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Le avvisaglie di guerra tra gli opposti imperialismi, da una parte vengono utilizzate come minaccia sul capo del proletariato, dall’altra giustificano l’inasprimento della competizione tra le opposte frazioni del capitale mondiale, smentendo in modo palese i miti della coesistenza pacifica e della distensione, le moderne versioni del doppio mercato e del confronto tra due regimi diversi, il capitalismo occidentale, soggetto alle crisi e alla inevitabile catastrofe, e il socialismo orientale a economia pianificata e in continuo irresistibile progresso di forze produttive.
Mentre gli Stati dell’occidente si armano sempre più e giustificano questo processo come determinato da una presunta minaccia del campo socialista, lo Stato russo ed i suoi satelliti rispolverano la vecchia teoria staliniana della cittadella assediata e chiamano a raccolta i partiti fratelli legati al carro dei rispettivi Stati nazionali da quando, secondo la lettura storica del partito di classe, ha trionfato la controrivoluzione e la sua nefasta logica.
La residua illusione, che fu già un mito apparentemente incrollabile, dell’edificazione del socialismo in un solo paese, viene rivitalizzata con tutti i mezzi e l’opportunismo di matrice staliniana si guarda bene dal decidersi nella sua navigazione in mezzo al guado, svolgendo la sua funzione ruffiana e mediatrice, non tanto come predica in difesa della pace mondiale, ma per mantenere un regime sociale di oppressione e di miseria per la classe operaia.
Nel gioco delle parti, il verbalismo rivoluzionario e la fraseologia “marxista leninista” non fanno altro che coprire la logica degli interessi statali e l’intreccio delle alleanze, tutt’altro che definitive, ed anzi aperte a possibili nuovi e imprevedibili giri di walzer.
I torbidi sociali e le contraddizioni di classe, fuori dalla retta interpretazione del partito comunista rivoluzionario, diventano ogni giorno di più l’occasione e il pretesto per il riarmo della macchina statale contro il proletariato, giustificando da una parte un’immagine dello Stato leviatanico e invincibile, dall’altra l’illusione ribellistica e piccolo-borghese di un facile e vicino crollo dello stesso a colpi di Winchester e di attentati al suo cuore.
La borghesia mondiale, ricca della memoria storica della sua vittoria contro la pressione proletaria d’occidente, non ha mai dimenticato la lezione del modello fascista, e anche quando ha avuto buon gioco nel secondo dopoguerra mondiale nel rispolverare la facciata democratica, ha mantenuto in piedi l’impalcatura dello Stato e dell’economia maturate negli anni ruggenti.
Questo però non le ha permesso di esorcizzare il demone dell’inferno capitalistico e l’economia anarchica, fondata sulla contraddizione insanabile tra forze produttive e rapporti di produzione, tra produzione sociale e distribuzione privata, che va verso la precipitazione della crisi; gli apprendisti stregoni vedono giornalmente ergersi contro i loro “razionali piani” l’onda della depressione e della stagnazione economica, la marea dell’intasamento delle merci invendute, il flagello dell’inflazione, che non è altro che l’espressione monetaria dell’insanabilità della contabilità bottegaia borghese che urta contro l’urgenza delle necessità della classe dei salariati immiseriti e defraudati del frutto del loro lavoro.
Di fronte a questo contenzioso di classe la tentazione dell’azzeramento e del ripiano del dare e dell’avere si fa prepotente: non basta il deterrente delle armi nucleari e delle reciproche minacce di annientamento totale ad esorcizzare tale pericolo.
L’unico reale deterrente di fronte alla possibilità di guerra tra gli opposti interessi imperialistici è e rimane il potenziale, distruttivo per la classe borghese, del proletariato: per questo la borghesia combatte senza perder colpo la sua guerra di lunga durata, da oltre 60 anni di controrivoluzione, segnando nel suo carniere dei punti non indifferenti: la sconfitta del proletariato mondiale non sul campo di battaglia, ma attraverso lo scompaginamento del partito di classe e l’annessione nella sua logica di organismi economici di classe.
La tragedia della degenerazione dell’Internazionale Comunista negli anni ’20 con lo stravolgimento della teoria rivoluzionaria ad opera dello stalinismo, l’affermarsi del modello fascista nei paesi chiave della catena imperialistica, Italia e Germania, hanno permesso alla borghesia mondiale di affinare le sue armi contro l’inevitabile ripresa della guerra di classe.
Il proletariato tradito e privato dei suoi organi di combattimento e di direzione politica non poté opporsi alle ulteriori spartizioni tra opposte frazioni del capitale, anzi si trovò a combattere altre battaglie per conto terzi, ma il suo estendersi, non solo statistico alla scala mondiale, per la legge inevitabile della produzione capitalistica che non può vivere senza sangue operaio, pena la sua estinzione, ha continuato a rappresentare una minaccia per le istituzioni economiche e politiche dell’imperialismo mondiale.
La furibonda guerra di eliminazione scatenata dalle borghesie vincitrici contro le conquiste della rivoluzione d’ottobre vide saldarsi reazione bianca e tradimento: la logica statale ed imperiale non si fermò di fronte ad alleanze apparentemente contro natura, come il patto Hitler-Stalin del 1939: ma le contraddizioni insite nella logica imperialistica nulla poterono contro un nuovo rendiconto generale tra Stati, che avrebbe dato vita a nuovi assetti di forze e di potenze.
Il capitale ha il diavolo in corpo, per trent’anni negli ambienti malsani dell’opportunismo di vario colore non si è mai smesso di esaltare le capacità praticamente infinite e le risorse del presente modo di produzione: l’euforia degli aumenti vertiginosi del reddito nazionale, specie nei paesi distrutti dalla guerra, come Germania e Giappone, ha seminato l’illusione di una illimitata espansione della produzione e degli scambi; la tragedia dei popoli coloniali, la loro fame e il loro disumano sfruttamento non sono valsi ad aprire gli occhi alla tracotanza borghese d’occidente e d’oriente: tutto è stato giustificato come prezzo da pagare sull’altare del decollo industriale, della modernizzazione e della competizione.
Ma i nodi non potevano non venire al pettine, ed i decantati miracoli economici hanno cominciato a far i conti con le ragioni della lotta di classe, sopita ma non spenta, addomesticata, ma non doma. Così in anni recenti si è aperta una irreversibile crisi ed i segni della sua precipitazione si fanno sempre più evidenti.
Ma le possibilità di riscatto del proletariato devono fare i conti con un apparato statale che la democrazia post-fascista ha contribuito a legittimare agli occhi degli operai con un organamento di istituti e di sofisticate insidie che hanno fiaccato e confuso l’istintivo sentimento di classe.
Fanno ridere le contorsioni e le manovre di regime, al governo e all’opposizione, che pretendono di suscitare il “democratico” interesse intorno al codice Rocco e ai residui ruderi dell’ordinamento fascista.
Non si tratta per il comunismo rivoluzionario di espungere dalla legislazione vigente questa o quella legge incompatibile con l’assetto democratico, ma di abbattere violentemente un intero sistema di rapporti sociali, di cui l’apparato statale non è che il culmine e la più brutale sovrastruttura.
Com’è possibile, dopo così lunghi anni di menzogna e di soggezione proletaria, pensare ad un compito così arduo e così, almeno apparentemente, utopistico?
La condizione base che può permettere una prospettiva tanto esaltante e necessaria è il restauro integrale e intransigente della dottrina di classe e la ricostruzione del partito di classe, l’organo indispensabile per la direzione dell’immancabile ripresa della lotta a livello generale tra le classi.
Da queste considerazioni rifulge l’azione di reale resistenza e di difesa del programma da parte di un nucleo molto ridotto di militanti comunisti, che contro le mode incessantemente mutate in 60 anni di controrivoluzione hanno mantenuto fermo con sentimento e lucidità intellettuale e morale l’intero blocco della dottrina marxista.
La Sinistra Comunista, che fu l’anima del Partito Comunista d’Italia e la forza direttrice nei difficili ed anche esaltanti anni del primo dopoguerra mondiale, sola e contro tutti mantenne fermi i punti programmatici e pratici che avevano permesso la fondazione del Partito Comunista Mondiale della Rivoluzione, altrimenti noto come Internazionale, e incurante delle avverse condizioni storiche che videro l’avvento del fascismo e il tradimento della socialdemocrazia non temette di rimarcare la degenerazione della vita interna del partito mondiale sotto i colpi della vittoria borghese in occidente, che stava producendo i suoi devastanti effetti all’interno stesso dell’organizzazione politica del proletariato mondiale attraverso il grimaldello del partito russo.
Da allora, attraverso l’opera dei militanti comunisti che ebbero la forza di resistere al terrorismo ideologico e alle purghe, all’efficienza e alla violenza dello Stato borghese, senza timore di cadere in quello che gli interessati nemici ed ex comunisti amano chiamare atteggiamento settario, ha continuato a svolgere la sua azione di difesa della teoria, mai in astratto e fuori dal contatto possibile e concreto con la classe.
Il metro di misura di questa azione è sempre stato il giudizio storico complessivo, mai il successo immediato o la pretesa propria della politica di ottenere risultati a qualsiasi prezzo, magari sacrificando le possibilità stesse della rivoluzione.
Ed oggi, dopo che le accademie della storiografia opportunistica e staliniana per lunghi anni ci hanno gratificato del titolo, per loro infamante, di “nullisti rivoluzionari”, quando la crisi del capitale e dei rapporti statali si fa acuta e forse travolgente, le milizie del tradimento di classe si fanno in mille per presentare agli occhi del proletariato come barbaro e omicida anche il più timido accenno alla parola rivoluzione.
Un tempo non avremmo fatto abbastanza per il successo del socialismo, oggi saremmo degli untori da tenere alla larga per non contagiare l’idillio democratico e la pace tra i popoli.
Ci si decida una volta per tutte: non fummo dei nullisti rivoluzionari quando il proletariato era in piedi, e sapemmo indicargli la via della lotta e poi del ripiegamento ordinato e disciplinato, non lo siamo oggi quando la classe operaia ha ancora le ginocchia piegate, ed a mala pena è in grado di provare a difendere il pane quotidiano contro l’ingordigia dei detentori dei mezzi di produzione.
La pazienza del comunismo non è mai rassegnazione e attesa
fatalistica,
ma lotta nelle condizioni favorevoli o avverse, comunque azione storica
che trascende le mode e le generazioni, insita nelle contraddizioni
reali
della storia moderna. Ogni tentativo di esorcizzarla è illusorio, ogni
pretesa di evitarla è destinata al fallimento. La nostra storia, la
storia
della Sinistra Comunista, lo testimonia a lettere di fuoco.
Per la concezione borghese ed opportunistica dello Stato lo spartiacque tra il moderno e l’antico è costituito dal passaggio dallo Stato assolutistico e feudale a quello democratico liberale, nel tronco del quale ci si illude di innestare “elementi di socialismo”.
Per i teorici opportunisti è maturato da tempo il passaggio teorico
ad una visione dello Stato meno compatta e chiusa: ciò si fonderebbe
sulle
seguenti condizioni:
1) crisi della politica totale
2) parziale perdita dell’espansività dello Stato
3) crisi della riforma dello Stato
4) scoperta dello Stato come terreno diretto di contraddizioni,
contro la teoria “vetero marxista” della necessità dello Stato
proletario
sulla base della distruzione violenta dello Stato macchina borghese.
Possibilità
di far leva su tali contraddizioni per dar vita ad uno Stato-aperto.
5) critica della esasperazione del valore politico del partito
di classe.
Lo Stato visto come neutralizzatore dei conflitti trae origine dall’idea che di questa forma ha dato Hobbes e che sarebbe stata ripresa da Marx nel senso dello Stato come organo supremo del dominio di classe. Lo Stato sarebbe la potenza che organizza la forma dell’ineguaglianza: «Poiché si è mostrato che lo stato di eguaglianza è lo stato di guerra (bellum onmium contra onnes) e che quindi la diseguaglianza è stata introdotta col consenso di tutti, tale diseguaglianza deve essere considerata migliore, che chi ha di più è colui al quale abbiamo volontariamente dato di più» (Hobbes, De Cive). Lo Stato, nella teorica aurorale borghese, nasce dalla volontà contrattuale: la borghesia fin dalle origini giustifica la natura consensuale dello Stato, la sua base razionale. Per questo nella forma Stato di Hobbes non è ammesso conflitto politico, perché nell’idea del contratto sociale, il conflitto è sedizione.
Quanto tale teoria dello Stato sia astratta, una vera e propria robinsonata, sarà dimostrato dalla concezione marxista. Ciò non toglie che attraverso questa rivendicazione teorica si fonda lo Stato assolutistico moderno, che solo i mestatori di professione confondono con lo Stato feudale: in realtà siamo già nella fase storica nella quale la borghesia trova nella monarchia assolutistica a base contrattualistica lo strumento per crescere e farsi le ossa contro le strutture agrarie e feudali.
La logica che presiede allo Stato di Hobbes è quella dell’identità: nello Stato c’è la fine dei conflitti, la sicurezza, l’ordine, la pace sociale. Nello Stato e nella sua forza totale le contraddizioni di quella che Hegel chiamerà “società civile” si placano in virtù del patto attraverso il quale i singoli “lupi” rinunciano alla loro ferocia naturale per potere ed essere garantiti della conservazione della vita e dei beni necessari per mantenerla. Non ci meraviglia che nella fase decadente e forse mortale della forma Stato così insistente sia il richiamo a questa figura di Stato come forma suprema della convivenza civile, della sicurezza collettiva, contro i pericoli dell’anarchia e della barbarie.
