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PAGINA 1
Debito
e monete nella guerra fra imperi
Il centro del capitalismo
Fino al 1914 l’Inghilterra era il centro economico del capitalismo mondiale, logico era che la Sterlina fosse la moneta di conto internazionale, anche se la sospensione del Bank Act del 1844 dava facoltà alla Banca d’Inghilterra di emettere banconote in quantità indeterminata, senza riguardo alla copertura aurea. La fiducia nelle banconote non fu scossa, perché questi segni di valore avevano dietro sé tutta la nazione con il suo credito.
Pur essendo gli U.S.A. un capitalismo in rapido sviluppo, a cavallo del 1900 sono debitori dei paesi europei, specialmente l’Inghilterra. La vendita, senza concorrenti, di merci all’Europa disastrata dalla Prima Guerra mondiale rendeva alti profitti e ne accelerò lo sviluppo, facendoli diventare creditori anche dell’Europa. Il centro del capitalismo si sposta dall’Inghilterra agli Stati Uniti. Con la Seconda Guerra mondiale gli U.S.A. dimostrano la loro accresciuta potenza economica e militare indiscussa, diventando il centro del capitalismo.
La Sterlina è declassata dal Dollaro. Il sistema monetario internazionale stabilito dagli accordi di Bretton Woods nel 1944, all’epilogo della Seconda Guerra (esattamente ad un secolo dal Bank Act inglese), poggia sul Dollaro. Il “pool dell’oro” era costituito, nel 1961, da Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania occidentale, Italia, Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e Francia, la quale ultima l’ha abbandonato solo nel giugno 1967.
Gli U.S.A. diventarono capi della coalizione delle potenze imperialiste e colonialiste di primo rango. Il loro apparato produttivo girava a pieno regime, quello dei loro concorrenti giaceva raso al suolo; i loro forzieri erano pieni da scoppiare; i loro concorrenti erano al contrario indebitati fino al collo; la loro flotta mercantile era pronta a trasportare ai quattro angoli del mondo le merci “made in U.S.A.” che la penuria generale regnante altrove lasciava senza concorrenza. Mai una potenza capitalista aveva potuto ricavare un tale vantaggio dalla sua vittoria. Prima potenza militare del mondo gli U.S.A. schiacciavano gli altri paesi anche nei campi della produzione, del commercio e delle finanze. Furono dunque consacrati gendarme, commerciante e banchiere del mondo imperialista, senza che la Russia potesse far ombra alla loro potenza soverchiante.
Nella loro funzione di gendarme, gli U.S.A. non potevano che abbattere con la forza e con l’intrigo l’autorità dei rimanenti Stati del mondo che, invece di alleati del governo degli Stati Uniti, ne divennero sempre più i vassalli, sotto una grande varietà di condizioni.
Ma l’economia presto si ribella a detto impero.
Reimpianto europeo e giapponese
Nel 1945 il valore dell’oro delle riserve monetarie mondiali si elevava a 32,2 miliardi di Dollari, gli U.S.A., durante quegli anni di reimpianto produttivo europeo e giapponese, ne detenevano 20 miliardi, cioè il 60%. Il Dollaro, semplice moneta nazionale e come tale sottomessa alle decisioni dello Stato americano, venne elevato al rango di moneta internazionale come rappresentante dell’oro e convertibile in oro. Era nato l’embrione dell’attuale impero U.S.A. Le banche centrali degli altri paesi potevano reclamare il cambio dei Dollari ch’esse possedevano contro oro al tasso fisso di 35 Dollari all’oncia.
Ma era evidente, già durante la guerra, che i forzieri degli U.S.A. non potevano gonfiarsi all’infinito, perché quel capitale finanziario avrebbe cessato la sua funzione, trasformandosi in tesoro, contraddicendo anche l’esperienza storica che dimostra che, in una società capitalista sviluppata, la quantità di denaro sotto forma di tesoro è ridotto al minimo indispensabile, essendo capitale morto che non porta profitto al paese nel quale è conservato. La guerra aveva raso al suolo l’Europa, sia dei vinti sia dei vincitori. La Germania inoltre aveva subito il trasferimento in Russia di intere industrie e prelievo di merci a titolo di riparazioni.
Ma l’ossigeno ricevuto dal capitale internazionale con le distruzioni, avvantaggiava la Germania e il Giappone che ebbero il più alto incremento produttivo. Germania e Giappone costruirono sulle loro immense rovine le installazioni più moderne. Non indifferente è l’afflusso in Germania di folti gruppi di popolazioni di lingua tedesca, qualcosa come 14 milioni di espulsi dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria. In queste aree, Europa e Giappone, trova sfogo il possente apparato produttivo e i possenti capitali accumulati nei forzieri degli Stati Uniti, dove con le più moderne tecnologie e con i bassi salari, l’America può intravedere un più alto profitto, e anche una funzione di ammortizzatore sociale.
Come ogni azienda capitalista, gli Stati Uniti incassano ed sborsano. Esportano merci, che vengono loro pagate: incassano; ne importano a loro volta e le pagano: sborsano. Esportano capitali? È una spesa, ma essi possono attendersene dei profitti che, se rimpatriati, costituiscono un rientro in denaro. Altri investono sul loro territorio? È un guadagno, ma che sarà attenuato dal rimpatrio eventuale dei profitti realizzati da questi investimenti. Aggiungiamo le spese all’estero (considerevoli) derivanti dalla loro funzione di motore e gendarme dell’imperialismo e si avrà un’idea della principali voci della famosa “bilancia dei pagamenti” che registra tutte le entrate e tutte le uscite della ditta U.S.A. nei rapporti con le altre ditte nazionali.
Come si sono sviluppate le diverse voci della bilancia dei pagamenti americana dopo il 1945? All’indomani della guerra gli U.S.A. monopolizzavano circa un quarto (percentuale enorme!) delle esportazioni mondiali, e la loro bilancia commerciale era molto largamente attiva: l’utile fu in media di 5,6 miliardi di Dollari l’anno fra il 1945 e il 1951, cadde poi a 3,5 miliardi fra il 1952 e il 1962, per poi risalire temporaneamente fra il 1963 e il 1967. A partire dal 1968 il quadro cambia radicalmente e, malgrado una sensibile risalita nel 1970, l’utile cadde a 1,1 miliardi in media fra il 1968 e il 1970, per trasformarsi poi in deficit.
Cosa è successo? I prezzi delle merci “made in U.S.A.” non sono più così competitivi ed esse sono soppiantate, anche sul mercato interno, dalle merci dei capitalismo giapponese e tedesco perché ottenevano, almeno in certi settori, una produttività superiore.
In breve, il saldo della bilancia dei pagamenti, cronicamente passivo, lo è diventato dal 1970 in proporzioni inquietanti, mettendo in pericolo la famosa fiducia nel Dollaro.
In che modo gli americani hanno finanziato questo deficit? In un primo tempo, quando “il Dollaro era buono come l’oro”, sfruttando il privilegio che faceva del Dollaro – moneta nazionale – una moneta internazionale universalmente accettata, dai paesi dell’est compresi. Di qui l’accumulazione di Dollari vale a dire di crediti sull’America, nelle banche straniere: gli U.S.A. in questo modo, vivevano a credito. D’altra parte, bisogna rimanere ricchi per sperare di mantenere il proprio credito. Mentre i Dollari si accumulavano all’estero, sotto sotto si delineava un altro movimento in senso inverso: si reclamava il rimborso in oro dei Dollari e, a poco a poco, conseguentemente, le riserve d’oro di Fort Knox diminuivano. Esse raggiunsero un livello così basso nel 1968 (grosso modo rimaneva soltanto l’ammontare della copertura in oro della circolazione interna del Dollaro, copertura soppressa in gran fretta dall’amministrazione americana per tentar di far rinascere fiducia nel Dollaro all’estero), che si dovette finire per sopprimere in pratica la convertibilità del Dollaro, cioè dichiarare una parziale bancarotta.
Portato alla fonte battesimale dagli U.S.A., grandi vincitori della
guerra imperialista, il sistema monetario mondiale, lungamente eroso dall’espansione
“pacifica” che ha gettato le basi della guerra economica inter-imperialista,
fu ufficialmente demolito da Nixon il 15 agosto 1971.
Nuovi rapporti di forza
I rafforzi di forza, che avevano partorito gli accordi di Bretton-Woods, si erano modificati, l’America non era più il solo centro della ricchezza, incalzata da presso da Giappone e Germania, candidati dal 1971 a sostituire quegli accordi con altri inter-imperialisti, la cui parte finale si svolgerà sul piano militare.
Gli accordi Bretton-Woods sono dunque caduchi. A Washington da allora si lavora sul provvisorio.
Ma, ed è molto importante, benché indubbiamente indeboliti, gli U.S.A. hanno potuto sia dichiarare la guerra commerciale, sia imporre le condizioni dell’armistizio. Io tasso le importazioni del 10%, vi piaccia o no. Risultato, aboliamo la tassa del 10%, ma il Dollaro è svalutato, e la moneta dei suoi concorrenti rivalutata. Costo per il Giappone? Le loro merci furono del 15,55% più care sul mercato americano, mentre le merci americane diminuirono nelle stesse proporzioni sul mercato giapponese. Per i tedeschi stesso risultato ma al 12,50%. Infine gli U.S.A. si sono ostinatamente rifiutati di tornare alla convertibilità, anche limitata, del Dollaro.
Nel 1970 la bilancia commerciale U.S.A. risultava deficitaria. Il deficit della bilancia dei pagamenti era ben più consistente: nel 1970 era di 3 miliardi e nel 1972 di 12.
