Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 268 - giugno 1999
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 NELLA GUERRA DEI PADRONI LA CLASSE OPERAIA NON HA UN FRONTE DA PREFERIRE: Guerra inutile? - I vincitori - Gli sconfitti - Gli sconfitti di oggi i vincitori di domani
A CHI GIOVANO LE BRIGATE ROSSE
– Contro la guerra imperialista riprenda la lotta di classe verso la rivoluzione comunista! - Conferenze pubbliche del partito a Genova, Firenze, Torino, Perugia.
PAGINA 2 RIUNIONE GENERALE A GENOVA - 14-15-16 maggio [RG74]: CORSO DELLA CRISI ECONOMICA - L’ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI - ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA - LA GUERRA NEI BALCANI - LAVORO E CONOSCENZA
PAGINA 3 – Restar fermi al nostro posto è la nostra “azione” (continua dal numero precedente): Gli opportunisti secondo Lenin - I bolscevichi dall’isolamento alla Rivoluzione - La Sinistra Comunista - Il valore dell’isolamento
PAGINA 4 La nostra parola contro le manovre anti-operaie – in pace e in guerra – di RSU e Sinistra Sindacale
Omicidi sul lavoro: LA GUERRA PERMANENTE DEL CAPITALE CONTRO I LAVORATORI
Pignone-Breda-Mugello: OPERAI FRA CRISI E TRADIMENTO DEI SINDACATI

 
 
 
 
 


PAGINA 1
NELLA GUERRA DEI PADRONI LA CLASSE OPERAIA NON HA UN FRONTE DA PREFERIRE

Una nuova fase della guerra per la Iugoslavia è giunta a termine. La preda è stata ancora smembrata; dopo Macedonia, Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina adesso anche il Kosovo passa sotto il diretto controllo dell’imperialismo; presto toccherà al Montenegro.

Questa "pace" lascia una situazione carica di fortissime tensioni militari, politiche, sociali in un’area, quella balcanica, di grande importanza strategica, di collegamento tra Europa, Asia, Medio Oriente. È una vera e propria polveriera pronta ad esplodere e lo scoppio, probabilmente tra mesi, forse tra pochi anni, coinvolgerà i continenti.
 

Guerra inutile?

      Questa nuova "pace" tra macellai ha fatto sproloquiare sulla guerra "inutile"; sarebbero stati inutili più di 70 notti di bombe, le migliaia di morti, il milione di profughi. La Iugoslavia aveva presentato prima dell’inizio dei bombardamenti una proposta di risoluzione alla crisi del Kosovo pressoché uguale a quella concordata qualche giorno fa; si chiedono allora le anime candide: perché la guerra? così rivolgendosi alle "coscienze" degli "individui".

Questa guerra, come quella contro l’Irak un decennio fa, è stata decisa, preparata e cinicamente condotta dagli Stati Uniti e dal codazzo dei paesi NATO, ma trovando oggettivo consenso nello Stato serbo e nel tradizionale alleato, la Russia. Nell’attuale regime la guerra è una necessità economica e in quanto tale non è meno necessaria delle fabbriche che producono bombe a grappolo o automobili o formaggini; la guerra è un’esigenza del Capitale e diviene tanto più necessaria quanto più la produzione ristagna, come da anni a livello mondiale.

Il casus belli è insignificante rispetto all’esigenza primaria di fare la guerra, di distruggere materie prime, manufatti e forza lavoro. La guerra è un elisir di lunga vita per il Capitale nel suo complesso, è irrilevante dunque, da questo punto di vista, stabilire a chi sia toccato eser dipinto da aggressore e chi da aggredito.

Tutt’altro che inutile quindi, questa guerra è stata utile, utilissima; guerra "ad alta tecnologia", ha comportato altissimi costi con gran gaudio dell’apparato militare-industriale; sono stati consumati materiali in quantità enormi, e tanto meglio se si è trattato di bombe e missili scaricati sui proletari di Iugoslavia. I bombardamenti hanno permesso di provare nuovi sistemi d’arma, nuovi tipi di bombe, a tutto vantaggio dell’industria militare.

Le distruzioni di immobili e infrastrutture civili di ogni tipo sono la premessa, tolti i cadaveri di sotto, per interventi di "bonifica e ricostruzione" che porteranno miliardi di dollari di profitti nelle tasche delle principali aziende occidentali, naturalmente sulle spalle del proletariato che dovrà alla fine pagare il conto.
 

I vincitori

      Se sul piano economico la guerra è una vittoria del regime capitalistico nel suo complesso, sul piano militare è indubbio che i vincitori sono gli Stati Uniti che riescono a portare le loro basi nel cuore dei Balcani in funzione antieuropea ed antirussa; decine di migliaia di soldati, migliaia di mezzi corazzati hanno occupato una terra martoriata dalla guerra, svuotata di gran parte dei suoi abitanti. La Russia – fin dalla Seconda guerra concorrente-complice dell’imperialismo USA – è riuscita a imporre una sua presenza sul territorio in prossimità del confine serbo. L’Albania, strappata al controllo dell’Italia, è stata trasformata in una enorme base militare della NATO; la Macedonia oltre che di profughi, rigurgita di soldati dell’Alleanza; il Kosovo è occupato da un’armata di 50.000 soldati.

I maggiori Stati d’Europa, che col sostegno della Russia hanno impedito che gli Stati Uniti potessero stravincere attuando un’invasione di terra e l’occupazione dell’intera Iugoslavia, sono stati al gioco di Washington per non vedersi esclusi al momento della spartizione del bottino e anch’essi hanno avuto il loro tornaconto: significativi contingenti inglesi, tedeschi, francesi, italiani, partecipano all’occupazione.

Ma nemmeno il regime iugoslavo esce male dalla guerra: il suo esercito non è stato sconfitto e l’abbandono del Kosovo non si è trasformato in una rotta, come fu il caso per i disgraziati proletari in divisa iracheni dal Kuwait; è stata una ritirata ordinata, concordata col nemico; il regime può così giustificare di aver ceduto alla forza della NATO non senza aver dato battaglia. Probabilmente timorosi del vuoto di potere che si sarebbe creato in Serbia se l’attuale regime fosse caduto a causa di una sconfitta sul campo, i vincitori hanno preferito arrivare ad un accordo coll’"Hitler dei Balcani", rimandando a tempi più tranquilli una sua eventuale "punizione". Stati Uniti, Europa, Russia, Iugoslavia, ogni protagonista della guerra può dunque vantare, e giustamente, la sua vittoria.
 

Gli sconfitti

      Le conseguenze di questa guerra "umanitaria" sono note: intensificazione del terrorismo contro i proletari nel Kosovo ad opera delle opposte polizie, serbe e UCK, e fuga in centinaia di migliaia dalle loro case, malamente concentrati in campi profughi dove i più diseredati nei prossimi mesi saranno decimati dal freddo e dalle malattie; centinaia di migliaia di giovani e meno giovani rastrellati dallo Stato serbo e dall’UCK e costretti ad indossare l’uniforme per fornire carne da cannone a Milosevic o alla NATO; massacri nei quartieri popolari delle città e dei paesi della ex Iugoslavia, martellati per tre mesi da quotidiane piogge di bombe; per tutti, ma soprattutto per i lavoratori e le loro famiglie, condizioni di vita sempre più dure.

Se è toccato al proletariato serbo e kosovaro pagare il contributo di sangue più alto, è sui lavoratori di tutta l’area balcanica che ricadranno le conseguenze terribili di questa guerra, delle distruzioni materiali, delle popolazioni in fuga, delle economie destabilizzate che condanneranno ad anni di disoccupazione, salari da fame, condizioni di lavoro ancora più dure, emigrazione.

Il regime serbo grazie alla NATO ha potuto agevolmente chiamare a raccolta sotto le menzognere bandiere del nazionalismo: vedere città, case, amici e familiari colpiti dalle bombe ha provocato anche tra i lavoratori una reazione di solidarietà col proprio Stato, con l’esercito che dovrebbe "difenderli". Ma il proletariato di Serbia, se ha un nemico nell’esercito della NATO, ne ha uno ancora peggiore nello Stato serbo e nelle sue polizie, ufficiali e non, che lo hanno costretto, per difendere gli interessi del capitalismo serbo e del fronte imperialista che lo sostiene, a subire le conseguenze terribili di una guerra da cui esso non ha certamente nulla da guadagnare.

Un simmetrico meccanismo ha spinto il proletariato kosovaro nelle braccia della NATO; ad acclamare come "liberatori" i nuovi padroni, gli assassini che per tre mesi hanno inondato il Kosovo di bombe. Un moto psicologico che gli europei sessantenni fingono di non ricordare, quelli non rimasti sotto le bombe "liberatrici": la guerra borghese fa desiderare la pace borghese, questa la vera tragedia, ed inneggiare al vincitore qualunque sia.

La guerra infame non ha scosso la classe operaia occidentale, ancora legata a doppio filo alla propria borghesia nonostante la disoccupazione, l’abbassamento dei salari, il peggioramento delle condizioni di lavoro. I sindacati ufficiali e i partiti della "sinistra", di tutta Europa, con rare e strumentali eccezioni, hanno santificato la guerra, a garantire e perpetuare l’inerzia di una classe lavoratrice rimasta per troppi anni schiacciata dalla controrivoluzione. I tentativi di piccole organizzazioni sindacali che si sono opposte alla guerra su posizioni di classe non sono riusciti a raggiungere il cuore del proletariato ed hanno interessato solo minime frange.

Non è mancato chi, nascondendosi dietro l’opposizione alla "guerra della NATO", ha contribuito a spingere i proletari comunque alla guerra, ma dalla parte della Serbia o degli interessi delle borghesie europee. Per simili "comunisti" il nemico non è il capitalismo mondiale ma solo il militarismo statunitense. Fingono di ignorare che l’imperialismo è sempre militarista e guerrafondaio, all’Est come all’Ovest, negli Stati Uniti come in Europa. La guerra non è stata "contro la Serbia" ma "in Serbia", lì si è giocata una partita preparatoria del generale e mondiale conflitto fra tutti gli imperialismi. Il comunismo vincerà contro tutti o mai potrà vincere.

Anche in Iugoslavia, in condizioni certamente più difficili dato che lo stato di guerra vieta scioperi e manifestazioni, i lavoratori non sono riusciti ad opporsi alla mobilitazione "difensiva"; alcune maestranze pare abbiano messo a rischio la vita per difendere la "loro" fabbrica dagli attacchi aerei.
 

