Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista" n° 309 - dicembre 2004 - [.pdf]
PAGINA 1 Ucraina: Ancora un vaso di coccio tra imperialismi di ferro
– La giustizia per gli affondati del venerdì santo
Due scioperi
PAGINA 2 – A cento anni dal primo sciopero generale in Italia
– Come le Ferrovie riducono i costi.
PAGINA 3 ALGERIA, IERI E OGGI: 10. Capitalismo a viso scoperto: Farsa democratica tra massacri e crisi economica.
PAGINA 4 – Un anno di organizzazione e di lotta dei tranvieri.

 
 
 
 
 

PAGINA 1


Ucraina
Ancora un vaso di coccio tra imperialismi di ferro

Al primo turno delle recenti elezioni presidenziali Yuschenko aveva ottenuto il 39,8% dei consensi, contro il 39,3% di Yanukovich. Mentre tutti i sondaggi prevedevano la vittoria di Yuschenko anche al secondo turno, la commissione elettorale annunciava la vittoria del rivale con un margine di tre punti: 49,4 contro il 46,7. L’opposizione accusava brogli, non riconosceva la sconfitta e organizzava manifestazioni; riusciva a far invalidare le elezioni e indirne di nuove per il 26 dicembre.

Non sembrerebbe questo che un "normale" incidente di percorso per una "giovane democrazia". Ma nei giorni successivi agli esiti elettorali si sono sentite parole forti come "guerra civile", "difesa militare dell’integrità nazionale", che prefigurano tetri scenari. Oltre le parole molto fa supporre che qualcosa bolla in pentola.

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L’Ucraina ha una superficie di 603.700 chilometri quadri con una popolazione di circa 49.000.000 abitanti, composta da una maggioranza di ucraini (72%), da una consistente minoranza di russi (22%) e piccole percentuali di ebrei (1,5%), bielorussi (1%) e minori. Confina a sud-ovest con Moldavia e Romania; a ovest con Ungheria e Repubblica Slovacca, a nord con Polonia e Bielorussia, con la Russia ad est; a sud si affaccia sul Mar Nero.

L’Ucraina era la seconda repubblica URSS per importanza in termini economici, dopo la Russia. Forniva circa un quarto di tutta la produzione agricola "sovietica"; la sua industria pensante e le materie prime furono un elemento chiave dello sviluppo dell’URSS. Oggi, al contrario, l’Ucraina dipende pesantemente dalle importazioni di energia, particolarmente del gas naturale. Il principale partner commerciale ucraino resta la Russia, che prende dall’Ucraina il 33% del suo import, e vi esporta il 17% del suo export. Ulteriore elemento importante nella crisi presente, infine, è il ruolo crescente dell’Unione Europea, da cui proviene la maggior parte delle importazioni ucraine.

Durante gli ultimi quattro anni l’economia ucraina ha mostrato un buon tasso di crescita media, del 7,2%, ma il livello del PIL è ancora inferiore a quello raggiunto nel 1990, anno della "indipendenza", e a questi ritmi di crescita serviranno almeno altri 8 o 9 anni affinché il paese si riprenda pienamente dalla grave crisi economica che poi lo colpì, nel successivo decennio.

L’andamento dell’economia nel 2003 è stato positivo, con l’eccezione, però, del settore agricolo. Con la dissoluzione dell’URSS la maggioranza delle terre, già dei kolchoz, sono divenute di proprietà statale e date in affitto alle famiglie contadine. Queste, che non dispongono più dei salari che ricavavano dalla vendita della forza lavoro dei loro membri nei kolchoz, tirano avanti con economie di sussistenza, in attesa della più volte annunciata e sempre rinviata riforma, che dovrebbe permettere la compravendita delle terre.

I salari operai sono invece cresciuti negli ultimi anni, sia nominali sia reali, ma rimangono al di sotto della media regionale: il salario medio in Ucraina ha un potere d’acquisto del 15% del salario polacco. Salari così ridotti fanno gola alle imprese dei capitalismi maturi: ad esempio aziende italiane del settore tessile, che avevano aperto fabbriche in Romania, stanno trasferendo gli impianti in Ucraina.

Le pensioni sono a livelli ancora più bassi, mediamente un terzo del salario, ben al di sotto della media regionale (in Polonia sono al 60-70% del salario).

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Sul piano degli equilibri politici nella regione, l’Ucraina si trova nella tipica posizione "di mezzo", legata a doppio filo con la Russia da una parte, e dall’altra attratta dall’integrazione europea e dai dollari americani. La borghesia ucraina, non potendo aspirare ad una autonomia nello scacchiere imperialistico, è divisa sul da farsi: mantenere e stringere legami più solidi con Mosca o gettarsi nelle braccia dell’Occidente.

Ma negli ultimi mesi per la classe dominante ucraina è diventato sempre più difficile rimanere in questa situazione di incertezza per le pressioni sia della Russia sia della Unione Europea a che il governo ucraino "scelga" quale cammino intraprendere.

La proposta di istituzione della Zona di Libero Scambio tra i paesi della CSI ha fatto nascere un’accesa discussione sia dentro sia fuori del parlamento, tanto all’interno dei partiti quanto tra gli schieramenti politici. Nel governo i Ministri dell’Economia e dell’Integrazione Europea, dell’Industria, degli Esteri e della Giustizia sono stati estremamente critici sul progetto. Il Ministro dell’Economia e dell’Integrazione Europea Valery Khoroshkovsky, in particolare, ha fatto notare come lo spazio economico comune sarebbe di fatto controllato dalla Russia perché la percentuale di voti vi si determinerebbe dalla quota sul PIL totale della zona: la Russia da sola avrà l’85% dei voti, l’Ucraina il 10%. Con il presidente Kuchma, favorevole, si schierano invece i partiti che lo sostengono (il partito Socialdemocratico ha persino proceduto all’espulsione di tutti i suoi dirigenti che non erano a favore della Zona di Libero Scambio), i Socialisti ed i "Comunisti", i cui elettorati sono totalmente favorevoli all’accordo con gli altri paesi della CIS. I partiti di centrodestra Nostra Ucraina ed il Partito della "miliardaria" Yulia Tymoshenko si sono dichiarati contrari, perché l’adesione alla Zona con Russia, Bielorussia ed Kazakhistan imporrebbe una seria ipoteca sulla futura adesione all’Unione Europea.

Il summit annuale tra Unione Europea ed Ucraina, tenutosi il 7 ottobre a Yalta, è stato caratterizzato da forti tensioni. Kuchma ha rinfacciato alla delegazione, guidata da Romano Prodi e Silvio Berlusconi, di non volere veramente l’adesione del suo paese all’Unione Europea, di «lasciarlo deliberatamente fuori dalla porta». Al paese è stato proposto l’ingresso nella Unione a "solo" due condizioni: che le riforme continuino a ritmo sostenuto e che l’Ucraina non partecipi alla Zona di Libero Scambio con i russi.

In realtà il paese ha fino ad ora totalmente fallito gli obbiettivi del programma 2000-2007 per l’integrazione europea, che prevedeva nella prima parte (2000-2001) che l’Ucraina sarebbe entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (il che ancora non si è avuto); nella seconda parte (2002-2003) che sarebbe dovuta diventare un "membro associato" dell’Unione, firmando un accordo di libero commercio; nel terzo ed ultimo stadio dell’accordo (2004-2007) l’Ucraina avrebbe tenuto dei negoziati per la piena adesione.

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Quello che vediamo in questi giorni in Ucraina è il film già girato nella ex Iugoslavia e nel Caucaso.