Nel 1998 il deficit della sola bilancia commerciale era su base annua di 230 miliardi di Dollari. Nello stesso periodo, i più diretti concorrenti hanno registrato avanzi commerciali rispettivamente di 104,7 di Dollari il Giappone, di 76,1 miliardi la Germania, di 30 mdl la Cina.
L’attuale amministrazione americana ha emesso una forte quantità
di Dollari in carta moneta, quindi a corso forzoso. Essendo moneta internazionale
questo nuovo flusso di Dollari se supera il necessario valore per lo scambio
mercantile si deprezzerà, si svaluterà, per assestarsi come valore alla
quantità necessaria alla circolazione, essendo solo un simbolo della unità
del valore di scambio.
Dollaro e potenza militare
Dal 1971 l’America, già in possesso dell’egemonia mondiale del Dollaro, che le consente di stampare carta moneta, paga sempre più, e solo in parte, con moneta svalutata i debiti già contratti, facendosi pagare così un tributo dai rimanenti Stati, tutti vassalli, compresi quelli che detengono Dollari come riserva per la circolazione mercantile, il cui valore è diminuito, negando sempre più la legge del valore di scambio della libera concorrenza.
Al super-imperialismo U.S.A. sarebbe necessario che tutti gli Stati gli pagassero un tributo. Ma solo con la forza o con l’intrigo può abbattere l’autorità degli Stati e conservare il suo dominio, quindi solo a condizione di aumentare senza posa le sue forze militari. Fino a quando?
Già i paesi più ricchi che non parteciparono militarmente alla prima guerra del golfo del 1991 dovettero pagare, come Germania e Giappone, un forte tributo. Attualmente l’America pretende che Germania, Francia e Russia azzerino, o quasi, il forte credito concesso precedentemente all’Irak, esigendo così un tributo alla sua attuale guerra.
Il deficit della bilancia commerciale, in soli 5 anni dal 1998 al 2003, è aumentato da 230 miliardi di Dollari a 550 con una previsione che nel 2004 raggiunga i 610. Questa situazione ha spinto le riserve internazionali a conservarsi per il 20% in Euro. Più il Dollaro rasenterà la catastrofe più aumenterà questa quota, il dotarsi degli Stati di riserve alternative al Dollaro, accelerandone così la caduta a carta straccia.
Occorrono dosi sempre crescenti di forza, intrigo, aumento della forza militare per costringere i capitalismi del mondo a versare tributi all’imperialismo U.S.A. Le borghesie, di fronte alla crisi internazionale, sono costrette a battersi.
L’attuale guerra non è contro un nemico nascosto, “terrorista”, ma fra correnti borghesi e Stati imperialisti che si battono con armi belliche impari ma con economie che si equivalgono, tali da permettere il finanziamento di uomini ed armi per una guerra, detta “terroristica”, adatta a una strategia opposta a quella del gendarme U.S.A., per sfuggire alla condizione di vassalli. Chi, dietro alle quinte, finanzia non ribellioni di popoli ma azioni di minoranze oscure e apparentemente “senza scopo” in tutto il mondo? Erano e sono Stati imperialisti gli uni contro gli altri. Diventa sempre più palese la posizione delle borghesie francese, tedesca e russa. Anche Putin, come Bush, ha promesso che andrà a cercare e combattere i “terroristi” in “qualunque parte del mondo”.
La mastodontica potenza U.S.A. non è onnipotente e mai potrebbe difendere i territori che occupa quando fosse costretta a presidiarsi dai nuovi capitalismi di Cina e d’India, che già allungano la loro ombra sulle vecchie potenze imperiali dell’Ottocento e del Novecento, le incalzano sul piano delle tecnologie e si armano di missili protetti dalla difesa naturale degli oceani.
Ma dietro alle nascenti borghesie d’Oriente si profila una gigantesca ed agguerrita classe operaia industriale ed urbana. Nulla essa ha da guadagnare né ha in comune con l’attuale guerra finalizzata alla perpetuazione del capitalismo. In tutto il mondo il proletariato è orami maturo per la conquista del dominio politico e per mantenerlo, se occorre, col terrore delle armi. Può ormai abbattere l’attuale mostro e farsi socialmente padrona del proprio prodotto e dei destini umani.
Disfattismo rivoluzionario è la parola d’ordine.
Il 13 ottobre a 19 soldati americani, appartenenti ad una unità di rifornimento operante vicino a Bagdad, era stato ordinato di effettuare un trasporto di carburante su strade frequentemente attaccate dalla resistenza. Avrebbero viaggiato senza scorta, con autocisterne prive di protezioni e con frequenti problemi meccanici; inoltre il diesel da trasportare si diceva che fosse mescolato con carburante per aerei, il che lo rende particolarmente infiammabile. I 19 si sono rifiutati di prestarsi per una simile missione insensata e suicida. Le autorità militari, che li hanno messi in stato di arresto, hanno dato assicurazioni che l’insubordinazione sarebbe stato “un incidente isolato”.
Il 17 ottobre, stavolta negli Stati Uniti, più di 800 soldati della riserva hanno mancato di presentarsi quando richiamati per il loro ridispiegamento in Iraq o in Afghanistan, cioè più di un terzo dei convocati in quel giorno. Questi disertori, quando rintracciati, rischiano la prigione.
Perché dovrebbero questi soldati offrire la vita per interessi che non sono i loro, in un esercito che risparmia sulla sicurezza mentre, al suo seguito, la Halliburton e la Exxon mietono enormi profitti?
Il rosso esercito della rivoluzione di domani, che andrà ordinandosi sotto il comando dei commissari militari del partito comunista, inquadrerà nei suoi ranghi gran parte dei coscritti degli eserciti borghesi. Sull’onda e di riflesso della crisi, nelle retrovie, della società civile e politica, una parte dei proletari-soldati arriverà a capire che i loro veri nemici non sono quelli indicati dalla propaganda patriottica, ma coloro che li hanno obbligati ad andare in guerra e ad uccidere i compagni proletari, a loro volta ugualmente reclutati e ingannati dai rispettivi governi. I soldati di entrambi i lati riconosceranno il comune schieramento di classe, al di sopra di ogni frontiera, e tenderanno a fraternizzare per colpire insieme il nemico borghese. Tale situazione è ancora lontana ma è anticipata oggi dall’istintivo rifiuto di consegnare la propria vita alla guerra borghese e già si esprime in queste forme di indisciplina.
In quella situazione, diverrà evidente a sempre più soldati che combattere le guerre della borghesia non ha più senso di un folle trasporto di carburante in una zona di operazioni. Se tale comprensione è tenuta oggi soffocata, potrà domani dilagare contro la guerra imperialista mondiale che minaccia all’orizzonte.
Nel futuro montare rivoluzionario, il partito comunista non chiamerà alla diserzione dal servizio militare, ma farà agitazione all’interno degli eserciti borghesi e inviterà i soldati non a gettare le armi che tengono nelle mani ma a volgerle, utilizzando quello a cui sono stati addestrati, verso il nemico di classe.
Oggi la guerra in Iraq non sembra offrire alcuna possibilità rivoluzionaria,
né in un prevedibile futuro. Noi salutiamo, però, sia queste episodiche
insubordinazioni tra i soldati, che riconosciamo essere vera lotta di classe,
sia l’aspra lotta dei lavoratori iracheni per costruirsi dei sindacati
autonomi dall’influenza dei partiti nazionali borghesi. Entrambi questi,
apparentemente lontani, episodi si inscrivono nella lotta mondiale della
classe proletaria, che tornerà domani a minacciare le classe dominante
nella guerra rivoluzionaria, che davvero metterà la fine a tutte le guerre.
Le politiche migratorie perseguite dai governi delle metropoli imperialiste sono sempre più incentrate sul principio della discriminazione. I più recenti episodi, spesso tragici, di immigrazione hanno visto una posizione intransigente degli Stati nell’accoglienza dei profughi. L’isola di Lampedusa in Italia o le enclave spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla, nel Mare Nostum, o, nell’emisfero australe, le isole minori dell’Australia, rappresentano ormai i bastioni della bianca cittadella contro le cui mura premono disperati popoli colorati in cerca di migliori condizioni di vita, in fuga dai flagelli della guerra, la carestia, la disoccupazione, la miseria. Flagelli che ben poco hanno di endogeno, per natura o per caso, ma frutto delle secolari politiche coloniali e post-coloniali, oggi sicuramente imperialistiche di spoliazione e rapina, di cui i capitalismi occidentali sono responsabili e colpevoli.
In Italia dopo l’ennesimo e clamoroso episodio di immigrazione legato alla nave Cap Anamur (uno fra i tanti), è stata aggiornata la legislazione in materia per rendere più rapida la procedura di espulsione.
Ricorderemo che alla fine di giugno e l’inizio di luglio sulla nave Cap Anamur, dell’omonima associazione umanitaria tedesca, furono salvati da naufragio 37 profughi. Pur dichiaratisi sudanesi e in fuga dal conflitto nel Darfur le autorità italiane negarono l’ingresso della nave nelle acque territoriali accusando i responsabili della nave del reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina. Una volta all’ormeggio a Porto Empedocle, non dopo tensioni, furono finanche arrestati e i profughi quasi tutti espulsi. L’oggetto del contendere era la difesa delle coste nazionali contro la pretestuosa azione umanitaria dell’associazione tedesca, che in realtà voleva creare un precedente in materia di accoglienza visto che, per le autorità italiane, la competenza era dello Stato di Malta e che si trattava di clandestini africani e non di profughi sudanesi (magari cristiani!). Interessante notare come le attività e le politiche pacifiste, nell’agone dello scontro imperialistico, anche qualora in piena buona fede, vengono utilizzate dagli Stati e diventano una delle loro armi.
