: licenziamenti in massa, super sfruttamento per chi resta alla produzione, fino ad una terza guerra mondiale che già si sente nell’aria.
E’ vero che la crisi non coinvolge soltanto la classe operaia, che in una forma o nell’altra ne vengono tutti colpiti ed in modo particolare la piccola borghesia (il cui schiacciamento, essendo un settore meno importante per il capitale, anticipa sempre quello del proletariato) che produce forme di ribellismo anche molto radicale. E’ vero però che l’unico strato sociale a cui la borghesia guarda con paura è la classe operaia, perché è la sola capace di abbattere l’attuale ordinamento economico-sociale. Per ora il pericolo di un messa in discussione della società borghese, del rifiuto dello sfruttamento, o di una rivolta proletaria è ancora lontano; la classe operaia accetta ancora supina queste manovre statali senza riuscire a vedere che tutti i provvedimenti in "difesa dell’ordinamento democratico" sono attacchi contro la classe proletaria, contro le sue organizzazioni ed il suo partito.
Ma tutta questa manovra antiproletaria non potrebbe passare così facilmente senza l’incondizionato appoggio dei capi traditori delle organizzazioni economiche e politiche. Gli opportunisti ed i bonzi sindacali imbastiscono tutte le loro campagne propagandistiche per dimostrare agli operai che tutti i loro mali derivano da un manipolo di terroristi. Non sono più i padroni a ridurre alla fame gli operai, a scacciarli dai loro posti di lavoro e dalle case; bensì i "messi di morte e di sventura". La salvezza per la classe lavoratrice sarebbe quindi possibile solo collaborando con lo Stato, con i padroni e sottoponendosi passivamente alle loro esigenze. Così chiedono forti aumenti dei contingenti di polizia, migliori paghe per i "lavoratori in divisa", che "rischiamo la pelle" (dimenticando che ogni anno nella nostra democratica Italia vi sono più di 4.000 morti sul lavoro). Gli operai sono chiamati a collaborare con lo Stato, a denunciare tutti coloro che osano ribellarsi a questo fradicio regime. La caccia al terrorista diventa la caccia al rivoluzionario, all’operaio combattivo che lotta contro la politica delle centrali sindacali. I bonzi sindacali e i capi dei falsi partiti operai invitano i lavoratori a farsi spie e delatori nelle fabbriche, nelle strade, nelle famiglie.
E’ Lama che dalle colonne dell’Unità lancia questo appello. In assemblea alla Face-Standard, nel marzo 78, i rappresentanti del PCI proposero la costituzione nelle fabbriche di squadre di vigilanza antiterrorismo, denominandole Gruppi di Studio sul Terrorismo. Scopo di questi organismi doveva essere quello di: «schedare i lavoratori dell’azienda (...) per individuare i terroristi e coloro che direttamente o indirettamente li appoggiano, o coloro che comunque non ne segnalano l’attività» (La Repubblica, 24.3.1978).
Le minacce e le espulsioni dal sindacato dei lavoratori che non partecipino alla manifestazioni antiterrorismo, i questionari delatorii distribuiti in Piemonte si inquadrano perfettamente in questo piano di terrorismo nei confronti dei lavoratori. E, con una "onestà" che nemmeno i fascisti si possono permettere, il piccista Pecchioli dice che: «bisogna individuare alcuni obiettivi delicati e presidiarli con reparti dell’esercito particolarmente addestrati, e con questo – dice Pecchioli – penso soprattutto alle fabbriche» (La Repubblica, 13.12.79).
E’ quindi più che chiaro come tutti i mezzi usati dallo Stato borghese servano non tanto a combattere il terrorismo, quanto per soffocare il proletariato e per schiacciare sul nascere ogni movimento di classe. La borghesia, da un capo all’altro del suo schieramento politico, speculando su qualche cadavere illustre, appronta leggi ed armi sempre più perfette per colpire i suoi nemici e difendersi dal terrore.
Ma, il terrore per il capitalismo sono i milioni di operai delle grandi industrie.
E’ per combattere loro che la borghesia, il suo Stato, i suoi servi devono dimostrare tutta la loro potenza, la loro capillare organizzazione, la possibilità che essi hanno di colpire quando, chi e dove vogliono. Questo è il terrore diffuso adottato dallo Stato del capitale perché la classe operaia desista da ogni tipo di ribellione.
La classe operaia, perciò, non ha da manifestare solidarietà alcuna con il regime dei suoi sfruttatori, non ha da piangere i morti del suo nemico, non ha nulla da condividere con lo Stato della borghesia. Essa ha soltanto e soprattutto da riconquistare la sua indipendenza di classe, i suoi sindacati rossi, il suo partito politico: il Partito Comunista della Rivoluzione Proletaria.
La violenza non è un punto di vista, un’opinione, né tanto meno una ideologia, ma il modo estremo del manifestarsi della forza nel campo sociale. I panegirici contro la violenza, non a caso, si risolvono in altrettanta violenza di segno opposto. Allora, non è solo necessario prendere atto di questa necessità, ma che essa affonda le sue radici negli interessi di classi irriducibilmente contrapposte. Milioni di disoccupati; sottoccupati, precari, milioni di proletari al limite della sussistenza, con un domani incerto, insicuro, il tessuto economico mondiale in via di sfaldamento, una pressione economica, sociale e politica dello Stato e delle classi ricche in crescente aumento: sono queste determinazioni materiali che generano l’urto violento e non la criminalità innata di alcuni individui.
Il regime democratico borghese annuncia di voler riportare ordine in
questo "caos", di cui è al tempo stesso rappresentante e responsabile.
E’ ancora una menzogna. L’"ordine" della classe dominante, l’"ordine" che
genera violenza e terrore perché produce e riproduce le ragioni del conflitto
tra le classi, non può che essere l’ordine della borghesia ribadito contro
il proletariato. Un altro ordine sociale deve soppiantare quello della
classe dominante: l’ordine comunista fondato sulla dittatura del proletariato.
5. Falsificatori della Sinistra
ed interpretazione marxista del terrorismo
L’opportunismo ufficiale, i grandi partiti socialdemocratici di ieri e quelli nazionali comunisti di oggi sono, per noi marxisti rivoluzionari, i peggiori nemici della classe operaia.
Sono loro che disarmano la classe operaia e la aggiogano agli interessi del capitale e del suo regime. Il partito deve quindi svolgere una critica spietata contro l’opportunismo collaborazionista e smascherare, agli occhi dei lavoratori, il suo infame gioco. Solo quando le masse proletarie tenderanno a non subire più passivamente il collaborazionismo di classe e a sfuggire alle direttive forcaiole dei venduti al capitale, il partito comunista rivoluzionario avrà fertile terreno per lavorare al loro interno, si potrà realmente parlare di difesa delle condizioni operaie ed anche di offensiva rivoluzionaria. I comunisti hanno sempre saputo che l’opera di ricostruzione non sarebbe stata né breve, né facile ed è questo che li ha salvati dal pericolo di ubriacature di fronte a fatui fenomeni di "rinascita rivoluzionaria".