Ma la scoperta che come comunisti rivendichiamo storicamente consiste proprio nella smentita della forma Stato di stampo hobbesiano. Lo Stato non è mai un’identità, ma il desiderio d’identità, non è una categoria esterna, ma una formazione storica-transitoria; lo Stato è una macchina, e, come tutte le macchine, soggette all’usura, alla corruzione. La composizione dei conflitti propri della sfera economica e sociale non si sublima, nella concezione marxista, nello Stato: trova in esso solo una sistemazione coatta in virtù della superiorità di classe della borghesia. Ma i conflitti sociali, piuttosto che essere neutralizzati da questa forza totale, vengono ulteriormente approfonditi in quanto tale forza si manifesta come parziale: la base economica della società è una fonte dinamica nella quale le classi si scontrano; l’illusione che la rappresentanza degli interessi spostata sul terreno politico possa essere composta dalla “ragione” non è che una proiezione, appunto, della “ragione borghese”.
Nel momento del dominio gli interessi di parte tendono a sublimarsi e a presentarsi come comuni a tutti, cioè appunto come forma generale della società. Ciò in parte corrisponde alla verità, ma nel senso della prevalenza teorica e pratica di determinate forze sociali, cioè in senso dinamico, non statico.
È per questo che il moderno proletariato ha in certe fasi combattuto a fianco della borghesia per la sconfitta del potere feudale: in certe fasi storiche, più che la volontà, feticcio della concezione individualistica dello Stato e della società, la risultante delle forze ha coinciso con lo Stato borghese. Il proletariato ha visto coincidere momentaneamente i suoi interessi con quelli borghesi, mai con la sua volontà dinamica e storica, la volontà del proletariato infatti non è individuale, ma di classe, espressa nella formazione storica delle sue organizzazioni autonome e distinte e culminante nel partito politico.
L’idea che il conflitto nella forma-Stato è sedizione fa coincidere, seppure in tempi diversi, la concezione hobbesiana con quella propria della borghesia morente, basti pensare alla nota formula statolatra di marca fascista “tutto nello Stato, niente fuori dello Stato, tutto attraverso lo Stato”, che poi è anche quella della attuale democrazia pluralista.
In effetti la ragione-Stato è messa in crisi dalla dinamica degli antagonismi di classe, che non sono componibili definitivamente all’interno dell’identità-neutralizzazione Stato. La dinamica della “società civile” viene ricomposta solo nella finzione giuridica dello Stato, assolutistico o democratico.
La teorizzazione dello Stato costituzionale che trova la sua consacrazione nell’esperienza inglese è solo un versante della teoria borghese dello Stato, un compromesso storico in cui si afferma una balance of power quando ormai non è più in grado di ristabilirsi il potere dello Stato feudale, affermatasi ormai inevitabilmente la realtà sociale capitalistica.
Lo sforzo costante dell’ideologia borghese è quello di presentare le fasi della dittatura, di Cromwell in Inghilterra, di Robespierre in Francia, come espressione di eccessi da addebitare ad estremisti del tempo: come sempre più si afferma la tendenza opportunista a considerare la fase del terrore proletario esercitato nella Russia rivoluzionaria, come espressione di eccessi di gruppi minoritari, i bolscevichi. In realtà non si guadagna un gran che a spiegare la storia a base di eccessi e di esagerazioni. Il terrore bianco e rosso sono stati forme specifiche del passaggio dal Medio Evo alla borghesia, dalla borghesia al potere proletario e socialista.
Lo Stato costituzionale in cui vige la divisione dei poteri è la forma di Stato delle fasi in cui la temperie degli antagonismi di classe può essere controllata dalla classe al potere attraverso il compromesso politico e la divisione delle funzioni: deve essere espressa ancora una volta la formula della balance of power che oscilla a seconda del tenore degli antagonismi di classe. Non per niente l’immagine stessa della bilancia richiama l’equilibrio di due piatti: solo se le classi si confrontano senza venire a frontale collisione è possibile che lo Stato funzioni da perno, ago della bilancia, in caso contrario c’è squilibrio, determinato storicamente, fra il potere legislativo, esecutivo e giudiziario.
Che nella fase di ascesa della borghesia sia in primo piano il valore e il peso della capacità borghese di legiferare, di affermare la propria volontà attraverso le assemblee rappresentative non è che l’espressione di una egemonia di classe giovane e creativa, che coincide di fatto con il volere del popolo. Non è casuale che nell’attuale fase di declino della “creatività” borghese, tutti ammettono il primato, o la necessità del primato dell’esecutivo, cioè del momento più pratico e prosaico dell’esercizio del potere. Non dimentichiamo del resto che le stesse forme di totalitarismo borghese moderno cercano di legittimarsi proprio affermando la necessità del rafforzamento dell’esecutivo, mantenendo formalmente in vita la magistratura legislativa, svuotandola di fatto, ma non di diritto, fino al loro compito di classe compiuto.
La crisi della funzione neutralizzatrice dello Stato consiste nel fenomeno che i teorici chiamano eufemisticamente “deformalizzazione dello Stato”.
La potenza degli antagonisti sociali (della lotta di classe, nel nostro linguaggio senza veli) fa parlare di ripresa “dell’autonomia della società civile”. È evidente per noi che questa riscoperta della “società civile” è un tentativo di mascherare la crisi dello Stato e della sua funzione tradizionale. In effetti lo Stato che si deformalizza è equivalente a Stato che è in crisi, incapace di continuare a presentarsi come Stato di tutti, fondato sul principio di identità di matrice hobbesiana.
Di fronte allo scatenarsi dei cosiddetti “corpi separati” dello Stato, che altro non sarebbero se non interessi contrastanti interni alla stessa borghesia e ai suoi commis all’interno della guida della comune macchina, e la compressione della mai completata operazione di pacificazione degli interessi economici nella forma Stato, sempre più risibile e falso suona il programma opportunista di far leva sul conflitto per, si badi bene, non far saltare definitivamente questo congegno anti-proletario, ma per portare a termine, con l’apporto della classe operaia, il disegno democratico, lo Stato di tutto il popolo mai riuscito e mai raggiunto dalle frazioni borghesi in concorrenza.
La “deformalizzazione dello Stato”, ove venga presa sul serio, non può per noi essere intesa che come conferma della natura di classe dello Stato.
La riscoperta della ricchezza e della creatività della società civile è semplicemente una regressione se non si riconosce in questa riscoperta la vitalità, seppure in fase di timida ripresa, dell’insuperabile antagonismo di classe.
Nella tradizione e nella teoria marxista non ha avuto mai diritto di cittadinanza la nozione di Stato come incarnazione del potere in senso assoluto; lo Stato è sempre visto come una espressione storica e transitoria. La stessa formula dello Stato neutralizzante le è assolutamente estranea, poiché il marxismo rivoluzionario ha sempre individuato nel potere statale l’organizzazione politica della classe dominante.
Anche quando non abbiamo difficoltà a riconoscere che “l’intervento dello Stato” nella cosiddetta società civile e nell’economia si accentua nella fase imperialistica del capitale, non modifichiamo affatto una nozione collaudata dall’esperienza storica.
Per questo smentiamo sia la interpretazione opportunista che vede nella crisi dello Stato l’occasione per inserirsi in settori di esso per trasformarlo dall’interno, o nell’accentuare la teoria dei “corpi separati” per sostenere la necessità di impegnare la forza del movimento operaio per realizzare definitivamente lo “Stato popolare e democratico” compatto e unitario, controllato dal basso; sia le interpretazioni anarcoidi e piccolo-borghesi che ingigantiscono la formazione statale fino al punto di dipingerla come un potere da un cuore misterioso e variegato, una realtà arcana e onnipresente, una potestà quasi divina.
In realtà, essendo lo Stato la macchina organizzativa della classe dei detentori dei mezzi di produzione, pubblici e privati, contro i salariati, non abbiamo mai preso in considerazione neppure la definizione di Stato totalitario, poiché la nostra visione della società che spiega i rapporti umani come fondati sulla base economica non ha mai riconosciuto allo Stato borghese la possibilità e la capacità né di neutralizzare, né di eliminare gli antagonismi di classe, anche ricorrendo alla violenza più brutale.
A maggior ragione non possiamo riconoscere lo Stato democratico di per sé capace di risolvere i conflitti sociali, per quanto si presenti come pluralista e decentrato, “diffuso” nella società civile come paciere e garante, e di essere una possibile forma di Stato capace di estinguersi per via pacifica, di sciogliersi per via indolore nell’”amministrazione delle cose”, nell’autogoverno degli uomini. Il “pluralismo” non è sinonimo di “società liberale”, ma è un tentativo di mascherare la crisi dello Stato “centralizzante” attraverso dei “concordati” tra partiti borghesi ed opportunisti, che si lottizzano il potere in un processo di contraddizioni interne allo Stato.
Noi sosteniamo nostre inconfondibili tesi sulla natura dello Stato, che non possono essere sostituite da scoperte dell’ultima ora.
A) L’ideologia borghese, prima della lotta e della vittoria finale, presenta il suo futuro Stato post-feudale non come uno Stato di classe, ma come Stato popolare, fondato sulla soppressione di ogni ineguaglianza davanti alla legge. La teoria proletaria proclama apertamente che il suo Stato avvenire sarà uno Stato di classe, cioè uno strumento maneggiato, finché le classi esisteranno, da una classe unica. Le altre saranno, in principio, non meno che di fatto, messe fuori dallo Stato e “fuori legge”. La classe operaia, pervenuta al potere, “non lo dividerà con nessuno” (Lenin).
L’ideologia democratico-opportunista s’illude di poter meglio fare ingoiare la pillola della pressione dello Stato presentendolo come Stato di tutto il popolo, come un potere che anche quando si manifesta come prepotente e brutale non è altro che quello che i “cittadini” hanno voluto con la loro libera espressione di sovranità. La teoria proletaria ripudia tutti i machiavellismi, né indora la pillola ai nemici di classe e alle mezze classi titubanti e incerte quando non riottose e inaffidabili: lo Stato è sempre Stato di classe, prima e dopo la presa del potere.
L’ideologia borghese non è stata in grado di definire, anche a livello puramente teorico, il proprio atteggiamento nei confronti della necessità del potere statale, oscillando permanentemente tra l’aspirazione liberale-anarchica di un potere negativo, e cioè inteso come male inevitabile di fronte alle prepotenze dell’assolutismo, ma pur sempre ostile alle libertà individuali e alla libera iniziativa, e l’affermazione di un potere totale e disumano, mistico e divino capace di risolvere tutti i problemi con l’autorità di una volontà anonima e impersonale. La teoria proletaria non coltiva nessuna estetica del potere, ne delinea solo gli aspetti strumentali e transitori in relazione alla realizzazione del comunismo.
B) Dopo la vittoria politica borghese si proclamarono solennemente nei diversi paesi come basi e fondamento dello Stato delle carte costituzionali o dichiarazioni di principio considerate come immutabili nel tempo, come espressione definitiva delle regole immanenti, infine scoperte, della vita sociale. Da quel momento, tutto il gioco delle forze politiche avrebbe dovuto svolgersi nel quadro invalicabile di questi statuti. (La stessa costituzione italiana vigente è definita dagli “esperti” rigida, ed ha perfino avuto la pretesa di definire “vietato” un fenomeno politico e sociale come il fascismo, in una disposizione “transitoria”, forse neanche avvedendosi della contraddizione nei termini. Ironia della storia!).
Lo Stato proletario non è affatto annunciato, durante la lotta contro il regime attuale, come una realizzazione stabile e fissa di un insieme di regole dei rapporti sociali dedotte da una ricerca ideale sulla natura dell’uomo e della società. Nel corso della sua vita, lo Stato operaio evolverà incessantemente fino ad estinguersi: la natura dell’organizzazione sociale, dell’associazione umana, cambierà in modo radicale secondo le modificazioni della tecnica e delle forze di produzione, e la natura dell’uomo si modificherà altrettanto profondamente allontanandosi sempre più da quelle del bue da lavoro e dello schiavo.
Una costituzione codificata e permanente da proclamare dopo la rivoluzione operaia è un assurdo, non può figurare nel programma comunista. Tecnicamente converrà adottare regole scritte che non avranno però nulla di intangibile e manterranno un carattere strumentale e transitorio, facendo a meno delle facezie sull’etica sociale e sul diritto naturale.
D’altronde la sanguinosa storia della controrivoluzione ha dato in proposito lezioni eloquenti: mai sono stati conculcati i riaffermati diritti costituzionali come dopo la proclamazione della costituzione russa del 1936; mai si sono consumati tanti delitti come sotto la protezione della cosiddetta “legalità socialista”.
C) La classe capitalistica vittoriosa, conquistato e perfino spezzato l’apparato feudale dello Stato non esitò ad impiegare la forza dello Stato per reprimere i tentativi controrivoluzionari di restaurazione.
Tuttavia le misure più risolutamente terroristiche furono giustificate come dirette non contro i nemici di classe del capitalismo, ma contro i traditoridel popolo, della nazione, della patria, della società civile, identificando tutti questi concetti vuoti con lo Stato medesimo, e in fondo col governo e col partito al potere.