Successivamente lo Stato italiano ha chiesto ed ottenuto la collaborazione del regime libico, ben lieto di essere riaccolto nel consesso internazionale con la revoca dell’embargo, dimostrando ancora una volta che, dietro la fumosa ideologia pan-araba, pan-africana e comunque terzomondista della Jamahiria, si cela un perfetto ed oppressore regime borghese. Gli accordi Roma-Tripoli prevedono che la Libia, assistita dall’Italia, pattugli le coste contro i viaggi dei clandestini e, segretamente, che questa accolga gli espulsi.
Ma l’importante è che lo Stato italiano istituirà “campi di accoglienza” nel deserto libico per i clandestini africani dove verrebbero formati professionalmente in attesa di una chiamata dalle aziende italiane e forse europee. Se i centri di accoglienza già in Italia sono paragonabili a centri di detenzione, cosa potranno essere in pieno Sahara libico? Sotto la maschera ipocrita, tanto cara ai cattolici, del centro di accoglienza si sostanzierebbe una prigione extraterritoriale con funzione di allevamento di schiavi.
Lo Stato Australiano, che persegue l’ideologia della all white nation (nazione di tutti bianchi), in materia di politiche migratorie sembra essere il vero battistrada: non è stato disdegnato l’uso della marina da guerra per allontanare dalle acque territoriali le navi non desiderate. Ma anche la borghesia italiana vanta il precedente della strage del Venerdì Santo quando una unità della marina militare nel Canale d’Otranto affondò un natante stracarico di albanesi.
Per Canberra, l’episodio più vistoso fu quello del 2002 della nave Tampa. Nel suo rapporto di Amnesty International scrive che, ad agosto, al largo di Christmas Island, in acque australiane, l’equipaggio della nave da carico norvegese MV Tampa aveva tratto in salvo 433 afghani dalla loro nave indonesiana che imbarcava acqua. Ai rifugiati è stato negato il permesso di sbarcare sia dalle autorità indonesiane sia da quelle australiane, e hanno trascorso otto giorni in precarie condizioni a bordo del Tampa. Il governo australiano ha negato il permesso ai medici dall’organizzazione Médecins sans frontières di fornire assistenza. Il Tampa, costruito per ospitare non più di 50 persone, ha fatto rotta verso Christmas Island senza aspettare il permesso australiano, dopo aver inviato un messaggio di emergenza medica dovuto alla presenza dei rifugiati, alcuni dei quali avevano minacciato di gettarsi in mare se costretti a tornare in Indonesia. Truppe armate australiane sono allora salite a bordo del Tampa e hanno trasferito i rifugiati presso un improvvisato centro di detenzione a Nauru, uno stato isolato del Pacifico meridionale.
Lo stesso rapporto informa che l’Austalia non paga delle sue sperdute isole minori, ha subappaltato alla Stato di Nauru, un atollo in piena Oceania, campi di prigionia dove sono detenuti i migranti; a fine 2002 a Nauru erano detenuti 1.118 immigrati provenienti dal Medio Oriente e dal Sud Est asiatico, un affare che ha fruttato alle casse statali un qualcosa come 15 milioni di dollari. Secondo questa logica capitalistica, quanto pretenderà la Libia per il servigio dello stesso tipo reso all’Italia e alla UE?
Ad ottobre le favorevoli condizioni meteomarine permettono molti sbarchi a Lampedusa. È il momento per la demagogia di regime di fare un po’ di chiasso. Si blatera di una cosiddetta “dottrina Pisanu”, che avrebbe il beneplacito della Unione Europea: «Chi pensa di imbarcarsi illegalmente per l’Italia deve sapere che sarà rimandato ai luoghi di partenza subito dopo aver ricevuto i soccorsi umanitari».
Ma, se lo Stato fa le viste di sbarazzarsi senza tanti complimenti di proletari africani anelanti al lavoro, le Associazioni degli industriali e degli agrari richiedono un maggior numero di lavoratori stranieri da impiegare nelle loro produzioni. Questa è la sostanza borghese del problema e i governi non ignorano queste richieste e anzi cercano di assecondarle! Quegli immigrati che saranno lasciati sfuggire alle retate e ai “centri di accoglienza” e mantenuti così nella clandestinità più disperata rappresentano un serbatoio di forza lavoro a bassissimo prezzo e facilmente ricattabile. Una vera cuccagna per il padronato, che si rileva ancora più succulenta se consideriamo la ricaduta sul mercato del lavoro locale, indebolendo quindi il proletariato autoctono sul piano del salario e dei diritti.
Quindi il lurido gioco degli schiavisti – letteralmente – funziona così.
1. Si rifornisce il mercato del lavoro di braccia sottopagate, senza o con minori diritti, sane, giovani e robuste, sempre minacciate di espulsione se abbandonano il posto di lavoro, ricattate in ogni modo per il rinnovo dei permessi ecc.
2. Si fomenta nella piccola borghesia pavida e razzista e nella aristocrazia operaia il terrore della “invasione dei barbari” facendo leva sugli istinti più bassi e cretini; si ottiene così di dividere il fronte dei lavoratori e di creare un ottimo diversivo al rancore contro la borghesia che si sfoga invece vilmente con i più deboli, nella fobia xenofoba, religiosa, ecc.
3. I movimenti anti-razzisti e assistenziali così suscitati, laici o religiosi, completano il danno in quanto spostano la questione, che è sociale e di classe, sul piano delle coscienze, del confronto e convivenza delle culture, ecc. Non si tratta di difendere la “inter-cultura”, ma di distruggerle tutte! Il proletario africano fugge l’Africa, l’afghano l’Afghanistan ecc. e sono risospinti verso il mondo, la religione, la “cultura” di provenienza solo dalla mancanza di ospitalità dell’Europa capitalista. E delle organizzazioni “operaie”, politiche e sindacali, delle metropoli.
Il Partito Comunista, a differenza di tutti gli opportunisti e sinistri che millantano solidarietà “umana”, vede favorevolmente l’ingrandirsi numerico del proletariato delle metropoli con nuovi innesti di energie provenienti dalla migrazione dei paesi più giovani. Uno degli elementi che ha sempre spinto il progresso, compreso quello al socialismo, sono sempre state le migrazioni verso le metropoli imperiali. Ben vengano i “barbari”!
Ma perché il rafforzarsi statistico di proletari abbia un significato
non solo economico, per i capitalisti, ma sociale e politico, occorrono
un reale movimento e un sindacato di classe che, al contrario di quanto
hanno fatto e fanno i sindacati attuali, si faccia strumento della solidarietà
fraterna di tutti gli sfruttati, qualunque sia il colore della loro pelle.
Fra questi sono da organizzare il “bianchi-negri”, i giovani proletari
autoctoni e “ariani” che la politica sindacal-padronale degli ultimi
decenni ha trasformato in “negri”, privati ormai di ogni diritto, salariale
sindacale normativo assistenziale e previdenziale che già era dei “bianchi”.
“Negri”, quindi, di tutto il mondo unitevi!
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La riunione di fine estate del partito stavolta l’abbiamo potuta tenere a Cortona, ove è ben conosciuta una nostra più che quarantennale sezione. La scelta della bella e antica città, esempio di impianto organico e dimensione urbano-territoriale non ipertrofici e sfuggiti ad ogni controllo, è stata ricompensata da un ambiente quanto mai adatto ai nostri lavori, per l’accessibilità con i treni, per la tranquillità dell’ambiente e la facilità degli spostamenti.
Erano presenti compagni provenienti dall’Italia, la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna, dei quali alcuni arrivavano già nella giornata del venerdì.
La riunione organizzativa e preparatoria, che teniamo il sabato mattina fra i compagni incaricati e impegnati nelle varie relazioni e attività, si è svolta assai densamente sulla base di una agenda preparata dal centro e fatta avere in anticipo ai gruppi e ai singoli. Gli argomenti, talora non facili, sono stati affrontati, come sempre, con impegno e col rigore che cerchiamo di dare, per quanto è in noi, al nostro lavorare, privo delle “passioni” ed “emozioni”, sul giallesco e personalistico, che caratterizzano tutto il ridicolo e compassionevole affannarsi del mondo borghese.
Delle numerose e importanti relazioni esposte nelle sedute del sabato
pomeriggio e della domenica mattina diamo qui subito un riassunto schematico,
rimandando alla loro pubblicazione estesa sulle pagine di “Comunismo”.
Come primo rapporto abbiamo ascoltato, sul tema della Economia Marxista, la prosecuzione della veloce disamina e facile critica delle scuole economiche “volgari” del Novecento. Dopo che a quelli del Keynes abbiamo stavolta accennato ai lavori di Shumpeter e di Sraffa, considerati dalla editoria e dal “pubblico colto” massimi ed innovatori nel campo delle dottrine economiche.
Entrambi appartengono al mondo accademico “ufficiale”, cioè mantenuto e finanziato dagli Stati. Primo esempio ne è la scuola economica inglese di Cambridge, alto istituto da più di un secolo deputato specificatamente, con grande disponibilità di mezzi e di prestigio, al solo scopo di coprire una inconfessatabile nevrosi e necessità borghese: fingendo di ignorarla, sommergere di concetti confusi, ottenebrare e misconoscere la dottrina economica di Carlo Marx. Lo sapevamo, ma alcune appena un poco approfondite, e non troppo frequenti, letture ce lo confermano.
