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La nostra Rivista si presenta ai lettori mentre infuria un nuovo scontro nell’iperuranio delle “idee„, il cui rumore di sciabole scende fino alla piatta, tragica banalità del quotidiano vivere nella bolgia del capitalismo trionfante, questa sì reale e terribile. Anche se somigliante alla classica battaglia di rane e topi, tutta giocata sul palcoscenico dei grandi nomi, dei “big„ del mondo a convegno, merita, per rimanere nel campo della teoria, che la presentazione del lavoro oscuro e tenace del Partito si apra con un “omaggio„ a queste “nuove„ frontiere della teoria del mondo, alla maniera irridente e sprezzante del Comunismo verso le mistificazioni della borghesia e del finto antagonismo piccolo borghese.
Viene ripetuto e martellato fino all’esaurimento che ora il mondo si presenta nuovo e diverso, e le grandi sfide che il Novecento ha posto sulla scena del mondo sono completamente cambiate, vertono su altri temi e si decidono su altri tavoli. Oggi i veri problemi di fondo da risolvere sono la ridistribuzione dell’immane ricchezza prodotta dalle economie nei paesi sviluppati, la lotta a fame e miseria che attanagliano due terzi degli uomini, l’allargamento senza confini della democrazia dell’Occidente opulento e la lotta agli “estremismi„ che destabilizzano l’armonico svilupparsi dell’economia mondiale, la stabilizzazione manu militari degli esasperati conflitti locali. E, su un altro versante, la calante produttività del lavoro, il dogma del mercato “globale„ che non deve conoscere limiti al suo allargarsi, il difficilissimo mantenersi sul ciglio del burrone della crisi finanziaria ed economica.
“Globalizzazione„ è il concetto attuale su cui e contro cui si giocherebbe il futuro prossimo venturo; con il trionfo della più esasperata “tecnologia„ volta ad accorciare spasmodicamente tempi e distanze, le vecchie soluzioni, i vecchi rimedi non avrebbero ragione d’essere, e tutta la pretesa intelligenza della nuova epoca si dà un gran daffare per mantenersi “teoricamente„ all’altezza di questo dibattito “scientifico„.
Fatti salvi pochi sparuti sopravvissuti, senza più alcuna reale influenza sulle cose, che continuano testardi su una strada “negata dalla storia e dallo sviluppo dell’umanità„, il mondo si sarebbe a questo punto sbarazzato, non senza aver pagato un tributo immane di vittime, delle vecchie utopie degeneri dell’Ottocento. L’epoca che si è chiusa, quella delle grandi e orribili dittature è tramontata senza appello; questa è l’epoca delle piccole dittature locali, da risolvere facendo ricorso a guerricciole striscianti altrettanto locali, che si devono necessariamente concludere, secondo un preteso “diritto internazionale„, con processi ad imputati di gran nome per “delitti contro l’umanità„. Questa è l’epoca degli integralismi religiosi che impongono sfide differenti per essere ridotti alla “ragione„, della lotta al “terrorismo„ organizzato che turba i sonni della borghesia e il suo “nuovo ordine„ mondiale. Tali sarebbero le “grandi novità„ dell’epoca. E a stare a sentire i nuovi teorici d’ogni confessione e risma, il futuro della società aperta avrebbe oggi tutt’altri nemici, dopo la liquidazione del “comunismo„.
Se le migliori menti del pianeta si affannano a dimostrare che nella sostanza – per non dire nella forma – tutto è cambiato, o sta cambiando, verrebbe voglia di crederci. Ma pare proprio, invece, che i problemi, le sofferenze, le speranze che le generazioni passate hanno patito, sognato e combattuto, siano esattamente le stesse di questo presente. E, modestamente, dobbiamo rilevare che di vittorie dottrinali, questa teoria che si vorrebbe liquidata molte ne ha ottenute, dopo che il Comunismo, come idea e prassi politica, ma soprattutto come compagine organizzata di Partito, è stato stimato battuto dall’opportunismo, rinnegato, negato e quindi dichiarato morto e sepolto.
Un esempio semplice, banale ma significativo: in un recentissimo rapporto dell’Agenzia per il Commercio e lo Sviluppo dell’ONU si afferma che “Da trenta anni il mondo è diventato più povero„. E pur considerato che il termine “povero„ assume valori diversi a seconda delle aree geopolitiche che si vanno a considerare, c’è da dubitare che anche la conquista teorica del marxismo, la più infamata dalle scuole borghesi, il concetto di “miseria crescente„, anzi, per essere precisi, di “massa crescente della miseria„ – enunciata e dimostrata a metà Ottocento – tanto campata per aria, non sia; anche se non abbiamo certo bisogno del sussiegoso ma preoccupato rapporto ONU per esserne noi convinti. E il proletario d’Occidente che con il suo lavoro “dà vita„ alla “tecnologia più avanzata„, rispetto alla massa di valore che ivi si produce e ai prezzi che paga per i beni di consumo, non è così lontano, almeno qualitativamente, dal lavoratore del “terzo mondo„ che ha il giusto per il pasto quotidiano per sé e per la sua famiglia.
Questa è veramente la “globalizzazione„ nel nostro senso rivoluzionario
ed anticapitalista. E non i cinematografi della cattiva coscienza piccolo
borghese, che sta dando così brillante prova di sé al seguito dei consessi
plenari dei pretesi Grandi, che fanno finta di decidere le sorti del mondo.
Rapporto esposto alla riunione di Genova, maggio 2001
Quando oggi si usa la parola “biotecnologie” si evoca un qualcosa di quasi soprannaturale, un insieme di conoscenze e tecniche, appannaggio di un ristretto gruppo di scienziati, così sofisticate da realizzare qualunque sogno, qualunque fantasia, anche quelle che sembravano oggettivamente irrealizzabili a causa di ostacoli ritenuti insormontabili. L’uomo oggi crede di non conoscere limiti, la natura non può che piegarsi al suo volere e modificare le sue stesse leggi per compiacere questo essere che, da suddito, sembra ergersi a suo signore assoluto, quasi un Dio onnipotente cui niente si possa negare.
Cosa sono queste biotecnologie? Sono davvero così rivoluzionarie e radicali da modificare le stesse leggi che regolano la società e la produzione? Saremo gli stessi tra 30 anni, o vivremo in una società nuova, con nuove regole? Insomma, noi marxisti dobbiamo rassegnarci e metterci a letto, e smetterla di propagandare la rivoluzione sociale, visto che la società la stanno rivoluzionando i biotecnologi?
Anticipiamo subito a chi, magari per un attimo, ha provato dello smarrimento di fronte al rutilare degli effetti speciali e alla emozione mercenaria dei gazzettieri, che non nascerà una società nuova dalle tecniche che vengono messe a punto nei laboratori di tutto il mondo, e men che meno una società migliore. L’entusiasmo è tutto capitalista, ed è determinato dall’unica prospettiva capace di eccitare il borghese-massa, che stimola le sue secrezioni ormonali e ghiandolari, che mette in moto le sue capacità più riposte, che solletica la sua fantasia e risveglia il suo spirito di avventura: si tratta della prospettiva di alti profitti, naturalmente, che tutta racchiude l’unica spiritualità che il borghese possa mai esprimere.
È per giustificare gli enormi investimenti nei laboratori pubblici
e privati, provenienti dal sopralavoro operaio, che bisogna dare un alone
di progresso alla gretta manovra, in realtà tesa a sostenere il
tasso di profitto, impresa ogni giorno più ardua. Così giornalisti, divulgatori,
scienziati e politici, tutti si affannano a istruirci sugli enormi vantaggi
che
ci verranno dalle biotecnologie. Certi sono i profitti per i borghesi,
in quanto i benefici per il proletario saranno a caro prezzo. Ma si tratta
poi di veri benefici?
Cosa sono le biotecnologie
Se con biotecnologia si intende quello che l’etimo della parola indica, e cioè tecniche predisposte dall’uomo per influenzare i processi biologici spontanei in modo da riceverne un vantaggio, allora si può dire che la specie ha sempre vissuto utilizzando biotecnologie, a cominciare dal passaggio all’agricoltura avvenuto a diverse migliaia di anni fa. Biotecnologia è la trasformazione del latte in formaggio, dell’uva in vino, del malto in birra, della farina in pane. Ma anche tecniche come l’irrigazione o l’aratura modificano la vita delle piante. Non parliamo del miglioramento genetico per incroci e selezioni, che nel corso di migliaia di anni ha messo a disposizione dell’uomo innumeri varietà di piante alimentari e di animali da allevamento adatti alle più svariate situazioni ed esigenze. É quindi biotecnologico il modo in cui l’uomo si procura il cibo da quando non si è accontentato di raccolta e caccia.
Però oggi la parola biotecnologia assume un significato particolare: si tratta di tecniche di controllo e modificazione del patrimonio genetico di esseri viventi, che operano in profondità sia in senso qualitativo sia quantitativo, e che determinano quindi effetti amplificati. Trattandosi di tecniche che possono comportare enormi profitti, tutte le multinazionali dell’agrochimica si sono buttate a capofitto in questa avventura che promette di essere l’affare del secolo.
Le tecniche fondamentali sono due: l’ingegneria genetica e la clonazione, in un certo senso opposte e complementari.
L’ingegneria genetica è la modifica dell’informazione genetica, che si ottiene sostituendo pezzi di DNA, materiale che contiene l’informazione genetica all’interno delle cellule degli organismi che interessano (piante, batteri, animali, uomo). In tal modo si ottiene un nuovo organismo, quasi uguale a quello di partenza, se non per quel carattere particolare che costituisce la novità, il “valore aggiunto”, ovviamente da vendere a caro prezzo. La trasformazione avviene nel nucleo di una singola cellula, che poi viene fatta moltiplicare e differenziare fino a ricostituire un nuovo organismo, che viene chiamato geneticamente modificato (OGM).
I difensori della tecnica dicono che non è altro che il miglioramento genetico tradizionale, nel quale si incrociano varietà diverse fino a ottenere un individuo migliorato, reso estremamente più rapido. C’è da obbiettare che con l’ingegneria genetica è possibile compiere operazioni che non lo sarebbero con le tecniche tradizionali: non ci sono limiti agli incroci possibili, compresi geni di batteri inseriti su piante, o geni umani su batteri, o geni umani su maiali, connubi ai quali la natura spontanea pone barriere insormontabili. Così non è più notizia incredibile quella di geni di meduse impiantati su piante per renderle luminescenti, o geni di pesci trasferiti sui pomodori per migliorarne la conservabilità, o geni di batteri trasferiti nelle piante per renderle velenose per gli insetti.
La clonazione, invece, non è altro che la moltiplicazione di un individuo, o di una cellula, producendo più individui tutti uguali tra loro; infatti se non si passa dalla riproduzione sessuata, con produzione di gameti o cellule sessuali, il patrimonio genetico non si modifica, teoricamente, mai. Come in noti film di fanta-politica, da una cellula del mignolo di Berlusconi si potrebbero ottenere innumeri Berlusconi; il problema, per il capitalista che li fabbricasse, e quello di trovare un acquirente per lo stock di piccoli Berlusconi, anatomicamente tutti uguali al prototipo ma senza la dote di migliaia di miliardi... La pecora Dolly è un caso di clonazione, più semplice perché le pecore non hanno conto in banca.
La tecnica non è nuova, ed è stata adottata con le piante legnose da migliaia di anni con talea, innesto, margotta. La novità è l’applicazione agli animali superiori e all’uomo: la natura rende propagabili clonalmente solo le piante e alcuni animali inferiori (il lombrico tagliato in due...); le nuove tecniche permettono di clonare tutto, superando anche in questo caso barriere ritenute insuperabili.
Con queste prospettive le aziende si sono scatenate a ricercare da un lato metodiche sempre più efficienti, dall’altro le basi conoscitive della genetica, le sequenze geniche dei più svariati organismi per individuare dove tagliare, introdurre, sostituire pezzi di DNA, creando nuovi organismi inimmaginabili solo pochi anni fa, i cosiddetti transgenici. La “grande avventura” in cui si sono impegnate le “Industrie delle Scienze della Vita”, come amano chiamarsi queste multinazionali, creerebbe un mondo di abbondanza e di salute per tutti, privo di “controindicazioni”.
Le possibilità in verità non sono da poco: piante più produttive e più nutrienti, che non richiedano l’uso di fitofarmaci; alimenti che si conservano più a lungo, con conseguente riduzione degli sprechi; animali anch’essi più produttivi, che trasformano il cibo in carne in modo più efficiente; produzione di farmaci a basso costo grazie a piante, animali o microrganismi ingegnerizzati; animali che sviluppano organi o tessuti compatibili con i nostri, da utilizzare per trapianti; terapia di malattie genetiche intervenendo direttamente sulle cellule difettose modificandole e così via.
La questione però è: potrà-saprà il Capitale impiegare utilmente
questa
nuova arte ? (oltre la prospettiva di dividendi da corsa all’oro)?
E: quali saranno le procedure che adotterà per non rischiare di
trasformare l’avventura in una disavventura? Le risposte,
per chi vuole leggerle, ci sono già.
Le biotecnologie e l’ambiente
Naturalmente le industrie sostengono che l’introduzione delle biotecnologie su vasta scala non avrà alcuna seria conseguenza ambientale. Si tratta di affermazioni cui nemmeno loro possono credere: sarebbe la prima volta nella storia che un’innovazione tecnica ad ampio raggio rechi conseguenze “solo benefiche”. La realtà è che la rivoluzione biotecnologica lascerà sull’ambiente una particolare sua impronta. Nessuno può prevedere quanto pericolosa impronta e quanto grave minaccia alla biosfera e la ragione prima di ciò sta nel fatto che “non sanno quello che fanno”.
Il principio che ispira i biotecnologi (i ricercatori cioè, mentre quello dei capitalisti loro finanziatori è il dollaro!) è il riduzionismo genetico secondo il quale ad ogni gene corrisponde una e una sola caratteristica, mentre sembra sempre più dimostrato che ogni gene agisce di concerto con numerosi altri dello stesso cromosoma, concerto del quale è per ora impossibile conoscere i meccanismi. Anche le variazioni dell’ambiente possono influenzare di molto questi fenomeni. Inoltre, il gene può mutare, ricombinarsi e trasferirsi ad altre specie affini, e su queste esercitare effetti non prevedibili. Ed anche quando sono prevedibili e previsti vengono ignorati per ragioni aziendali. Purtroppo si tratta di effetti non immediati, le cui conseguenze si possono misurare a distanza di anni o decenni dall’introduzione della novità biotecnologica, quando spesso non è possibile rimediare al danno. Esistono numerosi casi di disastri ecologici seguiti all’immissione nell’ambiente di organismi modificati per un certo carattere: purtroppo quegli organismi non ci stanno ad esprimere quel solo carattere, e spesso la manifestazione di tutte le loro potenzialità è incontrollabile.
È tipica la sindrome da “apprendista stregone” della borghesia, che per il suo profitto scatena forze – spesso utilmente rivoluzionarie in senso antiborghese – che non riesce a controllare. La complessità degli organismi viventi non si presta alla mentalità da “tempi e metodi” dell’azienda borghese; e lo stesso vale per la sciocca pretesa di “brevettare” la vita.
Un esempio di possibile effetto negativo è quello delle piante modificate con l’inserzione di una tossina derivata da un batterio: gli insetti non se ne cibano facendo risparmiare insetticidi. Prima di tutto non sempre l’effetto c’è; quando c’è spesso la produttività della coltura è inferiore. Ma i pericoli più gravi sono altri: il peggiore è il crearsi, in poche generazioni, di ceppi di insetti resistenti alla tossina; ma c’è di più, le piante ingegnerizzate si incrociano con quelle spontanee, cedendo la resistenza anche a queste: da un lato anche le infestanti divengono resistenti e si potrebbero propagare maggiormente, dall’altro queste e quelle diventano velenose per una gamma di insetti, non per uno solo, e quindi sono sterminati anche insetti utili o innocui, come la farfalla monarca che si ciba del solo polline.
La presenza di organismi geneticamente modificati nell’ambiente, oltre al possibile effetto descritto di inquinamento genetico, ne ha anche uno esiziale sulla biodiversità: via via che gli agricoltori in tutto il mondo adottano singole varietà di piante o razze di animali più convenienti per qualche aspetto, la varietà di forme che si era prodotta in decine di migliaia di anni di agricoltura nei diversi ambienti va perduta. Mentre 50 anni fa si coltivavano nella sola Pianura Padana centinaia di varietà di mais, già ora esse si sono ridotte a poche decine, molto simili tra loro, tutte di origine USA, uguali a quelle coltivate dall’agricoltore indiano, russo o nigeriano. Questo fenomeno non è caratteristico della sola ingegneria genetica, si tratta di un peggioramento di una situazione che ha cominciato a crearsi con la Rivoluzione Verde, della quale abbiamo già scritto.
Ma la prova che per la borghesia dovrebbe essere incontrovertibile
riguardo alla pericolosità della nuova tecnica proviene dalla borghesia
stessa: nessuna Società di Assicurazione accetta di coprire il rischio
di danni provocati dalla liberazione nell’ambiente di organismi geneticamente
manipolati!
Biotecnologie e salute umana
I cibi che derivano da organismi modificati potrebbero avere effetti negativi diretti sull’uomo. Questo potrebbe avvenire attraverso diversi meccanismi.
a) La modificazione di un prodotto alimentare può provocare allergie o intolleranze alimentari. Gli esempi sono ormai numerosi, sia per la soia sia per il mais; per quest’ultimo una varietà, la Starlink, era stata autorizzata solo per l’alimentazione animale (chissà perché), ma naturalmente i meccanismi del profitto l’hanno fatta approdare alla produzione di tacos, alimento molto popolare in USA; come risultato centinaia di consumatori hanno accusato disturbi anche gravi. L’ultima notizia è che la varietà è stata bandita anche come alimento animale. Questo fenomeno vale per tutti gli organismi nuovi, anche se ottenuti in modo tradizionale: i casi di allergia al glutine del frumento (celiachia) negli ultimi anni si sono decuplicata, probabilmente a causa dell’introduzione su tutti i mercati delle nuove varietà “migliorate” più produttive. La ragione di questi fenomeni è evidente: a differenza del miglioramento genetico del passato, che operava in tempi che si misuravano in secoli, questo è quasi istantaneo, e l’umanità non riesce a sottoporre alla sua selezione questi nuovi cibi in tempo per evitare che si affermino in modo irreversibile.
b) È impossibile sapere se in una data cellula il gene modificato è stato incorporato nel DNA o no, a meno di aspettare che si sia formato l’organismo completamente sviluppato. Siccome la tecnica di trasformazione consiste nello “sparare” pezzi di DNA alla cieca nel mucchio, sperando che qualche cellula abbia la compiacenza di accettarlo nel suo patrimonio cromosomico, sarebbe praticamente impossibile sapere quali cellule, tra migliaia trattate, restano trasformate, se non ci fosse un qualcosa a marchiare in modo palese la trasformazione; questo qualcosa sono i marcatori, di solito caratteri di resistenza agli antibiotici: in tal modo trattando tutte le cellule con antibiotici si possono distruggere tutte quelle non trasformate. Bisogna però ricordare che con questo sistema per introdurre un carattere se ne devono in realtà introdurre due. Il problema è che il marcatore, che rimane in tutta la discendenza e quindi anche negli alimenti che l’OGM produce, una volta che si trova nell’apparato digerente può trasmettere le sue caratteristiche ai batteri saprofiti che ci vivono e da questi trasmettersi a quelli patogeni per l’uomo, rendendoli immuni a quegli antibiotici. Puo essere così invalidato un potente strumento di difesa contro le malattie infettive.
c) Molte varietà OGM sono studiate per resistere a forti quantità di diserbanti, in modo da far guadagnare le multinazionali sia con la vendita dei semi sia con la vendita dei diserbanti. Ma è sempre più dimostrato che il più importante di questi diserbanti, il glifosato della Monsanto, ha effetti cancerogeni; poiché il maggiore consumo di diserbanti derivato dall’introduzione degli OGM si traduce in una maggiore presenza di diserbanti nell’ambiente, per esempio nelle falde acquifere, il pericolo per la salute dell’uomo è palese. Naturalmente la Monsanto si è premunita, in molti paesi nei quali riesce a manovrare i politici, facendo innalzare i limiti accettati di residui di diserbante negli alimenti e nell’ambiente, di 3-4 volte i valori originari. Basta pagare, e il gioco è fatto.
d) I geni esogeni, inseriti ovviamente in modo più o meno casuale, determinano una instabilità genetica, con spostamenti di porzioni di DNA, e con conseguente possibile alterazione dell’espressione di geni diversi da quelli su cui si è operato. In poche parole, gli organismi trasformati possono avere comportamenti del tutto imprevedibili. Un esempio rivelatore, anche per altri versi, è stato quello che ha coinvolto il dr. Pusztai, un ricercatore ungherese impiegato presso un istituto di ricerca in Scozia. Dai suoi studi su una patata OGM, ottenuta inserendo nel DNA materiale di bucaneve e di un virus del cavolfiore, apparve evidente che topi alimentati con la stessa patata restavano gravemente danneggiati negli organi vitali, e nel sistema immunitario; quel che è peggio, il danno sembrava causato proprio dal DNA del virus, virus che è comunemente usato per ottenere molti OGM. Questa ricerca importantissima si è però fermata a quel punto, in quanto non appena resi noti i risultati alla stampa il suddetto ricercatore ha ricevuto la lettera di licenziamento dai datori di lavoro. E non sembra che altrove gli studi sulla produzione di tossine da parte di OGM sia così coscienziosa. I risultati sperimentali li avremo solo tra 10, 20 anni. Solo dopo 10 anni, per esempio, si è saputo che il triptofano prodotto da batteri ingegnerizzati, utilizzato come complemento dietetico, ha ucciso almeno 37 persone in Usa, e ha causato danni anche gravissimi in almeno altre 5.000.
e) Un altro fattore di incertezza è quello legato al consumo di carni
di animali nutriti con vegetali OGM. Infatti la gran parte del mais e della
soia transgenici vanno a far parte delle diete degli animali da carne,
anche perché ormai sono numerosi i paesi che ne rifiutano l’importazione.
La distanza tra OGM e organismo umano è maggiore, e quindi è più difficile
stabilire correlazioni, o meglio, è più facile per le multinazionali
intorbidare le acque. Ma che una alimentazione innaturale degli animali
possa avere conseguenze dannose per la salute sia di animali sia degli
esseri umani che se ne cibano è dimostrato ampiamente dal recente scandalo
della “mucca pazza”, il quale mostra inoltre con ampia evidenza quali
interessi vi siano coinvolti, al punto di compromettere interi governi.
Biotecnologie e medicina
I vantaggi presunti che all’umanità potrebbero derivare dalle applicazioni delle biotecnologie alla medicina sono tra quelli più sbandierati dai difensori del “nuovo ordine biotecnologico” trattandosi di un argomento al quale il grande pubblico è particolarmente sensibile: chi può dirsi contrario a ogni strumento che possa alleviare le sofferenze di un malato o consentirgli una vita normale? Si tratta però anche di un campo ricco di rischi, a fronte di vantaggi in gran parte solo presunti (a parte i profitti di chi ci investe, naturalmente).
Gli xenotrapianti, cioè il trapianto di organi o tessuti da animali OGM all’uomo, sono un affare da diversi miliardi di dollari l’anno. Questo spiega l’interesse e i soldi investiti in questo comparto della ricerca, soprattutto da parte di ditte farmaceutiche che prevedono anche di incrementare le vendite di immunosoppressori, sostanze che abbassano le difese naturali dell’organismo per evitare i fenomeni di rigetto. Il kit completo, insomma, come i semi e i diserbanti visti sopra.
Nessun xenotrapianto ha avuto successo fino ad oggi, ma anche ove, un giorno, riuscissero ciò non significherebbe superare i gravi pericoli celati nella tecnica. Uno di questi è il passaggio di agenti patogeni sconosciuti dall’animale all’uomo. Normalmente ciò non è possibile per le barriere naturali (su pelle e tratto gastrointestinale), e per le difese immunologiche dell’organismo; ma se trapiantiamo, utilizzando insieme gli immunosoppressori, noi aggiriamo queste difese e l’organismo diviene indifeso a nemici completamente sconosciuti finché non si manifestano. Per molti scienziati il virus dell’AIDS si è sviluppato da un virus delle scimmie utilizzate per produrre un vaccino; lo stesso si può dire per il virus Ebola, o per il morbo di Creutzfeldt-Jacob e gli esempi sono numerosi. Le conseguenze possono andare dal contagio singolo all’epidemia.
Le differenze tra uomo e animali essendo tali da provocare rigetto acuto in seguito al trapianto, si deve ricorrere all’inserimento di geni umani negli animali donatori (i maiali per esempio), ma anche ad un uso massiccio di immunosoppressori, i quali però, oltre ad essere estremamente tossici, aumentano il rischio per il paziente di contrarre date malattie. Inoltre, dopo il trapianto, finché il paziente vive, si è visto che la modificazione non si limita all’organo sostituito: le cellule dell’animale si diffondono in altri organi, facendo del trapiantato una “chimera” (animale mitologico composto da parti provenienti da numerosi animali). Un orientamento sarebbe quindi quello di aumentare il numero di geni umani inseriti nell’animale donatore, per renderlo “più compatibile”. Così si avrebbe un maiale umano “per una certa percentuale”. Si porrebbe il problema etico-giuridico di stabilire da che percentuale in poi quel maiale debbasi considerare umano, e quindi titolare di diritti, tra i quali quello di non essere fatto a pezzi!
