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"Il Partito Comunista" - n° 292 - luglio 2002 - [.pdf]

PAGINA 1 Venezuela fra contenimento sociale e intrigo imperialista
                   – Si dispiega in Europa lo schieramento difensivo padronale:
                        Governi a Destra - Sindacati di regime a Sinistra
                   – Ipocrisia borghese della FAO e della Contro-FAO

PAGINA 2 – Ancora su fascismo e antifascismo: Giacomo Matteotti martire dimenticato
                   – Notiziario

PAGINA 3 Il dominio dell’Imperialismo: LA CENTRALIZZAZIONE FINANZIARIA [ 1 - 2 - 3 - 4 ]
                       Parte II - b) L’attuale gigantismo - Le Banche Centrali; Il carattere finanziario e quello industriale; Conclusioni

PAGINA 4 – Il prezzo del miracolo irlandese
                   – Hanno inventato lo “sciopero dei consumatori
 
 
 



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Venezuela fra contenimento sociale e intrigo imperialista
 

Il sistema politico-economico americano, qualunque sia il partito al potere, ritiene di essere nel giusto ad intervenire, con gli strumenti ritenuti più idonei, ovunque siano messi in dubbio o in pericolo i suoi interessi, come ben è sancito nella pratica e nel corpo legislativo di cui si è dotato per giustificarsi. Ha sempre fatto così, lo fa tutt’ora e continuerà a farlo fino a quando verrà sconfitto sia come prima potenza capitalista al mondo sia come Stato capitalista in sé.

Ultimo esempio è il fallito colpo di Stato in Venezuela l’11 aprile scorso, occasione in cui gli Usa hanno deciso di intervenire in anticipo, prima che un complicato intreccio di interessi locali ed internazionali rendesse più arduo ed oneroso un loro intervento nell’area, in cui sono già impegnati con il Plan Colombia, ovvero un appoggio militare ai governi loro alleati nella lotta contro il “narcotraffico” ed il “terrorismo” ad esso collegato. Il tanto ridicolizzato Bush jr. e i suoi compari hanno adottato la saggia tattica: prevenire è meglio che curare.

Da una parte la potenza americana considera tutto il centro e sud America il “proprio cortile di casa” dove può fare e disfare a piacimento, senza preoccuparsi troppo delle complicazioni diplomatiche internazionali, intervenendo direttamente e senza tanti misteri con adeguate organizzazioni economiche o paramilitari create alla bisogna. Una rete di “Organizzazioni”, governative o fasulle “non governative” a scopo “umanitario”, che stivano mitra e munizioni nei loro containers dietro le scatole di fagioli e le pompe per l’irrigazione, è ben distribuita nel territorio con depositi e punti d’appoggio mentre gruppi di consiglieri militari, di polizia e di addestramento sono vere e proprie formazioni da combattimento all’estero, nemmeno tanto coperte, coordinate dal Ned: National Endowment (“Dono”!) for Democracy.

L’occhio di riguardo verso il Venezuela, confinante con la Colombia, è dovuto alla necessità di prevenire un focolaio di incontrollabili rivolte di masse affamate e per la questione petrolifera. Il Venezuela, non lontano dalle coste americane, gli fornisce circa la metà del fabbisogno energetico e, nel caso di crisi in Medio Oriente, potrebbe compensare in una discreta misura il calo delle forniture dai paesi arabi. Questo, e non certo la mancanza di democrazia, la violazione dei diritti umani e la fame diffusa è stata la preoccupazione dei capitalisti americani.

Altro personaggio, che ha giocato il ruolo del protagonista offeso dai potenti e cacciato dagli altari, ma subito riportato in auge dal popolo devoto, è il presidente venezuelano Chavez, un misto di populismo, autoritarismo, orgoglio nazionale “bolivarista” e difesa dei poveri. È comunque e sempre rappresentante delle classi proprietarie, benché insanamente idolatrato dalle masse più misere che lo hanno straeletto e confermato in più occasioni per le sue promesse di politica sociale blandamente riformista. Il suo è un “metodo di governo” di tipo peronista, che copre con una propaganda demagogica, nazionalista e personalistica un tentativo di rafforzamento dello Stato, cui è d’uopo far corrispondere – consentiti dalla enorme rendita dal petrolio – dei seppur minimi miglioramenti per i meno abbienti in fatto di istruzione, sanità, diritti meno “incivili”, che oggettivamente hanno migliorato le infime condizioni di vita dell’enorme massa dei diseredati del paese. Gran “comunicatore” televisivo, giovane, ufficiale dinamico, ostenta la voglia di indipendenza verso i grandi della terra, forte del suo ruolo e potere nell’Opec che tenta di risvegliare. Incontra Gheddafi, Sadam Hussein, gioca a baseball con Fidel Castro a cui vende il petrolio a prezzo “politico”, insomma un bulletto che a gomitate vuol ritagliarsi un ruolo fra i grandi ma che, proprio per questo, può infastidire gli americani.

Altra forza sociale è quella dei neoliberisti, rappresentanti dei proprietari fondiari, quelli dei grandi latifondi, che per il 60% sono incolti, in piccola misura toccati dai piani populisti di Chavez per la distribuzione delle terre incolte. Della maggior parte delle quali, non essendo mai esistito un catasto dei terreni sicuro, è dubbia la proprietà, fatto necessario se si vogliono effettuare consistenti investimenti in agricoltura. Si tratta di terre delle antiche comunità precedenti la colonizzazione, che in più successivi periodi sono state prese e restituite ai proprietari o ai possessori, provvisoriamente legittimati. Importanti oggi soprattutto sono i campi petroliferi, il vero cuore economico venezuelano i cui proprietari incassano denaro come rendita e lo portano al sicuro in Florida, Spagna e Svizzera: 90 miliardi di dollari, pari a tre volte il debito estero, hanno preso quelle direzioni.

I rappresentanti di questa classe, il presidente della confederazione industriali venezuelana in testa, insieme ad esponenti della Chiesa cattolica locale e dei sindacati di regime ultra corrotti, sono stati convocati a Washington da alti collaboratori di Bush alcuni giorni prima dell’ora X, dove hanno ricevuto le ultime disposizioni e l’OK del padrone americano.

Ultimo, ma forse determinante, elemento è l’enorme massa dei disperati del Venezuela dove, nonostante le sue grandi ricchezze – e nel capitalismo è sempre così – il 70% della popolazione vive al disotto della soglia della povertà. E non si tratta di una massa facilmente manovrabile, come tutti vogliono far credere, se il 27 febbraio 1989 una rivolta popolare contro le politiche di aggiustamento strutturale imposte dal Fmi fu repressa con un bilancio di 4.000 morti. È per il contenimento di questa incombente minaccia sociale che è stato messo su il figuro Chavez. E il sottoproletariato delle baraccopoli, in difesa di quel poco che gli è stato dato, o promesso, è sceso in piazza, sebbene oggi per difendere questo imbonitore.

Simili incruenti e “anomali” colpi e contro-colpi di Stato sono però una prova per quello che verrà, se Chavez e i suoi non dimostreranno di aver capito quali sono le determinanti di questo parallelogramma. Forse stavolta si è giocato troppo d’anticipo, oppure la cricca designata dagli Usa a succedere a Chavez era così balorda che non ha retto a se stessa; certamente è stato determinante il ruolo dell’esercito, solo in minima parte a favore dei golpisti. I retroscena più significativi per il momento non trapelano, come il peso specifico dei vari commedianti. Le cronache si scordano subito di tutto.

Certo che questa crepa si aggiunge alle altre del continente centro-sud americano, che è ovunque percorso da profonde crisi economiche che impegnano gli Usa e le borghesie locali a sforzi sempre più onerosi, non dimenticando nella lista alcuni paesi europei considerevolmente esposti con i prestiti.

Nella rapida crisi venezuelana non è chiaro il ruolo giocato dal suo consistente proletariato industriale, che sappiamo impegnato in una lotta di difesa delle sue condizioni di vita. Gli auguriamo che, trascinandosi dietro le masse declassate, possa scrollarsi di dosso il giogo di ogni populismo borghese ed innescare la sua lotta di emancipazione politica ed economica.

Certo è che allora, come dimostra anche la tragica recente esperienza, tanta farsesca delicatezza, fra chi entra e chi esce dalle cattedre governative e dai talk televisivi, non si userà contro le masse quando si ribelleranno.
 
 
 
 
 
 


Si dispiega in Europa lo schieramento difensivo padronale
Governi a destra - Sindacati di regime a sinistra

Ovunque si è circondati da una propaganda di regime che, con abile opera di marketing, cerca di far entrare nella testa dei proletari i pretesi vantaggi della flessibilità sul lavoro. Ma vi è un altro gran tipo di flessibilità, quella delle posizioni politiche che mutano da un giorno all’altro, con i proletari ormai passivamente abituati a tutto ciò e i piccolo-borghesi che applaudono coglioni ad ogni slalom del gran leader del giorno.

Dopo decenni di esplicita politica antioperaia, di complicità, anzi partecipazione attiva allo smantellamento di una serie di garanzie per il proletariato, i Sindacati di regime di pressoché tutta l’Unione Europea hanno cominciato ad indire scioperi su scioperi: per molti lavoratori, oggi intimoriti dall’offensiva padronale, ciò è sembrato una virata verso la loro difesa e un ritorno a posizioni più “di classe”. Dopo anni (in alcuni paesi dopo decenni) si è rispolverata l’arma dello sciopero, anche generale, dalla Spagna all’Italia, dalla Germania alla Grecia, all’Inghilterra.

In Italia, dopo la polemica dello scorso anno su Tfr e pensioni, la questione, come è notorio, si è incentrata su un obiettivo “più consistente”, l’ormai celebre Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori sui licenziamenti senza giusta causa. Il 26 marzo la CGIL ha chiamato a raccolta i suoi iscritti a Roma insieme a tutta una passerella di star dei media della “Sinistra”; il 16 aprile oceaniche manifestazioni in tutta Italia, poi, e fino ad oggi, scioperi qua e là, dopo anni di totale passività, radi e di 2 o 4 ore se non addirittura di 1 ora! Insomma ciò che ha mantenuto una parvenza di ritorno alla “lotta di classe” è stato solo, oltre alle goffe frasi di Confindustria e Governo, il battage mediatico svolto da CGIL, Rifondazione e giornali filo-cigiellini quali il “Manifesto”.

E’ interessante notare innanzitutto che, al di là del miserrimo Articolo 18, la piattaforma delle rivendicazioni generali che la CGIL ha posto negli ultimi due anni, e continua a porre, sono tutt’altro che una resistenza al padronato, bensì sono vicine agli interessi di una parte del capitalismo europeo e inoltre, a conti fatti, non si discostano granché nemmeno dal programma del Governo “di destra” e dal famigerato “Patto per l’Italia” stipulato dal Governo con CISL e UIL.