Il primo, lo Shumpeter, è un marginalista dichiarato che quindi, sul piano teorico, alla nostra critica presenta armi troppo spuntate. Su quello dell’analisi cerca di affrontare il fenomeno della ciclicità nello sviluppo del capitalismo, che rapporterebbe al rinnuovo del capitale fisso. Individua tre tipi di cicli: uno breve (di Kitchin) di 36 mesi, uno (Juglar) di nove anni, già ben ravvisato da Marx, ed uno lungo (Kondratief) di 50 anni. Quest’ultimo, che è discutibile essere realmente un “ciclo”, verrebbe a corrispondere con le grandi rivoluzioni industriali e tecniche: dopo la prima e per antonomasia, vi sarebbero state quella delle ferrovie e delle navi a vapore, poi quella dell’elettricità, la chimica e l’autotrasporto. Oggi hanno parlato dell’elettronica.
Più sottile, e meno ignorante, per quanto non del tutto originale, è la costruzione dello Sraffa. Rifiuta i canoni soggetivisti e psicologici del marginalismo e non deduce i Prezzi dall’incontro delle curve dell’utilità e della disutilità; ricorre, similmente ai classici, agli schemi di un sistema economico che si riproduce, con flussi di beni e di denaro all’interno e fra classi sociali. Ma questo non basta a giustificare la definizione “neo-classica” che è stata data alla sua economia.
Infatti Sraffa, come i marginalisti, rifiuta la teoria del Valore-Lavoro delle merci, cioè la “ipotesi classica” che così si enuncia: ciò che storicamente definisce e accomuna le merci e determina la misura del rapporto di scambio fra loro è la quantità di lavoro medio sociale necessario per riprodurle. Ignorato, senza nominarlo, il concetto di Valore delle merci, si cerca una determinazione del Prezzo all’interno del mercato dei beni di produzione. Supposta una società “primitiva” ma “mercantile” (la costruzione è posta totalmente al di fuori di qualsiasi definizione storica: una storia che, evidentemente, si fa coincidere con un non meglio definito, e immutabile, “mercantilismo”) ai fini dell’analisi si ipotizza dapprima che produca solo grano e ferro, prodotti che consuma, in dati rapporti, nella loro stessa produzione. Il prezzo dell’uno rispetto all’altro sarebbe imposto dalla necessità del mercato: che grano e ferro, in Quantità e in Valore (Quantità per Prezzo) “siano soluzioni del sistema”, cioè che le partite dello schema della riproduzione, semplice o allargata, vengano a pareggiarsi, nelle righe e nelle colonne. Il Prezzo diventa «il rapporto di scambio che permette di reintegrare le scorte e di ripartire il Profitto fra le due industrie».
Il meccanismo effettivo del mercato capitalistico è qui semplicemente capovolto. Non è che il Prezzo di una merce è determinato dalla scala della domanda di suo consumo nelle produzioni, semmai il contrario. Il problema teorico di “far chiudere” gli schemi della riproduzione semplice e della riproduzione allargata, tanto in via teorica quanto negli attuali rapporti economici, è ben più complicato che “aggiustare” i Prezzi e il Saggio medio del Profitto a che ciò avvenga. Con questa scappatoia consolatoria, in fondo tautologica, si viene a negare il problema stesso dell’anarchia capitalistica, quello dell’adattamento, sempre tardivo, delle produzioni alla domanda. La corrispondenza fra quantità prodotte e fra valori scambiati nel mondo del capitale si verifica ex-post, attraverso i fenomeni permanenti della sovra- e della sotto-produzione delle merci e della oscillazione dei loro Prezzi all’intorno dei Valori.
Parimenti destinato al fallimento è il tentativo di definire il Saggio
del Profitto indipendentemente dalla sua origine dal Saggio del Plusvalore.
Il nocciolo del capitale è nella produzione, nell’impiego della forza
lavoro, del solo capitale Variabile. Lì è da individuare la sorgente
prima ed esclusiva dei Valori e lì da ricercare l’origine delle difficoltà
nella sua continua riproduzione.
LA COSCIENZA DI SÉ DELLA BORGHESIA ITALIANA
L’Italia del cosiddetto “miracolo economico”, come fu chiamata quella uscita dalla Seconda Guerra mondiale, come non mai si dimostrò la solita italiuzza, pronta a tutti i contorcimenti per farsi accettare tra le potenze.
Il vecchio sogno, che non era certo indifferente agli sforzi della borghesia di questo paese, di essere riconosciuta come moderna, ma sempre in bilico tra riforme e rinculi, pronta a correre in “soccorso del vincitore”..., ed essere benvoluta dai briganti imperialistici.
La scelta atlantica non deve ingannare, poiché in realtà il suo personale dirigente fu abbastanza abile nell’oscillare tra l’opzione occidentale e la sua posizione di tramite con le forze emergenti dell’area nord-africana e medio-orientale, capace di svolgere almeno tre politiche estere nello stesso tempo, sempre sospettata di fare il doppio o il triplo gioco.
A noi interessa non il gettare zizzania sulla nostra borghesia in modo particolare, ma mostrare che gli ultimi arrivati al banchetto imperialistico sono disposti ad ogni contorcimento per partecipare alla spremitura del proletariato e trarre benefici a livello generale.
La sua tradizionale debolezza, e nello stesso tempo velleitarismo, sono da correlare ad un contesto che vede una tradizione proletaria che ha avuto nello Stivale una sua specifica dignità. Siamo della convinzione che non è casuale, nell’ambito della lotta di classe a livello internazionale, che il nostro piccolo partito sia rinato nel 1945 proprio in Italia. La Sinistra Italiana aveva avuto una funzione molto precisa all’interno dell’Internazionale: solo la nostra frazione aveva tenuto ferme le posizioni teoriche ed aveva potuto salvarsi dalla gelata controrivoluzionaria.
Non dimentichiamo le tattiche dello stalinismo nello scacchiere mediterraneo: ancora oggi ci si domanda se fu Togliatti a scegliere la collaborazione col Governo Badoglio e se fu Stalin... I documenti attestano che certamente la logica della potenza russa ebbe la sua parola decisiva. In questo contesto si spiega la “doppiezza” togliattiana, che fa il paio con la doppiezza, anzi “triplezza” della borghesia dichiarata, con la quale l’opportunismo cerca di accordarsi con tutti i mezzi e prezzi.
L’operazione è significativa, perché mostra come le borghesie che
arrivano tardi si rivelano le più inaffidabili e ostili alle spinte proletarie,
e soprattutto, pronte ad ogni inganno, aumentano il disorientamento del
pur combattivo proletariato uscito dissanguato e disorientato dalla guerra.
L’ANTIMILITARISMO E IL MOVIMENTO OPERAIO
Con la serie dei rapporti sull’antimilitarismo eravamo arrivati, nel corso della precedente riunione, ad esporre le tappe del tradimento di Mussolini che, dalla iniziale proposta di proclamare lo sciopero generale insurrezionale, passando per la fase possibilista, era approdato all’interventismo dichiarato.
Ricordammo anche come il giovane Gramsci, dalle colonne del “Grido del Popolo”, avesse fatta propria la formula mussoliniana della “neutralità attiva ed operante” dichiarandola perfettamente allineata alla dottrina di un preteso socialismo nazionale ed agli interessi del proletariato.
All’ultima riunione sono state presentate le chiare posizioni di quei gruppi rivoluzionari della sinistra del Partito Socialista che, senza tentennamenti di sorta, per tutto il corso della guerra non si stancarono di ribadire i punti caratteristici della dottrina marxista; atteggiamenti che collimavano perfettamente con le posizioni di Lenin.
Di fronte al rinnegamento di Mussolini, la corrente rivoluzionaria del Partito Socialista Italiano, senza mezzi termini, espresse immediatamente il suo dissenso ed affermò che il movimento socialista avrebbe potuto e saputo fare a meno di colui che, fino a poco tempo prima, ne era stato il dirigente.
In netta antitesi al famoso slogan del futuro duce, il “Socialista” del 22 ottobre 1914 pubblicava un editoriale con un titolo che non avrebbe potuto lasciare adito a fraintesi di sorta: Per l’Antimilitarismo Attivo ed Operante.
Il concetto di neutralità, veniva ribadito dai marxisti rivoluzionari, aveva per soggetto lo Stato, non certo il proletariato. Compito del Partito Socialista doveva esser quello di imporre allo Stato borghese la neutralità nella guerra, in modo assoluto, a qualsiasi condizione. Anche nel caso di invasione del territorio nazionale il proletariato non avrebbe dovuto commuoversi per le sorti della patria.
Per ottenere ciò il proletariato, sotto la guida sicura del proprio partito, avrebbe dovuto agire nei confronti dello Stato, contro lo Stato, nel campo e coi mezzi della lotta di classe: nessun armistizio con la classe capitalista ed il suo Stato perché la guerra di classe è permanente e non disarma.
La nostra formula di “antimilitarismo attivo ed operante” si poneva in antitesi inconciliabile e non poteva essere confusa con concetti quali pacifismo e collaborazionismo. Il proletariato, affermando ed imponendo allo Stato di restare neutrale, sarebbe rimasto l’aperto suo nemico, attivo ed operante, e, senza concedere sospensive o tregue, avrebbe chiuso la strada al miraggio dell’unanimità nazionale come disgraziatamente avevano fatto i partiti socialisti francesi, tedeschi, etc.
Ma quello che soprattutto conta è che per i rivoluzionari il rifiuto del miraggio dell’unanimità nazionale non si riferiva soltanto alla solidarietà di tipo bellicista, perché la stessa avversione veniva nutrita ed apertamente dichiarata anche nei confronti della solidarietà pacifista; giusta la formula della lotta di classe sempre e comunque, in guerra ed in pace.