Ma il problema morale, semmai, è un altro. Gli xenotrapianti, anche quando divenissero possibili, sarebbero comunque ingiustificabili per gli altissimi costi che richiedono, cosa che d’altronde già accade per molti tipi di trapianti che già si praticano, con contorno di aerei, elicotteri e piccoli eserciti di persone dedicate all’illustre malato che deve essere salvato spesso solo per consentire ad un barone della medicina di conquistare qualche rigo in cronaca o qualche attimo in televisione. Tutto ciò costa cifre tali da significare risorse più ridotte per tutti gli altri interventi sanitari, di basso costo ma molto più efficaci nel ridurre le sofferenze umane e nel salvare vite, almeno “a parità di costi”. Ma la sanità “normale” non fa arricchire il capitale con la stessa velocità delle terapie basate sulle “tecnologie avanzate”. É invece dimostrato che ogni lira spesa nella prevenzione è molto più efficace di quella spesa per qualsiasi terapia, quella chirurgica in primis. Si riducono di anno in anno i finanziamenti per gli ospedali, basti l’esempio dell’Inghilterra, una volta faro dell’assistenza sanitaria pubblica, la sanità pubblica precipita nella miseria in tutti i paesi occidentali (in quelli poveri non può scendere ancora), è questo il progresso, il benessere, se non per i preziosissimi e ricchissimi borghesi?
L’altro vanto dei sostenitori delle biotecnologie sono le terapie geniche, cioè l’intervento o la prevenzione di alcune patologie agendo direttamente sui geni. Più facile a dirsi che a farsi, vista l’ignoranza che a tutt’oggi esiste sui meccanismi di funzionamento dei geni. Inoltre le tecniche adottate per veicolare i nuovi geni spesso si basano sull’uso di virus, che possono determinare infezioni pericolose per il paziente e per tutta la popolazione.
Ma altra potenzialità è che, una volta che si abbia la tecnica a disposizione, la si utilizzi per modificare i nascituri; inizialmente per evitare malattie congenite gravi, ma se si può, perché non anche aumentarne l’altezza, cambiare il colore degli occhi, schiarire la pelle? In sostanza: l’inizio delle cure e dell’educazione dei figli si potrebbe anticipare di nove importanti mesi. Il sogno è di tentare di creare una razza migliore.
Intanto, in questa società, sarebbe caratterizzata dal fatto di aver avuto genitori facoltosi che si sono potuti permettere interventi sul genoma del figlio. Se non intervenisse la continua osmosi sociale tra le classi si assisterebbe allora ad una differenziazione genetica tra proletari e borghesi! Qui si aprirebbe un capitolo molto interessante, sul quale qui non possiamo soffermarci ma che dovremo trattare a parte: la cosiddetta eugenetica. Nata negli Stati Uniti oltre cento anni fa e riesumata qualche decennio dopo dal nazismo tedesco e dalla democratica e pacifica Svezia: il primo dovette smettere per sconfitta militare, la seconda ha continuato fino a pochi anni or sono. Ancora una volta alla società si aprono prospettive che non possono essere contenute nelle strette maglie del mercantilismo e della contrapposizione di classe.
Ma il problema è ancora più complesso. Le malattie genetiche vanno proprio cancellate dalla collettiva ricchezza cromosomica? É saggio, ove possibile, modificare il patrimonio genetico degli uomini, tra l’altro sapendo così poco di come funziona? Molte malattie genetiche dell’uomo non sono vere e proprie malattie, ma mutazioni che si sono affermate, per effetto dell’ambiente, in certi periodi e aree, perché erano modificazioni che servivano. É il caso dell’anemia mediterranea, causa di gravi patologie se trasmessa da entrambi i genitori; se invece proviene da un solo genitore (eterozigosi) rende il figlio più resistente alla malaria. Ora la malaria non c’è più nel Mediterraneo, ma sarà sempre così? Noi non sappiamo a cosa serve la gran parte dei geni presenti nel nostro genoma; come possiamo permetterci di modificarlo? E quindi nostro interesse mantenere il massimo di diversità dei nostri geni, invece di cancellare quelli presunti “cattivi”, perché non sappiamo quali problemi potremo avere negli scenari del nostro futuro di specie.
Soprattutto se gli azzeccagarbugli delle biotecnologie avranno la possibilità
di fare i loro comodi. Costoro non sono animati da spirito filantropico,
ma da smania di profitti; prova ne è che tutto quello che fanno viene
brevettato,
geni compresi. Ma chi non guarda il DNA con lo sguardo del malfattore che
contempla una mazzetta di banconote, sa che la perfezione della natura
risiede nel non essere perfetta.
Il brevetto della vita
Sì, anche i geni, cioè la conoscenza delle sequenze di proteine che compongono i geni, può essere brevettata. Questa possibilità, che era solo americana, da non molto si è estesa anche all’Europa grazie alla collusione dell’Ufficio Europeo per i Brevetti con le multinazionali. Dopo aver acquisito i diritti sul patrimonio genetico degli abitanti di Tonga (le piccole comunità isolate possono fornire preziosissime informazioni genetiche sull’uomo), il capitale internazionale si è assicurato i diritti sul genoma degli irlandesi e, da noi, degli abitanti di Limone sul Garda e di alcuni paeselli dell’interno della Sardegna, e chissà di quanti altri si stanno in questo momento “impadronendo”.
Dire “brevetto della vita” non ha senso, visto che non vengono brevettati né quello che è tuttora il mistero della vita né nuovi singoli geni. I biotecnologi riescono solo a tagliare e cucire geni esistenti in nuove combinazioni, non a crearne di originali, compito ancora riservato alla “divinità” essendone noi estremamente ignoranti. Viene, dicevamo, brevettata la scoperta di una sequenza genetica. Inoltre, se il laboratorio riesce a immettere un gene estraneo o a modificare il genoma in qualche modo, ecco che anche la novità viene salvaguardata dal brevetto, e nessuno può più lavorare, se non paga, su quel carattere, in quanto il brevetto non copre solo il prodotto finale, ma anche l’informazione e la tecnica necessaria a ottenerlo. L’informazione genetica di un organismo può essere utilizzata per i fini più svariati, dalla diagnosi e prevenzione delle malattie genetiche alla manipolazione genetica, alle ricerche statistiche.
La legge concede al detentore del brevetto il diritto di vietare a chiunque l’accesso al materiale brevettato; il risultato è una estesa paralisi della ricerca biomedica. Trattandosi del diritto di escludere dalla ricerca gli altri soggetti, enti pubblici compresi, la conseguenza perversa è che una volta brevettato un gene o un genoma la ricerca su quella sequenza può cessare del tutto, perché gli altri enti di ricerca possono non avere convenienza a pagare diritti ai titolari dei brevetti, mentre questi ultimi non sono tenuti a studiare il gene in questione se la cosa non conviene loro. Però è comodo essere proprietari di più sequenze possibile: se un giorno la convenienza ci sarà, ecco che si riaprirà una miniera d’oro. É la vera realizzazione della proprietà privata: tale non per l’uso che ne fa il proprietario, ma per la privazione, l’esclusione dall’uso di tutti gli altri.
Che il brevetto sia il cuore della strategia biotecnologica lo dimostrano le cure con le quali le aziende produttrici difendono le loro creature anche oltre la loro vita naturale: il brevetto su qualsiasi organismo vivente copre anche la discendenza di questo organismo per tutto il periodo di validità del brevetto originario (di solito 15-20 anni). Per le piante e gli animali ciò impedisce il loro utilizzo per la riproduzione, e cioè per la produzione di nuovi organismi. Insomma, l’agricoltore non può più, come ha fatto per migliaia di anni, mettere da parte della semente per la semina dell’anno successivo, né scegliere i migliori riproduttori tra gli animali che alleva. Così diviene totalmente dipendente dalla ditta biotecnologica, che ovviamente lo può obbligare ad acquistare dei “kit” completi di prodotti, intervenendo così pesantemente nel determinare che tipo di agricoltura si fa in una data zona.
L’esasperazione di questo aspetto ha portato alla produzione di sementi con il gene “Terminator”: il seme germina, la pianta cresce, produce nuovi semi; ma questi semi non germineranno mai, perché resi sterili. Quindi ogni anno si deve tornare col cappello in mano dalla ditta a chiedere nuova semente. Una tecnica alternativa a questa, ma altrettanto efferata, è quella dei semi “Traitor”: in questo caso i nuovi semi germinano solo se trattati con una particolare sostanza chimica. Indovinate chi vende questa sostanza, a peso d’oro?
É ovvio (ovvio in questa società) che le prospettive di lucro smisurato
abbiano risvegliato l’avventuriero che è in ogni borghese e in ogni
consiglio di amministrazione, e che le ricerche di organismi e geni utili
da sfruttare si siano moltiplicate. Iniziate negli anni ’70, si sono
via via intensificate, fino a determinare investimenti grandiosi per missioni
di studio nel terzo mondo, quello più ricco di biodiversità inesplorata.
La metodologia è: scoprire cosa c’è e a che serve (classico
è il caso delle piante medicinali di antica tradizione popolare), prenderlo,
modificare un gene o due, poi brevettarlo. A questo punto, in teoria, le
popolazioni locali, col cui sapiente lavoro hanno selezionato quegli
organismi per migliaia di anni, se li vogliono allevare dovrebbero acquistarli
o pagare i diritti alle multinazionali. Non c’è da stupirsi se questa
pratica è stata ribattezzata “biopirateria”. Recenti sono le notizie
di sconfitta legale delle multinazionali sulla proprietà di organismi
vegetali indiani quali il riso basmati e l’albero del neem, entrambi
centrali nella vita e nella cultura del subcontinente indiano; effettivamente
sarebbe stata troppo grossa se dei privati se ne fossero impossessati.
Ma per una piccola vittoria degli agricoltori, le multinazionali trionfano
centinaia di volte, con sopraffazioni che le agenzie mancano quasi sempre
di riportare, sopraffazioni di solito favorite dalle inique regole della
World Trade Organisation.
Biotecnologie e agricoltura
Nel campo dell’agricoltura la retorica stucchevole delle aziende biotecnologiche ha raggiunto livelli di ipocrisia difficilmente superabili. L’argomento principe è che le biotecnologie sono in grado di fornire organismi vegetali e animali più produttivi, e dotati di superiori proprietà nutrizionali; ergo, chi è contro le biotecnologie collabora alla persistenza della fame nel mondo. Sembra un argomento invincibile. Ma la realtà del girone capitalistico è ben diversa, tanto che il disastro della fame per il 15-20% della popolazione mondiale è stato provocato proprio dall’applicazione di quelle tecniche che avrebbero potuto forse ridurlo.
In primo luogo non è vero che le piante OGM siano sempre più produttive: in alcuni casi c’è qualche vantaggio per gli agricoltori, ma nella maggior parte dei casi gli OGM producono quanto le altre varietà, e spesso anche meno; questo è ormai evidente per molti agricoltori nordamericani, che tra l’altro vedono il valore delle produzioni crollare perché molti mercati, tra cui quello europeo, rifiutano di importare soia e mais GM. Inoltre, e questo è un problema che era già sorto per le varietà ad alto rendimento della Rivoluzione Verde, le nuove varietà richiedono un massiccio impiego di mezzi tecnici (concimi, acqua, lavorazioni, insetticidi, diserbanti, ecc.) la cui assenza o carenza può significare rese disastrose. Lo sanno bene molti agricoltori indiani, che dopo aver creduto alle lusinghe delle novità biotecnologiche, hanno visto con le nuove colture fallimenti produttivi che sarebbero stati impensabili con le vecchie varietà locali, molto più rustiche e resistenti, e si sono trovati perfino nella necessità di vendere organi dei loro corpi per pagare gli strozzini; molti altri si sono suicidati per la disperazione.
Ormai i dati sulla incerta produttività delle piante OGM cominciano ad abbondare, dopo qualche anno di esperienza degli agricoltori, e nonostante i disperati tentativi delle aziende biotecnologiche di tenerli nascosti. Notevole, per esempio, è un disastro produttivo rilevato di recente in Indonesia per il cotone GM.
Per quanto riguarda la qualità nutrizionale delle nuove varietà ingegnerizzate, a parte i casi non così rari di contenuti addirittura tossici, dei quali abbiamo parlato sopra e che ogni giorno aumentano di numero, i dati seri rilevati ci dicono, per esempio, che la percentuale di proteine nella soia “RR” è di gran lunga inferiore rispetto alle varietà tradizionali; dato che la ditta sementiera in questione, la Monsanto, aveva tenuto nascosto alla Food and Drug Agency degli Usa.
Ma c’è un vero asso nella manica delle ditte sementiere, che dovrebbe mettere tutti sull’attenti: si tratta del tanto decantato “Golden Rice”, il riso d’oro (per loro!), che è stato geneticamente modificato in modo da favorire l’aumento di produzione di vitamina A nell’uomo; il che significa che dovrebbe rappresentare la soluzione ideale per i milioni di bambini denutriti dell’Asia. Come se la malnutrizione si risolvesse con l’aggiunta di una sola vitamina in un unico alimento! Inoltre, gli stessi produttori hanno calcolato che per soddisfare il bisogno giornaliero di vitamina A un adulto dovrebbe consumare almeno 3,7 kg di prodotto crudo, ossia 9 kg di prodotto cotto, un donna in allattamento il doppio. Cosa intendono fare, modificare geneticamente gli asiatici per far loro avere uno stomaco più capace?
La realtà è ben altra, e già l’abbiamo affrontata più volte sulla nostra stampa. Non c’è nessun rapporto tra fame, in certe zone e in certi periodi, e disponibilità di alimenti, localmente o a livello mondiale. Il pianeta non ha mai conosciuto in precedenza una abbondanza di cibo come negli ultimi 50 anni, eppure la fame, temporanea o cronica, ha interessato numeri sempre maggiori di esseri umani, e la morte per fame o per conseguenze di denutrizione o malnutrizione non è mai stata così comune. Il problema, lo ripetiamo, non è la disponibilità di cibo; il cibo in questo sistema di produzione è una merce, e chi vuole una merce la deve pagare, altrimenti piuttosto la si distrugge. Non è una favola che l’India esporti cereali anche quando in alcuni suoi Stati la gente muore di fame, né che più di 150 anni fa l’Irlanda esportasse frumento mentre 3-4 milioni di irlandesi morivano di fame. Chi non sa che in molti paesi lo Stato paga gli agricoltori per lasciare incolta una certa superficie, allo scopo di abbassare le produzioni e così mantenere i prezzi alti? E chi di noi non ha provato disgusto quando ha saputo di quantità enormi di frutta, pomodori, e altri prodotti semplicemente distrutti per lo stesso scopo? Quindi le aziende borghesi e i loro Stati di classe non sono certo quelli che risolveranno i problemi dell’umanità, visto che essi stessi sono “il” problema.
Dei pericoli per la biodiversità da parte delle nuove varietà avevamo parlato qualche anno fa. Erano le varietà della Rivoluzione Verde, e quelle OGM hanno esattamente gli stessi effetti, nello scacciare e far scomparire le innumerevoli varietà tradizionali selezionate dall’uomo nel corso di diecimila anni di agricoltura. Il pericolo è che il mondo venga coltivato con pochissime varietà, e che quindi questa omogeneità genetica si traduca in una vulnerabilità irrimediabile, visto che nel frattempo tutte le antiche varietà di cui abbiamo detto saranno scomparse; il pericolo ovviamente è maggiore per le piante erbacee, che ogni anno vanno riseminate, che per gli alberi. Si arriverà ad un apparente paradosso: l’ingegneria genetica, che si vanta di inventare nuove combinazioni genetiche, varietà prima inimmaginabili, sotto il capitalismo darà il risultato opposto di aumentare l’uniformità genetica tra le piante coltivate e di provocare perdita di biodiversità.
Il danno è maggiore di quanto appaia. Il modo stesso in cui le nuove varietà sono costituite è foriero di perdita di caratteri. Il vecchio approccio è molto complicato,e molto lontano dalle capacità di qualsiasi scienziato; le varietà si costituivano lentamente, con l’incorporazione del nuovo carattere in un genoma che però restava quello di base, che aveva consentito l’affermazione della varietà di partenza. L’uomo e la natura agivano di concerto, per ottenere genotipi veramente migliorati, che si affermavano solo in assenza di difetti gravi (vedi il caso delle allergie negli alimenti da nuove varietà, per esempio). Le nuove tecniche sono piuttosto primitive se confrontate con i processi naturali, in quanto forniscono una risposta a un singolo problema, senza valutare l’interazione dell’intero organismo nel lungo termine con l’ambiente. Nel rincorrere il singolo gene che conferisce la resistenza spesso si trascura, e talvolta si distrugge, il complesso genico che costituisce la vera base per l’adattamento di una specie ad un ambiente; la nostra ignoranza fa sì che neppure ci rendiamo conto di quello che facciamo finché non se ne vedono le conseguenze.
Ma forse il vantaggio degli OGM è che il loro uso consente di utilizzare meno sostanze chimiche (fitofarmaci) sulle piante, e quindi di rispettare di più l’ambiente e la nostra salute? Niente di meno vero. Anche nelle zone in cui si coltivano piante modificate per produrre al loro interno le sostanze insetticide, l’uso di pesticidi non è diminuito; per non parlare delle prospettive di resistenze negli insetti. Immaginiamo poi cosa succede nell’ormai classico caso della soia “RR”, cioè resistente al Roundup (o glyphosate), un diserbante; visto che la pianta coltivata resiste, possiamo rovesciare in quell’ambiente tonnellate di diserbante, tale da distruggere qualsiasi esile filo d’erba estraneo alla coltura che osi germinare. Forse la soia non resta danneggiata dai massicci trattamenti, ma certo ne assorbe un bel po’ più di prima; tanto è vero che in diversi paesi la ditta produttrice del Roundup (e che lo vende insieme ai semi OGM), la solita Monsanto, ha fatto formale richiesta alle autorità affinché i livelli tollerati di questo prodotto negli alimenti vengano innalzati di 200 volte (ricordiamo che recentemente il glyphosate è stato dimostrato pericoloso per l’uomo in quanto favorisce l’insorgere di un tipo particolarmente pernicioso di linfoma).
Nel caso poi delle piante modificate per resistere a insetti si viene a creare un problema non da poco. La storia del Bacillus thuringiensis, cui abbiamo già accennato, è una storia educativa, e mostra come la legge del profitto distrugga molto più di quanto non produca. Questo batterio, detto Bt, costituisce una malattia mortale per gli insetti; anni fa fu notato e fu ideata una tecnica di lotta basata sull’irrorazione sulle piante da difendere di soluzioni contenenti il bacillo coltivato: gli insetti vengono colpiti, ma solo alcuni, in certi stadi di sviluppo, restano uccisi, molti si salvano. Ma ai fini agricoli ciò è sufficiente, perché se l’infestazione scende al di sotto di una certa soglia non costituisce più un problema.
Ma ecco che arrivano i biotecnologi. Scoprono quale è il gene tossico nel batterio, lo isolano, lo impiantano nel DNA di cellule di mais, ottengono piante intere che cominciano a fare semi, e il gioco è fatto: d’ora in poi tutti gli insetti che si ciberanno delle piante discendenti da quelle trasformate moriranno, perché ingeriranno la tossina. Tutti, o quasi tutti. Sembra perfetto. Senonché, poiché la tossina nelle cellule vegetali è presente in quantità altissime, i pochi insetti che sopravvivono sono chissà perché resistenti; inizialmente saranno pochi, ma poi si moltiplicheranno e torneranno ad essere numerosi, e assolutamente immuni al veleno. Così il mais “Bt” non servirà più a nulla, e per sovrammercato sarà stato buttato al vento uno strumento utile, se usato con saggezza, che spesso vuol dire senso della misura, proprio quello che manca al profitto. I casi denunciati di resistenze si moltiplicano, sia per le piante “Bt” che per quelle “RR”, tra gli insetti per le prime, tra le piante infestanti per le seconde (ma in questo caso le aziende non si scompongono, si limitano a consigliare di aumentare le dosi di diserbante!).
I pericoli non si fermano qui. C’è l’inquinamento genetico da non dimenticare, forse il peggiore perché meno controllabile. Vento, pioggia, uccelli, api, insetti vari hanno tutti, in qualità di vettori del polline, cominciato da anni a trasportare il polline alterato geneticamente in giro per l’ambiente, e cioè sui campi vicini a quelli con OGM. In questo modo piante “normali” sono state contaminate e hanno prodotto semi che contenevano quei geni estranei. Questo DNA è un qualcosa su cui si perde subito il controllo; le piante alterate geneticamente, essendo viventi, sono assai meno prevedibili dei contaminanti chimici: possono riprodursi, spostarsi, e mutare. Ammesso e non concesso che le aziende sementiere abbiano mai controllato qualcosa. Per esempio, la proteina responsabile della tossina del Mais OGM Starlink, quello ritirato dal mercato, è stata ritrovata in altri mais OGM ancora in circolazione. Nella soia “RR” il DNA immesso è più di quello che la Monsanto credeva, e non sanno bene quali sono gli effetti del DNA in più. Una volta diffusi nell’ambiente è praticamente impossibile far tornare gli organismi modificati in laboratorio.
È stato infine dimostrato da diverse ricerche che i geni utilizzati
per modificare le specie coltivate hanno saltato le barriere della specie;
per esempio, nell’intestino di api è stato trovato il gene di resistenza
agli erbicidi, nei polli è stato trovato DNA di mais, che si è trovato
anche nelle mucche da latte. Insomma, il DNA che nelle piante “vecchio
stile” se ne stava ben fermo al suo posto, nelle piante transgeniche
appare più instabile, capace di staccare geni o sequenze geniche che possono
ricombinarsi con il DNA di organismi con i quali entra in contatto. Il
che significa che non è fantascienza la possibilità che anche noi diveniamo
più resistenti agli erbicidi, o velenosi per gli insetti, o più conservabili
in frigorifero. Più tutti gli effetti negativi di quel DNA nella sua interazione
con il nostro organismo, che il capitalismo non ha nessuna possibilità
di prevedere, ammesso che ne abbia il desiderio.
Conferme
Come in tutte le imprese in cui si intravedono grandi profitti, la borghesia si è buttata sulle biotecnologie con enormi capitali e con tutti gli strumenti possibili, leciti e illeciti.
Chi è contro le “multinazionali”? Specificatamente gli “ecologisti”. Questi non possono proporre niente di alternativo, che non sia il puro e semplice ritorno ad un utopico passato arcadico, perché non osano ipotizzare una società non fondata sul profitto. Portano voti a questo o quel partitello perché un po’ di confusione ecologista serve a dare credito alla sinistra borghese, e a creare ulteriori diversivi alla lotta di classe.
I problemi sono reali, abbiamo visto. Ma niente, assolutamente niente può impedire al capitale di investirsi lì dove può trarre profitti. Nessuna scienza o ragione potrà prevalere su questa esigenza vitale e cieca iscritta nel DNA della società capitalistica.
Occorre rovesciare il sistema capitalista nel suo insieme, e non basta emendarlo. Ogni altra iniziativa è, nella migliore delle ipotesi, pio desiderio, illusione, quando non vera e propria, cosciente falsificazione della realtà per impedire alla classe operaia di ricongiungersi al suo programma storico, che guidandola alla distruzione della società capitalistica rimedierà anche alla piaga delle moderne biotecnologie asservite al profitto.
Non siamo oscurantisti. Al contrario, siamo i più tenaci assertori dell’importanza della conoscenza, di tutti i fenomeni e a tutti i livelli. Il controllo comunista anche sulla scienza non avrà mai bisogno di proibire una qualsiasi ricerca che in qualche modo contribuisca ad aumentare le nostre conoscenze in una qualsiasi branca, e si ridurrà di molto, rispetto alle società di classe dei precedenti millenni, la paura dell’ignoto.
La nostra dottrina politica è la prima che possa fregiarsi dell’aggettivo “scientifica”, e riconosce che molto deve alla precedente stessa scienza borghese. Non temiamo la scienza in sé, perché questa non può che confermare i nostri assunti. Denunciamo l’asservimento della scienza alla classe dominante. Qui sta il punto: questa scienza non può liberarsi dai ceppi imposti dalla società borghese, che vuole che ogni suo investimento renda, prima o poi, in un modo o nell’altro, un profitto. Un profitto monetizzabile, e in tempi brevi, sempre più brevi.
Questo è il vizio insanabile della ricerca in ambiente borghese (cioè sull’intero pianeta) di veder stravolto ogni suo progresso. Così i miglioramenti delle produzioni unitarie in agricoltura sono risultati in fame; le conquiste nel campo farmaceutico hanno allungato la vita media nell’occidente ricco (ma più ai borghesi che ai proletari), e l’hanno abbreviata nel sud povero, dove la sovrappopolazione si è incontrata con l’ipersfruttamento del suolo, la desertificazione, le guerre, le epidemie, le carestie, fenomeni eccezionali nella gran parte del mondo fino a mezzo secolo fa. Un esempio recente dell’imbrigliamento della scienza nel reziario del mercato è stata la vertenza sul prezzo dei farmaci anti-AIDS: la ricerca ne ha fornito la chiave e il modo di produrli a prezzi minimi, ma il Sudafrica ha dovuto sfidare il WTO, cioè un’organizzazione potente e che dispone di armi di ritorsione letali, per poterne acquistare a prezzi non di monopolio; nel frattempo quanti milioni di africani sono morti grazie al brevetto?
È stato fatto notare il pericolo che l’infezione di AIDS, non curata in Africa, potrebbe dilagare in tutto il mondo. Ma al capitale non interessa la prospettiva oltre la durata del suo ciclo: settimane, mesi. La domanda che invece si farà l’uomo comunista, che non dovrà far tornare conteggi monetari, è: come sarà il mondo dopo? fra 10, 100, 1000 anni? Quale sarà il suo effetto a regime sulla salute degli uomini, sull’ambiente vivente, sull’ambiente geologico, sul clima? Eviteremo, per quanto possibile sapere e prevedere, esperimenti che utilizzano gli uomini come cavie, come è invece la norma per il capitale.