«Sapevamo benissimo, lo ripetiamo, che i partiti opportunisti non si sarebbero dissolti di colpo, ma solo dopo una lunga agonia che ci avrebbe fatto assistere all’espulsione da questi organismi putrefatti di ogni sorta di escrementi. E, oggi lo sfilaccicamento dei partitacci è finalmente incominciato, questi escrementi, sotto forma di innumerevoli gruppi e gruppetti, di parodie di grandi partiti e di sette varie, ammorbano l’aria della lotta di classe, facendo ingoiare ai proletari le peggiori porcherie inzuccherate in una fraseologia pseudo violenta e falsamente rivoluzionaria. E, è inutile dirlo, tutto questo ondeggiare di merda trova il suo terreno più favorevole nelle aule delle università borghesi, fra gli studenti, gli intellettuali, l’"intellighentia"che nella sua ignoranza presume di avere qualche cosa da insegnare alla classe proletaria, mentre avrebbe tutto da imparare mettendosi alla scuola delle battaglie proletarie di ieri e di oggi, in tutta umiltà. La stessa piccola borghesia intellettuale, la quale insegnava ieri ai proletari i miracoli della via pacifica e nazionale al socialismo, le bellezze del socialismo russo e le meraviglie della resistenza antifascista e dello stato democratico, impugna oggi la frase rivoluzionaria e pronuncia alle masse operaie inginocchiate discorsi di fuoco, ma, come sempre accade alla piccola borghesia, sono solo discorsi che nascondono una realtà ben più profonda ed una volontà ben più vigliacca: contrabbandare sotto un nuovo involucro il vecchio opportunismo, rendere accettabile agli operai che stanno aprendo gli occhi il vecchio gioco dei bussolotti agghindati a nuovo, ritardare il collegamento della classe operaia con il suo partitoche non è nato oggi, ma è nato cento anni fa, con un programma ben preciso che deriva da esperienze rivoluzionarie grandiose e che è vissuto e vive dopo aver attraversato le più terribili tempeste storiche» (Programma comunista n. 13 - 1968).
Il partito quindi non esalta e non si rallegra per il pullulare di gruppi che criticano da "sinistra" le centrali dell’opportunismo anche se essi si richiamano al marxismo, alla violenza di classe e perfino alla dittatura del proletariato. Sbaglia chi crede che essi contribuiscano ad accelerare la crisi dei partiti opportunisti. Come abbiamo visto dalla citazione tratta da quello che allora era il nostro organo di partito, i gruppi "rivoluzionari" della cosiddetta Nuova Sinistra non sono causa di crisi dei carrozzoni socialtraditori, bensì sono l’effetto di detta crisi. Il loro diretto grado di parentela con l’opportunismo ufficiale lo si può ravvisare nella spasmodica ricerca di nuove forme adatte alle mutate situazioni. Allora, se compito del partito è quello di affilare le armi della critica per dimostrare alla classe operaia il tradimento dell’opportunismo e la sua totale collaborazione con il nemico di classe, allo stesso modo il partito deve mettere in guardia la classe operaia da quelle che sono solo varianti di sinistra dell’opportunismo ufficiale.
Noi, Sinistra Comunista, a costo di essere tacciati da settari, abbiamo sempre tenuto un atteggiamento netto e preciso: «I denigratori frontali del marxismo come teoria della storia vanno preferiti ai puntellatori e rattoppatori di essa, tanto peggio se a fraseologia non collaborazionista ma estremista, secondo i quali varianti e complementi critici dovrebbero correggere i suoi insuccessi ed impotenze» (1951). Ed ancora: «Una nuova dottrina non può apparire in qualsiasi momento storico, ma sono date e ben caratteristiche – e anche rarissime – epoche della storia in cui essa può apparire come un fascio di abbagliante luce, e se non si è ravvisato il momento e affisata la terribile luce, vano è ricorrere ai moccoletti, con cui si apre la via il pedante accademico o il lottatore di scarsa fede». «Chi quindi si pone a sostituire parti, tesi, articoli essenziali del corpus marxista che da circa un secolo possediamo, ne uccide la forza peggio di chi lo rinnega in pieno e ne dichiara l’aborto» (1952).
A questo punto è bene occuparci di un gruppo di falsari che contrabbandando una qualche appartenenza alla Sinistra Comunista si impegnano a smantellarne tutte le sue caratteristiche posizioni per dedicarsi, al contrario, a cercare punti di convergenza e di dialogo con tutta la miriade di gruppi "rivoluzionari", prendendo sbandate a catena, salvo poi rimangiarsi, volta a volta, quello che il giorno prima avevano affermato. Riferendosi al fatto specifico del terrorismo questi signori, in particolare le sezioni "au de là des Alpes", arrivano ad esprimere le seguenti valutazioni:
1) I terroristi sono compagni «troppo impazienti per intraprendere il lungo e difficile commino della lotta collettiva e disciplinata di classe», ma tuttavia sono dei «precursori del futuro risveglio del gigante proletario», sono delle «rare boccate di ossigeno in una atmosfera nauseabonda», e, «quando la classe avrà ritrovato la sua memoria collettiva, essi entreranno tra le figure di quelli che hanno contribuito a riaccendere la fiamma della lotta rivoluzionaria nelle vecchie metropoli».
2) Anche se con le loro azioni non aprono la strada alla ripresa rivoluzionaria di classe, non di meno hanno il merito di «richiamarsi alla necessità della violenza per la lotta proletaria».
3) A differenza «degli anarchici bombaroli e dei terroristi socialisti-rivoluzionari russi che pretendevano di provocare la nascita e l’esplosione del movimento rivoluzionario e insurrezionale, come coloro che ritengono di poter far piovere indossando un impermeabile», le azioni degli attuali terroristi sono paragonate ad autentiche azioni rivoluzionarie proletarie, anche se minoritarie, come fu «la partecipazione dei comunisti alla lotta disperata contro la reazione bianca, nel 1919, in Baviera alla quale il proletariato era stato spinto dalla forza controrivoluzionaria della socialdemocrazia e dall’avventurismo del centrismo indipendente, così come nel marzo 1921 davanti allo scatenarsi della violenza borghese».
4) Criticare il terrorismo è atteggiarsi a «professori di marxismo» che, nella loro mania di purezza, pretendono dal proletariato «una rivoluzione comme il faut», dimenticando che «distinguere la violenza collettiva e la violenza individuale nella guerra, è cavillare sulla possibilità di un combattimento nel quale si potrebbe proscrivere la violenza individuale, e – o il più spesso – ciò significa non voler affatto combattere» (Il Comunista, 31.7.1921).
Tradizione della Sinistra è la condanna al silenzio nei confronti dei transfughi. Quindi, anche in questo caso, non scenderemo sul piano del pettegolezzo, caro a detti messeri, ma riproporremo in modo corretto e tradizionale le invarianti posizioni del marxismo rivoluzionario.