La CGIL ad esempio chiede (vedi XIV Congresso del 18 dicembre 2001 oppure la Piattaforma su “Rassegna Sindacale” dell’11 marzo scorso): il sussidio di disoccupazione al 60% dell’ultima retribuzione, provvedimento che non solo è inserito nel tanto accusato “Patto per l’Italia” ma che è anche da tempo una reiterata richiesta della Commissione UE; l’estensione a tutte le categorie della Cassa integrazione dove non esiste ancora, per rendere più facili i licenziamenti; l’affiancarsi alla previdenza pubblica dei fondi pensione (la scelta su dove investire dovrebbe andare, secondo la CGIL, al lavoratore, ma è noto l’interesse finanziario del Sindacato su questa enorme massa di soldi; i proletari, vedi pensioni private americane, nella crisi rischiano di perdere tutti i loro risparmi); un contratto che unifichi quanto a “diritti” i dipendenti normali e i collaboratori coordinati e continuativi (questi, oggi senza “diritto” alcuno, che avrebbero superato addirittura la cifra dei 2 milioni, debbono la loro attuale esistenza giuridica e normativa ad un accordo che la CGIL ha sottoscritto!). Nello stesso tempo, e sempre d’accordo col padronato, la CGIL chiede l’abolizione dei prepensionamenti, altra richiesta tanto UE quanto della combriccola di Berlusconi-Maroni.

Inoltre, nonostante tanto sbandieri la difesa dell’Articolo 18, la CGIL già ha mostrato qualche inclinazione ad estendere l’uso dell’arbitrato sui licenziamenti, che ne delegherebbe di volta in volta la legittimità ad un terzo “super partes”, rendendo così più ricattabile il singolo lavoratore rispetto anche allo Statuto, che almeno impone una norma.

Per il resto il programma CGIL è tutta una serie di richieste che potrebbe avanzare un qualsiasi economista, discute pacificamente col padronato su quanto lo Stato debba investire su tale e tale progetto, dove si possano incanalare determinate quantità di plusvalore e come si possa aiutare la piccola, media e grande borghesia a difendersi dalla irreversibile crisi economica. La defiscalizzazione sulle aziende che vuole attuare il Governo, ad esempio, è contemplata anche nel programma della CGIL. Al XIV Congresso la CGIL richiedeva, ad esempio, «una politica industriale che sappia mantenere un ruolo al nostro paese nei settori tecnologicamente avanzati», oppure, in riferimento alla recente crisi FIAT, Cofferati, invece di stimolare i proletari alla lotta intransigente, affermava che «la FIAT deve investire in innovazione e qualità».
 

Due Linee - Un’unica fregatura

In realtà se è vero che il programma CGIL è del tutto filopadronale, è pur vero che esso esprime una delle due linee che si stanno confrontando all’interno dell’Unione Europea. Un no-global, un rifondarolo o un giornalista de “Le Monde” direbbero che si stanno scontrando fra loro da una parte i “liberisti” dell’Asse Berlusconi-Blair-Aznar, dall’altra i cavalieri dei diritti umani, dei lavoratori e delle libertà individuali ecc. Per noi, invece, se scontro esiste è semplicemente fra due diversi programmi del Capitale europeo nel fronteggiare la crisi, programmi che però, nei fatti, non sono così distanti e opposti come demagogicamente la “Sinistra” vuole farci credere.

In superficie la partita più importante fra i due contendenti europei è quella sullo “Stato sociale”. La Sibilla Cofferati lo chiama “il diritto ad avere diritti”, una vera beffa per quella classe che, come classe, non ha nessun diritto!.

Pretendere di smantellare tutta l’impalcatura della previdenza sociale è in contraddizione con i motivi che hanno portato il capitalismo da “liberale” a diventare “capitalismo di Stato”, quale è oggi. Lo “Stato sociale” nasce proprio con una crisi, quella del ‘29, in Germania, Italia e Stati Uniti: è l’unico metodo affinché il capitalismo possa ritardare la Rivoluzione sociale e sostenere il saggio di profitto sopra allo zero rinviando la sua fine. Inoltre «mai la iniziativa privata è stata così libera come da quando le resta il profitto, e le è stato tolto ogni rischio di perdita, riversandolo sulla collettività», cioè innanzitutto sullo Stato, scrivemmo già nel 1951. Il fatto che in tempo di crisi per i capitalisti vi è maggior rischio nel fare investimenti, li spinge verso lo Stato su cui riversano gli eventuali fallimenti. Finché vi sarà saggio di profitto vi sarà il cosiddetto intervento dello Stato nell’economia (che in realtà è il contrario).

Dopo lo “Stato sociale” l’attuale “liberismo di ritorno” è solo un fenomeno di scompenso nell’apparato difensivo del modo sociale di produzione capitalistico: come periodicamente il capitalismo non riesce più a mantenere i suoi schiavi salariati così il ridimensionamento dello Stato sociale è in realtà inevitabile. Il dibattito in seno all’UE sta tutto fra quanti soldoni assegnare a questo “nuovo modello” di Stato sociale, che Maroni & Co., ma anche la Commissione UE, chiamano non più Welfare, ma Workfare.

Da una parte starebbe dunque il “partito keynesiano”, che vede nelle proprie file una parte considerevole della Commissione UE, Francia, Germania, Sindacati e no-global. Dall’altra il “mostruoso” Asse cosiddetto liberista di Berlusconi-Blair-Aznar. In Italia questa sfida vedrebbe ad esempio da una parte il Governo italiano, che vuole investire, pezzente com’è, 700 milioni di euro per gli “ammortizzatori sociali”, dall’altra i Sindacati che ne chiedono dieci volte di più, circa 7-10 miliardi. La CGIL, tanto per chiarire la sua essenza “più keynesiana”, chiede ad esempio per il Mezzogiorno «un massiccio intervento dello Stato (infrastrutture, incentivi al Sud, lotta alla criminalità organizzata, risanamento dell’ambiente, ecc.)». Chiede inoltre «politiche di sviluppo e di incremento della domanda interna sostenendo i consumi popolari». Tale tendenza dei sindacati europei si può dimostrare tra l’altro nel pronunciamento in favore di certe forme di protezionismo economico.

Noi, che non siamo né “liberisti” né “keynesiani”, da sempre denunciamo il dirigismo come la necessaria politica economica dell’imperialismo, punto di approdo sia dei programmi socialdemocratici sia fascisti, finalizzata al perpetuarsi del capitalismo e di tutto il suo carico di parassiti.

Negli organismi economici sindacali della classe, oggi cosiddetti "di base", il Partito, nello stesso momento in cui denuncia le “riforme” previdenziali della borghesia e appoggia la lotta per la difesa effettiva, ad esempio, delle pensioni, denuncia al proletariato che la pidocchiosa e mercantile previdenza borghese non potrà mai assicurare la soluzione al problema della sussistenza di coloro che non sono più atti al lavoro per vecchiaia, malattia, inabilità o... flessibilità. E se gli obiettivi del programma “keynesiano” dei Sindacati di regime e quelli della vera lotta di classe, prevista dai comunisti, in difesa delle condizioni di vita proletarie sono diametralmente opposti, anche i mezzi utilizzati nella lotta economica sono di conseguenza opposti: il primo vuole mettere le toppe ai difetti enormi e insanabili di questa putrescente società affinché rimanga in piedi, e dunque adottano il mezzo della collaborazione di classe, della concertazione, i secondi non si pongono come limite la sopravvivenza del capitalismo, quindi sono liberi di invocare il metodo aperto dello scontro tra le classi.

Ma entrambi i contendenti europei, “liberisti” e “keynesiani”, hanno obiettivi anche a breve termine comuni: 1°) rendere flessibile il lavoro (con più o meno ammortizzatori, a seconda del contendente, per i periodi di inattività fra un lavoro e l’altro), 2°) abbassare i salari per far respirare i bronchi asmatici del plusvalore.
 

La Politica sindacale delle borghesie

Concordano tutti peraltro che deve assolutamente continuare l’ottimo lavoro di contenimento delle lotte operaie fino ad ora svolto dai Sindacati di regime. Perfino, a volte, come in questo periodo, ne favoriscono le “mobilitazioni” quando questi rischiano troppo di perdere la fiducia del proletariato tanto da minacciare l’estendersi di nuovi più combattivi sindacati. Così si spiegano le recenti “chiamate alla lotta” dei Sindacati europei, il che non toglie la loro sudditanza agli interessi del Capitale e a tutti i suoi governi. In Italia la CGIL è stata costretta a mobilitare i lavoratori. E bene ha fatto il sindacalismo di base ad incalzarla su questo terreno, delle manifestazioni e degli scioperi, dando loro le naturali rivendicazioni della classe e sotto la parola d’ordine, di sano orgoglio proletario e negazione delle due linee: No alla concertazione!

Una vera e propria sceneggiata è stata, ad esempio, la vertenza in Germania del forte sindacato dei metalmeccanici, l’Ig Metall. Questo ha chiesto con una serie di scioperi, anche qui radi e poco combattivi, un aumento del 6,5% dei salari cui il padronato ha risposto di poter concedere il 2,5-3%: alla fine hanno concordato sul 4%, da entrambi in realtà già previsto in partenza. Tali aumenti salariali hanno a tal punto leso gli interessi della borghesia che l’economista della Deutsche Bank Carlo Monticelli ha commentato che «mi sembra un accordo favorevole che non crea pressioni sui costi», mentre la Daimler-Chrysler, in profonda crisi, ha definito l’accordo «una pietra miliare delle relazioni industriali» (“Il Sole-24 Ore”, 16 maggio). L’Ig Metall è difatti un Sindacato legato anche finanziariamente agli interessi dell’economia tedesca ed è strettamente legato al Governo (nel 1998 investì tra l’altro 3,5 milioni di euro per appoggiare Schröder alle elezioni). Il crollo del 30% dei suoi iscritti negli ultimi dieci anni l’ha costretto alla messa in scena dello spettacolo di tali scioperi. Lo stesso vale per lo sciopero degli edili (in date zone, il primo dai tempi della II Guerra Mondiale) promosso da un altro sindacataccio tedesco, l’Ig Bau.