È evidente che queste elezioni hanno un interesse che va ben oltre i confini ucraini. Una dimostrazione l’abbiamo avuta dall’immediatezza e fermezza dei commenti arrivati da più parti. Vladimir Putin non ha perso tempo e già prima dell’annuncio ufficiale si è congratulato, dal Brasile, con Viktor Yanukovic per la sua "vittoria" nella corsa alla poltrona di capo dello Stato. L’Unione Europea invece non ritiene che le elezioni presidenziali in Ucraina abbiano rispettato gli "standard internazionali" e per questo solleciterà Kiev a rivedere procedura e risultati. Ad annunciarlo è stato il ministro degli Esteri olandese Bernard Bot, presidente di turno dell’Unione Europea. Ciascuno dei 25 Stati membri convocherà l’ambasciatore dell’Ucraina per esprimere "preoccupazione" per l’esito della consultazione. L’inviato del presidente americano George W. Bush, il senatore Richard Lugar, ha denunciato frodi commesse con la complicità del potere: «È evidente che c’è stato un programma concertato ed energico di frodi e abusi messo in atto con la cooperazione delle autorità», ha detto. L’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha giudicato "non democratico" lo svolgimento del secondo turno delle elezioni ucraine.

Come si vede attori dietro le quinte sono le potenti centrali capitalistiche che, spinte dalla crisi economica, affilano le unghie per accaparrarsi quote di mercato e di materie prime e posizioni strategiche in vista del prossimo macello mondiale.

Anche negli anni passati avevamo assistito ad "interessamenti esterni" alla politica Ucraina. Un esempio: l’11 dicembre 2003 il parlamento ucraino aveva decretato la formazione di una commissione d’inchiesta speciale per fare luce su alcuni finanziamenti occidentali ad "organizzazioni non governative" e "mass media indipendenti" operanti sul territorio nazionale. La risoluzione che dava nascita alla commissione denunciava come tali finanziamenti esterni avessero raggiunto "proporzioni di massa" tanto da far sospettare "dirette interferenze negli affari interni del paese" in relazione alle future elezioni presidenziali. Nell’elenco dei maggiori contribuenti e dei principali "sostenitori" della "società civile ucraina" risulterebbero gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea, che avrebbero anche finanziato i più importanti organi d’informazione dell’Ucraina

Nella parte orientale del paese è previsto un referendum sull’autonomia il 19 gennaio. Il governatore della provincia di Donetsk, principale regione industriale del Paese, ha come obbiettivo la creazione di una Repubblica all’interno dell’Ucraina, che diventerebbe quindi una sorta di Stato federale. Kuchma, riferendosi all’integrità territoriale del Paese, ha dichiarato «la mia posizione è che non possiamo permettere la divisione dell’Ucraina. Coloro che reclamano l’autonomia debbono sapere che si stanno assumendo una grande responsabilità di fronte al popolo». Il presidente uscente ha peraltro imputato alle province occidentali, e al loro rifiuto di riconoscere la vittoria di Yanukovich, la reazione centrifuga di quelle orientali. «È stato l’ovest del Paese che ha dato inizio a tutto», ha denunciato, ricordando come tre di quelle province rifiutino ormai il controllo del potere centrale. «Hanno smesso di pagare il gas, l’elettricità e il carbone», ha proseguito, «chi è dunque che sta tentando di mettere in ginocchio chi?».

L’Ucraina ha in Iraq un contingente di 1.600 uomini, il quarto della coalizione dopo Usa, Gran Bretagna e Italia. Sulla presenza del contingente ucraino in Iraq, avversata da gran parte della popolazione, si sono trovati d’accordo, in campagna elettorale, il "premier" Yanukovich e lo "sfidante" Yuschenko!

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Al proletariato ucraino nulla deve importare di queste diatribe fra borghesie e fra imperialismi, schieramenti opposti tra loro ma saldamente uniti contro di esso. Il capitalismo ha le sue regole, che valgono sia per la Russia sia per il cosiddetto "Occidente"; unico è lo sfruttamento del proletariato. I lavoratori anche in Ucraina dovranno riprendere la loro strada di classe che, sul terreno dell’azione, oggi consiste nel dotarsi di organismi di difesa e di lotta per ottenere condizioni di salario e di lavoro migliori, su quello politico nel rintracciare nel loro Partito la sua autentica tradizione comunista.
 
 
 
 
 
 


La giustizia per gli affondati del venerdì santo

Il 3 maggio 1999 al tribunale di Brindisi si apriva il processo sulla "strage del Venerdì Santo", l’affondamento il 28 marzo 1997 nel Canale d’Otranto da parte dell’unità navale italiana Sibilla di un natante albanese, il Kater I Rades, con la morte per annegamento di 86 vittime accertate; indagati per omicidio colposo e naufragio colposo oltre ai comandanti delle imbarcazioni, diversi quadri dirigenti della Marina Militare.

Il 20 dicembre scorso, dopo una lunga istruttoria ostacolata da non pochi accidenti procedurali, fra cui la dichiarazione di nullità, nell’ottobre del 2000, del decreto di citazione, la pubblica accusa è giunta alle sue conclusioni e richiede le condanne. Si chiede per il comandante della corvetta Sibilla 6 anni di reclusione per omicidio colposo plurimo, mentre per il comandante albanese del dragamine, rubato ed usato dal "racket dei clandestini", 4 anni per naufragio colposo. Nel corso del dibattimento con l’archiviazione della pratica erano state risparmiate le figure "eccellenti" quali l’ammiraglio capo di allora del Dipartimento Marittimo dell’Alto Ionio e del Canale d’Otranto e altri pezzi grossi con le stellette.

Nel 1997 la turbolenta crisi sociale albanese era esplosa con lo scandalo delle finanziarie-fantasma che, appoggiate dal Partito Democratico guidato da Berisha, avevano impoverito ancora di più la popolazione, che di lì a poco insorse. I lavori di Partito pubblicati sulla nostra stampa nel 1997 studiarono quelle dinamiche. Il flusso migratorio verso le coste italiane non si era mai interrotto in quegli anni, ma la particolare situazione insurrezionale portò la metropoli italiana da un lato ad una intransigenza nel respingere le imbarcazioni di emigranti, dall’altro ad occupare militarmente il territorio albanese con la solita scusa della spedizione pacifista-umanitaria: la missione "Alba". Il governo italiano allora di centro-sinistra, guidato dal Prof. Romano Prodi, sulla linea storica dell’imperialismo italiano aveva chiara l’intenzione di mantenere a tutti i costi una forte influenza in Albania per assicurarsi una testa di ponte nei Balcani, considerati una necessaria sfera di influenza. Oggi si parla di quella direttrice come di "Corridoio n. 8" e su qualunque pagina economica di giornale italiano si può leggere degli investimenti operati dai capitalisti del Belpaese in Albania o in Romania, chiari segnali di una presenza economica forte in quelle zone.

La strage del Venerdì Santo maturò in quel contesto. Gli atti processuali hanno portato alla luce che nelle acque a largo dell’isola di Seseno il natante albanese fu dapprima avvicinato dalla nave Zeffiro, ma, ignorate le istruzioni, venne poi affiancato dalla corvetta Sibilla. Secondo testimoni il comandante italiano seguì le direttive che erano impartite via-radio e, come azione di contrasto dissuasiva, considerata la tenacia degli albanesi a sfuggire al blocco e scaricare il carico umano sulla costa pugliese, fu alla fine ordinato di lanciare una cima di acciaio contro le eliche della Kater I Rades per bloccarla, un’azione ostile tipica del combattimento e ovviamente contraria al diritto di navigazione internazionale. La collisione fu inevitabile e il natante albanese, colato a picco col suo carico umano, si inabissò ad una profondità di 800 metri. A rendere più cupi i toni della tragedia il fatto che i corpi di 82 profughi, in gran parte donne e bambini, furono recuperati solo ad ottobre, cioè 7 mesi dopo, anche grazie all’ausilio di una grossa nave oceanica.

Se vogliamo scendere sul terreno giuridico, appare fin troppo chiaro che la richiesta di condanna solamente per i comandanti delle navi fa di costoro i capri espiatori di un sistema che vede ben più in alto i veri responsabili, se di responsabilità di persone un marxista possa mai parlare. Indipendentemente dal nome-e-cognome dell’agente borghese che guida un governo, un ministero, un dipartimento militare o una nave da guerra, la valenza criminale è del sistema imperialistico a cui le avventure militari e le politiche migratorie sono riconducibili.

