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Storicamente il movimento comunista ha sempre dato notevole rilievo ai movimenti anticoloniali, con particolare riguardo alla loro potenziale carica antimperialistica. Tuttavia alcuni principi basilari sono stati nel corso di un cinquantennio imbastarditi, per cui è necessario ribattere i vecchi chiodi, prima di tutto cercando di far chiarezza sul punto cruciale che interessa e soprattutto interesserà il movimento proletario alla vigilia e durante la rivoluzione comunista mondiale. Si tratta della questione: in che senso si deve parlare di funzione rivoluzionaria dei movimenti anticoloniali? Che cos’è in definitiva il tratto caratteristico della rivoluzione, quando vasti movimenti di masse non esclusivamente proletarie infrangono l’ordine costituito?
Che la questione sia tutt’altro che chiara è dimostrato dal fatto che non solo i partiti più o meno legati alle varie chiese imperialistiche, ma anche partiti e movimenti sedicenti rivoluzionari e perfino comunisti perdono la bussola e non solo di fronte a movimenti genuinamente proletari, come quello palestinese, almeno in una sua notevole parte, ma perfino di fronte al gran baccano suscitato dal komeinismo, a proposito del quale, balbettando, si arriva perfino a scomodare la “Rivoluzione”, finendo per trasformare questo poderoso concetto e prima ancora fatto storico, che solo il marxismo incorrotto sa inquadrare, in una gelatina indifferenziata in cui accanto a Komeini ci può stare Arafat o, a seconda della preferenza, Habbasch, o perfino Gheddafi o Lech Walesa.
È necessario pertanto tornare alle origini precisando alcuni punti
fondamentali circa la funzione rivoluzionaria dei movimenti
anticoloniali.
Imperialismo e sovrapproduzione
La fase imperialista, a differenza del colonialismo vero e proprio – fase quest’ultima chiusa, secondo Lenin, avanti la prima grande guerra – è caratterizzata soprattutto dall’esportazione di capitali. Le metropoli imperialiste, le grandi concentrazioni finanziarie, non trovano più la possibilità di investire le grandi masse di capitale-denaro accumulato nelle attività produttive nelle metropoli: non è neppure sufficiente la valvola di sfogo della produzione di armi o della folle produzione di beni di investimento a ritmi accelerati; è necessario esportare il capitale stesso nei paesi sottosviluppati. L’ideale sarebbe la guerra in continuazione, se non ne risultasse necessariamente precario il potere politico: con essa infatti si otterrebbe lo scopo di impiegare fette notevoli di capitale per produrre beni, armi, che verrebbero sistematicamente distrutti; sarebbe il modo più congeniale per realizzare il plusvalore. Nei periodi di interguerra l’eccedenza residua di capitali non può che prendere la via dell’esportazione. Nei paesi arretrati, fra l’altro, l’esistenza di mano d’opera a basso costo è funzionale ad una sostenuta domanda di capitali con conseguenti alti tassi di interesse.
Queste due tendenze del Capitale sono dunque complementari e corrispondono alle due visioni borghesi del rapporto paesi sviluppati-paesi sottosviluppati: quella reazionaria, favorevole al continuo impiego della forza militare, e quella riformista, favorevole allo sviluppo dei commerci. La difficoltà della tendenza riformista consiste proprio nella estrema facilità alla saturazione del mercato nazionale nei paesi arretrati: il limite è quello dell’indebitamento, per cui oltre quel limite diventa impossibile realizzare l’enorme quantità di profitti, che, dovendo nella enorme maggioranza essere reinvestiti, trovano un limite oggettivo nelle ristrettezze dei mercati nazionali ed in primo luogo del mercato agricolo. Ecco perché, nonostante la “buona volontà” dei capitalisti di “aiutare” i paesi sottosviluppati, le eccedenze di capitali finiscono sempre per ritornare nelle metropoli imperialiste.
Nei paesi sottosviluppati l’afflusso di capitali imperialistici svolge la stessa funzione svolta dal capitale usuraio e mercantile nel tardo medioevo, agli inizi dell’era capitalistica: accelera la dissoluzione delle vecchie forme di proprietà (specialmente della proprietà terriera) e quindi dei vecchi rapporti di produzione, favorendo la formazione del modo di produzione specificatamente capitalistico. Il Capitale-denaro infatti non è uno specifico modo di produzione; esso riesce a prosperare sulla base di ogni modo di produzione finora esistito ma, sconvolgendo le vecchie forme di proprietà, accelera lo sviluppo di nuovi modi di produzione.
I paesi arretrati, dunque, per riprendere una affermazione classica
di Marx, vedono nei paesi sviluppati l’immagine del loro futuro. Il
modo
di produzione compiutamente capitalistico si sta estendendo infatti
alla
scala del pianeta a ritmi vertiginosi sotto la spinta delle necessità
dei profitti imperialistici. Se in Europa il capitalismo ha impiegato
diversi
secoli per affermarsi sui vecchi rapporti di produzione (semplificando,
dal XIV al XVIII secolo), in Russia ha impiegato molto meno ed in Asia,
in Africa, in America Latina i tempi si sono ancora più raccorciati.
Non il borghese, ma il contadino può lottare per una soluzione rivoluzionaria eliminando almeno una delle forme di proprietà: quella terriera
L’esportazione di capitali è dunque all’origine dello sconvolgimento degli arcaici rapporti di produzione nelle colonie. Qui la funzione della borghesia locale e soprattutto della borghesia commerciale è in gran parte funzione parassitaria e totalmente succube degli interessi imperiali. Solo il contadiname (pur appartenendo alla classe borghese) è in certe circostanze capace di svolgere una notevole funzione rivoluzionaria e quindi antiimperialistica, in quanto arrivi a mettere in discussione almeno una delle forme di proprietà: quella terriera.
Rifarsi a Lenin a questo proposito è di estrema importanza:
«Marx continua: "Per questo il borghese radicale giunge teoricamente alla negazione della proprietà privata della terra (...) Nella pratica tuttavia gli manca l’ardire, giacché l’attacco ad una forma di proprietà, alla forma della proprietà privata delle condizioni di lavoro, sarebbe molto pericoloso anche per l’altra forma. Inoltre il borghese si è egli stesso territorializzato" ("Teorie sul plusvalore").Non si tratta quindi di negare la possibilità dello sviluppo dei paesi sottosviluppati anche nell’epoca attuale, sviluppo che d’altronde è sotto i nostri occhi, ma di affermare che tale sviluppo è uno sviluppo capitalistico, da un lato, e dall’altro può avvenire in due ben distinti modi: 1) attraverso l’alleanza imperialismo - classi nazionali non rivoluzionarie (che vanno, a seconda dei casi, dalle vecchie aristocrazie fondiarie fino alle moderne borghesie industriali); 2) oppure attraverso l’alleanza proletariato internazionale rivoluzionario - movimenti nazionali rivoluzionari antiimperialisti.
«Marx non indica qui, come ostacolo alla attuazione della nazionalizzazione, lo scarso sviluppo del capitalismo in agricoltura. Egli indica due grandi ostacoli (...) Primo ostacolo: al borghese radicale manca l’ardire di attaccare la proprietà fondiaria privata, dato il pericolo di un attacco socialista contro ogni proprietà privata, cioè di una rivoluzione socialista.
«Secondo ostacolo: "il borghese si è egli stesso territorializzato"; Marx allude evidentemente al fatto che il modo di produzione borghese si è già consolidato precisamente nella proprietà della terra, cioè questa proprietà privata è diventata assai più borghese che feudale. Quando la borghesia come classe si è già legata, su vasta scala, in misura preponderante, alla proprietà fondiaria, si è già "essa stessa territorializzata", "insediata sulla terra", ha già pienamente assoggettato a sé la proprietà fondiaria, non ci può essere un movimento veramente sociale della borghesia in favore della nazionalizzazione (...)
«Non si tratta di sfumature (...) ma della concezione fondamentale circa le classi capaci di essere la forza motrice della rivoluzione russa. Volenti o nolenti i menscevichi finiscono per dare inevitabilmente un appoggio opportunistico alla borghesia, giacché non comprendono che nella rivoluzione borghese contadina la borghesia è un elemento controrivoluzionario (...) Plekhanov non ha capito la differenza tra rivoluzione borghese e rivoluzione borghese contadina (...) Da noi in Russia c’è un "borghese radicale" che non si è ancora "territorializzato", che non può temere, oggi, un attacco proletario. Questo borghese radicale è il contadino russo» ("Il programma agrario della socialdemocrazia", novembre-dicembre 1907, Opere, volume XIII, pag. 304-335).
Dalla sconfitta subita dal proletariato internazionale nel periodo 1919-1926, la seconda possibilità è monca di uno degli elementi dell’alleanza, cioè del proletariato internazionale rivoluzionario, almeno finché non riprenderà la lotta di classe nelle metropoli occidentali. Ciò tuttavia non conduce alla negazione della prospettiva storica, che anzi resta l’unica in grado di sconfiggere l’imperialismo. Perdurando però l’attuale situazione di assoluta soggezione del proletariato occidentale all’imperialismo, dobbiamo affermare che ogni eventuale movimento proletario-contadino nazionalista resterà inevitabilmente soffocato per l’assenza del movimento proletario nelle metropoli, in quanto la soluzione rivoluzionaria delle questioni locali è indissolubilmente legata alla situazione internazionale.
D’altra parte ed a maggior ragione noi non possiamo che plaudire ad
ogni movimento dei paesi sottosviluppati che sconvolga gli attuali
equilibri
imperialistici, ma non perché ci possiamo aspettare alcuna soluzione
rivoluzionaria,
né sul piano locale né su quello internazionale almeno a breve
scadenza,
ma perché ogni turbamento dell’equilibrio non può che accelerare la
crisi generale dei rapporti attuali tra gli Stati imperialisti.
I movimenti di liberazione nazionale
La dissoluzione delle vecchie forme di proprietà crea le premesse – con la rovina dei piccoli produttori individuali ed in primo luogo dei piccoli contadini – dei moti di liberazione anticoloniale.
Sarebbe grave errore cercare la base sociale di tali movimenti nella borghesia nazionale e nemmeno nella borghesia industriale, innanzi tutto perché le poche industrie locali sono emanazione diretta del capitale imperialistico – gli industriali locali sono molte volte semplici esecutori di ordini che partono dalle centrali imperialistiche – inoltre perché vedono il nemico nel proletariato urbano e non nei grandi gruppi imperialistici. È il piccolo contadino defraudato violentemente dei propri e rudimentali mezzi di produzione, sfruttato dai meccanismi del mercato e della rendita fondiaria, che può costituire una base sociale e in certe condizioni rivoluzionaria.
La borghesia industriale e commerciale infatti non ha più assunto un ruolo rivoluzionario già nelle stesse rivoluzioni borghesi del ventesimo secolo, a cominciare da quella russa. Se ne deve dedurre perciò la questione generale che, salvo lo studio particolare dei rapporti di classe nelle singole aree sottosviluppate, è possibile anche nell’epoca attuale che si verifichi un vasto movimento antiimperialista e rivoluzionario solo nella misura in cui esiste un forte movimento contadino che sappia porre come rivendicazione centrale quella della nazionalizzazione della terra e che sia disposto anche a lottare per un potere politico capace di soddisfare questa esigenza.
In un articolo del 15 luglio 1919: "Democrazia e populismo in Cina",
Lenin commentando l’opera del movimento democratico rivoluzionario
cinese
ed in particolare di Sun Yat Tsen, dice che si tratta di un movimento e
di un personaggio veramente rivoluzionario, soprattutto perché «non si
aggrappa
alla conservazione e alla restaurazione del passato». (Si confronti il
giudizio con... Komeini). Dice ancora Lenin, ribadendo i concetti
suesposti,
che, contrariamente all’Europa, in Asia esiste ancora una parte della
borghesia che può svolgere un’opera storicamente rivoluzionaria, ed
è il contadino. Accanto al contadino esiste la borghesia intellettuale,
liberale, rappresentante della borghesia industriale e commerciale, i
cui
rappresentanti «sono più che altro atti al tradimento». Sulla base del
contadiname anche in Cina può nascere un movimento che, pur essendo non
altro che socialismo reazionario dal punto di vista marxista, getta le
basi per una profonda trasformazione della proprietà immobiliare e
quindi
per l’eliminazione almeno dello sfruttamento feudale, attraverso la
misura
della nazionalizzazione, che quindi rappresenta in generale un
metro
di valutazione molto importante perché è veramente l’unica in grado
di rompere definitivamente con le vecchie forme di proprietà.
Indissolubilità del legame tra movimenti nazionalisti rivoluzionari e movimento proletario e comunista internazionale
Nelle tesi di Bakù e del secondo congresso dell’Internazionale Comunista si poteva scrivere a più riprese, senza rischiare di passare per visionari, dato che il movimento proletario e comunista era una poderosa realtà, che «la vera forza, la vera base, del movimento di liberazione non può essere costretta nelle colonie entro l’angusta cornice del nazionalismo democratico-borghese», ma che doveva essere riposta nella forza del movimento proletario e comunista mondiale. Ed è una tesi centrale che dalla Sinistra viene in particolare riaffermata sia nel ripiego della rivoluzione comunista mondiale, sia nella sua assenza e nel predominio assoluto dell’opportunismo. Nel testo: "Il Comunismo e la questione nazionale", pubblicato su Prometeo del 1924, si legge:
«La tesi politica della Internazionale Comunista, per la guida da parte del proletariato comunista mondiale e del suo primo Stato del movimento di ribellione delle colonie e dei piccoli popoli contro le metropoli del capitalismo, appare dunque come il risultato di un vasto esame della situazione e di una valutazione del processo rivoluzionario ben conforme al programma nostro marxista. Essa si pone ben al di fuori della tesi opportunista-borghese, secondo cui i problemi nazionali devono essere risolti "pregiudizialmente" prima che si possa parlare di lotta di classe, e per conseguenza il principio nazionale vale a giustificare la collaborazione di classe, sia nei paesi arretrati, sia in quelli di capitalismo avanzato, quando si pretenda posta in pericolo la integrità e libertà nazionale. Il metodo comunista non dice banalmente: i comunisti devono agire ovunque e sempre in senso opposto alla tendenza nazionale: il che non significherebbe nulla e sarebbe la negazione metafisica del criterio borghese. Il metodo comunista si contrappone a questo "dialetticamente", ossia parte dai fattori classisti per giudicare e risolvere il problema nazionale. L’appoggio ai movimenti nazionali ed anticoloniali, ad esempio, ha tanto poco sapore di collaborazione di classe, che, mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo ed indipendente del partito comunista nelle colonie, perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati con un’opera indipendente di formazione ideologica ed organizzativa, si chiede l’appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti delle metropoli (...)Su “Pressione razziale del contadiname, pressione classista dei popoli colorati”, pubblicato su Il Programma Comunista, n. 14, 1953 si legge:
«I comunisti utilizzano le forze che mirano a rompere il patronato dei grandi Stati sui paesi arretrati e coloniali, perché ritengono possibile rovesciare queste fortezze della borghesia e affidare al proletariato socialista dei paesi più avanzati il compito storico di condurre con ritmo accelerato il processo di modernizzazione della economia dei paesi arretrati, non sfruttandoli, ma sospingendo la emancipazione dei lavoratori locali dallo sfruttamento estero ed interno».
«Anche prima che nei paesi di colore siano maturi i rapporti della moderna lotta di classe, si pongono delle rivendicazioni che sono risolubili solo in una lotta insurrezionale e con la sconfitta dell’imperialismo mondiale. Quando queste due condizioni si verificano in pieno la lotta può scatenarsi nell’epoca della lotta per la rivoluzione proletaria nelle metropoli, pure assumendo localmente gli aspetti non classisti, ma di un conflitto di razza e di nazionalità».Nel lavoro sulla "Questione agraria in Cina", pubblicato su Il Programma Comunista, n. 22, 1962, si legge:
«Al pari di quelli che lo seguirono nel tempo, l’esempio cinese mostra che non può esistere programma agrario senza partito di classe del proletariato, e questo perché la questione agraria, dove si pone ancora in termini rivoluzionari, non è un problema di divisione della terra e neppure di collettivizzazione, bensì è intimamente legata allo sviluppo del capitalismo e dei suoi antagonismi interni: la sua soluzione spetta dunque al proletariato internazionale e non ai partiti che, definendosi di tutto il popolo, altro non fanno se non amministrare la miseria in nome del Capitale Internazionale».Ciò evidentemente non equivale alla svalutazione dei risultati della rivoluzione cinese come delle altre rivoluzioni anticoloniali del secondo dopoguerra, che sono in ogni caso positivi in quanto elementi di perturbazione dell’equilibrio imperialistico, ma alla affermazione che i paesi arretrati non possono sperare di risolvere in forma rivoluzionaria le questioni relative al loro sviluppo, se non nel quadro della loro alleanza col proletariato rivoluzionario mondiale, che per di più dovrà costituire la direzione mondiale della lotta antiimperialista.
La mal digerita questione delle “mezze classi” è sempre stata un importante veicolo dell’opportunismo nel campo del movimento proletario e comunista. È dai tempi di Bernstein che si dice che il socialismo dovrebbe interessare non solo il proletariato, ma anche i “ceti medi”, visto che questi non scompaiono e, soprattutto, che non si verifica l’annunciato crollo del capitalismo per effetto della pressione combinata della legge della caduta del saggio medio di profitto e dell’impoverimento crescente della classe salariata. Da allora in poi ogni tipo di opportunismo non ha fatto che rimasticare in mille salse questa posizione.
Da ogni direzione provengono, soprattutto oggi, un sacco di fesserie sul cosiddetto nuovo “proletariato sociale” che sarebbe contrapposto al vecchio “operaio massa” o industriale. Tali nuove fesserie scaturiscono, come è inevitabile, dalle “pensate” dei soliti aggiornatori più o meno nuovi che credono di aver scoperto qualcosa da aggiungere alla solidità e alla compattezza della classica e “paleolitica” costruzione marxista. Tutti i mattoni sono stati murati fin dall’origine sia dal punto di vista economico-sociale, che da quello filosofico-scientifico.
Se ci soffermiamo su queste dispute d’attualità non è affatto per
una qualche considerazione dei pensatori di turno, ma perché ciò ci
permette
di continuare il filo della nostra e sola nostra tradizione incorrotta.