Gli sconfitti di oggi i vincitori di domani

      Ma dopo quasi tre mesi di guerra, che hanno dimostrato quanto costasse al proletariato, sono iniziate le prime significative reazioni, anche a costo della galera. Si è riferito di vere e proprie sollevazioni e scontri con le forze del regime all’arrivo delle prime bare di soldati uccisi; quando le truppe sono venute a sapere di poter contare su quel minimo appoggio dalle retrovie ben due brigate corazzate si sono insubordinate, hanno disertato e abbandonato il fronte per portare aiuto alla popolazione. I resoconti dei corrispondenti, dettagliatissimi ad effetto su quanto serve ai loro padroni borghesi, sul seguito della vicenda non hanno scritto un rigo.

La cessazione dei bombardamenti e dell’emergenza che seguirà l’armistizio, potrà far comprendere il vero senso di questo macello, la sua natura antiproletaria e controrivoluzionaria e potrà forse permettere al combattivo proletariato di Serbia, che il regime vorrà incatenato alla "ricostruzione" con salari da fame e condizioni di vita ancora peggiori della già dura quotidianità, di far udire la sua voce di classe contro il regime del capitale.

Il proletariato d’Europa, il proletariato di Russia che già da anni soffre duramente della crisi economica, dovranno comprendere che questa guerra non ha rappresentato che un nuovo passo verso un più generale scontro militare per il quale sta lavorando il regime del Capitale, soprattutto cercando di schierare il proletariato su fronti contrapposti.

Rifiutando ogni collaborazione col regime e con le classi dominanti, il proletariato d’Europa, di Russia, degli Stati Uniti dovrà tornare a fare udire la sua voce di classe, in difesa dapprima delle sue condizioni di vita, in difesa poi della vita stessa della classe proletaria, contro i piani di guerra dell’imperialismo, per la rivoluzione comunista.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


A CHI GIOVANO LE BRIGATE ROSSE

      Il 20 maggio scorso Massimo D’Antona, già sottosegretario nel ’95 al ministero dei trasporti ed ora consulente del ministero del lavoro, è stato ucciso con alcuni colpi di pistola sparatigli, sembra, a breve distanza e finito poi con un colpo al cuore. Ha rivendicato l’attentato un gruppo clandestino che si attribuisce una "continuità oggettiva con la proposta delle Br-Pcc e perciò si assume la responsabilità politica di prenderne la denominazione".

Era già qualche tempo che i giornali borghesi lanciavano allarmi sul pericolo di un rinascente terrorismo e, mettendo in fila veri o presunti atti più o meno vandalici, a volte del tutto insignificanti, cercavano di ricostruire un’atmosfera da "anni di piombo" con tanto di organizzazioni segrete che, dietro varie sigle, sarebbero state pronte ad entrare in azione lasciando dietro di sé il loro strascico di sangue e di morte. I meno allarmati di tutti sembravano essere invece i capi delle varie polizie per i quali, sempre secondo i giornali (in particolare Repubblica) parlare di terrorismo sembrava eccessivo. Poiché, a differenza dei gazzettieri che devono infessire il pubblico con trovate giornalistiche, i veri addetti ai lavori sono i dirigenti dei vari Sismi, Sisde, Ucigos, è molto più probabile che siano loro a conoscere, in maniera più esatta la situazione dell’ambiente clandestino, non fosse altro per la moltitudine di spie che hanno disseminato nell’area della cosiddetta autonomia. Spie che non sono poliziotti in borghese, ma ex terroristi ora stipendiati dallo Stato.

Oppure, potrebbe essere avanzata una seconda ipotesi, da non scartare e che non sarebbe necessariamente in contraddizione con la prima, che proprio le polizie abbiano interesse a non "allarmare" e a "seguire" l’evoluzione di tali organizzazioni.

Le scritte "D’Alema Boia" o qualche bottiglia molotov contro le sedi DS erano effettivamente ben poca cosa, azioni dimostrative che potevano venir compiute da chiunque, senza bisogno di una struttura clandestina che tenesse le file di un piano eversivo. Sarebbe stupido pensare il contrario, come è anche naturale che diessini e sindacati abbiano gonfiato questi episodi per giocare il ruolo del vittimismo e della loro coraggiosa e disinteressata dedizione allo Stato.

L’uccisione di D’Antona assume invece tutto un altro significato o, come si usa dire nel gergo degli addetti, un salto di qualità. Non è possibile infatti che si sia trattato di un atto spontaneo di qualche gruppetto di arrabbiati, non tanto per l’atto violento in sé stesso (uccidere qualcuno che ogni mattina va a piedi in ufficio non è poi tanto difficile), quanto per la scelta del personaggio da uccidere.

Massimo D’Antona era un illustre sconosciuto, un anonimo servitore dello Stato, come se ne producono a centinaia nei vivai dei partiti, dei sindacati, delle università, ecc. Non risulta che avesse compiuto qualche atto particolarmente efferato nei confronti di determinati settori della classe lavoratrice e nemmeno che ne avesse il potere. I proletari hanno sentito il suo nome per la prima volta dai telegiornali che annunciavano la sua morte. Chi egli fosse lo sapevano soltanto gli addetti ai lavori dei vari ministeri e la crema del bonzume sindacale che collabora con lo Stato capitalista alle spalle della classe operaia. Viveva e lavorava in un ambiente totalmente sicuro sia dal contatto con qualsiasi forma di estremismo, sia assolutamente impermeabile a qualsiasi forma di infiltrazione "rivoluzionaria".

Allora cosa significa uccidere un singolo individuo, sconosciuto, che non potrà mai rappresentare il simbolo del nemico di classe, un funzionario che fa parte di un apparato che conta migliaia di anonimi funzionari tali e quali a lui?

È scontato e perfino superfluo dire che non sono questi né i metodi, né gli obiettivi della lotta di classe. Ma la stessa scelta del bersaglio sembra, almeno a noi che siamo "fuori dal giro", estranea perfino a tutta la tradizione del terrorismo degli anni passati.

Detto questo noi, come non ci sentiamo di escludere la mano di ambienti dello Stato nella regia del nuovo terrorismo, così saremmo degli ingenui se negassimo il potenziale di violenza a-rivoluzionaria e contro-rivoluzionaria che esiste, fermenta e che è pronta ad esplodere in strati piccolo borghesi di emarginati, di sottoproletari ed anche in frange di semiproletari, del resto facilmente accessibile ad infiltrazioni, provocazioni ed influenze di ogni tipo.

Il nostro partito, anche nel passato, è stata l’unica organizzazione a non avere flirtato con il "partito armato": rapporti, più o meno sotterranei, più o meno saltuari con esso li hanno avuti i partiti democratico-costituzionali, la mafia, i servizi segreti, la massoneria, la Chiesa (solo per redimerli?), ecc. E quello li ha avuti con questi.

Il Partito comunista, marxista rivoluzionario, non si limita a dissociarsi dai gruppi terroristici (siano essi emanazione della rabbia popolare, della provocazione poliziesca od a gestione mista), ma li considera degli autentici nemici del proletariato con i quali quest’ultimo dovrà fare i conti non appena si riapproprierà degli strumenti della difesa e della lotta di classe.

In vari lavori di partito, in passato, abbiamo smontato tutta la ideologia brigatista dimostrando il suo carattere piccolo-borghese, democratoide e controrivoluzionario; allo stesso modo neghiamo oggi che il proclama lanciato dal nuovo brigatismo sia in qualche modo condivisibile con un piano di difesa degli interessi della classe operaia o, a maggior ragione, con un programma rivoluzionario. Non a caso lo trova "condivisibile" Bertinotti, proprio per il fatto di essere a capo di una organizzazione politica anti-marxista e controrivoluzionaria.

Mentre ci proponiamo di tornare sull’argomento, per ora non possiamo fare a meno di notare come l’uccisione di D’Antona abbia rafforzato il regime capitalistico, soprattutto nel senso di una ulteriore stretta a danno della classe lavoratrice. I sindacati che impunemente lasciano che ogni giorno gli operai muoiano stritolati dalle macchine, che hanno bloccato tutte le misere agitazioni salariali perché la patria è in guerra, per l’uccisione di un funzionario dello Stato capitalista hanno indetto serrate (anche se quasi simboliche) nei posti di lavoro ed hanno portato i lavoratori nelle piazze a belare parole di pace sociale e supina sottomissione al regime capitalista.

Di fronte ai seppur deboli e minoritari scioperi di opposizione alla guerra, di fronte al pericolo che la commozione per le stragi della carneficina umanitaria e la minaccia di un nuovo conflitto mondiale spingesse i lavoratori a riorganizzarsi in sindacati di classe ed a ricollegarsi con il partito rivoluzionario, lo Stato capitalista aveva la necessità di affermare che chiunque si oppone ai suoi piani, di guerra e di pace borghese, è un terrorista e quindi un agente del nemico.

La parola d’ordine della più genuina tradizione marxista rivoluzionaria di Guerra alla Guerra, dopo il proclama brigatista, viene additata come simbolo ed ammissione di appartenenza alle Brigate Rosse, dando così agli sbirri sindacali la possibilità di svolgere una vera e propria azione repressiva nei confronti dei proletari più combattivi e di operare la loro azione terroristica verso la massa disorientata.

Ed in questa campagna di linciaggio, di richiesta ai poteri repressivi dello Stato di fare piazza pulita di ogni tipo di opposizione di classe si sono, ancora una volta, schierati in prima fila i partiti di sinistra, i sindacati di regime, i giornalisti progressisti, tutti concordi nell’accusare il Potere di essere troppo debole, di non reprimere abbastanza, di non tappare definitivamente la bocca a chi si oppone allo sfruttamento quotidiano ed alla guerra.

Compari brigatisti! potete essere soddisfatti del vostro lavoro: i vostri confratelli di ieri sono nel libro paga dello Stato, voi, se non ancora, non tarderete ad entrarci.
 
 
 
 
 
 
 
 


Conferenze Pubbliche del Partito a Genova, Firenze, Torino, Perugia
CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA
RIPRENDA LA LOTTA DI CLASSE
VERSO LA RIVOLUZIONE COMUNISTA!

Il seguente è stato il manifesto di convocazione alle Conferenze pubbliche che
abbiamo tenuto a Firenze il 7 maggio, a Genova e a Torino l’11 giugno, a Perugia il 20.

Questa guerra per una nuova spartizione dei Balcani rappresenta un altro passo verso un terzo macello imperialistico mondiale.
     Il proletariato non ha da scegliere su che fronte stare, non ha da scegliere tra aggressore e aggredito. La guerra tra Stati è comunque contro di esso e solo la lotta rivoluzionaria contro il regime del Capitale può fermarla.
     Fuori dalla falsa prospettiva pacifista che conduce alla smobilitazione della classe lavoratrice, la parola d’ordine oggi come nel 1914, alla vigilia del primo macello mondiale, come nel 1939 alla vigilia della seconda guerra imperialista, deve essere una sola, quella che Lenin e l’Ottobre rosso ci hanno tramandato: «La trasformazione della guerra imperialista in guerra civile è la sola parola d’ordine proletaria giusta, additata dall’esperienza della Comune, tracciata dalla risoluzione di Basilea (1912) e che scaturisce da tutte le condizioni della guerra imperialista tra paesi borghesi altamente sviluppati. Per quanto siano grandi le difficoltà di questa trasformazione in questo o quel momento, i socialisti (oggi, 1999, i comunisti internazionalisti) dall’istante in cui la guerra è divenuto un fatto, non desisteranno mai dal lavoro sistematico, perseverante, continuo per prepararla» (Lenin, 1914).
 
