Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 269 - luglio-agosto 1999
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 NEL DILAGARE SFRENATO DEL CAPITALE MONDIALE LEGGIAMO I SINTOMI DI UN SUO PROSSIMO CATASTROFICO ROVINARE: Il declino della crescita - Le produzioni - L’industria - Riscontro con altri dati - L’inevitabile crisi
MORTALI ABBRACCI
I POSTUMI DI UNA ABORTITA RIVOLUZIONE BORGHESE ALLA BASE DEI MASSACRI ALGERINI
PAGINA 2-3 – MISERA FINE DEL NON RIMPIANTO HOMO CAPITALISTICUS: Far mercato anche della solitudine - Emancipazione intellettuale? - Famiglia e Religione - Individualismo e massificazione prigioni dell’uomo - Disintossicazione nel partito - Vittoria sul Golia
PAGINA 4 – "FLESSIBILITÀ CONCERTATA" PER I BRACCIANTI AGRICOLI
SACRIFICI UMANI AL DIO PROFITTO

 
 
 
 
 


PAGINA 1

NEL DILAGARE SFRENATO DEL CAPITALE MONDIALE LEGGIAMO I SINTOMI DI UN SUO PROSSIMO CATASTROFICO ROVINARE

Il declino della crescita

      La tendenza del lungo periodo, che inizia con la crisi del 1975, caratterizzata dal rallentamento della crescita relativa della produzione capitalistica rispetto a quella vigorosa del dopoguerra, prosegue con maggiore evidenza; ciò che si delinea in maniera più marcata è la discesa dell’incremento relativo, ossia il rapporto fra il valore della produzione in più rispetto all’anno precedente (che è sempre crescente conformemente alla curva di sviluppo catastrofico del capitalismo) e il valore della produzione nell’anno precedente.

      Negli ultimi due anni si è verificato un ridimensionamento dell’incremento relativo della produzione industriale mondiale, dato da una maggiore debolezza in Asia, America Latina, Europa ed Africa, non compensata dal vigore relativo degli Stati Uniti. Ma l’accelerazione del processo di lungo periodo sopra ricordato si era manifestata alla fine degli anni ’80 proprio nei campioni di accumulazione del dopoguerra, Giappone e Russia con delle crisi generali non congiunturali così profonde che ancora non sono risolte.

      Da allora il capitale ha superato rapidamente la recessione congiunturale del 1990 negli Stati Uniti, ma non così facilmente quella del ’92/93 in Europa. Quindi i rallentamenti rapidi e le contrazioni della produzione industriale, combinati con sconvolgimenti nella finanza e nel corso dei cambi, si sono propagati nel mondo in un arco di quattro o cinque anni, in modo più evidente in Messico, poi nei giovani capitalismi asiatici, quindi in Brasile e ancora in Russia. Essi hanno costituito non fatti casuali e sconnessi o solo crisi finanziarie singole, ma una successione concatenata, effetto della sovrapproduzione cronica e della tendenza depressa internazionalmente. Questa è tornata da un anno a coinvolgere il capitale ancora convalescente in Europa, riportandolo alla contrazione ed influenza al ribasso l’andamento della produzione industriale negli Stati Uniti, proprio mentre questa si avvicina al suo periodo ciclico decennale di euforia e sovrapproduzione.

      La produzione industriale mondiale rallenta la sua corsa nel ’98/99. Ma è pur sempre in crescita relativa, non vi è accelerazione brusca della fiacchezza del capitale. Questo nel suo ciclo lungo che parte dal 1974 sale con fatica, ma non si è ancora fermato sulla cima come allora, prima di scendere. E non si può escludere una di quelle transitorie inversioni di tendenza che negli ultimi venticinque anni hanno rallentato il processo destinato a portare verso la grande crisi di bassi prezzi e violenta deflazione.

      A questo riguardo esiste qualche recente segnale di ripresa della espansione capitalistica in Asia nei paesi colpiti dalla crisi del ’97, ma non nell’economia dominante della zona, quella giapponese, che resta con la produzione industriale ancora in contrazione. Nella stessa area la crescita della produzione in Cina resiste ad alti livelli, ma relativamente indietreggia nonostante la grande spesa statale. Questi segni di ripresa non possono per ora indicare un transitorio arresto del rallentamento, che è generale mondiale: il peso dei capitalismi asiatici in ripresa non è determinante, i loro ritmi impetuosi di crescita nei tre decenni trascorsi sono finiti per sempre, per legge generale di ogni capitalismo nazionale e per legge particolare dei capitalismi giunti per ultimi e condannati a un più rapido invecchiamento. Inoltre a quegli indizi di ripresa fanno per ora da contrappeso quelli in senso contrario in America Latina. E gli andamenti degli altri dati oltre quelli fondamentali della produzione industriale continuano ad indicare per il capitale mondiale sovrapproduzione cronica e tendenza alla deflazione.
 
 

Le produzioni

      Il nostro lavoro statistico riguardo l’economia è basato sui dati della produzione industriale (industria manifatturiera, miniere, elettricità e gas). Gli andamenti della produzione industriale, comprendendo non solo l’appropriazione del plusvalore ma direttamente la sua creazione nel processo produttivo, sono preferibili ai dati sull’andamento del capitale commerciale, che semplicemente compra dai produttori per rivendere, e a quelli sul capitale finanziario, che, nelle sue varie forme, fornisce a prestito i mezzi monetari per il capitale anticipato nel ciclo produttivo: questi esistono e si sviluppano se esiste e si sviluppa il capitale produttivo.

      In questo lavoro dobbiamo usare le stesse fonti statistiche borghesi, uniche disponibili ma non contestabili dal nemico; notiamo però che queste nella produzione industriale non comprendono quella agraria capitalistica, che rientra appieno in quella del capitale creatore di plusvalore. Escluse dalle statistiche borghesi della produzione industriale sono anche quelle branche a conduzione capitalistica in cui il prodotto del processo produttivo non è un oggetto materiale, ma ha un valore di scambio e contiene plusvalore generato dal pluslavoro degli operai venduto sul mercato. Sulla questione riportiamo il seguente passo del II Libro de Il Capitale cap.I par.4,in cui si precisa la nozione di capitale industriale: «Esistono rami industriali autonomi nei quali il prodotto del processo produttivo non consiste in un prodotto nuovo, oggettivo, in una merce. Tra essi la sola importante da un punto di vista economico è l’industria delle comunicazioni, sia industria propriamente detta dei trasporti di merci e persone sia solo trasmissione di comunicazioni, lettere, telegrammi, ecc.».

      Nel testo Il corso del capitalismo mondiale nell’esperienza storica e nella dottrina di Marx - 1750/1990 sono chiarite le ragioni del riferimento alla produzione industriale, costante nel lavoro di Partito. Sono connesse allo scopo della verifica sperimentale delle leggi a fondamento della prognosi marxista del crollo finale del capitalismo.

      Per studiare la decrescenza storica dell’incremento relativo della produzione industriale lavoriamo sull’indice annuale di questa. Se passiamo a valutare la situazione economica nei cicli industriali di espansione e contrazione consideriamo invece l’indice mensile della produzione e la sua variazione. Poiché esso ha variazioni mensili irregolari conviene confrontare due mesi uguali degli anni successivi. Il significato di questo confronto è dato dal fatto che il capitale industriale assume ciclicamente la forma di capitale merce, capitale accresciuto che esce dal processo produttivo. Confrontando l’indice fisico della produzione industriale, che è esente dall’inflazione monetaria, di un dato mese con quello dello stesso mese dell’anno precedente, comprendiamo mediamente diverse rotazioni del ciclo del capitale che abbracciano però tutte le stagioni dell’anno. Confrontiamo due quantità della stessa grandezza, ossia del capitale merce prodotto, riuscendo a seguire nel tempo il suo movimento. Gli incrementi relativi mensili quindi sono calcolati su base annua (in media mobile di tre mesi), attingendo gli indici dal bollettino statistico dell’O.N.U. e riportati nei grafici esposti alle nostre riunioni.
 
 

L’industria

      Negli Stati Uniti l’incremento relativo cala con continuità dalla punta del 10% del marzo ’98 al 1,6% del maggio ’99 ma si entra nell’ottavo anno di espansione relativa sull’anno precedente, settimo di espansione reale dopo il recupero completo della recessione del ’91; è una espansione condotta a ciclo ancora in corso e accumulazione ancora da azzerarsi col ritmo medio annuale non proprio fiacco del 3%.

      In Europa la Germania, che rappresenta ben 1/3 della produzione industriale degli 11 paesi dell’unione monetaria, ha una produzione che, dopo essere ritornata soltanto a metà del ’97 al livello ottenuto prima della crisi degli anni ’92/93, è nuovamente in recessione con un decremento del -2,1%, negativo, ad aprile, tornando al livello del ’91, prima della crisi. Negli altri paesi dell’Euro in prevalenza la produzione industriale è in contrazione per cui nella zona è recessione dalla fine del’98, come d’altra parte in Gran Bretagna.

      Per la Russia i dati del bollettino statistico si fermano al settembre del ’98 con un indice di 43,5, fatta 100 la produzione industriale media mensile del 1990; da quell’anno la produzione secondo questi dati sarebbe più che dimezzata. Da notare però che l’accumulazione in effetti si era arrestata l’anno precedente, dopo più di 40 anni di riproduzione allargata ininterrotta.

      Secondo i dati dell’Economist nei mesi di quest’anno la produzione russa sarebbe ancora in contrazione ma a ritmi oramai blandi, come succede al fondo delle crisi.

      In America Latina la produzione industriale si riduce dalla fine dell’anno passato, movimento preceduto già alla fine del ’97 da quello del Brasile (un anno prima che vi si manifestasse la crisi finanziaria e valutaria). La contrazione è molto forte in Argentina, meno in Cile, mentre in Messico si ha ancora espansione.