Non sappiamo ancora se il processo di Brindisi si concluderà e in quale modo. E nemmeno ci interessa. La possibile riforma alla legge sui termini di prescrizione dei reati, la cosiddetta "salva-Previti", potrebbe scolorare il nome degli indagati dai registri della procura. Il triste caso del Venerdì Santo del 1997, e di tutti gli altri che si consumano nella segretezza, potrà ricevere giustizia non nelle aule dei Tribunali borghesi ma solo con la Rivoluzione proletaria, forcipe della società comunista.
 
 
 
 
 


Due scioperi

A cavallo fra novembre e dicembre in Italia vi sono stati tre differenti scioperi con rispettive manifestazioni.

Il 30 lo sciopero generale dei tre sindacati patriottici e "tricolore", appellativi che confermano di meritarsi in pieno e che, del resto, non negano e di cui vanno fieri. Nel 2002 fu la volta dello "sciopero per l’Italia", nel 2003 "contro il declino del paese", oggi contro la finanziaria, in quanto "non serve all’economia del paese".

I confederali hanno chiamato i lavoratori allo sciopero per le seguenti rivendicazioni:
- In difesa della concertazione e, in particolare, dell’accordo del 27 luglio ’93. Il suo abbandono da parte del governo avrebbe causato la perdita del potere d’acquisto dei salari in corrispondenza all’introduzione dell’Euro. Questo è vero; come è vero che la triplice non ha fatto e non fa nulla per opporsi a questa situazione, si guarda bene dal mobilitare seriamente i lavoratori e nel contempo profonde energie per soffocare ogni lotta spontanea isolandola ciascuna nella propria galera aziendale. Ammesso che con l’accordo del ’93 i salari fossero rimasti invariati, tornando oggi alla concertazione il risultato sarebbe, quanto meno, di dare per persa la ragguardevole parte del salario decurtata in questi tre ultimi anni. Ma anche ciò è falso, perché tutti sanno che i salari hanno cominciato a discendere fin dal ’93, grazie, com’era scontato, ai "tassi d’inflazione programmata" fissati al ribasso ed alla "flessibilità" contrattuale introdotta col pieno consenso di Cgil-Cisl e Uil.
- Contro la Legge 30, accordata dagli stessi sindacatoni a livello aziendale e di categoria e figlia benemerita della Legge Treu, da essi avallata.
- In difesa della Riforma Dini, che ha dato la prima fondamentale mazzata alle pensioni e promesso ai giovani una vecchiaia da mendicanti.

Lo sciopero, benché non certo nella misura dei proclami ufficiali, ha avuto un largo seguito. Avevano dato disposizione di sciopero per quel giorno anche le varie sigle del sindacalismo di opposizione, Cub-RdB esclusa.

Il giorno dopo, il primo dicembre, il Coordinamento dei Sindacati di Base ha proclamato lo sciopero nazionale degli autoferrotranvieri, della cui vicenda si riferisce in altro articolo su questo numero, con manifestazione a Milano organizzata dal locale Slai-CoBas. Il corteo era composto da una minoranza esigua di tranvieri, militanti dello Slai-CoBas dell’Atm milanese e pochi provenienti da alcune città, da militanti dello Slai-CoBas dell’Alfa di Arese, da giovani dei centri sociali. In tutto circa duecento persone per una manifestazione ai minimi termini.

Infine, ancora due giorni dopo, il tre dicembre c’è stato lo sciopero generale proclamato solo dalla Cub-RdB e dall’Usi con due cortei, uno a Milano e l’altro a Napoli. La sua riuscita è stata molto limitata, con scarsa partecipazione (circa tremila manifestanti a Milano), troppo gonfiata nelle dichiarazioni della Cub, secondo il costume tipico dei sindacati confederali. Lo sciopero pare abbia avuto qualche adesione solo nei posti di lavoro dove la Cub-RdB è presente.

Si pone la questione del corretto significato dell’azione di sciopero, arma fondamentale nella lotta di classe fra salariati e capitale.

La spontanea reazione dei lavoratori contro lo sfruttamento è il motore di tutto, nel senso che né alcuna Cub potrà mai costringere i lavoratori a scioperare quando non ne hanno la forza, né alcuna Cgil potrà mai impedire che questi scioperino, sebbene in modo disorganizzato e poco efficace, quando ne sentano la necessità. Non basta quindi "dichiarare" degli scioperi, anche se su obiettivi giusti e sacrosanti. È possibile "organizzare" solo qualcosa che già esiste, ed è in tal caso che l’inquadramento e l’indirizzo del sindacato viene a costituire un fattore indispensabile di ulteriore sviluppo della lotta.

La questione poi si complica per la ingombrante presenza del sindacalismo che noi chiamiamo di regime, e comunque asservito agli interessi del profitto, della classe padronale e sottomesso al suo Stato. Oltre alle difficoltà del rapporto fra organizzatori sindacali e lavoratori si pone quella con questo sempre presente "terzo incomodo".

Il sindacalismo "ufficiale" si adopera a tenere a freno ogni ribellione operaia grazie anche alle protezioni che gli concede il regime, che vanno dal finanziamento statale, alla difesa delle sue leggi, alla propaganda dei media borghesi. Ma non solo: per poter prestare la sua funzione di tradimento, il sindacalismo "concertativo" deve svolgere anche una certa funzione "corporativa", di Ufficio borghese del lavoro, una "mediazione", un "caporalato" necessario all’ordinato svolgimento del "mercato della forza lavoro".

Il sindacalismo "ufficiale" è saldamente radicato nei luoghi di lavoro, dove si fa forte del riconoscimento del padrone a rappresentante del personale e dove gode di norme contrattuali e legali che gli garantiscono la maggioranza in quegli organi di cogestione che sono le RSU. Per le infinite piccole vertenze aziendali è inevitabile che i dipendenti si rivolgano al "sindacato che c’è", e che dispone delle mille forme di corruzione che vanno dalla disponibilità di locali aziendali, ai diritti di riunione in orario di lavoro, ai permessi retribuiti, ai distacchi, ecc.

Costantemente, sia a scala aziendale sia generale, i lavoratori sentono il bisogno di una loro organizzazione difensiva, per una ineliminabile necessità economica in questa società: per impedire che se ne diano una vera e combattiva la borghesia ha procurato di fornir loro un "suo" di sindacato, un sindacato "geneticamente modificato", ispirato e fedele ai principi del capitalismo. Quando, dalle profondità del sottosuolo sociale, scaturisce la disponibilità operaia alla lotta, che preme e minaccia di straripare, ecco che appaiono i sindacalisti-funzionari, che non possono certo far regredire la piena ma che quasi sempre riescono ad incanalarla nelle sponde del sindacalismo di regime, per lasciarla stemperare e ridurne gli effetti al minimo.

Esempio attuale: per il giorno 3 dicembre la Cub aveva già indetto lo sciopero; certo, se non fosse stato "anticipato" dai Confederali, molti lavoratori (che in maggioranza, ricordiamolo, non sono iscritti ad alcun sindacato) avrebbero scioperato il giorno 3, "con la Cub".

Il malumore per gli atteggiamenti provocatori del Governo, contro la Legge 30 e contro l’ulteriore peggioramento delle pensioni rispetto alla Riforma Dini è reale e diffuso fra i lavoratori, malumore che è la sana e, diremmo, automatica reazione della classe al martellamento cui è sottoposta. Questi sentimenti proletari che maturano avrebbero portato comunque a forme di protesta, prima sporadiche poi sempre più generali. È solo a questo punto che i grandi capi confederali si ricordano delle miserevoli condizioni in cui loro stessi, daccordo col padronato, li hanno ridotti; e allora, con gran pompa, "proclamano" lo sciopero generale.

Non sempre la manovra riesce. Per il marcire delle contraddizioni della economia capitalistica, mentre quel canale era ben largo e capace nei tempi della euforia produttiva e "consumistica", e c’era spazio per dar sfogo ad alcune delle richieste del movimento operaio, ora, nella crisi, diventa sempre più stretto e la classe operaia sta sperimentando, da alcuni decenni ormai, quanto quella sponda sindacale sia rigida e in niente adattabile alle sue richieste. Quando il sindacato di regime si trova costretto fra l’intransigenza operaia e la non "compatibilità" delle sue richieste con le necessità del capitale, quelle sponde si vede che mai cedono alla pressione e si chiudono a sbarramento. Il caso dei tranvieri ne è prova recente, coi sindacalisti ad organizzare il crumiraggio ed i lavoratori costretti a mettersi fuori e contro della Triplice.

