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PAGINA 1
La Cgil
e il “Governo amico”
Lo sciopero del 17 novembre indetto dal sindacalismo di base e le sortite delle opposizioni interne alla Cgil, quelle della Rete 28 Aprile, preponderante tra i metalmeccanici della Fiom, hanno infiammato la discussione interna del maggiore sindacato italiano, con uno scontro tra la maggioranza “riformista” e la minoranza facente capo a Cremaschi, Rinaldini e Nicolosi.
I sindacati di base avevano organizzato in 27 città italiane delle manifestazioni e chiamato i lavoratori allo sciopero generale di 24 ore per contrastare la Finanziaria del governo Prodi e contro la precarietà del lavoro. Secondo quanto vanta la Cub lo sciopero sarebbe riuscito. A questo sciopero aveva dato appoggio anche la Fiom.
Nel direttivo Cgil del 19-21 novembre è emerso apertamente lo scontro tra le correnti che già si era palesato nel 15° Congresso di Rimini, a gennaio. Adesso il segretario generale Epifani afferma non doversi più tollerare le “libere uscite” dei metalmeccanici e degli organizzati nella corrente “28 Aprile”, in manifestazioni indette dai comitati di base e non condivise dalla Cgil, come quella del 28 settembre dei call-center, quella del 4 novembre contro la precarietà e quella del 17 più in generale contro la finanziaria. Le frizioni interne tra maggioranza e minoranze si sono espresse palesemente nei lavori del direttivo dove è stato approvato un documento della maggioranza di forte appoggio al governo Prodi, mentre dalla Rete 28 Aprile si ribadiva il diritto di manifestare a fianco dei “nemici” Cobas, nonostante gli stigmatizzati interventi dei “basisti” in slogan contro il Ministro del Lavoro Damiano, ex segretario generale della Cgil in Piemonte.
Al ministro Damiano si rimprovera la pasticciata regolamentazione del lavoro precario nei call-center, dove solo una minima parte dei lavoranti, quelli addetti alle telefonate in entrata, potranno essere assunti a tempo indeterminato, abbandonando ad una vita precaria la loro maggior parte, quelli che le telefonate le fanno in uscita. D’altra parte la maggioranza Cgil non vuol abrogare la legge Biagi, mentre i sinistri le sono contrari. Altro motivo di contesa è l’appoggio al Governo: la maggioranza gli rimprovera solo i tagli alla Ricerca, mentre l’opposizione rivendica più autonomia dall’esecutivo, contestando la Finanziaria nel suo insieme.
Queste schermaglie tra le correnti nel sindacato spesso sono solo riflesso dei meschini conflitti fra i partiti opportunisti. L’ala sinistra della Cgil è noto che è espressione sindacale, la “cinghia di trasmissione” di Rifondazione, la quale della politica antioperaia del governo dell’Unione rischia di pagare tutte le spese. D’altra parte nel sinistrume borghese è in atto un processo di “ristrutturazione” che dovrebbe dare vita a quel Partito Democratico la cui nascita è avversata dal “correntone” Ds, frazione questa che in seno al sindacato di regime ha la sua influenza...
Ma se questo “posizionamento” ha senso e significato tra le burocrazie, è un fatto che le politiche sostanzialmente filo-confindustriali della Cgil tendono a provocare un ulteriore allontanamento della loro base e della classe operaia non organizzata che, pur versando da decenni in una sorta di passività, quando scoppia una vertenza seria, come è stato nel caso degli autoferrotranvieri, si insciplina alla centenaria Cgil, considerata infida e inutilizzabile, insieme a tutta la Triplice, anzi Quadruplice con l’ormai “sdoganata” Ugl. Questo nonostante le debolezze di indirizzo e lo spirito settario prevalente negli organismi “dal basso”, Cub e Cobas. La minacciata partecipazione della sinistra-Cgil agli scioperi dei Cobas risponde quindi al tentativo di recuperare consensi di fronte ad una Cgil sempre più fedele strumento del governo dei padroni.