      In Asia ci sono manifestazioni di resistenza al rallentamento della crescita (Cina e India) e qualche indizio di ripresa dalle recessioni. Al contrario in Giappone dall’inizio del ’98 l’incremento relativo sull’anno precedente è stato negativo e solo in aprile passa ad un limitato 0,2% positivo, ma con una massa inferiore del 4,8% rispetto quella del ’91, il che vuole dire che già per 7 anni abbondanti il capitale industriale non ha avuto vera accumulazione: non si tratta certo di una crisi propria di un breve ciclo congiunturale. I paesi colpiti dalla crisi del ’97 sono avviati alla ripresa e nel caso della Corea del Sud con gran slancio.

      I dati della produzione industriale mondiale del bollettino ONU si fermano al secondo trimestre ’98, passiamo allora a considerare i dati del PIL mondiale secondo l’OMC che indicano un sensibile rallentamento del suo ritmo di crescita, che in un anno risulta quasi dimezzato: si passa dal 3,4% del ’97 all’1,8% del ’98.
 
 

Riscontro con altri dati

      Gli andamenti dei prezzi delle merci confermano il rallentamento dello sviluppo del capitale per cronica sovrapproduzione.

      – Prezzi alla produzione. Dall’inizio degli anni ’80 la crescita dei prezzi alla produzione e di quelli all’ingrosso si era ridotta rispetto a quella dei 10/15 anni precedenti. Poi dall’inizio degli anni ’90 questi prezzi o crescono ancor più debolmente o sono anche per lunghi periodi in vera discesa.

      Un’idea dell’andamento la si può dare con i seguenti dati: l’indice ONU dei prezzi alla produzione e all’ingrosso, preso quello del 1990=100, è nell’agosto del ’98 pari a 93; 104; 107 per Giappone, Germania, Stati Uniti; per arrivare ad oggi bisogna considerare che dopo la piccola ripresa del ’97 questi prezzi sono in sensibile discesa (inflazione negativa) in Giappone e in Germania e complessivamente in tutta l’area dell’Euro, mentre crescono a velocità ridotta negli Stati Uniti.

      Questi prezzi comprendono quelli all’esportazione e quindi il loro andamento indica la saturazione in atto del mercato mondiale. Questa si riscontra anche nel forte rallentamento del commercio mondiale: dal ’97 al ’98 l’incremento delle esportazioni va dal 10,5% al 3,5%.

      Questa caduta riguarda tutte le aree e per alcune si tratta di contrazione. L’azione della saturazione del mercato mondiale e della concorrenza esaltata è ancora più evidente se si considera che quelli sono dati che riguardano il volume fisico del commercio internazionale, che ha un ridimensionamento ancora più forte considerato in valore monetario corrente. Ossia le imprese hanno difficoltà a vendere ma devono sovrapprodurre per ammortizzare velocemente l’enorme massa di capitale fisso accumulata negli impianti.

      I prezzi delle merci scendono (e una parte di queste può rimanere invenduta e quindi essere distrutta) perché una grande porzione del tempo lavorativo della società è sprecata, ma intanto la miseria della disoccupazione colpisce sempre più una massa enorme di proletari. Lo sciupio del lavoro umano e l’incertezza dell’esistenza saranno eliminate nella società superiore, allorché produzione e distribuzione dei prodotti saranno sociali e a fini sociali, programmate secondo un piano centrale.

      – Prezzi delle materie prime e dei semilavorati relativi. Questi riguardano i prodotti delle miniere e fonderie integrate e alle piantagioni e sono trattati nelle borse merci internazionali. Considerati in dollari correnti scendono velocemente da più di due anni, riportandosi ai minimi del periodo ’92/93 e più sotto se si tiene conto dell’inflazione.

      L’indice generale delle merci dell’Economist, che esclude i combustibili, mostra il tonfo dei prezzi: dal massimo relativo a metà del ’97, a maggio di quest’anno la caduta è stata nientemeno che del 34%; peggio ancora è andata alle grandi aziende che vendono sul mercato mondiale prodotti agricoli alimentari con una caduta ancor maggiore dei prezzi. Ma la sovrapproduzione di alimenti non ha ridotto bensì accresciuto la fame.

      Potendo escludere un aumento della produttività del lavoro di tale misura e generalizzato a tutte le attività minerarie e agricole concentrato in soli due anni, considerando che le notizie sulle eliminazioni dei produttori marginali sui terreni peggiori sono solo recentissime e spesso riguardano decisioni annunciate e da attuare, ne deduciamo che la causa immediata di questo crollo dei prezzi è stata l’eccesso della produzione rispetto al consumo, mettendo in moto il meccanismo mercantile necessario per condurre all’eliminazione dalle colture del suolo e del sottosuolo meno fertili.

      Il consumo delle materie prime è quello produttivo dei vari settori manifatturieri che le utilizzano, ossia lo sviluppo di questi settori si è rivelato troppo debole rispetto alla sovraccumulazione di capitale fisso negli impianti dei prodotti di base e nelle colture avviate.

      Il movimento di discesa dei prezzi delle materie prime sembra arrestarsi in aprile-maggio. Gli ultimi aumenti sono stati preceduti sia da tagli produttivi concordati fra produttori (petrolio), sia da sospensioni o cessazioni di attività di miniere, fonderie e piantagioni. Se questi aumenti fossero derivati da una decisa e durevole crescita constatata nei consumi produttivi di materie prime o anche solo negli acquisti per le loro scorte presso le imprese, sarebbero giustificate le speranze che i borghesi traggono da questi recenti aumenti, ossia che il cammino verso la stagnazione e la deflazione si è definitivamente interrotto. Ma per ora la produzione industriale resta debole e gli arresti produttivi nel settore delle materie prime si susseguono, segno della sovrapproduzione e sovraccumulazione di capitale fisso particolari di questo settore.

      Questi arresti nelle fasi di sovrapproduzione non cominciano che quando i prezzi di mercato sono scesi decisamente al di sotto dei prezzi di produzione delle miniere e delle piantagioni meno fertili, anzi spesso le chiusure tardano perché le riaperture costano e vengono rinviate sperando in una ripresa vicina, perché con i licenziamenti i borghesi devono affrontare la lotta di classe di minatori e braccianti o perché le divise estere, che le esportazioni di materie prime apportano a paesi in difficoltà finanziarie sul debito estero, sono assolutamente necessarie.

      Con queste cessazioni di attività la produzione diminuisce e, rimanendo inalterato il consumo, i prezzi, scesi eccessivamente, possono riaumentare. Ma è un aumento solo temporaneo, perché non causato da un’accelerazione della crescita della produzione che consuma le materie prime. Infatti il prezzo di produzione (valore del capitale anticipato più profitto al saggio medio) regolatore del mercato, quello dei prodotti dei terreni peggiori, è il valore di produzione a cui tendono i prezzi nelle loro oscillazioni. Dopo le chiusure la fertilità del peggior terreno è più alta di quella precedente, i prezzi di produzione regolatori minori, e, se i tagli produttivi devono essere mantenuti, i prezzi correnti devono tornare a scendere.

      La legge del peggiore terreno è imposta dal meccanismo della distribuzione mercantile, che impone un prezzo corrente uguale per le materie prime prodotte con le più diverse condizioni di fertilità del suolo. Qui la vediamo in opera nel caso di un breve assestamento al ribasso. Applicata allo sviluppo storico del capitalismo dimostra come l’umanità sia condannata alla fame nel regime del capitale e come questo sia destinato alla catastrofe e debba essere abbattuto dalla violenza proletaria.
 
 

L’inevitabile crisi

      La durata e il ritmo dell’espansione del capitale negli Stati Uniti si oppone al declino della crescita relativa di quello mondiale.

      I fattori reali della forza relativa del capitale americano (aumento del plusvalore relativo dovuto all’aumento della produttività del lavoro industriale; crescita più elevata della popolazione; quote elevate di mercato mondiale e sovrapprofitti da monopolio passeggero nei settori a recente innovazione e con età giovanile di sviluppo) sono destinati o ad esaurirsi o hanno azione storicamente opposta (alla crescita della produttività, se non è solo lavoro più intenso, corrisponde quella della composizione organica del capitale e la caduta del saggio di profitto) e non possono far tornare capitalisticamente giovani gli Stati Uniti che hanno superato nella curva di sviluppo l’età della maturità e sono ben dentro quella della vecchiaia.

      Ma ci sono delle condizioni determinanti la forte espansione americana che rendono il suo meccanismo fragile di fronte all’avvicinarsi della crisi ciclica nazionale e alla prosecuzione del rallentamento mondiale: 1) la crescita (più veloce di quella della produzione) del credito alla imprese, al consumo personale, alla speculazione borsistica e immobiliare; 2) un debito estero netto (azioni a parte) elevato e rapidamente crescente, coerentemente con l’andamento del deficit commerciale, il cui rinnovo e i cui tassi d’interesse favorevoli, da debitore primo della classe, dipendono dal buon andamento dell’economia americana e dalla forza e stabilità del dollaro; 3) una borsa euforica con prezzi dei titoli azionari sempre più elevati, che costituiscono un patrimonio monetario potenziale (i titoli devono essere venduti) e immaginario (perché bruscamente ridimensionabile), ma che costituisce spesso la debole garanzia dell’ulteriore indebitamento dei possessori dei titoli.

      Tutto ciò crea un consumo produttivo e personale di merci nazionali ed estere che prima o poi dovranno essere pagate non con promesse ma con valore equivalente. Questo consumo dovrebbe continuare a stimolare e sostenere la produzione futura, base del credito concesso oggi, «assumendo che sia possibile in termini di mercato e di moneta assicurare il ciclo di questa serpe che dalla coda introduce il corpo nel suo esofago». L’ultimo dei tanti "boom" miracolosi di questo genere è stato dieci anni fa quello del Giappone alla fine della sua eccezionale accumulazione del dopoguerra. Questo fragile meccanismo si basa sulla fiducia nell’economia e nella moneta americana, ma anche sulla debolezza delle altre aree, che fa affluire i capitali monetari nel centro ritenuto più sicuro.

      Questo centro nazionale dell’accumulazione mondiale deve assolutamente presentarsi con una forza dominante economica, politica e militare.