Lenin sosteneva che non si dovessero frenare le intemperanze e gli eccessi dei lavoratori, ritenendoli, al contrario, un mezzo utile e necessario per terrorizzare le classi borghesi e fondiarie. La Sinistra Comunista, dalla nascita del P.C.d’Italia fino a che ebbe in mano la direzione del partito, non esitò a dare precise disposizioni perché si organizzassero azioni repressive contro i beni e le persone dei ricchi borghesi e agrari, come rivalsa, anche preventiva, nei confronti delle scorribande delle squadracce bianche e nere.
Questo non significa però che il partito approvi il preteso rispondere colpo su colpo dei gruppi del partito armato in quanto non è altro che volgare attivismo inferiore, per qualità, a quello degli anarchici classici.
La Sinistra comunista imposta la questione in tali termini: «In ogni prospettiva di ogni movimento rivoluzionario generale, non possono non essere presenti questi fondamentali fattori: a) un ampio e numeroso proletariato di puri salariati; b) un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato, c) un forte partito di classe rivoluzionario nel quale militi una minoranza di lavoratori, ma al quale lo svolgimento della lotta abbia consentito di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza sul movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese» (Partito Rivoluzionario ed Azione di Classe - Punto 8).
Il partito comunista considera il sindacato «organo indispensabile per la mobilitazione della classe sul piano politico e rivoluzionario, attuata con la presenza e la penetrazione del partito comunista nelle organizzazioni economiche di classe» (Tesi caratteristiche Parte II - Punto 6, 1952). Ne discende che l’armamento del proletariato, anche in senso puramente di difesa, è possibile solo quando si è in presenza di un movimento di classe in cui lavora a dirigerlo il vero partito di classe.
Nella deprimente situazione odierna in cui i partiti e i sindacati traditori hanno fatto blocco con il regime ed essi stessi si assumono il compito di reprimere ogni minimo movimento spontaneo di classe, è veramente facile per lo Stato e per le classi borghesi ricostruire l’apparato repressivo legale ed "illegale". La manovra capitalistica, coadiuvata dall’opportunismo, produce il suo massimo sforzo nel tenere i lavoratori lontani dal vero partito comunista. Per bloccare e contrattaccare questa manovra ci vuol altro che l’aggressione al personale dello Stato, il gesto eroico e disperato e simili arnesi dell’individualismo piccolo-borghese! Perché di nuovo si possa parlare, di difesa proletaria è indispensabile che risorgano organizzazioni economiche di classe sottratte dal dominio dello Stato capitalistico e dei partiti opportunisti. E’ indispensabile che i proletari si liberino dalla influenza dei partiti traditori e si leghino all’indirizzo comunista rivoluzionario, accrescendo le forze del partito e le sue possibilità di penetrare negli organismi economici di classe. Solo seguendo questa via il proletariato ridiventerà capace di difesa delle proprie condizioni di vita e di autodifesa nei confronti della violenza legale ed "illegale" delle forze borghesi, così come ridiventerà capace di offensiva rivoluzionaria.
Parlare di autodifesa proletaria contro la violenza borghese quando il proletariato, in mano all’opportunismo, non riesce nemmeno a difendere il pane ed il posto di lavoro, è soltanto una vile beffa nei confronti degli operai, un ennesimo mezzo per far loro dimenticare la sola strada dell’armamento rivoluzionario di classe: il risorgere di organizzazioni economiche di classe dirette o influenzate dal partito comunista.
Nel caos di forze e di tendenze "rivoluzionarie" il partito politico della classe lavoratrice ha il dovere di sapersi felicemente orientare e di tracciare un indirizzo sicuro della sua strategia. Il primo aspetto di questo problema è il rendersi conto della funzione di tutti gli altri partiti e movimenti politici, per dedurne l’atteggiamento da assumere nei loro confronti. Oggi ci sono tanti movimenti che tendenzialmente possono aspirare alla qualifica di rivoluzionari, vi sono tanti programmi di rivoluzione, ossia tanti progetti di reggimento sociale o statale da sostituire a quello vigente. Risultato di tutto questo è che riescono a distogliere l’attenzione da quella che è l’antitesi fondamentale fra due sole forze nemiche, nella quale soltanto si delinea efficacemente il divenire della rivoluzione.
«L’esistenza di troppe specie di rivoluzionari rende difficile la rivoluzione nel senso che ingombra la chiara impostazione definitiva della lotta rivoluzionaria. Tra l’ingombro di queste forze la critica e l’azione comunista devono ad ogni costo e sicuramente, spezzando e sprezzando pregiudizi ed opportunismi, farsi luce ed aprirsi una via. L’interrogativo che più imbarazza i competenti di cose politiche (...), che per somma sventura pullulano ogni giorno di più, è quello di classificare i vari gruppi e movimenti rivoluzionari o semirivoluzionari secondo la comune estimazione politica della destra e della sinistra. Con ben altro criterio i comunisti devono svolgere l’analisi della situazione, preoccupandosi di ridurre ad unità le forze della conservazione, interpretando accortamente il valore conservatore di alcuni movimenti, dalle scapigliate pose avanguardiste, e di condurre ad effettiva unità di coscienza e di metodo quelle forze che effettivamente dovranno inalvearsi nella realizzazione rivoluzionaria» (Il Comunista, 24.1.1921).
E’ pura illusione credere che tutte quelle correnti, che aspirano ad una «rivoluzione fino ad un certo punto» o che si distinguono per la loro mania, quasi sportiva, di battere il record dell’estremismo con le loro azioni, possano creare una situazione di instabilità del potere statale in cui l’assalto finale del proletariato potrebbe efficacemente inserirsi. Ma, anche se ammettessimo questa possibilità, «non bisogna dimenticare che in questa seconda fase i peggiori nemici sarebbero i ’rivoluzionari’ del momento precedente, e sarebbe sommamente pericoloso che quella avanguardia del proletariato che segue il programma comunista fosse dominata dalla speranza di avere in loro degli amici, come avverrebbe se nella prima fase si marciasse gomito a gomito con essi» (Il Comunista, 31.7.21).
E’ della massima importanza notare come il partito comunista nel 1921/22 fosse dispostissimo ad azioni concomitanti con altre forze politiche (Esempio: la battaglia di Oltretorrente a Parma), ma escludesse nel modo più assoluto intese organizzative o, peggio ancora, ideologiche con detti gruppi. Questo «non per scrupoli di ordine morale, ma perché, data appunto la funesta influenza di quel ’confusionismo rivoluzionario’ di cui trattiamo, anche purtroppo sulle masse che seguono il partito il gioco sarebbe troppo pericoloso e la manovra del disimpegno riuscirebbe a nostro danno» (Il Comunista, 31.7.21).
Malgrado la precisione e la chiarezza dell’atteggiamento che, riguardo al terrorismo, ha sempre assunto il marxismo rivoluzionario, i nostri falsari arrivano a mettere in bocca di Lenin e della Sinistra Italiana espressioni di vero compiacimento nei confronti della violenza individuale.