Il proletariato vincitore, servendosi del suo Stato per schiacciare la resistenza inevitabile e disperata della borghesia (Lenin), colpirà gli antichi dominatori ed i loro ultimi partigiani ogni volta che si opporranno, nella logica della difesa dei loro interessi di classe, ai provvedimenti destinati a sradicare il privilegio economico. Quando questi elementi sociali non manterranno, di fronte all’apparato di potere, una posizione estranea, quando cercheranno di uscire dalla passività loro imposta, la forza materiale li piegherà. Ma non saranno partecipi di alcun contratto sociale, non avranno alcun dovere legale e patriottico. Veri e propri prigionieri sociali e di guerra (come del resto furono, per la borghesia giacobina, in linea di fatto, gli ex-aristocratici ed ecclesiastici) non avranno nulla da tradire, perché non sarà chiesto loro alcun ridicolo giuramento di lealtà.
Tutto questo non per evidenziare “estesticamente” la superiorità morale dello Stato proletario, ma perché nella realtà effettuale l’unico Stato aperto immaginabile e possibile è stato ed è lo “Stato proletario”. La sua “apertura” si basa sul processo storico e dialettico che dopo la presa del potere inizia la grande fase delle riforme sociali. Fermo restando il primario problema militare della sconfitta della controrivoluzione che, previsione basata sull’esperienza storica, non potrà non tentare di riprendere il potere, sotto il potere statale del proletariato si sgonfiano le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, per cui i compiti dell’apparato statale tendono a ridursi a quelli indicati.
Non essendo l’espressione di interessi di classe che tendono a cristallizzarsi e consolidarsi attraverso la burocrazia e le forme amministrative, politiche e militari che ne conseguono, poiché il proletariato non mira a riprodurre la società divisa in classi, ma ad abolire le classi, fermo restando che lo Stato proletario metterà in atto anche la sua azione “pedagogica” e d’indirizzo ideologico, non s’illude di stabilire un patto sociale sulla base del dovere legale.
L’esperienza della controrivoluzione staliniana sta lì eloquente a dimostrare che quanto più evidente si faceva la vittoria della borghesia e della reazione bianca internazionale, tanto più lo Stato già proletario riassumeva le caratteristiche proprie dello Stato borghese: e cioè, rafforzamento della burocrazia, prevalere, sulla base del terrorismo ideologico e materiale, dello Stato sul partito comunista, reale e non solo possibile egemonia dei neppisti, tendenza all’irrigidimento e all’elefantiasi dell’apparato statale in funzione di lotta, come già nel caso dell’esperienza rivoluzionaria francese, non contro i nemici di classe, ma contro i "traditori del popolo", della "nazione russa", della "patria socialista", ecc. ecc.
Come si vede, se la teoria marxista esclude il contratto sociale dopo la presa del potere, a maggior ragione respinge come estranea alla sua visione del processo rivoluzionario ogni pretesa di stabilire alleanze o unità politiche su tale base, che è democratica e illusoria, sostanzialmente idealistica e incapace di leggere i rapporti di forza alla luce della dialettica materialistica.
Lo Stato aperto proletario non illude i suoi nemici, né sarà tenero nei confronti dei tentativi reali e materiali di difendere i loro interessi di classe, ma nello stesso tempo farà sentire il suo senso di liberazione sociale non soltanto nei confronti del soggetto diretto di essa, e cioè i proletari ed i contadini poveri, ma anche nei confronti di quelle realtà sociali che per lungo periodo, specie prima della presa del potere, sono state incerte e ambigue, facile preda del più forte. Le famigerate e da noi sempre a ragione disprezzate mezze classi, se il potere proletario sarà saldo e fedele ai suoi principi, non avranno altra alternativa che la passività e l’estraneità di fronte al terrore di classe.
L’adesione allo Stato proletario non avrà bisogno di atti di lealtà formale, perché la distruzione della macchina statale borghese non permetterà che i vecchi funzionari possano adeguarsi pena un formale voltagabbana, né lo Stato proletario procederà alla messinscena di anodine “epurazioni” dall’apparato, di cui si sono dimostrati maestri gli opportunisti d’ogni clima.
La professione di questi principi non è un atteggiamento estetico
che
vuole esprimere “purezza ideologica”, ma la lezione pagata a duro
prezzo
di sangue dal proletariato internazionale, dalla Comune di Parigi
all’Ottobre
Rosso, ma soprattutto dalla lezione della controrivoluzione e della
crisi
e degenerazione della Terza Internazionale.
Fascismo e democrazia post-fascista:
Giano bifronte della teoria borghese dello Stato
Contro la gratificante e non disinteressata tesi crociana del fascismo inteso come buia parentesi nella storia d’Italia e nel cammino della libertà, sposata in forme più o meno spurie da tutte le correnti democratiche ed opportunistiche che anche in recenti exploit polemici hanno rivendicato la tradizione che da Labriola porta a Croce e Togliatti (leggi caso Amendola nel gioco delle parti della commedia italiana delle Botteghe Oscure), ancora nel 1952 (Prometeo, luglio-settembre), in continuità con la tradizione della Sinistra Comunista e del marxismo rivoluzionario, abbiamo ribadito la visione di classe che respinge come capziosa ed equivoca l’immagine dello Stato borghese che tale impostazione comporta. Il fascismo non fu nella nostra concezione e valutazione una “rivoluzione” contro lo Stato della borghesia, ma l’espressione più autentica e moderna della reazione borghese contro l’attacco del proletariato, non domato dallo scontro interimperialistico. Non solo, ma sostenemmo, soli contro tutti, che il modello Mussolini avrebbe fornito un precedente paradigmatico anche per quei paesi dell’Occidente europeo ed atlantico, compresi gli Stati Uniti, che l’opportunismo socialdemocratico amava presentare come la culla della democrazia politica, immune da tentazioni autoritarie, o comunque in grado di respingere il militarismo e la dittatura.
Sostenemmo, non certo per boria o in vena di battute, che il fascismo rappresentava un semplice cambiamento di forma di governo nell’ambito della logica di classe dello Stato borghese: ribadiamo la stessa valutazione oggi, alla vigilia d’una possibile terza conflagrazione interimperialistica, allorchè, in tutt’altre faccende affaccendato il connubio democrazia postfascista-opportunismo, dubitiamo che si accordi nel dare una plausibile definizione della tendenza irreversibile dello Stato borghese ad armarsi fino ai denti, al di là delle colorite formule sulla germanizzazione, che semmai, nel solco del vile democratismo marca 1914, non fa che ribadire ed evocare vecchi fantasmi lontani mille miglia da una coraggiosa e coerente impostazione di classe.
Contro, inoltre, la sterile e accademica polemica sulla crisi del
marxismo
e sulla sua capacità di esprimere una sua compiuta teoria politica
dello
Stato, che abbiamo ampiamente respinto, riproponiamo le nostre
classiche
ed icastiche tesi:
1) Il capitalismo di fronte alla sue crisi interne reagisce in
tutti i paesi, quale che sia la sovrastruttura politica, in
modo
unitario e con metodi d’intervento di accentramento e di dirigismo
statale
che accomunano democrazia e fascismo in un convergente
obiettivo
di difesa del regime.
2) Lungi dal significare l’assoggettamento del capitale
all’imperio
di un preteso ente collettivo e superiore alle classi (e, in linea
subordinata,
della borghesia ad una “nuova classe” di burocrati e tecnici,
“managers”),
il capitalismo di Stato nelle sue diverse manifestazioni (ad Ovest come
ad Est) costituisce la forma più spietata dei “pubblici poteri” (come
eufemisticamente il vecchio socialismo formato 1892 definiva lo Stato)
in rappresentanza di una cerchia sempre più ristretta di interessi
privati.
Non solo, ma proprio in risposta all’opportunismo dei nostri giorni che, dopo aver scoperto in ritardo la prepotenza degli imperialismi, bela contro quegli spietati (ed a valenza politico-strategica), tipo URSS, per porsi nel mezzo come paciere e interporre i suoi uffici o accreditarsi come patentato di democrazia presso il tradizionale ed ex aborrito marca USA ed Union Jack, già nel 1952 sostenevamo che «la nostra analisi non sarebbe stata completa se avesse prescisso dalla considerazione della parte che nel processo di formazione del capitalismo di Stato ha avuto (e purtroppo continua ad avere) il movimento operaio organizzato in America, dove l’interventismo statale in regime politico democratico ha trovato la sua prima manifestazione organica, e in Inghilterra, dove ha raggiunto, dal dopoguerra ai giorni nostri, la forma più completa sul terreno pratico e su quello delle formulazioni “teoriche”. In realtà, l’analisi di questa seconda faccia del “New Deal” americano e del “Welfare State” (Stato assistenziale) britannico dimostra non soltanto che la macchina dell’intervento e della gestione economica statale ha potuto mettersi in moto solo in virtù di una preventiva corruzione opportunistica del movimento operaio, ma che in entrambi i casi fu la dirigenza controrivoluzionaria a fornire alla classe dominante le armi teoriche e pratiche necessarie al tamponamento della crisi. E ciò è un’altra prova della unitarietà del capitalismo nei propri metodi di conservazione: il fenomeno dell’opportunismo operaio, elemento necessario della difesa capitalistica contro l’assalto rivoluzionario del proletariato, assume dovunque gli stessi aspetti; ai dirigenti controrivoluzionari dei sindacati il capitalismo non chiede più soltanto di contenere nell’ambito della legalità, della riforma e della collaborazione gli urti di classe, ma di farsi promotori (come in America), amministratori (Inghilterra laburista) di metodi più efficaci - “progressisti”, cioè più conservatori del regime dello sfruttamento della forza lavoro, e, di là dalle pretese differenzazioni idealistiche, il Lewis ispiratore di Roosevelt o il Bevin o l’Attlee pianificatori dell’economia post-bellica e gestori delle avvenute nazionalizzazioni tendono la mano ai Di Vittorio [oggi diremmo ai Lama vari] elaboratori di piani di risanamento industriale e di investimenti produttivi o ai loro colleghi d’oltre cortina, che esercitano già adesso quei compiti di gestione economica ai quali la CGIL e la CGT francese possono per ora soltanto porre la propria candidatura».
L’esame è stato superato, e gli anni ’80 con i codici di autoregolamentazione degli scioperi fanno dell’opportunismo nostrano un modello di “direzione concertata dello Stato borghese”.
Sulla scorta dunque dell’esperienza della lotta di classe, come è letta dalla nostra tradizione comunista rivoluzionaria, sono le condizioni storiche dell’ineguale sviluppo del capitalismo che permettono la valutazione degli attuali conflitti interimperialistici e la funzione esercitata dalle diverse forme politiche che essi assumono: non siamo mai stati indifferentisti in nessun campo, e tanto meno in questo culminante e capitale, se è vero che di fronte all’offensiva fascista fummo e riuscimmo soli a sostenere la difesa ad oltranza dell’organo unico capace di ammortizzare i colpi della reazione borghese e di garantire la ripresa per necessari attacchi al regime borghese.
L’alternarsi delle forme nella sovrastruttura politica determinata dalle contraddizioni imperialistiche in questo modo non consiglia l’abbandono degli strumenti tradizionali per combattere con efficacia i camuffamenti del nemico di classe; anzi, è la sola condizione per adattare duttilmente gli organi di combattimento proletario alle distinte situazioni e peculiari. Come abbiamo scritto nella Piattaforma politica del Partito Comunista Internazionalista, la condizione per la ricostruzione del partito politico della classe operaia e lavoratrice si basa su linee e cardini di programma perfettamente intonato alle esigenze internazionali del movimento: oltre alla teoria generale, alla concezione storica del partito, essenziale è dunque la valutazione storica che il partito dà dei principali eventi della storia mondiale verificatisi dopo la fine della Prima Guerra imperialistica fino ad oggi, in una continuità d’impostazione che ci permette di cogliere la continuità e la convergenza tra fascismo e democrazia e la loro funzione comune di difesa del regime sociale borghese.
Come il fascismo è stato da noi definito «un fenomeno storico mondiale, espressione della politica della classe capitalistica dominante nella fase in cui la sua economia assume i caratteri monopolistici ed imperialistici», così non possiamo recedere dalla definizione della democrazia come la maschera che tale assetto riassume nelle circostanze storiche del secondo dopoguerra mondiale in cui, distrutto il partito di classe e gli organi di combattimento del proletariato, la borghesia può permettersi il lusso di presentarsi come l’unica possibile forma politica, immutate restando le strutture fondamentali di cui il fascismo ha dotato lo Stato e precisamente gli istituti che garantiscono l’intervento dello Stato nell’economia (esempio: l’IRI) e la natura fondamentale e i compiti assegnati alle organizzazioni per la difesa d’un regime di lavoro necessario per il mantenimento del capitale come modo di produzione.
Caratteristica essenziale del movimento fascista fu l’attacco demolitore alla esistenza di autonome organizzazioni di classe ed inquadramenti di classe dei lavoratori. In tale attacco il fascismo utilizzò, oltre alle forze del nuovo partito borghese di classe da esso costituito, quelle dello Stato e di tutti gli altri partiti borghesi con esso conniventi in questo compito controffensivo e di contro-rivoluzione preventiva per il mantenimento dei principi di classe.
Nel regime di restaurata democrazia, quasi in un’opera di contrappunto, oltre alle forze costituite dai partiti anti-fascisti e dello Stato, sorretto con tutti i mezzi nella bufera del secondo conflitto interimperialistico (basti pensare al clima di disgregazione dalla caduta del fascismo all’8 Settembre), si utilizzano le spoglie del disciolto partito fascista, con quelle connivente nel compito di scoraggiare un qualsiasi tentativo di autonomo movimento proletario (si pensi agli scioperi del 1943 fino ai moti del 1948 in occasione dell’attentato a Togliatti, ultimo atto di protesta del proletariato per un suo “capo”.