      Se la crescita forsennata del plusvalore estorto al proletariato americano si arrestasse sarebbe il tracollo, certamente poco morbido, del grande debitore e dei tanti creditori. Se le promesse di pagamento fatte in dollari perdessero brutalmente credito sarebbe il terremoto finanziario e monetario internazionale.

      Le dimostrazioni di forza militare sono necessarie ma non sufficienti a dare fiducia stabile nel dollaro; la crisi economica incombe; lo sviluppo del credito negli Stati Uniti ha bisogno che anche nelle altre grandi potenze economiche lo sviluppo della produzione venga drogato dal credito; la strada è obbligata, anche se lo stesso sistema ha fallito da qualche anno in Giappone. Le altre potenze imperialistiche e le varie borghesie nazionali da una parte sono interessate all’esistenza di un centro mondiale dominante di stabilizzazione dell’equilibrio generale, che garantisca profitti e accumulazione di capitale, ma dall’altra si preparano alla crescente instabilità del capitalismo e dei rapporti di forza economici.

      La tendenza al declino: 1) è fenomeno necessario dell’età senile del capitalismo; 2) si consolida tanto più quanto più si allontanano le distruzioni di capitali e i massacri della seconda guerra mondiale; 3) nel riscontro dei dati si accentua dal 1990 e nuovamente nel 1997/98.

      Passate oscillazioni non l’hanno modificata e possibili sussulti non fermeranno il processo che porta alla grande crisi di sovrapproduzione, di caduta drastica dei prezzi all’ingrosso, di crollo della produzione, di aumento gigantesco della disoccupazione.

      Tanto più si avvicina la crisi di interguerra tanto più il capitale ha necessità di distruggere per accumulare nuovi profitti, tanto più la classe dominante deve condurre i proletari alla ubriacatura patriottarda, tanto più le borghesie nazionali devono formare i fronti imperialisti sui cui schierare divisi i proletari, per risolvere la crisi prossima col grande macello imperialista.
 
 
 
 
 
 


MORTALI ABBRACCI
 

      Ad un lettore che ci ha scritto per chiedere spiegazione del nostro atteggiamento di netta chiusura nei confronti di altre organizzazioni politiche apparentemente affini, abbiamo risposto, grosso modo, in questi termini.

      Caro compagno,

      la tua lettera solleva una serie di questioni, alcune delle quali fondamentali perché riguardano la natura stessa del partito e il suo modo di affrontare le sfide che gli pone la storia.

      Osservi che nella stampa del partito mai si tratta dell’attività e del programma politico di altre organizzazioni, né si citano, e chiedi, di conseguenza, se noi non consideriamo necessaria la "chiarificazione" con la denuncia dell’opportunismo. Ti rispondiamo che il metodo del partito non esclude affatto a priori la polemica e la critica politica nei confronti delle organizzazioni opportuniste che si richiamano al marxismo. Lo dimostrano le pubblicazioni del partito e tutti i suoi testi che altro non sono che una denuncia permanente delle deviazioni in tutte le loro varianti, anche quando non vi si fa menzione esplicita di sigle. Nemmeno neghiamo che in determinate circostanze la critica o la denuncia vada accompagnata con nomi e cognomi.

      Ma ciò che è esclusa da parte nostra è la polemica per la polemica, quasi fosse una competizione sportiva per dimostrare ai lettori, fra tanti "uguali" chi è il più "preparato", chi meglio maneggia le "fonti" e scrive con più dotta retorica. La milizia rivoluzionaria esige che tutte le forze disponibili si applichino a compiti utili per i fini del partito, dai quali è escluso il criticismo fine a sé stesso. Riteniamo pregiudizievole al fine di trasmettere alla classe operaia la sana dottrina rivoluzionaria l’esegesi di testi incoerenti emananti da organismi di nessuna rilevanza, spuri ed effimeri, ricercando in essi come il pelo nell’uovo quando invece sono da squalificare per macroscopiche ed insanabili tare costitutive.

      Il partito si vanta di non appartenere a nessun "campo rivoluzionario" e a nessun "movimento della sinistra comunista". I numerosi gruppetti che pretendono di orbitargli intorno – e che costituiscono uno sbarramento di fumogeni fra il partito e la classe operaia – o provengono da concezioni già sconfitte dal movimento e si collocano del tutto al di fuori del comunismo marxista, nonostante quel che si proclamano (la buona o cattiva fede è ininfluente), tipo la CCI, o, peggio, trovano la loro origine e ragion d’essere in un tralignamento dalle posizioni del partito, in un regredire da tesi già accettate e condivise e in un volontario allontanarsi e contrapporsi alla sua organizzazione e alla sua disciplina. Come in elettromagnetica due cariche simili ma distinte tanto più si respingono quanto più sono vicine, lo stesso si può dire di tutti i nostri transfughi: solo una non resistibile, "infinita", "fatale" determinante può aver provocato la loro diserzione dall’unico partito comunista, diserzione che è di fatto e da noi è considerata irreversibile. Con questi fenomeni degenerativi studio e polemica sono una perdita di tempo: fra di noi la chiamiamo "la condanna al silenzio".

      È vero che l’applicazione di questo metodo può rendere difficile al lettore o ad un ipotetico militante in fieri discernere "senza fatica" le posizioni rivoluzionarie da quelle che non lo sono. Del resto è e sarà sempre una necessità per il ruolo di confusione dell’opportunismo che si presenti convenientemente travestito con lessico, posizioni e tesi apparentemente identiche a quelle del partito. Noi riteniamo però che con lo scendere del partito in quella squalificata arena di ripicche oratorie fra presunti "cugini", che scadrebbero inevitabilmente nel personalistico, la confusione non farebbe che aumentare.

      Inoltre, come bene spiegano i testi della nostra corrente, è difficile che la compagine rivoluzionaria venga riconosciuta, individuata nella palude delle controfigure del partito, con strumenti esclusivamente razionali, dato che la conoscenza integrale del programma spesso nemmeno il più preparato dei militanti la possiede ma riguarda collettivo il partito nel suo insieme, organo cosciente per antonomasia. Così, nella maggioranza dei casi, sia la percezione del fenomeno opportunista sia il riconoscimento del partito non avviene per via di comprensione razionale o di puro studio, ma attraverso quella dell’istinto di classe ed osservando il sano svolgersi, nell’esperienza pratica, dell’attività del partito e nell’atmosfera comunistica e di battaglia che vi si respira, opposta al meschino trafficare borghese e personalistico dei gruppetti. Centinaia di migliaia, milioni di proletari sceglieranno la via rivoluzionaria senza aver letto un rigo né di Marx né di Lenin, come successe nella Russia del 1917.

      La situazione della classe operaia è oggi ben peggiore che alla vigilia della prima guerra mondiale e il movimento operaio è completamente assente dalla scena storica e non è certo a forza di ibridazioni politiche che si otterrà la "ionizzazione della storia". Questo processo si rideterminerà come frutto delle contraddizioni del capitalismo ed i suoi effetti sopra centinaia di milioni di esseri umani. Per questo il partito deve preservare la sua integrità teorica, politica ed organizzativa: il proletariato necessita di una dottrina incorrotta, senza incertezze o accomodamenti se vorrà battersi, diretto dall’intransigente partito, per i suoi grandiosi fini storici.

      Non manteniamo quindi alcun rapporto con il cosiddetto "ambiente della sinistra". Quello che riceviamo con una certa frequenza, soprattutto da parte della CCI, sono inviti (recente quello ad una specie di Conferenza di Zimmerwald contro la guerra balcanica) al "dibattito" delle rispettive "posizioni rivoluzionarie", in vista della "formazione del partito". La CCI (come altri che non hanno il coraggio di dirlo) pretenderebbe così di aumentare di effettivi in modo totalmente volontarista.

      I partiti non nascono per la volontà dei rivoluzionari: momenti segnati dalla storia – di diversa e anche opposta temperie rivoluzionaria – sono stati il 1848, il 1864, il 1889, il 1919, il 1951. Noi siamo quelli del ’51 e non attendiamo altra "fondazione" né "fecondazione" ma solo conferme e "affilatura delle armi": il partito mondiale della rivoluzione di domani non si formerà in un processo di aggregazione di elementi sbandati, ma di irraggiamento dalle tesi giuste che per forza propria e della nostra fedele propaganda andranno riprendendo corpo e muscoli.

      Andrebbe nel senso della distruzione dell’identità del partito accettare le sollecitudini a formare blocchi, accordi o dichiarazioni congiunte, tanto che il partito continuerà ad applicare la formula "chi non è con noi è contro di noi", anche a costo di esser tacciato di "settario" dai tanti pei quali la dialettica rivoluzionaria resta una vetta inaccessibile.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


I POSTUMI DI UNA ABORTITA RIVOLUZIONE BORGHESE ALLA BASE DEI MASSACRI ALGERINI
 

      La tragedia, che l’Algeria sta vivendo da più di un decennio e che ha già provocato la morte di migliaia di proletari, assomiglia ad un film del cinema muto, dove l’azione si svolge senza che sia data alcuna spiegazione. Chi uccide chi, e perché? Ecco il ritornello lancinante che danno regolarmente i media e gli intellettuali di tutte le parti ad un pubblico diventato spettatore passivo e raggelato, per non dire terrorizzato, davanti a tanta guerra, massacri, miseria che gli viene servita dalla Tv al momento di andare a tavola.

      Il muro di Berlino è caduto nel 1989, e il ritmo dei conflitti mondiali – già non affatto cessati dopo la vittoria della sedicente democrazia nel 1945 – si è brutalmente accelerato.

      L’antagonismo USA-URSS, ovvero democrazia- stalinismo non è più sufficiente per giustificare la "guerra fredda" ai proletari, traditi da più decenni dai loro rappresentanti ufficiali, e che si trovano oggi accerchiati da un numero di guerre "calde" in crescita smisurata.

      Noi comunisti sappiamo bene che la belva capitalista è presa in trappola dalle sue stesse leggi. La crisi economica mondiale la mette alle strette e prepara la resurrezione del suo nemico ereditario, il proletariato rivoluzionario, benché ancora sottomesso al giogo della controrivoluzione. La storia si è messa in moto e la nostra vecchia talpa non è stanca ancora.