Il riconoscimento della validità di azioni anche individuali e minoritarie, ma sempre inquadrate nel disegno generale della rivolta proletaria, viene contrabbandato come plauso verso qualsiasi movimento, del tutto estraneo dalla tradizione e dalla classe, purché esso imbracci un fucile, e si arriva addirittura a paragonare l’attuale terrorismo all’eroico sacrificio dei comunisti tedeschi del 1919 e del 1921.
Lenin, nell’articolo "Da che cosa cominciare?" nel maggio 1901 scriveva: «In linea di principio noi non abbiamo mai rinunciato e non possiamo rinunciare al terrorismo. È un’operazione militare che può perfettamente servire, ed essere perfino necessaria, in un determinato momento della battaglia, quando le truppe si trovano in una determinata situazione ed esistono determinate condizioni. Ma la sostanza del problema è precisamente che oggi il terrorismo non viene affatto proposto come una azione dell’esercito operante, strettamente legata ed adeguata a tutto il sistema di lotta, ma come un sistema di attacco singolo, autonomo e indipendente da ogni esercito. E quando manca una organizzazione rivoluzionaria centrale e quelle locali sono deboli, il terrorismo non può essere niente altro. Ecco perché dichiariamo decisamente che nelle circostanze attuali questo mezzo di lotta è intempestivo, inopportuno, in quanto distoglie i combattenti più attivi dal loro vero compito, più importante per tutto il movimento e disorganizza non le forze governative, ma quelle rivoluzionarie».
Esiste una totale contrapposizione tra coloro che ritengono necessaria l’azione individuale per suscitare lo sdegno e la lotta delle masse lavoratrici ed il marxismo, che vede questa lotta scaturire dalle contraddizioni della società capitalistica ed il bisogno di dare a questa una guida cosciente: il partito.
Per i marxisti rivoluzionari la classe operaia è costretta non dal capire o dalla emozione suscitata con gesta simboliche, ma dalle pressioni materiali che agiscono sui proletari. Il problema non è dunque quello di far muovere le masse, ma di dirigere in senso rivoluzionario il movimento che inevitabilmente scaturirà.
«La rivolta delle masse non si crea, ma si compie. Essa è il risultato dei rapporti sociali e non il frutto di un piano. È impossibile crearla, si può solo prevederla. Bisognava prepararsi alla rivolta armata, non abbiamo mai preparato la rivolta, noi ci siamo preparati alla rivolta e questo per noi significa soprattutto illuminare la coscienza del popolo, spiegargli che il conflitto aperto era inevitabile, che era necessaria una possente organizzazione delle masse rivoluzionarie» (Trotski, 1907).
Sempre Trotski, nel 1911, scriveva: «Un attentato ’riuscito’ può portare scompiglio nella cerchia dirigente? Ciò dipende dalle circostanze politiche del momento. Si tratterebbe comunque di uno scompiglio di breve durata. Lo Stato capitalista non si fonda soltanto su alcuni ministri e non può essere distrutto assieme ad essi. Le classi che esso rappresenta troveranno sempre nuovi servitori, dato che il meccanismo rimarrebbe intatto e continuerebbe a funzionare. Ma lo scompiglio che gli attentati terroristici provocano nella classe operaia è molto più profondo. Se bastasse armarsi di una pistola per raggiungere lo scopo, a cosa servirebbero allora tutti gli sforzi della lotta di classe? Se bastasse un po’ di piombo e di polvere per trafiggere la testa del nemico, a cosa servirebbe l’organizzazione di classe? A che serve il partito se i grandi gerarchi possono essere intimoriti dal fracasso di una esplosione? Perché le riunioni, perché l’attivazione delle masse, se è tanto facile centrare dalle tribune del parlamento i banchi dei ministri? Il terrorismo individuale è assolutamente inammissibile ai nostri occhi perché esso degrada le masse, facendo loro perdere la dignità, le riconduce alla loro primitiva impotenza e fa convergere i loro sguardi e la loro speranza sulla persona del grande vendicatore, del salvatore che comparirà un giorno per svolgere la sua opera».
Lenin: «Le tendenze che esprimono (...) sono la tradizionale instabilità di idee degli strati intermedi ed indefiniti dell’intellettualità, si sforzano di sostituire al legame con determinate classi una azione tanto più chiassosa quanto più fortemente si fanno sentire gli eventi. ’Facciamo chiasso, fratello, facciamo chiasso: questa è la parola d’ordine di molte persone che si lasciano trascinare dal turbine degli avvenimenti e non hanno basi né teoriche, né sociali (...) Che l’unica speranza della rivoluzione è la ’folla’, che contro la polizia può lottare solo una grande organizzazione rivoluzionaria che diriga (concretamente e non a parole) questa folla, è una verità elementare. Ci si vergogna perfino a doverlo dimostrare. E solo uomini che hanno dimenticato tutto o non hanno imparato assolutamente nulla, hanno potuto decidere ’il contrario’, arrivando a dire un’assurdità incredibile, che muove a sdegno, e cioè che i soldati possono ’salvaguardare’ l’autocrazia dalla folla, la polizia dalle organizzazioni rivoluzionarie ma nessuno può salvaguardarla dai singoli individui che danno la caccia al ministro. (...) Tali individui non capiscono che già questa sola premessa è avventurismo politico e che il loro avventurismo dipende dalla loro mancanza di principi. Il comunismo metterà sempre in guardia contro l’avventurismo e denuncerà in modo implacabile le illusioni che inevitabilmente finiscono con una totale delusione».
Nella migliore delle ipotesi, il terrorismo è frutto di ingenuità politica e militare. Sulla presunta funzione di stimolo del movimento rivoluzionario Lenin diceva che non c’era altro argomento che si confuti da sé stesso con maggiore evidenza. Come si può pensare che la classe operaia quando essa è incapace di ribellarsi di fronte allo sfruttamento quotidiano, alla disoccupazione e alla miseria, ai continui scandali politici, di fronte al duello di un pugno di terroristi con il governo scenda in campo con le armi in pugno? Altra concezione puramente idealistica è quella che ritiene che sia il progressivo irrigidimento delle strutture statali e dell’apparato repressivo, dovuto ai continui attacchi sferrati dai terroristi, a far insorgere il proletariato. Questo tentativo di provocare la lotta di classe in provetta non comprende che il proletariato non scende in campo per rivendicare la libertà di (parola, pensiero, ecc.), ma la libertà da (dalla miseria, dallo sfruttamento...). Oltretutto l’impossibilità di svolgere un ruolo di forza trainante del proletariato è dovuta anche al metodo di lotta stesso che: «esige una tale concentrazione di energie in un solo ’attimo essenziale’; una tale super valutazione dell’eroismo individuale ed infine una tale segretezza nella congiura (...) che esso esclude del tutto l’attivizzazione e l’opera di organizzazione in seno alle masse» (Trotski,1909).