«Dicevamo dunque allora che non avremmo tollerato un blocco politico, come lo si caldeggiava, d’accordo con Giolitti ed i cattolici, solo perché andando al potere questi non avrebbero fatta la guerra. Se il nostro gruppo parlamentare avesse dato un tale appoggio lo avremmo sconfessato per gli stessi motivi per cui deploravamo francesi, tedeschi, ecc» (“Storia della Sinistra”).
L’estrema sinistra marxista del PSI, ancor prima dello scoppio della guerra, ormai inevitabile, analizzandone le cause con estrema lucidità individuava le responsabilità dell’enorme macello di proletari non nel cosiddetto militarismo teutonico, presentato dalla propaganda democratica come una reminiscenza pre-borghese e comunque pre ed anti-democratica, ma nella intrinseca natura del capitalismo moderno.
Quindi non poteva che essere ribadita, in egual misura, l’avversione sia ad una guerra con la Triplice Alleanza sia con la Triplice Intesa. Si metteva in guardia il proletariato dal pericolo di cadere nel tranello della tesi dell’aggressore e dell’aggredito, anche perché ognuna delle parti in conflitto, pescando nel labirinto inestricabile degli atti diplomatici e sfruttando i primi inevitabili incidenti di frontiera, veri o provocati, avrebbe potuto dimostrare di essere vittima di aggressioni nemiche.
Solo i rapporti di produzione capitalistici dovevano essere considerati i veri ed unici responsabili delle moderne guerre, le quali non rappresentavano che uno dei molteplici aspetti dell’ingranaggio della storia contemporanea in cui è continuamente sacrificata la classe lavoratrice e sfruttata.
La liberazione del proletariato non sarebbe sopraggiunta né dalla sconfitta della Russia zarista e feudale da parte della Germania, come non sarebbe giunta dalla sconfitta degli Imperi centrali da parte delle potenze democratiche, ma solo dalla lotta indipendente del proletariato quando, di fronte alle incalzanti minacce del militarismo, avesse dimostrato sul terreno della guerra di classe che l’internazionalismo socialista non rappresentava una pura espressione retorica ma un fatto formidabilmente reale.
In effetti l’Internazionale Socialista aveva costituito l’unica forza che avrebbe potuto seriamente contrastante il militarismo di tutti i grandi Stati europei
Gli avvenimenti del 1914, dimostrarono come il sogno borghese di una Europa capitalista, democratica e pacifista fosse miseramente perito, ma, allo stesso tempo, rappresentarono un indiscutibile insuccesso del socialismo: alla mancanza di ogni tentativo serio di opposizione, c’era stata quasi universalmente l’adesione dei partiti socialisti nazionali alla guerra.
Non pochi furono i compagni che giunsero a simili posizioni scioviniste, e soprattutto furono compagni che per lunghi anni si erano distinti come campioni dell’antimilitarismo e dirigenti rivoluzionari di primo piano. L’aspetto più tragico della cosa però non fu tanto il fatto che questi compagni avessero abbandonato il terreno di classe per aderire a quello nazionalista, ma il fatto che molti di essi ritennero di non essere con ciò meno socialisti di prima. Ritennero (o lo diedero ad intendere) di avere soltanto apportato alle loro antiche convinzioni quelle rettifiche che gli avvenimenti stessi avevano imposto.
Ciò determinò una situazione in cui il proletariato europeo non vide tanto e solo il nazionalismo inneggiare alla guerra, ma soprattutto la vide inneggiare e richiedere da parte del socialismo rivoluzionario, del sindacalismo, dell’anarchismo, in nome di un processo storico dal quale non avrebbe mancato di scaturire la società nuova. Soprattutto se la vittoria delle armi fosse arrisa ad una piuttosto che all’altra coalizione militare.
Altro grande merito dei compagni della sinistra italiana, che derivò
direttamente dall’aver saputo inquadrare il fenomeno della guerra imperialista
alla luce della dialettica marxista, fu quello di liberare il campo socialista
dai presunti innovatori ed apportatori di rettifiche al programma rivoluzionario.
In Italia i Mussolini vennero messi alla porta, cosa che non avvenne negli
altri partiti socialisti europei.
Nella storia del giovane Stato iracheno esistono alcune costanti che ne contraddistinguono l’evoluzione.
1. La lotta per l’indipendenza nazionale, al cui interno si scontrano due tendenze, quella “nazionale”, che mette al primo posto la costituzione dello Stato borghese iracheno, e pone l’accento su quell’interesse nazionale, e quella “panarabista”, che tende invece a costituire un unico Stato per le popolazioni di lingua araba;
2. La lotta tra le varie nazionalità e gruppi religiosi che sono andati a comporre, per imposizione imperialista, quello Stato: la minoranza curda a nord, i sunniti al centro, gli sciiti, i più numerosi, al centro sud;
3. Le tradizionali controversie di confine, soprattutto con l’Iran ed il Kuwait, ma anche con la Turchia.
Emerge però una costante più forte di tutte le altre, anche se spesso sottovalutata dai politologi e dagli storici borghesi, quella della lotta tra le tre classi che compongono la società irachena fin dalla sua fondazione, i latifondisti, la nascente borghesia commerciale e industriale, il proletariato delle città e delle campagne.
La storia di questa lotta costituisce, secondo l’analisi marxista, l’elemento centrale per comprendere la tragica storia dell’Iraq e rappresenta l’unica chiave che può permettere di leggere, al di là dell’orrore quotidiano, quello che sta accadendo in Mesopotamia, terra per millenni benedetta dalle acque del Tigri e dell’Eufrate e oggi maledetta dal petrolio e dalla sua posizione strategica in Medio Oriente.
Il lavoro, affrontando la storia dell’evoluzione della società irachena e l’azione del movimento comunista nel paese, ha messo in luce la modernità dei rapporti di produzione in Iraq e la grande tradizione di lotta di classe del proletariato che, nonostante la costante, feroce repressione della sua azione da parte di tutti i regimi succedutisi al governo e l’azione controrivoluzionaria dello stalinismo e dei suoi derivati, ha saputo conservare le proprie tradizioni, come fu dimostrato dalla non lontana rivolta proletaria seguita alla tragica fine della prima guerra del Golfo, repressa nel sangue dalle truppe scelte di Saddam Hussein con l’attiva collaborazione degli eserciti della coalizione.
Nonostante la cappa di piombo sotto cui sono stati schiacciati i lavoratori
iracheni negli ultimi anni del regime, pressione che si è fatta forse
ancora più pesante dopo l’ultima guerra, l’occupazione anglo-americana
e la creazione dell’attuale governo fantoccio, i lavoratori iracheni
delle città e delle campagne stanno cercando di ritrovare la propria strada
indipendente, al di fuori di ogni divisione etnica e religiosa, e fuori
da ogni soggezione alla borghesia nazionale, sia a quella legata a doppio
filo al padrone americano e che si presenta “democratica” e “legalitaria”,
sia a quella che, scegliendo la strada dell’opposizione armata all’occupazione,
vuole presentarsi come “nazionalista” e “antimperialista”. È la
strada che non può non passare per la ricostituzione dei sindacati di
classe, e deve portare alla rinascita del partito comunista sulla base
del tradizionale programma marxista, internazionale e rivoluzionario.
LA QUESTIONE EBRAICA OGGI: (1) Introduzione
Intendiamo affrontare la questione ebraica come viene percepita oggi, e come invece continua a percepirla la nostra corrente politica.
Sappiamo quali aberrazioni si siano prodotte sulla questione, segno evidente del fatto che il groviglio delle contraddizioni, su un tema così carico di storia, abbia finito per far perdere la bussola.
Sullo sterminio ebraico pesa un giudizio che, nella pretesa di essere esorcistico e in grado di allontanare la possibilità di nuovi eccidi, non si perita a far uso di termini astorici, come “male assoluto”, o di circonlocuzioni che avrebbero il potere di assolvere e di dire una parola tombale.
Al contrario siamo della convinzione che per la via della sovrastruttura non si arriva a capo di nulla: altrimenti si dovrebbero sciogliere paradossi e assurdità intrinseche ad ogni costruzione teologica/fideistica.
Che il regime moderno del capitale abbia finito per esaltare culture millenarie, come l’ebraismo, è tanto noto che non è il caso di ripetere giudizi diventati convenzionati, quali ad esempio quelli riferibili all’esperienza e pratica dell’usura, di cui l’ebraismo è stato nell’occhio dal ciclone dal Medioevo ad oggi.
Solo che i presunti “risarcitori” dell’eccidio ebraico credono di cavarsela con un bilancio che sorvola su determinati passaggi storici, in particolare sulle necessità del capitalismo imperialistico di liberarsi definitivamente da tutto ciò che appare non omologabile all’interno della propria logica di potere e di dominio.
Lungi dal prendere l’Ebraismo come una categoria, il materialismo storico deve dimostrarsi in grado di individuare le contraddizioni che hanno spinto il nazionalismo moderno a scatenarsi contro quelle forze che sono parse non controllabili, incapaci di essere ricondotte sotto l’imperio del Sangue e del Suolo.
L’Ebraismo è stato così, secondo le bisogna, considerato base e fondamento di tutto e del contrario di tutto, del Capitalismo come del suo opposto sociale, cioè il Comunismo.
Di questo ci stiamo occupando, per sottolineare come la cultura “ebraica”,
che non sarebbe normalizzabile per sempre sotto le leggi del capitale,
è in realtà il proletariato, la sua necessità di andare oltre le presunte
“leggi naturali” d’un determinato modo di produzione e di vita sociale.