Scomparsa o decadenza delle mezze classi?
La tesi della scomparsa “fisica” delle mezze classi non si legge in nessun testo marxista, da Marx in poi; nemmeno nel Manifesto (il più citato a sproposito a questo riguardo) dove si afferma che di fronte alla borghesia solo il proletariato, nella moderna società capitalistica, è classe rivoluzionaria e che i ceti medi (elencati precisamente: piccolo industriale, piccolo negoziante, artigiano, contadino) non solo sono conservatori, ma perfino reazionari e sono destinati a “perire e decadere con la grande industria”. Si mette in evidenza la fine di ogni loro funzione autonoma nella produzione sociale e di qui la loro attitudine reazionaria, più che la loro scomparsa fisica: in ogni caso l’inevitabile “perimento” è riferito a quelle categorie di mezze classi ricordate e non agli altri strati sociali, oggi enormemente gonfiati, compresi tra gli operai e la borghesia. In nessun altro testo marxista si legge qualcosa di diverso e la nostra scuola ha da tempo fissato a tale proposito una tesi lapidaria:
«La tesi marxista che i ceti medi scompariranno non si prende nel senso che in tempo prossimo in tutti i paesi sviluppati debbano esservi solo capitalisti, grandi proprietari fondiari, salariati, ma invece che delle tre classi tipo solo quella proletaria può lottare e deve lottare per l’avvento del nuovo tipo sociale, del nuovo modo di produzione». (“Vulcano della produzione o palude del mercato?”, in Il Programma Comunista, n. 13-19 del 1954).Del resto già Marx aveva affermato, in polemica con Ricardo ("Teorie sul Plusvalore", II vol., Cap. XVII), che
«ciò che egli dimentica di rilevare è il continuo accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo tra workmen da una parte, capitalista e landlord dall’altra e che gravano come un peso sulla sottostante base lavoratrice».La questione in ogni caso è di notevole importanza non solo e non tanto per rispondere alle banalità dei moderni “aggiornatori”, ma soprattutto per delimitare e precisare sempre meglio il campo dell’attività del Partito.
Funzione delle mezze classi nelle diverse aree geopolitiche
Già nel Manifesto, come abbiamo ricordato, è stabilita la tesi che nelle società pienamente sviluppate dal punto di vista capitalistico solo il proletariato è classe rivoluzionaria. Come è noto tale tesi è stata imbastardita non solo dall’opportunismo classico della seconda Internazionale, ma ancora di più dall’opportunismo stalinista, dilagante dalla degenerazione della Terza Internazionale in poi, tanto più fetente quanto più ha cercato di barare addirittura con le carte di Lenin.
Solo nelle aree a doppia rivoluzione si può porre ancora la questione dell’alleanza del proletariato con altre classi rivoluzionarie. Non può escludersi infatti che in tali aree si possa ancora verificare un movimento nazionalista rivoluzionario antiimperialista nel quale il movimento proletario e comunista troverebbe un naturale alleato. Nelle aree in cui lo Stato è ancora di tipo precapitalistico, infatti, le classi medie, e specialmente il contadiname, possono ancora svolgere un ruolo rivoluzionario se mettono in discussione almeno una delle forme di proprietà. Di qui il loro ruolo rivoluzionario rispetto alla struttura politica dello Stato, garante, come sappiamo, di ogni forma di proprietà esistente.
Nelle aree a rivoluzione diretta, viceversa, non si pone alcun problema di alleanze del proletariato con altre classi. Tuttavia il rapporto tra Stato proletario e mezze classi non si presenterà nemmeno qui in modo indifferenziato. Poiché l’evoluzione delle forme produttive pienamente capitalistiche nel settore agricolo è più lenta che nel settore industriale, perfino nelle aree a rivoluzione diretta il rapporto Stato proletario-mezze classi non sarà indiscriminato, ma una particolare attenzione si dovrà porre al rapporto con i piccoli contadini: bisogna infatti tener presente il grado di socializzazione dell’attività agricola, dove non si può passare da una condizione tecnica di tipo ancora individuale ad una pienamente socializzata, se non dopo una fase intermedia in cui prevarrà ancora l’assegnazione individuale della terra, sia pure come possesso, e il favorire la formazione di aziende di tipo cooperativo.
È questa tuttavia una questione tecnica, più che politica. Non per questo, infatti, i piccoli contadini poveri potranno svolgere una funzione autonoma rivoluzionaria nelle aree pienamente capitalistiche, dove l’unica forma di proprietà è quella capitalistica e dove lo Stato ne rappresenta dunque interamente il garante. In queste aree l’unica classe rivoluzionaria è il proletariato, che dunque da solo e senza alleati dovrà spezzare lo Stato capitalista ed instaurare la propria ferrea dittatura.
A differenza del piccolo contadino, il piccolo artigiano o il
piccolo
commerciante verranno più rapidamente soppressi in quanto tali dopo la
rivoluzione proletaria, poiché non esiste più alcuna ragione di natura
economico-sociale per la loro sopravvivenza paragonabile a quelle
relative
alla piccola produzione agricola. Già oggi, se l’artigiano o il piccolo
commerciante delle città sopravvive, ciò avviene o sfruttando
situazioni
di autentico parassitismo oppure svolgendo esclusivamente funzioni di appoggio
alla grande industria e nessuna funzione economica autonoma: il potere
proletario con l’assoggettamento della grande industria assoggetterebbe
al suo controllo anche queste attività marginali.
Delimitazione della classe proletaria
Non indulgiamo, affrontando questa questione, a criteri di classificazione sociale, o peggio sociologica. Non a caso usiamo il termine delimitazione (e non classificazione) perché le categorie marxiste hanno a che vedere con linee di tendenza e di forza e non con dati statistici. Tuttavia è necessario tornare anche sui presupposti di natura economica e sociale che stanno alla base dell’azione delle classi sociali. Si tratta in effetti di una questione particolarmente importante, sia prima sia dopo la rivoluzione. Prima, in quanto il Partito, nelle aree a rivoluzione diretta, si assume il compito di difendere le condizioni di vita del solo proletariato e non di altre classi, fatta eccezione, nei limiti prima descritti, del contadiname. Non per ragioni “moralistiche”, ma esclusivamente di natura economica e politica, il Partito si assume tali compiti, in quanto solo il proletariato è capace di trasformare la lotta di difesa delle proprie condizioni di vita, giunta ad un certo grado di intensità, in lotta politica rivoluzionaria per la distruzione dello Stato borghese. Ne consegue che le classi diverse da quella proletaria, non essendo rivoluzionarie, mai potrebbero partecipare ad una lotta effettivamente rivoluzionaria contro lo Stato capitalista: perciò non meritano in nessun caso il minimo interessamento del Partito.
La questione della delimitazione della classe proletaria ha particolare rilievo anche per il periodo immediatamente successivo alla vittoria della rivoluzione proletaria, in quanto lo Stato che ne uscirà sarà esclusivamente Stato di una sola classe e perciò ne saranno escluse tutte le altre. Un nostro testo ha da tempo dichiarato, in perfetto allineamento con Lenin:
«La teoria proletaria proclama apertamente che il suo Stato avvenire sarà uno Stato di classe, cioè uno strumento maneggiato, finché le classi esisteranno, da una classe unica. Le altre saranno, in principio non meno che di fatto, messe fuori dallo Stato e "fuori legge". La classe operaia, pervenuta al potere, "non lo dividerà con nessuno" (Lenin)». (“Dittatura proletaria e partito di classe”, in Battaglia Comunista, n. 3-5 del 1951).Acquista così, nell’ottica esclusiva di Partito, un importantissimo rilievo uno dei temi più dibattuti all’interno di movimenti che in questa fetida attualità si fregiano persino della qualifica di rivoluzionari e che magari predicano perfino la lotta armata subito e sognano un’impossibile rivoluzione immediata, che loro dicono avere i caratteri di quella proletaria. Il tema in questione è quello della considerazione del vasto strato dei lavoratori cosiddetti improduttivi o dei servizi. Il grande interrogativo che si pone è se tali lavoratori debbono essere considerati facenti parte delle “mezze classi” o addirittura se debbono considerarsi come la “nuova” classe rivoluzionaria, contrapposta perfino al cosiddetto “proletariato industriale”, in quanto erogatrice di un tipo di lavoro che non produce plusvalore, ma solo valore d’uso, e che porterebbe dunque immediatamente l’esigenza del comunismo. In sostanza si è divisi tra chi farnetica e chi, pur essendo disposto a farneticare, non ha capito una virgola dei ponderosi concetti marxisti relativi all’annosa questione della divisione dei lavoratori tra lavoratori produttivi e improduttivi, ed al massimo non sa far altro che tornare a... Smith!
Lavoro produttivo e improduttivo
Marx spiega abbondantemente che si può effettuare una tale distinzione, dati gli attuali rapporti sociali, solo dal punto di vista del Capitale: solo al Capitale interessa la distinzione tra lavoro produttivo di plusvalore e lavoro che non produce plusvalore, in quanto impiegato contro reddito e non contro capitale variabile. Sbagliano clamorosamente coloro che considerano appartenenti alla classe proletaria solo gli addetti a lavoro produttivo, perché ciò dipende non dal contenuto del lavoro, ma esclusivamente dalle esigenze di valorizzazione del Capitale. Sbagliano, ed a maggior ragione, coloro che vedono nelle condizioni di lavoro dei lavoratori improduttivi la possibilità di esprimere un movimento che ponga immediatamente, con il suo “rifiuto del lavoro” la esigenza di rapporti sociali addirittura pienamente comunistici. Dimenticano che tale “rifiuto del lavoro” esprime la disumanità del rapporto capitalistico in cui si svolge oggi ogni attività di lavoro, e saltano riformisticamente ed anarchicamente la necessità della distruzione dello Stato borghese prima della trasformazione del modo di produzione. Se i primi, dietro il mito del lavoratore produttivo, erroneamente scambiato come “operaio di fabbrica”, ripropongono la falsa teoria consiglista ed operaista, i secondi, con la teoria del “proletariato sociale” ed il suo “rifiuto del lavoro”, teorizzano proprio le aspirazioni delle mezze classi e soprattutto la loro tendenza ad eternare i loro privilegi.
L’unico significato con cui si può qualificare il lavoro come lavoro produttivo e quindi distinto dal lavoro improduttivo (nell’epoca capitalistica) è quello del lavoro che produce o non produce plusvalore. Essendo la produzione capitalistica esclusivamente produzione per l’accrescimento del Capitale, è questo l’unico metro che è possibile usare per qualificare ogni tipo di lavoro. Fino a che l’attività produttiva sarà assoggettata alle leggi barbare del Capitale non è possibile usare altre misure socialmente quantificabili ed identificabili. Da ciò l’ovvia conclusione che tale distinzione è di importanza fondamentale per il Capitale, ma non ha alcuna importanza dal punto di vista del suo antagonista, della classe proletaria, almeno fino a che sarà schiava del Capitale. Essa è detentrice solo di forza-lavoro generica. Che questa sia impiegata in attività produttive che generano plusvalore o in altre capaci solo di consumarlo, rendendo liquido il plusvalore stesso, non può interessare la classe proletaria fino a che non ha alcun potere sulla massa stessa del plusvalore sociale e cioè fino alla rivoluzione vittoriosa. A maggior chiarimento di quanto affermato riporteremo alcune decisive citazioni di Marx:
«Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica, è il lavoro salariato che, nello scambio con la parte variabile del Capitale, non solo riproduce questa parte del Capitale (o il valore della propria capacità lavorativa), ma oltre a ciò produce plusvalore per il capitalista. Solo per questa via la merce, o il denaro, è trasformata in Capitale, è prodotta come Capitale. È produttivo solo il lavoro salariato che produce capitale. Ciò significa che esso riproduce, accresciuta, la somma di valore che è stata spesa in esso, ossia che restituisce più lavoro di quanto ne riceva sotto forma di salario. Dunque è produttiva solo la capacità lavorativa la cui valorizzazione è maggiore del suo valore.La divisione della classe dei salariati tra lavoratori produttivi e improduttivi, del resto, non è affatto una specie di maledizione per il Capitale, ma risponde perfettamente alle sue esigenze di valorizzazione. Per comprendere la necessità per il Capitale di ripartire la forza-lavoro disponibile in produttiva e improduttiva, è necessario prima di tutto precisare che la forza-lavoro impiegata in lavoro improduttivo, non è esclusivamente consumatrice di plusvalore, ma il suo costo entra a far parte direttamente dei costi di produzione della merce che produce tutti i valori, e cioè della forza-lavoro stessa. Basta, ancora una volta, leggere Marx:
«In questo modo è anche stabilito in maniera assoluta che cosa sia il lavoro improduttivo. È lavoro che non si scambia con capitale, ma che si scambia direttamente con reddito (...) Queste definizioni non sono dunque ricavate dalle caratteristiche materiali del lavoro (né dalla natura del suo prodotto, né dalla determinazione del lavoro in quanto lavoro concreto), ma dalla forma sociale determinata, dai rapporti sociali di produzione in cui questo si realizza. Un attore, per esempio, perfino un pagliaccio, in base a queste definizioni, è un lavoratore produttivo se lavora al servizio di un capitalista, al quale egli restituisce più lavoro di quanto egli ne riceva sotto forma di salario (...) Il lavoro produttivo e improduttivo viene qui esaminato sempre dal punto di vista del possessore di denaro, del capitalista, non da quello del lavoratore» (Teorie sul plusvalore, I vol.).
«Da quanto abbiamo detto sin qui, risulta che il fatto di essere produttivo è una determinazione del lavoro che non ha assolutamente nulla a che vedere, in sé o per sé, col particolare contenuto, con la particolare utilità del lavoro stesso, o con il particolare valore di uso in cui questo si rappresenta. Ne segue che un lavoro dello stesso contenuto può essere nello stesso tempo produttivo e improduttivo (...) Un insegnante che impartisce lezioni a scolari non è un lavoratore produttivo; ma se viene assunto come salariato, insieme ad altri, da un istituto trafficante in sapere, per valorizzare con il proprio lavoro il denaro del suo proprietario, è un lavoratore produttivo (...) Una gran parte del prodotto annuo che viene consumato come reddito e non rientra più nel processo produttivo come mezzo di produzione, è composta di prodotti (valori d’uso) più nefasti, che soddisfano le voglie, i capricci più meschini. Ma per la definizione di lavoro produttivo, questo loro contenuto è del tutto indifferente» (Il Capitale, Libro I, Capitolo VI).
«Può darsi il caso che tempo di lavoro eccedente, pur essendo contenuto nel prodotto, non sia scambiabile (...) Il lavoro può essere necessario, senza essere produttivo, sicché tutta la situazione tra tempo di lavoro necessario e tempo di lavoro eccedente non esiste (...) Per creare tutte le condizioni generali, comunitarie della produzione, si attinge quindi a una parte del reddito nazionale, all’erario pubblico, e gli operai, pur accrescendo la forza produttiva del Capitale, non figurano come operai produttivi» (Grundrisse, II capitolo del Capitale). «Tutto il mondo delle merci può essere diviso in due grandi parti. In primo luogo la capacità lavorativa, in secondo luogo le merci distinte dalla capacità lavorativa stessa. Ora, quanto alla compra di quei servizi che educano, conservano, modificano ecc. la capacità lavorativa, in breve dei servizi che danno a questa una specializzazione o che anche si limitano a conservarla (...) sono servizi che permettono la vendita della capacità lavorativa stessa, nei costi di produzione o di riproduzione della quale questi servizi entrano (...) È dunque evidente che i lavori del medico e del maestro di scuola non creano direttamente il fondo col quale vengono pagati, sebbene i loro lavori entrino nei costi di produzione del fondo che crea tutti i valori in generale, cioè nei costi di produzione della capacità lavorativa» (Teorie sul plusvalore, I vol., 3b).Da ciò consegue che un giudizio negativo sulle caratteristiche di classe dei lavoratori improduttivi, in quanto "folli" consumatori o magari scialacquatori, è completamente fuori luogo. È, nel migliore dei casi, vieto moralismo, diametralmente opposto ai criteri di giudizio tipici del marxismo. La questione essenziale è che, ampliandosi il settore dei servizi prodotti con l’uso di lavoro improduttivo, il saggio del plusvalore dei lavoratori produttivi ne risulta enormemente ingigantito, in quanto una notevole quota del valore del loro salario è pagata con lavoro improduttivo, cioè con reddito, in grado tra l’altro di ampliare il consumo globale e di facilitare la realizzazione di tutto il plusvalore prodotto socialmente.
Non è in questa direzione che bisogna cercare la malattia mortale del modo di produzione capitalista. C’è appena bisogno di ricordare che è la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto medio che condanna inevitabilmente il capitalismo al crollo finale, sebbene, come è arcinoto, le stesse cause che la generano riescano a secernere delle antitossine capaci di ritardare la finale disintegrazione, che sarà tanto più violenta quanto più la dilazione sarà stata fasulla ed artificiale. La legge dice che il saggio medio del profitto tende a decrescere per effetto del gonfiamento spaventoso del Capitale (e in particolare della sua parte costante) con le sue esigenze di essere continuamente valorizzato nella sua attività produttiva, attraverso quindi la sua conversione in merci che contengono plusvalore e la riconversione in capitale aumentato di tale plusvalore.
Ne deriva che, come è stata ed è tuttora un’efficace controtendenza quella del disumano innalzamento del saggio del plusvalore, cioè dell’intensità dello sfruttamento della forza-lavoro, così non di meno lo è stata ed è tuttora quella di sottrarre notevoli quote di capitale, impiegato come reddito, con l’intervento provvidenziale dello Stato, dalla ripartizione del plusvalore prodotto socialmente. Di qui la tendenza irresistibile in tutti gli Stati capitalistici al gonfiamento dei servizi pubblici che permette sia di innalzare il saggio del plusvalore, sia, in quanto si impiega forza-lavoro non direttamente contro capitale variabile ma contro reddito, di funzionare (come ha almeno finora funzionato) come mezzo per assorbire, con il suo consumo improduttivo, le merci prodotte nei settori produttivi, che così possono essere vendute, permettendo al Capitale di realizzare il profitto.
È evidente che ciò non è, né sarà, il toccasana finalmente scoperto
dal capitalismo, che gli permetta di vivere in eterno: la malattia
scopertagli
dal marxismo è alla lunga incurabile e vincerà ogni possibile
controtendenza.