      Sfortunatamente la borghesia ha mosso per prima l’attacco e sferra colpi sempre peggiori, aggravando le condizioni di vita dei proletari in tutte le parti del mondo, diffondendo i conflitti politici e armati e mascherando la guerra di classe in conflitti etnici, regionali, razziali, religiosi, tribali. L’Algeria non è che una dimostrazione fra le tante di questo processo.

      La situazione dell’Algeria odierna, a trent’anni dal compimento della sua rivoluzione nazionale, può essere iscritta tra le lezioni della controrivoluzione che confermano la giustezza delle tesi del marxismo di sinistra, da Marx-Engels fino al nostro partito. È ben giusta la tesi di Lenin che sosteneva che i piccoli paesi di relativa scarsa popolazione, che conseguivano tardivamente l’indipendenza nazionale nel quadro del capitalismo, avrebbero avuto scarse possibilità di sottrarsi al dominio delle grandi centrali imperialiste e di ottenere un’indipendenza reale. È ancora più esatta quella che ripeteva che la classe che si mette alla testa della rivoluzione borghese nei paesi coloniali, nasce reazionaria e prende immediatamente coscienza della minaccia mortale del proletariato e dei contadini poveri.

      Compito del Partito Comunista dei paesi in questione è mettere al primo posto la difesa degli interessi del proletariato anche quando questo partecipa alla lotta per l’emancipazione nazionale, difendendo sempre la propria indipendenza programmatica ed organizzativa, come raccomandano chiaramente le tesi del II° Congresso dell’I.C. del 1921. Da parte sua il Partito Comunista della metropoli dovrà aiutare i comunisti delle colonie a mantenere la loro indipendenza, sostenendoli ed anche invitandoli ad appoggiare il movimento rivoluzionario coloniale, ma col fine permanente dell’unità fra i proletari delle colonie e dello Stato colonizzatore e contro la propria borghesia imperialista, nei confronti della quale mostrerà un atteggiamento massimamente intransigente.

      Il Partito Comunista Francese, in tutto il rifulgere del suo stalinismo, ed gli sbirri della CGT, si guardarono bene dal seguire questa via, preferendo quella che dirottava i proletari nella difesa del movimento "democratico" algerino e francese "contro il fascismo". In questo modo fu liquidata la tendenza marxista algerina, e le masse algerine definitivamente tradite con gli accordi di Evian, nei quali la borghesia francese passava a quella algerina le redini delle manovre antiproletarie.

      Il lavoro di partito in corso, partendo dai testi marxisti e dai numerosi articoli della nostra stampa dei decenni 50/90, dimostra come la nostra profezia del 1962 per l’Algeria indipendente si è dolorosamente verificata. «Il risultato di questa insurrezione abbandonata a se stessa, venduta dalla Sinistra francese legata ai suoi propri interessi borghesi nazionali, e non sostenuta dal proletariato, tradito e disarmato, il risultato della lunga lotta eroica del popolo algerino non è nient’altro che una rivoluzione borghese abortita. La rivoluzione di una borghesia che ha conseguito un successo politico, ma è incapace di elevarsi all’altezza dei compiti sociali elementari che le derivano (...) La borghesia algerina, associata o no alla Francia, è incapace di intraprendere questo sconvolgimento, inadatta a risolvere seppure al modo borghese la spaventosa crisi della società algerina; essa è incapace di dare la terra ai milioni di uomini sradicati dai loro villaggi, mentre è incapace di dare loro un lavoro salariato. In Algeria si vedono spinte all’estremo le contraddizioni che, nell’era dell’imperialismo, frenano la rivoluzione borghese fin dal suo sorgere (...) Non vedete la spaventosa miseria che spingeva gli algerini alla lotta? E questa miseria è sempre lì; la borghesia algerina non vi porrà rimedio e milioni di uomini sradicati e senza lavoro non si lasceranno pagare a parole. Costituiscono una formidabile forza esplosiva, contro la quale la borghesia algerina già prepara le sue forze dell’ordine. Che tremi anch’essa e tutti i cantori di pace: non ci sarà pace sociale nell’Algeria indipendente!

      Il solo aspetto positivo dell’indipendenza è stato di togliere un’ipoteca. Benché sia sempre legata alla Francia in base ad accordi, la borghesia algerina non avrà più da occuparsi delle rivendicazioni sociali "pregiudiziali" dell’indipendenza nazionale, e le questioni si porranno sul loro vero terreno: quello della lotta di classe. Spinti alla lotta dalla miseria, le masse algerine spezzeranno prima o poi l’Unione nazionale ed infiammeranno la lotta di classe in tutta l’Africa.

      Il proletariato africano potrà allora trovare il congiungimento con il proletariato internazionale, e con questo, la soluzione di tutti i problemi dei paesi del Terzo Mondo. Popolazioni sotto la dominazione borghese, quale che sia il colore della loro pelle, mai potranno uscire dalla crisi sociale nella quale li ha precipitati l’irruzione del capitalismo. Solo la dittatura internazionale del proletariato, liberato di tutte le contraddizioni e gli imperativi dell’economia capitalista, vi giungerà» ("Programme Communiste", n.19, giugno 1962).

      Ecco quanto il nostro partito proclamava nel 1962 e che noi rivendichiamo per intero nel 1999 di fronte ai massacri perpetrati sulle masse algerine dal terrorismo borghese.
 
 
 
 
 
 
 



MISERA FINE DEL NON RIMPIANTO HOMO CAPITALISTICUS
 

      Al suo sorgere la società borghese creò nell’uomo, in luogo della vecchia religione, la fede nella Ragione, ovvero il mito dell’individuo che da solo, e indipendentemente da ciò che lo circonda, è capace di conoscenza e volontà. La scienza delle società precedenti venne negata in assoluto. Si credette che l’Uomo fosse in grado di scegliere liberamente cosa fare di sé e della storia del proprio tempo.

      La nascita dirompente e inconsapevole della nuova forma di produzione borghese, basata sul profitto individuale aziendale e sulla loro concorrenza, modellò i borghesi facendone la quintessenza dell’individualismo, nella guerra continua fra individui in difesa del proprio misero orticello, o del comunque misero grande capitale. L’individualismo borghese parve venir meno solamente in quei particolari momenti storici in cui il proletariato alzava la testa e contrapponeva a questa mistificazione borghese l’oggettività della propria impersonale Rivoluzione.

      Oggi, ben 80 anni di controrivoluzione hanno decretato la vittoria della borghesia nella grande e importante battaglia sociale degli anni ’20 e di conseguenza hanno imposto, con la tirannia propria di questo regime imperialistico, il più bieco individualismo dell’uno contro tutti e della mors tua vita mea. Il capitalismo, allargando i propri tentacoli su ogni parte del globo anche le più primitive, ha imposto le sue idealità e le sue merci idiote e inoculato negli esseri umani il feticismo verso queste merci. L’aberrazione del sentirsi "l’unico uomo importante su questa Terra" comporta la lotta meschina intorno a poche briciole fra persone anche della stessa classe sociale, oltre alla smania del provar piacere nell’escludere o nel sopraffare l’altro.

      La banalità propria di un piccolo-borghese lo porta a lamentare quanto l’"uomo" sia egoista e quanto esso non pensi ad altro che a sé stesso dimenticando i propri simili. Chi però condivide la dottrina marxista non può affidarsi a simili superficialità, ma deve individuare, con l’arma del materialismo storico, le reali cause, che sono da ricondursi all’intero sviluppo sociale capitalista degli ultimi secoli. Questo ovviamente non perdona i borghesi.

      I borghesi, come ritengono il loro modo di produzione "naturale" ed eterno, così affermano che l’uomo è "per natura" egoista e preoccupato solo di sé. Un minimo di approccio disinteressato spiega invece che l’uomo è essere sociale, che possiede nel proprio istinto profondo la volontà e la necessità di vivere come comunità degli uomini, come parte di un tutto materiale e affettivo. Lo dimostra l’arco della storia di specie, fin dalle società primitive. Nelle successive, dalle quali si enuclea progressivamente l’astrazione dell’individuo, resta la tensione, il senso di mancanza di quella ricchezza perduta.

      Il marxismo spiega che sono le varie strutture della Storia, economiche-sociali-politiche, succedutesi nei millenni, che plasmano l’Uomo secondo le necessità della classe dominante: essa inculca nei cervelli di dominanti e di dominati le giuste ideologie atte alla conservazione di questi rapporti. L’uomo delle società divise in classi è un uomo diviso, una marionetta, schiavo di ciò che lui stesso ha prodotto e dei rapporti sociali che inconsapevolmente riproduce per tutta la sua vita.

      La soggettività dell’homo capitalisticus moderno, con la sua pretesa di emanciparsi, in tutti i sensi, con le sole sue forze intellettuali, morali e materiali, come individuo, è una mistificazione suscitata dal punto di vista borghese, metafora dell’ideale di concorrenza proprio della società presente, feticcio della sua economia di passaggio alla distruzione dell’individuo isolato. Ad essa soggettività dell’individuo civile, giuridico ed economico, noi marxisti opponiamo l’oggettività dei bisogni della specie, sia collettivi sia individuali senza contraddizione, in tutto il loro ampio spettro, oggettività che verrà finalmente riconosciuta e difesa nel Comunismo. Questa coscienza, sentimenti e moduli di comportamento post- concorrenziali sono oggi anticipati all’interno del Partito e nel suo peculiare metodo di lavoro.
 
 

Far mercato anche della solitudine

      Costretto da forze ben più grandi di lui, l’uomo non è oggi in grado di ribellarsi, di organizzarsi con i suoi simili di sofferenza e di comprendere. Per questo devia il proprio odio istintivo verso questo mondo in varie forme di religione o in mistiche senza dio. A detta di molti "sociologhi", contro le sofferenze dei [fins de siècle] borghesi (l’altro non fu molto diverso), che sembrano individuali frustrazioni, paure, angosce, nervosi, dicono si cerchi sollievo ricorrendo a [guru] di tutti i tipi, che promettono di risolvere i problemi delle singole persone, di "liberarle" dalle "cariche negative".