 
 
 


 
 


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RIUNIONE GENERALE A GENOVA
14-16 maggio 1999 [RG74]
  • CORSO DELLA CRISI ECONOMICA
  • L’ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI  [Rapporto esteso]
  • ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA  [Rapporto esteso]
  • LA GUERRA NEI BALCANI
  • LAVORO E CONOSCENZA  [Rapporto esteso]
  •       Si è tenuta nella bella sala della sede di Genova la riunione generale del partito, nei giorni 14-15-16 maggio, con la presenza di ampia rappresentanza di tutte le sezioni. Degli assenti si sapevano i motivi che li avevano trattenuti, alcuni per fatti di salute.

    Abbiamo dedicato il tempo necessario al riscontro delle vicende in corso della guerra con le nostre previsioni, che tutte ben collimano nel negare le semisecolari ipotesi ottimistiche e pacifiste borghesi e dell’opportunismo, e nel decidere il proseguo delle nostre iniziative di studio, di pubblicazioni e di propaganda esterna, nei paesi ove siamo presenti. In particolare si riferiva del nostro intervento nelle manifestazioni operaie e delle opposizioni sindacali, nelle quali solo la parola del partito può portare la reale visione della situazione e l’unico corretto indirizzo di classe. Sul tema si stabiliva un calendario di conferenze pubbliche e di pubblicazioni.

    Si passavano quindi in rassegna i risultati dei vari gruppi di studio, sui temi economici, della storia più lontana e recente del nostro movimento comunista, sulla questione delle lotte operaie e del loro organizzarsi ieri e oggi, sulla teoria della conoscenza e dei moderni progressi della fisica, sulla questione agraria, sugli scontri di classe in Messico, in Algeria, in Cina, sulla lettura marxista della storia dei popoli balcanici. Restava stabilito un piano di pubblicazioni, traduzioni e ristampe e si davano incarichi per la stesura dei testi per i nostri periodici.

    Veniva fornito e considerato il resoconto finanziario annuale dell’organizzazione.

    Passavamo quindi, al sabato pomeriggio e la domenica, giunti tutti i compagni, all’ascolto delle relazioni, delle quali qui diamo uno riassunto per punti e che leggeremo nel testo integrale su "Comunismo".
     

    CORSO DELLA CRISI ECONOMICA

          Il rapporto riguardava il lavoro di ordinamento e commento delle statistico sull’economia.

    Il rallentamento mondiale della crescita della produzione di capitale prosegue lentamente senza precipitare. Non ci sono segni importanti di quelle temporanee inversioni della tendenza alla discesa dell’incremento relativo della produzione capitalistica, che hanno frenato il processo degli ultimi venticinque anni destinato a portare verso la grande crisi di bassi prezzi e violenta deflazione che precede la guerra.

    Non modificano l’andamento depresso complessivo mondiale i segnali di resistenza alla crisi presenti in alcuni paesi: 1. lentezza del calo dagli alti livelli precedenti e dopo lunga espansione della crescita della produzione industriale negli Stati Uniti, 2. l’abbozzato risollevarsi dalla lunga crisi del capitale in Russia, 3. l’arresto della contrazione o l’avvio all’espansione in alcuni paesi asiatici colpiti dalla crisi del 1997, 4. la gradualità del ridimensionamento della forte crescita cinese.

    Interpretati dalla borghesia come presagio di ripresa, gli aumenti recenti dopo lunga discesa dei prezzi di petrolio, metalli, produzioni minerarie e agricole sono per ora solo effetti immediati e temporanei di tagli produttivi concordati, sospensioni o cessazioni di attività di miniere, fonderie e piantagioni marginali, determinati dal consumo calante, che possono condurre a prezzi di produzione regolatori del mercato più bassi.

    Gli altri dati dell’economia, oltre quelli fondamentali della produzione industriale, indicano che il movimento verso la deflazione continua (rallentamento drastico della crescita del commercio mondiale generalizzato in tutte le aree, calo forte in volume fisico e ancor più forte in valore monetario corrente (difficoltà di realizzo) con i connessi nuovi scontri commerciali protezionistici. Si osservano: 1. prezzi alla produzione, all’ingrosso e all’esportazione generalmente in discesa; 2. prezzi mondiali delle materie prime fortemente ribassati in particolare per le derrate agricole alimentari (sovrapproduzione ma umanità mai sfamata); 3. inflazione nei prezzi al consumo molto ridotta e persino negativa nei grandi industrialismi e insolitamente ridimensionatasi rapidamente nei paesi a moneta nazionale fortemente svalutata nelle crisi recenti. Anche questi dati mostrano la fase di sovrapproduzione cronica, la saturazione del mercato mondiale, l’insensata sovraccumulazione di capitale fisso in impianti condannati a sovrapprodurre per continuare ad ingigantirsi in una giostra catastrofica mossa con il tormento degli operai.

    Il carattere non di breve periodo della crisi, che è accelerazione del processo seguito ai trent’anni di forte crescita del dopo guerra, si è dapprima manifestato alla fine degli anni ottanta in Giappone e Russia, poi sono passate le recessione congiunturali americana ed europea dei primi anni novanta, rapidamente o faticosamente; ma la crisi è proseguita e ha coinvolto via via altre aree del mondo, senza abbandonare la presa nelle zone già colpite; ora sta coinvolgendo l’Europa e si avvicina al centro mondiale del capitale.

    Da più di quarant’anni il Partito sulla scorta dei dati statistici verifica nell’esperienza storica le tesi marxiste sulla curva di sviluppo e di crollo finale della società capitalistica. Tanto più avanza la sovrapproduzione in corso che conduce alla crisi di inter guerra, tanto più il capitale ha necessità di distruggere per accumulare nuovi profitti nella ricostruzione, tanto più la classe dominante deve condurre il proletariato alla ubriacatura patriottarda, formare i fronti imperialisti su cui schierare divisi i proletari, per risolvere la crisi prossima col grande macello imperialista.

    La seconda parte del rapporto considerava alcuni degli elementi solitamente considerati come fattori del recente vigore relativo degli Stati Uniti.

    1. La crescita (più veloce di quella della produzione) del credito interno, credito di capitale alle imprese, credito al consumo personale e per la speculazione di borsa, ossia debito non statale verso capitalisti monetari americani ed esteri. Si leggeva a questo proposito il paragrafo "La diavoleria monetaria" de "Il corso…" che ricorda come Marx facendo astrazione dal credito dimostri la catastrofe del capitale. La dimostrazione è per lo scambio a contanti quindi a maggior ragione si ha per lo scambio a credito, che rimanda solamente ma non elimina il vincolo dello scambio secondo la legge del valore; esalta sia l’espansione che il crollo della produzione; è non la causa ma il miglior veicolo della crisi. Non sarà il credito a dare una nuova era al capitalismo, ma sarà la legge del valore a saltare.

    2. La crescita della produttività del lavoro vigorosa nel periodo ’90/98 nell’industria.Nel breve periodo dà un effetto, secondario e temporaneo, che favorisce l’accumulazione per l’aumento del plusvalore e della massa fisica dei prodotti della giornata lavorativa, come spiega il passo " Produttività del lavoro" degli "Elementi dell’economia marxista" e quelli corrispondenti dei libri I e III de "Il Capitale".

    Ma l’aumento di produttività del lavoro vuol dire quello della composizione organica del capitale che ha l’effetto, dominante storicamente, della caduta del saggio del profitto e della decrescenza dell’incremento relativo del capitale ed inevitabile distruzione della legge capitalistica secondo la quale quanto maggiore è la potenza del lavoro salariato, tanto più è precaria l’esistenza proletaria.

    3. La crescita più forte della popolazione per maggiore immigrazione e tasso di fertilità. L’influenza di questo fattore va studiata in base alla tesi marxista che l’aumento più rapido del capitale entra in conflitto con quello più lento della popolazione.

    4. Sovrapprofitti alle aziende americane dal mercato mondiale in settori a progresso tecnico e innovazione recenti(questione distinta da quella dell’essere questi settori giovani a produzione pro capite non saturata). Il sovrapprofitto da monopolio dell’innovazione permette accumulazione potenziata fino alla divulgazione dell’innovazione; è analogo alla rendita assoluta fondiaria provenendo dagli impedimenti alla circolazione del capitale; è difeso dalla potenza americana con la condanna delle pratiche protezionistiche nazionali; non accresce il plusvalore mondiale estorto, ma di questo è semplice appropriazione al disopra del livello generale; fa crescere più velocemente, ma con sicuri crolli, il prezzo delle azioni, stimato considerando i profitti futuri sulla base effimera dei sovrapprofitti di oggi, perché il monopolio singolo sparirà. Ma sarà una società superiore a far sparire i ricorrenti monopoli del capitale sulle "forze produttive del cervello sociale".

    5. Debito estero crescente che finanzia la crescita della produzione in America. Triplicato negli anni dell’espansione ultima come saldo netto fra debiti e crediti esteri, compresi quelli statali, esclusi i debiti delle imprese non rimborsabili (azioni). Si riscontrava la sua ampiezza in aumento nel crescente deficit della bilancia del commercio estero e di quella comprendente anche i redditi da capitale. Ricordando che il debito estero è un dato patrimoniale a una certa data, si leggeva una citazione da " Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica nella classica monolitica costruzione del marxismo", 1957, che chiarisce la distinzione nostra fra patrimonio e capitale,che riporta a quella fra lavoro accumulato e lavoro vivo.

    Il debito estero è una questione sulla proprietà del capitale monetario; ma il saggio del profitto non dipende dalla composizione finanziaria del capitale, ma dal saggio di sfruttamento e dalla composizione organica: la crisi sarà generata dal calo del saggio del profitto e dalla mancata realizzazione del valore delle merci; allora il capitale industriale in America non potrà più giovarsi di credito sicuro a tassi d’interesse minori per via del dollaro forte e sempre accettato e di una borsa euforica. Esso è condannato a crescere sul credito, sul rafforzamento del dollaro e della borsa sulla forza del suo dominio politico- militare, pena il tonfo fragoroso suo e dei compari.
     