Infatti all’orizzonte si profila un altro scenario, già previsto, anche se non codificato nel programma di governo: la “Fase 2” del governo Prodi, l’ennesima “riforma” pensionistica a danno dei lavoratori, sempre in nome del rigore e dell’Europa, e che dovrebbe inasprire la condizione del pensionamento in termini di età e calcolo degli emolumenti. La Cgil nella sua maggioranza appare solidale con l’esecutivo e sta preparandosi alla “battaglia”, contro i lavoratori evidentemente. All’uopo si dispongono le frazioni della sinistra, prevedendo il dissenso della base, che i Cobas potrebbero organizzare.
Dopo che il governo “delle destre”, banda italica di Pulcinella,
ha dimostrato la sua incapacità a stangare la classe operaia, il Capitale
torna al vecchio metodo “concertativo” e al suo sindacalismo
di regime per imporre i peggioramenti e impedire possibili forme di aperta
lotta di classe. Fanno quindi scendere in campo i “sinistri”, dei quali
parte si infiltrerà tra gli operai dei Cobas, per ulteriormente confonderli
ideologicamente ed organizzativamente.17 novembre 2006
La condizione precaria è la condizione tipica del proletariato nel capitalismo. Precaria è l’esistenza oggi per la stragrande maggioranza dei proletari di un Mondo che ha tutto raggiunto lo stadio di sviluppo capitalistico. Precaria è stata l’esistenza per i proletari anche dei paesi dell’Occidente nella maggior parte del passato, ed oggi è tornata ad esserlo.
Nel capitalismo quella del lavoratore è una merce che, come le altre merci, si acquista solo quando ce n’è bisogno.
Ieri i partiti e i sindacati della cosiddetta “sinistra” (PCI e CGIL per primi) cercavano di allontanare il movimento operaio dalla sua tradizione rivoluzionaria, illudendo i lavoratori che nel regime del Capitale avrebbero potuto godere di un continuo Progresso verso il benessere, la Democrazia e la Pace...
Oggi gli stessi Partiti e Sindacati, anche se con nomi diversi, spingono la classe operaia ad accettare i sacrifici imposti dal Capitale, a rinunciare a ogni minima garanzia, come pensioni sufficienti per vivere e l’assistenza sanitaria, e per ottenere questo cercano di dividere le generazioni di lavoratori, e fra italiani e immigrati.
Per decenni sia i borghesi sia i falsi comunisti, stalinisti ed ex-stalinisti, hanno promesso prosperità e benessere, e oggi dilagano, soprattutto tra i giovani proletari, salari da fame e miseria crescente; hanno promesso sicurezza e tranquillità e oggi impera insicurezza e paura del futuro; hanno promesso pace e oggi si allargano micidiali guerre per il petrolio e per la difesa dei profitti imperialistici.
La crisi economica di sovrapproduzione, che è solo attenuata e rimandata dall’ingresso nel mercato mondiale dei capitalismi cinese ed indiano, porta allo scoperto le contraddizione del regime economico fondato sul Mercato e sul Profitto, con l’aumento costante della massa della produzione industriale e agricola, mentre costringe alla fame una percentuale sempre più grande della popolazione in tutti i continenti.
Diventa sempre più evidente che dal capitalismo il proletariato non può aspettarsi nulla di buono, e lo deve abbattere.
Le lotte dell’oggi per la difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro, che dovranno intensificarsi ed estendersi e che si dovranno dare una organizzazione sempre più unitaria ed efficiente, si volgeranno domani ad abbattere questo regime di sfruttamento, di guerra e di terrore per instaurare la dittatura del proletariato e il Socialismo. Questa indispensabile maturazione non può essere diretta che dall’organismo che custodisce la coscienza storica e i principi univoci della tradizione secolare e internazionale della lotta rivoluzionaria, il partito comunista marxista.