      Il Capitale insegue ogni traccia di "domanda solvibile" ed è prontissimo a gettare sul mercato merci "spirituali", tanto più sozze, ed ahimè diffuse, quanto rivestite di uno smalto scientifico, esotico e spesso di una miscela di entrambi. Basti ricordare quella ciarlataneria dichiaratamente anti-scientifica che è la cosiddetta "Omeopatia", che cura con i raggi di luna piena, odore di coda di rospo, "succussioni" e simili, fondata sulla pura scemenza che "non esiste la malattia ma il malato". Quel minimo di dialettica cui attinge ogni vero medico sa bene che esiste e la malattia e il malato e che compito della scienza medica e appunto il rapportare concretamente l’una a l’altro. L’omeopatia – che muove un giro multimiliardario – ha sorpassato, complici alcuni medici fra lo scoppiato e il disonesto, le filosofie orientali rimaste, al confronto, po’ demodé. Ma basta che aspettino: in questa società il passato non passa mai, le fesserie delle società morenti sono sempre le stesse e nel giro di una generazione ritornano tutte di moda. Al tempo di Nerone era già in voga lo "esotismo" orientale e nelle ville patrizie e per l’Urbe curatori e maghi egiziani (veri e falsi) andavano a ruba.

      Altra disciplina borghesemente mal fondata ed empiricamente impotente è la Psicologia. Quest’ultima pretenderebbe la dignità di scienza e, dato il bisogno reale di un qualche conforto, viene ricercata essendo ritenuta un ramo della medicina. La psicologia, psicoanalisi compresa, pur definendosi scienza mai ha utilizzato i metodi scientifici: la sua analisi parte dall’astratto singolo uomo e finisce a cerchio sempre in questo astratto singolo uomo. Al concreto mai si accede. Seguendo questa base essa non può pretendere di affiancarsi alle scienze naturali né tantomeno al materialismo dialettico.

      Questa merce "spirituale" pretende di scindere l’uomo in due parti: da una parte quella corporale, fisica e materiale, dall’altra la sua anima o interiorità, immateriale. Si regredisce, volenti o nolenti, al Cristianesimo e al Medioevo, che pone appunto l’anima separata e più importante del corpo, e dunque quella ove applicare cura ed attenzioni. La New Age, ultima moda di questa incatenata generazione, dice cinicamente all’uomo frustrato che i suoi problemi sono risolvibili solamente tramite un’educazione al "rilassamento" e a liberare la propria anima dalla realtà del corpo. Questa corrente, come le nuove ondate di buddismo e roba simile, criticano della società occidentale il dare troppa importanza alla fisicità, alla "carne" dicevano i preti, cadendo pari pari nell’eccesso opposto. La chiave della [collettività sociale] è da entrambi mancata.

      Il comunismo scientifico, nato nell’800 come necessaria risposta dell’uomo-proletariato ai mali di questa società, scoprì che nelle società divise in classi, e in particolare nella presente capitalistica, il [soggetto] del problema non è l’Uomo, la sua Ragione, o una sua Psiche, ma la produzione delle merci con la sua spietata legge del valore. L’Uomo vi diventa un oggetto, una merce con un suo prezzo.

      In un lavoro pubblicato nel 1988 sulla nostra rivista scrivevamo: «Nessuno mai si è reso conto (fra tutti questi convinti psicologi, ndr.) che la salute mentale è assicurata dalle conoscenze oggettive della realtà e dal loro utilizzo a pro dell’organismo, sempre che l’ambiente disponga di una tale ricchezza di risorse e di stimoli che gli consentano di sviluppare tutte le sue qualità potenziali» ([La teoria materialistico-dialettica della psiche], da "Comunismo" n.25/1988).
 
 

Emancipazione intellettuale?

      La massima "autoemancipazione spirituale" sarebbe quella "intellettuale", cioè fondata sulle capacità del proprio cervellino che autonomamente accede al Sapere. Intanto il sapere borghese non può certo emancipare nemmeno i borghesi ma ribadire la infelice soggezione dei singoli alla tirannia del Capitale. Il sapere proletario non è dato in questa società se non come dottrina rivoluzionaria, vivente "dentro l’armatura" del partito combattente di classe.

      Ma questo non turba certo la coscienza agli intellettuali che, ben pagati, fanno il loro lavoro di filosofi, giornalisti, storici, scienziati, artisti, ecc. Questi, a noi nemici servi schiamazzanti della classe dominante, non cercano la scienza ma sono in concorrenza fra loro per la paga: su ogni minima questione (storica, filosofica, politica...) ognuno dà all’altro la ragione aggiungendo che, però, su quel singolo punto, su quella particolarità si era sbagliato...

      Peggio fra tutti quelli che si autodefiniscono "artisti", snaturando il concetto di questa attività che un tempo rappresentò il progresso delle passate società in evoluzione. Patologicamente individualisti anche per il metro borghese, hanno rinunciato alla loro funzione di comprensione-rappresentazione del mondo e del rapporto specie-natura. Nell’arte regna da almeno un secolo l’anarchia, ed oggi non si esprimono più nemmeno quelle "correnti" che proponevano in un loro "manifesto" un modulo interpretativo, più o meno consapevole, della realtà; una miriade di correnti artistiche creano in continuo nuove sotto-correnti fra le quali serpeggia – oltre il problema del lesso – solo pessimismo, angoscia o senz’altro cinica indifferenza.
 
 

Famiglia e Religione

      Fattori non meno importanti e propagatori di individualismo sono la religione e la famiglia. Già alla sua origine la religione ebraica, e poi dopo quella cristiana, ruppero con forza l’oggettività del mondo antico, l’idea della comunità tutta, il concetto della Natura superiore al piccolo uomo. La religione ebraico-cristiana, diceva già Feuerbach, isolò l’uomo dagli altri interiorizzando la religione tramite la preghiera, riconoscendo l’esistenza dell’Uomo singolo e riconoscendo il suo tirannico dominio sulla natura.

      Ma è assai tardo anche nel cristianesimo il concetto di aldilà e di giudizio individuale.

      Oggi il Cattolicesimo, adattandosi come ha sempre fatto ai tempi, ha eliminato l’antica paura fra i credenti dell’Inferno, eliminando così ogni residuo, nella coscienza del cristiano, di precetti umanitari. L’"umanitarismo" lo fanno ormai le guerre borghesi e redimono di più mitragliatrici e bombardieri che le preghiere!

      Da sempre al comunista è stato rinfacciato con indignazione di voler abolire la famiglia. A parte il fatto che noi non vogliamo "abolirla" ma prevediamo che si estinguerà per il corso dello sviluppo sociale nel Comunismo, è vero che riteniamo la famiglia borghese una mera creazione di questa società e in quanto tale a carattere transitorio.

      Uno dei ruoli che la famiglia ha assunto nell’attuale società e quello di isolare l’essere umano, tenendolo prigioniero negli angusti orizzonti ed egoistici delle quattro mura domestiche e nemico delle "altre" famiglie.
 
 

Individualismo e massificazione prigioni dell’uomo

      Detto tutto ciò risulterebbe che la società capitalista sia realmente portatrice di individualismo. Ma questa ideologia è mistificazione e pura illusione, non rispecchiante la reale dimensione dell’uomo moderno. Il capitalismo mentre da una parte esalta l’individuo e le sue possibilità di singolo, annienta lo stesso individuo attraverso la mercificazione del suo lavoro, l’abbassamento degli individui ad articolo di commercio, non integrante ma insignificante, di un Tutto che è solo il Mercato. Svaniscono in questo processo sociale ineluttabile le diverse forme concrete dei singoli individui.

      Il nostro partito, programmaticamente anti- individualista, non per questo opera la mercantile omologazione borghese: nel Partito, preludio del domani, riemerge l’individualità. Il nostro partito si è più volte dichiarato sul campo filosofico anti-individualista, in economia anti-mercantilista ed in politica anti- elettoralista ed anti-democratico. Questa trinità, grande conquista del Partito, è di una coerenza assoluta ove ogni elemento è pietra angolare del sistema complessivo.

      La nostra concezione del mondo è dialettica. Il pensiero dialettico è nient’altro che il riflesso nel cervello umano di una dialettica naturale. La dialettica coinvolge anche la funzione dell’individualismo nella storia umana, dunque essa è un’arma importante per affrontare anche questo argomento.

      L’individualismo non è, come si affannano a ripetere i suoi apologeti, la condizione naturalmente "filosofica" dell’uomo, tant’è che esso sorge molto tardi nello sviluppo della Specie. Dopo una genesi sofferta e lentissima esso trionfa con lo sviluppo ed il dominio formale del capitalismo. Le società precedenti a quella borghese erano nella sostanza, chi più chi meno, non individualiste ma organiciste.

      In quelle splendide fasi storiche in cui una nuova società si è imposta su una vecchia e superata, mettere al centro dell’economia, della storia, delle scienze e della filosofia l’individuo è stata opera rivoluzionaria e sovvertitrice del vecchio ordine. Essa fu opera tra l’altro di giganti che nulla avevano di individualistico in quanto, tra i più alti esponenti della spirito universale dell’uomo, essi erano con la testa già oltre lo stesso capitalismo.

      Trasferire il motore dal cielo alla terra, così come distruggere l’organicità della vecchia comunità umana, fu opera sovversiva. La Specie umana per svilupparsi ulteriormente doveva passare attraverso una fase di totale estraniazione e negazione di sé.

      Ma oggi che il Capitale sopravvive parassitariamente a sé stesso producendo disordine, sciupio e morte, l’individualismo è giunto al fondo della sua parabola storica. Esso è conservatore e mistificatore. Il Capitale mentre propaganda l’individualismo schiaccia senza pietà gli individui in carne ed ossa a milioni.