Combattendo il terrorismo i comunisti si impegnano a non abbandonare la classe operaia per andare a mettere qualche bomba sotto il sedere di qualche illustre personaggio. Lenin insegna che i comunisti considerano l’insurrezione come un’arte, che l’insurrezione per essere vittoriosa deve avere queste caratteristiche: 1) Non deve poggiare né su un complotto, né su un partito (partito armato o baggianate simili!), ma sulla classe progressiva. 2) Deve appoggiarsi sullo slancio rivoluzionario della classe. 3) «Deve sfruttare quel punto critico nella storia della rivoluzione ascendente, che è il momento in cui l’attività delle fila più avanzate del popolo è massima e più forti sono le esitazioni nelle file dei nemici e nelle file degli amici deboli, equivoci ed indecisi della rivoluzione. Ecco le tre condizioni che, nell’impostare il problema dell’insurrezione, distinguono il marxismo dal blanquismo» (Lenin).
Precedentemente avevamo affermato come nel 1921/23 il P.C.d’Italia, diretto dalla Sinistra, affrontasse con la massima serietà il problema dell’organizzazione militare di classe. L’esperienza pratica, come dimostra un rapporto dell’apparato militare clandestino, che abbiamo ripubblicato sul nostro giornale, ha definitivamente espresso il principio che la costituzione di squadre di azione militare comuniste deve essere a base del partito. Questo non significa una riedizione del "partito armato" perché, come abbiamo più volte affermato, non è il partito che fa la rivoluzione. La rivoluzione la fanno le grandi masse proletarie ed il partito, fino a dopo la presa del potere, non inquadrerà che una minoranza di proletari, la loro avanguardia. D’altra parte il partito ha il compito ed il dovere di dirigere la rivoluzione perché è il solo organismo ad avere determinazione e capacità di abbattere il sistema capitalistico e instaurare la dittatura del proletariato. L’inquadramento militare a base del partito significa quindi non inquadramento di soli iscritti al partito, ma (proprio come avveniva negli anni 1921/23) di tutti quei proletari che si impegnino, pur non aderendo al programma marxista, ad essere disciplinati, in fatto di organizzazione militare, solo alle direttive del partito comunista. E questo, per quanto l’immaginazione piccolo-borghese sia incapace di capirlo, non limita affatto la potenza delle squadre rivoluzionarie, bensì le rafforza. Prima di tutto perché la disciplina militare deve essere almeno altrettanto rigida quanto quella politica, e non si può obbedire a discipline diverse; inoltre, in quanto l’organo della rivoluzione proletaria è e non può che essere il partito comunista, esso deve assolvere anche la funzione decisiva dell’organizzazione militare. E’ soprattutto indispensabile che l’autonomia dell’organizzazione militare comunista sia rigorosamente salvaguardata, perché la critica delle armi diretta dal partito possa essere rivolta in ogni momento anche contro sedicenti alleati dell’ora precedente. E sappiamo in anticipo che questi si trasformeranno in nostri nemici.
«Il lavoro per la costituzione e l’esercitazione delle squadre comuniste deve dovunque continuare ed iniziare dove ancora non lo si è affrontato, ma attenendoci al rigoroso criterio che l’inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base del partito, strettamente legato alla rete degli organi politici del partito» (Il Comunista, 14.7.1921). «Gli organi centrali del partito comunista hanno operato alla costituzione dell’indipendente inquadramento comunista proletario e non si sono lasciati deviare dalla apparizione di altre iniziative, che fino a quando agiranno nello stesso senso della nostra non saranno certo considerate come avversarie, ma la cui maggiore popolarità apparente non ci sposterà dal compito specifico, che dobbiamo assolvere contro tutta una serie di nemici e di falsi amici di oggi e di domani» (Il Comunista, 7.8.21).
Quindi sarebbe errore fatale per il partito fare anche le minime concessioni a tali movimenti, aprire le maglie della dottrina, della tattica e della organizzazione comunista, non mettendo in rilievo che oggi, a maggior ragione di ieri, la prospettiva del terrorismo va contro quella comunista.
Dichiarare che alcune delle sue posizioni possono convergere con quelle che sono le prospettive del partito significherebbe pregiudicare irrimediabilmente la stessa possibilità di vittoria del futuro attacco proletario al mostro capitalistico.
Dobbiamo ribadire che il terreno su cui si verifica una effettiva polarizzazione delle forze sociali e su cui quindi è possibile indirizzare il movimento operaio verso una effettiva via rivoluzionaria è, e non può che essere, il terreno dell’organizzazione economica proletaria. Fin dal "Manifesto" del 1848 la lotta sindacale di classe e considerata scuola di guerra: è su questo terreno che il partito si rafforzerà ed esprimerà anche la sua organizzazione militare.
L’attività pratica del P.C.d’Italia, diretto dalla Sinistra, si basò su questo fattore. Per tutto il periodo 1919/22 il punto di forza della classe operaia fu l’organizzazione economica, sia nei momenti di attacco che di difesa. Durante gli scioperi contro il caro-viveri del 1919 le Camere del Lavoro rappresentarono il potere proletario di fronte alla piccola borghesia impaurita. Di fronte al nascente fascismo, 1920/21, la prima organizzazione di difesa armata fu all’interno delle Camere del Lavoro, che se cedettero fu soprattutto per la paura ed il tradimento dei capi socialdemocratici, come dimostra l’esempio significativo di Bologna nel 1920.
Di solito dirigeva la Camera del Lavoro – dice il citato testo militare – un deputato, un oratore portato più alla riflessione che all’entusiasmo e «quando la difesa armata della CdL si dimostrò un atto vicino a compiersi e non una smargiassata di sola apparenza, quest’uomo perse la testa e chiese per telefono l’intervento della polizia». A Livorno «fu finalmente spezzata l’unità col peso morto» ed il partito negli anni successivi «tenne fede ai suoi patti con il proletariato». Nonostante che la reazione fascista si fosse sviluppata, nonostante il continuo appello alla legalità da parte dei socialtraditori ed il famigerato "patto di pacificazione", nonostante il sabotaggio di tutti i partiti del glorioso sciopero generale dell’agosto 1922 e la conseguente vittoria del fascismo con la farsesca "marcia su Roma", l’apparato militare del partito continuava a resistere senza che la reazione fascista riuscisse ad intaccarlo.
All’indomani dell’assassinio Matteotti, quando la direzione del partito era ormai in mano ai centristi e Gramsci cascava nel tranello dell’antiparlamento, ancora una volta fu la Sinistra, ormai relegata all’opposizione, a proporre la «matteottizzazione» di Mussolini.
Lenin, abbiamo visto, dichiarava che non è possibile rinunciare al terrorismo in linea di principio e che in certe contingenze della lotta rivoluzionaria può essere perfino necessario. L’importante è che esso sia legato ed adeguato a tutto il sistema di lotta che il partito deve svolgere.
Vediamo in breve quale era la situazione all’indomani degli avvenimenti del 10 giugno 1924: venne subito fuori che le responsabilità dell’assassinio Matteotti arrivavano fino ai più alti gradini della gerarchia fascista. Mussolini dovette infatti silurare uomini fidatissimi come Cesare Rossi, Aldo Finzi e perfino De Bono fu costretto a dare le dimissioni da capo della polizia.