Per questo occorre che i proletari, i giovani proletari, giungano a
rifiutare le schifose menzogne borghesi che da ogni lato incalzano e il
mito della ricerca di un impossibile benessere individuale. La milizia
nel partito, anticipazione nell’oggi dei sentimenti e delle aspirazioni
del domani, tende a tenere viva nella classe mondiale dei nullatenenti
quella prospettiva rivoluzionaria cui essa è destinata.
Medioriente
O resistenza nazional-popolare
o rivoluzione proletaria
L’indirizzo comunista internazionalista
Da più di un secolo in Medio Oriente si scontrano gli spietati appetiti dei capitalismi mondiali, grandi e meno grandi, d’Occidente e d’Oriente per controllare una regione di fondamentale importanza strategica.
Le borghesie locali arabe, fallita la possibilità della costituzione di un grande Stato panarabo, dall’Iraq alla Siria, dall’Egitto all’Algeria, hanno accettato di farsi strumento dei diversi imperialismi, di diventarne gli “agenti” locali rinunciando a buona parte delle rendite e dei profitti che vengono sottratti al proletariato.
Il padrone imperialista, con le sue basi economiche e militari, rappresenta infatti una garanzia contro il pericolo più temuto, la possibile rivolta della classe operaia locale e del semi proletariato urbano e rurale che subiscono spesso il doppio sfruttamento del padrone “estero” e di quello locale.
In molti dei paesi arabi il proletariato, oltre che giovane e numeroso, può vantare sane tradizioni di lotta di classe, sia sul piano della sua difesa sindacale contro il padronato sia sul terreno politico e dei metodi insurrezionali, ma le sue lotte coraggiose e spesso eroiche non hanno mai superato lo stadio di rivolte, sempre represse nel sangue. Uno dei fattori principali che hanno impedito l’affermarsi di un processo rivoluzionario comunista nei paesi del Nord Africa, come in Siria o in Iraq, è stato certamente la mancanza di un movimento proletario di lotta nei Paesi imperialisti, ma anche la falsa prospettiva politica, imposta dallo Stalinismo a tutti i Partiti comunisti dei Paesi coloniali ed ex coloniali, della cosiddetta Rivoluzione per Tappe. Questa falsa indicazione programmatica, finalizzata agli interessi capitalistici della Russia e non del socialismo, impone al proletariato di rimandare ad un futuro indefinito la lotta per il socialismo e di battersi invece, a fianco dei partiti borghesi, per l’avvento di un regime nazionalista, democratico, costituzionale.
La rivoluzione per tappe è stata una strategia disastrosa che ha portato ieri, nella seconda guerra imperialista, la classe operaia a battersi a fianco di uno dei due fronti imperialisti; ha impedito nei decenni successivi la radicalizzazione delle guerre civili che insorgevano nei Paesi in lotta contro l’oppressione colonialista, e vorrebbe portare oggi il proletariato a schierarsi nelle varie Resistenze e nei Fronti nazionali, per confermare al potere i propri nemici borghesi.
La storia recente dei vari Paesi mediorientali, ma lo stesso è accaduto in tutto il Mondo ex coloniale, dimostra che la borghesia, una volta arrivata al potere, volge per prima cosa i fucili contro i comunisti e gli organizzatori sindacali, per “ristabilire l’ordine e la legalità”.
Il proletariato, che non ha patria perché ovunque è sfruttato e oppresso, non ha neppure “amici” o “alleati” nella sua lotta per l’emancipazione. Il suo nemico è in primo luogo, la borghesia del proprio paese che, come nell’Iraq di Saddam, non ha esitato a mandarlo al macello nella guerra contro l’Iran, poi in quella per il Kuwait, per poi chiamarlo prima ad una impossibile difesa del regime contro la coalizione occidentale e poi alla “resistenza contro l’occupante”.
Opposti sono i principi che il marxismo rivoluzionario afferma
per la classe operaia, araba e mondiale:
- Respingere il menzognero mito borghese di Progresso per
tutti.
- Confidare solo nella propria emancipazione economica
e sociale nel Comunismo, conseguente all’abbattimento del potere
politico della classe borghese.