      Dunque, le diverse forme di individualismo prima elencate in realtà sono solo mistificazioni, piccole utopie degeneri dell’uomo attuale che si trova stretto nella morsa della controrivoluzione. Oggi, in cui la potenza del lavoro associato, usurpato da una minoranza parassita, potrebbe liberare l’uomo dalla sofferenza e dal dolore, 1,4 miliardi di uomini non hanno acqua potabile da bere né i mezzi per riscaldarla e 6 milioni di bambini muoiono ogni anno per questo; mentre la produzione procapite di calorie sul pianeta è di 2.700 calorie giornaliere, 3 miliardi di individui soffrono la fame.

      Hiroshima, Nagasaki, Dresda, Amburgo, i lager stalinisti, i campi di concentramento nazisti e degli Alleati, che hanno sterminato con il lavoro e la fame, il fosforo e l’uranio, in modo atroce decine di milioni di individui in eccesso per i bisogni del Capitale sono la dimostrazione di cosa siano veramente gli individui per il Capitale, vampiro della vita.

      Individualismo e individualità non sono la stessa cosa. L’individualismo è la teoria che pone il soggetto individuale al centro dell’economia, della storia e del pensiero. In sintesi estrema si può riassumere con gli imperativi: "Pensa ai tuoi interessi", "Pensa con la tua testa". L’individualità è invece l’insieme delle capacità e caratteristiche che distinguono un essere umano dall’altro. Il Capitale esalta l’individualismo ma nello stesso tempo schiaccia come mosche milioni di individui e massifica miliardi di individualità.

      Ironia di questi ultimi decenni è che proprio quando l’Io è morto noi assistiamo alla messa in scena dell’onnipotenza dell’Io. Basta accendere un televisore, leggere un giornale, un testo di filosofia o di economia, vedere un qualunque spot, per essere travolti da questo delirio di onnipotenza dell’Io.
 
 

Disintossicazione nel partito

      Il fatto che oggi noi rivoluzionari marxisti siamo totalmente inascoltati dal mondo esterno si potrebbe misurare tramite il grado di diffusione dell’individualismo. L’accettazione del Comunismo ha come prerogativa l’aver compreso che non si è altro che una piccola parte di un insieme, dell’intera Specie, ovvero che l’individuo così preso da solo non è niente.

      Compreso questo si può essere comunisti. L’ideale imperante dell’individualismo borghese venne storicamente meno solo in quei momenti in cui il proletariato seppe imporre con la lotta la propria minacciosa dottrina, contraria ad ogni forma di soggettivismo. D’altronde l’unica soluzione a questo totale distacco dell’uomo dal suo interesse di Specie è la futura fraterna società comunista, vissuta oggi in parte già all’interno del Partito Comunista attraverso il centralismo organico ed il metodo del suo lavoro.

      Nel Partito quei compagni che aderiscono ad esso, spinti da determinazioni ben più grandi di loro, cercano di scrostarsi di dosso la mercificazione dell’uomo imposta da questa società. In esso, non solo non esiste alcuna differenza per quanto riguarda razza, sesso, età, classe, professione e "intelletto", ma non esiste neanche la libertà dei capi di individualmente inventarsi di sana pianta una nuova teoria. Vige uno sforzo collettivo di esplorare giorno per giorno quella comune ed umana realtà che si chiama Comunismo.

      Il Capitale non lascia scampo. Si può resistere solo proiettandosi verso l’anti-individualista società comunista futura, militando nella comunità organica del Partito.

      I rivoluzionari nell’attività di Partito attuano una radicale disintossicazione della patologia borghese dell’Io onnipotente. Essi hanno però cognizione che vivendo nella fogna capitalistica e sotto il bombardamento del nemico, la lotta è continua, incessante e mai definitiva.

      Il Partito lotta al proprio interno contro ogni mania fastidiosamente borghese di protagonismo o, ancor peggio, contro il metodo proprio degli intellettuali borghesi di girare e rigirare l’unica e per noi invariante dottrina marxista a proprio piacimento e per soddisfare i propri pruriti.

      Contro tutto ciò il Partito oppone lo studio serio, collettivo e disinteressato di ogni problema, da rapportarsi non ad ingegni di compagni eccezionali ma solo a ciò che ci ha insegnato la nostra dottrina e la nostra scuola.

      Scriveva nel secolo scorso Marx a Freiligrath: «È possibile nei rapporti o nel trade borghese sfuggire al sudiciume? La differenza è che qui la borghesia è nel suo luogo naturale (...) L’onesta abiezione o l’abietta onestà della morale solvente (...) per me non si trova di un dito superiore all’abiezione irrispettabile da cui né le prime comunità cristiane né il club dei giacobini, né la nostra "Lega" defunta poterono mantenersi completamente puri. Solo che nei rapporti borghesi ci si abitua a perdere il senso per l’abiezione rispettabile o la rispettabilità abietta» (Marx a Freiligrath, 29 febbraio 1860).

      Per evitare fraintendimenti riteniamo opportuno specificare che questa lotta non ha niente a che vedere con la mortificazione del corpo o la repressione dei desideri di cristiana memoria. All’opposto, è lotta per la riappropriazione di tutti i sensi dell’uomo, che sono prima di tutto sensi fisici. Anche l’individualismo fa appello ai sensi, ma ai sensi abrutiti, annientati del tutto dal senso dell’avere.
 
 

Vittoria sul Golia

      La Rivoluzione per noi è prima di tutto una gigantesca opera di disintossicazione della classe rivoluzionaria. Questa opera di disintossicazione non cesserà immediatamente dopo la vittoria militare e politica essendo l’individualismo penetrato profondamente nella struttura degli uomini. La sovrastruttura ha molta più inerzia della struttura economica e sociale. Basti pensare alle forme di pensiero precapitalistiche e addirittura comunistiche primitive che sopravvivono nel pieno della moderna società capitalista. Solo il lavoro di generazioni fraternamente cooperanti potrà estirpare l’angoscia dell’individualismo dal cuore degli uomini.

      Individualismo e individualità hanno proceduto di conserva per tutto un arco storico, il primo favoriva le possibilità di sviluppo del secondo. Ma da almeno un secolo l’ostacola.

      L’individualità può procedere oltre solo se si afferma come espressione della comunità, se isolve la sua contraddizione con la comunità, se diventa essa stessa comunità.

      «Quando l’uomo avrà ucciso su di sé l’egoismo mercantile e individualistico, quando nella pienezza del suo essere si sarà elevato all’altezza del lavoro gratuito e disinteressato per la Specie, egli avrà alfine affermato la comunità umana, la vera Gemenweisen in cui l’essere individuale non esiste più in contrapposizione alla comunità perché sarà contemporaneamente questa: esso sarà allo stesso tempo individuale e universale. Poiché l’essere umano è la vera essenza comune degli uomini, gli uomini realizzando la loro essenza producono l’essenza comune umana, l’essenza sociale, che non è una potenza universale, astratta, contrapposta al singolo individuo ma è l’essenza di ciascun individuo, la sua propria attività, la sua propria vita, il suo proprio spirito, la sua propria ricchezza]» (Marx: [Note a James Mill]).

      Si recupererà l’organicità della comunità perduta arricchita delle conquiste universali dello spirito umano ottenute in seguito alla dissoluzione del comunismo primitivo.

      «Supponiamo di aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente sé stesso e l’altro. Io avrei 1) Oggettivato, nella mia produzione, la mia individualità e la sua peculiarità ed avrei quindi goduto, nel corso dell’attività, una manifestazione individuale della vita, così come, contemplando l’oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come oggettuale, sensibilmente visibile e quindi come una potenza elevata al di sopra di ogni incertezza. 2) Nel tuo godimento o uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento consistente tanto nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, e dunque di aver oggettualizzato l’essenza umana ed aver quindi procurato un oggetto atto a soddisfare il bisogno di un altro essere umano. 3) D’essere stato per te l’intermediario fra te ed il genere, e dunque di venire inteso e sentito da te stesso come un’integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) D’aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque di aver confermato e realizzato immediatamente nella mia attività la mia vera essenza la mia essenza comune ed umana. Le nostre produzioni sarebbero come tanti specchi, dai quali la nostra essenza rilucerebbe a se stessa».

* * *

      La nascente borghesia rinascimentale rappresentò nel biblico giovane Davide la sua sfida alle giganteggianti forze della conservazione feudale e della Chiesa. Di nuovo oggi l’uomo proletario è nient’altro che un piccolo Davide di fronte a Sua Maestà il Capitale mondiale.

      Solamente quando le condizioni permetteranno l’abbattimento del gigante l’uomo, non più misero e solo, si scoprirà un essere nel pieno delle proprie potenzialità, padrone di sé e del futuro.

      Il Comunismo considererà come un oscuro passato, come la schiavitù antica per i borghesi, il volersi rendere l’uomo indipendente dall’altro e con questo in lotta di sopraffazione.

      li uomini in questo futuro non saranno tutti "uguali", ma potranno semmai definirsi per la prima volta parte integrante di un tutto: l’intera specie umana produrrà e distribuirà affetto, premure e beni materiali ad ogni singolo uomo, e il singolo uomo avrà a sua volta necessità di produrre e lavorare non per sé stesso ma per la specie. Scrivemmo nel [Manifesto] del 1848: «Il libero sviluppo di ciascuno sarà condizione del libero sviluppo di tutti». Non si avrà allora un uomo uguale all’altro (e per di più con la pretesa di sentirsi diverso come è nel capitalismo) e nemmeno una società mercantilmente "egualitaria" come quella idealizzata da un Proudhon o dal "romantico" Stalin.

      Sarà proprio la scomparsa dell’individuo e della sua pretesa centralità che creerà le premesse affinché l’uomo possa liberarsi da ogni passata inibizione e possa raggiungere livelli che fino ad ora non ha potuto raggiungere.

      La scomparsa del singolo uomo sarà allora l’affermazione dello stesso singolo uomo. Solo allora ogni uomo potrà avere i giusti stimoli per afferrare tutto il Sapere e la Conoscenza e portare questi a livelli sempre più avanzati: l’uomo comune discuterà allora della teoria della relatività di Einstein, di come rendere fertile il Deserto del Sahara o di come viaggiare su e giù per il Sistema Solare.