Lungi da noi la sciocchezza di pretendere che la natura resti “incontaminata”: l’uomo moderno è tale perché ha modificato l’ambiente per consentire la sua sopravvivenza e il suo sviluppo sociale, materiale e anche spirituale. In questo cammino, in tutte le epoche ha provocato non pochi disastri, senza mai addivenire alla furia distruttrice del capitale. Anche nel futuro, la società a misura d’uomo, che sarà anche a misura di natura perché sarà l’uomo la sua misura, taglieremo, scaveremo, costruiremo, distruggeremo, ove necessario.
Ma il socialismo non è la cementificazione del pianeta, perché
il socialismo non è l’estrapolazione del capitalismo, ma la sua
negazione.
È il “socialismo reale” che pretendeva d’essere un “super-capitalismo”
e, per molti aspetti, lo era. Il socialismo sarà un mondo nel quale l’uomo
vivrà in armonia con sé stesso, quindi con la natura. In questa armonia
la scienza sarà di grande aiuto: prima di modificare è utile sapere cosa
stiamo facendo. Gli strumenti tecnici e conoscitivi ci sono, molti altri
e migliori li acquisiremo. Non avremo fretta non avendo da rendere conto
all’assemblea annuale degli azionisti sui risultati della gestione
finanziaria.
Rapporto esposto alle riunioni generali di gennaio e settembre 2000.
Nascita della Confederazione Generale del Lavoro
LA QUESTIONE DEL RICONOSCIMENTO GIURIDICO
Molti dibattiti interni ed esterni alla C.G.d.L. appena sorta, se letti distrattamente, potrebbero sembrare datati oggi, tanto si assomigliano sempre le argomentazioni dei servi della borghesia. Solo ai nostri giorni viene loro aggiunto l’aggettivo “nuovo”.
La contrattazione collettiva, punto di forza della Confederazione, poteva essere un’arma a doppio taglio per la dirigenza riformista. Ricorriamo ancora al Pepe: «Subito dopo la diffusione della prassi della contrattazione collettiva sia da parte di un’ala della borghesia economica e politica sia da parte di certi settori dello stesso movimento sindacale, s’era preso a sostenere l’inscindibilità del potere della contrattazione collettiva da quello del riconoscimento giuridico dei sindacati. Le ragioni dei padroni erano niente affatto peregrine, in quanto miravano a fare del sindacato un’istituzione responsabile a tutti gli effetti nei loro riguardi per quanto concerneva la regolare applicazione e ottemperanza dei lavoratori alle norme sottoscritte. Al sindacato si vedeva conferito un vasto potere di rappresentanza globale delle masse operaie, ma doveva giuridicamente adempiere un ruolo di repressione antisciopero o di collaborazione. Il ragionamento dei settori del sindacalismo – invero assai minoritari – favorevoli a questa soluzione, puntava sul riconoscimento giuridico per far conseguire ai sindacati quell’egemonia complessiva sui lavoratori che era la ragione della loro esistenza e della loro forza, e che risultava impossibile, data l’arretratezza sociale e psicologica del proletariato italiano, conquistare con la semplice organizzazione e con la lotta sindacale».
Ovviamente questa prospettiva non poteva trovare l’approvazione della dirigenza sindacale né di Turati. Sulla “Critica Sociale” del 1° gennaio 1907 leggiamo: «Preme dovunque il problema del riconoscimento delle Leghe operaie (...) Ma il terreno è qui particolarmente seminato di insidie. Se da un lato le Leghe operaie irresponsabili presentano oggi, ed è vero, troppo poche garanzie agli industriali e all’industria nel caso di equi temporanei componimenti, d’altro canto la reazione politica ed economica sta in agguato per occultare nell’apparente benefizio della personalità giuridica, i veleni paralizzatori dello slancio della solidarietà del movimento operaio».
Turati, ancora una volta, aveva capito perfettamente qual’era la posta in gioco. Scrive il Pepe: «Si individuava in questo modo la ragione vitale che imponeva al sindacato di rifiutare tale proposta, e cioè che essa avrebbe bloccato di fatto ogni possibile sviluppo e potenziamento delle organizzazioni, e le avrebbe poste come organi subordinati e quasi parassitari alla mercé dei padroni (...) Il sindacato intendeva il contratto non come un vincolo giuridico, ma come il risultato di un rapporto di forze transeunte, del quale semmai la legge doveva regolarizzare il risultato, non mai precostituirlo e predeterminarlo secondo schemi giuridici. La Confederazione poteva accettare un’autodisciplina operaia e sindacale sulla proclamazione, sulla natura e sull’intensità degli scioperi, sul rispetto delle clausole contrattuali, ma non poteva accettare una limitazione legale ed esterna delle funzioni sindacali, pena la distruzione del sindacato stesso».
Venne quindi presentata una proposta di legge dall’on. Gino Murialdi sui contratti collettivi e sulla personalità giuridica dei sindacati, proposta che prevedeva la registrazione tramite iscrizione all’Ufficio del Lavoro, facendo domanda in carta libera in duplice copia, allegando lo statuto e le firme dei promotori autenticate da un notaio. «Tutta l’attività politica, l’organizzazione e la stessa amministrazione finanziaria erano perfettamente controllate, e l’associazione veniva a trovarsi alla mercé degli organi tutori dello Stato; mentre impossibile sarebbe risultata l’esistenza delle associazioni non registrate» (Pepe).
La parte della proposta di legge che riguarda i contratti collettivi di lavoro andava nel senso facilmente intuibile. Guardiamo uno solo di questi tipi di contratti attraverso le parole dello storico che qui ampiamente utilizziamo: «Infine il concordato di tariffa, che era la forma più antica e imperfetta ed era il risultato di uno sciopero, veniva condizionato da una serie di norme volte ad ottenere che lo sciopero fosse il risultato o di una Associazione registrata oppure di una assemblea degli scioperanti, alla quale doveva presenziare un pubblico ufficiale (notaio, sindaco, conciliatore, brigadiere dei carabinieri, delegato di P.S.) e che doveva registrare a verbale la presenza di almeno 2/3 degli scioperanti e il voto di oltre la metà dei presenti. Il concordato così sancito fissava il minimo di salario che il padrone doveva versare, e il massimo di richieste degli operai, e valeva per tutti gli operai anche non iscritti all’associazione. Esso poteva sciogliersi o per mezzo dello sciopero o per mezzo della serrata. L’intento di questo punto era palese. Esso consisteva nel bloccare in tutti i modi, attraverso il contratto collettivo, il diritto di sciopero, per mezzo delle stesse organizzazioni operaie o con i vincoli formali sul numero dei votanti e dei voti ecc».
Evidente è la contrarietà dei socialisti verso tale proposta di legge, come ribadisce l’”Avanti” del 29 gennaio, scrivendo che il contratto collettivo «si rende maturo e quindi si impone autonomamente in un ambiente evoluto di rapporti economici, in cui l’organizzazione proletaria abbia raggiunto una coesione disciplinata, sia riuscita a sindacare la totalità o quasi della mano d’opera in un determinato ramo di mestiere e in cui gli stessi imprenditori abbiano già attinto dall’esperienza la convinzione dell’utilità anche per essi di assegnare all’incoercibile ascensione economico-sociale dei proletari un procedimento quasi ritmico, mercé un’adeguata formula contrattuale che vincoli gli interessi non dei capitalisti, ma quelli obiettivi della produzione dal perturbamento degli scioperi». E “La Confederazione del Lavoro” del 1° febbraio 1907 scriveva: «riteniamo assolutamente prematuro, per quanto congegnato in modo che rivela la grande competenza dell’autore, il progetto Muraldi sul riconoscimento giuridico».
Il Pepe conclude: «Per il momento era prevalso il criterio confederale, e del riconoscimento non si faceva cenno nei molti contratti collettivi che venivano stipulati in questi anni. Ma i tentativi di regolarizzare e disciplinare l’organizzazione operaia e il diritto di sciopero non erano però spenti, anche se per iniziativa del governo dovevano mutare obiettivo ed appuntarsi ora sui pubblici dipendenti e sull’imposizione ad essi dell’arbitrato obbligatorio, come garanzia della rinunzia al ricorso alla sospensione o all’intralcio del lavoro nei pubblici servizi (...) (Il sindacato accettava) un’autolimitazione del diritto di sciopero, nel duplice aspetto di potenziamento del controllo sindacale sulla massa operaia e di riconoscimento di fronte ai padroni del sindacato come unico e valido interlocutore in rappresentanza dei lavoratori».
Il primo contratto collettivo fu quello tra la Fiom e l’Itala. Tale accordo comportava, tra le altre cose, il monopolio delle assunzioni da parte del sindacato tramite l’ufficio di collocamento da esso controllato, e la ritenuta diretta della quota per l’iscrizione alla Fiom. Casalini sulla “Critica Sociale” scriveva: «Con esso vengono di un tratto risolti e nel modo più radicale molti dei problemi più ardui, più acuti dell’organizzazione professionale e del contratto di lavoro. La Lega di mestiere non è più un’intrusa nella fabbrica ma è una potenza riconosciuta. È il trionfo del sindacato: ancor più è l’apoteosi del sindacato obbligatorio. Nell’interno dell’opificio non vige più il regime assoluto ma è penetrato il regime costituzionale».
Un’altro contratto collettivo importante era quello della Federazione vetraria che recita: «La Federazione vetraria italiana s’impegna in proprio e in rappresentanza del personale per la scrupolosa osservanza della presente convenzione, s’impegna inoltre per sé e per il personale stesso a che, data l’osservanza dei patti stabiliti da parte della società, non abbiano ad avvenire scioperi, né alcuna sospensione del lavoro, né altrimenti alcun intralcio nell’andamento normale della fabbrica sotto pena di risarcire i danni che alla società derivassero da tali trasgressioni; dando perciò piena facoltà alla società stessa di rivalersi sul deposito fatto dal personale per tale risarcimento».
Su “La Confederazione del Lavoro” del 15 agosto leggiamo: «Alla democrazia politica e al burocratismo gerarchico nello Stato e all’autoritarismo gerarchico nella fabbrica si sostituisce per opera delle organizzazioni sindacali la democrazia e la disciplina tecnica nello Stato e nella fabbrica. Lo Stato si trasforma, non si distrugge; perde i suoi caratteri di imperio e regalistici e diventa l’amministrazione degli interessi collettivi».
Ci fu poi la proposta di legge di Giolitti sull’arbitrato obbligatorio per i pubblici dipendenti, che quindi riproponeva una soluzione giuridica allo sciopero per una parte consistente di lavoratori. In questo caso i riformisti mostrarono una prudenza, se così vogliamo chiamarla, ancora maggiore poiché gli arbitrati di fatto venivano accettati mentre veniva ribadito il principio del diritto assoluto per tutti allo sciopero.
La Confederazione, scrive il Pepe, «criticava l’esclusione nel progetto governativo del riconoscimento dell’organizzazione come unica garanzia della libertà di stipulazione del contratto e di controllo della sua applicazione. In assenza di ciò, l’arbitrato obbligatorio diventa un’arma pericolosa a doppio taglio, specie nella stipulazione del contratto, comportando la rinuncia pregiudiziale allo sciopero da parte dei lavoratori. Anche per i pubblici servizi solo l’organizzazione poteva accettare l’arbitrato ed imporre, essa, l’autolimitazione dello sciopero».
Nel giornale della Confederazione del 21 dicembre si legge: «Il riconoscimento delle organizzazioni e la creazione d’accordo coll’organizzazione di organismi arbitrali facoltativi per la stipulazione e la rinnovazione e sia pure d’organismi arbitrali obbligatori per l’applicazione e l’interpretazione del contratto collettivo di lavoro, col personale dell’impresa, sono gli unici mezzi efficaci per evitare e eliminare le cause e le ragioni dei conflitti. Senza queste condizioni l’arbitrato diventa un mezzo per violentare gli interessi delle classi lavoratrici anche nei servizi pubblici che non possono, sol perché tali, mettere in una condizione di minorità gli operai che vi sono addetti».
Gli odierni sindacati di regime, ancor più venduti dei loro predecessori
a direzione riformista, hanno ripreso tutto questo ciarpame ideologico
borghese chiamandolo con un nome nuovo: concertazione.
INFLUENZA DEL RIFORMISMO
La posizione della C.G.d.L. alle sue origini sui salari e sul costo della vita ricorda, data la concezione interclassista in cui sfociano, le chiacchiere cui ricorrono i sindacati post-liberali e post-fascisti di oggi, ormai senza più la giustificazione della inesperienza storica.
«La tesi confederale metteva l’accento maggiormente sulle storture e le ingiustizie della distribuzione del reddito nazionale tra le diverse classi sociali, e sulla nequizia della speculazione capitalistica per quanto concerneva il livello dei prezzi dei generi di largo consumo popolare; essa tendeva così a concentrarsi piuttosto sulla formulazione di un programma di rivendicazioni che colpissero, attraverso l’intervento dello Stato, i fenomeni degenerativi e parossistici del profitto capitalistico, o le più gravi contraddizioni della rendita parassitaria dei proprietari terrieri. Non potendo sperare di conseguire nel breve periodo un forte e consistente incremento dei salari, e non potendo neppure fronteggiare con proposte specifiche il fenomeno latente della disoccupazione industriale le cui dimensioni erano considerate più o meno normali e comunque inevitabili in un’economia capitalistica, l’unica politica, secondo i dirigenti confederali, rimaneva quella rivolta a bloccare o a ridimensionare il generale rincaro del costo della vita. Del resto questa “politica del consumo” rientrava assai bene nella strategia confederale di questi anni, intesa a darsi un’impostazione programmatica sempre più simile a quella di un autentico partito del lavoro, e si prestava perciò ad integrare il riformismo sindacale di fabbrica con un più generale riformismo politico-parlamentare gestito dalla direzione confederale» (Pepe).
Anche leggendo l’interpellanza alla Camera dell’onorevole Cabrini, del maggio 1910, sulla disoccupazione, ci sembra di ascoltare gli odierni sindacati di regime e gli odierni ex-opportunisti: «I provvedimenti che possono efficacemente combattere la disoccupazione sono diversi e vanno da tutto ciò che serve a distribuire più equamente e razionalmente la mano d’opera ai provvedimenti sull’emigrazione esterna, sugli uffici di collocamento, sulle case di lavoro, sulle colonie agricole, alla riduzione delle ore di lavoro, alla sistemazione dei turni e via dicendo, e sono integrate da queste forme recenti di assistenza e di integrazione alla libera iniziativa delle associazioni operaie e cioè da quei provvedimenti che secondo Livio Marchetti sono diretti al fine di sostituire alla perdita temporanea causata dalla mancanza di lavoro una perdita distribuita omogeneamente su un tempo più lungo, sostituendo al danno incerto un danno certo ma minore del primo. Tale categoria comprende tutti i sistemi di risparmio e di assicurazione additati per la risoluzione del problema». Il Cabrini sostenne poi che lo Stato dovesse integrare un’assicurazione libera gestita dalle organizzazioni sindacali.
Ancora il Pepe: «Le organizzazioni sindacali trovavano così, nell’estensione della loro sfera d’azione alla disoccupazione, una forte spinta all’espansione e al rafforzamento della struttura organizzativa, numerica, finanziaria e politica». Oggi tale tattica si è assai perfezionata, dato che negli attuali sindacati il numero dei pensionati supera in molte categorie quello dei lavoratori attivi.
Nell’ottobre del 1910 il C.D. della Confederazione votò un ordine del giorno, su cui il Pepe dice: «Il documento, dopo aver premesso che il problema poteva trovare una sua definitiva soluzione soltanto con un radicale mutamento dei rapporti di produzione, distribuzione e consumi, giudicava indispensabile predisporre urgenti riforme volte ad attenuare i danni e le estreme conseguenze di tanto malanno. Esso individuava queste riforme in una decisa ed energica azione dello Stato e degli altri Enti pubblici nel combattere talune delle cause con provvedimenti finanziari e di previdenza sociale, e nell’abolizione del dazio sui grani, la cui agitazione dovrà essere ripresa e sospinta avanti fissando come obiettivo di immediata conquista la temporanea soppressione».
Il C.D. decideva quindi: 1) di redigere un memoriale da inviarsi al governo onde invitarlo ad occuparsi urgentemente del grave problema; 2) di promuovere direttamente e a mezzo delle organizzazioni operaie delle manifestazioni simultanee (comizi, riunioni, convegni) alle quali siano chiamate a parteciparvi le rappresentanze politiche, amministrative e le masse dei consumatori.
Nel dicembre l’”Avanti!” pubblica un’articolo dal titolo “la questione del giorno” in cui leggiamo: «Tre forze potrebbero utilmente cooperare al ribasso del costo della vita in Italia. Prima lo Stato, abolendo o riducendo fortemente i dazi sui grani, sul cotone, sul ferro; abolendo o riducendo fortemente le protezione concessa agli zuccherieri e abbassando la tassa di fabbricazione. Ma il compito del governo non si arresta qui, giacché dovrebbe ancora facilitare il trasporto delle derrate mediante tariffe ridotte e dovrebbe attuare tutta una legislazione rivolta a sollevare il consumatore povero. Secondo, i poteri amministrativi locali coll’accordarsi per fare venire per esempio le carni macellate dell’America, coll’istituire l’annona, col favorire i contatti diretti fra produttori e consumatori, colle municipalizzazioni e con gli aiuti alle cooperative. Terzo, l’iniziativa proletaria coll’associazione, la cooperazione e così via».
Sempre il Pepe: «Questo programma democratico tendeva ad impostare, come dirà Casalini commentando il significato della mozione socialista alla Camera sul caro-viveri, una vera grande politica di consumi popolari e di riforme che sarebbe stata non solo un atto di giustizia sociale, ma un atto di suprema necessità economica nello stesso interesse delle classi capitalistiche».
Le posizioni antiprotezionistiche, interclassiste ed anti-proletarie dei riformisti sono, se possibile, più chiare nel dibattito alla Camera del gennaio-febbraio 1911 e in particolare nel discorso di Graziadei: «Vi fu un periodo inaugurato dalla politica di libertà interna dell’on. Giolitti, in cui la classe operaia, libera per la prima volta di organizzarsi per la difesa legale dei propri interessi, si gettò, e venne assorbita completamente, nell’azione della resistenza. I frutti furono notevoli, perché negli anni precedenti, all’aumento del valore della terra e del capitale, all’aumento dei profitti e delle rendite, non aveva corrisposto un aumento dei profitti e delle rendite, non aveva corrisposto un aumento proporzionale dei salari monetari; in quanto appunto era venuto a mancare, per la politica non liberale del governo precedente, lo strumento primo per creare questo equilibrio fra salario e guadagno, e cioè la forza dell’organizzazione operaia. Ma una volta ristabilitosi l’equilibrio, una volta rafforzatosi l’organizzazione anch’essa di resistenza, degli industriali e dei proprietari, l’organizzazione proletaria italiana guidata oggi per fortuna nostra e di tutti, da uomini di grande valore intellettuale e morale, ha cominciato a comprendere che la resistenza non avrebbe potuto dare se non frutti relativamente limitati, e limitati appunto dalla gradualità nell’aumento della ricchezza. Ed ecco che l’organizzazione si avvia anche ad un’azione di cooperazione. Quando la resistenza non dà più frutti sufficienti, l’unico modo per aumentare notevolmente il guadagno della classe operaia è di renderla da pura lavoratrice, proprietaria del capitale stesso con cui lavora (...) Ma altre e più gravi esperienze hanno indotto a concezioni ancora più larghe le nostre masse organizzate. Si è visto che l’organizzazione operaia se si disinteressa dei fenomeni economici e tributari e della ripercussione che la sua azione esercita sull’esterno mondo economico corre pericolo di fare un’opera di sisifo (...) La Confederazione si è fatta suscitatrice di un’azione che non può e non deve essere semplice accademia, ma deve essere diretta ad allargare e completare la coscienza delle masse ed aumentare le forze democratiche per imporre le ragionevoli riforme».
Riunione di Firenze, gennaio 2000
IL MARKETING MODERNO
Il sogno capitalistico è quello di azzerare le coordinate spazio temporali, afflitto com’è dalla insanabile contraddizione interna determinata dallo scarto tra i tempi e gli spazi della produzione ed i tempi e gli spazi della distribuzione. Quanto più, per l’affinamento tecnico, diminuiscono i tempi della produzione, più si fa necessario accorciare i tempi della distribuzione delle merci. Le crisi di sovraproduzione però stanno lì a confermare che la forbice non si riesce a chiudere.
L’ultima delle novità, secondo le mode più aggiornate, consisterebbe nel “modello americano”, che avrebbe fatto il miracolo di accompagnare la rivoluzione tecnica con la “rivoluzione merceologica”. Mentre in Europa, insomma, l’aumento di produttività non comporta aumento di occupazione, ma espulsione dalla produzione, secondo la legge tendenziale classica, lì l’aumento della produttività comporterebbe “creazione” di posti di lavoro grazie alla più affinata capacità di piazzare i prodotti. La rivoluzione merceologica, la capacità di individuare e creare mercati capaci di assorbire la sovrapproduzione avrebbe raggiunto il risultato di eliminare quella forbice.
Che l’economia sia diventata “marketing”, non è una scoperta.
Tenere alta la capacità d’acquisto dei salari in modo da permettere
l’assorbimento delle merci è una battaglia costante e mai risolta dal
mercato capitalistico. Ma che i tempi della distribuzione si siano armonizzati
con i tempi della produzione è fuori dalle caratteristiche intrinseche
del modo di produzione capitalistico. È necessario ricordare che per “distribuzione”
non s’intende l’assorbimento, il consumo delle merci, ma la
realizzazione, come sempre, del prezzo, e quindi del
profitto.
Se nella fase imperialistica in corso l’America del nord si dimostra
più dinamica, per ragioni strutturali, in rapporto ad altre aree economiche,
non è una smentita della forbice tra produzione e distribuzione, ma conferma
della differenza tra le aree di sviluppo del Capitale, e nient’altro.
È IL PLUSVALORE LA LEGGE DI GRAVITÁ DEL CAPITALE
Qualcuno ha scritto: “Marx è morto, riposi in pace”. Ma un furbo ha risposto in latino: “Marxismus mortuus est, sed non requiescit in pace”. Neanche a dirlo è un ecclesiastico che ha dimostrato di saperla più lunga, per mestiere millenario. Né è la prima volta che Marx viene relegato in soffitta, e che la borghesia si è illusa d’essersi liberata da un’ombra inquietante. Perché non riesce ad essere sepolto, il “marxismo”? Perché è vivo. Tutto qui.
È pensabile che il capitalismo possa vivere al di fuori della legge del plusvalore? Ma il capitalismo è la legge del plusvalore. Ed allora, al di là del culto o della profanazione di barbe, fosse pure quella di Marx, si tratta d’essere almeno, come dicono lorsignori, “intellettualmente onesti”.
Che cosa permette al capitale di prosperare se non la forza lavoro a buon mercato, specie se questo buon mercato riesce a rompere tutte le barriere, i protezionismi, le bardature e in nome della “flessibilità” alla potenza estrema dà adito al capitale di estorcere plusvalore nello stesso tempo non nell’ambito dei confini d’una entità statale, ma a livello mondiale, secondo quel miracolo della “globalizzazione” che altro non è se non imperialismo capitalistico?
La borghesia è stata abile e ben coadiuvata nelle varie fasi storiche
a giocare con le parole, a proporre interpretazioni, a parlare di ben cinque
“rivoluzioni tecnologiche”. Il Marxismo non è morto, perché, tenendo
ben dritta la barra al di là delle facili manipolazioni linguistiche,
ha continuato a individuare nell’estorsione di plusvalore la chiave
della sopravvivenza d’un modo di produzione che a livello mondiale sta
portando alla fame (per ammissione dei responsabili) qualcosa come oltre
un miliardo di esseri umani. Con la globalizzazione le imprese “transnazionali”
(altri preferiscono “multinazionali”!) azzerano il tempo e rendono
unico lo spazio: in parole semplici, con il beneplacito dei governi
nazionali, subregionali, magari “tribali”, riescono ad estorcere sudore
e sangue in tutte le parti del mondo che si dimostrino adatte e favorevoli
alle sue necessità: abbassare i costi di produzione, costi quello che
costi.
FALSA RISORSA DELLA DISTRIBUZIONE
La borghesia, afflitta sempre di più dalla crisi economica di sovrapproduzione, presenta il momento distributivo e soprattutto redistributivo della ricchezza, come capace di salvarla e di rinnovarla in eterno. Al contrario noi abbiamo sostenuto insistentemente che il modo di produzione capitalistico, in quanto storico, è soggetto al processo che conosce nascita, sviluppo e morte inevitabile. La nostra corrente nega che si possa parlare di economia politica spostando ogni attenzione e discorso sulla sfera distributiva e redistributiva, evitando accuratamente di studiare e valutare la produzione e le sue vicissitudini.
Sappiamo anche che questa operazione ha una sua valenza “ideologica” (altro che morte dell’ideologia!) poiché permette ai fautori del capitalismo, qualunque sia la sua età storica ed i suoi guasti irreparabili, di distrarre il proletariato dalla necessità di lottare per l’abolizione d’un modo di produzione ormai nefasto, per accontentarsi di piccoli aggiustamenti, di compromessi per strappare qualcosa nella contrattazione della forza lavoro, in nome d’un riformismo spicciolo, sempre più anemico e senza speranze.