- Lottare esclusivamente per la difesa dei propri interessi
immediati e non per i falsi obiettivi interclassisti di libertà e
di democrazia, che servono solo a mascherare la dittatura della borghesia.
- Organizzarsi in opposizione alla classe e agli Stati borghesi
nei
sindacati di classe e nel partito comunista, questo, dalla sua nascita,
unico e internazionale.
Ad un lettore che si è lamentato – fra il sorpreso e l’irritato – del fatto che su questo giornale non appaiono le firme dei redattori, abbiamo cercato di spiegare...
I nostri articoli sono “anonimi” perché le idee, contrariamente all’opinione corrente, non hanno niente di personale. Lo dimostra il fatto che le grandi dottrine sono nate all’improvviso, nei loro tratti fondamentali, a precisi svolti storici, quando i rapporti di un nuovo modo di produzione erano lì per imporsi. Così è stato con il cristianesimo, nato in un dato secolo, mentre entravano in crisi i rapporti di produzione schiavistici, estesi ovunque dall’Impero romano. Le teorie, anche se nascono nella testa di un solo uomo, o di alcuni, sono in realtà un prodotto sociale, un riflesso nella testa degli uomini dei rapporti sociali esistenti o che stanno per nascere.
Per altro, contrariamente a quanto lascia credere la superstizione borghese, l’individuo non è mai fattore di storia, che sia esso piccolo o grande e qualunque sia il metro usato per misurarlo. Fattori di storia sono sempre le collettività e, nella società contemporanea, queste forze sono le classi. I partiti, e i loro capi, non sono che i portavoce di queste classi, o frazioni di classe.
Ciò che caratterizza il funzionamento degli apparati politici della società presente è il carrierismo e l’esaltazione del ruolo del capo – capo di un giorno ma messo da parte l’indomani. Al contrario il nostro partito, dopo un secolo e mezzo di conferme della dottrina e di assimilazione collettiva di importanti lezioni storiche, dispone di un bagaglio di esperienza e di riprove, accessibile a tutti i suoi militanti, che gli consente di non aver più bisogno di capi.
Ciò che caratterizza invece il partito comunista è l’unicità e la coerenza del suo programma. Disciplina e centralizzazione derivano spontanee dal rispetto di quel programma. Quando appaiono difficoltà e incertezze, e forse ce ne saranno quando la lotta di classe diverrà incandescente, esse non si risolveranno con il metodo della critica personale, come usano fare la borghesia e i partiti ex-comunisti, ma con l’esame dei fatti alla luce della teoria e sulla base dei principi.
Il funzionamento del partito è collettivo, come lo sono state società umane in passato e come sarà la società comunista futura. Se l’azione di ciascuno è volta al bene di tutti, da tale rapporto riflessivo dell’uomo in sé stesso scaturisce la soddisfazione vera e piena sia dell’individuo sia della collettività, senza più il bisogno dei miserevoli esibizionismi e chiusure difensive di oggi.
L’individualismo è una piaga della società borghese. E più l’individuo vi è schiacciato e negato, più la sua vita è resa povera e insulsa, più vi sono esasperati l’individualismo e il narcisismo.
Il carattere anonimo dei nostri scritti, quindi, non fa che riflettere
il naturale ed ovvio funzionamento di un partito comunista storicamente
maturo.
Su Il Sole 24 ore di mercoledì 30 agosto troviamo un articolo dal titolo "Usa, profitti a gonfie vele ma i salari non li seguono". Il quotidiano per eccellenza della borghesia nostrana prende spunto da una "denuncia" che viene dal New York Times d’oltre Oceano.
Ma riportiamo qualche dato che conferma come il modo di produzione capitalistico altro non può creare se non condizioni di lavoro sempre peggiori e miseria crescente anche nei paesi ricchi e potenti.
Il tasso di povertà del 2005 in Usa è sostanzialmente invariato rispetto al 2004, al 12,6% rispetto al 12,7% precedente, con una stima di 37 milioni di indigenti. Il salario medio è sceso dal 2003 del 2%, il che riporta i salari, come quota del prodotto interno lordo, ai livelli più bassi dal 1947. Nel primo trimestre di quest’anno i salari si sono fermati al 45% del Pil rispetto al 50% di cinque anni fa.