Perché i lavoratori hanno scioperato il 30, su una piattaforma che è solo un orribile imbroglio demagogico, e non il 3, su delle rivendicazioni comprensibili, coerenti e giuste? Perché scegliendo il giorno indicato dai sindacatacci, borghesi, di Stato, ecc. ecc., il loro sciopero aveva molte più possibilità di riuscita e di generalità che scioperando con la Cub. Poi perché è chiaro che la strada indicata dal sindacalismo "ufficiale", seppure dia risultati assai modesti, è molto meno costosa di quella della lotta ad oltranza che richiede grande impegno di energie e in prima persona e, come i tranvieri stanno sperimentando, l’isolamento e la repressione aziendale e statale.

Uno sciopero, prima di tutto, non è un fatto ideologico, come, per esempio, andare a votare, o la domenica in chiesa o ad una riunione di anarchici o di un partito, ma azione economica di classe: i venditori-monopolizzatori della forza lavoro si rifiutano di venderla. È una forma di trattativa commerciale, la cui limitazione per legge da parte della borghesia è un’altra conferma della inconsistenza delle sue santificate norme. E sul mercato contano i numeri: uno sciopero riesce nella misura in cui le fabbriche si fermano, come ogni padrone può animosamente spiegare.

Solo dopo e sopra di esso possono venire a porsi dei significati e degli indirizzi non immediatamente economici e contingenti e il movimento può così farsi sostegno, a gradi di sentimenti e di coscienza diversi, di una prospettiva più grande e di un programma generale. Questo indirizzo, questa politica sindacale, in fin dei conti, può o iscriversi rigidamente all’interno del capitalismo, e quindi mostrarsi "riformista", "responsabile" e "concertativa", oppure rifiutare la "compatibilità" a-priori con il capitalismo, e assumere liberamente ogni atteggiamento che sia necessario alla migliore difesa operaia.

Un passo ulteriore è quando questa difesa della classe all’interno del mercato capitalistico, in dati momenti storici e congiunta alla coscienza storica del partito comunista, viene a realizzarsi nella dittatura del proletariato, nell’attacco al potere politico del capitale e nella distruzione del mercato.

Per come funziona il meccanismo, quindi, possiamo con sicurezza ripetere che uno sciopero dei confederali che riesce è uno sciopero che va contro i confederali. La spiegazione dell’apparente paradosso sta nell’espressione "dei confederali", che è equivoca.

Per concludere: scioperi come quello del 3 dicembre non recano danno al padronato, non rafforzano la classe e non sono produttivi in termini di propaganda, piuttosto rischiano di logorare e demoralizzare chi li fa. Meglio sarebbe lasciar perdere simili velleitarismi e dedicare le scarse energie di cui si dispone all’opera organizzativa e di propaganda sui posti di lavoro, che sicuramente è migliorabile in quantità e qualità. In una fase come l’attuale questo è un lavoro ben più produttivo che darsi a "scioperi di testimonianza".

Latitando la spinta della classe, era ovvio scioperare nello stesso giorno dei confederali. Ci si è invece di dati, ancora una volta, al crumiraggio, a meno che non si voglia sostenere che la maggioranza degli scioperanti il 30 lo facesse con intenzioni anti-operaie!

Tiboni, coordinatore nazionale della Cub, nelle riunioni preparatorie allo sciopero, giustificava la strategia di proclamare scioperi separatamente dalla Cgil come via migliore, nel lungo periodo, per "differenziarsi" dai Confederali agli occhi dei lavoratori. Intanto, una sciopero non è "nel lungo periodo" ma qui ed ora e qui ed ora i lavoratori vincono o perdono, e giudicano. Si rischia di "differenziarsi" sì, ma in peggio. Questo avrebbe senso nel momento in cui il sindacalismo di base avesse già raggiunto una tal massa critica dall’essere ben più visibile ed incisivo di quanto è adesso, oppure in presenza di un’alta combattività della classe che chieda di farlo.

Ciò sicuramente avverrà. Ma fintanto la presenza del sindacalismo di base sarà limitata ad una minoranza dei posti di lavoro e ristagni la lotta sarebbe assai meglio partecipare ai cortei della Triplice con propri spezzoni ben caratterizzati e visibili, concentrandosi semmai in una o due città per raggiungere una massa adeguata, e adoperarsi in una massiccia opera di propaganda all’interno del corteo. Le possibilità di propaganda sarebbero ben maggiori e si eviterebbe lo scoramento per manifestazioni ultraminoritarie in niente connaturate alla tradizione operaia. Occorre cercare il confronto personale, faccia a faccia con gli altri lavoratori, se non certo con la massa dei bonzi e funzionari. Solo il confronto con l’avversario può dare compattezza ed entusiasmo.
 
 
 
 
 
 

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A cento anni dal primo sciopero generale in Italia

In Italia, all’inizio del nuovo secolo, con l’avvento dei ministeri liberali, la situazione per il movimento proletario avrebbe dovuto cambiare radicalmente. Il governo Zanardelli-Giolitti si era infatti precipitato a dichiarare la neutralità dello Stato nei confronti dei conflitti di lavoro.

L’organizzazione proletaria in quegli anni era in pieno sviluppo, che non sarebbe stato possibile arrestare con la semplice repressione. La borghesia italiana, nella sua parte più lungimirante, impersonata appunto da Zanardelli e da Giolitti, capiva che all’arma della repressione brutale era necessario affiancare una politica riformista e democratica.

Tredici erano state le Camere del Lavoro che avevano preso parte al congresso della Federazione nel 1900, nel 1901 erano divenute 57. Particolarmente si osservava che le Leghe dei braccianti si andavano «rapidamente assorellando a quelle degli operai», non soltanto nel campo sentimentale, ma anche in quello dell’organizzazione. Il Congresso delle Camere del Lavoro di Reggio Emilia (1901) poteva con gioia constatare che circa tre quarti delle Leghe della Federazione Nazionale dei Lavoratori della Terra erano diventate sezioni di Camere del Lavoro «senza che queste ultime avessero avuto bisogno di alterare in alcuna maniera il loro programma che aveva formato la coscienza di classe di oltre 300 mila lavoratori».

Nel corso dell’anno 1900 gli scioperi erano stati 410 con circa 80 mila scioperanti. Nel 1901 salirono a 1671 con 400 mila scioperanti. Queste lotte proletarie si caratterizzarono per il prevalere degli scioperi di miglioramenti su quelli a carattere difensivo, per il prolungarsi della loro durata ed infine per la forte diminuzione del numero delle lotte terminate con esito sfavorevole nei confronti dei lavoratori.

La politica dei governi liberali, aspramente attaccata dalla classe padronale che rimpiangeva i sistemi sbrigativi del Bava Beccaris e del Pelloux, non tardò, sfortunatamente, di produrre i suoi frutti. Il Partito Socialista accettò con favore la mano tesagli dal potere e, in nome della libertà di organizzazione e della proclamazione del diritto di sciopero, accettò di annacquare la lotta di classe.

Già nel 1902 si segnalava una inversione di tendenza con una sensibile diminuzione sia della combattività sia della forza del proletariato. Se nel 1901 vi erano stati 1.042 scioperi nell’industria, nel 1902 scesero a 810. Aumentò anche di molto il numero degli scioperi conclusisi con esito negativo per gli operai: dal 29% del 1901 si passò al 54% nel 1902. Inoltre, agli scioperi proclamati per ottenere miglioramenti salariali e diminuzione dell’orario di lavoro si sostituirono quelli difensivi proclamati per opporsi ad una diminuzione del salario e ad un aumento delle ore di lavoro. Tendenza questa che proseguirà anche negli anni successivi.

Un tentativo di sciopero generale a Torino, provocato dai gasisti, e uno a Firenze, dei fonditori, ebbero esito negativo. A Torino il governo sostituì i gasisti scioperanti con i soldati.