Episodi similari si possono trovare nel resto dell’UE. In Spagna sciopero generale il 20 giugno, in Grecia il 18 giugno, in Inghilterra la TGWU, la Unison e il Gmb hanno proclamato lo sciopero del pubblico impiego per metà luglio. Tutti ottimi Sindacati di regime! In Spagna, per inciso, l’UGT e le Comisionas Obreras avevano protestato anche con uno sciopero generale contro il Governo, dopodiché firmarono con questo la clausola de inaplicaciòn del régimen salarial secondo la quale è previsto che l’azienda in difficoltà non sia costretta a rispettare il contratto collettivo.

Anche l’Italia si è trovata a dover dare il suo contributo, forse il più rumoroso e medializzato, alle lotte che nulla chiedono e nulla vogliono ottenere. Il famigerato Articolo 18 già la CGIL l’aveva minato negli ultimi dieci anni inserendo tutta una serie di tipi di contratti flessibili per i giovani lavoratori, per i quali l’Articolo 18 non vige. Già oggi il padronato licenzia pressoché quando vuole e come vuole. Giuliano Amato che, rappresentando gli interessi del grande Capitale europeo e non quello dei quattro straccioni dell’italica Confindustria, ha ironizzato all’Assise di Parma: «E il costo del lavoro non vi interessa più?» (“Il Sole-24 Ore”, 14 aprile) e, criticando la stupida insistenza sul poco influente Articolo 18, ha detto: «Invece di dare corpo a una promessa che portava un messaggio coinvolgente si passa a un messaggio escludente» (“Il Sole-24 Ore”, 5 aprile). In pratica: ben più serio per la borghesia, per estorcere plusvalore, è l’abbassamento dei salari. Concetto che potremmo capovolgere: ben più serio per la classe operaia è l’aumento dei salari!

L’Articolo 18 non serve neanche alle piccole imprese affinché superino la soglia dei 15 dipendenti con “più coraggio”, come più volte ha detto il Governo, in quanto basterebbe loro aumentare la percentuale di “contratti flessibili”, cosa a cui la CGIL è stata ed è d’accordo, a condizione però di rafforzare gli ammortizzatori. L’entrata degli atipici nelle fabbriche, questa è stata la grande sconfitta della classe operaia, resa possibile per la mancata mobilitazione dei tipici da parte della CGIL, che soli sono nelle condizioni di scioperare difendendo se stessi mentre difenderebbero questi più sfortunati compagni, giovani, immigrati, ecc.

La CGIL inoltre, che si sta atteggiando ad estremista, negli stessi mesi di questi oceanici scioperi nei quali fa cantare l’inno di Mameli, ha ben provveduto a fottere il proletariato in vari modi. Ad esempio per gli stabilimenti della Electrolux Zanussi di Mel-Belluno e Porcia-Pordenone è stato firmato un accordo il 9 luglio fra FIOM-CGIL e padronato che prevede: liberalizzazione degli straordinari, contratti di affitto di lavoro senza limite, orario ultraflessibile per tutti. Ovviamente il padronato della Zanussi non può che dire che «sul salario e sulla flessibilità» con la CGIL si può trattare (“Il Sole-24 Ore”, 10 luglio). Il presidente dell’Assolombarda, Michele Perini ammette che lo scontro con la CGIL è decisamente evitabile e tale posizione è stata assunta anche dalla Confcommercio di Billé. Per concludere con questi esempi, il 10 luglio la CGIL ha firmato il contratto quadriennale degli interinali che non solo conferma la piattaforma del 1998, ma pretende di estendere, alla faccia dell’Articolo 18, l’uso dell’arbitrato.

È vero quanto afferma il Cavaliere, che gli scioperi della CGIL sono politici e non rivendicativi: sì, ma per una politica antioperaia non migliore né diversa dalla sua!

Questa resurrezione dei sindacati europei non è un caso. Sono infatti collegati nella Confederazione Europea dei Sindacati. Già al XIV Congresso della CGIL del dicembre 2001 si diceva che «la CES deve rivendicare l’apertura di un vero e proprio tavolo di negoziazione con la UE sulle politiche sociali supportando eventualmente le proprie proposte con azioni di lotta a livello europeo». La CES ha deciso e decide tuttora con la Commissione UE le politiche economico-sociali, studiando e discutendo con i vampiri del Capitale europeo i migliori metodi per succhiare plusvalore in quest’epoca di vacche magre, per favorire il padronato dinanzi alla crisi sempre più cronica e per tenere fermo il proletariato nel caso la crisi lo stimolasse a difendersi seriamente con la lotta.
Né le “Destre” vogliono distruggere i Sindacati, nonostante estemporanee uscite verbali del primattore di turno, in quanto sono il puntello principale per il mantenimento del dominio borghese sul proletariato. Anche se sul come sono possibili variazioni sul tema. Maurizio Sacconi, sottosegretario al Governo del Welfare, ha spiegato sul “Sole-24 Ore” del 12 giugno che il sindacato deve trasformarsi da “sindacato della concertazione” a “sindacato dei servizi”. Il sindacato diverrebbe un gestore finanziario, cioè concorrerebbe a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, gestirebbe gli ammortizzatori sociali coordinati con la formazione lavoro, lavorerebbe come agente per la sicurezza sul lavoro nonché aiuterebbe a denunciare il lavoro sommerso. Se la CGIL ha risposto a ciò accusando demagogicamente il ritorno al modello corporativo (e quello avutosi sino ad ora cosa è stato?), Sacconi ricorda che tale trasformazione del sindacato in ciò, cioè nelle cosiddette “attività bilaterali”, è già presente da anni. La CGIL ad esempio è ben contenta che vengano smantellati ad esempio gli Uffici di collocamento perché lei stessa, con agenzie interinali ed altri enti, potrebbe accaparrarsi, come un super-caporale, il grosso affare del “mercato del lavoro”.

Sacconi sa benissimo però che il Sindacato, per mantenere la credibilità dinanzi ai lavoratori, deve continuare periodicamente a porsi come difensore dei lavoratori. Il conflitto sociale non potrà scomparire, dice Sacconi, in quanto “resterà l’ultima ratio delle relazioni”.

Se il sindacato decidesse di smettere di “muovere le acque” ogni tanto con finte lotte perderebbe del tutto il seguito fra i proletari. Così nel già citato Congresso la CGIL lamentava «la perdita di ruolo delle strutture sindacali sui luoghi di lavoro» e dei suoi delegati e si rimproverava inoltre che «questa mancata partecipazione dei lavoratori è stata indubbiamente determinata anche dalla struttura centralistica insita nella politica concertativa». Così come l’Ig Metall, la CGIL muove dunque “lotta” al padronato anche perché i suoi iscritti sono in netto calo, che è quantificabile al -18,3% dal 1986 al 1997 a cui è seguito un leggero rialzo. Più della metà degli iscritti sono pensionati. Il superamento dell’uso esclusivo del modello “concertativo” era dunque posto dalla CGIL prima ancora che si sciacquassero ripetutamente la bocca con tali proposte le macchiette parlamentari di Berlusconi.

CGIL, CISL e UIL in Italia e i relativi sindacati europei, ripetiamo da decenni, sono Sindacati di regime che hanno del tutto ereditato la struttura interna e i fini dai sindacati fascisti. Questi si caratterizzavano infatti per: 1°) la precedenza data agli interessi della Nazione (leggasi della borghesia) dinanzi a quelli del proletariato; 2°) le scelte economico-sociali devono essere stipulate in una concertazione fra Sindacato-Stato-Industria, con l’affermazione del ruolo para-istituzionale al sindacato; 3°) la rappresentanza dei lavoratori è riconosciuta solo a determinati sindacati registrati e controllati e che siano in linea con i fini dello Stato borghese (obbiettivo da anni rivendicato e applicato dalla CGIL); 4°) il sindacato non difende soltanto i proletari ma anche le altre classi, piccola, media e grande borghesia comprese. La Confederazione Europea dei Sindacati, e tutti i sindacati che ad essa fanno parte, seguono tutte e quattro queste regole d’oro del buon sindacato al servizio dell’imperialismo internazionale. «Nessuno ha in mente – disse qualcuno – di abolire la lotta di classe, ma tale lotta deve essere subordinata al benessere della nazione. La collaborazione deve essere la regola, la lotta di classe un’eccezione». Questo qualcuno potrebbe certamente essere un dirigente della CGIL. Invece era un certo... Benito Mussolini, il 26 agosto 1918 sul “Popolo d’Italia”. E quando la CGIL critica la cattiva amministrazione di un’azienda come fosse una società di consulenza economica, come nel caso FIAT, anche qui possiamo ricordare la vecchia Carta sindacale fascista, che si dichiarava contro i capitalisti inefficienti e incapaci.

Oggi i sindacati europei sono legati agli interessi imperialistici, e già ora si preparano a deviare il moto proletariato in azioni indolori per il regime. L’Occidente, visto ciò che sta succedendo in Argentina, in Corea etc, per la pressione della crisi mondiale che scava sempre più in profondità, si prepara oggi a barricare il potere del capitale per rispondere efficacemente, o con la “collaborazione di classe” o col sangue versato, all’inevitabile futura risposta proletaria. A Genova, contro gli innocui cattolico-pacifisti dei No-Global, la borghesia ha sperimentato, come in laboratorio, quel trattamento che prepara per i proletari e che già ora mette in atto contro i diseredati dell’America Latina, dell’Asia e del Medio Oriente.

Un domani la crisi divenendo acuta determinerà necessariamente lo scontro di classe fra un proletariato, che non avrà più nulla da perdere, e una borghesia incalzata da un saggio di profitto vicino allo zero, che non le permetterà più il mantenimento delle masse di poveri che quotidianamente la crisi creerà. L’Argentina diverrà il mondo. Si vedrà allora la rinascita e l’estendersi, come in una eruzione, di un nuovo sindacato di classe, la cui struttura e i cui obbiettivi non avranno alcun legame con il capitale e il suo Stato. Recupererà allora quel mai vecchio obbiettivo della CGdL dell’inizio del secolo scorso: la “completa emancipazione della classe operaia dal regime del lavoro salariato”. Il sindacato di classe, nelle sue lotte difensive, permetterà la necessaria “ginnastica” per il proletariato affinché possa riconoscere la propria forza, individuare il suo proprio indirizzo di battaglia in quello del partito comunista e rovesciare l’ormai putrefatto ordine esistente.
 
 
 
 
 
 


Ipocrisia borghese della FAO e della Contro‑FAO
 

Sotto i primi caldi romani si è consumata la farsa della riunione plenaria della Fao, Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura, una delle più importanti strutture del cosidetto “sistema Onu”. Come da Statuto, la riunione plenaria non ha alcun potere vincolante sui 183 Paesi membri ma solo compiti consultivi e di indirizzo per politiche a carattere generale da adottarsi contro la fame e per lo sviluppo dell’agricoltura nei paesi più poveri.