Il salario minimo federale, di 5,15 dollari l’ora, è in valore reale scivolato al potere di acquisto minimo dell’ultimo mezzo secolo.
Citiamo: «Gli aumenti di reddito e ricchezza media degli americani nascondono ancor più le sperequazioni. Sono "drogati" dai guadagni delle fasce più abbienti: l’1% più ricco della popolazione nel 2004 ha rastrellato l’11,2% dei salari rispetto all’8,7% dello scorso decennio. I ranghi degli americani senza alcuna assistenza sanitaria sono aumentati a 46,6 milioni da 45,3».
Negli Stati Uniti, la prima potenza imperialistica mondiale, le contraddizioni
del sistema di produzione attuale si inaspriscono sempre più e vanno a
confermare che l’unica strada percorribile e quella della rivoluzione Comunista.
Cronologia della storia del Libano | Chronology of Lebanese history |
Corso dell’economia | Course of the Economy |
La questione ebraica (6) [Resoconto esteso] | The Jewish question |
Ci siamo convocati per la periodica riunione del partito a Torino gli scorsi 23 e 24 settembre. Erano presenti compagni dalle sezioni italiane, dalla Francia e dalla Gran Bretagna.
Lo svolgimento si è articolato, secondo il metodo collaudato, in sedute organizzative e in quelle dedicate all’esposizione delle relazioni, predisposte queste precedentemente secondo un piano di ricerca e di approfondimenti convenuto già nei precedenti incontri. Qui subito riportiamo un breve riassunto del contenuto dei rapporti.
Alle nostre riunioni infatti non si pronunciano “interventi”, ma si riferisce dei progressi di una ricerca impersonale, di tipo “scientifico” diremmo. Queste relazioni non sono oggetto di giudizi né di commenti immediati da parte dell’uditorio, tantomeno di voto, ma materia di riflessione nel tempo e base di ulteriore approfondimento e progredire della conoscenza del partito del mondo esterno sociale e di sé stesso.
Un’atmosfera tesa ma non conflittuale distingue il nostro operare, ove la partecipazione all’asprezza delle vicissitudini della lotta di classe – oggi prevalentemente emotiva e di studio – e il continuo rilevamento dell’avvilupparsi nella crisi del capitalismo, a tutti i livelli, non è turbata dalla coscienza che il compito oggi principale della attuale nostra piccola compagine è la difesa della nozione di un certo partito.
Non a caso questo organo a stampa nel 1974 volemmo che si chiamasse “Il Partito Comunista”, in quanto ritenevamo giustamente che parte integrante del bagaglio programmatico marxista e indispensabile al successo sociale della futura classe rivoluzionaria è quell’insieme di approdi dialettici, risultati irreversibili di una esperienza storica reale, che insegnano cos’è il partito comunista, qual’è la sua funzione nella storia e il suo operare in essa, e in essa storia compreso il suo interno.
È il partito il bene più prezioso della classe operaia, la sua mente
e il suo cuore. Senza partito della classe resta solo quella
miseria
che di essa vede, può e vuol vedere la classe dominante.
Questo partito,
reale e vivente, aggredito da ogni lato, che domani diverrà una forza
grande e visibile, ci siamo trovati a dover difendere, e siamo determinati
a continuare a farlo, con le forze di cui disponiamo.
CRONOLOGIA DELLA STORIA LIBANESE
Il rapporto ha ripercorso per sommi capi la storia del Libano, paese dalla formazione artificiale per opera dell’imperialismo occidentale. Praticamente un Stato “che non c’è”, solo palestra di scontri ed intrighi fra le sue diverse componenti interne e le varie infiltrazione straniere.
Di nuovo nere nubi di guerra fra Stati borghesi si addensano sulla regione e in particolare sul Libano. E sarà ancora una volta il proletariato a farne le spese in prima persona col consueto tributo di morti, soprattutto tra i non combattenti. Ancora una volta non si tratterà di una guerra di classe e vedrà proletari contrapporsi sui due fronti.