L’agitazione dei ferrovieri, iniziata alla fine del 1901, venne presa a pretesto per dichiarare l’inammissibilità del diritto di sciopero nei servizi pubblici, come sancì un comunicato ministeriale del 25 gennaio 1902, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. La decisione, se non caldeggiata, come molti sostengono, non venne certo avversata dal gruppo parlamentare socialista, ed il 24 febbraio i ferrovieri furono militarizzati. Nel frattempo le Società Ferroviarie chiudevano le trattative respingendo quasi tutte le richieste avanzate dai sindacati ferrovieri. Fu a quel punto che il governo Zanardelli, a voler dimostrare i vantaggi derivanti dalla "tutela" dello Stato, intervenne in proprio ed accolse, a sue spese, tutte le richieste.

Il gruppo dirigente del Partito Socialista e l’Avanti! presentarono tutto ciò come una grande vittoria dei lavoratori, quando, in effetti, in cambio di qualche vantaggio immediato, ai ferrovieri era stata tolta la libertà di sciopero.

Questo a dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che la politica demo-liberale, ieri ed oggi, può differire nei mezzi dalla politica brutalmente reazionaria, ma non certo nel fine che, per l’una e per l’altra, rimaneva e rimane la difesa del sistema capitalistico. Non a caso, già venti anni prima Zanardelli aveva affermato: «Noi non vogliamo fare come il trappista che passa il suo tempo a scavare la propria fossa». La sostanza della "svolta" liberale era concedere al proletariato quel tanto di libertà e di vantaggi economici che potessero costituire una valvola di sfogo alla lotta di classe a salvaguardia del sistema.

A questo scopo, già nel 1890 nel suo famoso codice, lo Zanardelli, non contento di minacciare «chi costringe gli animali a fatiche eccessive» (art.491), castigava con la reclusione da 12 a 20 anni «chiunque riduce una persona in condizione analoga alla schiavitù» (art.145). A quell’epoca i socialisti non mancarono di ridicolizzare il liberale codice zanardelliano. A proposito dell’art.145, Turati aveva scritto: «Un articolo – come ognuno sa – che viene applicato ogni altro giorno a quei padroni che, profittando della fame e della forzata disoccupazione operaia, costringono persino le donne, i vecchi e i fanciulletti, per pochi soldi, a sedici ore di malsano opificio, e, giudici e parti ed aguzzini della causa propria, rubano loro il salario della giornata o della settimana, tempestandoli di multe per ogni minuto di ritardo, per ogni occhiata, per ogni parola, non permessa dai regolamenti ch’essi stessi hanno emanati nei dominî loro». E Leonida Bissolati definiva il codice, da molti presentato come «la deduzione e la condensazione della sociologia liberale», niente altro che «un’opera di rinforzo ai fortilizi già formidabilmente eretti intorno all’arca santa della proprietà» e lo Zanardelli «un buon servidorello che non ha fatto altro che provvedere agli interessi egoistici di una classe la cui esistenza costituisce il più grande ostacolo allo svolgersi del progresso umano e della giustizia» (Critica Sociale, n.1, gennaio ’91).

Appena dieci anni dopo quegli stessi socialisti aderivano e plaudivano alla democrazia di quel "servidorello", alla sua dichiarazione di illegalità dello sciopero nei pubblici servizi e alla militarizzazione dei ferrovieri, mentre il governo rispondeva col piombo ai lavoratori in sciopero. Perché liberalismo non significa affatto disarmo da parte della borghesia, e questo è ampiamente dimostrato dal numero di eccidi di lavoratori che si verificarono dal 1901 al 1904: a Berra (due morti), Patugnano (un morto), Cassano (un morto), Candela (cinque morti, nell’occasione il brigadiere dei carabinieri che aveva ordinato il fuoco venne insignito della medaglia d’argento), Giarratana (due morti), Petacciano (tre morti), ancora Candela (un morto), Galatina (due morti), Camaiore (tre morti), Torre Annunziata (sette morti), Cerignola (cinque morti), Buggerru (tre morti), Castelluzzo (un morto), Sestri Ponente (due morti)... La ricorrenza degli eccidi proletari durante gli scioperi derivavano dalle precise direttive impartite da Giolitti ai prefetti.

Fu l’eccidio di Buggerru quello che determinò lo sciopero generale nazionale del 1904.

Tragiche erano le condizioni di vita dei minatori di Sardegna, il salario giornaliero, che nel 1898 era di lire 2,98, nel 1904 era sceso ed oscillava tra un massimo di 2,45 ed un minimo di 2,07; le donne percepivano 1,11 ed i ragazzi 80 centesimi. Era un salario inferiore del 35-40% ai corrispondenti salari della manodopera delle miniere del continente. Un chilo di pane costava 34 centesimi, un chilo di pasta 55, un litro di olio 1 lira e 25, un litro di vino 30 centesimi.

Per rendere ancora più disperata la condizione dei minatori sardi alla estrema miseria dei salari si aggiungeva il monopolio della Società mineraria dei generi di sussistenza attraverso il sistema delle "cantine". L’esercente della cantina registrava in un libro gli acquisti del minatore al quale venivano detratti direttamente dal salario. Poiché le paghe venivano corrisposte ogni 40, 70 od anche 100 giorni, il minatore non vedeva mai del denaro perché il suo salario era già stato assorbito per intero dalla cantina.

Per quanto riguarda le condizioni di lavoro basti solo ricordare che i turni non erano inferiori alle nove ore; non esisteva giorno di riposo settimanale; non esistevano contratti di lavoro; le assunzioni venivano effettuate tramite "impresari" che avevano potere di licenziare, infliggere multe e punire i lavoratori. Non esisteva preavviso di licenziamento o liquidazione. I minatori avevano l’obbligo di provvedere a loro spese all’acquisto degli strumenti di lavoro e perfino dell’olio per la lampada. Tutto in paese apparteneva alla Società mineraria: i terreni, le baracche, lo spaccio, la scuola, la chiesa e perfino il cimitero. Non erano contemplate né cure mediche né permessi per motivi di salute, gli addetti alla miniera venivano stroncati nel lavoro dalle malattie tra le quali le più diffuse erano la tubercolosi e la polmonite.

Nel 1903 era stato attuato, per la prima volta, uno sciopero imponente e compatto di 1.200 minatori ed in vari centri erano sorte le Leghe. Nel 1904 si ebbero 9 scioperi con 4.524 scioperanti. I minatori chiedevano aumenti salariali e lottavano contro la minaccia di aumenti di orario. In risposta la Società diminuì di un’ora l’intervallo tra il lavoro antimeridiano e quello pomeridiano, minacciando di licenziamento chi non avesse osservato il nuovo orario. Immediato scoppiò lo sciopero che, accanto alla protesta contro l’aumento di orario, ripresentò le rivendicazioni più volte avanzate: contratto di lavoro, ufficio di collocamento, riposo festivo e cassa pensione. Il 4 settembre, mentre circa 2 mila minatori erano radunati davanti alla direzione per seguire l’andamento e l’esito delle trattative, drappelli di carabinieri e due compagnie di soldati occupavano il villaggio di Buggerru. Alle proteste della folla, i soldati risposero facendo fuoco: dieci furono i minatori rimasti a terra, tre dei quali nella notte morirono. Un mese dopo moriva un quarto operaio ferito.

La classe lavoratrice, da un capo all’altro della penisola, sentì nelle proprie carni il piombo delle fucilate di Buggerru: dai grandi centri industriali ai piccoli villaggi contadini immediata e spontanea fu la reazione, ovunque vi furono assemblee, comizi, manifestazioni.

L’istinto di lotta e la determinazione di non indietreggiare di fronte all’offensiva padronale espressi dal proletariato e dai contadini si trovavano però ad essere frenati dai metodi pompieristici dei dirigenti riformisti, che si limitavano alle interpellanze parlamentari, ed infrenati dal velleitarismo inconcludente dei sindacalisti rivoluzionari.

Praticamente il proletariato fu costretto a fare da solo. In un comizio, a Monza, la massa dei partecipanti impose che si affermasse che, qualora si fosse verificato un nuovo eccidio, doveva intendersi già deliberato lo sciopero generale, da attuarsi automaticamente.