La fame di plusvalore del Capitale è infatti inesauribile: è vero che
notevoli quote di capitale speso come reddito non partecipano alla
ripartizione
del plusvalore sociale, ma è vero anche che in questo modo una notevole
parte della forza-lavoro potenzialmente produttiva di plusvalore non lo
produce: è appunto improduttiva. Le attuali polemiche sull’eccessivo
ammontare della spesa pubblica e sulla sua necessaria riduzione anche
per
contenere l’inflazione, hanno appunto questo significato: dimostrano
la necessità che ha in questa fase storica il Capitale mondiale di
accrescere
la massa del plusvalore prodotto. Ma ciò non avverrà senza crisi:
l’augurio
che facciamo al Capitale di tutti i cieli è quello di soccombere
definitivamente!
La classe dei senza riserve
È dunque certo che le categorie “lavoro produttivo” e “lavoro improduttivo” non possono essere usate per delimitare la classe proletaria. È altrettanto arcisicuro che ambedue le razze dei detrattori del marxismo, i moralisti, che vedono il proletariato solo nel lavoratore produttivo, e i farneticanti che vedono nel lavoratore improduttivo l’incarnatore immediato (!) di un lavoro il cui contenuto è già anticapitalistico e quindi “comunistico”, esprimono una profonda incomprensione delle caratteristiche che contraddistinguono gli stessi presupposti economici che delimitano la classe proletaria.
Non appartiene a questa chi, svolgendo o no lavoro produttivo, ha la possibilità di vivere non esclusivamente di salario. Esso non è più il proletario che ha da perdere solo le proprie catene come descritto da Marx, ma ha qualcosa da difendere di questo modo di produzione. In un’epoca che non ammetteva sottili “distinguo”, ma richiedeva soprattutto di schierarsi o da una parte o dall’altra, abbiamo scritto quanto segue:
«Specie nei momenti di convulsione sociale, l’uomo fa valere con la sua azione politica i suoi interessi non quale membro di una categoria di produttori, ma di una classe sociale. La classe deve considerarsi non come un semplice aggregato di categorie produttrici, ma come un insieme omogeneo di uomini, le cui condizioni di vita economica presentano analogie fondamentali.
«Il proletariato non è il produttore che esercita dati mestieri, ma è l’individuo contraddistinto dal nessun possesso di strumenti di produzione e dalla necessità di vendere per vivere l’opera propria. Potremmo anche avere un operaio regolarmente organizzato nella sua categoria, che sia contemporaneamente un piccolo proprietario fondiario o capitalista; e questi non sarebbe più un membro della classe proletaria. Tal caso è più frequente che non si creda» (“L’errore dell’unità proletaria”, in Il Soviet, 1 giugno 1919).
Se il caso era allora frequente, figuriamoci oggi! Molti lo sanno, ma hanno paura di trarne le dovute conseguenze. Constatare che lavoratori salariati con caratteristiche di piccoli proprietari fondiari o capitalisti sono molto numerosi, almeno nei paesi a capitalismo maturo, significa spiegare la realtà del dilagare dell’opportunismo, che appunto in ciò ha la sua base sociale ed economica. Rimesse queste questioni sulle loro basi materiali, possiamo dunque affermare come criterio di delimitazione della classe proletaria il seguente: sono appartenenti alla classe tutti coloro che, svolgendo lavoro salariato di qualunque natura sia (produttivo o no), vivono solo dei proventi del lavoro e non hanno alcuna possibilità di effettuare risparmi, dai quali poter ottenere un supplemento di reddito. Non scopriamo niente di nuovo, bensì riaffermiamo semplicemente quanto già contenuto nel Manifesto.
«Ogni società finora esistita ha poggiato, come abbiamo già visto, sul contrasto tra le classi degli oppressori e degli oppressi. Ma per poter opprimere una classe, bisogna che le siano assicurate condizioni entro le quali essa possa almeno vivere la sua misera vita di schiavo. Il servo della gleba ha potuto, continuando ad essere tale, elevarsi a membro del Comune, così come il borghigiano, pur sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto diventare un borghese. L’operaio moderno, al contrario, invece di elevarsi col progresso dell’industria, cade sempre più in basso, al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza. Appare da tutto ciò manifesto che la borghesia è incapace di rimanere ancora di più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società come legge regolatrice, le condizioni di esistenza della sua classe. Essa è incapace perché è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali da doverlo poi nutrire anziché essere nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio, cioè l’esistenza della borghesia non è più compatibile con la società».
Sono
queste le condizioni che debbono necessariamente riprodursi alla scala
sociale, perché la classe proletaria possa manifestare sotto la guida
del Partito tutta la sua potenza rivoluzionaria.
Aristocrazia operaia ed opportunismo
Il fenomeno dell’esistenza di lavoratori salariati con riserve in rendite ed interessi e che quindi diventano cointeressati al buon andamento dell’economia capitalistica nazionale da becchini quali ne dovrebbero essere, è il fenomeno dell’aristocrazia operaia e quindi dell’opportunismo, che giganteggia soprattutto nell’epoca dell’imperialismo. È un fenomeno non morale, ma essenzialmente materiale, che trova la sua ragione d’essere nell’alleanza di fatto tra le borghesie imperialiste dell’occidente e numerosi strati di operai, alleanza che costituisce la vera base sulla quale si regge l’indiscusso predominio di un pugno di Stati imperialisti su tutto il mondo, e quindi, in definitiva, la permanenza del modo di produzione capitalistico nella sua fase imperialista. Tale fenomeno è apparso fin dagli inizi del movimento operaio ed è stato cementato da ben due guerre mondiali condotte all’insegna del mantenimento dei privilegi imperiali.
Anche a questo proposito l’insieme di citazioni che allineiamo dimostra che tale fenomeno, lungi dall’essere una delle solite “invenzioni geniali” di Lenin, è chiaramente compreso fin dalle origini del marxismo e che, se mai, la storia ha posto sempre più in primo piano. I suoi caratteri peculiari dunque si sono costantemente accentuati, ma solo chi ha saputo porsi sulla stessa linea di tendenza del marxismo rivoluzionario – Lenin e la Sinistra – ha saputo rilevarli ed inquadrarli correttamente.
In una lettera a Marx del 7 ottobre 1858 Engels scrive a proposito della politica di alleanza con i radicaldemocratici che Jones proponeva per il partito cartista:
«La storia di Jones è molto schifosa. Ha tenuto qui un comizio e ha parlato completamente nel tono della nuova alleanza. Dopo questa storia verrebbe davvero la voglia di credere che il movimento proletario inglese nella vecchia forma tradizionale cartista abbia bisogno di sfasciarsi del tutto prima che esso possa svilupparsi in una nuova forma vitale. E tuttavia non si riesce a vedere quale sarà questa nuova forma. Mi sembra del resto che il nuovo passo di Jones, in relazione con i precedenti, più o meno fortunati, tentativi di un’alleanza simile, in realtà sia collegato con l’effettivo progressivo imborghesimento del proletariato inglese, di modo che questa nazione, che è la più borghese di tutte, sembra voglia portare le cose al punto da avere una aristocrazia borghese ed un proletariato borghese accanto alla borghesia. In una nazione che sfrutta il mondo intero, ciò è in certo qual modo spiegabile».Il seguente passo di Engels è tratto da La Situazione della classe operaia in Inghilterra ed è citato da Lenin nei suoi lavori preparatori sul testo Imperialismo, fase suprema del capitalismo (Opere XXXIX, pag. 557), che come è noto stigmatizza sprezzantemente la funzione di sostegno all’imperialismo svolta dalle aristocrazie operaie e per loro conto dai partiti opportunisti. Le affermazioni di Engels sono importanti perché già allora, sebbene il fenomeno fosse limitato all’Inghilterra, individua i caratteri essenziali dell’opportunismo nella partecipazione di larghe masse di proletari al godimento di privilegi. Così Engels:
«Finché è durato il monopolio industriale dell’Inghilterra, la classe operaia inglese ha partecipato in una certa misura ai vantaggi di questo monopolio. Questi vantaggi furono ripartiti nel suo interno in modo assai diseguale; la minoranza privilegiata ne intascò la parte maggiore, ma anche la gran massa ebbe almeno di quando in quando, se pure per poco, la sua parte. È questo il motivo per cui dopo la scomparsa dell’owenismo non vi è più stato un movimento socialista in Inghilterra. Con il crollo del monopolio la classe operaia inglese perderà la sua posizione privilegiata. Essa tutta intera – non esclusa la maggioranza privilegiata e dirigente – si troverà un giorno ridotta allo stesso livello degli operai stranieri. E questo è il motivo per cui in Inghilterra vi sarà nuovamente socialismo».La seguente citazione di Lenin è tratta da L’imperialismo e la scissione del socialismo dell’ottobre 1916 ed è particolarmente importante perché sottolinea la necessità della separazione soprattutto organizzativa dei nuovi partiti proletari rivoluzionari dai vecchi ormai irrimediabilmente opportunisti, la cui causa non è casuale, ma "economicamente motivata" La rinascita di organizzazioni di classe anche sul terreno economico è veramente decisiva per la ripresa del movimento rivoluzionario. Queste le affermazioni-chiave di Lenin:
«La borghesia di una grande potenza imperialistica può corrompere economicamente gli strati superiori dei propri operai, sacrificando a questo scopo anche più di un centinaio di milioni di franchi all’anno, poiché il sovraprofitto ammonta, probabilmente, a circa un miliardo. E la questione come viene divisa questa piccola elemosina tra gli operai-ministri, gli operai-deputati, gli operai che partecipano ai comitati dell’industria di guerra, gli operai-funzionari, gli operai organizzati in ristretti sindacati di categoria, gli impiegati ecc. ecc., è già una questione secondaria (...) L’ultimo trentennio del XIX secolo segnò il passaggio alla nuova epoca dell’imperialismo (...) Oggi il monopolio del capitale finanziario viene rabbiosamente conteso: è cominciata l’epoca delle guerre imperialiste. Una volta la classe operaia di un solo paese poteva venir comprata e corrotta per decine d’anni. Ora questo sarebbe inverosimile e perfino impossibile (...) A quei tempi "un partito operaio borghese", secondo l’espressione veramente profonda di Engels, poteva formarsi in un solo paese, poiché un solo paese aveva il monopolio. Oggi "il partito operaio borghese" è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti (...) Da un lato, c’è la tendenza della borghesia e degli opportunisti a trasformare un pugno di nazioni più ricche e privilegiate in eterni parassiti (...) Dall’altro lato, c’è la tendenza delle masse, che sono oppresse più di prima (...) Nella lotta tra queste due tendenze si svolgerà ora inevitabilmente la storia del movimento operaio, poiché la prima tendenza non è casuale, ma economicamente motivata» (Lenin, Opere, XXIII, pag. 113-114).Delle innumerevoli citazioni dei testi di Partito del secondo dopoguerra, che riaffermano le stesse posizioni, è particolarmente significativa la seguente, tratta da "Partito rivoluzionario e azione economica", in quanto riafferma pure la piena validità della legge della miseria crescente del proletariato. Il testo è del 1951:
«Laddove la produzione industriale fiorisce, per gli operai occupati tutta la gamma delle misure riformiste di assistenza e previdenza per il salariato crea un nuovo tipo di riserva economica che rappresenta una piccola garanzia patrimoniale da perdere, in certo senso analoga a quella dell’artigiano e del piccolo contadino; il salariato ha dunque qualcosa da rischiare e questo (fenomeno d’altra parte già visto da Marx, Engels e Lenin per le cosiddette aristocrazie operaie) lo rende esitante ed anche opportunista al momento della lotta sindacale e peggio dello sciopero e della rivolta».
La legge della miseria relativa crescente
Dall’innegabile realtà delle cosiddette “briciole” concesse agli operai occidentali dall’imperialismo, alcuni, tra i peggiori falsificatori del marxismo, hanno tratto la conclusione che gli operai occidentali si sono quindi “imborghesiti” fino in fondo e che sarebbero persi per sempre per la rivoluzione! Altre classi, strati sociali, o – come si preferisce dire oggi – altri “soggetti politici rivoluzionari” avrebbero surrogato il proletariato occidentale nella sua missione storica di affossatore del regime del Capitale. Naturalmente corollario di tale balordaggine è la negazione di una delle leggi fondamentali del marxismo: quella della miseria relativa crescente del proletariato. Non sapendo e non potendo ragionare dialetticamente, non possono vedere come il fenomeno della aristocrazia operaia, ancora più generalizzato oggi (nei paesi occidentali) che non all’inizio dell’epoca capitalistica, non scalfisca minimamente la legge suddetta. È infatti difficilissimo “per loro professoroni”, un ragionamento talmente semplice da apparire banale: un pugno di Stati imperialisti ha saputo corrompere con i suoi giganteschi extra-profitti una notevole parte del proletariato dei rispettivi paesi, ma tale possibilità di corruzione sarà destinata a venir meno col venir meno della possibilità stessa di realizzare gli extra-profitti; quindi il proletariato occidentale tornerà nuovamente ad agire come classe rivoluzionaria. Vediamo come tale legge è presentata da Marx:
«Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in produzione, il volume e l’energia della sua crescita, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la produttività del suo lavoro, tanto è maggiore l’esercito industriale di riserva. La forza-lavoro disponibile è sviluppata dalle stesse cause che sviluppano la forza di espansione del Capitale. La grandezza relativa dell’esercito industriale di riserva cresce quindi con le potenze della ricchezza. Ma quanto maggiore in rapporto all’esercito operaio attivo è questo esercito di riserva, tanto più massiccia è la sovrappopolazione consolidata, la cui miseria sta in ragione inversa del suo tormento di lavoro (...) È questa la legge assoluta, generale, dell’accumulazione capitalistica (...)Dunque innanzitutto la legge si riferisce non all’operaio singolo e nemmeno all’entità della sua mercede, ma all’intera popolazione operaia, le cui condizioni di vita peggiorano continuamente in rapporto all’ingigantire della forza produttiva del Capitale. Oggi più che mai la produzione, e quindi il Capitale, si è internazionalizzato e quindi anche il proletariato come classe non conosce di fatto confini nazionali. Allora non è un mistero per nessuno che milioni e milioni di uomini sono costretti a vivere nell’indigenza e nelle condizioni più disumane ed i morti per fame aumentano tutti gli anni, tanto da commuovere i soliti borghesi benpensanti e i romantici radicali. Questi semplici dati ufficiali forniti dalla F.A.O. sono più che esaurienti: tra il 1950 e il 1970 la popolazione dei paesi sottosviluppati è aumentata di 1 miliardo di individui, mentre quella dei paesi ricchi solo di 200 milioni e si prevede che all’incirca nel 2.000 l’80% della popolazione mondiale apparterrà ai paesi sottosviluppati. Al contrario la partecipazione degli stessi paesi al commercio mondiale nello stesso periodo è diminuita dal 32% al 17%. Ciò significa semplicemente che il rapporto tra le condizioni di vita del proletariato mondiale e quelle delle classi ricche è peggiorato nel ventennio che va dal 1950 al 1970 di almeno dieci volte!
«Il più rapido aumento dei mezzi di produzione e della produttività del lavoro che della popolazione alla produzione, si esprime dunque capitalisticamente nel fatto inverso che la popolazione operaia cresce sempre più rapidamente dei bisogni di valorizzazione del capitale (...) Ne segue perciò che nella misura in cui il Capitale accumula, la situazione dell’operaio, qualunque sia la sua mercede, alta o bassa, deve peggiorare. La legge infine che tiene la sovrappopolazione relativa, o esercito industriale di riserva, in costante equilibrio col volume e l’energia della accumulazione inchioda l’operaio al Capitale più saldamente di quanto i cunei di Efeso inchiodassero Prometeo alla roccia. Essa determina un’accumulazione di miseria corrispondente all’accumulazione di Capitale. L’accumulazione di ricchezza ad un polo è quindi nello stesso tempo accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù ignoranza, abruttimento e degradazione morale al polo opposto, cioè dal lato della classe che produce il suo proprio prodotto come Capitale» (Il Capitale, I, XXIII, 4).
Inoltre non si deve dimenticare che un altro aspetto essenziale della legge della miseria crescente è la relatività della miseria del proletariato rispetto alla potenza del Capitale. Ricorderemo tale carattere con uno degli innumerevoli passi di Marx:
«Sebbene dunque i godimenti del lavoratore siano aumentati (ipotesi della crescita del prezzo della forza-lavoro) la soddisfazione sociale che essi procurano è diminuita in confronto agli accresciuti godimenti del capitalista, che sono inaccessibili all’operaio (...) I nostri bisogni e godimenti scaturiscono dalla società noi perciò li misuriamo in base alla società non in base all’oggetto della loro soddisfazione. Poiché sono di natura sociale, essi sono di natura relativa. Il salario relativo può dunque diminuire, anche se il salario reale sale insieme al salario nominale, al valore in denaro del lavoro» (Lavoro salariato e Capitale).In "Marxismo e miseria", nostro Filo del tempo pubblicato su Battaglia Comunista del 28 settembre 1949, abbiamo così sintetizzato la legge in questione:
«Miseria nel dizionario economico marxista non significa bassa remunerazione del tempo di lavoro (...) Miseria significa invece nessuna disposizione di riserve economiche destinabili al consumo in caso di emergenza».Se consideriamo che i privilegi economici concessi dall’imperialismo alla classe operaia occidentale (privilegi, beninteso, relativamente alle masse diseredate dei paesi sottosviluppati) sono sì tanto importanti da trasformare questa classe operaia addirittura in alleata delle loro borghesie imperialiste contro i popoli degli altri paesi, ma sono anche di natura talmente effimera che basta qualche settimana o qualche mese in cui vengono meno per togliere alla stragrande maggioranza degli operai ogni riserva, allora dobbiamo concludere che è inevitabile che gli stessi operai oggi superopportunisti riabbraccino il programma rivoluzionario. Deve essere chiaro però che in ogni caso, perché si determini questa metamorfosi, ogni riserva deve esaurirsi preliminarmente. Devono riprodursi le condizioni di esistenza del proletariato anche nei paesi occidentali come previsto fin dal Manifesto.