La nostra tradizione, come abbiamo rivendicato in molte occasioni, non ha nulla da aggiungere ai nostri testi classici, non tanto perché ci manca la forza e la voglia di studiare ancora il Capitale, ma perché siamo consapevoli che ogni pretesa di manomettere la teoria consolidata è soltanto un tentativo di negare l’impianto fondamentale del capitalismo, che consiste in un modo di produzione, prima ancora che di distribuzione, della ricchezza sociale.
Come sempre il maneggio della dialettica si fa necessario per padroneggiare adeguatamente la questione: «Produzione, distribuzione, scambio, consumo formano così (secondo la dottrina degli economisti) un sillogismo in piena regola: la produzione è il “generale”, la distribuzione e lo scambio, il particolare; il consumo l’individuale in cui tutto si conchiude. Ora, questa è certamente una connessione, ma superficiale. La produzione (secondo gli economisti) è determinata da leggi di natura universali; la distribuzione da contingenza sociale, ed essa può pertanto agire in senso più o meno favorevole sulla produzione; lo scambio si situa tra entrambe come movimento formalmente sociale; e l’atto finale del consumo, che è inteso non solo come termine ma anche come scopo finale, sta propriamente al di fuori dell’economia, fin quando non reagisce sul punto di partenza e avvia di nuovo l’intero processo» (Marx, “Per la critica dell’economia politica”, Appendice).
Come la produzione non è concepibile in quanto astrazione, allo stesso titolo la distribuzione, lo scambio e il consumo. Ma una volta riconosciuto che tali momenti sono tra loro dialetticamente connessi, si tratta di soppesare quanto, nelle diverse fasi del modo capitalistico di produzione, ciascuna di loro influisce sull’altra, tenendo conto dei diversi momenti storici di sviluppo del sistema stesso.
Perché l’economia borghese oggi punta tanto sulle potenzialità della distribuzione delle merci e redistribuzione dei “redditi”? Perché preferisce stornare l’attenzione dal momento base della produzione?
Le obiezioni che gli “economisti politici” ed i loro avversari si
rivolgono, e che Marx ricorda, sembrano scritte oggi. «Niente di più
comune che il rimprovero mosso agli economisti politici di concepire la
produzione troppo esclusivamente come fine a se stessa. La distribuzione
avrebbe un’importanza altrettanto grande. Alla base di questo rimprovero
sta la concezione economica che la distribuzione è una sfera autonoma
e indipendente, accanto alla produzione. Oppure (si muove l’obiezione)
di non concepire i momenti nella loro unità. Come se questa dissociazione
non fosse passata dalla realtà nei libri, ma dai libri nella realtà,
e come se qui si trattasse di una conciliazione dialettica di concetti
anziché della dissoluzione di rapporti sociali».
ARMONIZZATORI ALL’OPERA
“Dissoluzione di rapporti sociali”! Al tempo di Marx. Figuriamoci oggi, in piena crisi ultraputrida del modo di produzione capitalistico. Si capisce che non sarà certo la finzione di possibili conciliazioni libresche a risolvere la forbice. Tutti gli sforzi capitalistico-borghesi di trovare un’armonizzazione d’una “dissoluzione di rapporti reali” sono falliti e destinati al fallimento. Non c’è “terza via” o moltiplicità di “democrazie possibili”, secondo l’indicazione di Dahrendorf, che possono trovare via di sbocco. Sappiamo quale è stata la forzatura delle socializzazioni di marca nazista o staliniana, oppure la natura degli statuti sociali da Repubblica sociale a cui ricorse la “buonanima” sospirando: «possiamo fare qualunque cosa dal momento che tutto è inutile»! Ben detto, ci lasciamo scappare noi questa volta. E se non fosse stato per il soccorso del tradimento opportunista in tutto il secondo dopoguerra, del neo/corporativismo compromissorio nel gioco di sponda tra democratici ed ex-comunisti di marca staliniana, l’apparato statale borghese non avrebbe certamente potuto reggere alla pressione proletaria che nessuna repubblica “sociale” potrà mai coinvolgere definitivamente.
La “dissoluzione di rapporti reali”, nel linguaggio di Marx e nostro, significa il guasto sociale determinato da un modo di vita che nell’ambito propriamente produttivo comporta l’assoggettamento del proletario al regime di fabbrica, nel quale l’universo concentrazionario che è passato per vari stadi (dalla produzione di tipo fordista fino alle decantate “isole” attuali che comporterebbero minore alienazione, ma che non tolgono nulla alla condizione operaia), non può sottrarsi all’estorsione della forza lavoro, e nell’ambito “distributivo” significa apparente riconquista della “libertà” in quanto individuo “libero” che deve ricreare la forza lavoro, ma inevitabilmente nei limiti del potere d’acquisto del salario, appena sufficiente a riprodurre le condizioni vitali per rientrare nel luogo di produzione.
Il circolo chiuso e vizioso di questo modo di organizzazione sociale può variare da fase a fase, ma senza mai fuoriuscire dal rapporto che lega capitale e lavoro. Questo tipo di legame non a caso viene presentato dagli economisti borghesi, da sempre, come “naturale”, e non storico. Per essi l’operaio “come individuo conforme a natura non è infatti, secondo la loro concezione della natura umana, originato dalla storia, ma posto dalla natura stessa. Chi pretendesse di rompere il circolo vizioso entrerebbe, come è storicamente successo, in collisione col sistema capitalistico nella sua totalità; sia dal punto di vista sociale, sia economico, sia politico. A meno che non accetti la “natura” e la naturalezza del capitalismo.
Non c’è dubbio che ogni universo concentrazionario ha le sue regole
e che lo stesso proletario finisce per assuefarsi sia al regime di fabbrica
sia al sistema distributivo segnato dal denaro. Non solo: una certa forma
di “sindrome di Stoccolma” può finire per stabilire tra il “carceriere”
(Capitale) ed il proletario “carcerato” una sorta di complicità. Non
è forse vero che l’operaio rimasto senza lavoro invoca “Pane e lavoro”?
Per questo noi abbiamo sempre sostenuto che la nozione di classe non è
possibile senza Partito di classe, la cui analisi e influenza è
possibile solo se distinto dalla classe statisticamente intesa.
IL “CONSUMO PRODUTTIVO”
Niente come il nesso produzione-consumo si presta ad un esercizio vuoto della dialettica. Quale borghese, o “individuo” in generale, non è disposto ad ammettere che “la produzione è immediatamente anche consumo?” Ciò anzi gli dà il destro per dire che tout se tient, e che dunque tutto ciò che riguarda il processo economico è “naturale”.
Al contrario, per la dialettica materialistica, questo modo di ragionare deve fare i conti con tutti i possibili momenti del movimento, in modo tale da non perdere di vista in che modo il momento della produzione attraverso la fase della distribuzione e dello scambio porta al consumo che a sua volta riattiva il processo produttivo. Ci si domanda, ad esempio, qual’è la contraddizione che, mentre spinge il Capitale ad estorcere una certa parte di lavoro della classe operaia, sembra poi lasciare il momento distributivo al libero gioco delle “scelte”, per cui ogni operaio si fa “persona” responsabile libera di acquistare quel che vuole, sia pure entro quantità che rientrino nei limiti della miseria del salario?
Non è sufficiente, per rendere ragione di questo processo, la semplice “logica formale”. Come abbiamo recentemente segnalato in “Nota su due momenti centrali del metodo dialettico” (in Comunismo n.46, giugno 1999), «la logica dialettica esige che si consideri l’oggetto nel suo sviluppo, nel suo “moto proprio” come dice Hegel, nel suo cambiamento», oltre che considerare che «tutta la “pratica umana deve entrare nella “definizione” completa dell’oggetto, sia come criterio di verità sia come determinante pratica del legame dell’oggetto con ciò che occorre all’uomo”».
Quando oggi gli economisti volgari fanno qualche generico riferimento a certi aspetti cospicui del processo produttivo/distributivo, scelgono qualche “momento” che fa comodo per alludere ai loro bisogni impellenti, che sono suggeriti dalle esigenze contingenti del Capitale. Ad esempio si fa gran parlare del “consumo produttivo” contro presunti “consumi non produttivi”, come moralisticamente vengono certi consumi “superflui” non meglio qualificati. Non solo ma si lascia intendere che una “politica progressista”, in antitesi ad una “reazionaria” o conservatrice, consisterebbe proprio nella capacità ed abilità nel pilotare processi produttivi che determinino forme di “consumo produttivo”, contro altre che al contrario sarebbero capaci di indurre solo “consumi improduttivi o superflui”. Ancora una volta è necessario sfatare questo tipo di sottili furbizie, poiché è in questo modo che, giocando con gli opposti, si arriva a deduzioni semplicistiche o peggio ancora tautologiche: «l’atto di produzione è in tutti i suoi momenti anche un momento di consumo. Ma questo gli “economisti” lo concedono».
La produzione come immediatamente identica al consumo, il consumo come immediatamente coincidente con la produzione, essi lo chiamano “consumo produttivo”. Questa identità di produzione e consumo viene ad essere la proposizione di Spinoza: “determinazio est negazio”.
«Ma questa definizione del consumo produttivo è presentata solo per separare il consumo che è identico alla produzione dal consumo propriamente detto, che è concepito piuttosto come «l’antitesi distruttiva della produzione». Ed oltre, «la produzione è immediatamente consumo, il consumo è irrimediabilmente produzione. Ciascuno è immediatamente il suo opposto. Al tempo stesso, tuttavia, tra i due si svolge un movimento mediatore. La produzione media il consumo, di cui crea il materiale al quale senza di esso mancherebbe l’oggetto. Ma il consumo media a sua volta la produzione, in quanto crea ai prodotti il soggetto per il quale essi sono dei prodotti. Il prodotto riceve il suo “finish” (perfezionamento) nel consumo» (Marx, ibidem).
La dialettica, come si vede, non è un gioco tra opposti senza il passaggio per una mediazione, che già Aristotele pensava avvenisse per il “substrato”. La natura della dialettica si manifesta così inevitabilmente come materialistica, la sostanza è la materia, e senza di essa non c’è movimento dialettico.
Morale: mentre non accettiamo che si parli di momento distributivo come a sé stante da quello produttivo e sul quale “giocare” una politica “progressista”, dobbiamo nello stesso tempo rimarcare che ha una sua relativa autonomia. Non solo: che nella fase imperialistica del Capitale i tempi della distribuzione diventano così lunghi e labirintici per la loro stessa natura in rapporto alla pressione di quelli produttivi, che tutti gli escamotages messi in atto dal sistema distributivo delle merci, dall’ormai incancrenita pervasione subliminale alle forme più pacchiane della vendita porta a porta, o per via “informatica”, non impressionano più di tanto, per il semplice fatto che non c’è sofisticatezza o astuzia pubblicitaria che possa saltare le metamorfosi della merce, dannata, in un modo o nell’altro, a trasformarsi in denaro, pena la revoca in discussione dell’intero meccanismo produttivo/distributivo che va sotto il nome di Capitalismo. Si potrebbe dubitare se queste ovvie considerazioni siano o no presenti nella testa dei fautori del “consumo produttivo”, ormai quasi disperati nella ricerca di accorgimenti “riformistici” che possano scongiurare la crisi generale del sistema.
Ciò non significa, da parte nostra, l’affermazione che i rabberci dello Stato borghese siano capaci di tenere in piedi il moribondo Capitale, ma una minima conoscenza della “economia politica” (anche se non merita più questo nome!) dovrebbe confermare che, al di là delle “tecniche” merceologiche o di marketing, l’economia capitalistica non è in grado di indicare prospettive di lungo periodo per le quali “valga la pena di morire”, come si diceva una volta. I tempi lunghi determinati dall’accorciamento sempre più parossistico delle tecniche produttive sono così inevitabili, e la forbice, anche statisticamente, si allarga sempre più. Di merce insomma sempre più si muore, ed i fattori dell’economia del profitto ne sono disperatamente consapevoli.
Proprio per questo, in quanto consapevoli, responsabili, e dunque colpevoli,
destinati alla dura condanna da parte del proletariato!
PARADIGMI DI BASE SUL TEMA “GIUSTIZIA”
Non è possibile aggirarsi nei meandri della “giustizia” senza aver prima fatto chiarezza sui paradigmi di base della “spartizione”. È nota l’attitudine del Leone a proporre divisioni del bottino partendo da posizioni di forza, senza tener conto delle condizioni che hanno permesso la sua conquista. Di fronte alla spartizione della classica torta è noto, come paradigma di base, che chi è il più forte può permettersi il lusso di imporre al debole la divisione “secondo la sua giustizia”. Il debole, per la sua condizione di debolezza, considera una fortuna poter se non altro prender parte alla divisione, e senza tanti problemi è disposto ad accettare il patto leonino che gli permette di sopravvivere.
Fuori dal gioco di metafore: gli anti-globalizzatori – che ci risulta spaziano dai cattolici agli ecologisti, dalle estreme sinistre alle estreme destre – che pretendono di parlare di economia e di giustizia senza indagare sulle condizioni sociali che hanno condotto alla produzione della torta, sono senza ombra di dubbio in malafede.
Se il mercato è il metro di misura supremo del lavoro umano in tutte le sue espressioni, se sul mercato si incontrano, secondo il dogma capitalistico, “libere volontà di contraenti” che si scambiano “servizi”, quanto più ciò avviene, tanto più la “socialità” umana sarebbe esaltata e la specie arricchita. In un certo senso questo sarebbe “il comunismo capitalistico”!
Se non fosse che questa messinscena costituisce la più grande turlupinatura della storia, la sua falsificazione più sfacciata. Anche il più sprovveduto dei “contraenti” sul mercato sa che la sua “volontà” prevarrà o troverà l’incontro con quella d’altri, alla condizione che si verifichi una propensione del probabile compratore a sacrificare certe sue necessità o priorità. In condizioni di necessità si è disposti a scambiare un certo bene anche sacrificando il proprio corpo, “l’integrità della persona”, come retoricamente sostengono alcune anime candide. Nel mercato si incontrano “volontà storiche e sociali” che possono anche dare l’impressione di essere “scelte soggettive libere e volontarie”. In realtà non c’è mercato dove non c’è possibilità e praticabilità di monopolio.
Tutto questo appare, ai sostenitori del mercato, come arbitrario e senza fondamento scientifico, “ideologico”, come si lamenta. Ma appena si assiste allo “scambio” nel mercato di “servizi” offensivi della morale, in tutte le possibili salse, allora si comincia a gridare allo scandalo, a richiedere misure e regole. La vera immoralità del tempo capitalistico è invece proprio questo, aver sostenuto che la merce è base d’ogni scambio, che il valore d’uso è subordinato a quello di scambio. Se tutto si misura sul mercato, se tutto è “prestazione”, quale prestazione dovrebbe essere sottratta al metro di misura? Soprattutto, chi avrebbe l’autorità di stabilirlo? Ecco la miseria, l’ignominia del mercato portato alle sue naturali conseguenze dal modo di produzione capitalistico. Né ci si può illudere di contrastarlo con le prediche.
Ma il Leone, a ragione, non si ferma al teorema della torta. La divisione in parti uguali, per sua ammissione, non si pone tra individui, ma tra componenti la società leonina. Consapevole della sua forza, senza nominarla, allude alla natura della produzione. È necessario, alla luce di questa logica, accumulare una parte, anzi la parte teoricamente massima, se fosse possibile “tutta”, per ulteriore produzione. La fame, i bisogni, specie della parte più debole, sono solo un incidente da ridurre al minimo. Quanto più s’investe, tanto più grossa sarà la torta futura, da dividere ancora secondo la parte del Leone. Provate a pensare la progressione in termini esponenziali, e al termine gli “incidenti” saranno ridotti a porzione trascurabile. La torta, un enorme ammasso, neanche da consumare, ma da idoleggiare come trofeo, puro idolo cui inginocchiarsi. La reificazione del Capitale segue questa logica.
I bisogni (leggi, capacità d’acquisto per il consumo) sono importanti e preziosi, ma solo come stimoli per la produzione, fattori dello sviluppo. Se i proletari non mangiassero sarebbe una fortuna, ma si rallenterebbe lo smercio di derrate! Così oggi si scopre la genialità di Ford, che avrebbe avuto in mente di fare dei proletari gli acquirenti delle macchine, dilatando così il processo produttivo e la fruizione oltre la ristretta cerchia dei proprietari e dei borghesi.
Spostato il discorso dai prodromi della distribuzione e dai pelosi criteri di giustizia, il terreno della produzione capitalistica svela d’essere il vero dominio che permette di svelare i segreti del modo di produzione.
Il patto che il Leone, Re della giungla, impone davanti al bottino si
rivela come la mascheratura d’una impostura che si è consumata sul
terreno della produzione. Così, senza peli sulla lingua, dovrà ammettere
anzi vanterà la sua superiore forza, farà pesare sul piatto della bilancia
la sua necessità: senza di me non c’è né produzione né torta né
consumo. Senza di me la morte!
IL COMUNISMO È UN DEMONE
«Poscia che il destino questa stirpe dissolse / demoni sacri, li si disse, della terra / benigni, tutori, custodi degli uomini mortali» (Esiodo, “Le Opere e i giorni”). Socrate commenta: «Per ciò che io penso, egli ha detto d’oro quella stirpe non perché fatta d’oro, ma perché buona e bella: e me ne fa fede il fatto che chiama noi stirpe di ferro» (Cratilo, Platone).
Il demone, memore e custode in qualche misura dell’età dell’oro, che nella metafora allude al comunismo selvaggio, che noi comunisti moderni non rinneghiamo, da cui anzi prendiamo le mosse per poter pensare e delineare il comunismo di specie come organizzazione compiuta dell’umanità, ci ricorda di strappare dal cuore l’anagrafe in cui ci ha collocato una società di classe quante altre mai fetida ed ostile ai proletari ed agli uomini in generale.
Questa provenienza e questa prefigurazione ci fa “intolleranti con i tolleranti”, proprio il contrario del decantato motto dei liberali borghesi, che si dipingono “umani” in quanto “tolleranti con i tolleranti” e “intolleranti con gli intolleranti” secondo la formula di Ludwig Von Mises: «il liberalismo proclama la tolleranza verso qualsiasi fede e qualsiasi concezione generale della realtà (...) fermamente convinti che su ogni altra cosa deve prevalere la sicurezza della pace sociale». La “pace sociale” capitalistica – ormai è confessato – poggia su miliardi d’uomini esclusi dalla borghese “pace sociale”, pace delle fosse, della fame e dello sterminio per sottosviluppo e sfruttamento.
Il comunismo non può dichiararsi tollerante verso questo tipo di pace sociale, ed in forma intransigente osteggia tutti gli apparati di forza e di coscienza che cospirano al mantenimento di questo insopportabile disordine.
Il demone che anima il comunismo ha buona memoria della società non
divisa in classi, custode non d’un lontano ricordo, ma d’un inevitabile
avvenire che è scritto in lettere di fuoco nel movimento della Storia.
FASTI ITALICI DELLA CONTRORIVOLUZIONE
Capitolo esposto alla riunione generale a Torino dell’ottobre 1999.
La super sbornia elettorale del ’48
Nel dicembre 1947 PCI e PSI, in vista delle elezioni della primavera successiva, si erano accordati per la partecipazione su di una piattaforma unitaria e fondarono il “Fronte Democratico Popolare” che, per simbolo, aveva adottato la faccia barbuta di Garibaldi incorniciata dallo Stellone d’Italia. “Battaglia Comunista” del 7 aprile 1948 commentò nel modo seguente la scelta del simbolo socialcomunista: «I comunisti di Togliatti non osano più appellarsi alla lotta di classe e alla sua ideologia, ma hanno preferito appellarsi a Garibaldi, e giustamente. Garibaldi è l’avventuriero più romantico e politicamente più incostante del Risorgimento; è il repubblicano che consegna l’Italia alla più retriva e più spergiura delle monarchie, quella dei Savoia; è l’uomo del compromesso con Cavour e con le forze sociali e politiche i cui ideali e interessi si riannodano con l’antico regime. I comunisti di Garibaldi hanno bene il diritto di chiamar noi falsi comunisti, noi che siamo rimasti a Marx, a Lenin e alla Rivoluzione di Ottobre».
Alla manifestazione schedaiola prese parte, con i suoi simboli, il Partito Comunista Internazionalista: sulla valutazione di questa posizione torneremo in un prossimo rapporto. La federazione del PCI milanese affisse un manifesto in cui venivano riprodotti, l’uno accanto all’altro i simboli della falce e martello e quello di Garibaldi. Sotto la falce e martello era scritto: «Questo è il simbolo dei falsi comunisti», sotto la faccia di Garibaldi: «Questo è il simbolo sotto cui milita il PCI nel Fronte Democratico Popolare», cioè quello stesso simbolo che univa operai e borghesi, attori, scrittori, avvocati, Fausto Coppi, Corrado Alvaro, dipendenti della Pirelli e Pirelli Junior che, con qualche ragione, da Indro Montanelli venne definito “gaglioffo”. Anche il Comitato per la Tregua Elettorale (composto da liberali, qualunquisti, monarchici, repubblicani, democristiani, socialisti nenniani e saragattiani, nazional-comunisti, ecc.) si interessò alla partecipazione degli internazionalisti, e, con un manifesto apparso su “L’Unità” del 4 aprile deplorava «le indebite intromissioni e coercizioni morali sugli elettori, con richiamo a motivi e sentimenti estranei alla competizione elettorale». Purtroppo avevano ragione.
I programmi dei partiti del vasto arco democratico, tutti a sfondo nazionale
e nazionalista, erano identici e tutti si arrogavano il merito di avere
salvato la patria e di doverla salvare per il futuro.
– Il “blocchetto” n. 1, di destra, composto da Nitti, Giannini,
Lucifero, terminava il suo manifesto con le rituali parole d’ordine:
«Pane, pace, libertà» e l’ormai fatidico grido di «Viva l’Italia!»
– Il blocco n. 2, composto da Chiesa, governo, partito democristiano,
oltre alla salvezza delle anime, prometteva: «Pane, pace, libertà» e
terminava con l’inconfondibile grido di «Viva l’Italia!»
– Il blocco n. 3, composto da Togliatti, Nenni e circondari sparsi,
prometteva al popolo «Pane, pace, libertà» ed, in nome di Garibaldi,
gridava a squarciagola: «Viva l’Italia!».
«Il Fronte Democratico Popolare – scriveva “L’Unità” del 3 febbraio – lotta per le riforme già maturate nell’esperienza e postulate dalla Costituzione della repubblica italiana». Come piattaforma non c’era proprio male: non c’è borghese che, per principio, sia contro le riforme, specialmente quelle “maturate dall’esperienza”. “L’Unità” continuava: «il Fronte Democratico Popolare impone la difesa del lavoro (per rendersi conto di come il PCI volesse imporre la difesa del lavoro bastava dare un’occhiata alla “Voce di Napoli”, organo locale del PCI, del 2 marzo, in cui si leggeva che il partito stalinista si sarebbe fermamente opposto ai tutti i licenziamenti... «non necessari»! n.d.r.), la difesa di tutte le attività professionali e tecniche e intellettuali da cui il nostro paese può trarre il suo vero prestigio, la difesa della donna e della famiglia, il rispetto assoluto ai sentimenti e ai principi cristiani del popolo italiano, garanzia della pace religiosa affermata con l’avvento della repubblica, la difesa della produzione e della media e piccola proprietà, la difesa della grande tradizione italiana, splendida sempre, nella pace e nell’operosa amicizia con tutti i popoli, che nell’Italia riconoscono la terra dei geniali apporti alla civiltà». Mancava solo ricordare «i santi, i navigatori, i poeti». Mussolini non era morto invano!
Auspice Terracini, venne fondato il ricordato Comitato per la Tregua Elettorale che stabilì che la campagna sarebbe stata condotta con metodi da gentiluomini e, a garanzia della parola data, venne firmato un proclama nel quale, tra le altre stupidaggini, si leggeva che «la lotta elettorale deve essere “paragone” fra i programmi politici, competizione chiara tra i più capaci e i più adatti». Avevano inventato il darwinismo elettorale! Il manifesto continuava poi affermando che mai sarebbe dovuto accadere che «il più forte possa prevalere sul più debole, l’armato sul disarmato, il grande sul piccolo, il ricco sul povero». L’ex rivoluzionario Umberto Terracini era l’ideatore di questo buffonesco proclama ed in calce la sua firma si confondeva con quelle di borghesi ed avventurieri di ogni risma.
La nostra risposta fu: «lasciamo questi signori alla loro ipocrita, gesuitica, furbesca battaglia; noi (...) non abbiamo mai creduto, né preteso, né invocato, né sperato che la lotta elettorale fosse niente di diverso dalla società in cui si svolge, un’altra manifestazione della dittatura economica, sociale, politica di una classe sull’altra. E di fronte a questo manifesto di “onesti mercanti” ripetiamo ancora una volta e con più convinzione che mai: BUFFONI!» (“Battaglia Comunista”, 28 febbraio 1948).
I gesuitici buoni propositi espressi nei manifesti comuni non impedivano che la lotta elettorale esplodesse nelle forme più virulente, non fosse altro per il fatto che il popolo per essere ingannato esige le forme dello scontro, anche se solo verbale. Quindi, a questo esclusivo uso, in vista delle elezioni politiche si sviluppò una schermaglia elettorale sotto forme fino ad allora inedite e che sorpassarono ogni possibilità di immaginazione. In ogni località della penisola, ogni giorno, avevano luogo innumerevoli comizi.