Il riferimento non sarà che platonico: la norma costituzionale, che esplicitamente pone divieto alla ricostruzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, quasi a titolo ironico, viene posta nelle disposizioni “transitorie”. Non c’è dubbio in proposito, e noi l‘abbiamo sempre sostenuto: né il fascismo, né il capitale si aboliscono per decreto e tanto meno con norme transitorie!
Respingemmo e respingiamo come antistorica la tesi che il fascismo consiste in una reazione feudalistica assolutistica medievale, tendente a distruggere le conquiste sociali e politiche della borghesia capitalistica industriale. Respingiamo che la restaurazione della democrazia consista nel ripristino delle garanzie giuridiche e politiche dello Stato prefascista o nella sconfitta definitiva della reazione feudalistica e assolutistica in nome delle conquiste sociali e politiche della borghesia capitalistica industriale.
Nella ricordata e basilare Piattaforma abbiamo scritto che la situazione italiana presente non significa la chiusura di un periodo di governo fascista borghese e l’apertura di un opposto periodo di politica borghese liberale che ritorni al ciclo e ai rapporti del periodo precedente il 1922. Essa significa il crollo dell’apparato di governo e di potere della classe dominante in Italia, determinato non da crisi politiche interne e da divergenze di metodo, e neppure da attacchi decisi, sociali e politici, dall’esterno, ma dalla sconfitta militare e dal prevalere del gruppo di Stati contro il quale lo Stato borghese italiano si trovava schierato.
La situazione che si è determinata non presenta la conquista anche parziale del potere politico da parte di strati proletari o piccolo-borghesi. La ricostruzione dell’apparato centrale di controllo politico e di polizia al servizio degli interessi economici capitalistici avviene a cura e sotto lo stretto indirizzo dei grandi Stati vincitori della guerra, sotto forma di un compromesso accettato dalla medesima classe dominante indigena con la riduzione del suo privilegio e della sua sovrana autonomia di governo pur di continuare a sfruttare le classi lavoratrici nella veste di borghesia o di Stato satellite della nuova organizzazione mondiale. Si costituisce così un sistema di forze controrivoluzionarie ancor più efficienti di quelle fasciste formalmente sostituite.
Sulla base di queste considerazioni riaffermiamo schematicamente
che:
1) Quanto più gli interessi della borghesia
diventano
generali, tanto più per essa si fa urgente la necessità di darsi un
assetto
politico disciplinato al suo interno (tendenza al partito unico) e
violento
contro la classe nemica, il proletariato, attraverso il rafforzamento
dell’apparato
statale.
2) Dietro l’anodina formula dell’interventismo
statale
nell’economia si nasconde, sia nella forma fascista di Stato sia in
quella
democratica, naturalmente in moduli esteriori diversi, la difesa
generale
e diretta della borghesia e dei suoi interessi economici e politici:
non
è tanto lo Stato ad intervenire nell’economia, quanto l’economia
borghese
che manovra il suo Stato in difesa dei suoi privilegi di classe.
3) Nella forma fascista i teorici dello Stato, sotto
la formula del superamento dello Stato liberale, neutrale e imparziale,
nello Stato etico, presentano lo Stato come superiore agli interessi
antagonisti
e, più che strumento di equilibrio, organica sintesi delle diverse
istanze
della società civile.
4) I teorici dello Stato democratico post-fascista
non nascondono che la “rinata nazione” è la sintesi di diverse matrici
ideali e di interessi contrapposti, ma nonostante il ripudio formale
della
formula dello Stato etico, non hanno potuto espungere dalla
costituzione
materiale le strutture portanti dell’assetto complessivo della macchina
statale nei suoi assetti burocratici, amministrativi, militari.
5) L’illusione dei vecchi “liberali” di ripristinare
le condizioni politiche dello Stato prefascista si fondano su una
concezione
notoriamente etico-politica di matrice neo-idealistica, che è
l’antitesi
della lettura materialistico dialettica e storica della teoria dello
Stato.
D’altro canto è semplicistica la tesi che la linea di discriminazione tra forma autoritaria di Stato e forma democratica consista nel formale ripudio della violenza nei rapporti sociali e della guerra nei rapporti con gli altri Stati: la violenza non sta al disopra dei rapporti sociali (come caciocavalli appesi, per dirla parafrasando B. Croce), ma sta dentro agli antagonismi di classe.
Essendo lo Stato, nella nostra concezione, l’espressione generale e organizzata di questa violenza, la pretesa tipicamente liberale e democratica di gabellare per pace sociale la garanzia dell’ordine è teoricamente più mistificante, seppur più debole, della concezione organica ed etica propria del fascismo. Chi non ricorda comunque che i corifei dello Stato liberale, da Croce a Giolitti, invocarono lo Stato forte contro i conflitti sociali che il primo dopoguerra mondiale non aveva saputo stroncare e risolvere? Non saremo certo noi ad abboccare alla professorale distinzione tra forza (lecita!) e violenza (illecita!).
E poi lo scambio di esperienze e di reciproci appoggi con l’apparato militare dello Stato liberale prefascista non è ormai una deformazione del pensiero comunista, ma “patrimonio tecnico comune” della cosiddetta scienza della storiografia.
Per il marxismo l’esercizio della violenza nella storia non è da considerarsi con formule né estetiche né moralistiche, per cui fuori da ogni irrazionalistica demonizzazione o semplicistica riduzione del fascismo a folklore o messa in scena da sottovalutare, è stato immediatamente individuato nell’azione delle squadre illegali il piano della borghesia mirante al rafforzamento della macchina statale. Le correnti socialdemocratiche, al contrario, si attardavano a vedere in esso l’espressione del residuo mondo feudale agrario, coerentemente con tutta la tradizione “democratica” da noi duramente respinta, che pretendeva di difendere il progresso borghese dall’oscurantismo e dal conservatorismo.
I sostenitori dello Stato democratico post-fascista non si vergognano di rivendicare queste stesse matrici, ed hanno ragione, solo che non sanno come spiegare il residuo feudal-agrario e chiesastico nell’occidente “ultraimperialistico” o addirittura “post-industriale”. Ad ognuno le sue grane d’interpretazione. Anche la limpidezza dei teoremi ha una sua ragione ed un suo pregio.
Il fascismo tenta (e con qualche successo) di realizzare il programma social-riformista, e dà la lezione vivente che tale progetto non è realizzabile senza l’esercizio della violenza di classe statale. L’ostinarsi dell’opportunismo di matrice socialdemocratica, tanto più bieco una volta passato e travasato nella esperienza staliniana, nel pretendere di sostenere la possibilità della transizione al socialismo attraverso la democrazia, anzi nel mantenimento della democrazia e dei suoi “principi eterni e universali”, è fingere di non vedere che la violenza del fascismo non è stata neutrale e che l’eredità dello Stato post-fascista è debitrice delle grandi trasformazioni e del rafforzamento che lo Stato della borghesia ha realizzato nell’epoca dello sviluppo imperialistico. A maggior ragione non può pretendere di essere neutrale la violenza delle istituzioni, non solo dello Stato centralizzato propriamente detto; per il comunismo rivoluzionario è accresciuta violenza di classe.
Come il fascismo del 1919 si vide spianare la strada dalle correnti democratiche e liberali e dall’opportunismo socialdemocratico di varia gradazione, così lo Stato democratico post-fascista, dopo essersi vista spianare la strada dalla crisi del fascismo nelle vicende del secondo conflitto interimperialistico, oggi spiana la strada al cosiddetto “nuovo fascismo”, che non fa che chiedere il rafforzamento dell’apparato statale considerato molle e incapace di venire a capo della “conflittualità sociale” sempre crescente.
Naturalmente è parte integrante della nostra lettura della lotta di classe nella fase imperialistica che il tentativo fascista di dotare la borghesia del suo partito unico e di una disciplina unitaria capace di ridurre alla ragione anche le frazioni borghesi di diversa estrazione ideale e sociale, è solo in parte riuscito; il proletariato, nonostante la dura sconfitta, continua ad essere una classe irriducibilmente antagonista alla borghesia, e né il bastone fascista né la carota democratica potrà venire a capo delle contraddizioni della lotta di classe. Insomma solo il socialismo è la soluzione storica degli antagonismi sociali.
Il fascismo nelle sue venature mistificheggianti ha teorizzato perfino l’immagine di una società senza Stato (la Civiltà del Lavoro di Gentile), ma la dura realtà dei fatti ha costretto sia il fascismo storico sia la democrazia post-fascista a prendere più realisticamente atto che la lotta di classe può essere al massimo mediata attraverso un ingegnoso dosaggio di strumenti giuridici e di prevenzione, sia violenta sia condita di mezze riforme e concessioni. “L’amministrazione delle cose”, anche dal punto di vista teoretico, rimane una previsione che solo la tradizione rivoluzionaria del proletariato può rivendicare e perseguire con coerenza.
Lo Stato post-fascista anche in questo campo, attraverso il più labile modello della democrazia consociativa o della cosiddetta "partecipazione", non ha fatto altro che allentare, date le favorevoli condizioni del dopoguerra, la superfetazione giuridica e la macchinosità del modello corporativo, ma si è guardato bene dallo smantellare i capisaldi della struttura amministrativa, burocratica e militare. Allentando formalmente la regolamentazione giuridica delle organizzazioni operaie, ha concesso la fiducia ai partiti “antifascisti” e ai rinati sindacati cosiddetti “liberi”; nel nostro linguaggio ha rimesso nelle loro mani la gestione della repressione di classe.
Il bene supremo esplicitamente riconosciuto dai sindacati liberi e
dai
partiti antifascisti è infatti il bene, l’economia nazionale: al
massimo,
la cosiddetta “centralità della classe operaia” è affermata come
base propulsiva della produzione e dello sviluppo. Nient’altro comunque
della già da noi aborrita teorizzazione della società dei produttori,
ordinovista, che si illudeva di battere il capitalismo sul suo stesso
terreno,
quello dell’efficienza e della competenza tecnica.
Con la inesorabile puntualità di certe catastrofi naturali periodiche ecco di nuovo che il massimo capitalismo mondiale dimostra la impossibilità della sua riproduzione indefinita: secondo le stime negli Stati Uniti la produzione industriale è già diminuita in aprile dell’1,9%, mentre la disoccupazione è cresciuta a maggio al 7,8% della forza lavoro.
La drammaticità delle prime misurazioni settoriali del fenomeno è tale da caratterizzarlo come un rallentamento velocissimo dei consumi e delle produzioni, brusco come nell’inverno 1974-75, e massimo del dopoguerra: la costruzione di case è già diminuita del 42% in aprile su base annua, la produzione di auto General Motors a maggio anch’essa del 42%, e di vetture commerciali del 73% addirittura. Contemporaneamente si restringono le vendite al dettaglio: di auto nel primo trimestre ne sono state vendute il 21% in meno, nel maggio il 33% e il 37% le vendite della produzione nazionale. La Chrysler chiude due stabilimenti il 19 maggio licenziando altri 1.560 operai e l’undici giugno sospende i pagamenti ai creditori di tutto il mondo, accusando passività per 4,4 miliardi di dollari. Già sono stati licenziati 750.000 lavoratori dall’industria auto e dall’indotto, i quali, per ora, sono mantenuti dall’assistenza statale. L’industria dell’auto americana, simbolo di un capitalismo in espansione che trova nel “benessere” il vasto mercato interno per lo sbocco delle sue merci, già segna record negativi peggiori di quelli registrati al fondo della crisi 1974-75. La siderurgia non è migliore, tanto che oggi nel settore si contano più disoccupati che nel 1933, alla fine della grande crisi dell’interguerra.
L’origine della crisi è interna al sistema capitalistico statunitense e corrisponde ad una delle cicliche fasi di sovrapproduzione relativa, come denuncia la contrazione delle vendite. Come collocazione del ciclo il momento attuale è analogo a quello della primavera del 1970 e dell’estete del 1974. La recessione non è però sopraggiunta nel 1978, ma con due anni di ritardo, due anni di forte slancio nell’accumulazione che realizzano il più lungo ciclo espansivo della storia americana, salvo i significativi precedenti del 1961-69, sostenuto e prolungato negli ultimi anni dall’affare della guerra del Viet Nam che risolve l’accenno ciclico di recessione del 1967, e del 1933-37 di ripresa dopo la lunga grande recessione e precedente la crisi attesa da Stalin e il conflitto mondiale.
Il prolungato benessere capitalistico e la pesante accumulazione di tossine inflazionistiche e di sovrapproduzione (e sovraconsumo, col sistema delle vendite a credito così diffuso in USA per esaltare artificialmente le capacità di consumo del mercato) si capovolgono nella profondità della imminente crisi recessiva.
Per la verifica della collocazione nel ciclo della attuale congiuntura americana è utile anche il confronto con la curva dell’inflazione: è sfasata in avanti rispetto alla curva della produzione. Quando la produzione entra in regressione, come oggi, l’inflazione prima trova il suo massimo del ciclo, e continua a declinare finchè dura la crisi, per accelerare di nuovo quando la produzione ha raggiunto ritmi di piena crescita. Il fenomeno nell’ultimo decennio si sta verificando per la terza volta, con ampiezze in crescendo e con conseguenze via via più sconvolgenti in tutti i paesi, di entrambi i blocchi capitalistici d’est e d’ovest e sulla classe operaia in particolare dei paesi di vecchio imperialismo e dei nascenti vigorosi industrialismi del Sud.