Per i ben 4.000 delegati guidati da 74 capi di Stato o di governo e da 264 ministri dell’agricoltura, con annesso gran codazzo di funzionari e giornalisti al seguito, si è trattato di una breve ma piacevole vacanza. Tra brindisi, convenevoli e lodevoli dichiarazioni di principio, del tipo “un uomo affamato non è un uomo libero”, si è principalmente dato sfogo all’arte oratoria discettando, a pancia piena, su quelli che muoiono di fame al discreto ritmo di 4 al secondo per cui, secondo i loro stessi calcoli, durante le 32 ore di dibattiti è morto di fame circa mezzo milione di uomini.

Cancellazione del debito per 1.000 milioni di dollari entro il 2002, aumento della percentuale del Pil, dallo 0,18 al 0,7 per cento, destinata dall’Italia “allo sviluppo”, promessa di dimezzamento entro il 2015 del numero dei morti per fame. Insomma delle schifose elemosine, ma che, permanendo il capitalismo, nemmeno queste si possono fare; una sorta di “vorrei ma non posso”.
Dal canto loro i capi di Stato dei paesi poveri ed affamati, i rappresentanti della locale borghesia di terzo e quarto livello non hanno fatto altro che chiedere l’appoggio dei ricchi del mondo per poter loro continuare a svolgere il compito di gendarmi delle classi più povere e del proletariato dei rispettivi paesi, perché la fame può portare a cruente rivolte.

Tutto qui il vertice della Fao, che dalla stessa stampa borghese è stato giudicato assolutamente inutile. Il che è un progresso.
Fra i tanti illustri partecipanti e commentatori c’è addirittura un premio Nobel indiano, tal Amartya Sen, massimo esperto in carestie, il quale osserva, confortato dai suoi autorevoli studi, che «queste non derivano mai dalla carenza fisica dei generi alimentari ma piuttosto dalla loro cattiva distribuzione: nei paesi colpiti, il cibo scarseggia sulle tavole dei poveri ma non manca su quelle dei ricchi». Ci voleva proprio un premio Nobel per giungere a cotanta specialistica affermazione, che da sempre è la norma nella società capitalistica. Lui però forse pensava alle caste... non è il caso di precisare oltre.

Invece l’occidentale dott. prof. Mario Deaglio, riprendendo quell’originale spunto, ne trovava la soluzione (è il suo mestiere) attraverso la seguente ricetta: la fame sarà sconfitta quando il cibo costerà più caro. Questo è proprio il titolo del piccolo redazionale con cui apre "La Stampa" del 14 giugno, riservando la prima pagina agli avvenimenti del mondiale di calcio. Il titolo non è affatto polemico e spiega la proposta constatando che molti dei paesi del Terzo Mondo impongono prezzi politici, ossia artificialmente bassi, per i generi di prima necessità, soprattutto nelle capitali e nelle grandi città, per riuscire ad alimentare le masse inurbate, affamate e pericolosamente turbolente. Di conseguenza i contadini non guadagnano a sufficienza, smettono di coltivare i campi e si riversano nei sobborghi delle grandi città «sperando di sopravvivere con elargizioni gratuite di cibo: da produttori diventano fruitori di aiuti, aggravando il problema». Occorrerebbe quindi invertire questo ed altri meccanismi compreso quello, anche se lodevole e caritatevole, dovuto all’emergenza, di inviare navi e convogli di generi alimentari nei paesi colpiti dalle carestie perché «questo cibo regalato che ha un prezzo nullo non fa altro che scoraggiare ulteriormente la produzione interna dei paesi poveri mentre incoraggia indirettamente la produzione dei paesi donatori e può tradursi così in un velato sussidio per gli agricoltori dei paesi ricchi»!

Insomma è la nostra sfottitura “far investire gli ignudi”. I prezzi dei prodotti agricoli nel capitalismo, per determinazione economica, saranno sempre alti ed inaccessibili a grandi masse di uomini. Questo rende inevitabili, per motivi di ordine pubblico, alcune, eccezionali, vendite sottocosto. Il prezzo ai produttori o ai mercanti però viene pagato intero dagli Stati (cosa che inspiegabilmente il giornalista di mestiere ignora). Per i piccoli contadini i prezzi imposti dal mercato mondiale saranno invece sempre troppo bassi, portandoli inesorabilmente alla rovina e a rovesciarsi con le famiglie nelle metropoli.

In “Capitalismo e Popolazione”, nel numero 223/1994 di questo giornale, a proposito di un similare vertice tenuto al Cairo sul tema: Popolazione e Sviluppo, fornimmo, tramite citazioni di Marx ed Engels in merito, un’articolata critica ai neomalthusiani ed alla loro politica tendente a rendere difficile l’accesso ai prodotti alimentari di base e invece più facile l’accesso ai prodotti di lusso per sanare gli squilibri tra produzione e popolazione. «Engels spiegava, in un’epoca in cui il capitalismo non era ancora degenerato, che la sovrappopolazione, o in altri termini la massa della miseria o sottoconsumo, corrispondeva esattamente alla massa della sovraproduzione; ma faceva notare che con lo sviluppo del capitalismo la sovraproduzione creava merci sempre meno in grado di soddisfare bisogni umani».

Ma nemmeno nel contiguo controvertice romano del Forum delle Organizzazioni – cosiddette, e falsamente – “Non Governative” si è fatto di meglio, oltre alle facili critiche verso il convegno ufficiale.

L’argomento principale del secondo si è alla fine concentrato sulla privatizzazione ed il monopolio delle risorse naturali in special modo dell’acqua e sull’espansione delle aree dedicate alle colture transgeniche. Ignorando che il problema non è tecnico ma economico e politico si sta infine imponendo, mettendo da parte ogni sospetto e giustificato dubbio scientifico del primo momento, che queste sono da considerarsi la soluzione più efficace per l’aiuto agli oltre 800 milioni di poveri che soffrono la fame. Questa posizione farisaica, alla fine della fiera, ammette che le coltivazioni transgeniche per produrre più cibo a basso costo vanno bene per i poveri di tutto il mondo, accanto allo sviluppo ben sovvenzionato di un’agricoltura biologica, correttamente condotta e certificata, per nutrire in tutta bontà e sicurezza i ricchi di ogni dove: ovunque ci sono cibi di differenti qualità e prezzo. E siamo tornati a confermare la volontà anche dei buoni di mantenere la società divisa in classi.

La soluzione del problema della fame nel mondo non è affatto legata alla diffusione su scala mondiale delle coltivazioni transgeniche, che offrono sì una maggiore resa ma necessitano di un’agricoltura più industrializzata con maggiori capitali a disposizione. Il loro effetto sarà di accelerare la distruzione dei metodi dell’agricoltura tradizionale nei paesi meno sviluppati rendendo i piccoli contadini dipendenti dai monopoli agroalimentari detentori dei brevetti sulle sementi e sulle colture. La scomparsa del piccolo contadino, schiavo della sua stessa schiappa di terreno, è un fatto progressivo e se lo fa e lo completa il capitalismo gliene rendiamo merito. Ma questo non significherà il miglioramento delle condizioni alimentari delle classi inferiori bensì il contrario.

Nemmeno approviamo incondizionatamente il sovvertimento delle leggi della riproduzione naturale che il capitalismo fa esclusivamente per le sue imprescindibili leggi del profitto. Non tutto ciò che fa, soprattutto ora nella sua fase di profonda crisi di senescenza, è realmente, umanamente, progressivo tanto che, dopo averlo violentemente distrutto, il comunismo eliminerà molte delle “invenzioni” e dimenticherà molte delle “scoperte” della sua scienza, divenuta veramente sociale e di specie rendendo immediatamente e facilmente attuabile la soluzione – oggi nemmeno pensabile – di non-problemi tecnici quali quello di dar da mangiare a tutti.

Secondo i dati di “Stiftung Ökologie & Landbau”, nel 2002 negli Usa sono dedicati alle colture geneticamente modificate 35,7 milioni di ettari, grosso modo un’area pianeggiante grande quanto tutto il Veneto e l’Emilia e Romagna messi insieme, l’Argentina con 11,8, il Canada con 3,2 e la Cina con 1,5 seguiti da altri 10 paesi con meno di 1 milione di ettari dove si produce principalmente soia, frumento, mais, patate, cotone e tabacco.

Ma è falsa la giustificazione che la loro necessità è per ottenere una maggior produzione: l’agricoltura capitalistica soffre non già perché produca poco ma perché produce troppo e si è addirittura costretti, come nel caso europeo tramite la Politica agricola comunitaria, a ricorrere al cosidetto seat-aside ovvero una messa a riposo forzato di una quota dei terreni agricoli allo scopo di ridurre la produzione. Inoltre tutte le statistiche e gli studi rivelano che, complessivamente, la produzione agricola mondiale sarebbe già da parecchi anni più che sufficiente al fabbisogno alimentare di tutti gli umani, compreso il previsto incremento della popolazione. Non è una questione di distribuzione, come crede il Nobel venuto dall’India, ma del cuore del meccanismo della produzione e della rendita capitalistica: ogni prodotto della terra, tradizionale, transgenico o biologico che sia, è per prima cosa una merce che deve compensare rendita e profitto. Sono queste le divinità maligne che affamano l’uomo. E ingrassano i congressisti.

Solo il comunismo pianificherà globalmente le risorse della specie in funzione solo del valore d’uso dei prodotti e la regola diverrà pane contro fame ed a ciascuno, razionalmente, secondo il bisogno. Ma per giungere a tanta semplicità occorre prima distruggere il capitalismo, concetto elementare ma che è vano attendere da un consesso di capitalisti come quello romano della Fao o di borghesucci del Contro-Fao.
 
 
 
 
 



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Ancora su fascismo e antifascismo
Giacomo Matteotti martire dimenticato
 

Per lunghi decenni la retorica resistenziale ha legato il nome di Giacomo Matteotti alla lotta democratica ed antifascista, al tentativo di ripristinare in Italia le libertà e le prerogative democratiche conculcate dal regime mussoliniano. L’Aventino, la “questione morale”, l’aggregazione di tutti i partiti parlamentari in difesa dei diritti statutari, tutto ciò prese le mosse dall’emozione suscitata nel popolo italiano dal suo rapimento, dalla sua uccisione, dall’occultamento del suo cadavere.

Ora anche Giacomo Matteotti sembra aver fatto il suo tempo e la sua figura è piombata nell’oblio più completo. Invano, in occasione dell’anniversario del suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924, abbiamo cercato tra le pagine de L’Unità (ed anche di Liberazione) un cenno di memoria. Eppure da più parti si parla oggi del ritorno ad un regime che ricorderebbe da vicino quello fascista, di forte limitazione della libertà di informazione, di governo manovrato da una cricca di avventurieri e di affaristi senza scrupoli, di attacco ai più elementari diritti dei lavoratori ed alle loro conquiste sociali ed economiche.