L’agitazione ed il fermento proletario erano in una fase crescente quando, il 15 settembre, giunse la notizia che a Castelluzzo, presso Trapani, durante uno sciopero di braccianti, era stato ancora una volta versato sangue proletario. Lo sciopero generale scoppiò da sé. Alle 17, appena giunta la notizia della repressione di Castelluzzo, 5.000 operai delle industrie di Monza abbandonarono immediatamente il lavoro; alle 22 la Camera del Lavoro di Milano proclamava lo sciopero generale per il giorno successivo.

La Direzione del Partito Socialista ebbe la fortuna di non avere fatto a tempo a pubblicare una sua delibera, che poi non fu mai resa nota, in cui sconfessava la proclamazione dello sciopero. Comunque, coerente con la sua politica collaborazionista, il Partito Socialista non mosse un dito né per organizzare lo sciopero, né per condurlo ad un esito positivo. Al congresso di Bologna, nell’aprile, dove il riformismo risultò il vero vincitore, era stato apertamente dichiarata l’intenzione di collaborare con il governo Giolitti. Senza mezzi termini Bissolati aveva affermato che continuare a considerare il governo come «il Comitato degli interessi della borghesia» significava svalutare l’incidenza del socialismo nella lotta politica, privandosi della possibilità di «giovarsi di un determinato indirizzo di governo». Bissolati aveva incitato il partito a «dare tutto il suo appoggio a indirizzi di governo i quali offrano sufficiente affidamento di favorire la conquista da parte del proletariato, di quelle riforme, ond’esso, in un determinato periodo, ha più urgente bisogno».

Il proletariato non fu dello stesso avviso. Sin dalla mattina del 16 all’Arena di Milano i circa 40 mila lavoratori che erano intervenuti al comizio acclamarono lo sciopero generale a tempo indeterminato. Monza era già ferma, Milano si fermò. Gravi incidenti avvennero al centro industriale di Sestri Ponente. Si fermarono pure Genova, Torino, Fabriano. Il giorno 17 lo sciopero si propagò a Venezia, Firenze, Ancona, Piombino, Terni, Roma, Napoli. Nei giorni successivi, fino al 21, lo sciopero continuò a dilagare verso Sud estendendosi dalle Puglie alla Sicilia. A Genova furono inviate tre navi da guerra; altre due navi da guerra presero la direzione di Napoli dove già erano stati acquartierati due reggimenti di cavalleria.

Incidenti si verificarono in varie città, ma in generale di poco conto perché il governo aveva imposto alla polizia ed all’esercito un comportamento moderato e, soprattutto, non provocatorio. Ci fu perfino chi parlò di abdicazione da parte del potere e scrisse che «sembrava che il primo ad obbedire allo sciopero generale fosse stato il governo, che aveva disertato le sue funzioni (...) La forza pubblica era scomparsa, i carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza erano stati ritirati, i portoni delle questure e delle caserme chiusi».

Sta di fatto che l’erede al Trono, il principe Umberto, fu costretto a nascere nel silenzio, quasi in clandestinità a Racconigi. Il popolo monarchico non trovò posto per le manifestazioni di giubilo per il "fausto evento": le piazze d’Italia erano tutte in mano al proletariato.

Giolitti motivò la sua decisione di non fare uso della repressione armata in questi termini: «Ho costantemente sostenuto (...) la libertà assoluta di sciopero e il dovere del governo di non intervenire nei pacifici conflitti tra capitale e lavoro (...) Non essendo lecito supporre che io voglia con insane violenze compromettere un così splendido risultato [Giolitti si riferiva alla collaborazione del Partito Socialista con il governo – n.d.r.] necessita di raccomandare la calma e di evitare che deplorevoli violenze compromettano la causa della libertà così indispensabile al benessere e al progresso materiale e morale delle classi popolari» (Telegramma inviato al Sindaco di Torino e pubblicato nei giorni seguenti su La Stampa).

Ma in modo ancor più chiaro, e con argomentazioni materialistiche, Giolitti si espresse, nel 1905, alla Camera: «Noi siamo in un periodo di trasformazione sociale, non soltanto in Italia ma in tutto il mondo. In tutto il mondo le ultime classi sociali vogliono prendere il loro posto al sole, vogliono vivere meglio, vogliono migliorare le loro condizioni economiche, ed è questo il grande problema. Come il terzo stato è venuto su a prendere il suo posto, così anche il quarto stato vuol fare altrettanto, e nessuna legge che vieti le associazioni o ne regoli gli statuti potrà impedire questo moto mondiale. Ciò che si può fare è di regolare e disciplinare questo movimento, non con la violenza, ma con leggi che tutelino gli interessi di tutte le classi sociali, affinché tutte si affezionino alle istituzioni (...) Bisogna render forte la Monarchia non fucilando le masse popolari, ma affezionandole profondamente alle istituzioni, promuovendo noi il progresso, senza aspettare che lo promuovano i socialisti, facendo noi tutto ciò che è possibile a loro favore, e non imponendo loro di associarsi per migliorare le loro condizioni. E quando io vedo che ci sono stati dei proprietari che combattevano le leghe e ne domandavano la soppressione, perché queste chiedevano qualche centesimo al giorno in più, dico che quei proprietari sono i veri nemici della Monarchia Italiana».

Lo sciopero, il primo sciopero generale nazionale, dopo sei giorni di vigorosa battaglia, come spontaneamente era nato, altrettanto spontaneamente si spense.

Gli storici, anche se discordi nell’attribuzione dei motivi, sono concordi nel ritenere che lo sciopero del 1904 si concluse con una sconfitta per la classe lavoratrice. Noi, al contrario, riteniamo che l’evento abbia rivestito una grande importanza, per almeno tre motivi.

L’acquisizione di una più solida coscienza di classe da parte del proletariato. Il generoso proletariato d’Italia, privato di una sana guida politica di partito, aveva espresso tutto ciò che la classe può esprimere: determinazione alla lotta e comprensione della necessità di azione ed organizzazione unitaria e generale. Non a caso due anni dopo nascerà la Confederazione Generale del lavoro.

Dimostrazione della funzione dell’opportunismo, apertamente confessata sia dalla Direzione del Partito Socialista sia dal potere statale: senza mai negare l’uso della repressione violenta, inquadrare all’interno delle istituzioni capitalistiche le rivendicazioni del proletariato facendo largo uso del sistema delle concessioni democratiche, nella coscienza che, giuste le parole di Giolitti, senza l’uso della corruzione nessun tipo di reazione armata sarebbe stata capace di garantire la salvezza del potere borghese dall’assalto proletario a scala mondiale;

Determinazione di un netto spartiacque tra borghesia e classe lavoratrice, dimostrando come, di fronte al pericolo proletario, la classe borghese, nelle sue varie componenti, sia quelle inneggianti a Dio sia quelle inneggianti a Satana, si trovino organicamente a fare fronte unico.

L’immagine delle città controllate da operai con il bracciale rosso aveva letteralmente terrorizzato la borghesia, la grande e, soprattutto, la piccola. Fino ad allora nessuno aveva sospettato che gli operai, incrociando simultaneamente le braccia, sarebbero riusciti a paralizzare la vita dell’intero paese. Giolitti approfittò di questo terrore diffuso, sciolse le Camere ed indisse nuove elezioni.

Il Papa, che dopo la breccia di Porta Pia aveva scomunicato lo Stato italiano e, con il famoso "non expedit", proibito ai cattolici qualsiasi forma di partecipazione alla politica nazionale, nell’occasione delle elezioni del 1904 non solo si dimenticò di ripubblicare il "non expedit", come era costume in occasione di tutte le elezioni politiche, ma, consultato, rispose: «Fate quello che vi detta la vostra coscienza».

La coscienza suggerì ai Vescovi di invitare pubblicamente i fedeli a votare per i candidati dell’ordine e ai preti di organizzare le schiere di combattimento contro il pericolo rosso, perché, come scriveva la Rassegna nazionale del 1° novembre: «Il nemico d’ogni giorno è il socialismo, contro questo tutti i partiti d’ordine debbono appuntare concordemente le armi».
 