La questione ha dei rilievi importantissimi di natura politica ed organizzativa. Non va infatti dimenticato che il processo attraverso il quale si vedrà il ritorno sulla scena storica di nuove organizzazioni sindacali di classe, da un lato presume il crollo dei giganteschi extra-profitti imperialistici, e, dall’altro, non potrà verificarsi se non attraverso una lotta senza quartiere contro gli attuali partiti ex-proletari che sono un potente fattore di stabilità sociale e che incarnano quell’oggettiva alleanza imperialismo-classe operaia di cui sopra.
Se aumenteranno i puri proletari descritti dal Manifesto non è detto che immediatamente ritrovino la via rivoluzionaria. Certo questa è la prospettiva più favorevole alla rivoluzione, ma noi dobbiamo mettere nel conto anche l’altra prospettiva, quella più sfavorevole, che consiste nella prevedibile capacità che avranno gli Stati imperialisti di mobilitare gli stessi operai per la conferma dei propri privilegi di fronte alla minaccia reale del loro venir meno e conseguentemente di legarli alla prospettiva della continuazione, magari attraverso una nuova guerra, dell’alleanza classe operaia occidentale-imperialismo. In una prospettiva di questo tipo, nonostante che si verifichino abbondantemente i presupposti economici dell’esistenza di una nuova vasta e potente classe proletaria, questa non potrà esprimere socialmente ed organizzativamente la propria forza se non opporrà decisamente nuove organizzazioni di classe alle vecchie ormai definitivamente preda dell’opportunismo.
Anche a questo proposito non scopriamo niente di nuovo, ripetiamo, e se mai con minor vigore, quanto il marxismo rivoluzionario ha già chiaramente affermato. Questo passo di Lenin del giugno 1915, ora che prospettive di nuove guerre sono più ravvicinate, è quanto mai d’attualità:
«L’idea fondamentale dell’opportunismo è la collaborazione delle classi. La guerra la sviluppa fino in fondo, aggiungendo inoltre ai fattori e agli stimoli abituali di questa idea tutta una serie di nuovi elementi, costringendo con speciali minacce e con la violenza la massa, disorganizzata e dispersa, a collaborare con la borghesia. Questo fatto aumenta, naturalmente, la cerchia dei sostenitori dell’opportunismo e spiega pienamente il fatto che molti radicali della vigilia passano in questo campo.
«L’opportunismo consiste nel sacrificare gli interessi fondamentali delle masse agli interessi temporanei di un’infima minoranza di operai, oppure, in altri termini, nell’alleanza di una parte degli operai con la borghesia, contro la massa del proletariato. La guerra rende tale alleanza particolarmente evidente e coercitiva. L’opportunismo è stato generato nel corso di decenni dalle particolarità di un determinato periodo di sviluppo del Capitalismo, in cui uno strato di operai privilegiati, che aveva un’esistenza relativamente tranquilla e civile, veniva "imborghesito", riceveva qualche briciola dei profitti del proprio capitale nazionale e veniva staccato dalla miseria, dalla sofferenza e dallo stato d’animo rivoluzionario delle masse misere e rovinate. La guerra imperialista è la diretta continuazione e la conferma di un tale stato di cose, perché è una guerra per i privilegi delle grandi potenze, per la ripartizione delle colonie tra queste grandi potenze e per il loro dominio sulle altre nazioni. Per lo strato superiore della piccola-borghesia o della aristocrazia (o burocrazia) della classe operaia, si tratta di difendere e di consolidare la propria posizione privilegiata: ecco il naturale proseguimento delle illusioni opportunistiche piccolo borghesi e della tattica corrispondente durante la guerra; ecco la base economica del socialimperialismo odierno«("Il fallimento della II Internazionale", XXI, pag. 218).
La classe proletaria è rivoluzionaria o non è nulla
Abbiamo affermato che i presupposti dell’appartenenza alla classe proletaria non sono dati dal contenuto del lavoro svolto, ma da condizioni di vita caratterizzate dal possesso di nessun tipo di riserve. Ciò non deve condurre alla errata affermazione che ogni settore di lavoratori salariati ed ogni categoria produttiva abbia lo stesso valore dal punto di vista rivoluzionario. Innanzitutto debbono essere escluse in principio dal proletariato quelle categorie che, pur percependo un salario, svolgono funzioni esclusivamente collegate all’oppressione di classe: preti e poliziotti, pur essendo dei salariati, non faranno mai parte della classe proletaria. Gli stessi intellettuali dovranno essere considerati con circospezione. Infatti, se alcuni di essi svolgono un lavoro socialmente utile e funzionale alla attività produttiva stessa, altri, anche se costretti a vivere condizioni di vita puramente proletarie (ed oggi questo è vero più che nel passato, almeno potenzialmente), svolgono una funzione di sorveglianza del proletariato allo scopo di facilitarne lo sfruttamento da parte del Capitale. I primi dovranno essere attirati nel campo proletario facendo leva sulle loro reali e materiali condizioni di vita, i secondi dovranno essere trattati come alleati del nemico capitalista.
È questo un argomento trattato diffusamente nel 1925 e non a caso, quando cioè cominciarono ad essere affermate dai futuri traditori a pieno titolo le tesi sul fascismo come movimento autonomo delle mezze classi. In una conferenza pubblica tenuta a Torino il 22 marzo 1925 abbiamo risolto la questione della considerazione dei “lavoratori intellettuali” nei termini seguenti e non abbiamo alcun motivo per modificare alcunché. Questi i passi decisivi:
«Un’altra obiezione a proposito della concezione socialista deve essere respinta, cioè l’antitesi tra attività manuale e attività intellettuale che si incrociano, si completano nella produzione; la valorizzazione della prima in contrapposto al disprezzo della seconda, la esaltazione del lavoro materiale e meccanico in contrapposto all’altro. Nel respingere questa affermazione noi non possiamo però venire senz’altro ad una identificazione della situazione dei lavoratori intellettuali con quella dei lavoratori della grande industria e delle grandi officine. Per una parte è funzione necessaria, utilissima, che dovrà essere sopravalutata da una ulteriore organizzazione potenziatrice delle forze produttive. Per questa parte di classe indubbiamente gli intellettuali si verranno ad identificare col proletariato in una organizzazione diversa e specialistica della produzione, in cui verrà ad essere parificata la importanza del lavoro manuale alla importanza del lavoro intellettuale che si fonderà sempre meglio nella grande armonia delle attività umane. Ma ciò non toglie che la classe della intelligenza, specialmente in certi strati, venga ad avere gradatamente degli interessi che si identificano con quelli della classe dominante. Salendo gradualmente noi troviamo ancora degli intellettuali che sono ancora dei puri lavoratori sia pure retribuiti meglio; proseguendo cominciamo a trovarli cointeressati nel profitto del Capitale (...) assumono la figura di guardia del capitalismo, di sorveglianza del proletariato perché non infranga i vincoli del sistema borghese (...) Questa seconda funzione deve essere respinta e combattuta (...) La classe degli intellettuali nella sua parte di funzione strettamente tecnica non è destinata a sparire, bensì a fondersi col proletariato».Abbiamo più volte affermato che i caratteri di natura economico-sociale delineati sono necessari per delimitare la classe proletaria, ma che ne rappresentano solo i presupposti della sua reale esistenza e non sono quindi ancora sufficienti a definirla compiutamente. Il concetto stesso di classe, in linguaggio marxista, è infatti un concetto dinamico e non statico; al di là delle contingenza individua un programma storico-sociale capace di rovesciare gli attuali rapporti di produzione e di sostituirli con un altro modo di produzione. Non è nemmeno sufficiente che un vasto numero di puri proletari si organizzi in modo totalmente autonomo dagli interessi capitalistici perché un tale movimento incarni compiutamente l’originale concetto di classe del marxismo. È necessario anche che tali organizzazioni siano assoggettate alla guida politica del Partito Comunista: solo allora la classe è per sé e non può esserlo se non in modo rivoluzionario. È questo un punto di principio, che, se fosse possibile, più degli altri caratterizza tutta l’esperienza storica del proletariato condensata nelle posizioni della Sinistra. È carne e sangue di tutta la battaglia per la fondazione del Partito, la difesa dalla degenerazione, l’ardua opera di ricostituzione dell’organizzazione militante.
«Chi riduce il marxismo ad un’analisi catalogatrice della società secondo gli interessi economici – scrivevamo nel 1953 – è veramente buffo in veste di completatore moderno del marxismo, in quanto non ne ha assimilata la prima vitale battuta. Marx avrebbe solo "cominciata" l’analisi della società moderna e posto solo le basi del programma socialista; sono questi signori che hanno assunta "la continuazione di questa analisi oggi (quanti aggiornatori del marxismo abbiamo dovuto e dobbiamo tenere a bada!) con un materiale infinitamente più ricco ecc. ecc" (...) Per disperdere simili piacevolezze è di troppo incomodare la dialettica: basta il pernacchio.La fondamentale verità che la classe non esiste come forza storica senza programma e dunque senza Partito comporta che nell’epoca della rivoluzione e della vittoria rivoluzionaria il proletariato rivoluzionario sarà riconoscibile più dal programma che fa suo e difende che dalla sua posizione economico-produttiva. Tuttavia tutto ciò non deve farci dimenticare i presupposti proprio di natura economica e fisica – come dice un nostro testo – che sono indispensabili affinché la classe operaia agisca e lotti per i propri scopi.
«Senza quindi prendere queste cose sul serio, troviamo tuttavia utile battere in argomento la nostra strada, ricostruendo la presentazione organica del marxismo, edificio che possediamo dalle fondamenta al tetto (...) Classe dunque indica non diversa pagina del registro di censimento ma moto storico, lotta, programma storico. Classe che deve ancora trovare il suo programma è frase vuota di senso. Il programma determina la classe» (“Danza di fantocci: dalla coscienza alla cultura”, in Il Programma Comunista, n. 13/1953).
«La giusta prassi marxista afferma che la coscienza del singolo e anche della massa segue l’azione, e che l’azione segue la spinta dell’interesse economico. Solo nel Partito di classe la coscienza e, in date fasi, la decisione di azione precede lo scontro di classe. Ma tale possibilità è inseparabile organicamente dal gioco molecolare delle spinte iniziali fisiche ed economiche» ("Teoria e azione della dottrina marxista", 1951).Ecco perché con forza è da ribadire l’esattezza della importanza che il Partito dà ai primi tentativi, anche se confusi e contraddittori, di ricostituzione dell’organizzazione economica di classe del proletariato, consapevole anche che la velocità con cui gli attuali rapporti sociali possono evolversi ed anche rovesciarsi è imprevedibile, a patto che, da un lato, la ripresa del movimento si fondi saldamente sulle spinte fisiche ed economiche elementari riconducibili a condizioni di vita puramente proletarie e che, soprattutto, dall’altro, il Partito abbia saputo mantenere integri tutti i punti del suo immutabile programma. È la prospettiva già chiaramente delineata nelle nostre Tesi di Lione:
«Vi sono situazioni oggettivamente sfavorevoli alla rivoluzione e lontane da essa come rapporti delle forze (...) Si deve altamente dire che, in certe situazioni passate, presenti e future, il proletariato è stato, è e sarà necessariamente nella sua maggioranza su una posizione non rivoluzionaria, di inerzia e di collaborazione con il nemico a seconda dei casi; e che intanto, malgrado tutto, il proletariato rimane ovunque e sempre la classe potenzialmente rivoluzionaria e depositaria della riscossa della rivoluzione, in quanto nel suo seno il Partito Comunista, senza mai rinunziare alle possibilità di coerente affermazione e manifestazione, sa non ingaggiarsi nelle vie che appaiono più facili agli effetti di una popolarità immediata, ma che devierebbero il Partito dal suo compito e toglierebbero al proletariato il punto di appoggio indispensabile alla sua ripresa».
L’accelerazione delle forze produttive nell’epoca imperialista comporta continui aggiornamenti della strategia militare. Ciò non inficia la nostra tesi fondamentale, nota perfino all’oscuro capitano prussiano Jahns, citato da Engels nell’Antidühring, che si sintetizza nella formula: “la base della guerra è in primo luogo la forma economica generale dei popoli”.
Il fattore tempo diventa nel modo di produzione capitalistico essenziale: la produzione delle merci si svolge in un periodo più breve della sua circolazione. La dannazione del capitalista privato e pubblico, oggi degli Stati nella competizione imperialistica, è quella di lottare contro il tempo, per produrre merci nel più breve tempo possibile per abbassare i costi unitari e di metterle in circolazione con i mezzi più veloci ed efficienti perché riconducano profitto nelle tasche dei detentori dei mezzi di produzione.
Nella nozione marxista di imperialismo questa lotta contro il tempo non avviene nell’ambito di una pacifica e indolore gara per il primato, ma provoca tensioni e lotte, che nelle fasi più acute culminano nella guerra generale, di cui il primo conflitto mondiale fu un primo terribile esempio.
Contro questa classica ed elementare tesi non hanno cessato di urtare le interpretazioni pacifistiche della moderna esperienza storica, né gli aggiornamenti più recenti brillano per originalità.
La teoria e la tentata pratica della guerra-lampo (Blitz-Krieg) è l’espressione militare della contraddizione generale dell’epoca imperialistica: un numero sempre più ristretto di Stati giganti si contende il controllo delle materie prime e dei mercati di sbocco alla propria super produzione relativa. Quanto più il ciclo della produzione si accorcia in virtù dei miglioramenti tecnologici che accelerano a loro volta il meccanismo produttivo, tanto più si fa difficile la collocazione delle merci, nonostante le migliorate e accelerate tecniche di trasporto e di transazione nell’ambito del mercato mondiale.
La guerra è la dimostrazione più fragorosa che i tentativi di conciliare questa contraddizione di fondo si sono manifestati sempre più impotenti; la guerra si è imposta sempre più come lo strumento capace di azzerare il contenzioso tra le opposte frazioni del capitale mondiale e di permettere la ripresa della produzione e della vita sociale poggiante sulla lotta delle classi.
Un fenomeno che s’impone alla attenzione della moderna esperienza storica è quello dell’intrecciarsi sempre più caotico e continuo tra i periodi di pace e di guerra: l’epoca imperialistica è contrassegnata dalla consapevolezza del fatto che l’umanità non riesce a raggiungere un equilibrio duraturo, per cui si considera che è destino rassegnarsi alla pratica della guerra e al ricorso ad essa come uno sfogo necessario alle tensioni sociali. Nella concezione marxista ciò non è un effetto di cause ignote ed indominabili, ma la fase suprema di un modo di vita sociale contraddittorio che abbisogna di essere rivoluzionato dal profondo.
Già i teorici della guerra avevano lucidamente codificato l’importanza della guerra intesa come aspetto culminante della volontà di assoggettamento da parte di forze antagonistiche: la teoria della guerra lampo, teorizzata e mai riuscita secondo i piani dei suoi padri, è l’aggiornamento della questione della durata della guerra: Clausewitz, tanto più ignorato quanto più citato, già poteva scrivere nella sua opera Della Guerra:
«Se, invece di considerare il combattimento in sé stesso, lo considerassimo in rapporto con le altre forme impegnate, la sua durata acquista speciale importanza. La durata di un combattimento ne costituisce, in un certo modo, un secondo risultato, subordinato. Per il vincitore, esso non è mai abbastanza presto terminato, per il vinto non dura mai abbastanza. Una vittoria rapida è una vittoria d’ordine superiore» (Cap. VI).Tutti gli aggiornamenti che l’arte della guerra ha subito nella storia non fuoriescono dal quadro della "forma economica generale dei popoli". Non ci scoraggia ripartire dalla scoperta della polvere da sparo che agli albori della borghesia rivoluzionò l’arte della guerra. Le forme della guerra subirono una eccezionale modificazione; gli eserciti, le forme di reclutamento, il loro rapporto con l’assetto sociale ebbero una potente spinta nella direzione di apparati sempre meno precari e discontinui, per diventare strutture essenziali e portanti dell’intera compagine sociale.
Ma perché quello che oggi viene definito “l’apparato industriale-militare” toccasse il culmine del suo sviluppo era necessario che il modo di produzione capitalistico raggiungesse la sua completa estensione in senso formale e materiale: la produzione per il plusvalore è legge che accompagna il capitalismo dalla sua origine ad oggi, ma la convivenza di tali forme di vita sociale con altre più vecchie e meno progredite ha permesso al capitale stesso di riprendere maggior vigore ogni volta che le sue contraddizioni lo hanno spinto alla guerra contro i suoi storici nemici, prima il mondo feudale e poi il proletariato costituitosi in classe autonoma con proprie forze combattenti per il suo fine specifico di classe.
Nell’epoca imperialistica il confronto con il proletariato ingigantito dallo stesso estendersi della forma capitalistica di produzione si è fatto mortale al punto che gli assetti nazionali e statali a cui ha dato vita la borghesia nel corso del suo incondizionato dominio sono diventati insufficienti e inadeguati a contenere la esplosività della guerra di classe.
La guerra sempre più si è imposta come un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla “nostra volontà”, solo che, al di là della definizione astratta, sempre più complesso è diventato lo sforzo per definire l’avversario: la guerra da fenomeno illuministico, con le sue regole matematiche e geometriche, si è trasformata in lotta che coinvolge non solo i cosiddetti eserciti regolari, ma le forze sociali dei singoli Stati, la popolazione “civile”, tutta la società.
Non solo, ma oltre che avere “alla sua base la forma economica generale dei popoli”, la guerra diventa l’espressione culminante di questa stessa base: l’apparato industrial-militare esprime la punta di diamante della produzione di plusvalore, poiché le merci destinate all’apparato militare sono l’espressione della più alta composizione organica del capitale.
Tra le tante, la dannazione più evidente del modo di produzione capitalistico è quella di dover attendere la metamorfosi materiale, e non puramente immaginaria, delle merci prodotte in profitto: ma questa trasformazione è possibile solo nel consumo del valore d’uso incorporato nelle merci: quale accelerazione più potente può subire il prodotto capitalistico di quello della distruzione violenta di esso?
Senza bisogno di inutili cifre quante volte il panciafichismo belante delle mezze classi e dell’opportunismo ha fatto il confronto tra il valore di un aereo da combattimento più sofisticato ed i beni alimentari o strumentali ad esso corrispondenti?