Si conferma quindi l’interazione fra i fenomeni dell’accumulazione e dell’aumento dei prezzi, fra i quali, nelle diverse fasi del ciclo, si scambia il verso del rapporto causa-effetto: l’intervento dirigistico statale, espressione degli interessi imperialistici delle grandi società anonime, forza artificialmente le possibilità espansive del sistema e sostiene per un certo periodo il saggio del profitto per mezzo di una crescente inflazione e enormi deficit pubblici. Al punto superiore di rottura del ciclo la sovrapproduzione reale è tale che l’accumulazione non reagisce più né alla liberazione del credito (come è il caso oggi in USA) né scontando l’inflazione, e solo il crollo della domanda impone un arresto alla crescita dei prezzi anche nella loro espressione nominale. Ed infatti sembra che già stia smorzandosi l’inflazione in America.
Si osserva come, rispetto al ciclo precedente, si collochino
coerentemente
gli aumenti del prezzo del petrolio, intervenuti in misura
significativa
nell’anno trascorso come nel 1974: l’ascesa dell’inflazione interna nei
paesi industrializzati precede le decisioni dei paesi produttori di
petrolio.
La decadenza dei vecchi imperialismi
C’è un altro capitalismo che è oggi in fase con quello americano ed è quello inglese: produzione industriale meno 1,5% a febbraio e 3,5% a maggio (su base annua), inflazione, da gennaio ad aprile: 18,5%, 19%, 20%, 22%, volume delle vendite al dettaglio diminuito del 3,7% ad aprile.
Ma altre meno contingenti caratteristiche sono comuni ai due capitalismi anglosassoni: l’inglese massima potenza imperialista spodestata, l’americano attuale dominatore del maggiore mercato finanziario.
La decadenza del peso economico dell’Inghilterra sulla scena mondiale degli ultimi trenta anni è, rispetto alla Germania e al Giappone, così misurata: fatto 100 il reddito pro capite inglese, nel 1950 quello tedesco era 80 e quello giapponese soltanto 20; nel 1979 nella RFT la stessa grandezza media è doppia di quella inglese e la giapponese una volta e mezza. Non sono cause storiche, sociali o economiche particolari che spiegano questo inesorabile e rapido declino del capitalismo che per primo mise a sacco, oltre la propria classe operaia, anche uno sterminato dominio coloniale. La causa reale è insita nella stessa causa del suo primo dominare: lo sviluppo tecnico della madrepatria, la concentrazione, la forza della classe operaia e il relativo aumento dei salari, la corrispondente diminuzione del saggio del profitto e la tendenza all’esportazione di capitali. Ma il rientro dei profitti non può alla lunga essere garantito soltanto dalla provenienza iniziale: qualora questi interessi all’estero, sia in paesi capitalisticamente sviluppati, sia arretrati, non siano sufficientemente difesi dall’autorità di una forza militare e politica adeguata del paese imperialista, che validamente tuteli nel mondo intero le rapine della finanza, niente alla lunga garantisce il rientro degli interessi e delle rendite, che i capitali esportati si rendano autonomi dalla madre patria o che passino sotto il controllo di altra potenza. Così per l’immenso dominio coloniale inglese, invaso da ogni parte dalla concorrenza di merci non inglesi, quando risultarono meno costose.
L’Inghilterra è il primo esempio storico di paese di vecchio capitalismo, ad altissimo grado di proletarizzazione, nel quale parallelamente alla decadenza imperialistica vanno erodendosi le possibilità di corruzione borghese di una estesa e compatta classe operaia: lì l’assurdità di un meccanismo sociale e produttivo modernissimo fa balzare agli occhi la irrazionale crudeltà di un modo di produzione che per le sue leggi proprietarie preistoriche e nell’interesse di una minoranza di inetti sfruttatori e politicanti costringe alla miseria e all’inattività la numerosa classe operaia. E non sarà certo la scoperta del petrolio del Mare del Nord a invertire questa decrepitezza sociale capitalistica, né è dimostrato che giovi all’accumulazione nemmeno all’immediato.
L’esito militare della Seconda Guerra imperialistica sancì la vittoria dei capitalismi installati su grandi territori e con bassa densità abitativa, il definitivo declino dell’inglese e il rinvio dell’emancipazione militare autonoma di Germania e Giappone. La forza segue l’economia.
Gli Stati Uniti oggi producono a costi superiori ai concorrenti del sud-est asiatico, ma anche dell’Europa. La conseguenza è che la loro parte del mercato mondiale si è contratta dal 18% del 1970 al 12% del 1979, proprio quando, per il naturale declino della domanda interna, l’America avrebbe bisogno di aprirsi al commercio mondiale (mentre nel 1968 infatti le esportazioni americane rappresentavano il 6% del prodotto nazionale lordo, nel 1979 sono l’8%).
Dimostrazione di come gli Stati Uniti si inseriscano nel ramo discendente della loro storia capitalistica sono, sul terreno commerciale, le gravi sconfitte che subiscono anche in patria per la concorrenza delle merci straniere, cosa che fa richiedere ai sindacati filo-imperialistici americani nuovi dazi protezionistici. Uno degli effetti è appunto l’attuale crisi dell’industria automobilistica, attaccata in patria in particolare dai giapponesi, i quali dimostrano nel settore costi di produzione molto più bassi e giovanile vitalità capitalistica nello sfruttare il proletariato. Altro settore in declino è quello siderurgico che, nonostante la ripresa, non ha mai recuperato i massimi produttivi del 1973 ed è intorno ai volumi già raggiunti 15 anni fa.
È la stessa decadenza imperiale che minaccia l’autorità della moneta
americana sui mercati mondiali e che nel corso dell’ultimo decennio ha
dovuto in gran parte restituire all’oro, nonostante l’attiva
opposizione
degli organi monetari e diplomatici americani, il ruolo di moneta di
riserva.
Precaria sfasatura degli altri capitalismi
Al di fuori di USA e Gran Bretagna i misuratori globali della crescita economica indicano, per il momento, una notevole tensione delle forze produttive: addirittura per l’Italia e Giappone l’industria accumulerebbe a più del 10% annuo. Dopo la fase di rallentamento congiunturale per la quale sono passate le principali economie fra l’autunno 1977 e l’estate 1978 la ripresa è stata notevole e continua, specialmente per Giappone, Germania e Italia. Parallelamente è presa a risalire la febbre inflazionistica, come prevedibile, nel corso del 1979, puntando nettamente a valori molto alti (21% in Italia e Inghilterra, 15% USA e Francia).
Ma il presente slancio dell’economia non può non risentire della drastica caduta americana e già emergono evidenti segni di stanchezza dei mercati. Nel settore dell’auto la crisi ha dimensioni mondiali, dovuta anche alla saturazione (per fortuna!) dei mercati occidentali, già diminuiscono le immatricolazioni in Francia (del 23,5% in maggio) e nella R.F.T., ove la Opel intraprende il licenziamento di 5.300 operai. Secondo i dati provvisori il tasso di crescita annuo della produzione industriale è sceso negli ultimi mesi da 5 a 4% in Germania, dal 12,5 all’11,5 e al 10,5% in Giappone, mentre la disoccupazione sale da 3,6 a 3,7% sempre in Germania, nonostante che il settore auto e minerario intendano richiamare ancora emigrati, e dal’1,9 al 2,05% in Giappone. Le prossime settimane confermeranno queste indicazioni di inversione di tendenza e la svolta forse verso un’altra contemporanea precipitazione critica di tutto l’imperialismo mondiale.
I capitalismi dell’est, del resto, sulla strada della recessione già
stanno precedendo le potenze occidentali: per la prima volta in tutta
la
sua storia la Russia denuncia nel 1979 un forte regresso nella
produzione
siderurgica. Del resto la caduta di produttività del sistema
capitalistico
russo si accentua nel corso dell’ultimo decennio, progressivamente
passando
da ritmi di accrescimento intorno al 9% al minore 4%, ritmo quasi
“occidentale”.
In Polonia invece nel corso del piano quinquennale 1976-80 l’economia è
previsto regredisca del 2%.
La guerra commerciale
Il mercato mondiale sull’orlo della sovrapproduzione mostra notevoli evoluzioni nei traffici, risultato della guerra commerciale, mentre tendono a invertirsi di segno i surplus delle bilance commerciali. L’enorme attivo del Giappone di 25 miliardi di dollari nel 1978 è ormai divenuto un passivo, mentre la R.F.T. vede nel giro di un anno dimezzare le sue eccedenze. Per il 1980 per i due paesi sono previsti passivi di 15 miliardi di dollari. Queste sono dirette conseguenze dell’espansione capitalistica in quei paesi, in un mondo che offre un mercato relativamente sempre più ristretto. Mentre permane l’enorme deficit commerciale americano, sorgente di inflazione mondiale, peggiora la posizione di Italia e Francia, prive di petrolio, mentre negli ultimi mesi diminuisce il passivo inglese per il merito della recessione e del petrolio nazionale.
Nel complesso dei sette paesi più industrializzati nell’ultimo anno è raddoppiato il disavanzo, in parte a causa dell’aumento del prezzo delle materie prime energetiche. Né per il futuro è prevedibile un più compatto fronte dei paesi capitalistici consumatori contrapposto al monopolio dell’offerta: infatti oltre alle generali necessità di concorrenza reciproca i paesi occidentali nei confronti del problema energetico si trovano divisi nettamente al loro interno fra detentori di risorse energetiche sul territorio nazionale e chi invece ne è privo: Stati Uniti e URSS fra i primi, con Gran Bretagna e Germania, ricca di carbone.
Intanto il capitalismo giapponese comincia a dimostrare in tutti i campi il proprio ruolo di predone imperialista di dimensioni mondiali: come previsto i vinti dell’ultima guerra stanno recuperando il loro posto come potenza industriale e commerciale. Carter implora il Giappone perché esporti i suoi capitali in USA per riassorbire parte dei disoccupati del settore auto; intanto le auto giapponesi si sono guadagnate l’8% del mercato interno tedesco, cacciandone italiani e inglesi. A soffrirne sono anche le industrie tedesche, ma contando queste di vincere la concorrenza extracontinentale insieme al Giappone sui giovani mercati dell’America Latina, d’Africa e d’Asia e nei paesi dell’est, la linea di politica commerciale tedesca punta tutto sulla libertà degli scambi. A farne le spese sono e saranno maggiormente in futuro le minori industrie d’Europa, italiana e inglese in particolare, e le imprese di minori dimensioni e produttività, destinate ad essere assorbite in gigantesche concentrazioni (come del resto sta avvenendo anche in altri settori di forte concorrenza, come l’elettronica).
Se torna a crescere il deficit bilaterale USA-Giappone (quest’ultimo essendo costretto ad esportare i propri manufatti per pagare il rincarato petrolio) l’America è spinta ad esportare in Europa l’eccedenza di merci, mettendo qua in crisi le industrie delle fibre e dell’acciaio.
In questo convulso decrepito capitalismo che sopravvive a sé stesso la soluzione della crisi attuale è affidata esclusivamente alla concorrenza fra capitali, come la stessa concorrenza ha prodotto la crisi. La ripresa del ciclo si avrà soltanto dopo la distruzione delle merci e dei capitali sovraprodotti, se questo avverrà con i metodi “pacifici” della crisi generale e della disoccupazione in massa o con i metodi militari della guerra combattuta, più adeguati alla nuova spartizione delle zone di influenza, dipende da altre circostanze, fra le quali la necessità di dare libero sfogo alle produzioni dell’industria bellica, oggi in grande sviluppo in tutti i paesi (anche in quelli ufficialmente senza esercito come Germania e Giappone!).
La partita al massacro si gioca sulla pelle del proletariato, il cui
grado di sfruttamento è principale fattore della vittoria (invidiano i
capitalisti occidentali il paradiso giapponese ove i proletari lavorano
2.300 ore effettive l’anno) in una assurda guerra mondiale fra paesi e
fra aziende, solo perché le classi nulla facenti possano decidere come
spartirsi l’immenso bottino. Nulla di progressivo ha ormai questa
frenetica
concorrenza mondiale, a niente serve se non allo spreco immenso di
energie
lavorative, a provocare sofferenze incalcolabili all’umanità oppressa
e ostacolare il progresso delle conoscenze tecniche e scientifiche,
altrimenti
concordemente utilizzabili da una comunistica società mondiale.
Dai (grandi) primi testi della Nuova Gazzetta Renana, chiavi della strategia internazionalista di Marx e di Engels, che integra in una stessa rete la rivoluzione democratica di Germania, il sollevamento dei proletari parigini, l’odio contro l’autocrazia russa e le condizioni oggettive del passaggio al socialismo in Inghilterra, alle moderne tesi di Lione della Sinistra Comunista Italiana (1926), passando per le tesi del 2° congresso dell’Internazionale Comunista (1920), una sola prospettiva si sviluppa contro tutte le molteplici scorie del revisionismo proteiforme, socialdemocratico, menscevico, consiglista e staliniano: quella della necessaria convergenza unificata e centralizzata delle lotte dei popoli delle aree arretrate con quelle dei proletari delle metropoli industrializzate.
Passando in rassegna la lotta tra gli opposti Stati imperialistici per la spartizione delle zone d’influenza e per la repressione delle lotte dei popoli soggetti, ci troviamo di fronte ai nostri tradizionali nemici di sempre: da una parte la visione socialdemocratica e staliniana che assegna all’umanità il fine storico della costituzione delle razze e delle nazionalità in Stati Nazionali, basi delle vie specifiche (e pacifiche) al socialismo; e forse più ancora l’indifferentismo cieco e controrivoluzionario di certi gruppi “extraparlamentari” o fascisti, che negano ai movimenti e alle guerre di liberazione nazionale ogni carattere progressista.