      Che muoia dunque Golia per mezzo di un secco colpo di fionda e che questo "gigante massificatore" non sia più in grado di risollevarsi!

      Scrivemmo un po’ di tempo fa: «Sottrarre la formazione del carattere all’esclusiva influenza della società presente, vivere tutti insieme, noi giovani, operai o no, respirando un’atmosfera diversa e migliore, tagliare i ponti che ci uniscono ad ambienti non socialisti, recidere i legami per cui ci si infiltra nel sangue il veleno dell’egoismo, della concorrenza, SABOTARE, in una parola, questa società infame, creando oasi rivoluzionarie destinate un giorno ad invaderla tutta scavando mine destinate a sconvolgerla nelle sue basi» (Un programma: l’ambiente, da "L’Avanguardia", 1 giugno 1913).
 
 
 
 
 
 



"FLESSIBILITÀ CONCERTATA" PER I BRACCIANTI AGRICOLI
 

      Del caporalato si torna a discutere quando nelle campagne di lavoro nero si muore. Gli incidenti stradali mortali occorsi nel Metapontino a delle braccianti trasportate da sgangherati pulmini hanno riproposto l’attualità del fenomeno con l’immancabile "indignazione" di sindacalisti di regime pronti, come sempre, ad indicare il rimedio nel miraggio delle "riforme" del "settore".

      Quando, nel luglio del ’98, fu rinnovato il CCNL dell’agricoltura i rappresentanti di Flai-Cgil e Uila-Uia non fecero difetto nel vantare la bontà dell’accordo raggiunto con le parti padronali a proposito del trattamento degli operai agricoli e florovivaisti, a loro avviso "avanzatissimo" e perfettamente in linea col protocollo del 23 luglio 1993, quello famoso che andò a smantellare la scala mobile e che introdusse i principi di "concertazione" e "flessibilità".

      Dopo 12 mesi c’è da interrogarsi, riflettendo sulle ultime statistiche diramate da Inps e Inail, sul perché, nonostante gli strumenti a disposizione, nelle campagne continui a prosperare il lavoro nero, a dispetto di tutte le sanatorie varate a favore delle aziende.

      Il CCNL degli operai agricoli rappresenta nel suo testo un’ulteriore tappa nel riconoscimento del diffuso stato di illegalità nel rapporto di lavoro, aggiornandosi alle mode del momento: ne è un esempio l’introduzione di fondi di accantonamento del TFR e di pensioni integrative, misure spacciate come favorevoli al lavoratore, dato che è risaputa l’entità vergognosa delle pensioni Inps che questi riceve dopo una vita di lavoro. Ma questo è anche il risultato di un’evasione contributiva tale che per il bracciante è un miracolo ottenere una qualsiasi pensione, mentre la liquidazione ad ogni interruzione di rapporto di lavoro (in genere duraturo una stagione) spesso il datore di lavoro si dimentica di erogarla, quindi, dicono, sarebbe più utile farla fruttare "finanziariamente".

      Che i contributi pensionistici a carico dell’azienda e l’accantonamento del TFR siano voci differite del salario, questo i sindacati confederali se lo sono dimenticato, e dunque si legittima nel modo più beffardo una vittoria della borghesia agraria conseguita sul terreno dello scontro di classe. È uno degli aspetti in cui si manifesta l’estrema debolezza anche del proletariato agricolo e non stupisce certo che questo rinnovo sia stato siglato in tempi brevi e senza il ricorso a scioperi e ad agitazioni.

      Sul fronte delle paghe, poi, il contratto nazionale diventa una sorta di minimale ed indica i livelli più bassi possibile e tre aree professionali di inquadramento: quella per gli operai specializzati (lire 1.772.000), per i qualificati (1.630.000) e per i comuni (1.087.000). Entro queste tre aree, qualifiche e livelli salariali sono regolamentati dal Contratto Provinciale di Lavoro, strumento utile per conferire dignità a quel salario di piazza più applicato che mai.

      Questo non può che produrre anche la frammentazione della categoria bracciantile e minare possibili futuri fronti di lotta unitari. Si è arrivati al risultato estremo che in certe province, come a Taranto, di CPL ve ne sono due! Che siamo di fronte all’esaurimento del contratto nazionale e all’introduzione, con nomi e forme nuove, delle già deprecate gabbie salariali è facile dedurlo.

      Anche stavolta tutto ciò è avvenuto con il benestare esplicito del sindacato.

      In questo rapporto di forze, quanto mai favorevole alla borghesia agraria, è stato anche possibile introdurre criteri di flessibilità che mai nelle campagne si erano potuti applicare: il "tradizionale" apprendistato ora può trovare posto nel trattamento del personale agricolo e così le aziende potranno pagare giovani fino a 24 anni (o 26 al Sud) con l’80% del salario e con vari sgravi previdenziali e assicurativi.

      Ma spazio è stato dato anche al lavoro interinale e a tempo parziale. Sappiamo che l’inefficienza del collocamento, certo voluta, ha prodotto il "business" delle agenzie del lavoro temporaneo che vanno a speculare perfino sulla disoccupazione. Gli stessi uffici statali per la massima occupazione sono stati oggetto di una riforma nei cui punti rientra pure la chiamata nominativa in luogo di quella numerica, ulteriore libertà per il padrone ed elemento di indebolimento per i lavoratori. Però nelle campagne continua ad esistere l’intermediazione clandestina della manodopera tramite il caporalato, che nel paese ingaggia chi vuole con salario di piazza.

      Il mercato del lavoro, poi, si sta modificando per l’afflusso di immigrati che spinge i salari a livelli sempre più bassi, fomentando diffidenza tra gli autoctoni e i nuovi arrivati, che andrebbero invece immediatamente organizzati nello stesso sindacato, se un sindacato di classe esistesse...

      Sarebbero i "contratti di riallineamento" gli strumenti dedicati alle aziende che volessero uscire dall’illegalità in cui conducono il rapporto di lavoro ed anche – si sostiene – in maniera conveniente. In effetti questa sanatoria non ha fatto che confermare il trattamento retributivo e contributivo scaturito dai rapporti di forza tra le classi (oggi a vantaggio degli agricoltori) andando a legalizzare situazioni dove il profilo normativo e salariale è ben al di sotto dei minimi di legge. Il "riallineamento" prevede il pagamento dei contributi previdenziali evasi sulla base del solo 25% del minimale indicato dall’Inps e oltre tutto rateizzato in 40 versamenti trimestrali e, naturalmente, senza interessi; studi in merito hanno quantificato il contributo trimestrale in conto delle ditte in lire 30.000! Dal punto di vista del salari, invece, l’azienda ha ben quattro anni per riconoscere al lavoratore il minimo contrattuale!

      In varie province del mezzogiorno i contratti di riallineamento sono già attuati in quanto accettati dalle associazioni di categoria agricole e dai sindacati confederali, ma le aziende pare proprio che siano affezionate al vecchio modo di considerare il rapporto di lavoro e così l’obbligo della busta paga continua a venire aggirato dichiarando il vero (ma non sempre) e pagando la metà, gli assegni che l’Inps riconosce al lavoratore in base al suo reddito e al suo nucleo familiare vengono intascati dal padrone, idem per contributi di malattia e maternità, e le liquidazioni, in un settore dove la durata del contratto è a tempo determinato, e quindi frequentissime le dimissioni, ovviamente non vengono riconosciute.

      Determinante è l’utilizzo del sussidio di disoccupazione come necessario ammortizzatore sociale; l’entità è correlata alle giornate lavorate nell’anno, oggi ridotte per la meccanizzazione dei lavori agricoli e per le periodiche crisi di mercato, fattori che stanno riducendo l’impiego della manodopera, tant’è che per gli operai è sempre più difficile trovare delle "giornate".

      Per i sindacati confederali e per la borghesia che ama definirsi "progressista" facile risulta addebitare al "deficit di democrazia" nel rapporto di lavoro agricolo anche l’inefficienza di organi statali come l’Inps che, nonostante i suoi sofisticati sistemi informatici di controllo incrociato, resta imballata nella sua "disorganizzazione burocratica", magari, come dicono, per carenza di personale. Tanto caos è funzionale a che tutto continui al solito modo: sfruttare la forza lavoro salariata per conseguire profitti senza fastidi per il padrone.

      In un quadro generale di questo tipo, il proletariato agricolo, che vanta grandi tradizioni di lotta, anche rivoluzionaria, deve ritrovare, superando la dispersione, la via della sua riorganizzazione di classe, al di fuori delle centrali sindacali, organismi non più  recuperabili alla difesa proletaria. Solo così potrà validamente battersi contro la miseria e lo sfruttamento capitalistico.
 
 
 
 
 
 



SACRIFICI UMANI AL DIO PROFITTO
 

      Di nuovo i mezzi di informazione tornano a parlare di morti e di infortuni riportando le agghiaccianti cifre di una carneficina che quotidianamente insanguina i posti di lavoro. «Un tragico tributo di sangue sull’altare del profitto» – scrive "Liberazione" del 17 luglio. Eh, quando si tratta della vita degli operai i compagni del compagno Bertinotti non scherzano mica! Ma neppure i camerati del camerata Fini restano insensibili alla sorte dei lavoratori e, in uno slancio di solidarietà e di amore, il quotidiano di AN, il "Secolo d’Italia", titola: «Il Lavoro uccide 1400 persone l’anno. Ma quasi un milione è coinvolto in incidenti». L’articolo inizia con questa frase: «Una vera e propria ecatombe», e più oltre: «Un fenomeno gravissimo e allarmante nello stesso tempo», poi, senza lesinare dati, percentuali ed assoluti, enumera dettagliatamente le categorie più a rischio. Non restano muti neppure gli altri giornali che, a qualsiasi tendenza appartengano, dichiarano guerra all’insicurezza nei luoghi di lavoro e sembra vogliano intraprendere una santa crociata a favore della salute e delle garanzie di sicurezza. A favore della classe operaia, in definitiva.