La produzione dei congegni più raffinati nel settore militare, se da una parte è una necessità imposta dalla “politica”, cioè dalla volontà mostrare la forza, o dalla preparazione di atti di forza necessari per sottomettere gli avversari alla “propria volontà”, dall’altro è il prodotto del livello raggiunto dalla forma economica della società.
A parità di composizione organica, cioè di evoluzione tecnologica, le apparecchiature destinate alla guerra in confronto ai pur sofisticatissimi strumenti per “la pace” (tecnologia applicata per strutture e infrastrutture di pace, i tanto decantati idoli del riformismo ufficiale: case, scuole, ospedali) hanno il vantaggio di poter essere smaltite e ricommissionate in breve tempo, se usate.
Ecco perché una sempre più alta percentuale della popolazione civile è entrata, nei paesi più sviluppati in senso capitalistico, a far parte integrante dell’apparato militare e perché ormai la guerra è l’affare più lucroso, specie se fatta da paesi lontani e disposti a combattere guerre per procura, data la loro soggezione e la loro interna arretratezza sul terreno della lotta di classe e della sua organizzazione cosciente, che prevede partito e forme economiche puramente operaie.
Che nel corso dell’epoca imperialistica tuttora vigente siano state le potenze con un retroterra economico reale e potenziale più debole a puntare sulla guerra-lampo, cioè su azioni belliche che contavano sul fattore sorpresa e determinazione per piegare non solo la volontà avversaria contingente, ma anche potenziale e di prospettiva, non fa che convalidare le nostre tesi. Chi non ha sentito ripetersi che con gli avanzi dell’esercito inglese e americano dell’ultima guerra si sarebbero sfamati tre eserciti tedeschi e italiani!
Tutte queste considerazioni non fanno che convalidare la teoria marxista in lungo e largo: che le potenze più deboli si dimostrino più aggressive può essere perfino spiegato dalla psicologia delle masse, tenuto conto che l’aggressività è ormai riconosciuta come una facoltà essenzialmente dettata dalla volontà di difendersi, sia pur preventivamente, ma generalmente con l’azione di sorpresa e nel tentativo di forzare la situazione. Il rapporto tra politica e base economica trova soltanto nella sintesi di cui è storicamente capace il partito di classe la sua composizione, oltre tutto mai senza contraddizioni e oggettive difficoltà.
Non abbiamo difficoltà a sostenere che nella moderna lotta delle classi e degli Stati le forze che hanno un retroterra economico e sociale favorevole non hanno interesse a scatenare conflitti pericolosi e capaci di mettere a repentaglio la propria superiorità complessiva, non solo economica e sociale ma strategica e militare, a meno che la loro superiorità non sia tale da permettere un dominio che non si identifica con l’atto di guerra tout-court, ma con la coniugazione di diverse forme di dominio, che vanno dal controllo pacifico all’intervento nelle possibili zone calde ove si verifichino focolai pericolosi e capaci di estendersi e congiungersi con altri.
Ciò dimostra come la lettura e soprattutto i comportamenti dei marxisti rivoluzionari prima e dopo il primo conflitto mondiale, considerato anche da noi come un punto d’arrivo (e di partenza purtroppo) della moderna epoca imperialista, è valido e ancora oggi vincolante: le forze “feudali e teutoniche”, “barbare e autoritarie” degli imperi centrali non meritavano alla nostra lettura un odio maggiore delle potenze democratiche dell’occidente evoluto, anzi; non per niente è su questa scelta del nemico peggiore che si ricordano le più clamorose sbornie dell’opportunismo di destra e di sinistra.
Il fascismo in incubazione degli interventisti e dei combattentisti dopo qualche esitazione scelse la patria del ’89, per poi, a vittoria “mutilata” conseguita, scatenarsi contro la plutocrazia e l’ipocrisia dei ricchi imperialisti inglesi, francesi e americani.
Come nell’ambito della lotta di classe noi bolliamo di infantilismo e di attivismo quei raggruppamenti politici che pretendono di forzare le situazioni con azioni disperate, così nella valutazione delle forze statali e nazionali, nonché delle alleanze imperialistiche, non abbiamo difficoltà a riconoscere la falsa risorsa dell’attivismo e del volontarismo. La Germania del Kaiser e quella di Hitler, in quanto potenze imperialistiche, erano allo stesso titolo dei loro nemici nel loro apparato l’espressione della forma economica dei loro popoli: la loro tanto decantata e temuta “volontà di potenza” fu il tentativo di forzare la stessa base della guerra.
In termini di scontro militare tutti sanno che il retroterra economico di largo respiro, e capace di durata maggiore nella resistenza e nella produzione, ha comportato per due volte la vittoria delle potenze avversarie, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, stando ad alcuni paesi più importanti che determinarono l’esito dei due conflitti mondiali. Eppure è facile spiegare, considerando la guerra non un atto di ostilità e di combattimento in sé, ma nei rapporti con gli altri aspetti della vita sociale, quali l’economia, la scienza ecc., come la guerra è stata per le potenze sconfitte la loro base di partenza (nell’ambito dei rapporti interimperialistici non stroncati dalla mancata vittoria della Rivoluzione comunista a livello mondiale) di successive ondate di sviluppo, di organizzazione e primato produttivo.
D’altronde, solo la protervia e lo schieramento borghese ed opportunista possono permettersi di sostenere l’inconciliabilità dei regimi autoritari e dittatoriali della borghesia con il regime democratico, pena poi soggiacere alla “ragione di Stato”, che non si è mai tirata indietro nel rivendicare la continuità statale tra regime prefascista-fascista e post-fascista; ecco un esempio eloquente che dimostra come non è la guerra a definire un regime o un altro, ma un quadro di considerazioni e valutazioni, che inserisce il fenomeno guerra tra gli strumenti e gli atti volti ad affermare il potere.
Dopo tutto, quello che non ha potuto un’eventuale vittoria del Terzo Reich, lo ha potuto una Germania distrutta e l’assoggettamento dei popoli inferiori, slavi, mediterranei ed emergenti di vario colore, predicato dagli hitleriani, lo hanno realizzato le ferree leggi del mercato.
Tutto questo comporta che la teoria marxista, pur non avendo mai sottovalutato il valore e l’importanza dello studio dello strumento guerra, al punto di raccomandare lo studio e la giusta considerazione dei classici non solo borghesi, non ha mai commesso l’errore di trattare la questione militare da un punto di vista esclusivamente tecnico, incitando al contrario, come già fecero Marx ed Engels, a cogliere nell’opera dei teorici degli avversari di classe le letture utili per la rivoluzione proletaria.
Solo così è possibile spiegare come i grandi rivoluzionari comunisti, senza essere mai stati allievi di accademie militari siano stati in grado di condurre alla vittoria eserciti di proletari e di piegare alle necessità della lotta comunista tecniche e strumenti del nemico. Lenin, in “Il fallimento della Seconda Internazionale” (1915) poteva dire:
«Applicata alla guerra, la regola principale della dialettica (...) apprendiamo che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Questa è la formula di Clausewitz, uno dei più grandi scrittori di storia militare (...) Marx ed Engels si sono sempre giustamente tenuti a questo punto di vista, considerando ogni guerra come la continuazione della politica delle potenze interessate e delle differenti classi sociali in seno ad esse».E ancora nel “Discorso sulla guerra”:
«La tattica politica e la tattica militare sono due domini confinanti, quello che in tedesco si chiama "grenzgebiete", quindi i militanti del partito non studieranno infruttuosamente Clausewitz».L’attenzione e la valutazione più corretta possibile delle forze in campo è il compito principale del partito, che senza mai affrontare la questione militare in astratto, non la relega mai ai momenti dell’azione o della insurrezione; infatti la lotta e la giusta polemica contro tutti i movimenti politici falsamente operai consiste proprio nel denunciare gli errori di prospettiva, quando non i tradimenti, di quelle correnti piccolo-borghesi che non sanno o si rifiutano per la loro formazione e ottica di considerare le forze rivoluzionarie come energie interagenti in un parallelogramma la cui risultante è il prodotto dialettico di una complessa serie di fattori, non solo militari, ma anche specificamente militari.
«Avere un atteggiamento serio verso la difesa del paese significa prepararsi a fondo e calcolare rigorosamente il rapporto di forze. Se le forze sono chiaramente poche il mezzo principale della difesa è la ritirata nel cuore del paese. Chi volesse vedere in questa frase una formula di circostanza, adatta esclusivamente nel caso in questione, può leggere nel vecchio Clausewitz, uno dei grandi scrittori militari, il bilancio degli insegnamenti della storia a questo proposito. Ma nei “comunisti di sinistra” non vi è il minimo accenno che essi comprendano l’importanza che ha il problema del rapporto delle forze» (“Sull’infantilismo di Sinistra e sullo spirito piccolo borghese”, 1918).Il pensiero militare nella fase decadente e virulenta dell’imperialismo, contrariamente a tutte le valutazioni opportunistiche e pacifistiche, non ha saputo scoprire nessun altro aspetto concettualmente degno di importanza del fenomeno guerra, rinculando anzi costantemente verso una sorta di voluto occultamento del valore e del significato degli atti di guerra, sorretto e attratto in questo dall’inflazione di panciafichismo e sentimentalismo proprio delle mezze-classi accorse in aiuto del traballante cosiddetto “grande capitale”. Come i traditori del marxismo si ingegnano ad “aggiornare” la teoria di classe, così gli epigoni più o meno spuri della grande tradizione borghese oscillano tra gli estremi della esaltazione della guerra (basti pensare alle formule combattentistiche e mistiche della “guerra igiene dei popoli” o “lavacro di sangue”) o del ripudio emotivo di essa senza preoccuparsi delle cause oggettive che la determinano.
Le stesse strategie militari borghesi non fanno che confermare il vuoto di pensiero di una classe in declino: la miseria della teoria della guerra imperialista è sotto gli occhi di tutti, non solo a causa degli orrori perpetrati dalla Comune di Parigi in poi, ma principalmente a causa della mancanza di prospettive storiche che ha patentemente dimostrato.
Abbiamo ricordato come nel corso del primo conflitto mondiale la Germania del Kaiser, aggressiva (secondo l’accezione che dicevamo) e velleitaria, sperò di risolvere la contesa attraverso una serie di operazioni belliche improntate alla celerità degli spostamenti e della forza d’urto delle artiglierie: ebbene tutti sanno che la tragedia del I° conflitto mondiale fu la guerra di trincea, di posizione, con tutte le suggestioni che tale atteggiamento tattico dette alle forze in campo, non solo dal lato strettamente militare, ma politico ed economico.
Fedele al motto esistenzialistico che la guerra non è mai “magistra di niente”, nel 1939 Hitler, creata la Grande Germania, fatto un boccone della Polonia seguendo le teorie tradizionali dello stato maggiore tedesco, ai generali che si attendevano delle congratulazioni, domandò: “E ora?”. I generali cercarono di resistere, facendo notare al dittatore che la Francia non era la Polonia, che l’esercito francese era il più grande d’Europa. Alla fine si arresero. Tuttavia proposero di ricalcare fedelmente la strategia messa in atto nel 1915 e cioè il piano Schlieffen, in base al quale l’esercito tedesco aveva aggirato l’ala sinistra di quello francese. A Hitler la proposta non piacque. Nel 1915 il piano Schlieffen si era risolto in un fallimento: poi il fallimento sarebbe stato anche più completo, dato che i francesi sapevano cosa aspettarsi. Il Führer indicò sulla carta geografica le Ardenne e chiese: “su questo punto, possiamo sfondare?”. I generali risposero negativamente. Proseguiamo nella ricostruzione dello storico A. J. P. Taylor:
«Poi sopraggiunse il maltempo e per tutto l’inverno di attaccare la Francia non si parlò più. Il generale Manstein, capo di stato maggiore dell’armata attestata al centro, non gradiva di essere scavalcato dal suo collega che comandava l’ala settentrionale dello schieramento tedesco. Elaborò quindi un piano dettagliato per colpire i francesi nella zona centrale, ma lo stato maggiore respinse il piano: Manstein cadde in disgrazia e fu esiliato sul tranquillo fronte orientale. Durante il viaggio di trasferimento, il generale si fermò a Berlino e fece vedere il piano a Hitler, che ne fu entusiasta. Tra l’altro i piani strategici che ricalcavano quello di Schlieffen erano caduti nelle mani degli alleati, dopo che un aereo tedesco era stato costretto ad atterrare in Belgio. Così Hitler fece prevalere la sua volontà: Halder, capo di stato maggiore generale, dovette elaborare un nuovo piano secondo le indicazioni di Manstein. L’armata tedesca attestata sull’estrema destra dello schieramento, l’armata B, avrebbe invaso l’Olanda e il Belgio, inducendo così le forze alleate ad avanzare. L’armata del centro, l’armata A, avrebbe sfondato nelle Ardenne, prendendo gli alleati alle spalle».Quando autorizzò questa strategia Hitler non si prefiggeva alcuno scopo particolare, tranne quello di consolidare le proprie posizioni ! Hitler non si prefiggeva mai obiettivi precisi, in partenza. Agiva e poi si regolava secondo le circostanze. L’aveva detto già Napoleone: On advance et puis on voit.
Questa affermazione assume un diverso ed emblematico valore nella bocca di Napoleone il Grande ed in quella di Hitler: in un certo senso è un circolo che si chiude; dalla aggressiva strategia militare della fase ascendente della borghesia si giunge alla politica improntata alla “volontà” di potenza della borghesia ossessionata dall’accerchiamento e dalla potenzialità del moderno proletariato: lì rappresenta un segno di sicurezza di sé e di ottimistica fiducia nell’imponderabile e nella fortuna, qui un velleitario e per certi aspetti schizofrenico desiderio di avventura e di totalità.
Ma, quello che più ci importa, è la constatazione che, se non fosse per le forzature della “base economica generale dei popoli”, gli stati maggiori, le accademie militari ove la guerra si pensa e si organizza, non si sono dimostrati “razionalmente” in grado di inventare un gran che di nuovo in rapporto all’insieme delle condizioni complessive nelle quali si ritrovava il fenomeno guerra dalla prima alla seconda guerra mondiale.
Non solo, ma nell’immediato secondo dopoguerra mondiale, l’inferno imperialistico si è illuso di passare al paradiso del benessere e della pace perpetua, illudendosi forse di aggirare l’incubo della guerra attraverso il raggelamento delle spinte aggressive provenienti dalle forze uscite insoddisfatte o frustrate dal conflitto: non per niente si è parlato di guerra fredda; ma in realtà si è semplicemente convalidata la tesi marxista e rivoluzionaria che in caratteri di fuoco afferma l’inevitabilità della guerra finché resterà in piedi l’apparato produttivo e sociale sostenuto dal capitalismo imperialistico.
L’equazione secondo la quale chi “ha ferro ha scienza”, che è marxista non tanto perché sia possibile attribuirla a qualche cranio pensante, sia esso Marx o Lenin, ma perché è vera anche se pronunciata da Blanqui nell’epoca della grande rivoluzione francese, è puntualmente convalidata.
Gli Stati Uniti, potenza emergente già dagli inizi del XX secolo, hanno potuto affermare per via militare, e sulla base di un potenziale economico e produttivo di eccezionale e universale imponenza, la loro superiorità, mentre il mito della invincibilità della scienza e della tecnica tedesca crollava o veniva manu militari a trovarsi sotto il controllo dell’America delle canzonette e del boogie-woogie. Da questo momento la superiorità nella strategia militare passa ai pionieri della pax americana e dobbiamo dire che in quanto a “creatività” i nuovi padroni non si dimostreranno affatto geniali.
La preoccupazione dei generali americani fin dall’inizio della cosiddetta guerra fredda sarà quella di tenere a bada l’ex alleato russo e i pericoli di revanche degli ex nemici con l’arma “totale” atomica, dimostrativamente gettata sul capo dei già battuti giapponesi per intimidire ogni velleità di indipendenza o di iniziativa delle altre potenze.
Il compito di garantire la pax americana è stato attribuito alla minaccia di distruzione totale e alla teoria dullesiana del roll back, cioè alla tesi che qualsiasi tentativo di mettere in discussione la nuova spartizione del mondo avrebbe provocato la rappresaglia globale del nuovo vincitore. Come si vede la fantasia è poca e la praticabilità di essa molto più pensabile che attuabile, eppure in grado di annichilire qualsiasi fremito rivoluzionario immaginabilmente riposto nel campo opportunista e stalinista.
La realtà era che un universo intero era caduto manu militari e in virtù della sconfitta del proletariato mondiale già consumata negli anni ’20; gli Stati Uniti avevano un “impero invisibile” specie agli occhi dei ciechi volontari, garantito da accordi finanziari, operazioni commerciali e programmi di aiuto militare ed economico e infine con la creazione di regimi clientelari.
Ma la grande America nel mentre ostenta il massimo della sua potenza imperiale sotto l’egida dell’atomica deve ammettere che espansione all’estero non è semplicemente importante, ma vitale. Il Pentagono tiene una lista aggiornata di materie prime strategiche che sono vitali per la produzione di materiale di guerra. Oltre la metà delle varie materie prime di importanza strategica deve essere importata negli U.S.A. in misura che varia tra l’80% e il 100% del totale. Una commissione senatoriale concluse nel 1954 che se gli Stati Uniti non potessero avere più accesso a nazioni ricche di minerali «la sicurezza vitale di questa nazione sarebbe messa a repentaglio ad un grado di forte pericolosità».
Il passaggio dal cosiddetto deterrente all’antiguerriglia, dal new look alla “rappresaglia di massa” obbligava gli alti gradi a concentrare il potenziale bellico statunitense su una sola fascia dello spettro militare; la guerra totale nucleare ha potuto resistere solo un decennio, perché la pax americana doveva accorgersi che i pericoli alla sua super potenza non venivano di certo almeno sul momento dall’antagonista potenza russa, ma dalle lotte dei popoli neo-coloniali soggetti non solo allo strapotere americano, ma alla logica complessità dello spirito di Yalta, che relegava le spinte nazionali e l’insopportabilità del controllo e della pressione imperialistica alla via obbligata della guerriglia, saltati non da ora i collegamenti e la solidarietà attiva e rivoluzionaria del proletariato internazionale.