La fragile tregua nello scorso mese di agosto, che ha posto fine al lancio di razzi da parte di Hezbollah sulla Galilea e all’invasione e ai bombardamenti israeliani, ha portato all’invio di un corpo militare multinazionale, sotto l’egida dell’ONU, il cui nucleo è costituito dalle truppe di Italia e Francia. Questo non ha portato ad alcun accordo tra i due fronti contrapposti ma solo presenzia ad una fragile tregua durante la quale ambedue i contendenti sperano di rafforzare le loro posizioni in attesa del prossimo scontro.
D’altra parte l’imperialismo non allenta la sua morsa sulla regione, di fondamentale importanza strategica. Per il momento continua ad agire per tramite dei suoi “agenti” locali, Israele e le forze filo-statunitensi da una parte, Hezbollah e alleati dall’altra. Le classi lavoratrici del Libano subiscono sia l’oppressione delle classi possidenti del paese sia i capricciosi piani sanguinari di attori internazionali ben più potenti.
Di fronte all’ennesima tragedia trascorsa, e a quella probabilmente più grave che si prepara, il partito è tornato ad affrontare la questione per indicare al proletariato di tutta la regione la strada della lotta per i propri interessi di classe, che deve portarlo a rompere quella solidarietà con le classi dominanti che lo costringe, in Israele come in Libano come in Palestina, da quasi sessant’anni a vivere e a morire in stato di guerra per gli interessi dei propri sfruttatori.
Nella riunione si è esposta una prima traccia di cronologia della regione libanese col fine di mettere in evidenza le ragioni storiche che hanno portato alla cancrena attuale. Il lavoro continuerà seguendo gli svolgimenti che legano in un nodo sempre più stretto i fatti libanesi a quelli dell’Iraq, questo oggi precipitato in una quotidiana carneficina. Viene definita “guerra civile” ma è solo una guerra spietata e feroce del regime contro il proletariato di quel paese.
La crisi della regione del Medio Oriente è continuamente alimentata e tenuta aperta, a tutto vantaggio del partito della guerra che coincide coll’interesse dell’imperialismo.
La nostra previsione, che il proletariato mediorientale non avrà pace
finché perdurerà il regime capitalistico, viene confermata da questi
nuovi, terribili, avvenimenti.
È proseguita l’esposizione del paziente e difficile lavoro di ricerca ed ordinamento dei dati statistici che descrivono la crisi senile del capitalismo mondiale. All’uopo erano stati aggiornati alcuni quadri numerici e grafici e affissi alle pareti del locale per la loro migliore esposizione.
Oltre al necessario continuo aggiornamento temporale delle serie già precedentemente ordinate ed esposte, a questa riunione si sono aggiunti i quadri del decorso industriale di Cina ed India, che possiamo ora affiancare e confrontare a quelli dei capitalismi più anziani. Stiamo lavorando perché nelle prossime riunioni possiamo tornare ad inserire la curva della Russia, la quale richiede alcuni accorgimenti e delicate valutazioni e calcoli di raccordo fra le vecchie serie “sovietiche” e quelle “post”, che si riferiscono ad un territorio, ad una popolazione e ad un ambiente economico assai difforme.
I quadri esposti rappresentano solo gli Indici delle produzioni. Non sono quindi rappresentativi della grandezza delle produzioni dei diversi paesi, ma ne misurano solo la crescita. Non che non passeremo nel proseguire dello studio a rinnovare anche il confronto quantitativo fra le potenze industriali mondiali, ma essendo la vitalità del Capitale fondata non tanto sulla dimensione del Capitale, ma sulla velocità del suo accrescimento, che è il Profitto, meglio, il Tasso di Profitto, che invece declina e talvolta precipita, lavorare sulla variazione è più utile che lavorare sulla grandezza.