Matteotti oggi è da tutti quanti dimenticato perché non è più un prodotto vendibile come non lo è più il mito della resistenza antifascista, che ha tradito tutte le sue promesse di “diversità”, fatta di benessere e latte e miele sociale. Altri sono stati gli argomenti del giorno hanno riempito le pagine dei giornali e commosso un’opinione pubblica sempre più rimbecillita: ci sono state le elezioni francesi dove la destra è riuscita addirittura a battere la destra, in Italia i ballottaggi delle amministrative dove, con grande esultanza dei diretti interessati, le “sinistre” sono avanzate!

Non ci siamo che noi quindi a poter prendere la parola per ricordare uno dei tanti episodi che caratterizzarono la reazione violenta della borghesia ai danni della classe operaia, non appena questa venne consegnata disarmata, materialmente e moralmente, nelle mani del nemico di classe ad opera dei partiti socialisti traditori.

Innanzi tutto cosa fu il fascismo? Il fascismo nacque come rinnegamento, da parte di Mussolini e di pochi suoi collaboratori, della teoria della lotta di classe e della guerra alla guerra per aderire a quella della concordia nazionale ed alla difesa (non stupiscano i giovani lettori) degli eterni valori della democrazia minacciati dagli eserciti degli imperi austrotedeschi. Quindi il fascismo nacque con continuità di atteggiamenti, di consegne, di organizzazioni e di capi dal movimento interventista del 1914, al quali si sono sempre richiamati il maggior numero dei partiti che vantavano di essere coerenti antifascisti, e che, da sinistra, nessuno ha avuto mai il coraggio di sconfessare.

Terminata la guerra tutto l’apparato politico, economico, militare dello Stato mise i suoi strumenti a disposizione del fascismo perché portasse a termine in modo extra legale la più violenta delle reazioni antiproletarie, scompaginando le organizzazioni di difesa economica, spezzando i partiti politici, uccidendo, devastando e terrorizzando lavoratori in ogni angolo della penisola ed in modo particolare nei centri di consolidata tradizione proletaria.

Il nuovo movimento politico della classe dominante italiana, appena fu assunto, con tutti i crismi democratici e parlamentari, al potere, trovò la migliore intesa con la Corona e non ebbe difficoltà a scegliersi dei sinceri servitori tra i rappresentanti politici della vecchia generazione: giolittiani, liberali, radicali, cattolici. Così, ottenuta l’investitura da parte dello Stato, l’estirpazione di ogni residuo movimento autonomo operaio continuò in forme che potevano ormai ricoprire di aspetti ufficiali l’illegalismo della dittatura borghese di sempre.

Durante il suo primo periodo il fascismo impostò la sua, non originale e non risolutiva, soluzione delle questioni sociali prendendo a prestito dai programmi del socialismo riformista l’inserimento nello Stato degli organismi sindacali e la creazione di un meccanismo arbitrale centrale che, al fine supremo della conservazione dello sfruttamento padronale, pretendeva compensare i guadagni e le remunerazioni dei lavoratori e contenere in un piano economico generale la speculazione capitalista.

La collocazione della politica fascista come “estrema destra”, imposta dalla terminologia politica democratica, è, infatti, del tutto falsa: il fascismo non è né di destra né di sinistra, tende (senza riuscirci perché le lotte intestine alla classe borghese non sono eliminabili) a costituire il partito unico della borghesia facendo suoi tanto i programmi ed i metodi di reazione armata più apertamente violenti, legali ed extra-legali, quanto quelli corporativi, fondati, oggi si direbbe, sulla concertazione e perorati del socialismo riformista. Ciò è tanto vero che i socialisti italiani e la Confederazione Generale del Lavoro non solo non avversarono i primi governi Mussolini, ma addirittura si dichiararono pronti ad appoggiarli ed a parteciparvi e lo stesso Mussolini affermò che avrebbe volentieri affidato «un dicastero delicato ai rappresentanti diretti delle masse operaie organizzate». Non è un caso che il socialista sindacalista Colombino dichiarasse, a nome suo e dei suoi compagni, di essere pienamente disponibile affermando che «la guerra, se non è eterna tra i popoli, non sarà eterna tra i partiti (...) Dieci anni fa si diceva che Giolitti era un ‘brigante’ e quasi quasi un sovversivo si vergognava di parlare con lui. Ma qualche tempo fa si era felicissimi di trattare, magari di governare con lui». Ed il super bonzo D’Aragona affermava con tutta chiarezza che «se in futuro il governo dovesse chiamare alcuni iscritti alla CGL ad una partecipazione ministeriale, il sindacato non avrebbe da augurarsi altro che costoro non dimenticassero il loro passato e continuassero la loro opera in difesa del proletariato».

Ben presto però il nuovo sistema, il cui chiaro intento era la costituzione del partito unitario borghese e la sua sostituzione al ciarlatanesco complesso dei partiti tradizionali, avrebbe dovuto necessariamente passare alla liquidazione del personale delle vecchie gerarchie politiche; e questi complici della prima ora dovettero essere espulsi a pedate dalla scena politica. La nuova legge elettorale del 1923, passata a grandissima maggioranza grazie ai voti dei parlamentari non fascisti, ne costituì il primo presupposto. Con la legge Acerbo, che assegnava il 75% dei seggi alla lista che avesse ottenuto il 25% dei voti, venivano di fatto dati i pieni poteri al partito di governo e soppressa quella miriade di politicanti che avevano costituito il variegato mondo liberale personificando i più disparati interessi di bottega: chi non avesse fatto a tempo a saltare sul il carrozzone fascista doveva essere liquidato.

Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti pronunciava in parlamento il suo ultimo discorso: era un violento attacco ai metodi liberticidi del fascismo che, attraverso la violenza dispiegata della sua organizzazione militare di partito e con l’appoggio aperto ed incondizionato dei poteri statali, aveva impedito all’elettorato italiano la possibilità di esprimere liberamente il suo voto.

Noi sappiamo, Lenin ce lo insegna, che il regime democratico consiste appunto nella possibilità data al proletariato di scegliere, periodicamente, i padroni che esso dovrà servire. Questo il fascismo aveva impedito al proletariato, la possibilità di scegliere liberamente il proprio padrone e contro questo Matteotti e la democrazia in generale si scagliavano. Questo non addolorava noi comunisti, perché, è sempre Lenin ad insegnarcelo, il regime democratico «è il miglio involucro politico possibile per il capitalismo che vi fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni né di partiti, può scuoterlo». Ciò invece addolorava i socialdemocratici i quali si «aspettano dal suffragio universale proprio qualche cosa di più. Essi condividono ed inculcano nel popolo la falsa concezione che il suffragio possa esprimere realmente la volontà della maggioranza dei lavoratori ed assicurarne la realizzazione».

Le garanzie di stabilità date dalla democrazia non possono infatti essere eguagliate da nessun altro tipo di regime e non a caso Matteotti chiudeva il suo discorso con questo appello rivolto ai fascisti: «Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma (...) il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra». In sostanza non il fascismo con la sua violenza repressiva e con lo scontro diretto di classe, diceva, ma il metodo socialdemocratico di collaborazione interclassista poteva rivendicare il merito di aver salvato l’Italia dal pericolo della rivoluzione. Ed era vero.

Matteotti venne ucciso, dopo essere stato rapito, la sera del 10 giugno 1924. A parte i noti esecutori dell’omicidio, ancor oggi non ci è dato sapere se si trattò di una azione autonoma della “Ceca” fascista, se vi furono mandanti e chi furono; se l’intenzione dei rapitori fosse stata semplicemente quella di “dare una lezione” al parlamentare intollerante oppure l’omicidio era stato premeditato. Fatto è che l’episodio doveva provocare la sollevazione sia del proletariato sia della classe politica democratica, ma con finalità e metodi del tutto differenti.

Nell’assassinio Matteotti il proletariato vide un ulteriore, l’ultimo attacco sanguinoso alle sue organizzazioni di classe e si dispose prontamente al combattimento, deciso a farla finita definitivamente con il fascismo ed il manutengolo democratico non appena le sue organizzazioni politiche ed economiche di classe lo avessero chiamato all’azione diretta.

Il personale demoliberale in quell’atto comprese la sua imminente, definitiva, liquidazione, condannato al pre-pensionamento causa la ristrutturazione dell’azienda politica dello Stato. L’episodio centrale di resistenza compiuto da questa categoria fu costituito dalla lotta sorta dopo l’uccisione di Matteotti. Questo folto gruppo di politicanti senza futuro invocò ed avrebbe preteso l’appoggio del proletariato per dettare le sue condizioni al fascismo, trattare da pari con lui e magari ridimensionarne il potere, ma nello stesso tempo non cessò di pietire l’intervento della monarchia, di fare l’apologia della legalità, del diritto e della morale, tutte armi che non scalfivano affatto la grandeggiante struttura dello Stato borghese ormai volto al fascismo. Si richiese l’appoggio del proletariato, ma si deprecò ogni forma di violenza di massa.

Finché aveva compiuto la sua opera di demolizione dei fortilizi proletari, finché nel corso delle sue “spedizioni punitive” aveva assassinato comunisti e proletari che si distinguevano per la loro combattività, il fascismo era stato invocato e benedetto dalla classe politica liberale, democratica, cattolica. Di fronte alle stragi di Torino e di La Spezia non ci fu un cane di cattolico o di socialista massimalista pronto a versare una lacrima o una goccia d’inchiostro per denunciare l’incostituzionalità degli atti del terrorismo fascista. Ma quando questi, dalla sua funzione di scherano, volle assurgere al ruolo di governo, non solo politicamente, ma a quello, che loro più importa, di sotto-governo e cominciò a voler riservare per sé fette di prebende sotto forma di infiltrazione in tutte le concessioni lucrose, nelle banche, nei consigli di amministrazione, nelle speculazioni affaristiche, e si rivolse a mano armata non più contro i soli comunisti e proletari ma contro i precedenti rappresentanti grandi e piccoli, aperti e mascherati della borghesia ed i suoi colpi raggiunsero Nitti, Amendola, Forni, Misuri, Bergamini, Matteotti, allora i giornali non osannarono più i liberatori della Patria dal pericolo bolscevico, ma gridarono l’allarme contro il sovversivismo fascista, in nome della legalità, dell’ordine e del buon nome dell’Italia nel mondo.