Il presidente Kennedy, questo “geniale” eroe della Nuova Frontiera, che un illuminista alla Russell non esitava a considerare più pericoloso di Hitler, doveva ben presto accorgersi che il potenziamento dell’arsenale nucleare statunitense era stato ottenuto a spese delle forze militari convenzionali del paese (specie della fanteria) e di conseguenza anche a spese della impossibilità di impegnarsi in conflitti situati all’estremità opposta dello spettro. Gli U.S.A. erano in una posizione di massima debolezza nel settore dei “conflitti a bassa intensità”, vale a dire guerra limitata, guerriglia e azioni di controllo poliziesco su piccola scala, da “gendarme del mondo” per intendersi.
La presunta grande svolta nella strategia militare americana nascerebbe da questa considerazione, che ancora una volta non fuoriesce dalla constatazione raggiunta dai governanti americani tra mille tragedie esistenziali, che un prevedibile lungo ciclo economico capitalistico garantito dall’arma atomica non li avrebbe però garantiti, nonostante la spartizione di Yalta, dalla necessità dei popoli coloniali lasciati a se stessi di reagire alla pressione e alla stretta dell’imperialismo mondiale.
Come scrisse il corrispondente del pentagono John Tompkins: «Dalla fine della seconda guerra mondiale e per tutti gli anni ’50, ogni crisi, ogni colpo di Stato, ogni sollevazione venivano visti come possibili stratagemmi per distogliere l’attenzione degli U.S.A. dalla terza guerra mondiale, quel grande duello tra Est e Ovest che si era sicuri che si stesse avvicinando. La bomba poteva essere inadatta a tali frangenti locali, ma avrebbe fatto vincere agli U.S.A. la terza guerra mondiale».
Nel corso dell’epoca imperialistica contrassegnata da due conflitti generali, tali cioè da coinvolgere il potenziale bellico ed economico di tutte le grandi potenze e i sistemi di alleanze, la società divisa in classi resta la chiave di lettura e la causa efficiente degli antagonismi tra Stati e nazioni; anche le potenze non militariste non avrebbero potuto impedire la corsa agli armamenti e strutturarsi secondo il sistema prussiano della Milizia Territoriale.
Il vantaggio delle potenze imperialistiche nei confronti delle medie e piccole potenze, oltre che sui piccoli Stati usciti “sovrani” dopo la cosiddetta “decolonizzazione”, sta appunto nella capacità di opporre un potenziale economico produttivo e militare in grado di intraprendere guerre locali e regionali senza impegnare il loro mastodontico sistema globale. I popoli soggetti costretti alla mobilitazione generale, ad una loro “guerra totale”, nel corso del tempo hanno dimostrato di produrre sotto sistemi di sub imperialismi regionali odiosi e opposti che impediscono ogni possibilità di solidarietà delle classi sfruttate e degli stessi popoli sfruttati. L’esempio del Viet Nam e della guerra contro la Cambogia ne sono un paradigma d’impressionante eloquenza.
In questo modo l’ipocrisia “accademica” e tecnica di far distinzione tra diverse forme di guerra dimostra che possono convivere nel tempo e nello spazio imperialistico tutte le forme di conflitto. Per intenderci, le bombe atomiche lanciate in Giappone, nella definizione classica, sono da catalogarsi come parti integranti della guerra convenzionale generale, nella guerra non convenzionale nucleare, o nella guerra non convenzionale regionale, seppur nucleare?
Ciò convalida ancora una volta la nostra classica tesi marxista e comunista che, seppur non sottovaluti la differenza tra le varie gradazioni della guerra, riconduce sinteticamente la ragione fondamentale di essa alla lotta delle classi, alla inevitabilità dello scontro tra i nullatenenti della terra ed i detentori degli strumenti di produzione, e dunque di scienza e di ferro, tutti sostanzialmente, secondo la vecchia e abusata formula, “guerrafondai”, producano essi cannoni e missili, o burro e miele.
Questa potente sintesi e memoria storica vive nella sua semplicità nell’istinto dei proletari e degli sfruttati soltanto in quanto è conservata nell’organo partito, capace di parlare il linguaggio diretto e immediato della classe, e nello stesso tempo di smontare una per una le mistificazioni del nemico. Oggi solo il partito di classe, nella babele delle voci e delle lingue, è in grado di ripetere l’appello di sempre: guerra alla guerra, guerra agli agenti della guerra.
Per il resto la conoscenza delle tecniche militari del nemico e la capacità di approntare tecniche utili e adatte alla guerra civile contro la borghesia ed i suoi manutengoli è strettamente connessa e subordinata alla ripresa della lotta delle classi a livello generale; l’organizzazione militare del proletariato non s’inventa in un giorno, non è una sezione del lavoro del partito che può sempre vivere al fianco con gli altri suoi compiti fondamentali.
Il partito di classe non ha abbandonato d’una virgola la sua nozione corretta di guerra e del modo di far leva sulle contraddizioni che scoppiano nel conflitto tra gli Stati e le nazioni: sarà proprio il personale mobilitato dalle nazioni borghesi a costituire il materiale esplosivo della rivolta alla guerra imperialistica: fu così per l’elefantiaco esercito russo, dovrà esserlo perché la rivoluzione si compia, per gli eserciti ben più sofisticati del terzo conflitto mondiale.
La "guerra di popolo" quanto più appare una formula ottimale per la borghesia nella sua pretesa di coinvolgere tutta la realtà sociale nella sua guerra, tanto dovrà essere e sarà il terreno esplosivo in cui le classi prenderanno ciascuna il suo posto di combattimento: questa è almeno la condizione senza la quale non si potrà parlare né di liberazione dei popoli oppressi, né di socialismo.
Dal campo militare automatizzato teorizzato da Westmoreland durante la guerra del Viet Nam alle figure più modeste di "guerra di popolo", magari autogestita e partigiana dei falsi paesi socialisti, il campo di battaglia generale in cui le classi antagonistiche si contendono la vittoria è segnato dalla tendenza all’esplosione.
L’illusione del più grande imperialismo mai apparso sulla faccia della terra, la potenza U.S.A., non ha saputo fornire come estrema strategia militare che un sistema altamente tecnologizzato chiuso, uscito sconfitto relativamente dalla mobilitazione totale d’un paese in via di sviluppo: ma la sua esistenza consiste nei rapporti sociali di produzione di forma capitalistica che hanno le loro radici nell’economia mondiale, di cui il campo automatizzato non è che l’iceberg armato.
Ancora una volta, al di là degli schematismi
illuministici-metafisici,
sta nelle condizioni generali della vita sociale, economica e
produttiva,
la matrice della guerra e il cordone ombelicale da tagliare per vincere
la guerra di classe.
«Lo Stato proletario, dotato dei caratteri manifesti di dittatura di classe, non conterrà la distinzione tra lo stadio esecutivo e legislativo del potere, che saranno esercitati dagli stessi organi, poiché tale distinzione è propria del regime che dissimula la dittatura di una classe e la protegge sotto una struttura esterna policlassista e polipartitista. “La Comune non fu una corporazione parlamentare, fu un organismo di lavoro” (Marx)» (Dittatura proletaria e partito di classe, 1951).
Contro questa nozione di Stato proletario, che il comunismo rivoluzionario rivendica per intero, si è sollevata l’ideologia borghese ed opportunista non solo nello scontro teorico, ma nella pratica storica, dallo schiacciamento della Comune di Parigi alla guerra civile, che vide le armate bianche e la reazione internazionale degli Stati borghesi contro il governo sovietico di Mosca.
Si è gridato al ritorno nudo e crudo allo Stato assolutistico di segno feudale, che non conosceva la distinzione borghese dei poteri e la balance of power secondo le classiche tesi di Montesquieu, ma nonostante il dogma della santissima trinità applicato al potere, la pratica storia di quasi due secoli di potere della borghesia ha costantemente oscillato tra una interpretazione della superiorità del legislativo sull’esecutivo e la necessità dell’affermazione dell’esecutivo nei momenti eccezionali, pena il deperimento del principio di classe. Ancora oggi il potere borghese protegge, dove è possibile, la sua dittatura di classe con la struttura esterna della democrazia formale e del “pluralismo” politico.
L’opportunismo militante predica la necessità della “ricomposizione del potere”, polemizza contro “i pezzi di Stato” che si pretende impazziti e incapaci di disciplinarsi alla logica dello Stato democratico e popolare, e, affermando la universalità della democrazia liberale e dei suoi istituti, anzi sostenendo la necessità della loro sopravvivenza perfino in regime socialista, di fatto contribuisce ad abbellire e mascherare meglio la dittatura sostanziale del regime borghese.
Sostenendo l’eternità dei valori democratici ed anzi la loro espansione nell’immagine di socialismo che propone, l’opportunismo dimostra di avere sempre respinto le lezioni dell’esperienza rivoluzionaria del proletariato, di privilegiare e riportare in auge proprio gli aspetti nefasti che impediscono la vittoria rivoluzionaria.
Trotski, ne Gli insegnamenti della comune di Parigi, facendo il parallelo tra la Comune e la rivoluzione russa, mostra la superiorità dell’organizzazione del partito e l’insufficienza del principio elettivo per dotare il proletariato di una direzione politica e militare capace di riportare la vittoria. «Il comitato centrale della guardia nazionale era di fatto un consiglio di delegati operai armati e di piccolo-borghesi. Un simile consiglio, eletto immediatamente dalle masse rivoluzionarie, può essere un brillante strumento d’azione, ma nello stesso tempo riflette tutti i lati deboli delle masse, più i lati deboli che i lati forti».
Dopo aver sottolineato che «nel momento stesso in cui la sua responsabilità era immensa (il governo era fuggito a Versailles), la Guardia Nazionale, democraticamente costituita, si dichiarò sciolta da ogni responsabilità» e invece di agire rivoluzionariamente «inventò le elezioni legali alla Comune», mostra come «questa passività e mancanza di decisione si appoggiarono all’occorrenza sul sacro principio della federazione e dell’autonomia», riflettendo il «lato incontestabilmente debole d’una frazione del proletariato francese di allora», cioè l’ostilità riguardo all’organizzazione centrale, eredità dell’idea piccolo-borghese di autonomia. È dunque partendo dai fatti che si dimostra la superiorità di una organizzazione «che si appoggi su un passato storico e capace di prevedere teoricamente la via dello sviluppo», una organizzazione che non sia «un apparecchio che usi le pratiche parlamentari, ma il proletariato organizzato e temprato dall’esperienza».
Così pure, passando dalla questione politica a quella militare, Trotski dice «per sbarazzarsi del comando controrivoluzionario la eleggibilità era il mezzo migliore, perché la maggior parte della guardia nazionale si componeva di operai e di piccolo-borghesi, ma la rivendicazione dell’eleggibilità non mirava a dotare l’armata di un buon comando, soltanto a sbarazzarsi dei comandanti al servizio della borghesia (...) Il comando eletto è nella maggior parte del tempo ormai debole sul piano tecnico. Dopo che l’armata si è sbarazzata del vecchio comando bisogna darle un comando rivoluzionario in modo da espletare il suo dovere. Ora questo compito non può essere assolto dal semplice meccanismo della eleggibilità. L’eleggibilità è un feticcio, non è una panacea universale, una potente direzione del partito è indispensabile».
La differenza di qualità della struttura esterna del potere statale proletario in rapporto allo Stato borghese nella sua forma classica è sostanziale; lo Stato borghese, coerente ad una ideologia individualistica che la finzione teorica estende nella stessa misura a tutti i cittadini, riflesso mentale della realtà dell’economia basata sulla proprietà privata, monopolio di una classe, non volle ammettere fra il suddito isolato e il centro statale legale altre organizzazioni intermedie se non le assemblee elettive costituzionali. Tollerò i clubs e i partiti politici, necessari nella fase insurrezionale, in forza dell’affermazione demagogica del libero pensiero e come puri raggruppamenti confessionali ed agenzie elettorali. In una seconda fase la realtà della repressione di classe costrinse lo Stato a tollerare le organizzazioni degli interessi economici, i sindacati operai, di cui diffidava come "uno Stato nello Stato" (la legge Le Chapelier del 1791 in Francia vietava le organizzazioni e le associazioni in nome della libertà individuale).
Infine, il sindacato dei padroni da una parte divenne una forma di solidarietà adottata dai capitalisti per i loro fini di classe e dall’altro lo Stato intraprese, sotto il pretesto di riconoscerli legalmente, l’assorbimento e la sterilizzazione dei sindacati operai, privandoli di ogni autonomia per impedirne la direzione ad opera del partito rivoluzionario.
Nello Stato proletario, in quanto sopravvivono datori di lavoro, o almeno aziende impersonali i cui operai sono sempre dei salariati pagati in denaro, i sindacati di lavoratori si manterranno per proteggere il livello di vita della classe lavoratrice, la loro azione essendo in questo parallela all’azione del partito e dello Stato. I sindacati delle categorie non operaie saranno invece proibiti. Infatti, sul terreno della distribuzione dei redditi con le classi non proletarie o semi proletarie, il trattamento dell’operaio potrebbe essere minacciato da considerazioni diverse dalle esigenze superiori della lotta generale rivoluzionaria contro il capitalismo internazionale.
Questa ultima possibilità, che sarà a lungo presente, giustifica il ruolo di secondo ordine del sindacato in rapporto al partito politico comunista, avanguardia rivoluzionaria internazionale, formante un tutto unitario con i partiti comunisti che lottano nei paesi ancora capitalisti e avente come tale la direzione dello Stato operaio.
Queste sono le linee fondamentali dello Stato sovietico contro le quali, in nome delle libertà borghesi e della democrazia operaia o proletaria, borghesi ed opportunismo, ancora oggi, sabotano ogni lotta reale per il potere proletario.
Da Kronstadt alla Polonia 1980 le correnti opportuniste, recalcitranti al potere centralizzato del partito di classe, hanno giustificato e giustificano forme di “partecipazione” o di “gestione” incompatibili con il potere sovietico.
In Terrorismo e Comunismo Trotski confuta i difensori della democrazia operaia contro la dittatura del partito Bolscevico:
«Ci si accusa di aver sostituito alla dittatura dei Soviet quella del partito. Ed allora si può affermare, senza rischiare di cadere in errore, che la dittatura dei Soviet non è stata possibile che grazie alla dittatura del Partito. Grazie alla chiarezza delle sue idee teoriche, grazie alla sua forte organizzazione rivoluzionaria, il partito ha assicurato ai Soviet la possibilità di trasformarsi, di informare i parlamenti operai che erano uno strumento di dominio dei lavoratori. In questa sostituzione del potere del partito al potere della classe operaia non c’è niente di casuale e in fondo non c’è alcuna sostituzione.
«I comunisti esprimono gli interessi fondamentali della classe operaia. È del tutto naturale che in un’epoca che mette questi interessi all’ordine del giorno in tutta la loro estensione i comunisti divengano i rappresentanti della classe operaia nella sua totalità.
«Ma chi vi garantisce, ci domandano i maligni, che è precisamente il vostro Partito ad esprimere le esigenze dello sviluppo storico? È sopprimendo e rigettando nell’ombra gli altri partiti che vi siete sbarazzati della rivalità politica, fonte di emulazione, è attraverso ciò che vi siete privati della possibilità di verificare la vostra linea di condotta! Questa considerazione è dettata da un’idea puramente liberale della marcia della rivoluzione. In un’epoca in cui tutti gli antagonismi si dichiarano apertamente, nella quale la lotta politica si trasforma rapidamente in guerra civile, il partito dirigente ha, per verificare la sua linea politica, ben altri materiali e criteri indipendentemente dalla tiratura possibile dei giornali (dei suoi avversari).
«In ogni caso, il nostro compito consiste non tanto nel valutare in ogni momento come una statistica l’importanza dei gruppi che rappresentano ogni tendenza, ma al contrario nell’assicurare la vittoria della tendenza della dittatura proletaria, tra i diversi attriti che si oppongono al buon funzionamento del suo meccanismo interno, un criterio sufficiente per verificare il valore dei nostri atti».
In termini di “pura teoria politica”, che sta tanto a cuore al formalismo borghese, ma che è insufficiente o comunque unilaterale criterio in rapporto alla natura del potere statale proletario, Trotski afferma a Brest-Litowsk: «Ogni Stato è fondato sulla forza». Questa affermazione, citatissima anche dai teorici borghesi per convalidare il valore del “realismo politico”, viene rimproverata alla teoria marxista che cadrebbe nella contraddizione tra il voler perseguire un regime sociale senza classi e la necessità del ricorso alla violenza per la sua realizzazione. Lo stesso M. Weber, celebrato come il Marx della borghesia, riconosce che «in realtà è giusto che sia così». Se ci fossero soltanto organismi sociali in cui fosse ignota la forza come mezzo, il concetto di Stato sarebbe scomparso e al suo posto sarebbe subentrato ciò che in questo senso particolare della parola potrebbe chiamarsi “anarchia”.
Di qui la distinzione tra il “monopolio della forza legittima”
e “il monopolio del potere ideologico”, che Weber attribuisce al gruppo
ierocratico distinto dal gruppo politico, cosa che è storicamente
accaduta
nella separazione tra Stato e Chiesa o meglio nella separazione dei
compiti
tra Stato e Chiesa.
Ora la natura del potere proletario è tale che rifiuta di ricalcare la giustificazione del suo monopolio in nome di nuove categorie transitorie più o meno camuffate, ma afferma apertamente, contro ogni deteriore machiavellismo, il suo potere dittatoriale e dispotico di violenza, di ideologia e di spessore politico. Altrimenti la sua giustificazione non farebbe che ricalcare le forme del potere borghese, con le sue interne e necessarie contraddizioni, con i suoi irrisolti e irresolubili conflitti.
«Lo Stato proletario non può essere animato che da un solo partito e non ha alcun senso che vada oltre la congiuntura concreta la condizione che esso organizzi nei suoi ranghi e riceva nelle “consultazioni popolari”, vecchia trappola borghese, l’appoggio di una maggioranza statistica. Fra le possibilità storiche c’è l’esistenza di partiti politici che sembrano composti di proletari, ma che subiscono l’influenza delle tradizioni controrivoluzionarie o dei capitalismi esterni. Non si può ridurre la soluzione di questo contrasto, il più pericoloso di tutti, a diritti formali e a consultazioni in seno ad una astratta “democrazia di classe”.