Nelle statistiche del governo cinese, da cui abbiamo attinto i dati,
appaiono due serie: una chiamata “Index of gross output product of industry”
e l’altra “Index of gross domestic product of industry”. Leggendo
la letteratura in merito sembra più adatto per il nostro lavoro il Gross
Output, che corrisponderebbe, più o meno, alla somma del capitale variabile
e del plusvalore.
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INDIA | CINA | |||
ANNO | Base
100=1953 |
Incr.% | Base
100=1949 |
Incr.% |
1948 | 87,0 | ... | ... | ... |
1949 | ... | ... | 100 | ... |
1950 | ... | ... | 123 | 22,6 |
1951 | 95,0 | ... | 147 | 19,9 |
1952 | 98,0 | 3,2 | 185 | 25,9 |
1953 | 100,0 | 2,0 | 241 | 30,3 |
1954 | 107,0 | 7,0 | 281 | 16,3 |
1955 | 116,0 | 8,4 | 296 | 5,6 |
1956 | 126,0 | 8,6 | 380 | 28,0 |
1957 | 130,0 | 3,3 | 423 | 11,5 |
1958 | 132,0 | 1,5 | 655 | 54,8 |
1959 | 144,0 | 9,1 | 892 | 36,1 |
1960 | 161,0 | 11,8 | 992 | 11,2 |
1961 | 170,3 | 5,8 | 613 | -38,2 |
1962 | 183,5 | 7,8 | 511 | -16,6 |
1963 | 200,6 | 9,3 | 554 | 8,5 |
1964 | 213,8 | 6,6 | 663 | 19,6 |
1965 | 225,7 | 5,6 | 838 | 26,4 |
1966 | 236,8 | 4,9 | 1014 | 20,9 |
1967 | 234,7 | -0,9 | 874 | -13,8 |
1968 | 248,8 | 6,0 | 830 | -5,0 |
1969 | 266,9 | 7,3 | 1114 | 34,3 |
1970 | 278,9 | 4,5 | 1456 | 30,7 |
1971 | 286,9 | 2,9 | 1669 | 14,7 |
1972 | 307,0 | 7,0 | 1784 | 6,9 |
1973 | 309,6 | 0,8 | 1954 | 9,5 |
1974 | 315,1 | 1,8 | 1965 | 0,6 |
1975 | 334,7 | 6,2 | 2270 | 15,5 |
1976 | 365,3 | 9,1 | 2325 | 2,4 |
1977 | 384,9 | 5,4 | 2664 | 14,6 |
1978 | 412,8 | 7,2 | 3025 | 13,6 |
1979 | 418,3 | 1,3 | 3292 | 8,8 |
1980 | 421,7 | 0,8 | 3597 | 9,3 |
1981 | 461,8 | 9,5 | 3751 | 4,3 |
1982 | 481,9 | 4,4 | 4045 | 7,8 |
1983 | 504,7 | 4,7 | 4497 | 11,2 |
1984 | 539,8 | 7,0 | 5230 | 16,3 |
1985 | 590,4 | 9,4 | 6348 | 21,4 |
1986 | 628,3 | 6,4 | 7089 | 11,7 |
1987 | 695,8 | 10,7 | 8343 | 17,7 |
1988 | 750,6 | 7,9 | 10078 | 20,8 |
1989 | 792,8 | 5,6 | 10938 | 8,5 |
1990 | 881,3 | 11,2 | 11787 | 7,8 |
1991 | 898,2 | 1,9 | 13528 | 14,8 |
1992 | 931,9 | 3,8 | 16869 | 24,7 |
1993 | 940,3 | 0,9 | 21475 | 27,3 |
1994 | 1012,0 | 7,6 | 26672 | 24,2 |
1995 | 1154,5 | 14,1 | 32086 | 20,3 |
1996 | 1252,3 | 8,5 | 37409 | 16,6 |
1997 | 1309,6 | 4,6 | 42310 | 13,1 |
1998 | 1359,9 | 3,8 | 46858 | 10,8 |
1999 | 1489,4 | 9,5 | 52284 | 11,6 |
2000 | 1564,3 | 5,0 | 57407 | 9,8 |
2001 | 1563,2 | -0,1 | 62401 | 8,7 |
2002 | 1653,3 | 5,8 | 68643 | 10,0 |
2003 | 1769,9 | 7,1 | 77431 | 12,8 |
2004 | 1911,9 | 8,0 | 86336 | 11,5 |
2005 | 2029,6 | 6,2 | 95872 | 11,0 |
Il paragone con le serie che abbiamo pubblicato nel precedente nostro studio sulla crescita dell’industrialismo cinese, in Comunismo n.46 del 1999, anch’esso ricavato dall’annuario di Stato cinese, dà ritmi di crescita quasi coincidenti salvo che per i primi tre anni: la serie, dal 1949 al 1953, che nel 1999 era 100-137-189-245-319, è stata ridimensionata alla meno iperbolica 100-123-147-185-241, che dà pur sempre un 25% di incremento medio annuo. Qui ci atteniamo ai dati dell’Annuario più recente, nell’ipotesi che siano più vicini alla realtà. Altra difformità è nella migliore definizione dei dati al 1999 ancora provvisori, dal 1994 al 1997, questi invece tutti rivisti al rialzo.