All’interno del partito fascista, non preparato ad un simile evento, sorsero spaccature e defezioni. Il regime stava vacillando e la sua caduta era attesa da un momento all’altro. A questo punto tutte le forze borghesi, interpretate dai partiti democratici, ritirarono il loro appoggio al fascismo e, senza mezzi termini, chiesero l’allontanamento di Mussolini, anche se poi tutta la loro opposizione si risolse con la questione "morale". Malgrado gli inviti alla calma lanciati dal PSI, dalla CGdL e dagli altri sindacati «per non compromettere con iniziative particolari e inconsulte lo sviluppo degli avvenimenti» (Battaglie Sindacali, 12.6.1924), scioperi spontanei scoppiarono da un capo all’altro del paese. I lavoratori capirono che era necessario accettare la sfida del fascismo e per un attimo ritrovarono l’ardore rivoluzionario degli anni precedenti. Quello che restava delle organizzazioni sindacali rosse ricominciava a funzionare. Gli operai erano decisi a farla finita con il regime del terrore borghese.
Il P.C.d’ltalia era reduce dalla grande vittoria elettorale nella quale il proletariato aveva dimostrato di vedere in esso l’unico partito conseguentemente antifascista ed unico riferimento di lotta. La vittoria era stata dovuta soprattutto al modo con cui la Sinistra aveva impostato la campagna elettiva.
Si era andati alle elezioni: «non come a quella esercitazione di cretinismo parlamentare, che tanto ricorda le manie per Spalla e per Girardengo, ma come ad un episodio della incessante lotta di classe» (Lo Stato Operaio, 28.2.1924). «Malgrado l’offensiva governativa lanciata prima di tutto contro le nostre liste e contro il nostro lavoro elettorale (...) Anche elementi non comunisti hanno votato per le liste comuniste perché vedevano nel comunismo l’antifascismo più chiaro e radicale, il più netto rifiuto di ciò che essi odiavano» (Rapporto della Sinistra sul fascismo al 5° congresso dell’I.C., 1924).
In una tale situazione, l’attentato e l’uccisione di Mussolini, sia che gli "arditi" fascisti si fossero squagliati (come fecero all’indomani del 25 luglio di venti anni dopo), sia che si fossero abbandonati alla più feroce repressione, avrebbe innanzi tutto dimostrato che il partito del proletariato non teme le provocazioni della violenza nemica, ma accetta la sfida anche sul piano della lotta armata e dell’assassinio.
In secondo luogo avrebbe smascherato l’opposizione aventiniana di borghesi
ed opportunisti che sarebbero prontamente accorsi a far fronte unico con
il fascismo in difesa dell’ordine capitalistico. Il proletariato, forse,
non avrebbe vinto la guerra civile, ma avrebbe sfatato per sempre il turpe
mito dell’antifascismo democratico e questa, visto come sono andate le
cose; sarebbe stata una grandissima vittoria politica.
Qualsiasi Stato, qualunque sia la sua forma di governo, rivendica per sé il monopolio della violenza e della repressione. Questo è così normale e ormai da tutti acquisito che quando si parla di violenza si intende sempre qualche cosa che esorbita dai poteri statali, dando per scontato il legittimo uso che di essa fa il potere statale.
Il monopolio della violenza è per ogni Stato un diritto inalienabile verso il quale esso dimostra la più gelosa sollecitudine e reprime drasticamente qualsiasi organizzazione privata che attenti a questo suo diritto. In questo modo l’organizzazione statale lotta per la sua sopravvivenza.
Per la dottrina marxista la violenza si manifesta come lotta tra le classi aventi opposti interessi economici; questa lotta, nelle fasi culminanti, arriva a contesa armata per la conquista del potere politico. Ne consegue che per eliminare la violenza nella società occorre eliminare la violenza nella struttura economica ed esattamente la proprietà privata ed il modo di produzione capitalistico. La premessa per questo trapasso rivoluzionario è l’abbattimento violento dello Stato del capitale, macchina della conservazione dei privilegi delle classi dominanti.
Altra considerazione tipica della dialettica marxista è che ogni tipo di istituzione e ordinamento sociale e politico non è di per sé stesso buono o cattivo, da accettare o da respingere secondo l’esame delle sue caratteristiche in base a canoni generali ed immutati. Secondo la lettura marxista della storia ogni tipo di istituzione sociale sorge come una conquista rivoluzionaria, diviene successivamente riformista per arrivare ad essere, infine, un ostacolo reazionario.
«La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale; che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti, e con essa l’articolazione della società in classi o stati, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e si scambia ciò che si produce. Conseguentemente le cause ultime di ogni mutamento sociale e di ogni rivolgimento politico vanno ricercate non nella testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della verità eterna e dell’eterna giustizia, ma nei mutamenti del modo di produzione e di scambio: esse vanno ricercate non nella filosofia, ma nella economia dell’epoca che si considera» (Antidühring)
L’attuale ordinamento sociale è stato creato dalla borghesia organizzata in classe dominante.
Quando il modo di produzione capitalistico divenne incompatibile con i privilegi locali e con i vincoli dell’ordinamento feudale, la borghesia infranse questo ordinamento e sulle sue rovine impiantò l’organizzazione sociale borghese: il regno della libera concorrenza, della libertà di domicilio, dell’uguaglianza dei diritti dei possessori di merci. La possibilità, per il modo di produzione capitalista, di svilupparsi ed espandersi liberamente crea anche un conflitto permanente tra le nuove forze produttive ed il modo di produzione. «Il socialismo moderno non è altro che il riflesso ideale di questo conflitto reale, il suo ideale rispecchiarsi, in primo luogo, nella testa della classe che sotto di esso direttamente soffre: la classe operaia».
Per i marxisti tutti gli antagonismi storici fino ad ora esistiti fra classi dominanti e sfruttatrici e classi dominate e sfruttate trovano, come abbiamo visto, la loro spiegazione nel modo di produzione, quindi sfruttamento e violenza non sono categorie astratte nei confronti delle quali i comunisti possano esprimere un loro giudizio morale, di approvazione o di condanna, ma le valutano nel senso della evoluzione storica dei rapporti sociali.
Come non viene valutata negativamente l’introduzione della schiavitù che «nelle circostanze di allora fu un grande progresso», così approviamo la violenza ed il terrore della borghesia che spazzò via le caste feudali e chiesastiche. Il nascente proletariato, assieme alla massa dei nullatenenti, contribuì alla buona riuscita della rivoluzione borghese, anche contro la stessa borghesia. Allora il proletariato, che cominciava appena a distaccarsi dalle masse dei nullatenenti, appariva come il: «ceppo di una nuova classe, ancora assolutamente incapace di una azione politica indipendente (...) All’immaturità della produzione capitalistica, corrispondevano teorie immature».