Il ritorno all’ortodossia marxista si è realizzato nel corso dei due primi decenni del secolo contro le deviazioni della destra imperialista della Seconda Internazionale (Bernstein, Von Kol) e quelle della reazione “infantile di sinistra” a questa corrente di destra, rappresentata in gradi diversi dall’ala antiriformista olandese (Pannekoek), russa (Piatakov, Bukarin, e in una misura generale i sostenitori dell’”economia imperialista”) e infine quella polacca (Radek, R. Luxemburg).
Dobbiamo ancora una volta a Lenin ed al partito bolscevico la
restaurazione
della dottrina in questo punto, specie su queste tre questioni:
1) il significato teorico e pratico dal punto di vista marxista
del diritto dei popoli a disporre di sé;
2) il riconoscimento del carattere rivoluzionario e progressista
delle guerre di liberazione nazionali nell’epoca dell’imperialismo;
3) il ruolo tattico e il diritto di separazione dei popoli
allogeni
nel processo della dittatura democratica del proletariato, in
particolare
in Russia.
Questi problemi si fanno tanto più scottanti di fronte ai sintomi di una terza possibile guerra mondiale.
La restaurazione operata da Lenin vive esclusivamente nel Partito Comunista e passa attraverso la smentita della natura socialista dell’URSS e delle presunte diverse forme di socialismo edificate negli ultimi 60 anni di storia mondiale; visione di un mondo spaccato in due, metà a capitalismo imperialistico di tipo classico, metà nelle mani del socialismo di diversi gradi, e nonostante i “tratti illiberali” e certe “aberrazioni”, in espansione e fraternamente legato alle più evolute forme di partiti comunisti dell’area europea. La tradizione comunista rivoluzionaria oppone la sua esclusiva lettura degli eventi e delle condizioni storiche generali: 60 anni di controrivoluzione che rischiano d’impedire perfino la voce della corretta interpretazione dei fatti.
Il marxismo che in quanto è la scienza della rivoluzione è anche la scienza della controrivoluzione, guarda verso il passato delle lotte proletarie per chiarire il presente della sua azione e per meglio criticare le basi dell’opportunismo che, al di là delle forme mutevoli, rimangono invariate e invarianti. Per questo diamo la nostra risposta contro l’indifferentismo massimalista e liquidatore sia nella questione nazionale che nella lotta interimperialistica con il richiamo alle tesi fissate una volta per tutte e che la classe operaia non potrà un giorno di nuovo impugnare se non sbarazzandosi di tutte le confessioni opportuniste.
Le minacce che le super-potenze imperialistiche si scambino in forme sempre più pesanti possono apparire nuove solo a chi non detiene una memoria storica collettiva e rivoluzionaria, che è il partito di classe. Per i comunisti, da sempre, queste minacce, pur non essendo puramente verbali, ma tanto reali da poter scatenare un terzo conflitto mondiale, sono niente altro che il risultato di una guerra di classe che dura ormai da un secolo e mezzo ed è insita nell’antagonismo insuperabile tra la borghesia ed il proletariato: queste minacce, che si sono in un volgere di mezzo secolo espresse in due conflitti generali tra Stati, sono rivolte essenzialmente, prima di tutto, ed in ultima istanza, contro il proletariato.
La memoria storica della classe, ristabilita e restaurata dal
partito
bolscevico, non solo a parole, ma con conseguenti atti che culminarono
nella prima Rivoluzione socialista, proclamata non russa, ma patrimonio
di tutti i proletari del mondo, si solidifica in alcuni punti
essenziali:
1) il proletariato ha tentato di reagire alla guerra degli Stati
con la Comune di Parigi; l’assalto al cielo non è stato né inutile, né
inglorioso. Contro tutte le interpretazioni riduttive o moralistiche,
proprio
Marx, che non aveva certamente caldeggiato l’assalto per la mancanza di
preparazione rivoluzionaria, rivendica il suo insegnamento, che
consiste
essenzialmente in una prima grande lezione storica;
2) di fronte al proletariato che alza la testa e si oppone alla
guerra per i suoi interessi di classe, le opposte frazioni borghesi
abbandonano
le ostilità e le rivolgono unite contro l’insurrezione operaia;
3) le tentazioni del proletariato insorto, in preda alle diverse
correnti, mancando del partito unico e capace di direzione unica e
dispotica,
comportano l’illusione di utilizzare la macchina statale borghese per
il
perseguimento del socialismo; grave mancanza di conoscenza: la macchina
statale borghese deve essere distrutta.
Sulla base di queste premesse intendiamo valutare le reciproche minacce degli opposti imperialismi, che sono dunque il risultato della lotta di classe, il tentativo di prevenire o risolvere il contenzioso tra le classi sociali fondamentali.
Le minacce di ricorso alla forza sempre più insistenti tendono ad essere camuffate dagli ideologi di regime come espressione di irrazionalità e brutalità; l’opportunismo, ancora più fetido, riprendendo la sua campagna per la pace contribuisce a nascondere il retroterra economico e sociale da cui spuntano le armi.
Ancora una volta noi comunisti siamo costretti a chiedere scusa al lettore, come già Engels nella sua polemica col signor Düring, se ritorniamo con insistenza alla storia di Robinson e Venerdì, «che propriamente è più al suo posto in un giardino d’infanzia, anziché nella scienza»; ma che possiamo farci?
La guerra non è questione di onnipotente “violenza” come direbbe il sig. Düring. La guerra, lo sa anche l’ultimo dei gazzettieri in grado di parafrasare Clausewitz, è la continuazione della politica con altri mezzi, e la politica, nella lettura del marxismo rivoluzionario, non è che l’epifenomeno della struttura economica.
Che cosa è il deterrente nucleare agitato sul capo dei proletari dal pacifismo opportunistico da ben trenta anni se non l’equivalente non solo concettuale delle armi batteriologiche, del fantomatico raggio della morte, o molto più modestamente della “spada in pugno” con la quale Robinson, nella testa degli infiniti Düring dei nostri tempi, asservirebbe Venerdì? Quella stessa spada in pugno non è stata a suo tempo in grado di asservire neanche il Giovedì Nero del 1929. Eppure si trattava di un giovedì prosaico ed economico!
«Da dove ha preso la spada? Neanche nelle isole fantastiche delle imprese robinsoniane le spade sinora crescono negli alberi (...) A Robinson era tanto possibile procurarsi una spada quanto è possibile a noi il supporre che un bel giorno Venerdì gli possa apparire con un revolver carico in mano, nel qual caso tutto il rapporto di “violenza” si rovescia: Venerdì comanda e Robinson deve sgobbare».Questo è il sogno della piccola borghesia ribellistica ed anarcoide che, rifiutando la preparazione rivoluzionaria, immagina di rovesciare i rapporti di forza, risultato d’un lungo periodo storico di soggezione e di dominio economico e sociale, con l’acquisto di qualche Winchester in Svizzera o con pic-nic di fine settimana in compagnia di qualche missile terra-aria perduto per caso da qualche incauto guerrigliero di passaggio.
«Dunque il revolver ha la meglio sulla spada, e questo fatto farà comprendere, malgrado tutto, anche al più puerile assertore di assiomi che la forza non è un semplice atto di volontà, ma che esige per manifestarsi condizioni preliminari molto reali, soprattutto strumenti di cui il più perfetto ha la meglio sul meno perfetto, che questi strumenti devono inoltre essere prodotti, il che dice ad un tempo che il produttore di più perfetti strumenti di forza, vulgo armi, vince il produttore di strumenti meno perfetti e che, in una parola, la vittoria della forza poggia sulla produzione di armi, e questa a sua volta poggia nella produzione in generale, quindi (...) sulla “potenza economica”, sull’”ordine economico”, sui mezzi materiali che stanno a disposizione della forza».È per questo che nei cosiddetti periodi di “pace” non ci siamo stancati di indicare al proletariato il suo fine storico, contro le illusioni di benessere e di pace perpetua: è dal modo di produzione capitalistico che spuntano le armi e la violenza, dalla necessità di produrre per il profitto; nella rotazione del capitale la produzione di armi permette la più alta composizione organica ed i più alti profitti; in più le armi hanno il merito di circolare in breve periodo, proprio quando l’ossessione del capitale è quella di ridurre al minimo il tempo di circolazione e di evitare l’intasamento del mercato delle merci; le armi provocano quelle benefiche distruzioni di capitale sia costante che variabile e tra l’altro sono in grado di togliere di mezzo quel capitale soprannumerario, i disoccupati, che minaccia la pace sociale, e cioè la permanenza della società divisa in classi.
«La forza, al giorno d’oggi - continua Engels - è rappresentata dall’esercito e dalla marina da guerra (oggi diremmo dalle armi nucleari di terra e di mare) e l’uno e l’altro costano, come tutti sappiamo a nostre spese, “una tremenda quantità di denaro” (...) In ultima analisi il denaro deve pur essere fornito dalla produzione economica; la forza è dunque a sua volta condizionata dall’ordine economico che le procura i mezzi per allestire e mantenere i suoi strumenti. Ma non basta ancora. Nulla dipende dalle condizioni economiche preesistenti quanto precisamente l’esercito e la marina. Armamento, composizione, organizzazione, tattica e strategia dipendono anzitutto in ogni epoca dal livello raggiunto dalla produzione e dalle comunicazioni. Qui hanno agito rivoluzionariamente non le “libere creazioni dell’intelletto” di comandanti geniali, ma l’invenzione di armi migliori e la modificazione del materiale umano; nel migliore dei casi l’azione esercitata dai comandanti geniali si limita ad adeguare la maniera di combattere alle nuove armi e ai nuovi combattenti».L’opera nefasta dell’opportunismo è dunque quella di occultare agli occhi del proletariato l’origine del fenomeno guerra nella società attuale, ma non basta; il ricatto a cui ricorre ogni giorno consiste nel sostenere che per lo sviluppo della tecnologia e del perfezionamento delle armi oggi la guerra significherebbe annientamento totale: si nasconde che in ciascuna epoca del moderno conflitto di classe la classe dominante si è vantata di aver scoperto l’arma totale, l’ultimo grido in fatto di capacità d’annientamento, mentre si preoccupa di escogitare per la sua stessa sopravvivenza nuove tattiche e possibilità di opporre antidoti al supremo veleno.
Chi non sa che è prevista dai piani strategici del Pentagono e del Cremlino, tanto per citare i più autorevoli trusts della guerra, la possibilità di combattere una guerra nucleare tattica capace quindi di permettere la risposta graduata e non definitiva all’avversario?
Noi sosteniamo che la vera arma totale che teme la borghesia mondiale oggi è la potenzialità distruttiva dell’avversario di classe, un vero e proprio bove tenuto al solco da robusti paraocchi; un’arma capace di colpire a morte gli interessi di classe senza mettere a repentaglio tutta l’umanità; al contrario capace di scegliere, oltre tutto, una minoranza di sfruttatori che affamano, se le statistiche hanno un senso, 2/3 dell’intero genere umano.
A livello concettuale i comunisti sostengono che nell’ambito del moderno modo di produzione capitalistico non è stato scoperto niente di nuovo da quanto osservava Engels a proposito della guerra franco-prussiana, non a caso dal marxismo definita la fine delle guerre nazionali nel vecchio continente e l’inizio dell’epoca imperialistica:
«La guerra franco-prussiana ha segnato una svolta di ben maggiore importanza di tutte le precedenti. In primo luogo le armi hanno raggiunto un tal punto di perfezione che non è più possibile un nuovo progresso che abbia un qualche influsso rivoluzionario. Se si hanno cannoni con i quali si può colpire un battaglione ad una distanza che permette appena all’occhio di distinguerlo e fucili che hanno la stessa efficienza avendo come bersaglio un singolo uomo e con i quali caricare prende meno tempo del mirare, ogni progresso ulteriore è più o meno irrilevante per le operazioni belliche campali. [Ci si dica, a livello concettuale, che cosa c’è di diverso, nelle elucubrazioni degli strateghi del computer, a proposito della questione sulla capacità di risposta ad un attacco atomico nemico, tenuto presente che le armi atomiche sono dislocate in un’immaginaria, e non tanto, battaglia campale permanente, cioè in grado di colpire in ogni momento, e non sulla base di una formale dichiarazione di guerra!]. L’era dello sviluppo è quindi essenzialmente chiusa in questa direzione.Già sentiamo la scomposta obiezione dei traditori di classe: sono passati 110 anni e questo non è successo. È naturale, perché dal punto di vista borghese ed opportunista la Prima e la Seconda Guerra mondiale, nonché la miriade di conflitti locali sono stati un affare, la condizione vitale per la difesa del modo di produzione capitalistico. Non certo per il proletariato e per il suo punto di vista espresso dal Partito di classe che piange i proletari morti non con le lapidi ed i monumenti alla memoria, ma nella loro viva carne.
«In secondo luogo questa guerra ha però costretto tutti i grandi Stati del continente ad introdurre il sistema prussiano del Landwehr (guerra di popolo) inasprito e conseguentemente a caricarsi di gravami militari che necessariamente li condurranno alla rovina nel corso di pochi anni».