«Sarà anche questa una crisi da liquidare sul terreno del rapporto di forza. Non v’è gioco statistico che possa assicurare la buona soluzione rivoluzionaria; questa dipenderà unicamente dal grado di solidità e chiarezza del movimento rivoluzionario comunista nel mondo. Ai democratici ingenui di un secolo fa in occidente e di mezzo secolo fa nell’impero zarista, i marxisti ebbero ragione di contestare che i capitalisti ed i proprietari sono la minoranza e quindi il solo vero regime di maggioranza è quello dei lavoratori. Se la parola democrazia significa potere dei più, i democratici dovrebbero mettersi dalla nostra parte di classe. Ma la parola democrazia, sia in senso letterale (“potere del popolo”) che per lo sporco uso che sempre più se ne fa, significa “potere non appartenente ad una classe, ma a tutti”. Per questo motivo storico, come respingiamo con Lenin la “democrazia borghese” e la “democrazia in generale”, dobbiamo escludere politicamente e teoricamente la contraddizione nei termini di “democrazia di classe” e di “democrazia operaia”» (Dittaura proletaria e partito di classe, 1951).
Nell’esperienza storica del proletariato, comunque, lo Stato proletario non consiste in queste regole del dover essere, ma è stato una realtà provata e verificata. Dalla Comune di Parigi allo Stato sovietico, il marxismo rivoluzionario ha sempre rivendicato la tendenza storica alla dittatura proletaria, secondo la scoperta di Marx che indicava in essa lo sbocco inevitabile e necessario per la emancipazione della classe operaia.
La critica che Trotski porta all’esercizio della dittatura della Comune è rivolta agli errori e alle titubanze proprie delle preponderanti forze piccolo-borghesi in essa rappresentate, ma non certo alla sua esperienza di reale ricomposizione del potere, alla sua natura di organismo di lavoro contro il modello delle corporazioni parlamentari borghesi.
Così, ancora oggi, gli stessi detrattori e nemici dichiarati dello Stato dei Soviet del 1917 attaccano il principio dell’unità del potere e vedono in essa la vera caratteristica che oppone lo Stato proletario al criterio della separazione dei poteri.
«L’ideologia sovietica considera meramente formale la garanzia che la divisione dei poteri dovrebbe assicurare: afferma che si tratta di una pseudo garanzia vantaggiosa solo per la classe dominante in una società composta da classi antagonistiche, ne rileva l’inutilità nell’ambito dello Stato socialista; di conseguenza afferma che principio connaturale all’ordinamento socialista è quello dell’unità del potere, caratterizzato dalla molteplicità di organi esercitanti contemporaneamente la medesima funzione sovrana, nonché dalla ripartizione della misura del potere che corrisponde, nella sua efficacia, al grado o dimensione dell’organo che esercita il potere stesso» (Mortati).L’altra questione che provoca ancora dolorosi mal di testa ai nemici dichiarati dello Stato dei Soviet e agli opportunisti alla ricerca del cavillo giuridico è il “criterio della legalità”.
«Nello Stato dei Soviet il criterio della legalità non ha un valore assoluto superiore al fine rivoluzionario che lo Stato socialista persegue e difende: gli organi supremi del potere statale non sono quindi necessariamente soggetti al rispetto del principio di legalità il quale è semplicemente un principio strumentale ("un metodo d’azione") non una regola assoluta nello Stato socialista».Naturalmente la facilità con la quale i legulei della borghesia si strappano le vesti di fronte ad un concetto così fluido di legalità, non vede come le costituzioni rigide (come quella italiana) dell’occidente, dopo aver proclamato in norme generali i principi informatori, demandano agli organi dello Stato e alle leggi ordinarie (quelle sì dotate di forza) la disciplina concreta delle singole materie e attribuzioni, facendo largo uso del riferimento alla discrezionalità nell’applicazione di esse; mille miglia lontane comunque da una interpretazione omogenea e tali da non poter evitare conflitti di competenze e di giurisdizione.
Non c’è giurista più o meno gonfio di sé che non si lamenti giornalmente della crisi del diritto e della incertezza sempre più evidente dello Stato di diritto, che dovrebbe appunto qualificarsi per la osservanza rigida di precise disposizioni di legge, non soggetta all’arbitrio ed alla lettura critica del giudice o del potere esecutivo.
La prova che il criterio di “legalità” del potere dei Soviet fuoriesce dall’ottica borghese e dalla sua scienza del diritto naturale sta nell’affermazione costante della superiorità del fine rivoluzionario che lo Stato socialista persegue. Come già la costituzione borghese uscita dalla rivoluzione francese fu preceduta dalla dichiarazione dei diritti del cittadino, anche la costituzione sovietica del 1918 è preceduta dalle “dichiarazioni dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato”. Si vuole contrapporsi nettamente alle dichiarazioni dei diritti delle rivoluzioni liberali, è escluso che si sia dato vita ad una costituzione codificata e permanente: essa è infatti esclusa dal programma comunista; la convenienza di adottare regole scritte non ebbe nulla di intangibile e mantenne un carattere strumentale e transitorio, facendo a meno delle facezie sull’etica sociale e sul diritto naturale.
Naturalmente queste caratteristiche peculiari “del diritto statuale proletario” sono oggi come non mai sottoposte ad un severo giudizio da parte della “dottrina” borghese ed opportunistica, che porta a prova della loro negatività il fallimento della rivoluzione e il dispotismo staliniano, che sarebbe la sua espressione culminante.
Noi comunisti rivoluzionari respingiamo nettamente tale interpretazione, perché sosteniamo che la degenerazione dello Stato proletario non consiste nell’affossamento del concetto di legalità borghese e della sua presunta razionalità, ma nella vittoria complessiva delle forze storiche nemiche. Il diritto nella concezione marxista, applicata come è necessario anche allo Stato dei Soviet, nasce dopo. Ecco perché la nostra visione della questione esclude che possano essere i formalismi giuridici a “garantire” una realtà storica o un determinato assetto delle forze sociali in movimento.
La certezza del diritto rispecchia una fase storica di relativa stasi sociale o di assestamento di forze: allora è stato possibile alla stessa scienza del diritto della borghesia proteggere e dissimulare la propria dittatura di classe con una struttura esterna di tipo giuridico fondata sulla tripartizione dei poteri e sul concetto rigido di legalità.
Trotski e l’opposizione non cede a Stalin per mancanza di democrazia e di rispetto della “legalità socialista” come lo stesso credette. Una tribuna per la discussione garantita da Lenin non era un diritto formalizzato, ma una necessità ed un merito del modo complessivo di vita del partito bolscevico. Con ciò, senza pretendere col senno del poi di fare un comodo riferimento al centralismo organico rivendicato dalla Sinistra Comunista, vogliamo dire che gli statuti hanno avuto un significato ed un valore per disciplinare la vita interna del Partito, ma neghiamo che siano stati essi a “garantire” la vittoria d’Ottobre.
La stessa rivoluzione francese, nonostante la dichiarazione dei diritti del cittadino e la promulgazione della costituzione, passò per la via obbligata della sospensione di tutte le garanzie dei diritti individuali ed instaurò il Terrore: i soloni del senno del poi non possono pretendere di identificare la borghesia con l’idea che se ne sono fatta idealizzandola.
La Sinistra Comunista, di fronte alla degenerazione dello Stato sovietico e delle regole di convivenza all’interno del partito mondiale della rivoluzione, non si illuse mai di ripristinare la normalità e di garantirsi una tribuna di discussione rivendicando più democrazia, legalità e rispetto dello statuto; svolse la sua opera entrando, proprio contro le eccezioni di “costituzionalità interna”, nel merito delle questioni aperte, proponendo il suo giudizio e le sue tesi distinte sullo stato delle forze antagoniste, borghesi e proletarie a livello generale, difendendo il programma comunista e i cardini di esso, che da sempre non prevedevano la teoria del socialismo in un solo paese.
Per questo, contro tutte le falsificazioni, rivendichiamo la natura genuinamente proletaria dello Stato uscito dalla rivoluzione d’Ottobre, respingiamo l’idea che la degenerazione di esso nello stalinismo altro non sia che lo sviluppo inevitabile della sua “natura perversa”, sosteniamo anzi che lo Stato cosiddetto "operaio" sotto Stalin è il cambiamento di segno più netto che si possa immaginare tra compiti e relazioni tra Partito comunista e Stato.
Per dire questo non abbiamo atteso 50 anni di ponzature, ma l’abbiamo detto in faccia a Josif Vissarionovič, abile nel maneggio degli articoli dello statuto più, eccome, del sottile Palmiro, che nel 1926 s’ingegnò, e non poco, a diplomatizzare l’intervento della Sinistra, nel tentativo di assecondare il dittatore che non voleva si entrasse nel merito del partito russo e dello Stato russo, sua personale riserva di caccia.
Se fosse possibile, vorremmo dire, contro tutti, che troppa democrazia e l’abuso della interpretazione dello statuto permisero l’ascesa del Segretario Generale; i suoi appelli alla maggioranza del partito erano per lui la prova della sua giusta linea.
Pur non avendo mai preteso che lo Stato proletario fosse privo di strutture burocratiche, non abbiamo mai scambiato l’elefantiasi burocratica dello Stato post-sovietico con un difetto di democrazia operaia, ma abbiamo identificato in essa il potere reale, e non semplicemente un simbolico pericolo dei nep-men, della nuova borghesia russa, cioè di una ben precisa classe sociale. E di che cosa veniva e viene ancora oggi accusata questa struttura dello Stato russo se non di rigidezza e di crudele impersonalità, oltre che di arbitrio e di ostentazione di forza? Degli stessi pregi e difetti, come si vede, che si attribuiscono da sempre agli apparati burocratici, senza curarsi di approfondire a che cosa corrispondono sul terreno politico dei rapporti reali delle forze in campo.
La razionalità dello Stato borghese è intesa dal citato Weber come «l’esercizio del potere legale in conformità a norme generali astratte, che da un lato, da parte del funzionario, escludono l’azione arbitraria e come tale irrazionale, dall’altro, da parte del cittadino, permettono la prevedibilità dell’azione, quindi la sua calcolabilità in base al nesso mezzi-fini, che caratterizza appunto ogni azione razionale secondo lo scopo».
Così lo Stato degenerato di Stalin accoppia in un solo momento gli aspetti negativi dello Stato borghese, cioè l’arbitrio tipico dei momenti d’eccezione, e la prevedibilità nota, e come nota, specialmente agli ex-compagni bolscevichi, che avrebbe comportato la fine di ogni anche fisica possibilità di agire da comunisti.
Il secondo elemento caratterizzante la “costituzione” dello Stato dei Soviet del 1918 è rappresentato dal regime elettorale, regolato in base ad un principio che vuol essere l’analogo opposto del corrispondente principio dello Stato liberale: afferma infatti il cosiddetto censo del lavoro, cioè un criterio di discriminazione quanto al diritto di voto, che vuole contrapporsi a quel criterio censitario basato sulla cultura e sul possesso economico, tipicamente liberale e fatto valere nella costituzione francese nell’anno I (1791).
In base a questo principio sono esclusi dal diritto di voto tutti i membri della classe “borghese”, (commercianti, proprietari terrieri, nobili redditieri) nonché tutti gli antichi funzionari e gli ecclesiastici (in quanto strettamente legati all’organizzazione zarista, in applicazione del principio cesaro-papista allora dominante).
Altra caratteristica di tale regime di suffragio è il voto diseguale e plurimo, in considerazione della preminenza degli operai sui contadini, in ragione di 5 a 1. Tale disuguaglianza di voto, di tipo indiretto, comporta due gradi di scrutinio per la città, quattro per la campagna. Ultima caratteristica la pubblicità del voto.
Niente dunque di questi criteri deve spartire con la “democrazia” operaia o popolare. Noi rivendichiamo la “Costituzione” del 1918 come tipicamente sovietica e la contrapponiamo a quella del 1936, che reintroduce le classiche formule delle forme elettorali borghesi, eliminando il criterio discriminatorio del censo del lavoro, sostituendo il principio della elezione diretta a quello dell’elezione indiretta, sancendo all’art. 134 il principio del suffragio universale, eguale, diretto e a scrutinio segreto.
L’elezione avviene sulla base di una lista unica presentata dal partito “comunista” e dal cosiddetto gruppo dei senza partito (candidature isolate possono essere presentate, in base all’art. 141 della costituzione, anche dai sindacati, cooperative, organizzazioni giovanili, società culturali).
Gli stessi costituzionalisti occidentali definiscono la nuova costituzione del 1936 come «in niente differente dalle contemporanee costituzioni occidentali, presentando anzi un accentuato carattere di democraticità» (Mortati).
Dunque, c’è da stare certi, niente a che vedere con lo Stato sovietico, tenuto conto che essa elimina il congresso dei Soviet nella sostanza, mentre l’aggiornamento del 1956 lo elimina anche formalmente, in nome del suffragio universale. Ormai il Soviet supremo dell’URSS composto da due camere, il Soviet dell’Unione e il Soviet delle Nazionalità, eletto in ragione di un deputato ogni 300.000 abitanti, non è che un organo di rappresentanza del “popolo”.
Ma poiché non abbiamo intenzione di svolgere un trattato costituzionale, essendo il nostro compito di partito quello di riconoscere nell’esperienza complessiva e capitale della Rivoluzione d’Ottobre le basi irrinunciabili e valide in ogni tempo e spazio per l’esercizio corretto della dittatura proletaria (non è sufficiente riconoscere formalmente la sua necessità, è necessario saperla esercitare correttamente), quello che definisce la degenerazione dello Stato sovietico in Stato russo, con tutte le inevitabili ripercussioni nell’organizzazione mondiale del proletariato, è il rovesciamento dei rapporti che si stabiliscono tra Partito e Stato.
Considerando la composizione sociale del partito russo Trotski notava:
«Il proletariato realizza la sua dittatura attraverso lo Stato sovietico. Il partito comunista è il partito dirigente del proletariato e, per conseguenza, del suo Stato. La questione principale sta nel realizzare questo potere nell’azione senza fonderlo nell’apparato burocratico dello Stato (...) I comunisti si trovano raggruppati in maniera diversa secondo che essi sono nel partito o nell’apparato dello Stato. In quest’ultimo essi sono disposti gerarchicamente gli uni nei rapporti degli altri e dei senza partito. Nel partito essi sono eguali in ciò che concerne la determinazione dei compiti e dei metodi di lavoro fondamentali».Naturalmente questa eguaglianza va intesa per la Sinistra Comunista come non impedimento a ciascun militante di dare il contributo, nell’ambito del programma comunista, secondo le sue forze, le sue capacità.
D’altro canto lo stesso Trotski precisa:
«Lo strumento storico più importante per il compimento dei nostri compiti è il partito. Evidentemente il partito non può sradicarsi dalle condizioni sociali e culturali del paese. Ma, come organizzazione volontaria dell’avanguardia, degli elementi migliori, i più attivi, più coscienti della classe operaia, esso può ben più dell’apparato dello Stato preservarsi dai pericoli del burocratismo».Ma sfugge alla critica di Trotski che le ragioni che comportano l’infiltrazione della pratica burocratica giornaliera dello Stato sovietico nel partito non sono di tipo formale; il rovesciamento dei ruoli è l’espressione materiale del potere della classe borghese e della sconfitta del partito, il cui ruolo dirigente in senso rivoluzionario comunista si adegua alle necessità dello Stato borghese.
È evidente per la Sinistra che la direzione esercitata dal partito cede il posto all’amministrazione degli organi esecutivi (comitato, ufficio, segretario). In questa concezione della direzione la superiorità del partito, la sua esperienza collettiva passa in secondo piano.
L’eresia della pretesa “edificazione del socialismo in un solo paese” comporta il primato dell’amministrazione sulla direzione, sulla visione d’insieme dei rapporti generali tra le classi, che non sono puramente russi, ma internazionali. La superiorità del partito, non confuso con l’organizzazione dello Stato, fosse anche proletario, il partito come organizzazione di combattimento, sarà necessario finché esisteranno nel mondo resti di capitalismo. Potrà, inoltre, aver sempre il compito di depositario e propulsore della dottrina sociale, della visione generale dello sviluppo dei rapporti tra la società umana e la natura materiale.
Nell’edificazione del "socialismo in un solo paese" la "burocratizzazione" del partito, cioè la sua “divisione in compartimenti stagno”, non è l’adeguamento ai compiti amministrativi che rispecchiano la divisione del lavoro: la compenetrazione e la fusione di organizzazioni non escludono il permanere della capacità del partito di vedere nell’insieme. Ma quest’insieme non si eleva al di là degli interessi precipui della nazione russa. Il “socialismo” è ormai identificato con i destini dello Stato russo, ed allora la burocratizzazione non è più un’anomalia formale, ma un cambiamento profondo di sostanza.
Le lezioni dell’esperienza e della vita dello Stato sovietico dopo l’Ottobre ci hanno permesso di codificare, proprio sulla base della degenerazione, la futura carta d’identità della dittatura proletaria: la dittatura, preconizzata dal marxismo, non temerà di apparire la dittatura di uomini o gruppi di uomini che abbiano assunto il controllo governativo e si sostituiscano alla classe proletaria; proclamerà apertamente di essere necessaria; che l’unanimità della sua accettazione è impossibile; che la maggioranza dei suffragi, se fosse seriamente constatabile, non sarebbe una condizione in mancanza della quale la dittatura avrebbe l’ingenuità di abdicare.
Alla Rivoluzione occorre la Dittatura, e sarebbe ridicolo
subordinarla
al 100%, o al 51%. Dove si esibiscono queste cifre, la rivoluzione è
stata
tradita. La costituzione del 1936 con il suo suffragio universale e la
sua base democratica ne è un esempio.
Mentre le classi dominanti e i reggicoda opportunisti celebrano i loro saturnali rintronando a tutto volume le peggiori superstizioni di questa preistoria, dell’individualismo liberista, del progresso continuo e della solidarietà fra le classi, benché le classi oppresse ancora soffrano totale sottomissione alle consegne pacifiste dei partiti operai borghesi, la riproduzione del capitale snoda le sue intime catastrofiche leggi, quelle di sempre da quando si affermò come modo di produzione dominante, insensibile alle opinioni, le idee, la volontà, l’onestà o la corruzione di chiunque.
Per la terza volta nell’ultimo decennio la recessione produttiva sta colpendo il capitalismo mondiale confermandolo inabissato nella fase stagnante del suo storico ciclo semisecolare, periodo di convulsioni, crisi e distruzioni.