      Questa levata di scudi a favore della vita e della salute del proletariato faceva seguito a quanto emerso da una relazione del Censis presentata a Roma nell’ambito del convegno: "L’Inail e la Sicurezza nel Luogo di Lavoro". Anche il presidente della Camera, Violante, nel corso del convegno ha dichiarato che «la garanzia al diritto alla sicurezza di ogni lavoratore è un punto irrinunciabile per uno Stato civile» e ha poi ricordato che Parlamento e Governo si sono impegnati, con un disegno di legge, ad emanare un testo unico in materia di sicurezza. «Un piccolo passo – commenta "Liberazione" – verso un maggior rispetto delle regole».

      A farci entrare, pian piano, sul terreno dove tutti quanti vogliono andare a parare è "Il Manifesto" che, senza usare parole forti come "altare del profitto" o "ecatombe", si limita a dire: «Milletrecento (si gioca al ribasso compagni?) morti è la vera tassa che l’Italia paga ogni anno alla mancata formazione, alla stanchezza, alla cattiva manutenzione, all’incuria, alla rapina di chi sfrutta il lavoro degli altri; una tassa insopportabile»; secondo i "manifestini" quindi «la rapina di chi sfrutta il lavoro degli altri» sarebbe l’ultima delle ragioni degli incidenti sul lavoro.

      Ma perché sarebbe l’Italia a pagare questa "tassa"? Non sono forse i proletari quelli che rimangono mutilati o che ci rimettono la pelle? Che centra l’Italia dei padroni, dei bottegai, dei preti in tutto questo? forse che sono loro a pagare questa tassa? Certo, tutti quanti la pagano, rispondono tutte le componenti del ventaglio democratico. "Liberazione": «L’Inail ha calcolato che il costo economico annuo degli infortuni in Italia è pari a 16 milioni di giornate lavorative perse per inabilità temporanea, per un totale di 55 mila miliardi». E poi veniteci a dire che i poveri padroni non ci rimettono. Certo che ci rimettono: 55 mila miliardi.

      Il "Secolo d’Italia": «Malattie professionali e infortuni costano all’Italia il 3,2% del Pil, mentre la Francia spende solo lo 0,6% e il Regno Unito l’1,1%». "Il Manifesto" (che è della stessa opinione) suggerisce: «I paesi che dovremmo imitare sono l’Austria con 3,7 casi mortali ogni 100 mila addetti, la Finlandia con 2,8, la Francia con 4,3, la Germania con 3,7, la Grecia con 4,3, l’Irlanda con 3,9, e, meglio di tutti, il Regno Unito con 1,7 e la Svezia con 2,1». Ma con quale disinvoltura questi... (lasciamo perdere!) trattano di "addetti" stritolati dal regime capitalista!

      Il presidente dell’Inail, Gianni Billia, spiega che dei 10 mila miliardi che l’ente eroga ogni anno per gli infortuni, 3/4 ricadono sul monte salari ed 1/4 deriva dalle rendite di sua proprietà (soprattutto immobili). Quindi a pagare sono esclusivamente i proletari con il salario che viene loro normalmente trattenuto e con quello tesaurizzato dall’ente gestore. Ci asteniamo qui dal fare commenti sull’utilizzo degli immobili dell’Inail. Ed ecco la proposta avanzata dal dott. Billia: «Aumentando il carico del monte salari di alcune centinaia di miliardi, altrettanto verrebbe risparmiato dall’Inail» ("Il Manifesto"). Infatti le previsioni dell’Istituto parlano di una crescita delle entrate di 800 miliardi tra il 2000 e il 2002 (da 15.000 a 15.800) e una diminuzione delle spese correnti di 300 miliardi. Quindi il Presidente dell’Inail avverte: «occorre avviare una politica di informazione perché la non conoscenza degli strumenti aumenta i rischi di incidenti». Se qualche piccolo investimento in accorgimenti di prevenzione può produrre del profitto, ben venga la sicurezza sul luogo di lavoro, tanto, come si è visto, saranno gli operai che dovranno pagarsela la "sicurezza" sborsando altri 800 miliardi. L’Inail ci guadagna 1.200 miliardi, i padroni recuperano una parte dei 16 milioni di giornate lavorative perse, gli operai verseranno più sudore, ma forse un po’ meno di sangue e si allineeranno agli altri paesi europei, con gran gioia dei compagni de "Il Manifesto". Poi per dare il sangue alla patria c’è sempre tempo, ed anche questo, quando sarà il momento, non mancherà di produrre il suo profitto.

      Nel corso del convegno sulla "Sicurezza sul Lavoro", dove si è parlato solo di quattrini da estorcere ancora alla classe lavoratrice, l’unica stonatura è venuta dal dott. Raffaele Guariniello, sostituto procuratore della repubblica di Torino, che ha avuto il coraggio, secondo quanto scrive il "Corriere della Sera", di sbugiardare il presidente della Camera e la pubblica amministrazione con l’affermare che è l’ora di «smetterla di fare soltanto dichiarazioni rassicuranti e cercare piuttosto di essere maggiormente autonomI dai poteri forti». Ha poi denunciato che negli ultimi quattro anni, nella sola Torino, si sono scoperti «ottomila casi di tumore di sospetta origine lavorativa, nella totale indifferenza della pubblica amministrazione (...) È un’ingiustizia che tali ricerche si facciano solo a Torino», e, la cosa più grave, ha continuato il magistrato, è che spesso «si rischia di morire per cause di lavoro, senza nemmeno immaginare che si perde la vita per questo». Guariniello ha poi accusato l’amministrazione pubblica che, come al solito, «si accontenta di fare dichiarazioni rassicuranti. Anche nel caso degli alimenti contaminati dalla diossina ci è stato detto che non c’era nessun problema. Adesso con le analisi abbiamo scoperto che i problemi ci sono. Bisogna informare correttamente la popolazione. Non credo che ciò si faccia con dichiarazioni rassicuranti ma inconsistenti».

      Certo non possiamo sapere quanto il sostituto procuratore della repubblica sia sincero e quanto sia frutto del ruolo che deve recitare, ma la cosa certa è che, se le posizioni politiche si potessero misurare con il metro delle dichiarazioni e delle denunce, il magistrato scavalcherebbe a sinistra tanto i bertinottiani quanto i manifestini.

      Da "Il Manifesto" apprendiamo pure che L’Inail, allo scopo di prevedere quale sarà la situazione da qui ai prossimi cinque anni, ha commissionato al sociologo Domenico De Masi una ricerca sul tema Sicurezza, Salute e Prevenzione. Il sociologo ha girato la domanda ad altri "cinque saggi": un dirigente dell’IBM, un farmacologo, un magistrato, un ecologo, un oncologo (tutti, ovviamente, ben retribuiti). Il giornale "comunista" contesta in parte la scelta di queste personalità e dice che «non sarebbe stato male sentire il parere di qualche donna», magari una ecologa, una magistrata, una farmacologa... Comunque questi "saggi" sono arrivati alla conclusione che «nei prossimi cinque anni non si verificherà un drastico cambiamento delle attività di controllo e le norme preposte alla difesa della salute continueranno ad essere violate. Inoltre verso tali violazioni lo Stato continuerà ad essere tollerante». Ma "Il Manifesto", che non vuole certo né allarmare, né tantomeno strumentalizzare a fini politici lo sfruttamento bestiale al quale la classe operaia è sottoposta, si affretta a rassicurare il proletariato dicendo che «nel 2004 si potrebbe avere un futuro diverso». Sì, la guerra.

      Dai dati frammentari emersi dalla stampa di questo fine luglio possiamo ricavare che la repubblica post- fascista, in poco più di mezzo secolo di regime, ha ammazzato più di centomila proletari, solo negli incidenti di lavoro. Centomila caduti, senza contare quelli morti per malattia (solo a Torino in 4 anni più di ottomila tumori...), senza contare le altre vittime del regime borghese, quelli ammazzati nel corso degli anni passati dalle forze dell’ordine, le vittime dell’alcolismo (10 mila morti) e del tabacco (90 mila morti), senza contare i suicidi.

      Parlando delle fabbriche, Marx, descrive «la mancanza di ogni misura precauzionale per la sicurezza, comodità e salute degli operai. La maggior parte dei bollettini di guerra che enumerano i morti e i feriti dell’esercito industriale ha ivi la sua fonte». «La produzione capitalistica, molto più di ogni altro modo di produzione, è una dilapidatrice di uomini, di lavoro vivente, una dilapidatrice non solo di carne e di sangue, ma pure di nervi e di cervelli. In realtà, è per mezzo del più mostruoso sacrificio dello sviluppo degli individui che soprattutto si assicura e realizza lo sviluppo dell’umanità in quest’epoca storica che immediatamente precede la cosciente ricostituzione dell’umana società. Poiché tutta l’economia, di cui si parla, trae origine dal carattere sociale del lavoro, così è in effetti proprio questa immediata natura sociale del lavoro che determina tale sperpero nella vita e nella salute degli operai». Parlando poi delle norme per la sicurezza nei luoghi di lavoro, Marx ribadisce che la loro imposizione «attaccherebbe il modo di produzione capitalistico alla radice, cioè nella autovalorizzazione del capitale, grande o piccolo, mediante la "libera" compera e il "libero" consumo della forza lavoro (...) Le autorità sanitarie, le commissioni di inchiesta sulle industrie, gli ispettori di fabbrica tornano sempre a ripetere la necessità dei cinquecento piedi cubi] (14 metri cubi d’aria, allora considerati necessari per ogni operaio in tutti i luoghi di lavoro) e l’impossibilità di imporli al capitale. Dunque in realtà dichiarano che la tisi e le altre malattie polmonari sono una condizione dell’esistenza del capitale]».

      Il sostituto procuratore della repubblica Guariniello, che non ha letto Marx, non sa di essere, suo malgrado, un attentatore della società capitalista. Rifondatori e manifestini, che nemmeno loro hanno letto Marx, ma che sono controrivoluzionari per patrimonio genetico, si guardano bene dall’entrare in un terreno pericoloso... per il capitale.