    L’ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI

          Il rapporto sulla Prima Internazionale, séguito degli altri precedenti, ha preso in considerazione il periodo 1870-71, ovvero la guerra franco-prussiana e la successiva Comune di Parigi. Non si tratta di fare dello storicismo ma di trarre i determinanti insegnamenti che essa ha dato al proletariato rivoluzionario.

    Per noi marxisti la guerra del ’70/71 fu l’ultima guerra da ritenersi progressiva in Europa occidentale, ovvero l’ultimo slancio borghese verso la propria affermazione sugli ultimi residui feudali e aristocratici.

    Nel Primo Indirizzo sulla guerra Marx afferma con chiarezza che il proletariato tedesco deve combattere fino a quando la guerra rimane per la Prussia di tipo difensivo: esso dovrà opporsi nel momento in cui Bismarck cominci l’invasione della Francia. Con questa guerra la Germania completa la propria unificazione nazionale iniziata del 1859. Al riguardo si spiegava che però questa sorta di rivoluzione borghese non veniva compiuta dalla stessa borghesia tedesca (storicamente codarda) ma dall’alto, ovvero da Bismarck che, sebbene personalmente rappresentante dell’aristocrazia, grandi spinte storiche lo costringevano alla borghesizzazione della Germania.

    Inoltre il proletariato non poteva rimanere indifferente alle sorti del conflitto in quanto se avesse vinto la Francia si sarebbe consolidato per anni il bonapartismo e la Germania non si sarebbe più risollevata per anni. La vittoria della Germania invece avrebbe distrutto il bonapartismo in Francia, permettendo così più libertà di movimento agli operai francesi, ed avrebbe inoltre unito il proletariato tedesco che stava per divenire uno dei maggiori europei.

    Con la battaglia di Sedan all’inizio di settembre e la controffensiva di Bismarck verso Parigi l’Internazionale dava ora la parola d’ordine di opporsi alla guerra borghese.

    A Sedan veniva fatto prigioniero Luigi Napoleone e circondata Parigi dai prussiani. Contemporaneamente a Parigi ed in altre città scoppiava l’insurrezione. La borghesia francese riuscì però a circuire il troppo inesperto proletariato e, a nome della difesa nazionale, a convincere i rivoluzionari ad appoggiare la neonata Repubblica.

    I prussiani per ben 131 giorni circondarono Parigi senza osare di entrare nella Parigi rossa. Il governo Thiers preferiva dal canto suo non tentare sortite contro i prussiani: essi facevano decisamente meno paura del proletarato armato.

    La Comune del marzo 1871 vide finalmente il proletariato assumere direttamente il potere, costringere alla fuga il governo repubblicano ed infine, spinto dagli eventi, tentare eroicamente il consolidamento del priprio potere comunista.

    Attraverso l’analisi di Marx nell’Indirizzo sulla Guerra Civile in Francia e sui nostri studi del passato si ribadivano i limiti di quel potere proletario e i motivi della sua sconfitta.

    Innanzi tutto esso dimostrò troppa clemenza verso la sconfitta classe borghese: capito ciò i borghesi passarono alla controffensiva e da subito cercarono di riprendersi il potere con l’appoggio dei "nemici" prussiani. Inoltre dal punto di vista militare il governo proletario si mantenne costantemente sulla difensiva.

    Si vedevano però che i meriti di quell’esperimento proletario furono enormi nonostante che il governo rivoluzionario fosse diviso fra blanquisti e proudhoniani, ovvero da rivoluzionari non marxisti: ciò che la Comune emanò in quei suoi brevi tre mesi di potere andava nel senso, previsto da Marx, della dittatura proletaria.

    Ai membri del governo veniva corrisposto un salario operaio ed inoltre i suoi membri erano revocabili in ogni momento. La leva fu abolita e sostituita con il popolo in armi. La Chiesa, separata dallo Stato, dovette subire l’espropriazione di tutte le proprietà. Le fabbriche dovevano essere riattivate attraverso un produzione associata e priva di padronato. Alla classe media venivano estinti i debiti e condonati gli ultimi tre mesi di affitto. Questo ed altro tentò di produrre la Comune.

    Come sappiamo la Comune fu stroncata dalla durissima repressione franco-prussiana con fucilazioni di massa e sanguinose battaglie contro chi fino alla morte non volle arrendersi. La borghesia metteva definitivamente a nudo cosa fosse la sua pretesa civiltà, «gloriosa civiltà, invero, il cui problema principale è come riuscire a sbarazzarsi dei mucchi di cadaveri rimasti sul campo dopo che la battaglia è terminata» (Marx).

    Si chiariva infine che, sebbene l’Internazionale dall’esterno non potesse esercitare la propria influenza, in realtà la Comune fosse frutto di sette anni della sua presenza fra il proletariato parigino, sia come pratica di lotta sia come propaganda del suo programma di emancipazione. Questo i borghesi del tempo lo capirono tanto che nei mesi successivi alla Comune i governi di tutta Europa si coalizzarono per reprimere l’Internazionale e distruggere ogni organizzazione genuinamente proletaria. Il terribile Red Terror Doctor Marx durante questa propaganda veniva accusato di aver lui stesso organizzato la Comune e tramato nell’ombra per l’insurrezione. Intanto la potenza dei suoi Indirizzi, stampati in diverse lingue, si diffondeva tra i proletari d’Europa.
     

    ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA

          Lo studio è giunto a descrivere la nascita della Confederazione generale del Lavoro.

    Il Segretariato Centrale della Resistenza (a direzione sindacalista rivoluzionaria), nato nel 1902 nell’intento di unificare l’azione fra Federazione delle Camere del Lavoro (autonome) e Federazioni di mestiere (a direzione riformista), riuscì solo in funzioni di coordinamento ma non di direzione. Nel 1906 venne quindi decisa dalle Federazioni di mestiere la formazione di una Confederazione nazionale. 500 delegati rappresentavano 700 leghe con più di 200.000 iscritti. Al voto sull’ordine del giorno prevalsero i riformisti sui sindacalisti rivoluzionari, che abbandonarono il congresso senza creare una propria organizzazione.

    La CGdL, i cui dirigenti operavano per un aperto e pernicioso collaborazionismo di classe, tendeva a rafforzare le Federazioni piuttosto che le Camere del Lavoro territoriali.

    La concezione del sindacato, confortata dal 7° congresso della II Internazionale, vedeva la direzione del proletariato costituita da una diarchia sindacato-partito, dei quali il primo avrebbe dovuto coordinare gli scioperi economici ed il secondo il movimento politico. Il sindacato doveva approvare le iniziative di sciopero promosse dal partito. Concezione simmetrica, diversa dalla nostra "cinghia di trasmissione".

    La direzione della CGdL rimase saldamente influenzata dai riformisti, di matrice evoluzionista e bloccarda.
     

    LA GUERRA NEI BALCANI

          Con la caduta del muro di Berlino è finito il secondo dopoguerra ed è iniziata la preparazione della terza guerra mondiale. In questa prospettiva la borghesia deve procedere all’inquadramento del proletariato sui contrapposti fronti.

    È favorevole alla controrivoluzione che il proletariato si schieri sui fronti di guerra prima che la crisi lo porti a schierarsi su un fronte di classe.

    Il capitalismo in crisi recessiva ha bisogno della terza guerra mondiale. Questa guerra ha lo scopo di distruggere capitale e merci, tra cui la merce forza lavoro. Come scopo secondario ognuno dei fronti di guerra vuole uscire vittorioso nella spartizione del bottino della ricostruzione.

    Poichè lo scopo principale della guerra non è quello della vittoria di uno dei fronti ma la distruzione di forze produttive, gli schieramenti contrapposti devono avere forze confrontabili.

    Anche per questo la guerra balcanica è un passo ulteriore verso la terza guerra: serve a mettere alla prova le alleanze, a crearne di nuove, a stabilire insomma, nelle grandi linee, i fronti della prossima guerra.

    La condotta delle operazioni militari nei Balcani dimostra una intelligenza fra le varie borghesie contro il proletariato: i bombardamenti hanno colpito quartieri proletari e fabbriche, costringendo i lavoratori serbi a stringersi sotto le bandiere del nazionalismo; quello kosovaro a rifugiarsi nei campi profughi sotto stretto controllo poliziesco, oggi merce di scambio e domani carne da macello.

    Senza poter addentrarci in premature analisi geopolitiche, certo è che, mentre gli Usa avrebbero teso, con l’attacco per via di terra esteso all’intera Serbia, ad alzare il livello dello scontro, un fragile accordo con la Serbia lascerebbe aperta la prospettiva di una spartizione del Kosovo, rimanendo sempre alta la tensione militare e sociale nei Balcani in una situazione di guerra strisciante. Questo significherebbe che gli Stati Uniti intendono intralciare il processo di unificazione europea, ma la guerra generale viene rimandata in attesa della preparazione del secondo fronte.

    Non è possibile una "ricostruzione" e la ripresa della produzione "civile" nella regione balcanica se non dopo la terza guerra mondiale.
     

    LAVORO E CONOSCENZA

          Il "cuore" de Il Capitale, ed in generale del materialismo storico e dialettico, sta nell’analisi e nella considerazione complessiva del Valore/Lavoro. A cosa sarebbe servito proclamare la libertà, l’eguaglianza, la fraternità, come aveva fatto il liberalismo, senza aver compreso la funzione e la condizione del lavoro operaio? Nulla.

    Perché tanti teorici borghesi hanno riconosciuto a Marx il merito di aver fornito alla conoscenza delle scienze sociali un metodo prezioso di analisi, ma respinto le conseguenze naturali di tale metodo? È molto semplice: perché essi non possono accettare che Marx non si limiti allo studio e si erga invece a profeta della rivoluzione proletaria. Dimenticano, tra l’altro, questi signori, che "profeta", letteralmente, non significa "colui che fa previsioni" o peggio "oroscopi", ma "colui che tieni i piedi sull’orlo dell’abisso", e proclama la verità!

    Marx, secondo loro, si lascia andare nella sua opera scientifica per eccellenza, Il Capitale, a bordate polemiche che non sono adeguate e consone ad un libro di scienza. È naturale, perché per loro "scienza" significa solo studio astratto, senza conseguenze pratiche, scambio di idee, e così di seguito.

    Nella versione materialistico dialettico non ci sono mai state teorie indolori e puramente conoscitive: perfino la conoscenza tra i sessi non può che essere pratica e carnale, pena l’impossibilità che dia frutti e determini un effettivo risultato conoscitivo valido per i singoli e per la specie. Ma il "platonismo", inteso come divisione di mondi, dualismo, è duro a morire, per quanto in verità, mai sostenuto nella sostanza dallo stesso Platone.

    Ed allora noi intendiamo sottolineare che il lavoro proletario è l’effettiva ricchezza, che fa del capitale un sistema sociale dualistico che postula il suo superamento nella società comunista.
     