Pietro Calamandrei descriveva in questi termini la campagna elettorale del 1948: «Tutto è ridotto a un’alternativa; ancora una volta, più che alla scelta dei suoi rappresentanti, il popolo italiano è chiamato a un plebiscito, che non comporta (o almeno così si dice) altro che due soluzioni: un si o un no (...) Quantunque figurino sui muri decine di liste e di partiti, la polemica elettorale non ha avuto carattere corale, e neanche di colloquio a molte voci. Si è ridotta ad una specie di contrasto amebèo tra due maschere di primo piano, De Gasperi e Togliatti. Dilemma centrale di tutte le discussioni: comunismo o anticomunismo. Tutte le altre alternative scritte sulle cantonate o gracidate dagli altoparlanti non sono state che formule mascherate del dilemma centrale. Nel campo costituzionale, scelta tra libertà e dittatura; nel campo spirituale, tra salvezza e dannazione; nel campo economico, tra pane e fame; nel campo internazionale, tra America e Russia, od anche tra guerra e pace (...) Il curioso è che da tutti e due i fronti si sono sentite uscire le stesse intimazioni: “la libertà e la pace sono da questa parte; chi vota contro di me è per la dittatura e per la guerra... “. E l’altro fronte rimandava indietro le stesse frasi, come un’eco. I cattolici sono riusciti a dare alla loro propaganda il carattere di una crociata religiosa: questa è stata indubbiamente una prima vittoria del fronte democristiano. Il dilemma tra comunismo e anticomunismo non solo è stato sussurrato dai confessionali, ma gridato dai pulpiti, come scelta perentoria tra inferno e paradiso. In tutta Italia ogni elettore ha ricevuto il suo volantino su cui era riportata la minaccia dei vescovi: “Gli elettori che danno il loro voto ai partiti che professano dottrine contrarie alla fede cattolica, commettono peccato mortale... “ L’assoluzione è stata spesso negata, ma più spesso contrattata (...) e lo Stato ha confessato la sua natura confessionale: processioni religiose sono state adoperate come mezzo di propaganda elettorale (ma anche il fronte del popolo ha fatto le sue sfilate di carri agricoli e industriali, e Scelba le sue parate di carri armati: mentre gli anticomunisti portavano in giro le madonne, i comunisti sbandieravano gli “intellettuali”). Anche il Pontefice ha preso parte attiva alla propaganda elettorale: per aver la gioia di passare un’ora serena a vedere “Bambi” di Disney, il pubblico ha dovuto ogni sera pagare il pedaggio di una mezz’ora di “attualità cinematografiche”, costituite da pellegrinaggi, miracoli, processioni, riviste passate dal vescovo castrense (vescovo che ha giurisdizione sui cappellani militari, n.d.r.) e alla fine il discorso pasquale tutto intero. Campagna elettorale in clima di vigilia di guerra: perfino nella terminologia e nelle ingiurie: “Fronte” (al maschile), “Avanguardisti”, “Staffette della libertà”. Anche il gesuita Padre Lombardi aveva raccolto le sue prediche sotto il titolo bellicoso di “squilli di mobilitazione”, senza parlare delle accuse di “traditori”, “agenti dello straniero”, “venduti”, oro americano, oro russo, dollari e rubli. E poi voci di mobilitazione non soltanto verbale: i partigiani di Longo, i partigiani di Cadorna, carichi d’armi che sbarcano, depositi d’armi che spuntano nei boschi come funghi. E intanto per le vie di campagna, pacifiche e ridenti nel sole d’aprile, sfilano con fragore i cortei dei carri armati della “celere” di Scelba: e i contadini dai campi si fermano appoggiati alle zappe per guardare e pensano senza sorridere che poco più di tre anni fa, in quelle stesse pianure, anche i carri armati tedeschi sfilavano così. Clima di terrore, artificiosamente coltivato da tutte e due le parti. In certe campagne nel Centro e nel Nord d’Italia, i “borghesi” vivono da settimane sotto il terrore del comunismo: dicono che alle Camere del lavoro hanno già spartito le terre, che geometri rossi sono andati in giro tra i contadini a scrivere i nomi sulle mappe. Anche le automobili sono già assegnate ai nuovi padroni (...) A chi gioverà la impostazione della lotta elettorale in questi termini di tensione guerresca? A giudicare da come le cose si son messe alla chiusura della campagna, c’è da credere che il terrore gioverà ai democristiani. La paura sarà l’argomento decisivo che spingerà sulle loro braccia la massa fluttuante degli incerti: se non lo faranno per salvare la religione, lo faranno per salvare il quieto vivere, e soprattutto il portafoglio» (“Il Ponte”, novembre-dicembre 1947).
La Democrazia Cristiana ebbe a beneficiare grandemente dello zelante intervento, ad ogni livello, della Chiesa cattolica. Il 28 marzo Pio XII avvisò i romani che «la grande ora della coscienza cristiana è suonata»; il cardinale Siri ed altri membri dell’episcopato ammonirono che era peccato mortale non votare o votare «per le liste ed i candidati che non danno sufficiente affidamento di rispettare i diritti di Dio, della Chiesa e degli uomini»; nelle chiese i parroci rivolsero prediche che erano spudorati appelli elettorali per la DC. Basti ricordare le processioni delle “Madonne Pellegrine”, le apparizioni della Madonna, le statue della Madonna che si muovevano, quelle che piangevano, i crocifissi che sanguinavano, a Napoli, il corpo di suor Giuseppina di Gesù Crocifisso, morta di cancrena, dopo 15 giorni era sempre intatto e non puzzava, i discorsi radiofonici del gesuita padre Lombardi, ribattezzato “microfono di Dio”. Per dare un appoggio ulteriore il presidente dell’Azione Cattolica, Luigi Gedda, fondò i “Comitati Civici”, gruppi di agitazione su scala locale allo scopo di coordinare l’attività anticomunista delle varie organizzazioni dell’Azione Cattolica o da questa influenzate il cui compito principale era quello di convincere i cattolici ad andare a votare in massa il giorno delle elezioni e di istruire i vecchi e gli analfabeti su cosa dovevano fare all’interno dei seggi. Questa vasta organizzazione capillare, che era stata costituita con specifica approvazione papale, affiancò, ed in diverse regioni addirittura diresse l’attività elettorale della democrazia cristiana, la cui organizzazione, rispetto all’Azione Cattolica, non aveva raggiunto una vera e propria autonomia. Cosa che farà negli anni successivi e dovendo superare non poche resistenze da parte del clero che si vedeva “tradito”.
La stessa Democrazia Cristiana impostò una campagna elettorale al tempo stesso virulenta ed efficace. I suoi manifesti mostravano mamme italiane che strappavano i loro figli dalle fauci dei lupi comunisti, serpenti che inducevano al “libero amore” per distruggere la famiglia italiana, uno Stalin gigantesco che calpestava il monumento al milite ignoto, un altro raffigurava un soldato che da dentro il reticolato di un campo di concentramento russo scongiurava la mamma perché votasse contro i suoi aguzzini. A queste paure immaginarie si aggiungevano richiami più concreti: «Coi discorsi di Togliatti non si condisce la pastasciutta. Perciò le persone intelligenti votano per De Gasperi che ha ottenuto gratis dall’America la farina per gli spaghetti ed anche il condimento». Sui muri di tutte le piazze e le vie d’Italia apparve un manifesto in cui era disegnato uno sfilatino di pane tagliato a metà con l’avvertenza che una delle due parti era fatto con grano americano. Da una parte c’era l’America che dava pane, dall’altra la Russia che non liberava i prigionieri di guerra.
La Democrazia Cristiana non volle in alcun modo apparire esclusivamente come il partito dei padroni. La presenza della corrente di Dossetti, che rappresentava la sinistra democristiana, rendeva possibile un appello diretto ai lavoratori cattolici e lo stesso De Gasperi, nel corso dei suoi comizi elettorali, parlò frequentemente della necessità di riforme fondamentali. Appena prima del 18 aprile la Confindustria approvò un rilevante aumento salariale agli impiegati. Pochi giorni prima delle elezioni il governo creò i “ruoli speciali transitori” nei ministeri centrali in cui furono inquadrati oltre 200.000 “avventizi” che gradualmente entrarono in ruolo.
Non va dimenticato nemmeno l’appoggio che la D.C. ebbe da parte di una organizzazione che allora stava rapidamente sviluppandosi, la Federazione dei Coltivatori Diretti. E neppure si deve dimenticare l’influenza del decreto legge, emanato il 7 febbraio 1948, che annullò definitivamente ogni provvedimento di epurazione, preparato fin dall’agosto 1947 dal ministro della Giustizia Grassi e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti.
Per quanto concerne il Fronte Popolare, ai suoi raduni partecipavano masse imponenti ed entusiaste, di gran lunga più numerose di quelle presenti ad analoghe occasioni organizzate dalla DC. Ingannati da questa partecipazione massiccia i dirigenti del Fronte erano fiduciosi di vincere, ma in seguito Pajetta ammise: «quello che non avevamo capito è che con noi c’era invece solo la maggioranza della popolazione politicamente attiva».
La campagna elettorale terminò con un adeguato scambio di insulti tra i due leader delle opposte fazioni. De Gasperi accusò Togliatti di avere il piede caprino come Belzebù. Togliatti rispose che non aveva intenzione di mostrare i suoi piedi, assolutamente normali, ma che dopo il 18 aprile, con uno di essi, pesantemente calzato in uno stivale chiodato avrebbe piantato un calcione in una parte del corpo di De Gasperi che non voleva nominare.
Il clero che si era impegnato nella campagna elettorale si impegnò ancor di più perché i fedeli esprimessero materialmente il loro consenso al partito dell’ordine e di Dio: le monache di clausura ebbero dispensa e fu loro concesso di uscire dai conventi per recarsi alle urne, furono “guidati” nel voto i malati degli ospedali, gli internati nei manicomi, i moribondi furono trasportati in barella ai seggi elettorali.
La Chiesa con tutta la sua mobilitazione non mirava soltanto alla sconfitta del comunismo negatore di Dio e distruttore della famiglia, mirava a raggiungere un completo controllo confessionale della vita pubblica. Da parte della Curia romana e dei gruppi di stretta osservanza esisteva il proposito di fare dello Stato italiano il «piedistallo necessario, indivisibile della Santa Sede». Arturo Carlo Jemolo, in Chiesa e Stato in Italia, riferendo il pensiero espresso da un anonimo “prelato di alto rango”, scrive: «Si è voluto abbattere lo Stato Pontificio, conseguire l’”unità” italiana? E sia pure; non si danno ritorni (...) E l’Italia deve sentirsi non umiliata, ma esaltata, in questa sua funzione di vaso d’olio destinato ad alimentare la più alta luce che illumini la terra».
Ma quello che più di ogni altro fattore determinò i risultati del 18 aprile fu l’intervento americano che lasciò senza fiato per la sua ampiezza, la sua astuzia, il suo flagrante disprezzo per tutti i principii di non ingerenza negli affari interni di un altro paese. Tra la fine del Piano UNRRA e l’entrata in vigore del Marshall, gli Stati Uniti concessero all’Italia aiuti per circa 300 milioni di dollari, sotto forma di generi alimentari e carbone, medicinali, vestiari. In particolare, nei primi tre mesi del 1948, l’amministrazione di Washington erogò all’Italia 176 milioni di dollari. Dopo di allora entrò pienamente in funzione il piano Marshall. L’ambasciatore americano a Roma, James Dunn, si assicurò che il massiccio intervento di aiuti non passasse inosservato all’opinione pubblica italiana. All’arrivo di ogni centesima nave vennero organizzati particolari festeggiamenti. Ed ogni centesima nave approdava ad un porto diverso: Bari, Civitavecchia, Genova, Napoli, e in ogni occasione il discorso dell’ambasciatore americano si faceva sempre più esplicitamente politico. Ogni qual volta che, con l’aiuto americano, veniva costruito un nuovo ponte, una nuova scuola, un nuovo ospedale, era sempre presente l’infaticabile ambasciatore che percorreva in lungo e in largo la penisola e parlava a nome dell’America, del mondo libero, ed implicitamente della Democrazia Cristiana. Per dare maggior pubblicità agli interventi americani, spesso le merci scaricate dai porti venivano messe su uno speciale “treno dell’amicizia” (l’idea era del giornalista americano Drew Pearson) ed erano poi distribuite con le dovute cerimonie nelle stazioni lungo il percorso. Dichiarazioni abbastanza esplicite venivano fatte dai rappresentanti del governo e della economia americana che avvertivano gli italiani che tutta questa grazia di Dio sarebbe venuta meno se gli elettori avessero votato per i partiti di sinistra. I propagandisti del fronte popolare che tentavano di sostenere che gli americani avrebbero continuato a mandare la loro merce, più o meno avariata, anche se avessero vinto loro, furono smentiti da Marshall in persona che ammonì gli italiani che, nel caso di una vittoria comunista, tutti gli aiuti sarebbero stati immediatamente sospesi.
A questi aiuti materiali si accompagnava un calibrato intervento sulla futura sorte di Trieste. Un mese prima delle elezioni, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia promisero che avrebbero riconsegnato la città all’Italia. Poiché nei confronti di Trieste la posizione degli stalinisti italiani non poteva che essere molto ambigua, dato l’interesse che l’imperialismo russo nutriva sul controllo di questo punto di incrocio tra i blocchi, il partito di Togliatti non volle essere da meno dei suoi avversari nella corsa allo sciovinismo e si fece ardente promotore del ritorno sotto la sovranità italiana di Briga e Tenda, con le fonti di energia elettrica della zona del Moncenisio la cui erogazione doveva essere pagata a caro prezzo dagli industriali italiani ai francesi. Il PCI si dimenticava però di dire che a reclamare con maggiore forza la zona del Moncenisio dalla vinta Italia erano stati proprio Thorez ed il suo stato maggiore.
Per controbilanciare l’offerta americana della promessa della restituzione di Trieste, anche da parte del blocco russo, vennero solleticati i pruriti imperialistici della famelica borghesia italiana ed il 26 febbraio, sia “L’Unità”, sia lo “Avanti!” pubblicarono la notizia che da parte della Polonia socialista, era stata proposta la restituzione all’Italia di tutte le sue vecchie colonie. A dire il vero il primo passo in questo senso lo aveva fatto direttamente l’Unione Sovietica quando, l’11 febbraio, l’ambasciatore italiano a Mosca era stato informato di un passo ufficiale compiuto dal Cremlino che proponeva l’affidamento all’Italia di Libia, Somalia ed Eritrea in base ad un “mandato a tempo determinato”. “L’Unità” del 1° aprile, che aveva dedicato l’intera terza pagina alle nefandezze compiute dalla Democrazia Cristiana, dava disposizione ai suoi lettori di staccare questo foglio dal giornale ed affiggerlo in modo che tutto il popolo italiano potesse prenderne atto. Ebbene, in questo paginone, tra le varie infamanti accuse contro De Gasperi c’era quella di «rinunciare alle colonie».
Scriveva il nostro giornale (3 marzo 1948): «Che nessun fondamento ideologico o tattico vi sia nella pretesa lotta per l’indipendenza dei social-comunisti è dimostrato dal fatto che essi stessi si rendono banditori dell’oppressione coloniale. Ognuno di noi ha potuto vedere nelle strade i manifesti in cui si antepone al desiderio britannico di prendersi le colonie italiane il desiderio russo di far ritornare le colonie sotto il governo italiano: tutto ciò non significa altro che difendere la schiavitù delle popolazioni africane e rendersi in pratica i continuatori della politica coloniale mussoliniana».
Dagli Stati Uniti la comunità italo-americana utilizzò ogni mezzo per fare propaganda alla democrazia cristiana. Attori ed attrici di Hollywood registrarono messaggi d’appoggio, si tennero raduni ed oltre un milione di lettere furono spedite in Italia durante la campagna elettorale. In Usa le lettere, già scritte, erano a disposizione di chiunque, nelle redazioni di alcuni giornali, nelle chiese, nei negozi, nelle botteghe di barbiere. In alcuni casi, come ad Asbury Park, nel New Jersey, era possibile entrare nella sezione locale dell’Ordine dei Figli d’Italia, ad ogni ora del giorno e delle notte, firmare una lettera ed andarsene via senza preoccuparsi neppure del francobollo. Funzionari del ministero degli esteri italiano il 5 marzo si recarono dall’ambasciatore americano a Roma per suggerirgli che l’effetto della campagna epistolare sarebbe stata molto più efficace se gli italo-americani, invece di parlare della situazione politica in termini generali, avessero invitato apertamente i loro parenti ed amici a non votare per il Fronte democratico popolare. Una settimana più tardi l’ambasciatore invitava il governo di Washington a far sì che in quelle lettere fosse chiaramente detto che, in caso di vittoria socialcomunista, anche legale, gli emigrati non avrebbero più potuto mandare in Italia i loro doni e le loro rimesse, gli aiuti economici americani sarebbero stati tagliati e l’emigrazione verso gli Stati Uniti chiusa. Anche il Dipartimento di Stato entrò nel merito dell’emigrazione dichiarando dapprima il divieto per il membri del PCI di emigrare negli Stati Uniti e precisando poi che il voto al partito comunista sarebbe stato equiparato all’iscrizione e avrebbe prodotto gli stessi effetti. Tutte le lettere, che spesso contenevano qualche dollaro od accompagnavano pacchi regalo, sottolineavano il pericolo comunista, o contenevano iettature del tipo: «la maledizione di Dio ricadrà su di te e sulla tua famiglia».
Il 17 marzo, alla presenza del presidente Truman, il cardinale Spellman dichiarò:«Tra un mese, quando l’Italia sceglierà il suo governo, non posso credere che il popolo italiano (...) sceglierà lo stalinismo contro Dio, la Russia sovietica contro l’America, quest’America che tanto ha fatto e che è pronta e desiderosa a fare ancora di più se l’Italia rimane una nazione libera, amica e senza catene».
Ma se blandizie e minacce non avessero sortito l’effetto voluto, gli Stati Uniti sarebbero senz’altro ricorsi all’intervento militare.
Anche De Gasperi era del tutto d’accordo ad usare il deterrente militare per sconsigliare a votare male. Già all’inizio del dicembre ’47 suggeriva agli Alleati di cercare un pretesto (ad esempio l’atteggiamento della Russia nei confronti dei paesi dell’Est Europa) per ritardare la partenza dall’Italia delle truppe di occupazione, fissata per il 15 del mese (cioè entro lo scadere dei tre mesi dalla ratifica del trattato di pace). Appena qualche giorno dopo il “suggerimento” di De Gasperi, Graham Parson, assistente del rappresentante personale di Truman presso la Santa Sede riferiva al suo governo che «esponenti vaticani del più alto livello hanno da molto tempo deplorato la partenza delle truppe americane in questo momento (...) Ancora ieri Tardini (Mons. Domenico Tardini, segretario della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari e futuro Segretario di Stato della Santa Sede - n.d.r.) ha detto che, nonostante la non eccessiva vicinanza all’URSS, la maggioranza non comunista esistente in Italia vedrebbe con piacere qualsiasi necessario intervento degli Stati Uniti negli affari interni italiani, perché l’interesse di tale maggioranza in questa crisi è identico a quello dell’America» (Foreign Relations Usa, 1948-III, Washington 1975).
Queste affermazioni non devono affatto stupire, quando si pensa che il Sommo Pontefice in persona, nel suo messaggio del Santo Natale faceva esplicito appello all’intervento armato americano in caso di “aggressioni” comuniste: «A questa difesa è anche tenuta la solidarietà delle nazioni, che ha il dovere di non lasciare abbandonato il popolo aggredito. La sicurezza che tale dovere non rimarrà inadempiuto, servirà a scoraggiare l’aggressore e quindi ad evitare la guerra, o almeno, nella peggiore delle ipotesi, ad abbreviarne le sofferenze. In tal modo rimane migliorato il detto: “si vis pacem para bellum”, come anche la formula “pace a tutti i costi”. Quel che importa è la sincera e cristiana volontà di pace» (Atti e Discorsi di S.S. Pio XII - vol. 10°). Come si vede a tutt’oggi la dottrina della Chiesa non è cambiata, con la differenza che oggi sono i nipotini di Stalin a appropriarsene inneggiando al Papa che la pensa come loro.
Se gli Stati Uniti rifiutarono di rimandare il ritiro dello loro truppe, una dichiarazione del presidente Truman ammoniva però che «sebbene gli Stati Uniti stiano ritirando le loro truppe dall’Italia, in adempimento agli obblighi assunti con il trattato di pace, il nostro paese continua ad essere interessato al mantenimento di un’Italia libera ed indipendente. Se lo sviluppo degli avvenimenti dovesse dimostrare che la libertà e l’indipendenza dell’Italia, su cui sono basati gli accordi di pace, sono minacciate direttamente o indirettamente, gli Stati Uniti, in quanto firmatari del trattato di pace e in quanto membri delle Nazioni Unite, saranno quindi obbligati a chiedersi quali misure possano essere più idonee al mantenimento della pace e della sicurezza».
Che non si trattasse di una minaccia generica ne è conferma la comunicazione fatta, alla vigilia del 18 aprile, da Tarchiani (ambasciatore d’Italia a Washington) a De Gasperi, nella quale faceva partecipe il governo di Roma delle preoccupazioni americane e delle loro intenzioni. «Il Dipartimento ha osservato che ogni qual volta vi è stata una dimostrazione di forza da questa parte, i comunisti hanno abbassato le ali, o comunque hanno “starnazzato” incerti sulla linea da seguire. Si pensa qui che la presenza di navi americane in un porto italiano, se sin’ora era sconsigliabile, potrebbe invece essere utile nel delicato periodo post-elettorale. Il Dipartimento si è posto tre alternative: – avere navi americane recantesi in vari porti e non in gruppo; – avere una concentrazione di forze navali a Trieste; – avere una concentrazione di forze navali in un sol porto italiano, quale ad esempio Venezia».
Il governo americano predispose diversi schemi di azione nell’eventualità di una vittoria del Fronte Popolare. Innanzi tutto si sarebbe percorsa una strada pacifica, ed infatti, nell’eventualità di una vittoria delle sinistre, il presidente Truman sperava di convincere il partito di Nenni a rompere l’unità del Fronte, o quantomeno di provocare una nuova scissione all’interno del PSI; ma se questo tentativo non fosse riuscito erano già pronti i piani per far scoppiare un’insurrezione anticomunista con aiuti economici e militari a gruppi clandestini e con l’occupazione militare diretta della Sicilia e della Sardegna.
L’ipotesi che il partito socialista o buona parte di esso fosse disposto a sabotare il Fronte del Popolo in caso di vittoria non era certo campata in aria e precise assicurazioni dovevano avere avuto gli americani se, nel suo rapporto dell’8 marzo, il National Security Council affermava: «I socialisti di Nenni, i principali partner del PCI nel Blocco del popolo non sono perfettamente sicuri dal punto di vista dei comunisti». Anche Andreotti ha affermato che nel caso della vittoria delle sinistre «forse potevano cambiare i rapporti di forza nel Parlamento, una parte dei socialisti stessi poteva essere pronta ad assumere un atteggiamento diverso e a non collaborare con i comunisti» (G. Andreotti, Intervista su De Gasperi).
La possibilità di operare una eventuale spaccatura all’interno del Fronte non impediva i preparativi di interventi militari. Gli americani con una intensa serie di esercitazioni e di “visite di amicizia”, nelle settimane precedenti alle elezioni rafforzarono la loro flotta nel mediterraneo; le loro navi da guerra gettarono le ancore nelle acque dei principali porti italiani, mentre, nell’approssimarsi del 18 aprile, vennero spediti nelle grandi e medie città reparti di bersaglieri, carabinieri e truppe di assalto per far constatare ai cittadini l’efficienza del rinnovato esercito democratico.
Walter Lippmann sul “New York Herald Tribune”, il 6 aprile scriveva: «Se il comunismo si può espandere promuovendo la guerra fredda, allora io temo che questo significherà che noi siamo in un’epoca di lotte intestine senza fine, che non possono essere concluse con l’ausilio della diplomazia; significherà che il conflitto è di natura tale da non poter esser affrontato dai governi costituzionali con nessuno dei metodi che fino ad oggi hanno regolato gli affari internazionali». Per Lippmann, insomma, la vittoria dei social-comunisti in Italia avrebbe senz’altro scatenato la guerra civile e forse anche mondiale ed avrebbe avuto come conseguenza la fine del paludamento democratico assumendo un chiaro connotato dittatoriale. In conclusione, gli Stati Uniti non avrebbero mai permesso lo spostamento, a favore dell’imperialismo russo, degli equilibri sortiti dalla guerra.
Se il memorandum del Policy Planning Staff, nel settembre 1947, ed il rapporto sull’Italia del National Security Council, del 14 novembre, avevano previsto l’intervento americano solo nel caso di una insurrezione comunista, ora, con il discorso di Truman sopra riportato, si affermava l’appartenenza dell’Italia alla sfera di influenza occidentale e che l’alterazione di questo rapporto avrebbe rappresentato il presupposto legale per un intervento unilaterale dell’America in quanto firmataria del trattato di pace e membro dell’ONU. Le ultime parole della dichiarazione infatti non facevano nessun accenno a richieste di intervento da parte del legittimo governo di Roma, e non parlavano neanche di “indipendenza” o di “libertà”, ma solo di “pace” e di “sicurezza”, la valutazione delle quali veniva esclusivamente affidata all’insindacabile giudizio del governo americano. Non a caso Truman aveva affermato che «la pace mondiale e la sicurezza degli Stati Uniti sono la stessa cosa».
In un nuovo rapporto del 10 febbraio 1948 il National Security Council dichiarava che «l’obiettivo fondamentale degli Stati Uniti, per quanto riguarda l’Italia è di stabilire e mantenere in vita in questo paese chiave, le condizioni favorevoli al nostro interesse nazionale (...) La sua posizione nel Mediterraneo domina le vie di comunicazione con il vicino Oriente e fronteggia i paesi balcanici. Da basi situate in Italia sarebbe possibile al paese che le possiede, controllare il traffico tra Gibilterra e Suez, ed esercitare una pressione aerea contro qualsiasi punto dei Balcani». Ciò premesso il rapporto continuava affermando che gli Stati Uniti erano nel diritto di fare «pieno uso del loro potere politico, economico e, se necessario, militare, nella maniera che appaia la più efficace, per contribuire ad impedire che l’Italia cada sotto il dominio dell’URSS».