La borghesia rivoluzionaria predicava e credeva che la sua società non offrisse che inconvenienti: eliminarli sarebbe stato compito della ragione pesante. L’immaturità oggettiva che impediva di creare, agli albori del regime capitalistico, una organica dottrina del proletariato non impedì però ai socialisti di dichiarare l’impossibilità di una pacifica convivenza tra la classe lavoratrice ed il regime borghese.
Una prima impostazione della strategia di classe del nascente proletariato è la prospettiva di realizzare moti antiborghesi sullo slancio della stessa lotta insurrezionale condotta al fianco della borghesia, raggiungendo in modo immediato la liberazione dall’oppressione feudale e dallo sfruttamento capitalistico. Una manifestazione embrionale si ha sin dalla rivoluzione francese con la Lega degli Uguali di Babeuf. Teoricamente il movimento è del tutto immaturo, ma resta significativa la lezione storica della implacabile repressione che la borghesia giacobina vittoriosa esercita contro gli operai che avevano combattuto con essa per i suoi interessi. Alla vigilia dell’ondata rivoluzionaria e nazionale del 1848, la teoria della lotta di classe è già compiutamente elaborata, essendo ormai chiari su scala europea e mondiale i rapporti tra borghesia e proletariato.
«Marx nel Manifesto progetta al tempo stesso l’alleanza con la borghesia contro i partiti della restaurazione monarchica in Francia e del conservatorismo prussiano, e un immediato sviluppo verso una rivoluzione che miri alla conquista del potere da parte della classe operaia» (Tracciato di Impostazione).
L’uso della violenza proletaria per abbattere il regime di sfruttamento borghese è divenuto "legittimo" da quando, con l’enorme sviluppo della grande industria, ogni classe dominante e sfruttatrice è divenuta superflua, anzi, di ostacolo al pieno sviluppo della società.
Che il capitalismo sia ormai divenuto di impedimento allo sviluppo delle forze sociali viene riconosciuto perfino da Berlinguer (vedi il discorso al festival di Bologna). Ma la differenza tra Berlinguer ed i Marxisti è che per il segretario del PCI il proletariato dovrà, un giorno, prendere parte al governo dello Stato capitalistico e convertire gradualmente, in pieno accordo con tutte le componenti sociali e senza costrizione alcuna, questo sistema capitalistico in un sistema socialista; per i comunisti, al contrario, «soltanto con l’organizzazione del proletariato in classe, ossia in partito politico, e con l’instaurazione armata della sua dittatura il proletariato potrà distruggere il potere e l’economia capitalistica e rendere possibile una economia non capitalistica, non mercantile» (Tracciato di Impostazione).
Che la violenza, nella società, abbia una funzione rivoluzionaria, che sia, secondo quanto ha affermato Marx, levatrice di storia, infrangendo forme irrigidite e sopravvissute a loro stesse, è cosa del tutto sconosciuta per i comunisti riformati che, predicando il pacifismo e la tolleranza, si prefiggono di inchiodare la classe lavoratrice allo sfruttamento capitalistico, senza che quest’ultimo sia costretto ad impiegare in modo palese la sua violenza.
In più inculcano nei cervelli dei lavoratori l’idea che ribellarsi sarebbe una grande infamia perché comprometterebbe le regole e gli ordini da cui dipende la salvezza di tutti, indistintamente. Il marxismo rivoluzionario, dal canto suo, ha sempre smascherato, agli occhi dei lavoratori, coloro che predicando la non violenza ed il pacifismo di fatto avallano la violenza ed il terrorismo statale. I marxisti si battono per l’armamento della classe operaia, armamento che prima di tutto è politico ricongiungimento con il partito di classe strettamente aderente al programma ed alla prospettiva rivoluzionaria comunista, che è senza mezzi termini: sovversiva, violenta, antidemocratica.
Detto questo bisogna precisare che la violenza per i marxisti non è uno sport, lo scopo del partito rivoluzionario non è quello di ammazzare fisicamente i borghesi. Il partito userà la violenza, i plotoni di esecuzione, il terrorismo di classe che mieterà indubbiamente, all’interno della classe borghese, anche molte vittime "innocenti", ma tutto questo non sarà che un mezzo per l’abbattimento del regime capitalistico prima, e per il mantenimento del potere proletario poi; per la eliminazione dello sfruttamento, delle classi e dello Stato.
Il metodo della lotta di classe è stato accettato da tanti e così diversi movimenti e scuole, che dandone le più svariate interpretazioni sono state causa anche di violente polemiche all’interno del movimento operaio. L’evoluzione del capitalismo, gli insegnamenti delle tante sconfitte e delle poche vittorie proletarie hanno, nel corso della storia, selezionato via via e le forme organizzative di classe e le forme di lotta rivoluzionaria. Le congiure per l’uguaglianza di Babeuf, le sette buonarrotiane, gli atti di esplosione anarchica avevano pari diritto di cittadinanza all’interno del nascente movimento proletario quanto ne avessero gli esperimenti comunistici di menti illuminate quali quella di Owen. Ma, la chiarificazione della dottrina, della tattica e strategia, già enunciata in modo lineare e netto da Marx ed Engels, ha avuto una definitiva sistemazione a cavallo della prima guerra mondiale e della rivoluzione russa: Lenin, Trotski, i gruppi di sinistra che confluirono nella Internazionale di Mosca definirono una volta per tutte, in campo teoretico e programmatico, le questioni sulla forza, la violenza, la conquista del potere, lo Stato e la dittatura.
Il socialismo per Marx, Lenin e per ogni comunista non si riduce ad una sommatoria di conquiste politiche o giuridiche tranquillamente trapiantabili sul tronco del sistema borghese. Innanzi tutto è indispensabile una lucida definizione dello Stato. Lo Stato è una macchina che una classe sociale adopera per opprimerne un’altra e tale definizione è sempre valida anche e soprattutto, giusta Marx e Lenin, in regime democratico.
«Resta pure chiarito, a coronamento della storica polemica, che la forza proletaria di classe non può penetrare in questa macchina e adoperarla per i propri sviluppi, ma deve, più che conquistarla, infrangerla e disperderla in frantumi. La lotta proletaria non è lotta all’interno dello Stato e dei suoi organismi, ma lotta dall’esterno dello Stato contro di esso e contro tutte le sue manifestazioni e forme. La lotta proletaria non si prefigge di prendere o conquistare lo Stato, come una piazzaforte in cui si voglia sistemarsi a presidio l’esercito vincitore, ma si propone di distruggerlo radendo al suolo le difese e le fortificazioni superate. Tuttavia dopo questa distruzione una forma di Stato politico si rende necessaria, ed è la forma nuova in cui si organizza il potere di classe del proletariato, per la necessità di dirigere l’impiego di una organica violenza con cui si estirpino i privilegi del capitale e si consenta l’organizzazione delle svincolate forze produttive nelle nuove forme comunistiche, non private, non mercantili.
«Si parla perciò esattamente di conquista del potere, intendendo
non conquista legale e pacifica, ma violenta, armata, rivoluzionaria. Si
parla correttamente di passaggio di potere dalle mani della borghesia a
quelle del proletariato, appunto perché nella nostra dottrina chiamiamo
potere non solo la statica dell’autorità e della legge posata sulle pesanti
tradizioni del passato, ma anche la dinamica della forza e della violenza
spinta verso l’avvenire e travolgente le dighe e gli ostacoli delle istituzioni.