Non appena però i rappresentanti dei partiti liberali e socialdemocratici si resero conto che, sulla scia dell’emozione provocata dall’assassinio, il proletariato avrebbe potuto risvegliare il proprio istinto di classe e la determinazione alla lotta, preferirono sacrificare le loro inutili persone anziché mettere a rischio le sorti dell’intero sistema capitalista. Ed in questa opera di pompieraggio (alla quale, purtroppo, avrebbe preso parte anche la direzione centrista del PCd’I) soprattutto si distinsero i compagni di partito del defunto Matteotti che controllavano la CGL. Tutta la protesta si ridusse alla proclamazione di uno sciopero di «dieci minuti», al quale aderirono perfino i sindacati fascisti, «per commemorare G. Matteotti e rivendicare le libertà sindacali» (26 giugno 1924), dopo che si era proceduto ad «invitare alla calma le organizzazioni confederate, i dirigenti, la massa lavoratrice, per non compromettere con iniziative particolari e inconsulte lo sviluppo degli avvenimenti» (19 giugno).

Ancora un anno dopo l’assassinio Matteotti il dirigente sindacale Baldesi scriveva: «Sono sempre quello che ebbe il coraggio di avvicinarsi all’On. Mussolini e mettersi a sua disposizione per un programma di riavvicinamento e di pacificazione sociale. Allora avvenne quello che avvenne. Potrebbe ripresentarsi la stessa occasione e allora io sono sempre pronto» (“Avanti!”, 25 agosto 1925). Passarono altri due anni, ma non passò la prerogativa socialdemocratica al tradimento della classe operaia; il 25 marzo 1927 Rigola e D’Aragona non si vergognavano ad affermare che «il regime fascista è una realtà e la realtà va tenuta in considerazione. Questa realtà è scaturita anche da principi nostri, i quali si sono imposti. La politica sindacale del fascismo, per esempio, si identifica, sotto certi riguardi, con la nostra. Il fascismo ha fatto una legge altamente ardita sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro. In questa legge vediamo accolti dei principi che sono pure i nostri».

Tali sono i padri fondatori dell’antifascismo ed i loro discendenti sono quelli che oggi si oppongono al nuovo regime che paventano in via di instaurazione da parte del condominio Berlusconi-Fini-Bossi.

In occasione dell’assassinio Matteotti non a caso noi comunisti scrivemmo: «Gli operai ed i contadini non accolgano come delitti fascisti i delitti eseguiti dal fascismo. Sono delitti padronali, che vanno tutti messi in conto alla classe capitalista» (“Prometeo”, giugno 1924).
 
 
 
 


Notiziario

SCIOPERO DEI TRASPORTI A MADRID

Massiccio e combattivo sciopero dei lavoratori del trasporto su strada questa primavera nella provincia di Madrid. I sindacati si sono visti travalicare dalla combattività dei lavoratori, che in massa hanno risposto allo sciopero contro le pessime condizioni di lavoro, non rispettando il livello di "servizio minimo" imposto dalle aziende e dall’amministrazione regionale.

Di fronte alla piega che il conflitto stava prendendo, i sindacati di regime (CCOO-UGT-USO) hanno deciso di accettare le condizioni offerte dal mediatore designato dal governo regionale.

Causa la mancanza di organizzazione fuori dalla struttura sindacale ufficiale e l’appoggio di altre categorie, dopo 12 giorni di sciopero e picchettaggi la stanchezza ha prevalso. Le assemblee (non senza vivaci contestazioni) hanno approvato l’accordo.
Se non altro si è dimostrato che, di fronte alla fermezza dei lavoratori, anche le condizioni imposte per i servizi minimi possono saltare, essendosi le imprese dovutesi rimangiare i 2.000 provvedimenti intentati a carico degli scioperanti.
 

COREA: UN CALCIO AGLI SCIOPERI

Mentre un provvedimento di polizia proibiva le manifestazioni durante i mondiali di calcio, i successi della nazionale coreana erano scanditi da decine di arresti di dirigenti e membri di organizzazioni operaie. Ammontano a 92 gli arrestati, 1.797 i denunziati, 2.560 soggetti a provvedimenti disciplinari da parte delle imprese che hanno ottenuto il congelamento dei fondi delle Unions a risarcimento dei danni.Il dominio dell’Imperialismo
 
 
 
 
 
 


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Il dominio dell’Imperialismo
LA CENTRALIZZAZIONE FINANZIARIA
[ 1 - 2 - 3 - 4 ]

Parte II - b) L’attuale gigantismo
 
 

Le Banche Centrali

Le Banche Centrali sono sorte alla fine del XIX° secolo quando inizia a rendersi necessario un ruolo centrale per l’emissione della moneta cartacea in seguito all’ampliarsi dei movimenti nei pagamenti delle merci. Inizialmente le banche di emissione tradizionali non si distinguevano dalle altre banche commerciali che per la dimensione dei capitali che erano in grado di movimentare; entrambe erano sottoposte al vincolo del rimborso delle obbligazioni commerciali tramite monete in oro o argento o biglietti di banca dotati di corso legale. Questo aumentò il potere degli istituti aventi il diritto d’emissione.

Col crescere dei movimenti economici in quantità ed estensione geografica e della massa di moneta contabile, la concorrenza fra banche portò a centralizzare presso un solo istituto il privilegio di emettere moneta cartacea e quindi creare un monopolio nazionale. In seguito a ciò tutte le altre banche dovettero acquistare da questa banca privilegiata i biglietti necessari per la loro clientela. Questa moneta fiduciaria emessa da una Banca Centrale diventa la caratteristica del sistema monetario moderno costruito in modo gerarchico. Il processo si completa quando si introduce il corso forzoso della moneta, che dispensa l’istituto di emissione da rimborsare i biglietti con moneta in oro o argento, spezzando il legame contrattuale tra emettitore di moneta fiduciaria e detentore di questa. Nella parte precedente abbiamo visto come questa convertibilità venisse applicata o revocata secondo lo svolgersi delle crisi e delle guerre. Dal 15 agosto 1971 si applica completamente il corso forzoso anche del dollaro.

Questo processo fu pieno di difficoltà e contraddizioni soprattutto legate al ruolo di centro di compensazione fra banche debitrici e creditrici, alla necessità di dotarsi di forti riserve per i momenti di crisi e per i frequenti salvataggi delle banche fallimentari; fattori che hanno attribuito alle Banche Centrali la funzione di sorveglianza sul sistema finanziario. Pur partendo da situazioni diverse le Banche Centrali sono arrivate allo stesso risultato di indipendenza anche formale rispetto i governi statali (negli Stati uniti la situazione è più complessa e formalmente il potere monetario appartiene al Congresso che lo delega al Sistema federale di riserva). Uno dei punti del trattato di Maastricht prevedeva che le Banche Centrali dei paesi partecipanti diventassero totalmente indipendenti prima di entrare nella fase III dell’Unione europea, il 1° gennaio 1999; la Banca Centrale europea creata nel giugno dell’anno prima è stata dotata della stessa autonomia.

Attualmente però il loro ruolo è fortemente minato dalla impressionante dinamicità e ampiezza dei movimenti finanziari che sono per loro incontrollabili. Le Banche Centrali nazionali hanno mantenuto a stento il ruolo di vigilanza sulla stabilità delle varie monete nazionali. Nonostante il loro prestigio, particolarmente di quella americana, tedesca e giapponese, nei piani alti del capitalismo finanziario vige sempre la regola che chi più ha più vale ed il passato, anche se vistoso, conta poco.

L’ambito d’azione delle Banche Nazionali si è ristretto al controllo dei tassi d’interesse che applicano alla vendita della moneta che possono stampare e a quello dell’acquisto e della vendita di altre divise straniere nel reciproco intento di calmierare gli eccessi speculativi del mercato dei cambi. Ma la loro possibilità di manovra è limitata. Basta ricordare che nel 1994, mentre il montante quotidiano degli scambi di valute era di 1.200 miliardi di dollari, le Banche Centrali del G7 disponevano riserve per appena 285 miliardi: una cifra ridicola per il loro ruolo di controllo dei cambi, soprattutto se confrontata con quella a disposizione, alla stessa data, dei tre principali Fondi pensione americani che era di oltre 700 miliardi di dollari! Nel caso di movimenti finanziari speculativi sul mercato dei cambi delle monete concertati da un gruppo di Fondi, le Banche Centrali possono fare ben poco per resistere ai loro attacchi, come avvenne nel 1992 contro la sterlina, in quel caso pilotato dal già citato Quantum Fund.

Organismi finanziari internazionali, sanciti dagli accordi di Bretton Wood, sono le due banche create in seguito alla seconda guerra mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, che nel 1996 disponeva di un budget annuale di 475 miliardi di dollari e 2.577 funzionari, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, poi denominata Banca Mondiale, che ha con un budget di 1.375 miliardi e 6.781 funzionari. Come la precedente Banca dei Regolamenti Internazionali, creata dopo la crisi del 1929 da un consorzio fra grandi Stati e grandi gruppi azionari, hanno ormai solo il ruolo marginale di finanziamento nelle situazioni di emergenza nei paesi fortemente indebitati: una sorta di consorzio di banche del buon samaritano chiamate a mettere una pezza prima della morte per dissanguamento. Ma presentando sempre il conto perché una cosa sono gli affari, altro la solidarietà verso il debitore, che non deve morire mai!

Il Fmi è stato l’organismo che è intervenuto con maggior frequenza in quest’ultimo periodo di crisi in rapida successione ed ora si trova a corto di fondi, soprattutto dopo l’oneroso salvataggio delle tigri asiatiche ed ora dell’Argentina. Ha recentemente chiesto ai suoi 181 paesi membri un discreto aumento delle loro quote di partecipazione anche perché molti di essi, tra cui Irak, Somalia e Sudan hanno chiesto la sospensione dei loro rimborsi e molti altri hanno chiesto uno scaglionamento del debito. Inoltre è stato portato a 50 miliardi di dollari il fondo disponibile ai paesi più industrializzati per contrastare “gravi minacce per il sistema monetario internazionale”.

Tra gli altri organismi di aiuto finanziario creati successivamente ma con la stessa impostazione i più importanti sono l’Organizzazione di Cooperazione e Sviluppo Economico con un budget, sempre nell’esercizio del 1996, di 330 miliardi di dollari e 2.322 funzionari, e la Banca Europea per la Ricostruzione e Sviluppo con 213 miliardi e 753 funzionari.