Non solo, ma a proposito di ipotetiche vie pacifiche e specifiche al socialismo, oltretutto non escluse in via teorica neppure dai padri fondatori, che n’è della pacifica Inghilterra e dei democratici USA. Come nelle previsioni di classe sono armate fino ai denti, la prima per difendere i suoi stessi confini dopo i bagordi imperialistici, l’altra disposta a far saltare l’intero continente a cui deve la scoperta e la vita o al massimo ad aprire l’ombrello atomico, che, come è noto, non dà eccessive garanzie di riparare la vecchia Europa dal fall-out e dal contagio atomico.
Ma quello che più importa per l’esperienza del proletariato, che cerca i suoi teoremi non nelle teste seppur geniali di qualche Marx o Engels, ma nella sua lotta vitale contro il nemico di classe, la guerra franco-prussiana segna una cuspide e una lezione storica insuperabile, che la grande rivoluzione del 1917 nella restaurazione dottrinaria di Lenin e compagni non farà altro che tradurre in pratica.
«L’esercito è diventato fine precipuo dello Stato e fine a sé stesso; i popoli non esistono più se non per fornire e nutrire soldati. Il militarismo reca in sé anche il germe della propria rovina. La concorrenza reciproca dei singoli Stati li costringe da una parte ad impiegare ogni anno più denaro per l’esercito, marina, cannoni, ecc. (oggi, è noto, missili, carri armati, ecc.) e quindi ad affrettare sempre più la rovina finanziaria; dall’altra a dare un carattere di serietà sempre maggiore al servizio militare obbligatorio per tutti e con ciò, in definitiva, a familiarizzare tutto il popolo con l’uso delle armi e renderlo quindi capace di far valere ad un certo momento la sua volontà di fronte a quei signori della casta militare che esercitano il comando.Questo è un punto fermo che segna un confine invalicabile tra teoria rivoluzionaria del proletariato e qualsiasi elucubrazione ribellistica, anarcoide o terrorista di rivolta. Altro che illudersi di colpire il cuore dello Stato indipendentemente dallo sviluppo delle contraddizioni generali che vedranno la stessa macchina militare dello Stato rivolgersi contro quella casta militare che al servizio della borghesia ha tanto fatto per rafforzarla e lubrificarla.
«E questo momento si presenta non appena la massa del popolo, operai delle campagne e delle città e contadini, ha una volontà. A questo punto l’esercito dei principi si muta in esercito di popolo; la macchina si rifiuta di servire, il militarismo soggiace alla dialettica del suo proprio sviluppo.
«Ciò che non potè compiere la democrazia borghese del 1848, precisamente perché era borghese e non proletaria, cioè dare alle masse lavoratrici una volontà il cui contenuto corrisponda alla loro posizione di classe; questo sarà infallibilmente realizzato dal socialismo. E ciò significa far saltare in aria dall’interno il militarismo, e con esso tutti gli eserciti permanenti!».
La prova generale delle lezioni imparate nello schiacciamento della Comune fu il 1917: nel fuoco della guerra interimperialistica le correnti di sinistra marxista non si stancarono di far appello al disfattismo: i Soviet dei soldati si legarono ai Soviet dei lavoratori che producevano per la guerra e ai contadini strappati alla terra: la diserzione e la ribellione organizzata contro i comandanti militari sarà l’epicentro della grande rivoluzione socialista.
Per i comunisti rivoluzionari questo rimane l’unico teorema possibile immaginabile: tutte le altre elaborazioni, da qualsiasi parte provengono, sono forme di ribellismo anarcoide e democratico che hanno avuto il loro senso in altre condizioni storiche, ma che non si convengono alle aree metropolitane del capitalismo avanzato. Questa è la prima morale.
La seconda morale è che «tutta l’organizzazione e il modo di combattere degli eserciti, e conseguentemente vittoria e sconfitta, si dimostrano dipendenti da condizioni materiali, vale a dire economiche, dal materiale-uomo al materiale-armi, quindi dalla qualità e dalla quantità della popolazione e della tecnica».
Le forme della guerra non sono indifferenti alle forme economiche e sociali:
«Solo un popolo di cacciatori, quali gli americani, poteva concepire la guerriglia, ed essi erano cacciatori per cause puramente economiche, come oggi precisamente per cause puramente economiche questi stessi Yankee dei vecchi Stati si sono trasformati in agricoltori, in industriali, in navigatori, in mercanti e non fanno più la guerriglia nelle foreste vergini, ma tanto meglio la fanno nel campo della speculazione, dove sono andati anche molto lontano nella utilizzazione delle masse». Oggi sappiamo quanto oltre gli USA siano andati e potranno andare nel campo della speculazione esercitando tutto il loro peso imperialistico di nazione di agricoltori, di industriali, di finanzieri mondiali.Engels in nota fa osservare che questa cosa è già perfettamente a conoscenza dello stato maggiore prussiano:
«Solo una rivoluzione quale la francese, che emancipò economicamente il borghese e specialmente il contadino, potè ritrovare quegli eserciti di massa e ad un tempo quelle libere forme di movimento, contro cui s’infransero le vecchie linee impacciate, riflessi militari di quello assolutismo per il quale combattevano. E noi abbiamo visto caso per caso come i progressi della tecnica appena divennero militarmente utilizzabili, e furono anche effettivamente utilizzati, imposero subito quasi violentemente modificazioni, anzi rivoluzioni, nel modo di combattere, e per giunta spesso contro la volontà dei comandi militari.
«E oggi giorno anche uno zelante sottufficiale potrebbe spiegare al sig. Düring (e a tutti i signori Düring del nostro tempo) a che punto la condotta della guerra dipenda tra l’altro dalle forze produttive e dai mezzi di comunicazione, sia del retroterra che dalle forze d’operazione d’un singolo paese. In breve, dovunque e sempre le condizioni e i mezzi economici portano la forza alla vittoria, senza la quale questa cessa di essere forza, e chi seguendo i princìpi del sig. Düring volesse riformare la guerra da un punto di vista opposto non raccatterebbe altro che bastonate».
«"La base della guerra è in primo luogo la forma economica generale dei popoli”, così dice in una conferenza scientifica il sig. Max Jahns, capitano di stato maggiore (Colonia 20 aprile 1876)».C’è n’è abbastanza per considerare che particolarmente nella fase imperialistica, allorchè la forma economica generale dei popoli è modellata dalla guerra delle merci nei periodi di cosiddetta pace, la base della guerra è talmente fondata su di essa che l’intreccio tra le attività cosiddette economiche e attività belliche ha raggiunto il più alto grado di scambio e di reciproco sostegno. La violenza immediata del capitano, o del generale a 4 stelle è meno importante del rappresentante dell’”ordine economico”, rappresentato dall’ingegnere, dal tecnologo, come si direbbe meglio oggi.
E ciò non riesce ad essere digerito da quelle correnti opportunistiche o borghesi che continuamente s’ingegnano a cercare in ogni occasione di guerra limitata o generale i falchi e le colombe, a distinguere tra i mangiatori d’acciaio tutti votati alla costruzione d’armi per la guerra ed i buoni managers progressisti, tutti dediti alle costruzioni di opere pubbliche e arnesi per i servizi del popolo, magari case, scuole, ospedali!!
Sulla base di queste linee teoriche di fondo siamo in grado di valutare i grandi sviluppi della tecnica in tutti i campi, da quello della potenza indiretta dell’industria, a quello della violenza immediata della più sofisticata industria d’armamenti.
Le stesse strategie militari degli Stati imperialisti moderni lungi d’essere l’espressione della genialità del tizio o del caio generale od ammiraglio sono determinate dallo sviluppo della forma economica che sta alla base della guerra. Si sono versati fiumi d’inchiostro a suo tempo sull’idea rivoluzionaria della guerra lampo (blitz-Krieg), che avrebbe rovesciato tutte le tecniche della guerra di trincea, romantica perfino e in qualche modo umana!! (E quanti vati più o meno riconosciuti si sono esercitati a celebrare tale umanesimo di sangue!) Solo il marxismo rivoluzionario ha saputo vedere nella teoria suddetta l’espressione militare d’un certo tipo d’imperialismo, quello tedesco; e lungi dal demonizzarlo, comunque non in misura superiore all’inferno capitalistico di tutti gli altri Stati, in pace e in guerra, ha saputo vedere in esso la forma bellica d’una economia e di rapporti sociali provenienti da lontano, dalla particolare forma della Germania, della sua indipendenza dall’alto, secondo l’alleanza Junker-alta borghesia, fino al modello nazionalsocialista di terrorismo di classe contro il proletariato.
La borghesia tedesca e il suo Stato, coscienti della vulnerabilità del proprio retroterra economico, della propria debolezza produttiva nel lungo periodo, doveva sperare, e lo dovette nella Prima e nella Seconda Guerra mondiale, nella brevità del conflitto: la guerra lampo è la proiezione militare di questo stato d’inferiorità della struttura economica, delle condizioni proibitive di disciplina e di pressione esercitate sulla classe operaia: la condizione per poter esercitare il potere sono l’ancoraggio dell’aristocrazia operaia alle fortune dello Stato, al sogno di soggiogamento in breve periodo del nemico, per poter godere dell’era millenaria di pace e dominio accarezzata dalle saghe popolari. Altro che barbarie nazista o balle di questo genere evocate da tutti i Düring di destra e di sinistra, da tutti i fautori o esorcizzatori della violenza immediata, gratuita, disumana!!
Da queste premesse teoriche generali la tradizione della Sinistra Comunista, in linea con le correnti di sinistra marxista prima della grande guerra mondiale del 1914-18, ha potuto seguire il filo rosso della genuina tradizione proletaria, nemica della guerra fratricida e capace di far leva sulle contraddizioni del capitalismo per uniformare la sua marcia di classe verso il socialismo.
Ci si meraviglia ancor oggi, negli ambienti malsani dell’opportunismo come sia potuto accadere che nelle conferenze di Kiental e di Zimmerwald, senza conoscersi, lo sconosciuto Lenin e la sinistra europea potessero incontrarsi per ribadire l’atteggiamento di sempre contro la guerra degli Stati e la promessa solenne di Stuttegart (1907) contro ogni tentativo di spingere le masse proletarie sul terreno della difesa della rispettiva patria. Al contrario, siamo di fronte a niente altro che al teorema già compiuto nel 1848, allo schema di doppia rivoluzione stabilito da Marx ed Engels per l’area tedesca, e di rivoluzione proletaria per gli Stati più evoluti dell’occidente, Francia ed Inghilterra.
E non fu forse l’assegnazione da parte di Marx del ruolo che competeva alla Germania di centro decisivo per l’emancipazione del proletariato mondiale del tempo il pretesto per l’accusa di nazionalismo, come a Lenin quella di agente del Kaiser ed alla Sinistra Comunista di spia della Gestapo?
Non c’è forse in tutte queste coincidenze la prova dell’unico filo che lega la lettura storica del capitalismo e delle sue tendenze non solo in linea puramente generale, ma più specificatamente nella questione delle singole realtà statali, nei loro rapporti e nel loro antagonismo?
Cosa è questa coerente lettura se non la valutazione di alcuni eventi culminanti del moderno scontro delle classi e degli Stati. Nel cuore dell’Europa spetta al nascente Stato tedesco, il primo Reich, la funzione di gerente dello status-quo imperialistico. La Germania di Bismarck esce dal conflitto contro la Francia non solo come nazione vincitrice, ma come modello di Stato che ha contribuito a schiacciare nel sangue l’assalto della Comune.
Da questo momento e per questo merito, il modello tedesco sarà l’oggetto dell’ammirazione e delle gelosie delle borghesie degli altri paesi, amato e temuto, comunque un esempio di gestione delle contraddizioni di classe; nel breve volgere di qualche decennio si stringeranno alleanze apparentemente innaturali; gli uomini dell’italico risorgimento, da sempre anti-austriaci ed anti-teutonici, in nome della ragione di Stato sigleranno la Triplice del 1882 con Germania ed Austria, mentre gli ex mazziniani alla Crispi guarderanno alla vecchia Prussia come al regno dell’ordine e dell’efficienza. In effetti la prima storica edizione di misure ad un tempo riformiste ed autoritarie sono quelle prese da Bismarck, come pure le forme organizzative del proletariato tedesco sono l’esempio massimo di efficienza nella storia della Seconda Internazionale.
Il modello tedesco è nello stesso tempo un paradigma ed una lezione generale: se qualcuno avesse avuto ancora qualche dubbio sulle possibilità progressiste della borghesia a livello generale, non aveva che da prendere atto che l’intera borghesia occidentale, pur tra i suoi antagonismi, contava sul modello tedesco e sul retroterra russo per tenere a bada le pressioni possibili del proletariato europeo. Non è quindi l’opera del destino, ma lo sviluppo particolare dell’imperialismo in Europa a stabilire i ruoli degli Stati nel vecchio continente.
La formazione per via autoritaria, o "dall’alto", della nazione tedesca ed italiana segnano un momento decisivo per l’assetto complessivo delle potenze: non a caso questo modo incompleto di formazione nazionale lasciava aperte quelle rivendicazioni nazionalistiche ed irredentistiche sulle quali poterono far leva gli opposti imperialismi per combattersi per interposta persona. La storia delle guerre locali non è una scoperta recente: comunque un buon pretesto delle grandi potenze per attribuire all’arretratezza delle nazionalità in ascesa e alle loro "irrazionali" volontà la colpa della guerra.
L’attitudine al tradimento della socialdemocrazia maturava all’interno di un assetto borghese che in mancanza di una rivoluzione radicale doveva attrarre nella sua orbita il partito del proletariato in cambio di briciole d’un impero coloniale che andava costruito a tappe forzate e non senza rischi e attentati allo status-quo già tanto caro al vecchio Bismarck.