La dialettica storica del marxismo rivoluzionario svela nel grandeggiare mondiale delle produzioni, del mercato e della finanza la decadenza esplosiva del dirompente e instabile modo di produzione capitalistico.
L’accentuazione dei contrasti sociali di un’umanità sfruttata in
crescente immiserimento e minacciosamente sempre più numerosa, schiavi
moderni che il capitale sempre più difficilmente può mantenere,
condanna
la irrazionalità della produzione aziendale e dello scambio mercantile.
Pure se ancora troppo recente è nelle metropoli imperialistiche
l’effetto
dell’oppio consumistico del benessere da Stato-riviera sul proletariato
industriale più evoluto perché questo rintracci la sua propria essenza
di classe nella scienza, nel programma rivoluzionario e
nell’organizzazione
di guerra sociale del partito comunista, è dall’odierna crisi
confermato
che in quest’ultimo quinto del secolo il capitalismo mondiale darà
ampia
estensione all’esercito dei propri becchini, dileguando le condizioni
di illusione e mistificazione dei reali rapporti fra le classi.
La ciclica crisi dell’accumulazione
Anche stavolta è stato il capitale statunitense a precedere di quattro-sei mesi la generalizzazione della crisi a scala mondiale: il fondo della recessione sembra si sia verificato nel trimestre maggio-luglio con una contrazione della produzione industriale rispetto all’anno precedente dell’8%, meno profonda del minimo nel maggio ’75 di -11%, ma più accentuata del minimo del novembre ’70 di –6% e del minimo del luglio ’67 di 0%. In crescendo la durata dei cicli: in mesi 40, 54, 62, tanto che l’ultimo è stato il più lungo periodo di ininterrotta espansione dell’economia americana dopo le oscillazioni degli anni trenta. Ma molto grave è la crisi in particolari settori produttivi più attaccati dalla concorrenza estera: l’auto e la siderurgia. Nell’acciaio la recessione è stata decisamente la peggiore del dopoguerra manifestando nettamente i tratti caratteristici della sovrapproduzione; la produzione è infatti crollata dal luglio ’79 al luglio ’80 del 39%, ma prendendo a confronto la produzione del massimo storico americano, risalente addirittura al lontano 1973 al culmine della fase espansiva imperialistica durata tutto il dopoguerra, la contrazione è dell’enorme 45%, anche maggiore del 32% del luglio ’75. Il disinvestimento nel settore è quindi quasi della metà. Le industrie dell’auto hanno subito perdite definite colossali dagli stessi commentatori americani. Il fatto però che non si sia arrivati alla sospensione dei pagamenti e del credito e alle dichiarazioni di fallimento, tipo ’29, e gli operai siano sì stati allontanati dalla produzione a centinaia di migliaia, ma il regime possa mantenerli con una buona assistenza inattivi, dimostra che l’apparato economico nazionale non ha esaurito nel suo insieme i margini per ripartire perdite settoriali attraverso la solidarietà capitalistica nazionale.
Non siamo in presenza, insomma, di una vera e propria crisi economica generalizzata di sovrapproduzione di capitale, il sistema creditizio ha continuato a funzionare, il commercio dimostra solo segni di stanchezza, ma piuttosto all’interno che all’estero. Per ora anche questa recessione non provocherà eccessivi traumi alla società americana e, specie nei settori più in crisi, permetterà un radicale rinnovamento degli impianti, riduzione di personale ed aumento della produttività del lavoro. Nonostante la fase storicamente discendente sul teatro mondiale del capitalismo statunitense rispetto ai più giovani industrialismi, la guerra commerciale degli Stati Uniti sul mercato imperialista è tutt’altro che definitivamente persa, in particolare nei confronti dei concorrenti europei: nel campo dell’acciaio, per esempio, i costi americani sono sì superiori a quelli giapponesi, ma sempre inferiori a quelli inglesi.
A spingere in avanti le merci americane nel mondo è e sarà il maggiore sfruttamento della classe operaia, diretta e succube della politica imperialistica della propria borghesia: i salari reali medi orari nell’industria, secondo i dati borghesi, sono attualmente diminuiti già del 7% dal massimo del 1977, tornando ai valori del 1969; intanto, in nome della solidarietà patriottica, il sindacato dei lavoratori dell’auto UAW accetta la revisione al ribasso del contratto prima della sua scadenza. La disoccupazione è alta, 7,6%, ma nettamente minore del 9,1%, corrispondente a più di dieci milioni di disoccupati, del 1975.
La crisi USA, fin dal 1967, marcia di pari passo con quella inglese, anche quest’ultima già profondissima a metà dell’anno appena trascorso: molto forti sono infatti i legami monetari e finanziari fra i due paesi anglosassoni. Ad ottobre la produzione industriale inglese crollava a -10% rispetto all’anno prima. Drammatica la cifra dei disoccupati, aumentati dall’8,4% in novembre al 9,1% in dicembre, in numero 2 milioni e 200 mila; è il massimo, sia in assoluto sia in percentuale, verificatosi dalla crisi degli anni ‘30.
Anche per la Gran Bretagna si rileva, nonostante la gravità della situazione attuale per il proletariato inglese, che nel 1933 la percentuale dei disoccupati fu più del doppio dell’attuale, quasi un quinto della forza lavoro. Aggiungiamo però che, mentre l’economia americana da luglio in poi ha manifestato segni di ripresa, anche se contraddittori e incerti, la crisi inglese ad oggi sembra tutt’altro che arrivata al fondo, anche grazie alla politica governativa non favorevole agli interessi del capitale industriale.
Sfasati in ritardo stanno affondando nella crisi gli altri capitalismi, europei e giapponese: fra i peggio messi il francese, con contrazione del 6% a settembre della produzione industriale e con la sua massima quota di disoccupati di tutto il dopoguerra.
I capitalismi d’oriente, d’Europa e Russia, continuano ad accompagnarsi al capitalismo mondiale nella sua fase depressa, smentendo, se ce ne fosse ancora bisogno, ogni originalità dell’economia e della società d’oltre cortina rispetto al dichiarato capitalismo occidentale: né proprietà statale dei mezzi di produzione, né pianificazione centralizzata (di fatto solo formale) possono per nulla domare le incoercibili perturbazioni del tessuto mercantile e capitalistico. Mentre i tassi globali medi di tutte le produzioni denotano una inesorabile tendenza al rallentamento, tipica di ogni capitalismo, ma più accentuata nell’ultimo decennio di crisi mondiale, i valori delle produzioni specifiche per la prima volta nella storia delle statistiche ufficiali russe indicano brusche oscillazioni e anche regressi come nel caso della industria dell’acciaio.
La crisi sociale, come il capitalismo, sarà fenomeno unico mondiale;
è l’opportunismo che cerca di rinchiudere il proletariato all’interno
della soluzione nazionale, locale, aziendale, fatto perfino gettito del
richiamo propagandistico al falso socialismo di marca moscovita,
pechinese
o peggio.
Grandi manovre della guerra commerciale
Se nel complesso nel 1980 l’accumulazione ha proceduto, per la solo parziale sincronizzazione delle crisi nazionali, il commercio estero ha segnato un ritmo di crescita molto minore rispetto a quello delle produzioni. Si è ripetuta, e maggiore dimensione assumerà il fenomeno nell’anno in corso, la regola che in tempo di crisi è il commercio a segnare le manifestazioni prime e più evidenti della recessione, tanto che apparentemente la sovrapproduzione appare fatto proveniente dalla distribuzione invece che dalla essenza della produzione capitalistica. Nel 1975, mentre la produzione si contraeva mediamente dell’1%, il commercio mondiale regrediva del 3%.
Protagonista nel 1980 è stato lo scontro commerciale triangolare: Stati Uniti – Europa occidentale – Giappone. Nel corso dell’anno si è assistito ad una modificazione dei rapporti di concorrenza fra i tre gruppi. Gli Stati Uniti arrivano alla fine del 1980 dimostrando capacità di recupero sulla bilancia commerciale, in parte sfruttando la sfasatura della crisi nei paesi occidentali e compensando il contrarsi del mercato interno con accresciute esportazioni. Nei confronti della CEE, vedi il caso delle fibre, l’esportazione americana ha potuto contare sulla divisione politica dell’Europa. Ma il principale fattore di forza del capitalismo americano è stata la disponibilità di materie prime e di eccedenze alimentari che rende la propria economia complementare con quella del concorrente giapponese. I tipici squilibri del commercio del Giappone ne fanno un necessario concorrente di paesi europei, ugualmente fondati sull’industria di trasformazione, mentre si rende possibile un interscambio con gli USA che infatti nel 1980 hanno esportato in Giappone per un terzo materie prime e per un quinto prodotti alimentari. L’Europa invece può esportare proprio quelle merci che in Giappone sono meno concorrenziali e infatti, nel 1980, hanno perso terreno su quel mercato. In conclusione si è assistito ad un diminuito protezionismo del mercato USA nei confronti delle merci provenienti dal Giappone e di accentuate difficoltà frapposte contro le merci CEE.
Le cifre della sconfitta europea nei confronti del Giappone e degli Stati Uniti sono catastrofiche: il deficit commerciale con gli USA è aumentato dai primi nove mesi del 1979 allo stesso periodo del 1980 da 5,5 a 13,7 miliardi di dollari; il deficit commerciale con il Giappone ha avuto dal ’75 questa progressione (in miliardi di dollari) 2,3 -3,6 -4,5 -5,0 -5,1 per arrivare solo nei primi 10 mesi di quest’anno al record di 7,1. Nel solo mese di luglio le importazioni dal Giappone sono aumentate rispetto all’anno precedente del 43%, contro un aumento delle esportazioni verso quel paese del 2%. Le reazioni europee per contrastare questa vera e propria invasione di merci a basso prezzo, che fanno il viaggio inverso a quello percorso dalle merci prodotte dal nascente imperialismo inglese, sono state sul piano politico e comunitario del tutto inadeguate, dimostrando ancora una volta la debolezza diplomatica della comunità cui si sostituiscono le concorrenti iniziative dei singoli Stati. Del tutto a vuoto anche il pellegrinaggio a Tokyo degli industriali dell’auto europei, gentilmente invitati a sottostare alle leggi sublimi del libero mercato, come sostanzialmente fallito l’accordo europeo per la limitazione delle produzioni di acciaio, sabotato con successo dagli industriali della Repubblica federale.
La Germania infatti, essendo il paese industrialmente più solido, tiene posizioni contrarie al protezionismo nonostante il passivo che quest’anno ha gravato la sua bilancia commerciale per il rincaro del petrolio. Stretto dal problema di sempre degli sbocchi commerciali, già esasperato dall’Inghilterra, oggi dagli USA, il capitalismo tedesco cerca sfogo verso est: in un anno l’interscambio fra le due Germanie è cresciuto del 34%; il commercio con la Russia è il maggiore di tutto l’occidente ammontando a 7,5 miliardi di dollari, davanti ai 4,5 degli USA e ai 4,4 del Giappone; questo è cresciuto di otto volte in dieci anni mentre l’insieme del commercio estero tedesco è cresciuto di 3 volte.
Altro terreno che l’imperialismo rinato tedesco tende a conquistare
è quello dei mercati latino-americani, per le sue merci e per i suoi
capitali;
ma nel sub continente si trova in diretta concorrenza con il capitale
giapponese
il quale ugualmente cerca investimenti anche al di fuori della sua
tradizionale
zona di caccia del sud-est asiatico. La contesa in Sud-America è appena
alle prime ficche ed è evidente che elemento risolutore dello scontro
sarà l’atteggiamento assunto dalla potenza, enorme nella zona,
dell’imperialismo
statunitense che potrà giocare a favore dell’uno o dell’altro dei
contendenti o, se avrà la forza di affrontarli uniti, contro entrambi.
L’ingombrante eccedenza di capitale mondiale
I commentatori borghesi hanno rilevato che il 1980, come già il precedente 1974, è stato l’anno in cui i movimenti speculativi di capitale, gli inspiegabili andamenti irregolari dei prezzi e delle quotazioni dei titoli hanno assunto dimensioni molto superiori alla normalità capitalistica. Che in periodo di crisi si accentuino, fino ad esasperarsi, i movimenti finanziari e la caccia frenetica dei migliori investimenti, anche se privi di ogni corrispondenza con una reale produzione di plusvalore, è fatto confermato dall’esperienza di tutte le crisi, anche settoriali e del solo commercio, della storia del capitalismo. La crisi di sovrapproduzione è prima di tutto sovrapproduzione di capitale, impossibilità di allargare la massa della produzione materiale per riutilizzare come capitale le quantità crescenti di profitto che una immiserita umanità è interdetta dal consumare. Enormi masse monetarie si raccolgono nelle mani delle banche e dei privati che si gettano alla ricerca di un interesse che, per quanto alto in tempo di crisi, tende a non compensare i rischi crescenti del prestito. Esempio gigantesco di questo fenomeno è quello del cosiddetto riciclaggio dei petrodollari: l’eccedente dei conti correnti dei paesi esportatori di petrolio, annullato per la stabilità del prezzo nel ’78, torna a crescere nei due anni successivi con l’aumento del prezzo e più ancora nell’anno in corso a seguito degli ultimi aggiustamenti (questo nonostante la riduzione della domanda, oggi al minimo dal 1976 e contrattasi dell’11% nei primi otto mesi dell’anno. Comunque il prezzo del petrolio resta allineato a quello corrente dell’oro).
Mentre i paesi occidentali in buona parte riescono a equilibrare le loro bilance dei pagamenti nei confronti dei paesi esportatori di petrolio con inverse esportazioni di manufatti, costruzioni di impianti, infrastrutture, ecc., i paesi poveri schiacciati dalla rapina imperialistica si trovano in una situazione debitoria sempre più grave: il deficit corrente di questi paesi è cresciuto l’anno scorso a 60 miliardi di dollari mentre l’indebitamento all’estero arriva a 500 miliardi. Queste masse monetarie enormi trovano crescenti difficoltà a ritrasformarsi in capitale: la soluzione in astratto razionale di un investimento da parte dei paesi produttori di petrolio nei paesi poveri contrasta con gli insufficienti profitti e gli altissimi rischi di tali investimenti in paesi super indebitati e politicamente in balia dei capricci delle centrali imperialistiche.
Avviene quindi che i surplus petroliferi vengano investiti sul cosiddetto euromercato finanziario, come dire banche che hanno sede in Europa e trattano in monete non nazionali, dollari, marchi, yen. Queste banche hanno infatti il grande pregio per i capitalisti di essere meno vincolate dalle regolamentazioni nazionali del credito, messe a punto sull’onda della grande crisi ’29-33. Ma l’internazionalismo del capitale evita qualsiasi impaccio e bardatura legale: l’unica legge è il tasso del profitto. Gli esportatori di petrolio divenuti grandi capitalisti hanno la forza politica di esigere dalle banche occidentali alti interessi e termini di vincolo dei loro prestiti molto brevi, sì da rapidamente poter inseguire le oscillazioni degli interessi e dell’inflazione, differenziati nei diversi paesi e nel tempo.
Le banche occidentali di fronte al declino, storico e congiunturale, della domanda interna di capitali industriali sono costrette a rinnovare i prestiti ai paesi poveri sia per finanziarsi le proprie esportazioni, sia perché questi possano ripagare i debiti sui prestiti precedenti (il creditore deve mantenere in vita il debitore); si tratta ovviamente in questo caso di concessioni di credito a lunga scadenza e di incerto ritorno per cui, per il contrasto fra tipo della raccolta e tipo della collocazione dei capitali, ne segue una miscela esplosiva che solo il regime di rappezzata pace imperialistica riesce a stento a tenere in piedi.
Altro fenomeno che ha causato forti movimenti di capitali è stato l’eccezionale innalzamento del tasso di interesse negli Stati Uniti con andamento alterno: dal minimo di 4,75% nel 1972 al 12% nell’anno di crisi 1974 per ridiscendere al 6% nel ’76 e risalire nell’aprile scorso al record del 20%, ridiscendere al 10,75 nell’agosto e puntare al 21,5% nel dicembre. Il tasso di interesse cresce in proporzione all’insicurezza dell’investimento di capitale: aumenta in tempo di crisi economica come nel ’74 o di crisi politica, come in coincidenza con la minacciata invasione russa in Polonia degli scorsi mesi. Capitali americani investiti in Europa nel corso dell’anno facevano ritorno in patria mentre capitali tedeschi si trasferivano in gran quantità oltre Atlantico: si vendono marchi per acquistare dollari, in quantità tale che la quotazione del marco, la più forte della comunità europea, diventa la più debole, al limite inferiore della banda di oscillazione consentita dall’accordo monetario europeo (che per ora regge), mentre il franco francese si trova al massimo superiore. Il dollaro si rafforza al di sopra di qualsiasi previsione raggiungendo il cambio con due marchi e rafforzandosi molto anche sulla lira. Il marco tedesco risulta quindi, per motivi esclusivamente finanziari, molto svalutato nei confronti per esempio della sterlina, specialmente tenendo conto della grande differenza fra l’inflazione nei due paesi.
Anche i privati, i cosiddetti risparmiatori, si sono fatti prendere
dalla frenesia dando nuova vitalità alle borse titoli e in genere
riducendo
ulteriormente i depositi bancari. Negli Stati Uniti, come ovunque, il
mercato
monetario extra bancario è grandemente cresciuto, permettendo i fondi
di investimento collettivi l’accesso al gioco finanziario anche dei
piccoli:
questa raccolta che nel 1974 raggiungeva i 49 miliardi di dollari nel
1979
arrivava a 115. L’effetto è un ulteriore indebolimento del sistema
bancario
e un aumento dell’anarchia, emotività, sregolatezza del meccanismo
della
circolazione del capitale monetario, del resto sue caratteristiche
ineliminabili.
Vanno quindi riproducendosi le premesse, sia a grandissima sia a minima
scala, del generale tracollo del credito tipico di tutti i momenti di
crisi
economica, che noi comunisti sappiamo certa e confidiamo sveli, col
fallire
di ogni apparato di regolamentazione e addomesticamento del mostro
imperialista,
la goffaggine e la paralisi anche difensiva di un fradicio ordine
sociale
di fronte al rinnovatore assalto distruttivo proletario.
[È qui]
La Relazione della frazione comunista al Congresso di Livorno
[È qui]