In conclusione della presentazione dei principali attori del mercato finanziario, risulta che i più impetuosi sono i Fondi comuni di investimento dei quali quelli pensionistici amministrano l’accantonamento capitalizzato, il “salario differito” dei lavoratori. Questi vedono legata la loro sopravvivenza da anziani o da ammalati alla buona salute dei “loro” Fondi pensioni, che si muovono in tutto il globo accaparrando ovunque profitti e plusvalore. Benché ai pensionati non tornino che le briciole di tanto affare, pochissimo o nulla di più di quanto è stato loro sottratto in lunghi anni di lavoro, e benché la gestione del loro “salario differito” sfugga totalmente al loro controllo, sia individuale sia come categoria operaia sia come classe, per restare stabilmente nelle mani dell’anonimo Capitale, al di là di ogni stupido moralismo, di fatto il mantenimento dei lavoratori dei paesi più sviluppati appare in qualche modo legato, come quello delle classi intermedie e superiori, allo sfruttamento ad oltranza del proletariato dei paesi più deboli attraverso strumenti finanziari anonimi e senza corpo, ma non di meno mortale effetto.

Lasciamo dire a Lenin, tramite la Prefazione alle edizioni francese e tedesca a “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” le cose giuste; in una mezza paginetta del 1920 c’è la spiegazione di tutto quanto valida ancora oggi e con ancora ulteriore conferma. Più di una profezia è un dato scientifico e imprescindibile nella future lotte di classe del proletariato per la sua emancipazione: «Il presente libro dimostra come il capitalismo abbia espresso un pugno, meno di un decimo della popolazione complessiva del globo, e – a voler essere “prodighi” ed esagerando – sempre meno di un quinto di Stati particolarmente ricchi e potenti che saccheggiano tutto il mondo mediante il semplice “taglio delle cedole”. L’esportazione dei capitali fa realizzare un lucro che si aggira annualmente sugli 8-10 miliardi di franchi, secondo i prezzi prebellici e le statistiche borghesi di anteguerra. Ora esso è senza dubbio incomparabilmente maggiore. Ben si comprende che da questo gigantesco sopraprofitto – così chiamato perché si realizza all’infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del “proprio paese” – c’è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell’aristocrazia operaia. E i capitalisti dei paesi “più progrediti” operano così: corrompono questa aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti e mascherati. È questo strato di operai imborghesiti, di “aristocrazia operaia” completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita, costituisce il puntello principale della II Internazionale; e ai nostri giorni costituisce il principale puntello sociale (non militare) della borghesia. Questi operai sono veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio, veri e propri commessi della classe capitalista nel campo operaio, veri propagatori di riformismo e di sciovinismo, che durante la guerra civile del proletariato contro la borghesia si pongono necessariamente, e in numero non esiguo, a lato della borghesia, a lato dei “versagliesi” contro i “comunardi”».
 

Il carattere finanziario e quello industriale

Ritornando alla lettura degli attuali sviluppi dell’imperialismo evidenziamo che la prevalenza del carattere finanziario su quello industriale e commerciale negli investimenti viene confermato da un’altra tabella redatta dalla Bri sull’evoluzione dei movimenti internazionali dei capitali (sempre in miliardi di dollari e come medie annuali) distinti tra investimenti diretti e di portafoglio. Gli investimenti diretti sono prese di partecipazione nelle imprese straniere quando la partecipazione, in generale, supera il 20% del capitale. Gli investimenti di portafoglio sono l’insieme delle altre operazioni di acquisto e vendita di valori mobiliari con l’estero. La logica è sempre quella di rendimenti più elevati all’estero e diversificazione degli investimenti. Orbene nel periodo 1976-80 la media annuale degli investimenti diretti (ID) in miliardi di dollari era di 39,5 e quelli di portafoglio (IP) era di 26,2. Nel successivo periodo 1981-85 la media degli ID sale leggermente a 43,0 mentre gli IP triplicano a 76,6; nel periodo 1986-90 gli ID passano a 162,8 e gli IP a 215,4. Fin qui erano medie quadriennali mentre ora si prosegue con quelle annuali ed abbiamo nel 1991 che gli ID salgono modestamente a 184,5 mentre gli IP balzano a 339,7; nel 1992, anno di grossa crisi e forti speculazioni monetarie, gli ID scendono a 173,5 e scendono anche gli IP a 325,9. La sorpresa arriva nel 1993 quando gli ID ancora scendono leggermente a 173,4 mentre gli IP raddoppiano rispetto l’anno precedente e volano a quota 620,5 miliardi di dollari (“Problèmes Ec.”, 2495/96).

Questi numeri ci raccontano che in meno di 20 anni il volume totale dei movimenti internazionali di capitali passa da 65,7 a 793,9 miliardi di dollari cioè ad un valore 12 volte più grande, ma, soprattutto, all’inizio di questo periodo gli ID superavano gli IP della metà mentre alla fine gli IP sono tre volte e mezzo più grandi degli ID! Questa tabella va intesa principalmente come evoluzione del settore finanziario puro rispetto gli altri mentre come grandezza dei valori, tabella e testo non precisano se sono nuove emissioni o altro: come totale mondiale è troppo basso, anche se confrontato con i dati seguenti sempre della stessa fonte. Per il 1994 la Bri stimava in 25.000 miliardi di dollari la somma dei titoli esistenti sui mercati a cui si dovevano aggiungere altri 8.300 di titoli di credito del settore bancario di cui 4.100 di depositi interbancari che per una buona parte presumiamo bloccati nelle banche come quote di riserva e garanzia e quindi, teoricamente, non disponibili al vorticoso rally finanziario mondiale (“Problèmes Ec.”, 2541/97).

Un successivo aggiornamento della Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo titolato World Investiment Report 2000, mette bene in evidenza come gli investimenti diretti, dopo la crisi del 1997-98 hanno registrato una forte accelerazione arrivando a 865 miliardi di dollari nel 1999, risultato frutto degli effetti positivi della “globalizzazione” e delle fusioni-acquisizioni transnazionali che sono molto cresciute passando da circa 7.000 della metà degli anni sessanta a 63.000 nel 1999. L’euforia del momento faceva scrivere in grassetto che queste operazioni, in continua crescita da 8 anni, avevano raggiunto un livello record nel 1999 per un valore complessivo di 720 miliardi di dollari pari all’8% del Pil mondiale. Il livello medio delle fusioni-acquisizioni passa da 90 a 100 miliardi di dollari e le mega fusioni, quelle di un valore superiore a un miliardo di dollari rappresentano in valore il
69,6% del totale (“Problèmes Ec.”, 2713/2001).

Nel periodo 1993-97 ovvero tra la crisi russo-balcanica e quella asiatica, comprendente anche quella messicana, c’è stata anche un’impennata del mercato internazionale dei capitali come prosieguo dell’andamento ID-IP mondiale appena descritto aumentando il distacco, meglio sarebbe dire la profondità dell’abisso, che separa le economie più forti da quelle più deboli. Un complesso grafico su “Mercato Internazionale dei Capitali” considera l’emissione dei titoli del settore finanziario e non, che sommati passano da 340 miliardi di dollari del 1993 a 800 nel 97 e i prestiti bancari netti da 200 a 420 miliardi di dollari. Nella stessa tabella è rappresentata l’evoluzione del mercato dei derivati, questi recenti prodotti finanziari che tendono a crescere in numero e specializzazione, che sono utilizzati come copertura contro i rischi dei tassi di interesse e sono di vari tipi: contratti a termine (futures) ossia l’impegno di acquisto o vendita ad una certa data di un prodotto finanziario ad un prezzo convenuto in anticipo; contratti d’opzione ossia diritto ma non obbligo di acquisto o vendita ad un prezzo fisso tramite il pagamento di un premio anticipato; contratti di scambio (swaps) ossia scambi incrociati tra differenti investimenti per inseguire le migliori fluttuazioni. Il valore di questo mercato, tranquillamente definibile come un’insieme di scatole cinesi, ha valori impressionanti di circa 42.000 miliardi che vanno a sommarsi a quelli appena descritti.

In seguito a quell’impennata la dimensione del mercato mondiale dei capitali si amplia vistosamente come ci viene dettagliato dalla seguente tabella che riporta il confronto quantitativo e qualitativo tra gli Stati Uniti e gli 11 dell’Unione Europea per il 1996. Il mercato americano è indicato, tutto in miliardi di dollari, a quota 26.053 così ripartiti: Attivi bancari 5.730; Titoli di debito privato 4.845; Azioni 8.425 ed Effetti del settore pubblico 7.053. L’Unione europea è a quota 23.918 leggermente più bassa di circa il 9,5% di quella americana con una ben diversa ripartizione: Attivi bancari 14.118; Titoli di debito privato 3.400; Azioni 2.325; Effetti del settore pubblico 4.075. Il totale dei due blocchi economici è di 49.971 di miliardi di dollari. La struttura dei due mercati è profondamente diversa poiché negli Usa le azioni e i titoli di indebitamento sono l’80% del mercato mentre in Europa solo gli attivi bancari coprono il mercato per ben il 60% (“Problèmes Ec.”, 2617/99).

L’Organizzazione Mondiale del Commercio calcola per il 1995 un totale mondiale per le esportazioni di merci di 4.915 miliardi dollari che diventano 5.125 nel 1996 e 5.295 nel 1997 (“Problèmes Ec.”, 2584/98). Questo valore sarebbe interessante scorporarlo nelle sue voci principali che riguardano lo scambio fra le due sezioni in cui si divide il capitale industriale, quella che produce beni di consumo e quella che produce mezzi di produzione, per fare alcune considerazioni circa il loro rapporto di grandezza. Ciò sarà oggetto di un apposito lavoro.
 

Conclusioni

Il carattere preminente degli investimenti finanziari puri conferma puntualmente le affermazioni di Lenin e volendo dare una rappresentazione figurata del capitalismo nella sua evoluzione in imperialismo ci viene in mente una gigantesca piramide rovesciata con il vertice rivolto in basso che rappresenta nel suo insieme l’apparato produttivo sovrastato da una gigantesca struttura finanziaria che trae origine e continua energia dallo strato inferiore. Il collasso delle fondamenta genererà lo sgretolamento della parte superiore ed il crollo di tutta la struttura poiché il bloccarsi del ciclo D-M-D’ paralizza ogni accumulazione del Capitale, già minato dalla continua caduta del saggio di profitto. Senza la realizzazione del plusvalore e la sua trasformazione in nuovo capitale aggiuntivo tutto si inceppa.