Non esatto sarebbe parlare di conquista dello Stato o di passaggio dello
Stato dalla gestione di una classe a quella di un’altra, poiché appunto
lo Stato di una classe deve perire per essere infranto come condizione
della vittoria della classe prima dominata. Trasgredire questo punto essenziale
del marxismo, o fare su di esso le minime concessioni, come quella che
il trapasso del potere possa inquadrarsi in una vicenda parlamentare, sia
pure fiancheggiata da azioni di combattimento o di piazza, o da vicende
di guerra fra gli Stati, conduce direttamente all’estremo conservatorismo,
poiché significa concedere che l’impalcatura dello Stato sia una forma
aperta a contenuti sociali opposti, e sia quindi superiore alle opposte
classi ed al loro urto storico, il che si risolve nel timore reverenziale
della legalità o nella volgare apologetica dell’ordine costituito. Non
si tratta soltanto di un errore scientifico di valutazione, ma di un reale
processo storico degenerativo che si è svolto sotto i nostri occhi e ha
condotto i partiti ex comunisti giù per la china, che volgendo le terga
alle tesi di Lenin arriva alla coalizione con i traditori socialdemocratici,
al "governo operaio", al governo democratico, ossia in collaborazione diretta
con la borghesia e al servizio di questa» (Forza-violenza-dittatura
nella lotta di classe).
7. Il partito intelligenza della classe
Lo sfasciamento e la "dégringolade" (il francese si addice) delle organizzazioni terroristiche in Italia ne avrebbero dispersi i seguaci, di cui alcuni sembra che si stiano dedicando all’"autocritica" ed altri che si siano ritirati a vita privata. La funzione del partito non è di stampo educazionista, né dedita al salvataggio delle anime "pentite", per cui in questo testo, come in quelli che hanno seguito in questi anni le vicende del brigatismo, ci siamo occupati soltanto di posizioni politiche, di ideologismi, di azioni pratiche in quanto manifestazioni reali del terrorismo, e non siamo andati alla ricerca di "motivazioni sociologiche", come si usa dire oggi, tanto più di carattere individuale; restando per fermo che il partito mobilita forze in ogni angolo della presente società, dalle quali pretende il rigetto dell’anagrafe personale e la cieca fede nel comunismo marxista, non chiudendo ai "transfughi" dalle classi nemiche.
Il lettore attento ed interessato pensiamo che intenderà, leggendo questo breve testo di partito, e, per suo influsso, i testi ben più potenti vergati dai rivoluzionari comunisti nell’arco di oltre un secolo, come sia necessario possedere dottrina e programma che travalichino secoli e generazioni per affrontare con chiarezza e coerenza anche questo fenomeno sociale, come, quindi, ogni esame e soluzione debbano scaturire dal partito, inteso come "scuola di pensiero e metodo di azione", come forza sociale e impersonale. Si potranno non condividere le posizioni illustrate e svolte, ma è certo che non potrà essere ritenuta più adatta e risolutiva quella posizione, diversa dalla nostra, che pretende di imprimere maggiore forza e lucidità mescolando indirizzi e ideologie di diverse scuole e tradizioni, dimentichi che così facendo non si fa una mera operazione letteraria e filosofica, ma in realtà si confondono tra loro principi, finalità e mezzi di altre classi sociali.
La riprova pratica di quanto affermiamo la si ritrova negli avvenimenti storici. Mentre il crollo organizzativo e politico del terrorismo non sedimenta alcuna dottrina e posizione storica degne di questo nome; al contrario, il crollo della rivoluzione d’Ottobre e dell’Internazionale comunista, le sanguinose sconfitte del proletariato internazionale in questi ultimi decenni, hanno consentito al proletariato rivoluzionario di trarre delle lezioni feconde, utili per il prossimo assalto al potere capitalistico mondiale.
Abbiamo svolto un esame generale del terrorismo, non di fatti terroristici specifici, né abbiamo voluto emettere sentenze di condanna o di assoluzione per avvenimenti che, piaccia o non piaccia, scaturiscono dagli scontri sociali, immancabili in una società divisa in classi e gruppi sociali antagonisti.
Abbiamo dovuto respingere, invece, e con forza impietosa, il tentativo di mettere nel conto della nostra tradizione comunista rivoluzionaria le pratiche terroristiche, non per repulsa di ordine etico, ma per i riflessi pratici che simili azioni hanno sul proletariato, negativi per quanto attiene alla pretesa che stimolino nella classe operaia sentimenti di odio verso il capitalismo e illuminino i proletari sulla necessità di impugnare la violenza di classe. A differenza di moti storici del primo dopoguerra, nei quali il proletariato fu costretto ad impugnare le armi raccogliendo la sfida e la provocazione delle classi nemiche, in questo decennio terroristico le armi non sono state impugnate da proletari, i quali, peraltro, non hanno subito sfide e provocazioni eccezionali da indurli alla ribellione.
Il proletariato si leverà in armi quando vi sarà costretto dai fatti materiali, non quando glielo ordinerà qualcuno, sia esso il partito politico di classe, perché pretende di sapere nella sua coscienza individuale che "la violenza è levatrice di storia". Anche l’avventurismo è un attributo della disperazione piccolo-borghese, che non ci ha mai commossi, nemmeno quando scaturiva da studenti farneticanti una abominevole "alleanza operai-studenti".
Certo, la guerra civile culminante nell’insurrezione proletaria non segue schemi estetici e razionali, ma il partito, il vero partito rivoluzionario comunista, deve essere all’altezza di dominare gli eventi, dopo averli i saputi prevedere e decifrare, se non vuol decadere dal suo ruolo di organo della classe operaia.
Il primo passo per dominare gli eventi e non farsi relegare a rimorchio dei fatti, il partito lo compie con la sua corretta interpretazione dei rapporti sociali, politici ed economici, non facendosi condizionare dai falsi segnali che provengono da classi di cui non è il rappresentante, né l’organo storico e politico. Nella fattispecie il partito, e quindi la classe, devono diffidare per principio di ordini d’attacco provenienti da altre classi e da altri partiti, sapendo che non è l’uso della violenza che distingue le classi e i partiti politici. Le distinzioni nel campo pratico, che formano materia di tattica rivoluzionaria, dovranno essere fatte, per la migliore utilizzazione di ogni avvenimento, quando il partito e la classe potranno dominare la scena storica. La situazione storica odierna non vede il proletariato e il suo partito rivoluzionario comunista come protagonisti. Il ruolo non muterà per effetto di artifici, come la Sinistra Comunista sempre sostenne nell’Internazionale comunista contro le dottrine che accreditavano classi e partiti non nostri utili e necessari alleati per potenziare l’azione di classe.
Il proletariato è solo e sarà solo soprattutto quando saranno le armi a decretare le sorti del potere politico.