     
     
     
     
     
     


    PAGINA 3
    RESTARE FERMI AL NOSTRO POSTO È LA NOSTRA “AZIONE”

    (continua dal numero precedente)
     
     


    Gli opportunisti secondo Lenin

    Scrivemmo: «Il volume di sterco falsario che l’opportunismo ha tentato di accumulare sulla figura di Lenin è almeno dieci volte più nauseante di quello che fu rovesciato su Marx» ("L’estremismo condanna dei futuri rinnegati"). Oggi (al peggio non c’è mai fine...) la borghesia riesce impunemente a far passare la figura di Lenin come quella di un dittatore sanguinario che ha imposto il suo tallone sul popolo sfruttato che di lui si era fidato.

    Ma peggio di tali grossolanità borghesi per noi è il mare di sterco gettato su Lenin dagli pseudo-comunisti, non solo i vecchi stalinisti ma anche, e soprattutto, dai nuovi "antistalinisti": ognuno ha voluto crearsi un Lenin a proprio uso e consumo. Tutti convengono però che Lenin era per un partito che scendesse spesso e volentieri a compromessi (per fregarli magari) cogli altri partiti, che Lenin era un democratico e un filo-parlamentarista, un’attivista, ecc. Tanto sterco è stato gettato addosso a Vladimiro per qualificarlo di spregiudicato manovratore tattico.

    Al contrario, anche da "L’Estremismo", oltre che da moltissimi altri suoi testi, ben si può vedere quale sia la linea di Lenin, che non è "leniniana", cioè non ha nulla di differente da quella precedente di Marx: la tattica cambia secondo quanto previsto dalla dottrina, inquadrata in principi invarianti. Questo è Lenin, questo siamo noi.

    Molto utilizzato per decenni contro il nostro partito dagli ex-comunisti, quando ancora sfruttavano il nome e la parola di Lenin e prima che ci sputassero sopra, furono i capitoli de "L’Estremismo" riguardanti l’importanza dei compromessi e dell’uso del Parlamento. Noi ribaltammo quelle accuse dimostrando come tutto il testo di Lenin non sia che una conferma della ricerca di coerenza dei mezzi ai fini, e una condanna in anticipo sulla consumata lacerazione di quella coerenza da parte degli ex in nome della conservazione borghese.

    Lenin comincia col criticare la linea dei comunisti tedeschi: in particolare ci interessa la critica riguardante la questione dei "capi" e della "dittatura del Partito". I tedeschi, sebbene compagni entusiasti dell’Ottobre russo, tralignavano gravemente dal marxismo non riconoscendo la necessità di un partito fortemente centralizzato e soprattutto dimostravano di non comprendere appieno come la "dittatura di classe" si potesse realizzare unicamente come "dittatura del Partito comunista": per Lenin, l’intransigente Lenin!, questo tentennamento era giustamente nefasto. Lenin non ha mai detto che la fase transitoria della dittatura del proletariato sarà una fase di libertà. «Chi indebolisce, sia pur di poco, la disciplina ferrea del partito del proletariato (soprattutto durante la dittatura del proletariato) aiuta in realtà la borghesia contro il proletariato». D’altronde ciò che distingue il Partito comunista da tutti gli altri partiti rivoluzionari è la concezione della dittatura del proletariato, snaturata in questi settant’anni da una parte da Stalin e destalizzatori, dall’altra da democratici e spontaneisti. Altra questione, che confondeva i tedeschi, era la forma dello Stato proletario, se debba fondarsi sui Soviet, che sono organi territoriali di classe, sui Consigli di Fabbrica, sui Sindacati...

    Lenin accusò nell’Estremismo i comunisti tedeschi ed inglesi poiché non volevano accettare compromessi e porta ad esempio la storia della formazione del Partito bolscevico, segnata dal fondersi di diverse alleanze e sul loro conseguente scioglimento, destreggiamenti, collaborazioni tattiche, ecc... Deve però tenersi presente che: 1) le brevi alleanze o collaborazioni erano in vista di una presa del potere a breve scadenza; 2) a differenza dei partiti europei il Partito bolscevico proveniva da un’esperienza di doppia rivoluzione, ha dovuto cioè combattere innanzitutto per una Rivoluzione borghese; 3) il bolscevismo russo non doveva fare i conti con un opportunismo socialdemocratico forte per tradizione come quello diffuso nei paesi occidentali. Mai si trattò per Lenin di allearsi una "sinistra borghese" per opporsi ad un "destra": la tattica di Lenin era costantemente indirizzata alla violenza rivoluzionaria. «Lenin cita gli accordi nell’anterivoluzione dei bolscevichi coi menscevichi e coi populisti e li giustifica con l’esempio della finale sconfitta e dispersione di tali partiti». Le alleanze di Lenin furono strette con lo scopo di scioglierle in fretta, erano i mezzi più spicci per distruggere l’"alleato", con l’arma della critica e dei fatti (basti pensare allo scioglimento dell’Assemblea costituente nel ’18 chiamata prima in vita proprio dagli stessi bolscevichi).

    Sulla questione delle alleanze e soprattutto del Parlamento vale lo stesso discorso. I marxisti usavano da decenni il Parlamento esclusivamente per i propri fini rivoluzionari. Il "parlamentarismo" di Lenin non era dovuto né ad un principio di difesa della democrazia, né alla possibilità di utilizzarlo per la conquista di qualche riforma, né, tantomeno, come via verso la presa del potere. Niente di tutto questo è mai appartenuto a Lenin e lo si può vedere nel suo disprezzo costante verso la democrazia borghese. Se la Sinistra disse allora a Lenin, e fu l’unica a dirlo con giuste motivazioni, che il Parlamento non era più utilizzabile per i comunisti, ciò non era dovuto a contrasti sulla dottrina e sui principi.

    Nel 1919, appena finita la guerra, la Sinistra propose già a Gramsci, agli ordinovisti e ai massimalisti, la scissione dalla destra turatiana e l’astensione dalle prossime elezioni. Iniziava in Italia il Biennio Rosso e ritenevamo inopportuno che il proletariato si distraesse dall’azione rivoluzionaria per partecipare alle elezioni. La Sinistra sapeva che la rivoluzione in Italia sarebbe potuta essere vicinissima: perciò i mezzi legali divenivano inutili ed era ora di pensare all’organizzazione rivoluzionaria dei proletari. Urgeva inoltre eliminare dai proletari ogni pregiudizio democratico. Per la Sinistra era anche inutile partecipare alle elezioni per un altro motivo: come diceva Lenin il capitalismo era ormai passato definitivamente alla fase imperialista e in termini politici ciò significava che il suo Stato doveva essere sempre più accentrato, dispotico e poliziesco.

    Nel 1921, alla fondazione del Partito Comunista d’Italia non ritenemmo che l’antiparlamentarismo fosse ancora questione di principio, tanto che non pretendemmo di imporre la tattica che ritenevamo migliore ed accettammo gli ordini di Lenin e dell’Internazionale di partecipare alle elezioni. Il nostro indirizzo si era già però dimostrato adeguato durante il Biennio Rosso ma ancora di più lo si dimostrò quando nel 1924, a seguito dell’omicidio di Matteotti, i centristi alla Gramsci sbandarono completamente e si posero sul terreno della difesa del Parlamento democratico: la Rivoluzione stava per venire dimenticata.

    Noi e Lenin eravamo gli unici in Europa ad avere sempre chiara la nozione della dittatura violenta del partito comunista. Il vilipendio fatto ai principi marxisti dal 1924 in poi da parte dell’Internazionale e dai centristi del Partito Comunista d’Italia era sinonimo di tradimento dei fini e vittoria dell’opportunismo. Invece la difesa dell’uso del Parlamento da parte di Lenin fu un errore di valutazione sulla situazione in occidente, ma in Lenin l’intransigenza sui principi non fu mai scalfita.


    I bolscevichi dall’isolamento alla Rivoluzione

    «Nei primi due mesi dell’anno 1917 la Russia era ancora sotto la monarchia dei Romanov. Dopo otto mesi erano già al timone i bolscevichi, che pochi conoscevano al principio dell’anno e i cui capi, nel momento stesso che vennero al potere erano ancora sotto l’accusa di alto tradimento». Così Trotski comincia la sua "Storia della Rivoluzione Russa": in soli dieci mesi il partito comunista passò cioè dall’isolamento alla Rivoluzione.

    La dura lezione storica della sconfitta della Rivoluzione nel 1905, la Prima Guerra e la situazione precaria che in questa la Russia si trovava a giocare, l’inettitudine e la stupidità di una classe borghese incapace di tenere nelle proprie mani il potere, la diffusione improvvisa del proletariato in un paese che solo qualche tempo prima era ancora feudale, il contatto in trincea tra i proletari ed i contadini: tutto questo creò le premesse della rivoluzione e l’avvicinamento del proletariato ai bolscevichi. Non furono programmi resi meno intransigenti ad avvicinare il proletariato al Partito!

    Dirà Zinoviev nel 1923: «Il partito è sempre stato genuinamente rivoluzionario ed è per questo che ha potuto operare non solo quando era una struttura fortemente coesa da un punto di vista gerarchico, ma anche quando, ridotto alla clandestinità, sembrava scomparso come corpo organizzato. Quante volte, sotto lo zarismo, è apparso distrutto, ridotto a qualche compagno! Ma grazie agli sforzi eroici dell’avanguardia del proletariato, ha diffuso tra le masse operaie le idee necessarie alla creazione di un grande partito operaio panrusso. E dopo qualche tempo, come la Fenice, rinasceva sempre dalle sue ceneri» ("La formazione del Partito Bolscevico").

    Nel settembre i Soviet sparsi per la Russia erano ormai sotto il controllo bolscevico: i falsi rivoluzionari si erano scoperti di fronte al proletariato ed ai contadini per la loro chiara difesa dell’ordine borghese e per la loro incapacità di rispettare le promesse fatte. Scrive Trotski: «Le organizzazioni del partito si rafforzano, ma in un modo incalcolabilmente più rapido cresce la sua forza d’attrazione. La discordanza fra le risorse tecniche dei bolscevichi e il loro peso specifico politico trova la sua espressione nel numero, relativamente esiguo, dei membri del partito, in paragone con il grandioso aumento della sua influenza. Gli eventi travolgono così rapidamente e imperiosamente le masse nel loro vortice che gli operai e i soldati non hanno tempo di ordinarsi in partito. Essi non hanno nemmeno il tempo di comprendere la necessità di una speciale organizzazione di partito (...) Dietro ai Soviet stanno più di venti milioni di uomini. Il partito, che anche alla vigilia del rivolgimento di ottobre non contava nelle sue file più di 240 mila persone, per mezzo dei sindacati, dei comitati di fabbrica e dei Soviet conduce dietro di sé, con una convinzione sempre maggiore, milioni di uomini».