La posizione americana si faceva ancora più esplicita nella riunione del National Security Council tenuta l’8 marzo dove veniva chiaramente affermato che qualora i social-comunisti avessero «ottenuto il dominio del governo italiano con mezzi legali, (... dovere...) degli Stati Uniti è di incoraggiare gli elementi non comunisti in Italia (...) anche a rischio di una guerra civile, per impedire il consolidamento del controllo comunista». Il rapporto, oltre a prevedere «mobilitazione parziale (dell’esercito americano), anche attraverso la coscrizione obbligatoria (...) come chiara indicazione che gli USA sono decisi ad opporsi all’aggressione comunista», consigliava «un rafforzamento delle posizioni militari nel mediterraneo» con evidente riferimento al progetto di occupare militarmente la Sicilia e la Sardegna e sosteneva la necessità di «fornire ai gruppi clandestini anti-comunisti assistenza finanziaria e militare».
Togliatti, che era pienamente a conoscenza dei piani militari americani, sia quelli di intervento diretto sia quelli di provocare la guerra civile attraverso organizzazioni militari clandestine, oltre ad essere il più preoccupato di tutti, era anche quello che più di tutti temeva la vittoria del Fronte social-comunista e ripetutamente pose a De Gasperi la domanda se «il governo si fosse impegnato solennemente a rispettare la volontà popolare». Dal collega democristiano non ottenne mai risposta.
Di fronte a tutto questo i sovietici avevano ben poco da offrire come contropartita. Anzi, l’evento più importante accaduto in quei giorni in Europa orientale, il colpo di stato comunista a Praga, costituì un danno enorme per le possibilità di vittoria elettorale delle sinistre italiane. Alla fine del febbraio 1948 i partiti cecoslovacchi non comunisti cercarono di far cadere la coalizione di governo guidata dal comunista Klement Gottwald. Il partito comunista rispose mobilitando la base del partito, mentre operai armati occupavano le fabbriche. Caso unico nella storia la polizia e l’esercito fecero causa comune con i “rivoluzionari” e dopo quattro giorni di grandi tensioni il Presidente della Repubblica Benes, accettò che si costituisse un nuovo governo a maggioranza nazional-comunista. Seguirono una serie di epurazioni ed arresti e il 10 marzo l’ex ministro degli esteri, Jan Masaryk, fu trovato morto sotto le finestre del suo appartamento.
La stampa socialcomunista italiana giustificò senza esitazioni i fatti di Praga. Per “L’Unità” le forze democratiche popolari erano riuscite sventare un complotto americano e Masaryk si era suicidato per sottrarsi ai ricatti ed alle minacce... “anglo-americane”; anche per l’”Avanti!” il colpo di Stato rappresentava una “vittoria popolare”, mentre Masaryk si era ucciso in uno stato di “alienazione mentale”. Il resto della stampa inviò invece un messaggio del tutto diverso: i fatti di Cecoslovacchia erano l’avvisaglia di quello che sarebbe potuto succedere in Italia se avesse vinto il Fronte Popolare, dal momento che i comunisti non erano capaci di rispettare le regole della democrazia e che una loro vittoria sarebbe stata soltanto un preludio alla dittatura.
La vittoria democristiana superò tutte le aspettative, la D.C. raggiunse il 48,5% dei voti conquistando la maggioranza assoluta alla Camera dei deputati con 305 seggi su 574 (nel 1946 la D.C. aveva ottenuto il 35,2% con 207 seggi). Era una vittoria ottenuta tanto a spese dei partiti di destra quanto di sinistra. Al Sud furono rastrellati i voti dei monarchici e dei “qualunquisti”, al Nord direttamente quelli delle zone operaie.
Il Fronte Popolare ottenne il 31% dei voti. La sconfitta non fu uguale dovunque. Al Sud il Fronte fece progressi considerevoli, guadagnando, ad esempio, quasi 6 punti a Napoli. A Nord di Firenze ebbe invece perdite secche. Il più grosso divario fu quello fra comunisti e socialisti. I due partiti non avevano presentato liste separate ma avevano fatto affidamento sulle preferenze indicate dagli elettori. Fu presto chiaro che i togliattiani, lungi dal perdere consensi, avevano in realtà aumentato il numero dei loro deputati: da 106 nel 1946 a 140 nel 1948. I socialisti, d’altro canto, subirono un crollo catastrofico, passando da 115 deputati a solo 41. Da questo momento l’egemonia nazional-comunista sulla sinistra non fu più in discussione.
Quattro giorni dopo le elezioni un esultante De Gasperi dichiarò solennemente al “Corriere della Sera”: «Il popolo aspetta la lotta contro la disoccupazione, l’elevazione del lavoro, la riforma agraria. Tutto questo sarà fatto».
Al contrario, Togliatti su “L’Unità” del 22 aprile parlava di vittoria ottenuta con il ricatto della fame, Lelio Basso di brogli elettorali. Ma a parte le dichiarazioni di rito, il primo a rallegrarsi della sconfitta fu proprio Togliatti e a Franco Rodano che gli esprimeva la propria delusione, disse: «Erano i risultati migliori che potevamo ottenere. Va bene così». Già prima che si conoscessero i risultati del torneo cartaceo, rivolto agli attivisti di Torino, aveva affermato: «Per fortuna non saremo in grado di ottenere i risultati che voi prevedete, perché se per combinazione avessimo la maggioranza alle elezioni, chi di voi sarebbe in grado di reggere alla situazione?» (L.Lanzardo, "Classe operaia e partito comunista alla Fiat"). Anche Emilio Sereni testimonia che Togliatti temeva che una vittoria delle sinistre portasse alla “grecizzazione” dell’Italia.
Per quanto la sconfitta del Fronte Popolare avesse potuto portare del sollievo a Togliatti, i seguaci, i simpatizzanti e gli aderenti al Fronte rimasero talmente scossi dal risultato negativo che il PCI dovette cercare di correre ai ripari per non vedere di molto scemare la sua influenza fra le masse deluse e disorientate. Avvenne così che nel maggio il C.C. del partito stalinista si riunì tre giorni consecutivi al fine di studiare e fare il punto sulla situazione. Al termine dei “lavori” venne pubblicato un documento che altro non era se non la riaffermazione della linea politica precedente.
Il documento esordiva con una giustificazione della clamorosa sconfitta secondo cui «i risultati elettorali del 18 aprile sono stati determinati in gran parte dall’intervento dell’imperialismo straniero, del terrore religioso, delle illecite pressioni dell’apparato statale e da una vasta serie di brogli astutamente organizzati». Che cosa pretendevano i nazional-comunisti? Che, nella battaglia elettorale, i loro avversari politici rinunciassero alle armi in loro possesso? L’affermare o fingere di considerare illecito l’influenzamento dell’opinione pubblica con i mezzi denunciati testimoniava solo il rincrescimento di non essersene potuti servire loro. Forse che i loro partiti “fratelli” dell’Europa orientale non avevano adottato gli stessi metodi? Non avevano usato i brogli elettorali, le pressioni dell’imperialismo russo? Proprio come la Democrazia cristiana in Italia, si erano serviti pure della chiesa nazionale. Era la stessa “L’Unità” che a varie riprese aveva riportato la posizione del clero orientale (ortodosso e cattolico) a favore delle liste di unità popolare, ossia staliniste.
Il documento del C.C. picciista concludeva rivendicando le «riforme di struttura (...) contrapposte alla politica corporativa e capitalista democristiana. Queste riforme sono condizione indispensabile alla rinascita economica e della giustizia sociale». Tutto un problema di riforme, dunque, e il proletariato avrebbe dovuto battersi per quelle riforme, che erano implicite nella Costituzione e che invece si allontanavano nel tempo e nella realtà.
Scrivemmo in “Battaglia Comunista” del 3 giugno 1948: «Se la democrazia
non ha voluto dire altro che disfatta (disfatta che non si esprime certo
nella sconfitta elettorale del PCI, ma nella riduzione delle capacità
di lotta delle masse e nella diminuzione del loro peso oggettivo nel piano
politico generale), i documenti del C.C. e le successive esperienze post-elettorali
dimostrano in modo inequivocabile che il nazional-comunismo continuerà
a muoversi sulla via già tracciata per quanto piena di rovine essa sia.
Nessun partito di classe, una volta caduto nell’opportunismo, si è rigenerato.
Occorre che i proletari abbandonino quelle file che sono ormai le stesse
della controrivoluzione, ed abbiano il coraggio di guardare in faccia la
realtà per riconoscere nel PCI, non meno che nella Democrazia Cristiana
o nel saragattismo, il volto del suo avversario di classe. Giacché, se
il PCI ha fatto fallimento sul piano elettorale ha però trionfato nel
compito di disorientare le masse e legarle al carro della democrazia. Il
che, siamo giusti, non è poco dal punto di vista delle “benemerenze”
nazionali».
La presidenza Einaudi
All’indomani delle elezioni, il primo problema che il parlamento italiano dovette affrontare fu la designazione del nuovo presidente della Repubblica che, a norma della Costituzione, doveva essere fatta dalle due Camere riunite. Nonostante l’opposizione della sinistra democristiana, De Gasperi in un primo tempo presentò la candidatura di Sforza, mentre i socialcomunisti votarono De Nicola, però senza che nessuno dei due candidati raggiungesse il quorum prescritto dei 2/3 per i primi tre scrutini. Nella terza votazione De Gasperi sostenne la candidatura di Einaudi, che venne eletto al quarto scrutinio con 518 preferenze. In quest’ultimo scrutinio anche le sinistre avevano puntato su di un altro cavallo di razza: Vittorio Emanuele Orlando, che totalizzò 320 voti.
Diamo un breve ed incompleto cenno dei due personaggi che, in nome di un “voto di concordia”, erano stati proposti da Togliatti come futuri Presidenti della Repubblica.
De Nicola Enrico: avvocato napoletano, convinto monarchico. Sotto i governi Giolitti esordì come sottosegretario alle Colonie. Ultimo presidente della Camera pre-fascista fu il padrino del famigerato “patto di pacificazione” tra socialisti, CGL e fascisti. Ultimo presidente della Camera pre-fascista, in occasione dell’adunata fascista di Napoli, la cosiddetta “prova generale” prima della marcia su Roma, inviò a Mussolini il seguente telegramma: «Desidero che giunga a lei ed a tutti i colleghi intervenuti a Napoli il mio personale, cordiale, affettuoso augurio». Alle elezioni del 1924 aderì alla lista Mussolini, anche se poi ritirò la propria candidatura. Sembra, almeno così concordemente affermano tutti gli storici, per non affrontare la sfida ad un pubblico contraddittorio lanciatagli da Amadeo Bordiga, contraddittorio che De Nicola pensò bene di disertare. Il 2 marzo 1929, come ringraziamento per l’opera prestata quale membro per la riforma del codice penale (il codice Rocco), il regime fascista lo nominò senatore del regno. Disprezzato da tutti gli antifascisti democratici, Nitti lo paragonava a Pulcinella. Dopo che nel 1945 aveva tentato con ogni mezzo di salvare la dinastia dei Savoia, nel 1946, su proposta di Togliatti, fu eletto Capo provvisorio dello Stato. «L’autore della famigerata legge elettorale del 1923 Giacomo Acerbo venne condannato, dopo la caduta del fascismo, a trenta anni di reclusione dalla Corte d’Assise Speciale. Ma il gerarca fascista riusciva a trovare il testo originale della legge che era stata postillata e commentata proprio da De Nicola. Non dovette essere difficile per Acerbo minacciare la chiamata di correo. E così il Presidente della Repubblica (che, ripetiamo, era De Nicola) doveva emettere un decreto speciale col quale veniva consentito l’appello della causa, che invece non era ammesso in corte d’Assise Speciale. E così Acerbo veniva assolto» (A. Pellicani - Il filo Nero).
Orlando Vittorio Emanuele: palermitano, professore universitario di diritto costituzionale. «Quando venne alla Camera per il collegio di Partinico, un giornalista (...) lo definì: Orlando non è che il gerundio semplice del verbo orlare» (Cimone, "I Moribondi di Montecitorio"). Interventista, fu capo del governo dopo Caporetto e si distinse per le repressioni indiscriminate sul fronte interno. A tale scopo istituì l’Ufficio Centrale di Investigazione che per «la sua struttura agile e solida prefigurava in qualche modo l’impianto della famigerata OVRA» (G.Tosatti, "La Repressione del Dissenso Politico"). Nel 1918 rappresentò l’Italia alla Conferenza di Pace, dando prova di essere un imperialista meno che mediocre. Nello stesso periodo intavolò contatti con il Vaticano per la soluzione della “questione romana”, spianando ancora una volta la strada a Mussolini. Alla elezioni del 1924 partecipò alla lista Mussolini. Nel 1935 era già divenuto personaggio di spicco dell’antifascismo, ma, in un rapporto di polizia del 19 gennaio 1931 si legge: «Ha detto ancora Orlando: se dovesse cadere il fascismo andremmo incontro al bolscevismo e di fronte a tanto pericolo, io mi sento dieci volte fascista». In occasione della guerra di Etiopia diede il suo entusiastico appoggio alla causa italiana dichiarando, in una lettera privata a Mussolini: «Eccellenza, nel momento attuale ogni italiano deve essere presente per servire. Se l’opera mia, nella pura forma del servizio, potesse essere utile, voglia l’ E.V.. disporne» (“Il Popolo d’Italia”, 7 luglio ’35). Bruno Fortichiari, raccontando una seduta della Consulta, dice: «Ci troviamo lì all’estrema sinistra, io, Graziadei e Repossi (...) Ad un certo punto parla Vittorio Emanuele Orlando, che finisce con una invocazione commossa: “Dio salvi l’Italia”. Tutta l’Assemblea scatta in piedi. Siamo rimasti seduti solo io, Graziadei e Repossi (...) Ma tutti gli altri, socialisti, comunisti, erano in piedi ad applaudire. Ed io ho detto al più vicino: “Guarda che io sono andato al confino per merito di quello lì”. Comunque era la prova più bella dello spirito che allora dominava» ("Comunismo e Revisionismo in Italia").
Einaudi, invece, salito ai fastigi del Quirinale dopo una delle più farsesche votazioni che la storia parlamentare ricordi, era un vecchio liberale piemontese conservatore, religioso e dichiaratamente antisocialista, esperto di scienze finanziarie ed anche di scienze demografiche: infatti, nel “Corriere della Sera” aveva contrapposto la diminuzione della natalità nel proletariato alla fecondità «delle donne borghesi che allevano dei robusti figli capaci di maneggiare con destrezza il bastone», alludendo ai manganelli fascisti. Come tutti i democratici che poi divennero antifascisti, diede il suo voto di fiducia al primo governo Mussolini. Dobbiamo però ricordare che dopo il delitto Matteotti, con il famoso articolo “Il Silenzio degli Industriali” li accusa di aperta connivenza con il regime che, per quanto liberticida, garantisce loro «la tranquillità sociale, l’assenza degli scioperi, la ripresa intensa del lavoro, il pareggio del bilancio (mentre) il pensare, il battagliare politicamente sono beni puramente ideali, dei quali si può anche fare a meno». Come ritorsione della sua opposizione al regime gli veniva tolta la cattedra di Scienza delle Finanze che aveva tenuto alla Bocconi di Milano fin dalla fondazione dell’ateneo. Raramente fu presente al senato, ma in ogni occasione manifestò la sua critica alla politica del regime. Quindi, tra i candidati alla Presidenza della Repubblica, se vi fu uno che, in qualche modo potesse vantare un atteggiamento non servile nei confronti del fascismo, fu Luigi Einaudi, il candidato sostenuto dalla Democrazia Cristiana e dai partiti dichiaratamente borghesi.
“L’Unità” del 12 maggio titolava: «Einaudi Presidente della Repubblica - La Democrazia Cristiana ha voluto imporre una maggioranza di parte impedendo un voto di concordia». Ma che dire allora dei super bonzi Di Vittorio, Santi, Bitossi, Pastore (quest’ultimo naturalmente era nel suo ambiente) che salutarono l’evento con un telegramma, a nome dei lavoratori organizzati nella CGIL, che diceva: «I lavoratori italiani contribuendo alla ricostruzione democratica del paese intesero creare le premesse di profonde trasformazioni sociali. I lavoratori vedono in lei la più sicura garanzia di realizzazione dei principi sociali che la Costituzione sancisce e per la cui affermazione i migliori di essi soffrirono e caddero» (“L’Unità”, 14 maggio 1948). «Ma che bravi i nazional-comunisti e socialisti della CGIL! – commentava “Battaglia Comunista” del 20 maggio – I poveri morti proletari sono morti... per la ricostruzione democratica, ed affidano le “profonde” trasformazioni sociali al rappresentante dichiarato ed onestamente deciso del più puro liberalismo conservatore. Poveri morti, siete ancora una volta serviti!».
Einaudi si insediò alla Presidenza il 12 maggio. Pochi giorni dopo De Gasperi, come da normale prassi, rassegnava le dimissioni del suo governo nelle mani del neo eletto presidente; ne riceveva un reincarico ed il 23 maggio presentava il suo nuovo gabinetto, nel quale erano rappresentati i quattro partiti della coalizione di centro. Il nuovo ministero, presentato alla Camera il 1° giugno ottenne la fiducia con 346 voti favorevoli e 167 contrari. Al Senato la discussione si concluse il 2 luglio dove a favore del V governo De Gasperi si espressero 184 preferenze contro 67 voti contrari. Poiché alla Camera dei deputati erano stati eletti 183 social-comunisti ed al Senato 72, ciò significa che la bellezza di almeno 16 deputati e 5 senatori socialcomunisti non votarono contro il nuovo governo De Gasperi.
Ma questo alle masse lavoratrici non veniva detto, anzi Terracini con
la destrezza ed il sottile acume dell’azzeccagarbugli nientemeno contestava
la costituzionalità del governo dell’amico De Gasperi. Uno dei motivi
della incostituzionalità presunta era, orrore!, il fatto che i ministri
degasperiani non avevano giurato fedeltà alla Costituzione. Qualche giorno
dopo “L’Unità” gongolava per la vittoria riportata, i ministri del
V governo De Gasperi erano stati messi con le spalle al muro ed avevano
dovuto giurare sul testo sacro: Togliatti non seppe però mai se giurarono
sulla prima o sulla seconda parte della Carta costituzionale, in quella
“progressiva” o in quella “reazionaria”. Chissà?
L’attentato a Togliatti
Il 14 luglio, mentre usciva da Montecitorio, contro Togliatti vennero sparati alcuni colpi di pistola. Appena si diffuse la notizia dell’attentato, la risposta del proletariato fu immediata; senza aspettare ordini dal partito o dal sindacato gli operai sospesero immediatamente il lavoro e scesero in piazza decisi a regolare i conti con la borghesia una volta per sempre. Le più grandi fabbriche furono occupate dagli operai, vennero issate le bandiere rosse, sequestrati i dirigenti; gruppi di ex partigiani armati si impadronirono di posizioni strategiche ed occuparono degli edifici pubblici; ovunque si ebbero gravi scontri, con morti e feriti, tentativi insurrezionali si ebbero in varie località italiane.
A Siena venne decretato lo stato di assedio. Abbadia S. Salvatore, dove i minatori si erano impadroniti della centrale telefonica che controllava il trasferimento delle comunicazioni tra il Nord ed il Sud Italia, fu militarmente assediata ed espugnata con le armi. Per l’impresa vennero impiegati 3 battaglioni di P.S., uno di carabinieri, una compagnia del reggimento “Lupi di Toscana”. Diverse centinaia di persone vennero arrestate di cui 70 furono rinviate a giudizio. Durante il processo che fu celebrato nel 1950, la pubblica accusa chiese 2 ergastoli oltre a complessivi 500 anni di galera. Vennero comminate pene varianti dai 16 anni agli 11 mesi, ma tutti quanti avevano già scontato quasi due anni di carcere preventivo.
A Genova si ebbero delle vere e proprie battaglie all’interno della città. Il proletariato aveva prevalso sulla polizia. Venivano sbarrate le strade con automezzi pesanti, poi affrontando le autoblinde, si disarmavano i celerini che venivano rinchiusi all’interno del palazzo delle poste quindi ci si impadroniva dei mezzi blindati. Praticamente era la guerra civile. Alla sera la città era completamente nelle mani degli insorti al punto che il questore dovette telefonare all’Anpi dicendo: «mandatemi un gruppo di partigiani a difendere la questura, perché sono qui isolato!».
Dopo i primi momenti di smarrimento e di confusione i dirigenti del PCI e della CGIL, si mobilitarono per limitare la portata della protesta, per mantenerla nella legalità e smorzarla gradualmente. Venne proclamato uno sciopero generale che fu revocato il giorno successivo. Nelle due giornate di scontri e di sciopero, secondo i dati forniti dal ministro Scelba al senato, si sarebbero avuti 16 morti ed oltre 200 feriti, altre fonti, non ufficiali, parlarono di una trentina di morti e circa 800 feriti. Con la fine della lotta cresceva l’ondata della repressione: oltre 7.000 tra denunce ed arresti e migliaia di licenziamenti per rappresaglia. Sei anni dopo “Rinascita” scriveva: «Nel corso del ’48, del ’49 e della prima metà del ’50 la politica di repressione aveva dato i suoi frutti: 62 lavoratori morti di cui 48 comunisti; 3.126 cittadini feriti tra cui 2.367 comunisti; 92.169 arrestati di cui 73.870 comunisti; 19.306 condannati di cui 15.429 comunisti (...) Cifre “mai registrate in alcun periodo della storia d’Italia”, cifre che misero chiaramente a nudo non solo la reale natura dell’anticomunismo, ma le conseguenze addirittura pazzesche cui esso portava in un Paese, come l’Italia, ove il partito comunista è una così grande realtà umana e storica» (n. 8/9, agosto/settembre 1954).
I proletari avevano visto nell’attentato a Togliatti un attentato alla classe lavoratrice e collegando quella violenza alla quotidiana violenza che il dominio economico capitalistico ed il suo apparato statale esercitano su di loro, si erano mossi spontaneamente e compatti nella speranza di una definitiva resa dei conti e di un capovolgimento dei rapporti politici e sociali. Si illudevano che la spinta istintiva che li animava nel sospendere il lavoro e nell’occupare le fabbriche, coincidesse, nei partiti che li guidavano, con la volontà di andare “fino in fondo”, anche se non era chiaro a nessuno cosa significasse questo “fondo”.
La propaganda governativa ed i pennivendoli di centro e di destra parlarono di sciopero insurrezionale, di piani rivoluzionari: in realtà la psicologia insurrezionale era nelle masse lavoratrici, ma non era, né poteva esserci, nei dirigenti dei loro partiti. L’equivoco stava tutto lì. I proletari volevano infrangere le strutture legali borghesi. I loro dirigenti dichiaravano di voler dare una prova di democrazia. I primi interpretavano l’attentato come una minaccia alla classe operaia, i secondi come una minaccia al parlamentarismo. I proletari scendevano in piazza armati, i bonzi sindacali ed i caporioni del PCI giostravano a Montecitorio con lo scopo di imporre «un mutamento di politica» nel quadro dell’ordine costituito. Mentre le masse erano scese in guerra decise alla lotta ad oltranza, la CGIL preparava la resa senza condizioni di tutta la classe operaia: Di Vittorio sentenziava che «lo sciopero terminava perché ha raggiunto il suo scopo». A che pro avrebbero combattuto i lavoratori, sarebbero stati uccisi, incarcerati, licenziati, avrebbero visto la loro organizzazione sindacale indebolita di fronte alla baldanza dell’avversario di classe che faceva più agguerrito il fronte della reazione capitalistica, rinsaldato il potere statale e pronto a sferrare la sua rappresaglia? I proletari non riuscivano a capacitarsene, ma Togliatti e Di Vittorio sì.
Attentato al massimo dirigente, morti e repressione antioperaia era tutta acqua che andava al mulino nazional-comunista, che non avrebbe avuto alcun peso da un punto di vista della lotta e della organizzazione di classe, ma che avrebbe pesato sul piatto della bilancia a scopi unicamente democratici e parlamentari.
Nel suo comunicato radiofonico trasmesso, subito dopo lo scampato pericolo, Togliatti non fa una sola parola per ricordare il proletariato e le sue lotte. Quei proletari che in sua difesa erano scesi in piazza avevano combattuto ed erano anche morti sono completamente ignorati; e, in un articolo su “Rinascita”, quasi con disprezzo, riconferma: «non vi è mai stato in noi semplicismo né ingenuità (...) Sono caduti e cadono in questi errori coloro che, scoraggiati da un successo elettorale che non li ha soddisfatti non vedono altra alternativa alla passività che nel vano tentativo di fantasticare insurrezioni ad ogni passo». I semplici ed ingenui proletari erano serviti!