L’attenzione e lo studio critico delle condizioni materiali che stabilirono i rapporti di forza, le alleanze degli Stati, le ingerenze che esse determinarono nel proletariato e nel partito di classe non sono vacue esercitazioni, ma una necessità costante ed indilazionabile, fermo restando che c’è un filo continuo che lega e ispira questo compito: il rifiuto costante, di fronte alla minaccia di guerra degli Stati borghesi che inevitabilmente coinvolgono la classe operaia ed i contadini poveri nella lotta fratricida, d’ogni difensismo (termine già ben noto ed adoperato da Lenin nella battaglia critica e politica contro l’opportunismo del primo ciclo 1914-18) e di ogni “intermedismo”, termine col quale vogliamo intendere la pretesa di indicare come obiettivo precipuo e pregiudiziale della forza e degli sforzi del proletariato rivoluzionario non l’abbattimento dei suoi oppressori di classe, ma la realizzazione di certe condizioni nei modi di organizzazione della presente società, che gli offrirebbero terreno più favorevole a conquiste ulteriori.
Condannare questi atteggiamenti esiziali non è un ostacolo all’analisi delle condizioni peculiari dello svolgimento delle guerre e degli schieramenti che si determinano; tutt’altro: basti pensare alla possente dialettica del partito marxista che permise a Marx di leggere i rapporti di forza nella fase preimperialistica e a Lenin nella fase imperialistica secondo lo stesso metodo che piuttosto di appiattire la diversità delle questioni comportò l’impianto di una concezione generale del capitalismo, delle sue interne leggi e dei suoi inevitabili sbocchi.
Furono semmai le correnti di destra (socialdemocrazia alla Kautsky) e di sinistra, (compresa Rosa Luxemburg) a non comprendere la necessità delle eccezioni alle regole, l’uno tutto spostato verso una lettura intermedista e difesista del proletariato, fino al tradimento, l’altra alla sottovalutazione dell’autodeterminazione delle nazioni, nello zelo rivoluzionario di non provocare fratture tra i proletari di tutto il mondo.
Il nostro centralismo non è senza eccezioni: «Il diritto all’autodeterminismo è un’eccezione al nostro postulato generale, il centralismo. Questa eccezione è assolutamente necessaria di fronte al nazionalismo grande russo reazionario, e la minima rinuncia a questa eccezione è un gioco negativo che favorisce il nazionalismo reazionario grande russo» (Lenin, A proposito della questione polacca, polemica con Rosa Luxemburg).
Abbiamo scritto a suo tempo che è errato asserire «che sia proprio
indifferente, per tutto lo svolgersi del processo che condurrà dal
regime
capitalistico a quello socialista, la vittoria o la sconfitta degli
imperi
centrali, oggi del nazi-fascismo, domani della plutocrazia americana o
del totalitarismo pseudo sovietico».
[È qui]
La tattica del “fronte unico” rispondeva alla consegna del Terzo Congresso della I.C.: “conquistare la maggioranza della classe operaia”.
La veemenza di Lenin contro la “teoria offensiva” portata nel Congresso aveva il preciso obiettivo di battere le posizioni che impedivano ai Partiti comunisti di andare “alle masse”, chiusi in un settarismo che alla lunga avrebbe svilito l’azione comunista, allontanando le schiere proletarie dalla direzione comunista, confinandole nel ghetto della tattica legalitaria della socialdemocrazia. "Conquistare la maggioranza della classe operaia”, voleva dire strappare la direzione e l’iniziativa dei partiti opportunisti sul proletariato, spostando i lavoratori nel campo comunista rivoluzionario.
Per la Sinistra italiana non vi sono dubbi, né sulla tattica del “fronte unico”, né sullo scopo della “conquista della maggioranza della classe operaia”, dando alla parola “maggioranza” il significato che Lenin stesso precisa, cioè, non di maggioranza numerica, ma di influenza determinante del Partito Comunista sul grosso della classe. Il problema si sposta dai mezzi, la tattica, e dall’obbiettivo, conquista della direzione della classe, al “come”.
Lenin stesso porta ad esempio la “lettera aperta” del VKPD (Partito Unificato Comunista di Germania) del gennaio 1921, con la quale la Centrale del partito tedesco invitava la SED (Partito socialdemocratico tedesco) ad una intesa comune, sostenendo più precisamente che «il Partito Comunista tedesco unificato è pronto all’azione comune con i partiti che si basano sul proletariato» per realizzare la difesa della condizione operaia, l’autodifesa armata del proletariato, la liberazione dei detenuti politici operai, la ripresa delle relazioni commerciali con la Russia sovietica.
La “lettera aperta” prendeva spunto da una iniziativa, che il Partito tedesco aveva preso a Stoccarda, di richiesta alle direzioni nazionali dei sindacati metallurgici (DMV) e della Centrale sindacale operaia (ADGB) di iniziare una lotta generale ed unitaria a sostegno delle condizioni di vita del proletariato tedesco. Gli operai seguirono la proposta comunista, lanciata dagli organismi sindacali locali diretti dai comunisti e sostenuta dai lavoratori non comunisti.
L’Ufficio ristretto dell’Esecutivo dell’I.C. aveva condannato la “lettera aperta” e soltanto con l’intervento diretto ed autorevole di Lenin fu sospesa ogni iniziativa che confermasse il giudizio negativo dell’Ufficio, rinviando la questione al Terzo Congresso mondiale. Al Congresso Lenin difese la tattica della “lettera aperta” sino a ritenerla “obbligatoria dappertutto”, sostenendo che «la lettera aperta è un passo politico modello (...) La lettera è un modello, quale prima applicazione del metodo pratico per conquistare la maggioranza della classe operaia. Chi non capisce che in Europa - dove quasi tutti gli operai sono organizzati - dobbiamo conquistare la maggioranza della classe operaia, è perduto per il movimento comunista». Lenin sosteneva che, essendo “quasi tutti gli operai organizzati” nei sindacati e nei partiti politici socialdemocratici, si dovesse spostarli nel campo comunista passando per quei partiti e per quei capi sindacali.
In che modo, attuare questa manovra ardita? Compromettendo quei partiti e quei capi di fronte alle loro masse, costringendoli ad impegni ed accordi che, se mantenuti, avrebbero dimostrato la superiorità del metodo comunista, e se rigettati o traditi, avrebbero confermato la doppiezza e la mancanza di volontà dei partiti opportunisti e dei capi sindacali a portarsi sul terreno della lotta concreta in difesa degli operai. Lenin e Zinoviev portavano a sostegno della loro tesi tattica l’esperienza del Partito bolscevico con il Partito menscevico, con cui si alleò e si divise più volte dal 1903 al 1917.
La posizione della Sinistra italiana, coincidente con quella di Lenin sul fronte unico proletario per la conquista della direzione della classe operaia, differiva o comunque nutriva forti dubbi sul modo di realizzare il fronte unico così come veniva enunciato dalla “lettera aperta” e dalle successive tesi dell’Esecutivo dell’ I.C. del dicembre 1921. La Sinistra dubitava fortemente che l’azione rivoluzionaria e, prima ancora, la preparazione rivoluzionaria del proletariato si avvantaggiasse con una “alleanza” tra partiti “proletari” e partiti comunisti, ritenendo nozione non marxista che l’unità proletaria sia la somma matematica di tutti i proletari.
L’unità della classe si ravvisa, al contrario, nel partito politico
proletario, nel partito comunista mondiale, in quanto organo di sintesi
storica, nel programma invariante e nel metodo unitario d’azione, nella
disciplina al centralismo. La Sinistra postulava, quindi, che
l’affasciamento
delle forze proletarie si realizzasse nell’organizzazione proletaria
generale,
come i sindacati economici, e che si dovesse disciplina non ad un
organismo
sovrapartitico. È questo il reale campo di arruolamento del
proletariato
alla milizia, all’azione del Partito. Qualsiasi altra manovra che esuli
da questi postulati, è mero espediente suscettibile di spostare non le
masse verso il partito, ma il partito fuori dai suoi cardini
programmatici,
tattici ed anche organizzativi. (Cfr. in “Archivio della Sinistra”:
“Il fronte unico” e “Discorso del rappresentante della Sinistra al
IV Congresso dell’I.C.”).
Gli insegnamenti di Livorno 1921
Poteva essere ardita la definizione che i partiti socialdemocratici o menscevichi non erano partiti operai, al tempo di Lenin. Certamente, a tradimento arciconsumato, come oggi, è facile ravvisare nei partiti che monopolizzano la classe operaia i più strenui difensori dell’ordine borghese e del modo di produzione capitalistico. Era ferma convinzione della Sinistra italiana, ed anche di Lenin, che le socialdemocrazie occidentali fossero partiti della sinistra borghese e non frazioni della destra proletaria, anche se nelle argomentazioni polemiche e propagandistiche questi partitacci venissero trattati come “opportunisti”, devianti dalla tradizione proletaria, preoccupati più della psicologia delle masse che dell’esattezza dei concetti.
Ma il partito menscevico russo era ben altra cosa del Partito Socialista Italiano sino al febbraio 1917, sino alla fase democratica della rivoluzione russa e sino alla reazione di Kornilov. Il partito menscevico fu un partito democratico rivoluzionario nei limiti temporali sopra esposti, il Partito Socialista Italiano, che la rivoluzione democratica aveva dietro le spalle, non osò prendere la direzione del proletariato quando le condizioni storiche imponevano che si spezzassero i fortilizi democratici e parlamentari, reazionari nel 1919 in Italia, progressivi nel febbraio 1917 in Russia.
La lezione consiste in questo, che i comunisti rivoluzionari italiani non vollero perchè non poterono, a meno di rinnegare se stessi, continuare nella solidarietà forzata, nell’organizzazione unica di partito e spezzarono l’”alleanza” persino con i collitorti dei cosiddetti “comunisti unitari”, i “centristi” di Serrati e soci. Era la chiara dimostrazione che i socialdemocratici, il cui centro era peggiore della destra riformista, sciovinista legalitaria, mai e poi mai avrebbero consentito di allearsi con i comunisti, se non per sabotare od impedire qualsiasi azione proletaria, anche nel solo campo difensivo economico.
L’Esecutivo di Mosca non capì la funzione dei socialtraditori, tant’è che contribuì in modo determinante al mantenimento dell’equivoco nel quale si destreggiava il Partito Socialista dopo la scissione, proclamandosi per la Terza Internazionale, ma rifiutandosi di espellere dal suo seno la destra di Turati e soci, condizione preliminare posta a tutti i partiti che volessero aderire all’Internazionale Comunista secondo le disposizioni del Secondo Congresso.
La Sinistra, quando enuncia, tracciando il bilancio dell’I.C., che l’esperienza positiva dell’Internazionale è sino al “Secondo Congresso”, intende che tutta l’opera successiva al 1920 non fu limpida e coerente con le premesse di quel vero Congresso costitutivo della Terza Internazionale. Se era giusta la considerazione di dover costruire dei partiti comunisti che fossero non solo robusti in programma e dottrina, ma forti e potenti nell’azione tattica e nell’organizzazione centralizzata e disciplinata, non si poteva però procedere sulla strada delle contaminazioni continue delle regole di aggregazione organizzativa delle forze, come nel riconoscimento al KAPD di partito “simpatizzante”, formatosi dalla scissione dell’ala operaista del partito comunista tedesco.
La considerazione che si dovessero reclutare tutte le forze disposte a schierarsi sul fronte rivoluzionario, purché fossero disciplinate alla Centrale dell’I.C., poteva reggere al massimo sino all’azione di marzo in Germania. Dopo la sconfitta dell’eroico tentativo dei proletari e comunisti tedeschi, non si poteva assolutamente ammettere eccezione alcuna per l’arruolamento delle forze e per la adesione dei partiti all’I.C.
Levi, capo del partito tedesco, fautore della “lettera aperta”, inghiottì male il rospo di Livorno. Levi non esitò ad esprimere la sua insoddisfazione per la vittoria degli “astensionisti”, come chiamava la Sinistra, ed avrebbe voluto che in Italia le cose andassero come erano andate in Germania, con la unificazione della Lega Spartaco con gli Indipendenti di Sinistra, da cui era sorto il Partito Comunista Unificato di Germania. Kabakčiev, che aveva disposizione di rompere a “destra” con o senza l’appoggio del centro serratiano, si attenne principalmente al solo argomento quantitativo, cioè che lo schieramento del centro con la destra avrebbe spostato la maggioranza dei consensi contro l’Internazionale. Lo stesso Gramsci non proferì verbo. Muto come un pesce durante tutto il Congresso.
Si sarebbe voluto, e si sperò sino all’ultimo, che Serrati si
decidesse
per l’Internazionale. La Sinistra non pose calcoli maggioritari o
minoritari
alla base della rottura definitiva e irrevocabile con la destra e il
centro,
con tutte quelle forze che avevano osato ribellarsi all’Internazionale
e preferito restare nel pantano socialdemocratico. Nessun compromesso
poteva
essere pensato. Tutti i ponti dovevano essere inesorabilmente tagliati,
perché la barca sgangherata della socialdemocrazia non facesse
naufragare
anche il proletariato.
La funzione della
Socialdemocrazia
in Italia
da Il Comunista, 6 febbraio 1921
[È qui]
Il fronte unico
da Il Comunista, 28 ottobre 1921
[È qui]
Discorso del rappresentante della Sinistra al IV Congresso dell’I.C. (1922)
(discussione della relazione Zinoviev)
[È qui]