    Il proletariato tentò più volte in pochi mesi di decidere le proprie sorti politiche: ad un certo punto dovette capire, a forza insuccessi, che le parole d’ordine bolsceviche erano le uniche che gli potessero appartenere. «Le parole d’ordine, che rispondono ad un acuto bisogno della classe e dell’epoca, si aprono migliaia di canali. L’ambiente rivoluzionario, quando è arroventato, si distingue per un’alta conduttibilità delle idee. I giornali bolscevichi venivano letti ad alta voce, riletti sino a quando si laceravano, gli articoli più importanti erano imparati a memoria, ripetuti, ricopiati, e dov’era possibile, ristampati» (Trotski).

    Non fu Lenin, o Trotski, o chicchessia, che crearono la Rivoluzione ma bensì furono le condizioni oggettive che crearono quello splendido urto proletario che fece tremare il mondo del Capitale. 


    La Sinistra Comunista

    La Sinistra comunista fondò nel gennaio 1921, da una scissione dal PSI ormai ultrariformista ed opportunista, il Partito Comunista d’Italia. Facendo ciò la Sinistra non faceva altro che seguire le giuste direttive dell’Internazionale che invitavano i comunisti rivoluzionari a separarsi dai riformisti e dai "falsi amici".

    Il Partito nasceva in Italia come unica forza coerentemente marxista, in quanto a dottrina, nell’Europa occidentale. Lo Statuto del Partito lo dimostra.

    Nel luglio/agosto 1921 usciva su "Il Comunista" un articolo dal titolo emblematico che qui ci interessa riportare per comprendere su quali basi era nato il Partito Comunista d’Italia: "Il valore dell’isolamento". Si affermava in questo articolo: «Non discutiamo l’ipotesi di accedere a intese organizzative col proposito di "tradirle" o sfruttarle nel loro complesso di forze nel nostro senso alla prima occasione. E scartiamo questa tattica non per scrupoli di ordine morale, ma perché, data appunto la funesta influenza di quel "confusionismo rivoluzionario" di cui trattiamo, anche purtroppo sulle masse che seguono il nostro partito, il gioco sarebbe troppo pericoloso, e la manovra del disimpegno riuscirebbe a nostro danno. Per preparare le masse alla severa disciplina dell’azione rivoluzionaria occorre grandissima chiarezza di atteggiamenti e di movimenti, e quindi occorre portarsi fin da principio su di una piattaforma ben definita e sicura: "nostra" (...) Noi crediamo che a base della nostra tattica debba stare questo criterio: nessuna intesa organizzativa, ossia nessun fronte unico, con quegli elementi che non si prefiggono: la lotta rivoluzionaria armata del proletariato contro lo Stato costituito, intesa come una offensiva, un’iniziativa rivoluzionaria – l’abolizione, attraverso questa lotta, della democrazia parlamentare insieme al meccanismo esecutivo dello Stato attuale –la costituzione della dittatura politica del proletariato che porrà fuori dalla legge rivoluzionaria tutti gli avversari della rivoluzione».

    L’articolo concludeva nel seguente modo: «Altri potrà credere di avere una via più breve. Ma non sempre la via che appare più facile è la più breve, e per meritare della rivoluzione è troppo poco avere soltanto "fretta" di "farla"».

    Nel 1922, a solo poco più di un anno dalla fondazione, l’Internazionale cominciò a chiederci di trovare un compromesso e formare un’alleanza con i massimalisti del PSI che non avevano voluto seguirci nella scissione. Noi rispondemmo che ciò poteva essere pericoloso e soprattutto poteva creare stupore tra il proletariato che cominciava ad abbandonare le file del PSI per il nostro partito. La rivoluzione in Europa stava divenendo un serio problema e il C.C. di Mosca credette che cercando compromessi vari e destreggiamenti con gli altri "sinistri" si potessero accelerare i tempi, quando in realtà furono proprio i cercati compromessi a stroncare in Germania ed in Ungheria i tentativi rivoluzionari.

    Nel 1923 la Sinistra comunista venne estromessa dalla guida del Partito ed al suo posto furono messi i "centristi", fra cui Gramsci, molto più in linea con la nuova svolta tattica che stava via via per prevalere nell’Internazionale. Ma quando si rispose all’omicidio Matteotti con la lotta per la difesa dai fascisti del democratico parlamento, la degenerazione incominciò a farsi palpabile.

    Uno dei sintomi di essa fu il formalismo introdotto nell’attività del Partito. Non vi era più l’organica interazione fra i capi e la base, fra la teoria e la pratica rivoluzionaria. Dalla formula leniniana per cui la rivoluzione non è una questione di forma si passò alla formula errata secondo cui "la parola è all’organizzazione". Si introdusse la carica di Segretario Generale, che andò a Gramsci; si crearono diversi Uffici di Segreteria, ecc. Nel 1925 era introdotta la Commissione Centrale di Controllo per i casi di indisciplina; all’Ufficio Primo, in precedenza responsabile dell’attività illegale, si diedero poteri di vera e propria polizia interna.

    Il partito conquistò nuove schiere di militanti, senza più una selezione, che minarono la capacità rivoluzionaria dell’organizzazione: sempre di più veniva svenduta l’intransigenza. Non si comprendeva che se il PCd’I era passato da 42.700 iscritti nel 1921 (esclusi i disoccupati e coloro che non potevano pagare le quote) a 8.700 nel 1923 non era per incapacità della Sinistra di guidarlo ma, tutt’altro, era dovuto al peggioramento delle condizioni oggettive e al riflusso controrivoluzionario del proletariato e non rimediabile, come per Togliatti, con la «soluzione di una serie di problemi di natura organizzativa».

    Così criticavamo la Centrale centrista: «L’azione della Centrale ha la caratteristica generale dell’incertezza, dell’improvvisazione sostituita ad una chiara e ferma direttiva, dell’equilibrio posticcio fra le opinioni occasionali di gruppi eterogenei e per diverse ragioni inadeguati al loro compito di dirigenti, della meccanicità sterile della disciplina messa al posto dell’iniziativa conveniente e del fermo governo del Partito, necessari al lavoro rivoluzionario» (Punti della Sinistra, da "La Sinistra Comunista e il Comitato d’Intesa").

    La Rivoluzione in Europa stava fallendo. La Russia era sempre più isolata. Ma al gorgo della controrivoluzione il Partito bolscevico e l’intera Internazionale non risposero come avrebbero dovuto (ovvero con un più marcato isolamento) ma attraverso formule anti-marxiste quali l’attivismo, la caccia frenetica di militanti e il più bieco e vuoto formalismo organizzativo.

    Nel 1927 con la sconfitta della Rivoluzione cinese, proprio per colpa delle direttive dell’Internazionale, il processo di degenerazione divenne irreversibile e dalla disciplina del Partito marxista si passò alla disciplina di un Partito borghese. La degenerazione staliniana negli anni ’30 riuscì poi definitivamente a disperdere l’opposizione russa ed italiana: da questa esperienza amara rinascerà però durante la Seconda Guerra la nostra organizzazione sotto il nome di Partito Comunista Internazionalista.

    Nemmeno in quei momenti difficili la nostra intransigenza venne meno, anche verso coloro che erano a noi più vicini, come i trotskisti: questi criticavano lo stalinismo giudicandolo frutto di una eccessiva "burocratizzazione" e corruzione e, soprattutto, per il troppo "dispotismo" interno al partito; noi invece criticavamo lo stalinismo vedendo la sua nascita come frutto di enormi cause socio-economico-politiche. I trotskisti appoggiavano poi la tattica del fronte unico contro i fascismi per la restaurazione democratica; noi non accettavamo nessun fronte unico poiché l’abbattimento dello Stato borghese non poteva passare per questa "democratica" strada. I trotskisti auspicavano la vittoria delle potenze alleate su quelle dell’Asse; noi dicevamo che i nazisti e i democratici erano la doppia faccia di un’unica medaglia. Inutile dire che i trotskisti abbandonavano infine del tutto la via rivoluzionaria.

    Da questa nostra esperienza si formerà il partito del secondo dopoguerra. Col passare degli anni, in realtà, la nostra intransigenza si confermava per gli apporti dell’esperienza, codificata in scolpimenti continui della teoria marxista, nonostante l’esiguo numero di militanti dovuto a nient’altro che a questo momento storico, fetido ed escrementizio. Abbiamo praticato in questi 50 anni tanta intransigenza, e forse più di quella che in passato tennero Marx e Lenin, ma questi non erano però passati da un ciclo di così tale schifosa controrivoluzione, tanto democratica, quanto stalinista, quanto ancora piccolo-borghese. Abbiamo scritto: «Al tempo di Marx e di Lenin non si era dato ancora che uno Stato della vittoria proletaria, come quello russo, degenerasse fino a passare dalla parte del nemico di classe nella politica estera (alleanze di guerra) e interna (misure economico-sociali capitalistiche)». 


    Il valore dell’isolamento

    La tanto lunga resistenza della Sinistra comunista dall’opportunismo è un fattore che solo per durata è inedito. Il lavoro svolto in più di 50 anni dal punto di vista teorico è stato colossale sia per il momento in cui fu svolto sia per il suo utilizzo futuro. Ad ogni sbandamento, ad ogni evento contingente ha risposto il partito con la dovuta efficacia. Il contatto con la classe operaia è stato continuamente cercato dal partito per quanto esigue le proprie forze. Agli attacchi subiti, fisici e teorici, il Partito è riuscito a rispondere nonostante le proprie piccole capacità numeriche.

    L’accusa di settarismo, dataci da più parti in questi 50 anni, è per noi frutto solamente di bassa polemica piccolo-borghese. In un articolo del 1980 sul nostro giornale scrivevamo: «Ma, in definitiva, voi ci proponete di rinchiuderci tra "quattro mura" a studiare, scrivere e così "amalgamarci" in attesa degli eventi, potrebbe essere l’obiezione dei soliti super attivisti, super concretisti e super frettolosi. E’ una obiezione che non meriterebbe nessuna risposta, perché il nostro lavoro verso la classe proletaria dalla fine della seconda guerra mondiale, dalla ricostituzione del Partito prima come Partito Comunista Internazionalista e poi Internazionale, è stata enorme ed è ampiamente documentato sulla nostra stampa. Si potrebbe chiedere come mai non ci sono stati risultati apprezzabili, ma anche questa è la tipica domanda di chi non ha saputo trarre le lezioni delle sconfitte subite dal proletariato mondiale dopo la vittoria luminosa di ottobre» ("Tutto Lenin è conferma della necessità del Partito Comunista", da "Il Partito Comunista" n.73/1980).