Prima di continuare è bene soffermarci ancora un attimo sul citato articolo di Rinascita del 1954. Parlando della repressione antioperaia compiuta dallo Stato post-fascista, dice testualmente: «Tornarono ben presto ai loro posti funzionari di polizia che avevano avuto incarichi dirigenti proprio nell’OVRA. La polizia rimase così quasi tutta composta dallo stesso personale che aveva servito il regime fascista e neppure negli archivi e negli schedari delle questure e dei commissariati entrò un soffio di aria nuova, tanto che per alcuni mesi si continuò, di tanto in tanto, a dar corso a mandati di cattura spiccati dal Tribunale speciale e dalle autorità di Salò». Bella faccia tosta! E al governo chi c’era? Il PCI. E ministro di Grazia e Giustizia chi era? Togliatti e Gullo! E l’articolista non si vergogna neppure ad ammetterlo. «Negli anni dal 1944 al 1947, benché alla sommità dello Stato vi fosse un governo antifascista composto anche di comunisti e di socialisti, e alla base si sviluppasse un largo movimento democratico di massa, l’apparato poliziesco, i carabinieri e, in taluni casi, l’esercito e le altre forze armate, intrapresero più volte azioni repressive, le quali testimoniavano dei loro permanenti e profondi legami con le forze politiche e sociali più reazionarie, del resto attivamente operanti all’interno della stessa coalizione governativa». Eccola la democrazia progressiva del PCI! Collaborazione con la polizia fascista e le forze politiche e sociali più reazionarie!
Continuiamo a leggere: «Scelba, ancor prima della rottura del governo tripartito, ebbe cura di disperdere, con trasferimenti e licenziamenti il personale di orientamento democratico». Ci vuole tutta la malafede e l’impudenza dello stalinista per muovere delle accuse a Scelba, quando Togliatti, ministro di sua Maestà, impartiva ordini di reprimere gli scioperanti «con la massima sollecitudine e con estremo rigore». I compagni e lettori si rivedano l’articolo “Dura Lex” su “Il Partito Comunista”, n. 263, dicembre 1998).
Il PCI, nel 1954, in tutto candore ammetteva che il personale di polizia, fin dall’immediato dopoguerra era composto da ex agenti dell’OVRA e comunque «dallo stesso personale che aveva servito il regime fascista», e su questo noi ci troviamo perfettamente d’accordo. Ci si dovrebbe immaginare quindi che il partito di Togliatti istigasse i lavoratori all’odio, o quanto meno al disprezzo, nei confronti delle forze dell’ordine fasciste repressive ed al servizio delle «forze politiche e sociali più reazionarie». Tutt’altro. Da “Battaglia Comunista” n. 13, dell’aprile 1948, si viene a sapere che: «La CGIL ha presentato con cuore paterno una lista di rivendicazioni economiche a favore degli agenti di P.S.». Lo stesso numero di giornale ci informa inoltre che «In una lettera aperta ai ragazzi della Celere e agli agenti di P.S. “L’Unità” del 25 gennaio ha elevato un inno alla auspicata “unione di sentimenti e alla solidarietà viva fra il popolo e coloro che sono chiamati a tutelarne la pace e la tranquillità”, ha rivendicato gli sforzi compiuti per “mantenere vivo l’amor di Patria nel corpo di P.S.”, ha fatto appello alla “sensibilità e amor proprio di uomini e di agenti” dei poliziotti, e –incredibile ma vero – si è vivamente raccomandata al loro buon cuore perché “quando uno di voi si trova ad eseguire certi ordini lo faccia senza perder la calma, lo faccia nel modo più umano, lo faccia sapendo che quegli operai, quei disoccupati, quei giovani non hanno nulla contro di voi, ma sono costretti a difendere la loro esistenza”. Che allegria: i proletari sappiano che il “giornale del popolo” è intervenuto presso i “ragazzi della Celere”, affinché quando usano gli sfollagente lo facciano con calma e... umanamente, ma comunque lo usino».
Abbiamo appena visto le cifre dei morti, dei feriti, degli arrestati,
dei condannati, degli anni di carcere subiti dai proletari a seguito dei
fatti del 14 luglio. E cosa faceva il PCI a favore di queste vittime della
repressione? «La direzione del PCI ha lanciato una sottoscrizione per
le vittime delle giornate di luglio: ne beneficeranno pure gli agenti di
polizia. Coraggio compagni, sottoscrivete, che la prossima volta i mitra
della polizia repubblicana non spareranno. O non si è forse detto, scritto
e stampato: viva la polizia?» (“Battaglia Comunista”, n. 27, agosto
1948).
La scissione sindacale
La CGIL si era ricostituita nel corso dell’ultimissima fase della guerra sulla base di un compromesso fra partiti e per iniziativa dei dirigenti sindacali appartenenti alle tre grandi organizzazioni di massa. Successivamente, a guerra finita, rispettando gli schemi di una presunta proporzionale, entrarono a far parte dei suoi comitati direttivi periferici i rappresentanti dei partiti minori che già avevano aderito ai C.L.N. Questo criterio prevalse fino alle elezioni sindacali dell’autunno 1945, in seguito alle quali gli organi direttivi risultarono costituiti in base alla percentuale dei voti raccolti da ogni corrente politica. Da allora e soprattutto dopo il Congresso Confederale di Firenze, la CGIL divenne monopolio dei nazional-comunisti, validamente coadiuvati dai socialisti. Ma questo stato di cose, risultante da rapporti di forza elettorali, non incrinò i rapporti di buon vicinato e di perfetta intesa tra nazional-comunisti, socialisti delle varie specie, democristiani, repubblicani, ecc. Tutti quanti furono concordi nella politica di subordinazione di ogni esigenza, anche primaria, del proletariato alla necessità della ricostruzione nazionale. In completo accordo si trovarono nello sconsigliare, impedire ed anche soffocare nel sangue i movimenti rivendicativi dei lavoratori che aspiravano a migliori condizioni di vita, si trovarono d’accordo nello sblocco dei licenziamenti, nel blocco dei salari, ecc, ecc.
Malgrado questa perfetta intesa strategica di tutte quante le componenti sindacali, fin dal giugno del 1947 il nostro partito aveva previsto la inevitabile spaccatura della Confederazione Generale e, commentando il congresso di Firenze, aveva scritto: «L’unità sindacale resta in piedi solo in virtù del compromesso (...) I nazional-comunisti si preoccupano di salvare la cosiddetta unità sindacale, su cui manovrano con la loro prevalenza organizzativa; i democristiani, avendo in mano il governo, si preoccupano di non perdere le masse. Tutto qui il senso del congresso: la confederazione unitaria dei lavoratori sta in piedi in virtù di un gioco misero di compromessi fra partiti. Nessun interesse proletario essa rappresenta, tutela o promuove. Tutto il resto è cornice». (“Battaglia Comunista”, n. 12, maggio 1947).
Nel dicembre 1947 si consumò la scissione sindacale in Francia con la formazione del sindacato filo-americano F.O. (Force Ouvrière). La spaccatura francese non poteva che rappresentare il preludio di analoga scissione in Italia perché non si trattava certamente di un problema interno, ma di una tendenza dei paesi sotto il dominio americano di inquadrare il proletariato, o una parte di esso, in organizzazioni asservite direttamente all’imperialismo dominante. «Ci siamo! L’ultimo atto di una commedia che durava ormai da diversi mesi ha avuto in Francia il suo epilogo e analogamente non mancherà di averlo anche in Italia. La scissione sindacale è all’ordine del giorno in tutti i paesi con lo stesso carattere di una ineluttabilità proprio al contenuto della nuova situazione internazionale che mette brutalmente di fronte i due massimi imperialismi e al grado di riconsolidamento ormai raggiunto dalla struttura economica, militare e poliziesca dei singoli Stati capitalisti» (“Battaglia Comunista”, 31 dicembre 1947)
All’indomani della scissione sindacale in Francia, il Comitato Direttivo della CGIL votò una risoluzione che riconosceva l’ormai avvenuta spaccatura dell’organo sindacale. Al primo punto di questo documento, «oltre a tutti i diritti democratici di opposizione e di critica», veniva sancito alle frazioni di minoranza «il diritto a rendere pubblica la loro opposizione ad eventuali decisioni che non incontrino l’unanimità». Al secondo punto si stabiliva che «quando una decisione non raggiunge l’unanimità, la minoranza ha il diritto di estraniarsi dalla manifestazione». Praticamente la risoluzione riconosceva alla minoranza il diritto al sabotaggio e legalizzava uno stato di fatto che si concretizzava nella sistematica opposizione alle iniziative della maggioranza da parte della corrente democristiana, con eventuali appendici saragattiane e repubblicane. Ed era perciò naturale che al punto n. 3 sancisse una sanatoria «per tutti i casi di indisciplina verificatisi nel passato». Cosa che era quanto dire: non solo d’ora in avanti l’unità sindacale non esiste più, ma ha già cessato di esistere da tempo e noi ne prendiamo atto. Va da sé che questo rappresentava una completa vittoria da parte democristiana, tanto che lo stesso Togliatti, al VI congresso del suo partito aveva affermato, in polemica con Di Vittorio, che i sindacati avevano pagato troppo caro il prezzo dell’unità.
«L’unico commento che si può aggiungere a quanto abbiamo già scritto – si legge in “Battaglia Comunista” n.1 gennaio 1948 – è che i nazional-comunisti nostrani sono restii a prendere posizione aperta in una lotta che ha tolto già molte penne ai loro colleghi francesi. Essi subiscono l’iniziativa e perdono terreno quasi senza resistere. Perciò ha anche torto Togliatti a muover rimprovero a Di Vittorio e compari: la politica di questi ultimi non è che una faccia della politica del partito “nuovo”, un aspetto della sua esitazione a scottarsi le mani al fuoco del conflitto imperialistico. Il guaio, per loro e per la classe operaia, è che le mani saranno costretti, volenti o nolenti, a scottarsele ugualmente. Frattanto i democristiani, eredi del sindacato giallo, hanno riportato un’altra vittoria: ne sia lode ai sindacalisti della democrazia progressiva!».
Un ulteriore passo verso la scissione si ebbe all’indomani delle elezioni del 18 aprile, e sempre per iniziativa democristiana, con la costituzione della «Alleanza delle Minoranze Sindacali per l’unità e l’indipendenza dei sindacati» che raccoglieva le forze sindacali dei tre partiti di governo.
L’unità di classe del proletariato, di fatto, non era mai esistita poiché l’organizzazione unica era diretta emanazione del potere capitalista statale e dell’imperialismo vincitore, ed anche l’unità formale, quella uscita sotto il controllo dei Comitati di Liberazione Nazionale rispondeva alla necessità capitalista della ricostruzione nazionale. Tale unità aveva ormai pienamente assolto il suo compito, impedendo, nell’immediato dopoguerra, la riorganizzazione di classe del proletariato, operazione alla quale erano parimenti interessati tutti quanti i paesi, ed in modo particolare Stati Uniti ed Unione Sovietica. Con l’acuirsi degli antagonismi tra i due imperialismi, anche il mito dell’unità dei lavoratori doveva essere infranto.
Il nostro partito interpretava la scissione sindacale come semplice corollario ad azioni e direttive politiche che prendevano le mosse dalla estromissione dei socialcomunisti dal governo, in altre parole, per gli interessi capitalistici nazionali ed internazionali la necessità dell’unità nazionale era ormai superata, cioè la ricostruzione dello Stato aveva raggiunto un punto tale che si riteneva superflua la collaborazione di forze politiche che si opponevano solo sul piano della politica estera.
I tempi erano ormai maturi perché la scissione sindacale si ufficializzasse anche in Italia, bisognava solo attendere un fatto che servisse da pretesto. Questo fu offerto dallo sciopero generale promosso in seguito all’attentato a Togliatti. La pretestuosità dell’argomento è evidente: l’esecutivo della CGIL, riunitosi solo nel tardo pomeriggio del 14 luglio, non aveva proclamato nessuno sciopero generale perché questo era già in atto in modo massiccio e totale, diede solo direttive per la sua attuazione (ne escluse i lavoratori dell’elettricità e di altri servizi essenziali), allo scopo di riassorbire la protesta operaia e riportare l’ordine sociale. I rappresentanti democristiani non solo non si erano dissociati dalle direttive dell’Esecutivo, ma in linea di massima vi avevano aderito. E quando la minoranza democristiana (come Mussolini nel 1922) impose la immediata cessazione dello sciopero, l’ordine venne prontamente eseguito da Di Vittorio (proprio come Buozzi e D’Aragona avevano fatto nel 1922). Se l’esecuzione dell’ultimatum di De Gasperi venne ritardata di mezza giornata non fu per indisciplina agli ordini governativi, ma per l’impossibilità materiale di fare rientrare in così breve tempo una vera e propria rivolta operaia che, in alcuni casi, aveva assunto il carattere di insurrezione.
La corrente democristiana abbandonò la CGIL per dare vita ad una nuova “libera” organizzazione sindacale, chiese ed ottenne che le venisse liquidata la parte a lei spettante del patrimonio finanziario della Confederazione. Si ripeteva la farsa della rottura del tripartito.
Non a caso il documento dell’esecutivo del nostro partito portava questo inequivocabile titolo: «Non scissione sindacale ma divisione di compiti fra ladroni» e al suo interno dichiarava: «Da oggi due confederazioni sindacali si contenderanno il vostro voto, il vostro appoggio, i vostri contributi. L’una vi alletterà con la lusinga dei legami che la uniscono al governo e della maggiore influenza che potrà esercitare su di esso; l’altra vi chiamerà a raccolta sotto le vecchie bandiere di una tradizione di lotta, cercando di riguadagnare dalla esclusione del sindacalismo confessionale una verginità proletaria da troppo tempo e per sempre perduta. La verità è che né l’uno né l’altro dei due organismi possono pretendere di rappresentare i vostri interessi e le aspirazioni dei lavoratori contro gli interessi e la volontà di conservazione del capitalismo rappresentati dall’altra: si sono divisi per le stesse ragioni che hanno spezzato i governi del tripartito, perché le forze politiche che li guidano – democristiani da una parte socialisti e nazional-comunisti dall’altra – non sono che l’edizione nazionale di forze internazionali capitalistiche in conflitto. Sono, l’uno e l’altro, i sindacati dell’imperialismo e della guerra, perché sono diretti da partiti di conservazione borghese legati agli interessi capitalistici di Occidente o di Oriente, di America o di Russia (...) Entrambi legano il sindacato allo Stato borghese di cui detengono le leve come agenti dell’America o di cui aspirano ad ottenere il controllo come agenti della Russia. È per questa ragione che anche le correnti minoritarie, saragattiana e repubblicana, che oggi dichiarano di rimanere come fattori di conciliazione e di arbitrato nella vecchia CGIL saranno inevitabilmente portate in prosieguo di tempo, in quanto forze di rincalzo dell’imperialismo americano, a farsi promotrici di nuove, irreparabili scissioni».
E “Battaglia Comunista” n. 27 dell’agosto 1948 titolava: «Due Organizzazioni Sindacali Due Armi dell’Imperialismo». Nell’articolo si legge: «A partire da questo momento avremo due centrali sindacali che, anche se formalmente opposte, saranno sostanzialmente unite nell’opera di divisione della classe operaia e nel suo asservimento alla politica imperialistica e di guerra dei due blocchi (...) Gli sviluppi della avvenuta scissione non mancheranno di avere conseguenze che non è per nulla esagerato chiamare tragiche. Gli operai si troveranno di fronte all’offensiva padronale e governativa più disarmati di quanto lo siano stati fino ad oggi, e, nell’illusione di poter difendere le loro già precarie condizioni di vita, seguendo la via segnata dai due tronconi confederali, precipiteranno verso un maggior sfruttamento e alla fine nell’abisso di una nuova guerra».
Sotto il patrocinio dei sindacati americani e dei dollari del governo
americano nasceva la LCGIL (Libera CGIL) composta esclusivamente dalla
corrente democristiana e clericale, la quale però dichiarò il proprio
carattere aconfessionale e quindi di apertura nei riguardi di tutti quanti
i lavoratori. Segretario generale fu Giulio Pastore. Pochi mesi dopo una
nuova scissione interessava la CGIL, socialdemocratici e repubblicani si
staccavano per dare vita alla FIL (Federazione Italiana dei Lavoratori).
Dietro invito (si legga “finanziamento”) americano la FIL confluì
nella LCGIL dando vita alla CISL, costituita ufficialmente il 1° maggio
1950. La minoranza della FIL, restata “autonoma”, si aggregò ad un
gruppo socialista di nuova scissione dalla CGIL formando la UIL.
Il primo documento che qui ripubblichiamo fa un’eccezione alla nostra consueta regola perché è cronologicamente sfasato rispetto agli argomenti della Storia della Sinistra che vengono trattati su questo numero di “Comunismo”. Lo spunto lo abbiamo preso dall’episodio che abbiamo citato tratteggiando il profilo politico di Enrico De Nicola, e cioè della fuga di fronte alla sfida di un confronto oratorio lanciatagli dal rappresentante della Sinistra. Dalla lettura di questo documento, che per quanto breve svolge in modo magistrale una spietata critica a tutto il ventaglio della ideologia democratica di destra e di sinistra, possiamo farci un’idea di quale abisso separi la dottrina comunista rivoluzionaria dalle contorsioni politiche degli attuali sedicenti “comunisti” che strisciano servilmente ai piedi dei simulacri di una democrazia inesistente.
Non è perché anche noi siamo stati contagiati dallo smanioso desiderio di appellarci al nome dell’illustre maestro che riproduciamo un documento con tanto di nome e cognome, ma semplicemente perché al contraddittorio con De Nicola, se non fosse fuggito, si sarebbe presentato quel dato compagno.
Erano i primissimi giorni dell’aprile 1924: la ricorrenza elettorale cadeva quando già da un anno e mezzo il fascismo si trovava al potere, tutti i partiti borghesi e le personalità di spicco facevano quadrato attorno ad esso per sferrare, anche da un punto di vista democratico-legalitario, l’ultimo definitivo attacco al movimento proletario ed al suo partito e suggellare quella dittatura di classe che avrebbe permesso alla borghesia di mantenere saldo il potere politico ed economico, scongiurando il pericolo di futuri attacchi rivoluzionari.
La nuova legge elettorale, che aveva preso il nome da Acerbo, approvata nel pieno rispetto delle prerogative democratiche, era stata preparata in modo tale da dover dare comunque la vittoria alla lista di governo. Come nella lista presentata dal governo fascista, accanto a famigerati “ras” incendiari ed assassini, figuravano i più bei nomi della tradizione liberal-democratica, anche le elezioni si svolsero in un clima che vide ben amalgamato il formalismo democratico e legalitario con la violenza brutale per impedire la partecipazione al voto degli oppositori e raccogliere suffragi a suon di manganello.
Questo clima di violenza e di intimidazione, peraltro già ampiamente sperimentato dai vecchi santoni del liberalismo classico – Giolitti in testa – aveva spinto la nuova dirigenza centrista del PCd’I a caldeggiare la tattica dell’astensionismo camuffandosi dietro argomentazioni che, a seconda dei casi, tentavano di appropriarsi delle tesi della Sinistra o piagnucolavano sulla mancata libertà di espressione. Come se in pieno regime di democrazia e di libertà le elezioni riproducessero la effettiva volontà delle masse. Il meccanismo democratico elettorale, rammentammo ai nostri dimentichi compagni, è fatto per dare una necessaria e costante risposta: regime borghese, regime borghese. Anzi, arrivammo a dire molto di più (inorridisci Don Fausto!): «Chi ha la forza di fare imposizioni e truffe elettorali, viola i canoni della democrazia, ma si dimostra attrezzato a lottare su altri terreni, con efficienza che i rivoluzionari dovranno ben calcolare. In altri termini non ci scandalizzano le violenze e le pastette elettorali del fascismo (...) La concezione comunista della tattica elettorale e parlamentare, logicamente non esclude neppure da parte nostra la pastetta. Se potessimo fare ’pastette’ e fugare elettori avversari dalle urne, sarebbe confortante, perché saremmo più vicini a poter spiegare forze mature per l’offensiva (...) La democrazia ha fatto il suo tempo (...) lungi dal restaurare gli ideali su cui piangono i vari Amendola e Turati, la rivoluzione delle grandi masse di occidente li farà assistere ad una satanica girandola di calci nel culo a Santa Democrazia, mai vergine e sempre martire. E soltanto quella si potrà chiamare liberazione» (“L’Unità”, 16 aprile 1924). Quindi, fu proprio la Sinistra, convinta assertrice della tattica dell’astensionismo rivoluzionario, a spingere la centrale a raccogliere la sfida dello Stato demo-fascista ed a praticare l’azione leninista del parlamentarismo rivoluzionario.
Troppo comodo era, quando non venivano corsi dei pericoli, camuffare la tattica parlamentarista piccolo borghese ed opportunista dietro la facciata del leninismo e della disciplina ai deliberati dell’Internazionale. Se il parlamentarismo doveva essere “rivoluzionario” quale migliore occasione poteva essere rappresentata se non da quella delle elezioni del 1924 che vedeva i vecchi ed i nuovi partiti borghesi, i santoni della legalità e gli assertori delle dittatura, organicamente uniti e sicuri di una clamorosa vittoria garantita loro dalla adesione compatta delle forze democratiche, da una legge elettorale varata ad uso e consumo del partito di governo e dei suoi alleati, dalla violenza e dal terrore che il fascismo seminava da un capo all’altro della penisola?
Fu la tattica che la Sinistra riuscì ad imporre al partito a determinare il successo ottenuto dal PCd’I (stranamente gli storici ufficiali del PCI tipo Ragionieri e Spriano evitano di metterlo in evidenza) che permise di conquistare 19 seggi, rispetto ai 15 che aveva nel 1921. «Proprio al fatto che ci siamo presentati con un programma unico si deve il grande successo del PC alle elezioni, malgrado l’offensiva governativa lanciata prima di tutto contro le nostre liste e contro il nostro lavoro elettorale (...) Anche elementi non comunisti hanno votato per le liste comuniste perché vedevano nel comunismo l’antifascismo più chiaro e radicale, il più netto rifiuto di ciò che essi odiavano (...) Le masse ci hanno dato il voto perché eravamo comunisti, perché dichiaravamo apertamente guerra al fascismo, perché gli avversari ci definivano inconciliabili» (Rapporto al V Congresso del Komintern).
* * *
Oggi, che il blocco cosiddetto sovietico è schiantato sotto il peso delle leggi dell’accumulazione capitalista, proprio come la nostra invariante dottrina aveva previsto ed annunciato, affermare che nella fu Unione Sovietica, come negli Stati ad essa assoggettati a seguito della seconda guerra interimperialista, non vi fosse la minima base di socialismo, ma esclusivamente capitalismo di Stato, può anche essere generalmente accettato. Ma ciò non lo era nel 1948. Allora eravamo i soli a proclamare apertamente che da ambo i lati della cortina di ferro il modo di produzione capitalistico aveva trionfato ed imposto la sua ferrea legge al proletariato internazionale, quantunque apparentemente, ma solo apparentemente, assumesse forme diverse.
Il secondo articolo che ripubblichiamo evidenzia questo aspetto dimostrando come, all’atto pratico, il capitalismo, proprio perché era soggetto alle medesime leggi, dovesse adottare i medesimi provvedimenti anche se, a seconda dei paesi dove essi venivano presi, fossero presentati sotto etichette diverse: liberalismo ad occidente, socialismo ad oriente, mentre in effetti rappresentavano la negazione sia del liberalismo sia del socialismo. In altri lavori dichiarammo esplicitamente la vittoria del metodo fascista, in campo politico ed in campo economico.
Il proletariato purtroppo non avendo preso atto della vittoria totale della controrivoluzione, ispirato dai partiti opportunistici ai quali era aggiogato, guardava alle “realizzazioni” del capitalismo statale di marca moscovita come a successive tappe che, progressivamente, avrebbero portato i fortunati fratelli di oltrecortina al raggiungimento, in un futuro non lontano, della società senza classi perché senza “padroni”. Dal canto loro i fortunati fratelli di oltre cortina che assaporavano sulle loro carni i benefici delle realizzazioni “socialiste” avrebbero visto nel “comunismo” non la liberazione dallo sfruttamento, ma la peggiore schiavitù salariale.
A turlupinare la classe operaia, oltre ai partiti di ispirazione stalinista, contribuivano quei gruppi (trotskisti in testa) apparentemente rivoluzionari, che denunciavano la degenerazione dell’internazionale comunista, del partito e dello Stato russo, ma che tuttavia ad esso garantivano la qualifica di “Stato operaio” ed anticapitalista. Non che questo, a scala sociale e storica, abbia determinato nulla, data la inconsistente presa della loro ideologia piccolo borghese sulla classe operaia e soprattutto data la capacità dello stalinismo a mantenere il monopolio del controllo sul proletariato: controllo ideologico nel “libero” occidente, controllo armato nei paesi del “comunismo reale”. Ma il problema era ed è un altro. Il problema era (ed è) che quando il proletariato avesse avuto la capacità si spezzare sia i vincoli della legalità borghese, sia quelli dell’interclassismo ideologico dei partiti staliniani, avrebbe trovato sulla sua strada le sirene di organismi sedicenti rivoluzionari che, rivendicando nobili tradizioni, e discendenze da egregi rivoluzionari, avrebbero cercato di intercettarlo e di deviarlo su falsi obiettivi piccolo borghesi ritardando ancora il naturale ricongiungimento della classe con il genuino partito comunista rivoluzionario.
Il gradualismo, il vedere il nemico non nella sua totalità, la pretesa di individuare sempre il peggiore dei mali contro il quale combattere separatamente, unito ad un volontarismo esasperato, tutto questo comporta non solo la perdita dell’orientamento rivoluzionario, ma, quello che è peggio, addirittura l’asservimento, senza volerlo, ad uno dei blocchi imperialistici contendenti che per quanto possa essere il più debole non è certo il meno feroce nei confronti della classe operaia.
Ieri si trattava di “preferire” la Russia “socialista” all’America imperialista. Oggi che, come si è detto, a causa della crisi economica la variante Sovietica è stata eliminata dalla scena i “nemici dell’imperialismo” scoprono una nuova dimensione contro cui combattere: la “globalizzazione”. Non più il capitalismo, non più l’imperialismo sarebbero i mostri dai quali l’umanità dovrebbe liberarsi, ma semplicemente da un suo moderno aspetto. Se al posto dell’etichetta “globalizzazione” fosse stata messa quella di “socializzazione” forse la cosa sarebbe stata accettata. Ma la globalizzazione, come si vede dall’articolo del 1948 che ripubblichiamo, come viene spiegato negli articoli del nostro giornale, come venne spiegato all’inizio del 1900 da Lenin, la globalizzazione è il capitalismo.