LAVORO SINDACALE TRA I FERROVIERI
Ascoltavamo infine il resoconto del nostro, impegnativo, lavoro sindacale fra i ferrovieri.
Con la firma da parte dell’OrSA del CCNL – avvenuta pochi giorni prima della riunione – si è creata una situazione completamente nuova ed in evoluzione. La sigla è stata un vero e proprio scippo all’intera organizzazione, in violazione aperta di un metodo consolidato, che aveva visto sin dai tempi del CoMU, passare al vaglio del personale e dei quadri attivi ogni decisione. La segreteria nazionale OrSA Macchina (cinque componenti) si è espressa 3 contro 2, ma la minoranza appoggiata dall’OrSA nazionale è comunque andata avanti. Il primo risultato sono state le dimissioni dei tre, mentre gli altri due (guarda caso facenti parte anche del direttivo Nazionale Intercategoriale) hanno proseguito per la loro strada. Va sottolineato che nello statuto OrSA è previsto che qualora un’intera categoria si opponga, venga comunque invalidata qualsiasi firma e qualsiasi accordo. Dunque il comportamento dei due oltre che ad essere truffaldino è stato anche apertamente illegale, ma è passato per l’impotenza generale.
Il personale dopo un primo sbigottimento ha reagito o rifugiandosi nella delusione o, la parte migliore, nella rabbia. Entrambe sensazioni e sentimenti da comprendere, ma che fanno il gioco della Società e di chi la sostiene all’interno dell’organizzazione.
Il due e tre agosto abbiamo partecipato a due infuocate riunioni nazionali a Roma: la prima del macchina e la seconda intercategoriale OrSA. Abbiamo ritrovato la stessa situazione di dieci e cinque anni fa: esiste, come sempre è stato, una maggioranza del 60% disponibilissima alla trattativa sempre e comunque, per conquistare tavoli e seggiole, AG e sedi gratis; una minoranza che, al contrario, ha mantenuto la combattività di sempre, anche se sempre di più dipende dalla Toscana ed in particolar modo dalla minoranza del Coordinamento Regionale, in cui Pistoia ha un peso determinante, non tanto per il lavoro che facciamo noi ma per la tradizione e la compattezza che la sorregge da sempre, condizione facilitata dall’esiguità del numero del personale.
Occorrerebbe imboccare la strada dell’organizzazione delle forze che sono sulle posizioni giuste. Soltanto se riuscissimo ad unificare il poco, ma buono, che c’è riusciremmo a trovare una soluzione al rompicapo.
La Cub Trasporti alle prossime elezioni delle RSU si presenterà con delle liste aperte anche ai rappresentanti OrSA e Sult.
In tutta Italia c’è fermento perché molti vorrebbero “ripartire da zero”, come se la cosa fosse fattibile, come se il 2005 fosse identico al 1985; in realtà molti macchinisti sono drogati dallo straordinario e si fanno il contratto da soli, mentre al di fuori, nel mondo del lavoro, il controllo si è enormemente irrigidito: se facessimo gli scioperi di allora altro che le multe agli autoferrotranvieri.
A fine settembre i Confederali hanno proclamato uno sciopero contro il VACMA (il nostro sarà il 13 ottobre) per recuperare lo scontento, fare tessere e presentarsi belli belli alle elezioni RSU di novembre. Peccato che loro scioperassero per un Uomo Morto più tecnologico e basta, e molti ci sono caduti. L’OrSA Toscana ha preso una posizione che sapeva di poco esprimendosi per la libertà di adesione come aveva fatto con lo sciopero della CUB.
Noi non possiamo che andare per la nostra strada. La Cub è ancora una
realtà inesistente tra il macchina e chi collabora lo fa a titolo personale.
L’impegno è sempre più pesante.
È una delle conseguenze dell’informazione globalizzata: fino a qualche lustro fa il “cretinismo elettorale” era limitato al teatrino nazionale, e già non era poco tormento; adesso arriva su teleschermi e giornali il “reality show” elettorale da tutto il mondo. “Ogni testa un voto”, dal Brasile, alla Germania, dall’Afghanistan agli Stati Uniti d’America.
Già, gli Stati Uniti, la massima potenza militare mondiale, avrebbero, a “furor di popolo”, rinnovato il mandato al presidente-soldato George Bush, che ben rappresenta le sorti dell’industria militare e di quella del petrolio, le quali hanno scatenato una guerra con motivazioni inventate. Poiché di questo si vanta senza fare una grinza, è considerato “un uomo che dà sicurezza”.
E proprio di sicurezza hanno bisogno i lavoratori americani, minacciati dalla disoccupazione, stretti fra i bassi salari e le leggi antisciopero. Sul loro futuro, sempre più incerto, pesa la guerra, che vuole ogni giorno il suo tributo di sangue proletario, anche americano, e di cui non si vede la fine. Tra i 58 milioni di votanti (il 60% degli “aventi diritto”) ci sono certamente milioni di lavoratori che hanno abboccato all’illusione borghese che un’America forte, più forte di tutti gli altri Paesi, possa salvaguardare anche loro e le loro famiglie.
L’economia americana viaggia sul filo del rasoio del gigantesco debito estero, finanziato in gran parte dalla rampante economia cinese, del sempre più grave disavanzo commerciale, delle enormi spese militari che rappresentano la metà dell’intera spesa bellica mondiale.
Ma chi soffre le conseguenze della guerra non sono i borghesi ma i proletari, quelli che già da anni subiscono gli effetti della crisi economica e che oggi a centinaia crepano in Iraq o in Afghanistan, mentre i capitalisti fanno affari d’oro con la “guerra preventiva”.
Sono questi lavoratori che domani dovranno scegliere, non tra un Bush e un Kerry, ma tra lo schierarsi sotto la bandiera della solidarietà internazionale di classe o sotto quella dell’interclassismo bellicista, tra l’adesione alla guerra tra le classi o l’arruolamento nella guerra tra gli Stati.
Questa sì che sarà una scelta importante, forse decisiva per il proletariato del mondo intero. Il passaggio di una parte determinate della classe operaia americana dalla parte della rivoluzione basterà a neutralizzare l’enorme potenziale militare accumulato dalla borghesia statunitense a baluardo del regime del capitale nel mondo intero.
La “vittoria” di Bush in nulla cambia il quadro in cui dovrà svolgersi questa lotta, che non si consumerà a colpi di schede, ma contrapponendo forza a forza nelle strade, nelle fabbriche, nei campi, nei cantieri.
* * *
Liberi cittadini. A differenza dei romani, che dal vasto Impero si accontentavano
di trarre il tributo lasciando alle Province la libertà anche religiosa
e sussitere le caste sacerdotali indigene, dal 16° al 19° secolo le potenze
coloniali vennero ad imporre ai selvaggi ridotti in schiavi, con le buone
o con le cattive, l’oppio della religione cristiana e i suoi riti, la comunione,
ecc. L’evangelizzazione, la salvezza delle anime, era lo scopo dichiarato
della colonizzazione di interi continenti. L’odierno imperialismo capitalista,
più accentrato, dittatoriale e fascista di tutti gli storici precedenti,
afferma la sua missione di diffondere la Democrazia nel mondo, fumoso principio
che ormai nessuno sa più cosa sia e dove sia. Ne sopravvivono però i
riti cretini, e altrettanto oppiacei, dell’elettoralismo democratico per
cui vediamo, fra i "cinici sghignazzi delle classi dominanti", anche le
disgraziate donne afghane costrette, libere cittadine, ad incespirare nel
burka fino al seggio elettorale, ingaggiate nella campagna elettorale di
Mr. Bush.
Ignoriamo le elezioni
Prepariamo la lotta di classe!
Negli Stati Uniti il Partito democratico e l’AFL-CIO vorrebbero far credere ai lavoratori che le prossime elezioni saranno determinanti, che se Kerry sarà eletto vi sarà un radicale cambiamento nella politica governativa nel senso della salvaguardia della assistenza, della crescita dei posti di lavoro e di un generale miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice.
Al di là della ridondante retorica i soli veri dibattiti fra Bush e Kerry vertono su come gestire meglio la stessa politica antioperaia, che si tratti di discutere del taglio all’assistenza sociale o di bombardare i cosiddetti “terroristi” o semplicemente come salvaguardare meglio gli interessi delle classi possidenti.
Certamente, ascoltando Kerry parlare nei raduni operai, si può sentirlo balbettare propositi di tutela delle condizioni dei lavoratori, magari minacciando di punire le imprese che forniscono lavoro “americano” agli stranieri. Strano che le aziende che maggiormente appoggiano la campagna di Kerry siano quelle più impegnate nell’ ”outsourcing”. Oppure ci si richiama alle riforme dello Stato sociale dell’era di Clinton, che in realtà hanno costretto milioni di lavoratori in una condizione di povertà ancora maggiore.
Kerry non ha opinioni sostanzialmente diverse da Bush sulla questione della guerra in Irak: il problema per Kerry non sono le centinaia di proletari americani uccisi e le miglia di irakeni massacrati, ma che alla fine gli imperiali obbiettivi della guerra non vengano mancati.
Insomma, a disputarsi la Casa Bianca sono due rappresentanti della classe dominante, con programmi non difformi.
Al di là delle loro qualità individuali si deve capire che non dipende da queste il futuro andamento dell’economia. È vero il contrario: è il decorso della crisi economica che determina le scelte dei governi, da chiunque questi siano guidati. Non è che l’economia andava bene per merito di Clinton né che crolla oggi per gli errori di Bush. Ciò che ci ritroviamo è un sistema economico assurdo, il capitalismo, che accumula profitti prodotti dalla forza lavoro del proletarito per poi precipitare nelle inevitabili crisi. Il governo reagisce a queste alternanze con misure adeguate, ma è al servizio dei capitalisti, non viceversa! E in qualunque modo vadano le cose, la classe operaia rimarrà sottomessa alla schiavitù del profitto e vittima delle crisi del capitale.