 
 
 
 
 


Come le Ferrovie riducono i costi

Il 2 dicembre alle 22,45 nella tratta ferroviaria Palagianello-Castellaneta, in provincia di Taranto, il treno espresso Reggio Calabria-Torino si scontra con un convoglio merci; tre vagoni deragliano e finiscono nella gravina e 90 sono i feriti, fra cui un ragazzo 16enne a cui viene amputato un braccio. Ci interessiamo del caso perché è una nuova dimostrazione di come la condizione di sicurezza dei lavoratori in ferrovia, e di riflesso dei trasporti e dei passeggeri, sia peggiorata con la ristrutturazione aziendale.

Le inchieste avviate sull’incidente hanno evidenziato che:
- i segnali semaforici erano funzionanti e che si è trattato di errore umano;
- che il treno merci marciava a 30 km/h e si è immesso sulla tratta a binario unico senza rispettare la precedenza;
- che alla guida del convoglio merci c’era un "ausiliario di stazione" con passaggi di livello acquisiti successivamente.

Sul registro degli indagati sono stati iscritti i due giovani macchinisti del merci per lesioni personali gravi plurime e disastro colposo ferroviario.

Mentre il p.m. studia il curriculum dei macchinisti avvalendosi di periti per capire se avevano titolo alla conduzione del convoglio, cosa che Trenitalia afferma, resta il fatto che la conduzione di un treno viene ormai affidata a personale giovane e poco addestrato. Trenitalia ha dal 1999 bloccato le assunzioni e la carenza di personale viene aggirata con la riqualificazione, ma i tempi della formazione oggi sono dimezzati rispetto al passato: prima gli aspiranti macchinisti dovevano seguire un corso di sette mesi.

Sull’impreparazione del giovane personale di macchina trapelano altre notizie: sulla tratta Potenza-Battipaglia vicino Picerno, in montagna, è avvenuto che un Eurostar si sia fermato per via della salita! I vecchi ferrovieri dicono che ciò dipende dal non aver rifornito di sabbia la sabbiera, una manchevolezza tipica dei principianti.

Se Trenitalia "risolve" con poca spesa e molto vantaggio il problema dei ritardi con l’emissione di bonus di spesa compensativi per i passeggeri danneggiati, nelle sue relazioni con il personale sembra essere interessata a tagliare i costi del lavoro e colpire il macchinista che sbaglia con la persecuzione penale.
 
 
 
 
 
 
 
 

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ALGERIA, IERI E OGGI

10. CAPITALISMO A VISO SCOPERTO
(continua dal n. 307)

Farsa democratica tra massacri e crisi economica

(continua)

 
 
 
 
 

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Un anno di organizzazione e di lotta dei tranvieri

Il primo dicembre dell’anno scorso i tranvieri milanesi davano il via ad un mese e mezzo di lotta di tutta la categoria a livello nazionale: avrebbe avuto il suo apice i giorni 21 e 22 dicembre seguenti la firma del cosiddetto “accordo bidone”.

Scrivemmo che la scelta di scioperare a Milano, fin dall’alba, fu spontanea, non anticipata né organizzata da alcun sindacato. Poi dissero che sarebbero stati nientemeno che Cgil-Cisl-Uil di categoria a prendere la “decisione”. Poco cambia, visto che quando i vari bonzetti fecero marcia indietro i tranvieri proseguirono sulla loro strada, i sindacati di regime li sconfessarono e giunsero perfino a dedicarsi in prima persona al crumiraggio.

La lotta è un fatto di necessità assai prima che di coscienza, frutto delle condizioni materiali. Quella lotta fu l’effetto della situazione in cui si trovavano i tranvieri: era destinata a scoppiare, nonostante ogni contorsionismo della Triplice.

Osservammo che il risultato più importante di quella lotta – sul piano strettamente economico immediato sconfitta – fu il formarsi di un Coordinamento Nazionale dei sindacati di base, che, se si fosse dimostrato duraturo, senza sfasciarsi per i particolarismi di sigla, avrebbe permesso alla categoria di ripartire al successivo ciclo di lotte da una posizione di maggior forza. Altro elemento positivo era il rafforzarsi in generale del sindacalismo di base a scapito di quello che noi chiamiamo “di regime”. Questi due elementi si pongono sulla strada, da noi auspicata, della ricostituzione del sindacato di classe.

La lotta contro l’”accordo bidone” del 20 dicembre si chiudeva, da una parte, con un secondo sciopero indetto dal Coordinamento, dopo quello del 9 gennaio, per il 30, anche questo ben riuscito come il primo, dall’altra con Cgil-Cisl-Uil che scioglievano la formale riserva, cioè approvavano l’accordo il 31. L’epilogo, ben noto, vedeva la perdita di 25 Euro di aumento e di circa 2.000 di una tantum.

A scala nazionale gli scioperi erano stati, nell’arco di 45 giorni, cinque, distribuiti fra 15, 19, 20, 21 e 22 dicembre, 9 e 30 gennaio. A parte gli ultimi due, tutti illegali.

A Firenze il tre gennaio si era tenuta la prima riunione del Coordinamento Nazionale. Il quinto punto del documento che ne usciva affermava l’intenzione di presentare una piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale scaduto il 31 dicembre 2003. Ciò, commentavamo, era un fatto positivo che indicava da parte del Coordinamento la volontà di esistere e lavorare al di là di quel ciclo di lotta.

Per ora la mobilitazione per il nuovo contratto è stata assai flebile. Una situazione di inerzia avvantaggia i sindacati confederali, dotati di una potenza organizzativa ancora nemmeno paragonabile a quella dei sindacati di base, e favorisce l’affiorare di dissidi fra le sigle del Coordinamento, che potrebbero portare anche al suo scioglimento. Invece il Coordinamento ancora esiste, proclama scioperi nazionali cui aderisce una significativa minoranza della categoria, dimostra di mantenere la posizione e che potrebbe consolidarsi.

È necessario ribadire che tutto dipende, in ultima istanza, dalla spinta dei lavoratori: questa ha creato il Coordinamento, questa, se mancherà troppo a lungo, segnerà la sua fine. Ma non solo né necessariamente dai tranvieri deve uscire questa forza motrice che attendiamo dall’insieme della classe.

* * *

Vediamo ciò che è avvenuto fra i tranvieri in questo anno dopo la lotta “selvaggia”.

La piattaforma del Coordinamento fu presentata l’11 marzo. Nelle sue linee essenziali i tranvieri erano chiamati a lottare per i seguenti obiettivi.
- 230 Euro al mese, ottenuti sommando i 25 mancanti dall’accordo del 20 dicembre, 100 Euro di “recupero salariale uguale per tutti”, 55 Euro per l’inflazione “attesa” nel primo biennio, 50 per quella “attesa” nel secondo;
- Quanto all’orario di lavoro, aumentato col precedente contratto, riduzione a 37 ore con l’obiettivo del graduale raggiungimento delle 35 e turni a nastro di 9 ore con non più di una ripresa;
- Trasporto Pubblico Locale a carico della fiscalità generale e definizione di una clausola di tutela normativa ed economica del personale laddove venissero effettuate gare di appalto;
- Recupero all’interno dell’azienda delle attività esternalizzate e parificazione contrattuale, normativa ed economica per i nuovi assunti, evitando gli inquadramenti precari, conseguenti alla legge Biagi.

La rivendicazione salariale era collegata a quella generale di ripristino della scala mobile.

Altre rivendicazioni erano, citato testualmente: «ripristino del diritto costituzionale di sciopero; ritiro delle sanzioni disciplinari e delle multe comminate durante gli scioperi di dicembre-gennaio; fine del monopolio sindacale dei Sindacati concertativi e delle discriminazioni nei confronti delle Organizzazioni di base, assicurando pari diritti, presenza e dignità, sui tutti i tavoli di trattativa; verifica e approvazione degli accordi nazionali e locali attraverso una consultazione referendaria vincolante».