    Riportiamo ancora altre citazioni da un articolo, questo del 1977, che già dal titolo si collega perfettamente al nostro lavoro, ovvero "La forza dell’intransigenza": «La prova che il metodo socialdemocratico è superiore a quello rivoluzionario comunista non c’è stata ancora fornita. Né è stato dimostrato che la coerenza testarda dei comunisti rivoluzionari è da rigettare e che l’involuzione dei fedifraghi è da preferire. E – si dirà, da parte di chi ha tralignato – quale giovamento ha avuto il proletariato dalla vostra intransigenza? Innanzi tutto, non da noi la classe operaia è stata condotta al secondo massacro mondiale; non da noi è stata indirizzata a piegare la rotta verso la democrazia borghese anziché continuarla, pur con vento contrario, verso la rivoluzione. Non dal partito comunista rivoluzionario la classe è stata spinta in braccio alle classi possidenti, a sottomettersi allo stato politico del capitale. In secondo luogo, il proletariato ha nel suo partito un organo sincero, fedele e coerente che non lo ha mai ingannato, facendogli apparire oggi amici i nemici di ieri (...) Solo l’intransigenza del partito, anche nella ritirata, nella lotta difensiva e nella sconfitta stessa, è garanzia e presupposto che l’assalto sarà ripreso, che l’avanzata verrà, perché il nemico non potrà contare su una classe debilitata e scoraggiata (...) La richiesta, quindi, di aprirci alle suggestioni del momento, che promanano dalle aberrazioni soprattutto delle classi intermedie e delle aristocrazie operaie, è rigettata in blocco. La nostra intransigenza è sicurezza, è garanzia di vittoria» (da "Il Partito Comunista", n.39/1977).

    La "giusta teoria" è quella che, anche in periodi che possano facilmente prendere gli animi, come gli Anni Settanta, non si corrompe un minimo e non scende a compromessi con ideologie piccolo-borghesi dipinte di comunismo. Il Partito, nel limite delle sue forze, interviene nelle lotte economiche del proletariato, questo è suo compito permanente, anche quando non riescono a travalicare l’angusto limite dell’azienda, ma nei confronti degli altri partiti deve mantenere salda la propria intransigenza e non "eccitarsi" per qualsiasi movimento di classi spurie, quand’anche si ammantino di fraseologia e atteggiamenti "estremisti" e "guerriglieri".

    Tutti si agitavano e si "aprivano" negli Anni Settanta. Anche allora preferimmo confermare la nostra "chiusura". Scrivemmo: «Il partito non è chiuso una volta per sempre in virtù della adesione a certi testi e di una rigida delimitazione organizzativa delle sue file. E’ la sua azione pratica che può indebolire o potenziare la sua stessa coscienza collettiva e, se l’azione pratica contraddice ai principi, prima o poi inevitabilmente il partito è destinato ad "aprirsi". E’ la storia della degenerazione della III Internazionale (...) Il partito è "chiuso" non perché possiede un bagaglio di idee e di nozioni che è esclusivamente suo e distintivo, ma perché la sua azione pratica non contravviene a questo bagaglio. E’ nel campo del movimento pratico che il partito si distingue da tutti gli altri e dimostra la sua chiusura, il suo essere realmente una fortezza murata» ("Al fianco del più umile gruppo di sfruttati che lotta per un pezzo di pane ma contro il meccanismo delle istituzioni presenti e contro chiunque si ponga sul suo terreno», da "Il Partito Comunista", maggio 1979).

    Si può concludere il lavoro con quest’ultima citazione da un altro articolo degli Anni Settanta, che ben viene incontro al Partito di oggi su come esso debba continuare ad atteggiarsi in questi anni di sterco ai massimi livelli: «Se la classe operaia è tutt’ora (1975) inquadrata in sindacati tricolore, monopolizzata da partiti traditori, ciò significa che non esiste una delle condizioni oggettive favorevoli all’intervento diretto o indiretto del partito, dato per fermo che non è il partito a "creare" le condizioni per la ripresa della lotta di classe, ma che il partito può condizionare la lotta di classe per elevarla a lotta rivoluzionaria di classe. Non c’è da escogitare, allora, manovre, ripieghi, da spremersi le meningi e ricorrere alla fantasia. C’è da prendere atto che questa maledetta società riesce ancora a prevenire o bloccare ogni pur piccolo serio e continuato movimento della classe, che, ancor quando si manifesta, riesce ad incanalarlo nell’alveo della conservazione, per mezzo del suo braccio opportunista» (Introduzione a "Il valore dell’isolamento", da "Il Partito Comunista", n.5/1975)

    * * *

    L’esperienza storica ci ha a più riprese dimostrato che non sono le grida nel deserto a creare il movimento e il partito: l’attività pratico-rivoluzionaria si dispiegherà nuovamente quando sarà lo stesso proletariato ad aver bisogno di riallacciarsi al suo naturale partito. Il nostro non è attendismo ma all’inverso è capacità marxista di interpretare i fatti e le realtà fino in fondo.

    Sappiamo però che non è poi così lontano il momento in cui il proletariato dovrà rialzare la testa, riorganizzarsi prima per la sua difesa come classe sfruttata, poi, diretto dal suo partito comunista, per l’offensiva alla società del capitale. La nostra scientifica teoria sa che sono questi gli inevitabili trapassi della successione da una forma di produzione, marcia e decrepita, ad un’altra fresca e luminosa, pronta a sbocciare, il Comunismo.
     
     
     
     
     
     
     
     


    PAGINA 4
    LA NOSTRA PAROLA CONTRO LE MANOVRE ANTI‑OPERIAE – IN PACE E IN GUERRA – DI RSU E SINISTRA SINDACALE

    Compagni, lavoratori!

          La guerra esplosa nei Balcani mostra sempre più chiaramente di rappresentare solo un episodio del più grande macello mondiale che il regime del capitale sta approntando per uscire dalla crisi recessiva nella quale sta sprofondando.

    L’adesione di CGIL, CISL e UIL alla guerra è un ulteriore tradimento degli interessi generali del proletariato. Sta in linea con il tradimento quotidiano degli interessi immediati e della difesa delle condizioni di vita e di lavoro. È in linea con l’accettazione di salari e condizioni di lavoro sempre peggiori, contratti capestro (come quello dei metalmeccanici), pensioni da fame. Tutto questo sarà presto imposto in nome dello sforzo bellico, camuffato come "impegno umanitario" verso i profughi.

    Opporsi alla guerra significa rigettare non solo la propaganda e le menzogne del regime, ma anche la politica patriottarda di solidarietà nazionale, ad esso asservita, portata avanti dai sindacati Confederali. Ma significa anche rifiutare di accodarsi ai belati del pacifismo piccolo borghese che, richiamandosi ad una utopica e ipocrita difesa di valori borghesi (la Costituzione tradita, il Parlamento esautorato, la "legalità" internazionale infranta) prospetta una falsa opposizione interclassista e democratica.

    In Italia la borghesia, tramite il suo Stato, per chiamare i lavoratori a sostegno della sua azione imperialistica, per continuare a chiedere il loro sudore, e domani il sangue, e per giustificare i bombardamenti si maschera dietro le azioni di guerra del regime serbo, accusato di illegalità ed atrocità. Ma in Serbia la borghesia e il suo Stato fanno altrettanto per sottomettere i lavoratori a sostegno dei suoi interessi di classe e alla sua disciplina e non è loro difficile accusare la Nato di altrettante illegalità e atrocità. È di questi giorni la notizia che in ogni officina con più di 200 operai il regime vi ha piazzato un commissario politico.

    In Italia la borghesia non ha da piazzare "commissari politici" nelle officine perché già ci sono, istituiti con legge dello Stato, sono i ben pagati funzionari di CGIL-CISL-UIL.

    Analogamente in Francia, negli Usa così come in Russia, ai lavoratori il regime borghese chiede il sostegno al suo fronte di guerra e di interessi.

    Chiarita questa realtà, tutti gli sforzi del movimento operaio nei paesi di entrambi i fronti devono tendere alla lotta senza quartiere non contro il "barbaro nemico" straniero – sia esso individuato nella Nato o in Milosevic – ma in primo luogo contro la propria borghesia e il suo regime. Le parole d’ordine Fuori l’Italia dalla Nato, o richieste di intervento dell’ONU e così via, fatte proprie dalla sinistra sindacale e da Rifondazione, implicano la sottomissione proletaria ad uno dei due fronti borghesi, la sottomissione proletaria alla guerra imperialista e derivano dal convincimento che la classe operaia non disponga di un suo programma e di una sua strategia al di fuori del mondo borghese!.

    I lavoratori non siano gli spettatori inermi dello scontro fra borghesie: quello scontro è diretto contro di loro. Se non si opporranno ad entrambi, sul terreno autonomo di classe, saranno loro le uniche e vere vittime della futura guerra fra capitalisti europei e capitalisti americani.
     

    Compagni, lavoratori!

          Come con gli accordi di luglio ’93, fatti ingoiare al proletariato, oggi il "movimento delle RSU" torna a farsi vivo proprio per scongiurare una possibile rottura fra lavoratori e centrali sindacali, proprio per recuperare il consenso al sindacato di regime e riportare nel suo alveo il movimento che tenta di organizzarsi fuori e contro di esso su basi classiste.

    Manca del tutto una prospettiva futura al "movimento delle RSU", che negli appelli e nelle risoluzioni si guarda bene dal segnalare la necessità di riconquista dei sindacati tricolore, poiché sanno anche loro che ormai è impossibile. Non chiarire l’equivoco: se i sindacati confederali sono o non sono dei cadaveri passati irrevocabilmente dalla parte del nemico, è la truffa e l’inganno di chi non vuole la rinascita del sindacato di classe.

    Le RSU, istituite con legge delle Stato, sono la lunga mano del Capitale: chiudere i lavoratori all’interno delle gabbie aziendali, sotto il vigile occhio del padrone, portarli a pacifiche passeggiate il sabato e, quando la rabbia è davvero tanta, uno scioperino locale!

    I lavoratori rinuncino dunque all’illusione di poter recuperare il cadavere confederale con gli strumenti messi a disposizione dal padrone. Le sane energie dai luoghi di lavoro convergano verso la ricostruzione di nuove Camere del Lavoro, verso la ricostruzione del Sindacato di classe.
     

    Compagni, Lavoratori!

          La lotta contro la guerra esige la rottura con la politica di solidarietà nazionale, con l’opportunismo pacifista! Esige la ripresa della lotta intransigente su tutti i fronti in difesa delle condizioni di vita e di lavoro, per arrivare a contrapporre la guerra di classe alla guerra fra gli Stati, unica via per fermare il prossimo macello mondiale.