A dispetto dei media borghesi ossessionati dal culto dell’individuo, le sofferenze di cui ha da patire la classe lavoratrice sono dovute a forze economiche che agiscono indipendentemente dalle volontà dei partiti e degli individui che si alternano al governo. I due cosiddetti “partiti”, repubblicano e democratico, non sono altro che le due ali dello stesso partito borghese e antioperaio, che da sempre controlla il “nostro” governo dello Stato. Quindi nessun altro candidato cosidetto “indipendente”, anche se si presenta con un programma filo-operaio, può modificare il fatto che lo Stato borghese non è che uno strumento del capitale.
La rivendicazione giusta non può essere quella di Kerry per la difesa dell’attuale iniquo sistema di assistenza sociale, fatto per garantire solo una parte dei lavoratori, così come non può essere quella di impedire che i posti di lavoro in aziende americane vengano assegnati a stranieri. La politica di vere organizzazioni di classe è rivolta all’unione dei lavoratori delle diverse categorie e nazionalità per incendirare la lotta di classe ed battersi contro il Capitale, che è sovranazionale per sua natura.
I principali sindacati oggi sono completamente inadatti a svolgere questa politica e mantengono i lavoratori divisi in scioperi senza prospettiva. Sono incapaci anche di difendere anche le più essenziali condizioni di vita e di lavoro, come dimostra il fallimento del recente sciopero dei supermercati del Sud della California. Di fatto questi sindacati traggono motivo della loro esistenza solo dalla funzione che esercitano nel tenere legati i lavoratori al regime che li opprime. Mentre tradiscono i lavoratori nelle fabbriche, li invitano a votare per Kerry.
Essi non possono essere riformati nel senso di renderli organi realmente rappresentativi della classe lavoratrice, perché intimamente legati agli apparati del regime borghese. Ciò che i lavoratori si dovrebbero dunque prospettare oggi, sia che siano iscritti o no ai sindacati, è di cominciare a radunarsi, al di sopra delle divisioni di industria e di località, e a lavorare seriamente la formazione di autentiche organizzazioni classiste che realmente rappresentino i lavoratori, che stiano dalla loro parte e non temano di mettere davvero paura ai padroni, che non attendano inerti che le condizioni peggiorino ma che sappiano reagire al fine del miglioramento della condizione operaia e, ancora più importante, per unire i lavoratori in una forza di classe capace di affrontare il sistema del capitale.
Il sistema elettorale altro non è che la facciata di un regime che è pronto a scatenare la sua potenza di fuoco allorché le masse proletarie si muoveranno nuovamente minacciando il potere delle classi possidenti.
La classe lavoratrice non si potrà giammai emancipare con le elezioni, ma attraverso la distruzione dell’apparato statale capitalistico e l’instaurazione della sua dittatura, sotto la guida del Partito Comunista, perché la borghesia è certamente determinata a difendere il suo ordine sociale con la persuasione o con la forza.
È l’ora che anche il proletariato inizi a mostrare la sua determinazione, non facendosi coinvolgere dall’inganno elettorale, e procedendo invece alla ricostruzione del Sindacato e del Partito di Classe.
Ignoriamo le elezioni,
Prepariamo la lotta di classe!
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La
lotta di classe, fra lo Stato borghese e il tradimento sindacale
Nella società borghese, anche la più democratica, i “diritti” dei lavoratori, intesi come classe, non esistono. Nei codici sono affermati i diritti degli individui, che vengono però negati quando questi individui sono proletari e si comportano, collettivamente, come tali.
Ne è classico esempio il, cosiddetto, diritto di sciopero, che tutti gli Stati democratici affermano di riconoscere. Nei fatti si riduce solo a quello che descrivono, contraddittoriamente, come “un diritto che si esprime all’interno della legge”, la quale legge, di fatto, lo impedisce.
In Italia come in tutti i paesi, nel Pubblico Impiego almeno, la “regolamentazione” rende praticamente impossibile scioperare in forma efficace. Per i tranvieri, ad esempio, gli orari consentiti e la frequenza degli scioperi sono così ridotti che, almeno sul piano economico, lo sciopero torna a vantaggio delle aziende che risparmiano su tutti i costi, salari per primi, e poco ci rimettono in incassi essendo la maggioranza dei viaggiatori con abbonamento.
Quando i tranvieri sono, di poco, debordati dai limiti della “regolamentazione” sono stati attaccati come incivili ed antidemocratici o addirittura come criminali comuni da punire drasticamente anche con le cariche della polizia o con i tribunali. Quindi, in barba ai secolari e santificati diritti borghesi, quando occorre, il lavoro non è più libero, ma obbligatorio, come quello degli schiavi. Si ricordi che i tranvieri scioperavano per il rinnovo del contratto di categoria ormai scaduto da due anni e che il salario medio di un autista si aggira fra gli 800 e i 1.000 euro al mese con orari di lavoro che impegnano a volte anche 12 ore.
Veglia sul mantenimento di questa vera forma di schiavitù la forza armata degli Stati, necessario complemento di ogni libertà borghese. E ci ricordiamo come l’opinione pubblica fu scagliata dall’apparato statale contro i tranvieri di Milano e altrove e come li sta attualmente sanzionando la Magistratura. Questo apparato è al servizio dello Stato capitalista contro i lavoratori anche quando si spaccia per sinistro.
La pressione, anche solo morale, delle istituzioni non può essere sottovalutata perché più di tutte agisce sulla volontà dei lavoratori nelle loro decisioni, specialmente quando questi sono abituati a ragionare come cittadini e non come membri di una classe. È quella che forma e muove l’opinione del cosidetto ceto medio piccolo borghese, sempre pronto a prostituirsi al servizio del più forte. Basti pensare come questo apparato riesca a far passare nella cosidetta opinione pubblica come eroi nazionali quelli che la stessa pochi mesi fa’ avrebbe tranquillamente definiti individui asociali, proibendo di chiamare mercenario un mercenario.
La democrazia è il cappuccio sulla canna del cannone, sempre carico, che basta sfilare perché questo possa sparare. La funzione dello Stato, anche se democratico, è di organismo con cui le classi dominanti tengono sottomessa la classe proletaria.
Davanti ai tranvieri il cappuccio è stato tolto. I borghesi nostrani, non più abituati ad assistere ad azioni di classe del proletariato, convinti di essere riusciti ad imbrigliarle completamente sotto la cappa dei diritti del cittadino, appena hanno visto il proletariato di nuovo in lotta al di fuori degli schemi della concertazione e del controllo dei propri guardiani sindacali e politici, ha scagliato contro questi lavoratori tutto l’apparato propagandistico, giuridico ed anche militare, definendo gli scioperanti come criminali comuni socialmente dannosi per la comunità civile mettendoli in contrapposizione con gli altri cittadini utenti e minacciandoli, dopo averli precettati, di prendere tutti i provvedimenti possibili, anche penali, contro di loro in modo da evitare che queste azioni si ripetano.
Questi fatti erano dai veri comunisti previsti e sono inevitabili. Anzi, il togliere i borghesi il cappuccio dagli arnesi della sua reazione può avere il merito di diradare la nebbia che attualmente impedisce al proletariato di vedere i reali rapporti fra le classi e di ritrovare la propria strada ricollegandosi al loro programma comunista rivoluzionario.
Soffermiamo a pensare: se questa reazione è stata suscitata da uno sciopero selvaggio di sole alcune migliaia di lavoratori che rivendicavano da due anni l’adeguamento del salario all’inflazione, non reale ma a quella data dall’Istat, e quindi solo arretrati dovuti secondo gli accordi del 1991 sul costo del lavoro, ci viene da pensare, ma se i lavoratori di oggi, pur rimanendo sul terreno della concertazione e ligi a detti accordi stipulati con il padronato ed il governo di allora, per l’occasione di sinistra, accordo che servì al padronato ad eliminare la contingenza, che se pur in modo ridotto legava automaticamente i salari al costo della vita, cosa succederebbe oggi se tutti i lavoratori, od anche solo alcune categorie importanti per l’economia italiana rivendicassero non miglioramenti di vita rispetto al ‘91 ma semplicemente la rivalutazione reale delle proprie condizioni da allora fino ad oggi?
Se per alcune migliaia di tranvieri in alcune città assistiamo all’immediata reazione di tutti gli apparati della borghesia contro di essi, creando un clima di linciaggio intorno ad essi, è facile pensare che la reazione logica di fronte ad un movimento di portata molto più ampia e per rivendicazioni necessariamente più consistenti costringerebbe la borghesia, a difesa dei suoi interessi, allora sì veramente messi in pericolo, a far intervenire direttamente lo Stato contro i lavoratori in lotta, con tutto il suo apparato repressivo legale ed illegale, fregandosene della facciata democratica.
Oggi il pericolo del “terrorismo”, interno ed internazionale, non è altro che il tendone dietro di cui indisturbata, con la complicità dei cosidetti partiti di sinistra e dei sindacati operai ufficiali, la borghesia affina il suo apparato repressivo giuridico e propagandistico proprio in previsione che i lavoratori, spinti dal continuo peggioramento delle condizioni sociali, riprendano a lottare al di fuori delle autoregolamentazioni e per dei veri miglioramenti.