Il 23 marzo le organizzazioni di categoria di Cgil-Cisl-Uil presentavano la loro piattaforma che richiedeva: 131 Euro di aumento, comprensivi anche questi dei 25 mancanti dallo scorso contratto; riduzione dell’orario a 38 ore; «importanti modifiche alle progressioni nei parametri dei giovani conducenti con sostanziali miglioramenti nel primo periodo di assunzione» in quanto, fra l’altro, «le forme di lavoro precario devono essere escluse per il personale dell’esercizio, impegnato in attività che riguardano il rapporto con la sicurezza del trasporto delle persone e limitate in tutti gli altri casi».

Tutti questi punti, in particolare l’ultimo, il più qualificante della piattaforma, non sono stati mantenuti dai confederali nel contratto firmato il 18 novembre.

* * *

Sebbene la piattaforma del Coordinamento sia più completa e migliore di quella della Triplice, anch’essa si presta ad alcuni equivoci: la scala mobile, la preferenza per la proprietà pubblica, la difesa dello sciopero in quanto “diritto costituzionale” sono tutte illusioni e bagaglio teorico e demagogico del tradimento dei sindacati di regime, quella “fiducia nelle istituzioni” che guidò la Cgil fin dalla sua rinascita, che doveva essere contro il fascismo e che invece ne mutuava il modello corporativo, statalista, interclassista. La concertazione, presa giustamente come discriminante essenziale dal sindacalismo alternativo, non ne è altro che la coerente prosecuzione.

Ovviamente, oggi, se la scala mobile ancora ci fosse, non esiteremmo a difenderla, così come abbiamo fatto nel recente passato. Ma non si può negare che quella rivendicazione sottende una prospettiva, specialmente oggi, del tutto irrealistica secondo la quale, nella passività sindacale, il salario possa essere difeso “automaticamente”, non con la forza organizzata ma grazie ad un “diritto acquisito”. Si sta vedendo invece che nel capitalismo di “acquisito”, per la classe operaia, non c’è proprio nulla!

Anche la preferenza per la proprietà pubblica si basa sulla illusione che lo Stato-padrone sia più benigno, più vicino ai lavoratori del Privato-padrone. Invece l’esperienza sta dimostrando – quando le divisioni normative e salariati e i peggioramenti si vanno diffondendo a tutta velocità anche nel pubblico impiego, vedi ferrovieri, scuola, ecc. – che i lavoratori non possono confidare la loro difesa allo Stato capitalista proprietario delle aziende, ma solo nella loro forza di classe, nel loro sindacato. Solo con la lotta e con l’organizzazione i lavoratori potranno imporre, sia allo Stato sia alle aziende private, l’equiparazione salariale di tutti, vecchi, giovani e precari, la drastica riduzione delle tipologie contrattuali, la riduzione dell’orario di lavoro uniforme per tutti. La forma di proprietà di un’azienda, pubblica o privata, è affare che, nella sostanza, non riguarda i dipendenti i quali si trovano comunque a dover fronteggiare lo stesso schifoso Signor Capitale, sia che vesta le ghette del Grotz di un tempo, o i Rolex d’oro, oppure la fascia tricolore del sindaco, magari “di sinistra”.

Infine quanto al “diritto di sciopero”, non solo tutta la storia del movimento operaio, ma proprio la lotta dei tranvieri ha dimostrato che esso va considerato come un’arma della lotta di classe, da difendere praticandolo, non col diritto. È un diritto che la borghesia finge di concedere in teoria, pronta a revocarlo appena minacci di farle male. I lavoratori quel diritto saranno, e sono come si vede, costretti a prenderselo.

* * *

Torniamo agli accadimenti. Per sostenere la piattaforma il Coordinamento ha già proclamato, all’interno delle strette ed estenuanti regole della “regolamentazione”, quattro scioperi nazionali il 19 maggio, il 6 luglio, il 15 settembre e, a contratto già firmato, il 1º dicembre. Il primo, il terzo e il quarto hanno un’adesione media del 30-40%. Quello del 6 luglio, nel quale confluiscono anche Triplice, Faisa e Ugl, è totale. La partecipazione agli scioperi del Coordinamento è forte in alcune città, soprattutto nel centro-nord, nulla in altre. A Milano e a Roma, che da sole rappresentano una grossa fetta della categoria, sono ben radicati rispettivamente Slai-CoBas e Sult-Tpl. Altri punti di forza sono Bologna, Reggio Emilia, Venezia, Trieste e Livorno, più altre in misura minore.

A Torino, in aprile, Triplice più Ugl firmano un accordo con il Gruppo Torinese Trasporti per l’applicazione della nuova normativa prevista dalla “Legge Biagi” relativa alle assunzioni. Come da prassi consolidata a livello aziendale i sindacati di regime fanno l’esatto contrario di quanto proclamato a livello nazionale.

Dalla trattativa nazionale con Asstra ed Anav, avviata a maggio, è escluso il Coordinamento in quanto “non firmatario” del precedente contratto. Il cartello delle aziende del Tpl si dichiara disponibile ad un aumento di 50 Euro.

Dopo un solo sciopero, quello del 6 luglio, Triplice, Ugl e Faisa, il 18 novembre firmano l’ipotesi definitiva per il nuovo contratto nazionale 2004/07.

L’aumento è di 105 Euro. Se si prende per buono quanto sempre affermato da vari sindacalisti, sarebbe comprensivo dei 25 Euro arretrati, quindi sono 80 di aumento. Ironia della sorte 1 Euro in meno di quanto pattuito con l’”accordo bidone” del 20 dicembre scorso. «Mai più un contratto come questo», esclamò allora Epifani.

L’aumento, poi, è lordo e a regime, il che significa che sarà di 105 Euro, lordi, solo l’ultimo trimestre del 2005. Per i dodici mesi passati col vecchio contratto è prevista la solita una tantum non utile ai fini del Tfr. Un altro dei mille trucchetti con cui questi gentiluomini dei padroni rubano ogni giorno soldi ai proletari.

Ma la vera bastonata non è la miseria di aumento bensì la parte normativa. I firmatari si fan vanto di aver fermato l’introduzione del lavoro interinale. Peccato che tacciano del fatto che sono introdotte ben sette nuove figure contrattuali. Praticamente tutta la legge Biagi, tranne il lavoro a chiamata, appunto. Non solo. Viene abrogato l’Art.7 Punto A del Ccnl del 2000 con il quale l’assunzione a tempo determinato veniva limitata a pochi e precisi casi, lasciando mano libera alle aziende di utilizzarla quando vogliono. Dobbiamo ricordare quanto scrissero nella loro già schifosa piattaforma Cgil-Cisl-Uil riportata qui sopra?

Altre “conquiste” sono la subordinazione della “clausola sociale” all’articolo 26 del Regio Decreto n. 148, che di fatto l’annulla, e l’operatività dell’accordo al momento della disponibilità delle risorse, che al momento ancora non ci sono e che prevedibilmente non ci saranno.

Difficile immaginare qualcosa di peggiore.

* * *

Il Coordinamento il 22 ottobre aveva proclamato un nuovo sciopero per il 1° dicembre, dichiarando quella data “giornata del tranviere”, una buona iniziativa per mantenere vivo il ricordo della lotta. Lo sciopero avrebbe avuto certamente buon successo, dato che la trattativa andava per le lunghe. La firma del contratto, per quanto pessimo sia, non cade certo per caso.

Ma i sindacati temevano non bastasse: per non correre alcun rischio i “tre porcellini” Filt-Fit-Uilt hanno dato l’adesione allo sciopero generale proclamato dalle Confederazioni per il giorno prima, il 30 novembre, per “lottare” fra l’altro, guarda un po’, contro la legge Biagi! Questo nonostante l’invito della Commissione di Garanzia ad escludere il Tpl dallo sciopero generale, data la proclamazione antecedente da parte del Coordinamento dello sciopero dell’1 dicembre. Strano comportamento davvero per i sindacati di regime che, per voce dello stesso Martone, presidente della Commissione, sono sempre stati campioni di “senso di responsabilità” e rispetto delle sacre regole (quanto torna comodo a loro).

Nonostante tutto questo (che non è poco!) lo sciopero si è mantenuto appena sotto la media di partecipazione dei precedenti, il che lascia ben sperare per il futuro.