    Esige la riorganizzazione del movimento operaio fuori e contro i sindacati di regime, nel sindacato di classe. Esige il rafforzamento del Partito che rappresenti e guidi la classe nel percorso di emancipazione verso la società che, liberata dalla sottomissione al Capitale, avrà finalmente chiuso con gli orrori della pace e della guerra borghese.
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     


    Omicidi sul lavoro
    LA GUERRA PERMANENTE DEL CAPITALE CONTRO I LAVORATORI

          In un nostro articolo scrivevamo: «Pace? e chi se ne frega? Il problema è quale pace, che tipo di pace. Pace e dominio della borghesia è situazione altrettanto fetida, quanto guerra e dominio della borghesia (...) La nostra rivendicazione non è porre fine alla guerra, ma porre fine al capitalismo».

    La pace capitalista non porta affatto una soluzione alle sue crisi economiche e sociali, che non potranno mai essere eliminate. I marxisti sanno bene che il capitalismo genera costantemente contraddizioni e cataclismi sociali e che questi non si curano con terapie riformistiche, nemmeno se si trattasse di quel "riformismo armato" di cui si fanno portavoce i rinati brigatisti; i marxisti sanno soprattutto che la pace capitalista non è l’alternativa alla guerra capitalista: unica alternativa alla guerra del capitale sono la rivoluzione e la dittatura del proletariato.

    Ma, poniamo per un istante che fosse possibile, grazie alla democrazia ed al buon senso dei governanti (coadiuvati dai saggi consigli di papi, popi ed imani), un periodo indefinito di pace capitalista, quella pace che la piccola borghesia imbelle ed imbecille sogna e vagheggia: anche in questa assurda situazione i marxisti considererebbero il grido di "viva la pace" come il più feccioso fra tutti.

    I pavidi cuori degli intellettuali sinistrorsi al sentire queste cose si scandalizzano perché, lontano dal fare un ragionamento di classe, pensano alle loro meschine persone e inorridiscono all’idea che quella carneficina, che quotidianamente miete innumerevoli vittime ai danni della classe operaia, esca dalle fabbriche e dal recinto dei cantieri per colpire, come fanno le bombe e le cannonate, indiscriminatamente anche loro.

    «Sei morti in poche ore. Il più giovane aveva 20 Anni ed aveva cominciato ieri», questo titolo lo abbiamo letto sul "Corriere della Sera" del 13 maggio. "L’Unità" dello stesso giorno scriveva: «E ieri ai sei decessi si sono sommati tre feriti gravi, due dei quali in prognosi riservata» e la "Repubblica": «Tre deceduti in Lombardia. Un camionista bruciato vivo».

    Quattro giorni prima, quasi tutti i quotidiani del territorio nazionale (non siamo riusciti a vedere la notizia né sul "Manifesto", né sull’"Osservatore Romano") avevano riportato i dati forniti dall’Inail su infortuni e morti sul lavoro. Nel primo trimestre ’99 sono stati oltre duecento i proletari che hanno immolato la loro vita sul posto di lavoro: più di due al giorno. Non si potrà dire che i "deprecabili" incidenti siano causati della arretratezza del modo di produzione capitalistico, anzi è il contrario, quanto più il capitalismo è moderno e tecnicamente avanzato, tanto più compie le sue stragi tra la massa degli sfruttati. Infatti la regione che detiene il primato degli omicidi, detti "bianchi", è la Lombardia con un progressivo aumento del 25% tra il 1994 ed il 1997.

    Gli omicidi compiuti dal capitale nell’ultimo triennio sono stati 1.320 nel 1996, 1.362 nel 1997, 1.343 nel 1998. Ogni minuto avvengono almeno 3 infortuni di varia entità. Dal 1994 ad oggi si sono avuti una media di 1.100.000 infortuni denunciati «di cui 30.000 con lesioni tali che spesso si trasformano in invalidità permanente». Ma le cifre di questa carneficina proletaria sono molto al di sotto della realtà non fosse altro perché l’Inail non censisce gli infortuni durante il lavoro "in nero" che è presumibile siano in numero non molto inferiori di quelli "legalmente riconosciuti".

    Nel solo settore edilizio «nel 1997 ben 161 sono stati i muratori deceduti precipitando dall’impalcatura. E questo è il dato più mostruoso se si pensa che già gli egizi, al tempo delle piramidi, avevano adottato una serie di misure per evitare le cadute, e oggi nei cantieri si continuano a disprezzare le norme di sicurezza più elementari». Certo, quelli erano schiavi e costavano ai loro padroni, mentre il libero operaio non vale un soldo!

    Nella ultra civile Unione Europea tutti gli anni ogni 10.000 lavoratori in media 3,9 perdono la vita per incidenti mortali; nella Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza e costituzionalmente "fondata sul lavoro" la percentuale sale a 5,3.

    Il "Corriere della Sera" del 9 maggio scriveva che nel mondo ogni anno per incidenti sul lavoro «muoiono 340.000 persone, più della guerra del Vietnam che ebbe "solo" 90 mila caduti».

    Certo, di guerra si tratta. Si tratta di una strage programmata e calcolata da un modo di produzione disumano che, per la sete di profitto, uccide migliaia di proletari ogni anno. E per questi caduti sul fronte della "pace" borghese e della collaborazione di classe nessuno si scandalizza: non le alte personalità politiche use a sfoggiare una "composta e dignitosa" commozione, non i duci sindacali che non chiamano i lavoratori alla mobilitazione ed alla lotta, non si mostrano stavolta madri, mogli e figli piangenti, esposti altre volte con sadico compiacimento nei telegiornali, non cardinali e prelati a sciorinare parole di fede e di conforto.

    A proposito di questi ultimi va messo in evidenza quello che gli articolisti dell’"Osservatore Romano", da preti quali sono, hanno la faccia tosta di scrivere: «Precise responsabilità sono da ricercare soprattutto nella bassa sensibilità dei dipendenti al problema (spesso questi ultimi accettano di operare in condizioni di evidente pericolosità)». Sarebbe come dire che i loro martiri della fede venivano sbranati dai leoni perché "accettavano" di "operare" in condizioni di evidente pericolosità, data la loro "bassa sensibilità al problema".

    Invano i proletari potranno attendere che i rappresentanti sindacali o i capi dei partiti di sinistra si scaglino contro gli assassinii del proletariato, al contrario li vediamo amabilmente discutere con governo e Confindustria su flessibilità, produttività, mobilità, costo di lavoro, licenziamenti e tutte le altre delizie che la società borghese concede ai suoi schiavi. Questo perché per la borghesia l’operaio non è un essere umano, ma solo una forza lavorativa da sfruttare il più intensamente e disfarsene il più velocemente possibile.

    Noi non individuiamo i responsabili di tutto ciò in singoli individui, per quanto possano essere personalmente criminali, ma nel regime del capitale: i proletari morti, i mutilati, i malati sono i morti ed i mutilati di una guerra che il capitalismo conduce contro le condizioni di vita e di lavoro di una classe operaia inerme, indifesa perché priva delle sue tradizionali armi di battaglia: il Partito ed il Sindacato di classe.
     
     
     
     
     


    Pignone-Breda-Mugello
    OPERAI FRA CRISI E TRADIMENTO DEI SINDACATI

     La classe operaia italiana, come del resto quella di molti altri paesi soprattutto occidentali, è ingessata ed impotente di fronte all’attacco alle proprie condizioni di vita e di lavoro. L’ultimo contratto dei metalmeccanici appena siglato dalle confederazioni tricolore, in pieno accordo con il governo del capitale ed i padroni confindustriali, ne è la più chiara dimostrazione. Un irrisorio aumento di salario contro un piano ben organizzato di gestione della manodopera nell’interesse del profitto capitalistico. Contratto all’insegna della flessibilità con l’aumento delle ore di straordinario per la "individuazione degli esuberi". Il passo successivo che il sindacato corporativo dovrà affrontare saranno le mille forme, le mille gabole inventate per mettere i lavoratori in esubero fuori dal "ciclo produttivo" e dal salario (liste di mobilità, cig, lavoro interinale, ecc.).

     Alla Pignone questo processo è già avvenuto. Attraverso un paio di accordi per l’aumento della produttività, aumento dello straordinario, introduzione del terzo turno il sindacato ha lavorato bene e dopo gli accordi, a distanza di qualche mese, con la sua indagine è riuscito a contare fino a 400 esuberi. Subito la direzione aziendale ha proposto i licenziamenti. Le prospettive economiche sono delle peggiori per i vertici della Pignone (crisi asiatica ecc.) nonostante il portafoglio ordini sia pieno ed il profitto aziendale in continua ascesa. Dopo una prima timidissima reazione dei lavoratori che, impauriti dal rischio di perdere il lavoro, hanno aderito compatti alle quattro ore di sciopero di facciata del sindacato, lo stesso sindacato, d’accordo con la direzione aziendale, sindaco, giunta e assessorati vari, ha steso un programma di espulsione dei lavoratori fra cig, mobilità,
    pensionamenti, i soliti corsi professionali sempre promessi ed una piccola riduzione del numero totale degli esuberi (questa è stata la "vittoria"!).

     Non molto diversa è stata la vicenda Breda Ansaldo. L’accordo sindacale, siglato a breve distanza da quello della Pignone ma stando ben attenti ad ogni eventuale accavallamento e possibile contatto fra lavoratori, ha significato 430 cassaintegrati su 550 esuberi emersi, di cui 207 passeranno dalla cassa direttamente alla pensione (chissà con quanti pochi soldi!); al resto dei lavoratori "spetta" un bel corso di riqualificazione con "sicure" prospettive di reinserimento nel gruppo Breda, ma quando non si sa.

    Tre giorni di sciopero nei cantieri dell’Alta velocità del Mugello. I lavoratori obbligano il sindacato ad indire gli scioperi. Condizioni di lavoro bestiali, turni di lavoro massacranti fino a 20 ore di lavoro al giorno, aumento degli straordinari, settimana lunga compresi sabato e domenica, paghe basse dalle 12 alle 14.000 lire orarie a seconda delle qualifiche. Terrorismo aziendale. Un operaio dichiara: Siamo ricattati, bisogna stare sempre zitti come se fossimo al servizio militare. Se denunci qualcosa rischi il posto.
     Morale comunista: la classe operaia, quella che un tempo i vari opportunisti anti-comunisti definivano "garantita" ed "imborghesita", non esiste più. Permangono l’assoluta mancanza di indirizzo politico di classe, comportamenti coatti di disabitudine alla lotta in una situazione oggettiva di debolezza sul piano del mercato della forza lavoro. La realtà emerge, anche se a fatica, e il capitalismo si disvela sempre più come sistema antiumano di distruzione, morte, oppressione e sfruttamento e niente più.