Centralizzata è la reazione borghese, centralizzata deve essere la classe operaia. Assistiamo invece oggi ad una estrema dispersione delle lotte operaie, divise per azienda e, all’interno di esse, ad una miriade di trattamenti diversi. La ricomposizione dell’azione difensiva della classe passa per la ricostruzione di un vero sindacato affasciante tutte le categorie. Per costruirlo, come primo passo, bisogna che gruppi di lavoratori escano dalla logica della categoria e dell’aziendalismo sforzandosi di unificarsi e di unificare le singole lotte e rivendicazioni in un unico blocco al di sopra delle categorie e delle aziende.
La logica delle rivendicazioni aziendali o di categoria, anche se nell’immediato può sembrare la strada più facile per difendersi dagli attacchi del padronato, e spesso oggi l’unica percorribile, impedisce ai lavoratori di vedere il carattere sociale dei loro bisogni e la loro forza effettiva, li lega alle esigenze delle aziende o della categoria rendendoli impotenti se queste vanno in crisi e impedendo loro di difendersi realmente e costringendoli, a volte, anche a rivendicazioni autolesioniste, nello spirito della “difesa dell’azienda”.
La lotta sindacale all’interno delle aziende e delle categorie è più facile in determinate posizione nel rapporto di produzione come i dipendenti pubblici o in settori strategici per la produzione. Questi lavoratori pensano di poter meglio difendere le loro condizioni all’interno delle singole categorie senza la necessità di collegarsi alle altre categorie, in quanto più disagiate. Ma, alla lunga, è una strategia perdente che negli ultimi anni, per tutti, ha prodotto solo peggioramenti. Le lotte di difesa all’interno della singola categoria o azienda riflettono la debolezza in cui oggi esse si trovano nei confronti del padronato.
Questa debolezza è il frutto della politica di tradimento dei sindacati ufficiali che da decenni ha svalutato sempre di più le rivendicazioni di carattere generale, compresi i contratti collettivi nazionali di lavoro, per privilegiare le rivendicazioni integrative aziendali e di gruppo, legate alla produttività, a volte anche individuale, fino al punto che oggi ai lavoratori sembra impossibile anche pensare rivendicazioni che non siano legate alle esigenze dell’economia e delle aziende. Per questo non riescono nemmeno più a proporre rivendicazioni generali per tutta la classe, come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, la rivalutazione dei salari reali almeno ai livelli di 10 anni fa’, il salario pieno ai disoccupati non per colpa loro, un automatismo che rivaluti automaticamente i salari e le pensioni, ecc.
Il sindacalismo borghese, che noi chiamiamo “di regime”, si è dato
una struttura, formata su uno schema di funzionari di mestiere, che è
irrecuperabile ad una politica di classe. Da qui la nostra indicazione
della necessità della rinascita del sindacato di classe al di fuori dei
sindacati attuali, che i lavoratori trovano e troveranno di traverso sulla
loro strada. La lotta degli operai di Melfi, come quella degli autoferrotranvieri,
erano sulla strada della ricostruzione di un simile sindacato, uno strumento
la cui funzione si fa ogni giorno più necessario. Solo con una strategia
generale di lotta, che solo con un sindacato centralizzato i lavoratori
potranno rintuzzare l’offensiva del padronato che, soprattutto in questi
anni di crisi, vuole schiacciare la condizione operaia per salvaguardare
i suoi profitti.
La firma del CCNL delle Ferrovie da parte dell’OrSA, ha creato all’interno dell’organizzazione una frattura che probabilmente non sarà ricomponibile. In particolar modo nel settore macchina, dove le preesistenti tensioni si sono fatte ancor più evidenti.
L’OrSA era nata più come espediente tecnico da opporre alla temuta soglia minima di rappresentanza (poi non presentata dal Governo), che come unione di più settori in lotta, bisognosi di una comune direzione. La rottura con la CUB e successivamente con il SULT, ne hanno ridotto drasticamente gli aderenti, riducendoli, in ferrovia, soltanto a due: Fisafs e CoMU.
Il Coordinamento ha continuato a rappresentare i bisogni dei soli macchinisti come organizzazione di settore, l’ex sindacato autonomo ha continuato a gestire i rapporti con il restante personale ferroviario. Di fatto l’OrSA Macchina è così divenuta lo scheletro portante di una struttura che non è mai riuscita pienamente a decollare.
Ad aggravare la situazione sono intervenute le difficoltà e le debolezze già esistenti da anni nel Coordinamento, ostacoli che si sono riverberati sul progetto generale.
La firma ha così evidenziato quella che era già una realtà di fatto, ovvero che tra i macchinisti la parte trainante da sempre era ed è formata da una limitata minoranza, gruppo minoritario che, tuttavia, ha saputo sospingere l’intera categoria nella difesa pluridecennale contro gli attacchi della Società.
Oggi il padrone F.S. è più che mai alle prese con una ristrutturazione “mutilata”, con un progetto monco, non essendo riuscito ad imporre un solo guidatore sui treni, nonostante uno sfrenato terrorismo psicologico ed una serie di sanzioni che si speravano esemplari. Dinanzi al perdurare di questa situazione di stallo ed al termine dei tempi programmati dal piano aziendale da più di due contratti, la Dirigenza ha pensato bene di aumentare la pressione sia sul personale sia sul suo sindacato maggiormente rappresentativo. Ecco allora che due rappresentanti nazionali dell’OrSA Macchina, vuoi perché convinti, vuoi perché comprati, hanno deciso, in barba al metodo da sempre utilizzato, di firmare il CCNL senza consultare i lavoratori.
Su questa questione determinante di metodo, più che sul merito della contropartita ottenuta, è iniziato uno scontro che non soltanto perdura da quattro mesi, ma che si sta facendo ogni giorno più feroce. Cinque regioni continuano a criticare l’operato dei due rappresentanti ed a chiederne le dimissioni e fanno anche richiesta perché, in tempi brevi sia indetto un Congresso straordinario, che faccia chiarezza sulla questione.
Il metodo è fondamentale affinché un sindacato di base possa procedere in sintonia con le richieste e le aspettative dei lavoratori. Debordare da questa linea significherebbe la fine stessa dell’organismo e questo ben lo ha capito l’Azienda, che con la collaborazione dei due rappresentanti ha gettato nel dubbio e nell’incertezza migliaia di macchinisti.
Il cercare, al contrario, di unificare le forze sane, quelle che storicamente hanno sempre guidato il CoMU, rappresenta il lato positivo della situazione; infatti, l’elemento determinante di questo ultimo mese è stato quello di aver preso coscienza della necessità immediata della creazione di una vera e propria frazione all’interno dell’OrSA, della costruzione di un gruppo che possa far proseguire la lotta rimotivando ed orientando i tanti lavoratori dubbiosi o delusi. Questa frazione potrà poi o trascinare con sé il resto dell’organizzazione o gettare le basi per una nuova struttura, riconosciuta ed autorevole, che potrebbe trovare negli altri sindacati di base validi interlocutori.
Tutto passerà, al solito, attraverso la risoluzione di problemi pratici e pressanti, quali, ad esempio, un nuovo orario di lavoro o un’efficace lotta contro l’introduzione dell’apparecchiatura di controllo VACMA, volgarmente definita “uomo morto”, che le F.S. vorrebbero utilizzare per “certificare” la presenza attiva del macchinista, così da poter eliminare il secondo agente, nonché, sui treni metropolitani, anche il Capo Treno. La riduzione dei soli guidatori ammonterebbe a 4.500 in tutte e tre le divisioni: merci, passeggeri e traffico locale.
I Confederali, ovviamente, da tempo hanno dato la loro disponibilità all’introduzione della nuova tecnologia (poi in realtà vecchia di sessant’anni!), seppure chiedendo modalità d’applicazione meno invasive, sapendo in mala fede che comunque questo VACMA è già stato bocciato dal Coordinamento Nazionale delle ASL.
Ma per i macchinisti la questione non è tanto quanto stressante e pericolosa possa essere l’apparecchiatura, ma che questa sia propedeutica alla riduzione dell’equipaggio treno. Un solo macchinista alla guida di un treno si troverebbe ad operare in condizioni assolutamente precarie, essendo oggi impossibile, senza sicurezze, poter lavorare senza commettere errori. Accettare la solitudine significa accettare il ruolo d’agnello sacrificale della Società, che dinanzi ad ogni imprevisto o incidente accuserà inevitabilmente il macchinista, reo di considerarsi infallibile.
Noi comunisti crediamo che su questi aspetti pratici della lotta si possa e si debba impostare la strategia per continuare a costruire un’organizzazione dei lavoratori, una struttura che si collochi nella prospettiva della ricostruzione dell’organismo sindacale di classe. Condizione che, certamente, non potrà che essere sostenuta e stimolata da ampie e durature lotte di più categorie del mondo del lavoro. Il compito dell’oggi è quello di mantenere in vita quel principio, lavorando ovunque si presenti questa possibilità: in ferrovia attualmente nell’OrSA, come nella CUB o nel SULT. Anche se nessuna di queste organizzazioni può ritenersi scevra da difetti anche vistosi, una condizione che si manterrà costante fintantoché non cesserà la debolezza attuale.
Queste organizzazioni rimangono però delle vere e proprie enclave dove i comunisti hanno l’obbligo non soltanto di lavorare, ma nelle quali sono tenuti a portare la loro prospettiva ed il peso della loro storia. Perché soltanto muovendosi nella direzione di una ricostruzione dell’organo sindacale della classe, si può sperare di opporsi efficacemente ed in maniera duratura all’azione padronale. Ed è soltanto attraverso lotte condotte con coerenza ed efficacia che i lavoratori ritroveranno anche la guida del loro Partito, cioè il senso del loro futuro.