«Per il capitalismo sono divenuti angusti i vecchi Stati nazionali senza la cui formazione esso non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo. Il capitalismo ha sviluppato a tal punto la concentrazione, che interi rami dell’industria sono in mano di sindacati, di trust, di associazioni di capitalisti miliardari, e quasi tutto il globo è diviso tra questi “signori del capitale”, o in forma di colonie o mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri. Il libero commercio e la concorrenza sono stati sostituiti dalla tendenza al monopolio, dall’usurpazione di terre per impiegarvi dei capitali, per esportare materie prime, ecc. Da liberatore delle nazioni, quale era nella lotta contro il feudalesimo, il capitalismo, nella fase imperialista, è divenuto il maggiore oppressore delle nazioni. Da progressivo il capitalismo è divenuto reazionario; ha sviluppato a tal punto le forze produttive che l’umanità deve passare al socialismo o sopportare per anni, e magari per decenni, la lotta armata tra le “grandi” potenze per la conservazione artificiale del capitalismo mediante le colonie, i monopoli, i privilegi, e le oppressioni nazionali di ogni specie».
Ma una forma di “conservazione artificiale del capitalismo”, che se ne rendano conto o no poco importa, è la cosiddetta lotta contro la “globalizzazione”: in primo luogo perché non si pone neanche il problema della distruzione del capitalismo ma soltanto tende a riportarlo ad una sua “purezza” che, come Lenin spiega, non ha mai posseduto; ma soprattutto l’anti-globalizzazione diventa strumento ideologico di opposizione allo strapotere degli Stati Uniti da parte dell’imperialismo europeo ancora non in grado di fare la voce grossa contro il padrone, ma che tuttavia mobilita i suoi ideologi e la sua opinione pubblica. Se gli Stati Uniti “cristianamente” facessero parte all’Europa delle loro riserve di rapina non ci sarebbe opposizione. E da un punto di vista della “Giustizia” borghese ciò è indubbiamente vero: perché accontentarsi degli “avanzi” quando gli altri, i “globalizzatori” affondano i loro artigli sul mondo intero e con la forza della finanza e dell’esercito si arrogano il diritto di controllare materie prime, produzione e mercato?
Così i nemici della “globalizzazione” oggi, come i nemici dell’“imperialismo americano” ieri, non si battono contro il regime capitalista, ma per una più “equa” ripartizione delle risorse: lotta per “un posto al sole” delle “nazioni proletarie” contro le “plutocrazie internazionali” di mussoliniana memoria.
Noi con Lenin affermiamo che si tratta di lotta tra schiavisti non
per l’abbattimento ma per il rafforzamento della schiavitù e che quindi
il compito dei rivoluzionari non è quello di aiutare il brigante minore
contro quello maggiore, ma di «servirsi della guerra tra briganti per
abbatterli tutti».
DISCORSO DI AMADEO
BORDIGA...
SE DE NICOLA NON FOSSE FUGGITO
Napoli, 4 [aprile 1924]
Il Comitato Campano per la lista dell’Unità Proletaria comunica:
Avendo la stampa quotidiana riportato il testo del discorso che l’on. Enrico De Nicola rinunziò a pronunciare alla Sala Maddaloni, questo Comitato ha incaricato il compagno Amadeo Bordiga di redigere una risposta al discorso stesso. Il testo di questa risposta sarà diramato alla stampa quotidiana, nella sicurezza che per ragioni di obiettività si vorrà pubblicarlo.
Per il Comitato: Ugo Girone.
Eccovi il testo della risposta del compagno ing. Amadeo Bordiga all’on. Enrico De Nicola.
«L’on. De Nicola, nella sua esposizione dei motivi che hanno determinato nella presente lotta elettorale la convergenza di una parte notevole delle forze democratiche e liberali col movimento fascista, non ha potuto dare una spiegazione desunta dal punto di vista della portata teorica e storica dei due movimenti. Egli si è limitato ai noti argomenti della necessità di evitare la esasperazione del fenomeno fascista e di inalvearlo nelle vie costituzionali e della particolare situazione del movimento liberale del Mezzogiorno. Questi argomenti non hanno offerto all’insigne oratore, una base sufficiente per potersi spingere a precisare la sua attitudine dinnanzi ai caratteri salienti del fascismo, all’aperto, confessato, tutt’ora minacciato illegalismo, all’uso sistematico della violenza civile, all’ambiente nel quale si svolgono le attuali elezioni. E nulla egli ci ha detto sul problema costituzionale se non delle contingenze piccine che possono aver avuto peso nel mondo delle coulisse parlamentari.
Tenteremo noi, dal punto di vista della nostra dottrina marxista, opposta
a quella dei liberali, come a quella dei fascisti, di arrivare alla spiegazione
delle convergenze suaccennate, per noi del tutto logiche e naturali.
L’inganno liberale
Il liberalismo dottrinario, classico, della evoluzione democratica e borghese viene da noi considerato come un grandioso inganno. La eguaglianza e la libertà politica vengono proclamate dalle classi capitalistiche, giunte al potere con l’abbattimento del potere feudale, perché corrispondono ai loro interessi e consentono, sotto la loro maschera, la fondazione di nuovi privilegi e le disuguaglianze di classe. Non occorre ripetere i termini di questi criteri ben noti; basta ricordare che, nella fase iniziale del suo dominio, la borghesia si mantiene ostinatamente fedele a questa sua fisionomia liberale, la quale, nella accettazione ortodossa della teoria, esclude la esistenza di partiti organizzati al di là della funzione parlamentare. Da questo risulta per noi ben spiegato, senza scendere alle molte considerazioni particolari, perché il liberalismo non abbia una organizzazione in Italia e perché esso abbia maggior forza nel Nord, paesi di borghesia molto avanzata.
L’oratore liberale col suo inno al fascismo non ha potuto parare in minima parte i colpi che ad esso sono portati dalla storia.
Non è più solo la nostra critica teoretica e l’indirizzo moderno
della avanguardia proletaria verso metodi e fini che superano e condannano
l’illusione democratica, ma è la stessa classe borghese che scatena
un movimento antiparlamentare, non pure in una critica dottrinale, ma in
manifestazioni irruenti e in violazioni spietate la cui evidenza è bene
al di sopra di ogni eloquente contraddizione.
L’offensiva capitalistica
E che cosa è il fascismo? Esso non ci presenta una dottrina così classica, elaborata come quella che anima l’ideologia politica dell’on. De Nicola, ma questo non ci toglie il modo di intenderlo. Una offensiva delle classi capitalistiche contro la minaccia di rivoluzione, anzi contro lo stesso tenore di vita delle classi lavoratrici, è oggi fatto mondiale che si impone come conseguenza della guerra e dei suoi incalcolabili danni economici. Il proletariato dei vari paesi e del nostro, non poteva non attaccare con programma di massima conquista. Il capitalismo doveva ugualmente muovere contro tutte le manifestazioni dell’attività proletaria, essendo una condizione della sua resistenza alla grande crisi la depressione della remunerazione del lavoro. In questa fase le classi dominanti, laddove ha più squisito sviluppo l’economia borghese, non esitano a contraddire la dottrina liberale ed a porre, in modo finalmente esplicito, il problema delle forze, riconoscendo così nei fatti la verità della lotta di classe. La ideologia liberale-parlamentare è buttata via, ma siccome la borghesia non rinuncerà mai, anche quando spiega la più brutale violenza, a tentare di mobilitare a suo favore la ideologia delle altre classi, così viene ritentata una nuova dissimulazione della lotta di classe con le formole prese a prestito dalla dottrina relativamente recente del nazionalismo imperialista.
In Italia il fascismo non dà soluzioni troppo brillanti del problema
teorico, ma, liberandosi di ogni pudore democratico, presenta una soluzione
poderosa del problema organizzativo. Si tratta di uno dei due metodi per
la difesa dello stesso regime. La loro applicazione si distingue per contingenze
storiche e geografiche, ma, anche in un paese più moderno e più omogeneo
socialmente del nostro, i due metodi, lungi dall’escludersi, possono
e devono alternarsi e addirittura integrarsi. Nulla vi è dunque di strano
che il fascismo si adatti a un riconoscimento esteriore dei principi democratici
e costituzionali, non potendo arrivare a compiute conseguenze dei principi
teorici originali, e che il liberalismo si inserisca nella potente rete
organizzativa del movimento fascista. Nulla vi è di strano alla condizione
che si ammetta nel campo della discussione come affermata definitivamente
la validità della critica marxista, contro i tentativi di spiegazione
delle altre scuole, sia la liberale-democratica, sia la nazionale-fascista.
Le classi medie
Invece liberali e nazionalisti ricusano tutt’ora di essere gli esponenti della grande borghesia; non solo. Gli uni vogliono anche parlare alle classi proletarie in nome dell’idilliaca evoluzione democratica e progressista; i secondi, in nome degli interessi e dei destini nazionali. Su di essi non ci tratterremo ulteriormente. Ma è caratteristico che gli uni e gli altri ci si vogliano presentare come i partiti capaci di inquadrare il movimento sociale delle classi medie e dell’intelligenza.
Notiamo anzitutto come le due affermazioni si distruggano a vicenda:
il fascismo vuol parlare in nome di una nuova classe dirigente, formata
da reduci di guerra e che spodesta la vecchia borghesia parassitaria della
industria, della banca e dell’agricoltura. Giolitti e i liberali, e persino
De Nicola, affermano, alla loro volta, di difendere quei ceti e reclamano
alla funzione della media borghesia intellettuale, tutta la tradizione
storica del liberalismo italiano. In realtà gli avvenimenti contemporanei
in Italia dimostrano ancora una volta la impossibilità di una funzione
autonoma dei ceti intermedi. Questi non hanno saputo, in tanti anni di
storia parlamentare, giungere al governo democratico-socialista e sottrarsi
all’effettiva potenza degli industriali, agrari e banchieri, cui hanno
dato solo il servizievole personale dei professionisti della politica.
Poi hanno rinculato con orrore dinanzi alla minaccia della dittatura del
proletariato, scioccamente da essi confuso col governo della società da
parte dell’ignoranza e della incompetenza. E hanno questi ceti medi creduto
di trovare un loro sbocco nel fascismo, credendo di far cosa originale
e indipendente. Ma il fascismo si presenta oggi come il partito dei grandi
ceti profittatori tra loro alleati, che in una organizzazione unitaria
e di straordinaria saldezza, hanno inquadrato e mobilitato per sé, con
tutti i mezzi fortissimi contingenti delle altre classi e soprattutto di
quelle intermedie. Se questo non fosse dimostrato da tutti – nessuno
escluso – gli atti del potere fascista in tutti i campi della sua tumultuosa
attività; se non fosse evidente in tutti che la lista nazionale è la
lista dei grandi banchieri, degli alti speculatori, dei grandi industriali,
dei siderurgici, degli armatori, dei grandi latifondisti e dei capitalisti
agrari, non si spiegherebbe, da parte delle classi medie, l’atteggiamento
ostile che esse hanno assunto verso il governo e la lista fascista nelle
regioni meridionali, dove è evidentemente più difficile il predominio
assoluto dei più elevati strati borghesi.
I comunisti e la democrazia
Noi non attendiamo dai liberali la reazione contro la sopraffazione
fascista e non conteniamo la nostra accusa ai fascisti sul fatto che essi
hanno bistrattato la democrazia. Noi sappiamo che una libertà fondata
soltanto sui canoni giuridici e su consultazioni schedaiole non è che
una nuova minaccia impotente a garantire altro che il cittadino ideale
della Repubblica borghese, quello che ha nella biblioteca i classici dell’enciclopedia
e nel grosso gonfio portafoglio i titoli di possesso fondiario e le azioni
delle grandi anonime. Noi non chiediamo ai democratici e liberali la difesa
della libertà e del diritto alla vita di chi possiede solo la forza del
suo braccio e della sua mente. Non rifiutiamo al fascismo il sollazzevole
funerale dell’istituto parlamentare ed elettorale, ma la nostra condanna
della democrazia non suona all’unisono con quella fascista oltre che
per tutto il nostro orientamento critico e storico anche per questo; che
noi non abbiamo chiesto che si immolassero all’ideale della democrazia
milioni di vittime, così come hanno fatto i fautori della guerra democratica
ai quali il fascismo riporta la tradizione delle sue origini. Noi non abbiamo
bandito una crociata contro il Kaiser per farci poi propugnatori del suo
metodo politico di governo: noi, se fossimo in condizioni ben diverse dalle
attuali, non maschereremmo sotto menzogna di perequazione giuridica tra
i cittadini e anche tra gli italiani, l’aperta dittatura di una classe
vincitrice.
L’avvenire del Comunismo
Ma voi, si risponderà, che pretendete erigervi a critici altrui, siete oggi sconfitti e condannati; su voi pesano due fallimenti; quello della costruzione socialista in Russia e quello della rivoluzione in Italia. Non è qui possibile svolgere ampiamente il tema della posizione politica del nostro partito internazionale, e all’infuori della responsabilità di queste sconfitte, le sconfitte sono o contengono in potenza i mezzi per capovolgerle un giorno. Qui diciamo solo questo; che innanzi al preteso nostro fallimento, cui si contrappone per la Russia la invincibilità dello Stato rivoluzionario e delle sue potenti armate e per l’Italia una fede che non dovete illudervi sia uscita dai cuori proletari, ben altro fallimento si presenta: quello mondiale del sistema economico capitalistico di cui le manifestazioni sono evidenti da un capo all’altro di Europa e del mondo, e del quale sono ben lungi dall’essere una smentita le effettive condizioni del nostro paese, guardato al di fuori del bluff elettorale. E nostro conforto, oltre i risultati inconfutabili dell’esame della situazione del dopoguerra, la gravità della cui lesione ha lo stesso on. De Nicola voluto, è la storia di tutto il movimento proletario, il quale ha, cento volte, da amare prove e dure disfatte, tratta l’esperienza e la forza per l’ulteriore riscossa, sempre ricongiungendosi a sé stesso, al di sopra delle barriere tra i popoli e delle parentesi truculente di controrivoluzione, nella continuità di una missione che nessuna forza potrà attraversare».
(L’Unità, 5 aprile 1924)
Da “L’Internationaliste”
- bollettino della frazione belga - maggio 1948,
ripubblicato in “Battaglia Comunista”, nn. 21
e 22 del giugno 1948.
LO STATO
Consiglio di Amministrazione della Borghesia
La trasformazione della proprietà privata in proprietà statale dei mezzi di produzione non sopprime il capitalismo. Quest’affermazione non ha nulla di nuovo: L’ha già fatta Engels. E tuttavia è necessario ricordarla e ricordarla agli altri. In realtà, è ormai corrente indicare come applicazione pratica del marxismo il passaggio dalla proprietà privata alla proprietà di Stato. Ma così non è. Il passaggio alla proprietà statale, il dirigismo, la pianificazione, non hanno nulla a che vedere né col marxismo né col socialismo. In Russia, come in tutti gli altri paesi, noi assistiamo infatti alla trasformazione del capitalismo dei trust in capitalismo di Stato.
Ma perché, dunque, gli si applica l’etichetta marxista? Perché, grazie ai riformisti ed agli staliniani, gli operai pensano che la nazionalizzazione rappresenti una tappa verso il socialismo. Perché è necessario orientare gli operai verso un ordine di cose che in definitiva li piega alla schiavitù economica e politica nei confronti dello Stato nazionale.
La riforma della Banca Nazionale in Belgio realizza di fatto il controllo totale ed incondizionato dello Stato su di essa: e tuttavia non si parla, in Belgio, di nazionalizzazioni. Le stesse misure applicate in Cecoslovacchia, Inghilterra, Francia o Polonia sarebbero proclamate come vittorie del socialismo, come applicazioni pratiche del marxismo. In Belgio, essa, realizzata dai “reazionari” del P.S.C. e dai “progressisti” del P.S.B., non è chiamata nazionalizzazione e neppure applicazione pratica del marxismo. Questo unicamente perché i provvedimenti che la borghesia attua per salvarsi sono una cosa, e il nome che affibbia loro è un’altra.
Le misure che la borghesia prende per salvarsi sono determinate dalle grandi correnti mondiali, dalle necessità di funzionamento del sistema a scala internazionale nella forma di una polarizzazione dei centri di gravità a Mosca e Washington. La riforma della Banca Nazionale del Belgio è, innanzi tutto, condizionata dalle necessità del finanziamento della ricostruzione nel quadro del piano Marshall, nel quadro dunque di una integrazione del capitalismo belga nella sfera d’influenza degli USA. Le stesse misure prese nei paesi controllati dall’URSS hanno per scopo di realizzare esattamente la stessa integrazione di quei paesi nel blocco slavo. Queste due categorie di misure, le occidentali come le orientali, non hanno dunque nulla a che vedere col marxismo, sono le misure preliminari alla costituzione dei blocchi di nazioni che si affronteranno nella terza guerra mondiale. E’ questo il significato delle recenti nazionalizzazioni cecoslovacche, allo stesso modo di quelle che, in tutti i paesi occidentali (Patto a Cinque, riforma della Banca Nazionale Belga, etc), sono misure di applicazione del piano Marshall.
Il capitalismo non può più vivere che mediante l’economia di guerra, preparando e facendo la guerra. Questo postulato fu stabilito da Lenin subito dopo la fine delle guerre coloniali (1900/1910), e ha trovato una impressionante conferma negli avvenimenti successivi. Il sistema capitalista non può più funzionare “da solo” come all’epoca liberale: ha bisogno ad ogni momento di un intervento dirigista dello Stato. Ecco perché, ad onta di un liberalismo di pura facciata, gli Stati Uniti e gli altri paesi hanno dovuto preparare, prima ancora che la guerra finisse, dei piani di rapida “riconversione” per evitare che l’arresto della produzione di guerra determinasse una crisi economica profonda, suscettibile di degenerare in crisi sociale e politica. Questa “riconversione” ha già storicamente esaurito le sue possibilità (in America) nel corso dell’anno passato. Il capitalismo ha potuto evitare la crisi solo intervenendo in modo pianificato e dirigista per spronare verso nuovi obiettivi l’attività economica.
L’attività economica che si compie sotto l’etichetta del piano Marshall non è che la più formale condanna del liberalismo di facciata degli Stati Uniti: è il risultato di un intervento dirigista deciso in vista dell’imminenza di una crisi economica nell’industria americana, ed è già iscritta nella fase montante della preparazione di una nuova guerra generalizzata. E’ un elemento organico, di classe, che obbliga la borghesia americana ad agire così: questo elemento è il fatto che il capitalismo non può funzionare nella sua forma liberista; il fatto che nella situazione attuale, il capitalismo non può vivere che riducendo continuamente il livello di vita delle masse. Ciò lo obbliga a prendere delle misure per mettere in moto la produzione, la quale non può essere che produzione di guerra ed abbassare ancor di più il tenore di vita delle masse operaie. Questo cemento sociale, esso lo trova nelle idee generali sulla società: il cemento che tiene insieme il capitalismo nel blocco americano è la diffusione dell’idea “liberista”, che non ha più alcuna base reale ma il cui sfruttamento mira a ricordare alle masse la “prosperità” passata: a cemento sociale che tiene insieme il capitalismo di Stato nel blocco slavo, è l’idea largamente diffusa che in quei paesi si prepara il socialismo.
Così, le misure prese nei due blocchi conducono alla preparazione pratica della guerra, dell’economia di guerra e del riarmo ad oltranza. Ma il nome dato nei due blocchi a queste misure non rivela questa realtà. Esso è determinato dalle necessità del governo nel suo dominio sulla classe operaia, dalla necessità di prolungare e rafforzare il cemento sociale che tiene insieme quelle società. Il controllo dello Stato sulla banca di emissione in Belgio è posto sotto l’etichetta della democrazia occidentale, di una “rinascita liberista” perché la guerra futura sarà condotta sotto il segno di una varietà qualunque di “socialismo umanitario” contro il “comunismo” dei satrapi orientali. Lo stesso controllo di Stato sulla banca di emissione in Polonia, Ungheria, Romania è posto sotto l’etichetta socialista perché in quei paesi la guerra sarà presentata come la guerra santa del “comunismo” e del “socialismo” contro il “capitalismo reazionario”. E’ questa la base reale che spinge gli sfruttatori del mondo a mettere le nazionalizzazioni sotto l’etichetta del socialismo e del marxismo.
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E’ fatale che certe correnti operaie che pensavano che il passaggio dalla proprietà privata alla proprietà statale rappresentasse una vittoria del socialismo, si lascino trascinare in uno dei due blocchi della guerra. E’ il caso, in particolare, del trotskismo di fronte all’imperialismo staliniano. I trotskisti presentano avvenimenti quali quelli prodottisi in Cecoslovacchia come delle vittorie della classe operaia. Essi non possono far nulla di diverso, perché tutto il loro passato li condanna a farlo, perché il trotskismo è una concezione del mondo logica e non dialettica che fa discendere il passaggio dal capitalismo al socialismo dalla sostituzione di una forma di proprietà all’altra: In ciò essi dimostrano un’ignoranza assoluta delle regole fondamentali del marxismo in quanto metodo di analisi. Lo Stato nazionale essendo il consiglio di amministrazione delle classi possidenti, il fatto che questo Stato nazionalizzi significa che esso compirà per mezzo delle nazionalizzazioni la stessa funzione economica che esercita il consiglio di amministrazione di un trust e di una società anonima.
Lo Stato staliniano, come quello laburista, esercita nella società la funzione del consiglio di amministrazione del trust, organismo che assicura la gestione dello sfruttamento della classe operaia in condizioni tali da assicurare agli azionisti un dividendo. Lo Stato nazionale, nella fase delle nazionalizzazioni, è l’organismo che compie esattamente la stessa funzione per assicurare l’interesse ai possessori di obbligazioni. Solo il nome cambia: i rapporti fra le classi rimangono identici, il capitalismo rimane.
Questa evoluzione del capitalismo non è del resto nuova. Già nella fase del trust, il capitalista (il possessore del capitale azionario) non aveva più un contatto diretto con la gestione dell’azienda di cui era comproprietario secondo il numero di azioni in suo possesso. Con la nazionalizzazione questa tendenza si è accentuata, ma rimane nel quadro dell’esistenza della classe borghese. Ciò che essa importa è la realizzazione di una ipotesi già formulata da Engels nell’Antidühring, là dove prevedeva che gli azionisti sarebbero sempre più scartati dalla gestione fino a diventare una appendice praticamente inutile.
Certo, è difficile comprendere tutto questo quando non si è capito, dal 1927 in avanti, che la proclamazione del socialismo in un solo paese segnava il fallimento della rivoluzione mondiale, quando si è rimasti aggrappati alla funzione di una Russia “socialista” quando si vede nella burocrazia russa una “classe nuova” diversa dalla borghesia. In realtà, la burocrazia non è entrata nel 1927 nello stampo ultimo e definitivo di una categoria di servitori dello Stato “socialista”. Nei quadri e dietro il paravento della burocrazia, in Russia si è ricostituita la classe borghese. L’applicazione dei criteri del pensiero marxista a questa situazione permette di situare questa riapparizione in forma organica nel 1942, ai tempi dell’incensamento ufficiale dei “nostri milionari sovietici”. Ed è probabile che la costituzione di “società anonime sovietiche” in Germania nelle zone occupate dai russi (sulla base del 51% di capitale russo e del 49% di capitale tedesco) costituisca una fase molto attiva del consolidamento della borghesia in Russia. Da allora, infatti, noi assistiamo al fenomeno per cui, sebbene i piani quinquennali esigano – come almeno si afferma – il concorso di tutte indistintamente le forze sociali del blocco russo, le industrie sovietiche e quelle tedesche dai russi occupate cominciano una aspra concorrenza sul mercato internazionale.
E’ il caso, per esempio, della industria dei compensati. Dopo il 1947, i russi dopo aver razziato la più gran parte del materiale industriale della Germania, sono occupati a riattrezzare le aziende tedesche. Forse per costruire il socialismo? O non piuttosto per far rendere agli operai tedeschi un massimo di plusvalore in modo da garantire il rendimento dei capitali russi investiti in quelle regioni?
Nello stesso ordine di idee, è interessante notare che i rapporti di fine d’anno di molte società belghe cominciano a lamentare la concorrenza esercitata sui mercati mondiali dai prodotti tedeschi e russi, specie nelle industrie chimiche. La costruzione del socialismo alla moda staliniana ha fatto sì che la riduzione del livello di vita delle masse in Russia, Polonia e Germania permetta all’URSS di offrire prodotti chimici a prezzi inferiori...
Non sono certo le posizioni trotskiste che presentano il sistema russo come un “progresso” a spezzare il cerchio di ferro che stringe il proletariato mondiale. Lo Stato nazionale è la forma politica legata organicamente all’esistenza della classe borghese in quanto classe sfruttatrice e a quella della classe operaia come classe sfruttata. La nozione di patria e di Stato nazionale è inseparabile da questo complesso; su questa base non può vivere che questo complesso. L’applicazione del metodo d’analisi marxista alla situazione attuale della classe mostra come siano false tutte le affermazioni della propaganda borghese secondo le quali la nazionalizzazione operata dallo Stato nazionale sarebbe una vittoria della classe operaia; dimostra che le misure attualmente prese conducono non al socialismo ma alla guerra imperialista. La evoluzione della Russia dopo il 1927 conferma in modo schiacciante la frase di Marx: “I governi nazionali non fanno che una cosa sola contro il proletariato”.