Trovare un valore numerico verosimile per il rapporto fra la dimensione del capitale finanziario e del capitale produttivo per noi non ha il senso di un limite atteso oltre il quale la rivoluzione è “inevitabile” o essa diviene “possibile”; questa sarebbe una visione idealistica e meccanicistica opposta al dialettico svolgersi degli avvenimenti visto dalla concezione materialistica della storia. La tanto attesa ora X è stabilita da un insieme di fattori oggettivi e storici strettamente interdipendenti fra loro che sovente hanno sviluppi e accelerazioni improvvise non immediatamente legate ad un semplice sviluppo quantitativo; conoscere con sufficiente precisione l’ambito in cui si svolge il corso degli eventi permette di meglio situarsi sul teatro della storia. Il Partito è chiamato a dirigere la rivoluzione e non a farla per quanto potente e organizzato esso sia. Questi lavori sono il suo modo di prepararsi.

Il nostro sogno-bisogno del comunismo ci lascia sempre con i piedi per terra soppesando con molta cautela le nostre previsioni che si basano sulla considerazione che il capitalismo ha ormai esaurito da tempo il suo ruolo storico rivoluzionario. Il proletariato, dopo alcuni gloriosi tentativi, oggi è in ritardo rispetto gli eventi e non è organizzato nella forma necessaria per prendere il potere, pur avendo con il suo programma comunista tutte le armi teoriche a posto. Questo è il fatto, lasciando ad altri cabale e congetture varie.

Il proletariato dei paesi più avanzati ha ancora riserve economiche e sociali, anche se in rapida erosione, che si frappongono alle spinte materiali verso la ripresa di dure lotte per la sua sopravvivenza immediata; né ci sono genuine organizzazioni sindacali di classe che possano fungere da cinghia di trasmissione tra il proletariato e il programma rivoluzionario del partito.

Se è storicamente vero che il loro sorgere e svilupparsi può essere rapido è anche pur vero che esso non è mai stato istantaneo: si è dovuto liberare dalle impurità dei retaggi democratoidi attraverso l’esperienza della lotta di classe, filtro e levatrice della storia. Si dovranno abbattere un’altra volta ancora i miti nazionalistici che il capitalismo erige e migliora come le mura di una fortezza contro l’imponente esercito internazionale del proletariato. I nostri nemici, nonostante cotanta globalizzazione, rispolverano sempre le bandiere del nazionalismo, delle razze, delle culture, delle religioni sotto le quali conducono le guerre “di difesa”, necessarie a perdurare il loro dominio economico e di classe.

È di recente sorta sulla stampa borghese la questione sull’ulteriore necessità degli Stati nazionali che per effetto della globalizzazione non avrebbero più ragione di esistere. Il clima attuale di diffuso ultraimperialismo pacificatore che escluderebbe lo scontro fra gruppi nemici di Stati è solo un’apparenza che lascerà presto il posto al riarmo e alla contrapposizione non solo sui piani commerciale e finanziario.

Ma gli Stati nazionali hanno ragione di esistere principalmente come strumento di controllo e di oppressione di classe. L’imperialismo, come già spiegava Lenin, non è affatto pacifista, esso è l’espressione più elevata dello sfruttamento capitalista, cioè di una società divisa in classi, e quindi sempre più bisognoso di uno Stato con la sua polizia, il suo esercito e quanto altro necessario per sottomettere il proletariato ogni qualvolta esso tenti di ribellarsi contro gli sfruttatori e ponga la questione della presa del potere.Come Marx ha magistralmente spiegato nel Capitale, i capitalisti sono indissolubilmente tutti uniti contro il loro nemico di classe, anche se sono sempre in concorrenza fra loro.

Solo il comunismo rivoluzionario potrà opporre il suo internazionalismo all’internazionalismo del Capitale, che vi fonda la sua rapina e il suo parassitismo ma che, nel far questo, avvicina i proletari, nella condizione di oppressi di oggi e di collaboranti disinteressati domani, quando trasformeremo i piani bassi dei grattacieli delle massime istituzioni finanziarie in ostelli per giovani e meno giovani, e, sopra, in sostegni per rampicanti che, a primavera, gratis, fioriranno.

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Il prezzo del miracolo irlandese
 

I sostenitori nostrani del capitalismo, consapevoli della sua crisi, propongono in continuo soluzioni all’”irlandese”, propinando teorie e teoremi secondo i quali nella repubblica gaelica, con l’abolizione di diritti e tutele ai lavoratori dipendenti, specie in età giovanile, lo sviluppo economico e il conseguente aumento occupazionale avrebbero raggiunto negli ultimi anni record assoluti mai raggiunti nella storia dell’economia europea. Numerose e grandi compagnie multinazionali, in particolar modo americane, hanno trovato un favorevole regime fiscale e molto meno tutele della classe lavoratrice: non solo in confronto ad altri paesi del Vecchio Continente ma anche rispetto al vicino Regno Unito, l’Irlanda è dove le regole sul lavoro sono più “americane”

Questo eccellente scenario per il padronato grande e piccolo è stato probabilmente disegnato con il consenso dei sindacati locali, vista l’alta percentuale di iscritti, in media del 40% sia nelle imprese pubbliche sia private.

È vero che i posti di lavoro creati in oltre dieci anni sarebbero, secondo fonti governative e sindacali, circa 600.000 e il tasso di disoccupazione sarebbe sceso dal 17 al 3,9%, tra i più bassi d’Europa. Ma in cosa consistono questi posti di lavoro? Molti job sono nel settore del commercio, del turismo, delle telecomunicazioni, particolarmente nei call center, più in generale nei servizi e nel terziario; le occupazioni nelle attività produttive rispetto al terziario offrono più continuità lavorativa, ma non maggiori tutele.

Il lavoratore neo-assunto non gode infatti di assicurazione sanitaria, in caso di malattia o infortunio deve pagarsi le spese mediche ed eventualmente ospedaliere, che spesso sono veri e propri salassi: a volte il lavoratore, se gravemente ammalato, è costretto a lasciarsi morire per non rovinare irrimediabilmente tutta la sua famiglia. Nei primi sei mesi di lavoro i giorni di assenza per malattia non vengono retribuiti e non devono essere superiori a dodici: nel caso che, per qualsiasi motivo, l’assenza si prolunghi, oltre a non esserci il minimo indennizzo, nulla obbliga l’azienda alla riassunzione.

Queste sono le condizioni di chi lavora nella verde repubblica. Quanto alle paghe ci pensa l’inflazione, al 14,8% in aprile, a provocare una diminuzione del potere d’acquisto già bassi dei salari. Da rilevare inoltre l’alto prezzo delle abitazioni nei centri urbani, con cifre inaccessibili a qualsiasi lavoratore.

Negli ultimi anni la distanza fra le classi si è ampliata con un arricchimento della borghesia mentre sono oggetto di continui tagli le spese per sanità, scuola e trasporti.

I media hanno chiamato l’Irlanda la “Tigre Celtica”, tigre che tuttavia nell’ultimo biennio sta perdendo i denti: infatti l’aumento del PIL è passato da circa il 9% a mediamente il 4 annuo e il numero dei senza lavoro è aumentato, anche se lievemente, dello 0,2%.
Insomma il “liberismo” non risparmia l’Irlanda dalla classica profonda crisi del capitalismo, per quanto i teorici borghesi cerchino sistemi per produrre profitto sulla pelle dei lavoratori.

Non che noi crediamo in soluzioni di tipo stalino-stataliste, in “far pagare allo Stato”, come sostengono le sinistre borghesi europee: la crisi si combatte solo, nella prospettiva rivoluzionaria, con un proletariato unito e diretto dal vero partito di classe, in Irlanda come nel resto del mondo.
 
 
 
 


Hanno inventato lo “sciopero dei consumatori„

Il cinque luglio le associazioni dei “consumatori” italiani, Adoc Adusbef, Codacons e Fedrconsumi, facenti parte dell’Intesa dei Consumatori, hanno indetto uno “sciopero dei consumi”, sulla scia di quello tedesco tenutosi il primo luglio e organizzato dai loro colleghi tedeschi. Le Associazioni hanno invitato i propri iscritti e la cittadinanza italiota ad astenersi dal fare acquisti di ogni genere per protestare contro il caro-euro e gli arrotondamenti selvaggi. «Nonostante l’Istat affermi che gli aumenti sono minimi – hanno sostenuto le quattro associazioni – continuiamo a ricevere le lamentele dei consumatori sugli incrementi, anche sostanziosi, dei prezzi di tutti i beni e, dato che le istituzioni non sono in grado di risolvere la situazione, o forse non lo vogliono, l’unica cosa da fare è astenersi dar fare la spesa, consumare un caffè, mettere la benzina, andare al cinema, etc etc».

Nella solita guerre di cifre Adoc riporta nel suo sito internet alcuni esempi di aumenti: carne di vitella +15%, prodotti ortofrutticoli +20%, prodotti ittici +18%, abbigliamento + 25%, autostrade +2,2%, bus e metrò +29%, cinema +10%, giornali +12% etc., cifre ben lontane dai dati Istat che attestano l’inflazione 2,3% su base annua. I dati Istat, in realtà, sono calcolati attraverso un “paniere” sempre più “flessibile” (anche lui!).

Ma veniamo a noi. La categoria dei “consumatori”, cara alle scienze economiche e sociologiche borghesi, per la scienza marxista del proletariato è totalmente priva di corrispondenza reale: casomai dovrebbe dirsi, in questa società mercantile, degli “acquirenti di beni di consumo”. Poiché, però, in questa società, tranne l’aria (per ora), tutto ciò che l’animale uomo consuma gli proviene da acquisto, la categoria dei “consumatori” abbraccia tutti i viventi, senza distinzione. E, da quando si è imposta lo smercio di alimenti per animali, anche cani e gatti... Per il marxismo a “consumare” sono le classi, in necessarie proporzioni che ha individuato.

La variazione della scala dei prezzi è sempre relativa: misura il prezzo di una merce in rapporto ad un’altra. E l’inflazione ha effetti diversi sulle diverse classi. Come sempre, fra i borghesi, se alcuni ci guadagnano altri ci perdono. Il fenomeno è invece di una semplicità assoluta per il proletariato: la merce che vende, la sua forza lavoro, aumenta di prezzo più o meno delle merci che è costretto ad acquistare per vivere? Se, come oggi, la classe non è in grado di validamente difendere i salari, i lavoratori potranno solo aumentare i buchi della cintura e l’inflazione diventa un comodo strumento per la riduzione delle paghe.

I proletari, insomma, non devono cadere nel tranello di queste “associazioni” demagogiche ed ispirate dalla borghesia, che sembrano facciano “anche” i loro interessi. Il proletariato, per difendersi dal cosiddetto “caro vita”, per legge economica, dovrà abbracciare quella unica “associazione”, che si chiama sindacato, il quale se ne infischia degli interessi delle altre classi, e avrà come parola d’ordine non l’utopistica, incomprensibile e praticamente inattuabile “lotta al carovita” ma, semplicemente, chiedere PIÚ SALARIO.