Questi aggiustamenti non vengono a modificare il senso della nostra Tabella 2 del 1999: fra gli estremi 1949-1960-1966-1993 gli incrementi medi percentuali passano da 26,4-0,4-12,0 a 23,2-0,4-12,4 e, per tutto il periodo 1949-1993, da 13,7% a 13,0%.
Lo studio del 1999 affrontava poi il confronto della dimensione del capitalismo cinese rispetto agli altri ed approfondiva lo crescita della sua produzione di acciaio, aspetti anche questi del panorama economico che integreremo.
Come nella nostra vecchia serie abbiamo posto 1949 = 100, anno della definitiva affermazione nazionale del capitale cinese.
A partire dal 2000, però, disponiamo solo dei dati della serie “Gross domestic product”, che qui utilizziamo provvisoriamente. Questa seconda serie dà incrementi più bassi. Si osservano non piccole divergenze anche rispetto ai dati più aggiornati che regolarmente pubblica l’Economist.
La serie annuale dal 1949 al 2005 (questo non anno di massimo ma ultimo disponibile) presenta massimi nel 1960 e nel 1966, delimitando tre periodi che presentano saggi medi, rispettivamente, del 23,2%, dello 0,4% e del 12,4%. Il periodo intermedio, però, ha più determinazioni “politiche” che economiche essendo segnato dalla direttiva del cosiddetto “Balzo in avanti” e dalla “Rivoluzione culturale”. Sommando i primi due periodi abbiamo 17 anni con un medio 14,6% È quindi ancora verificata la tendenza al rallentamento nella crescita tipico di ogni capitalismo.
In tutto il periodo dal 1949 avremmo un saggio medio di crescita del 13,0% per 56 anni. Va confrontato con uguale primo periodo di altri giovani capitalismi. Per Russia e per Giappone dai vecchi lavori di partito disponiamo delle statistiche fin dal 1913: da quell’anno contando 56 anni arriviamo al 1969, non lontano dal massimo pre-crisi-mondiale del 1973. Dal 1913 al 1973 abbiamo un saggio medio annuo per il Giappone di 7,6% e per la Russia di 8,2%, inferiori quindi a quello cinese. Ma occorre osservare al 1913 il capitalismo in Giappone e in Russia era già sufficientemente sviluppato, per esempio, da poter alimentare il riarmo in una guerra mondiale. In Russia dopo la guerra e la rivoluzione, infatti, il capitalismo “rinasce”. Insomma si può ritenere che al 1949 l’industrialismo cinese fosse molto più indietro di quello russo e giapponese del 1913. Lo confermano i dati sull’acciaio, sempre riportati nello studio del 1999: al 1913 la Russia già ne produceva 4,47 milioni di tonnellate; il Giappone, alla stessa data, 0,41 milioni; la Cina nel 1949 solo 0,16. Questo è un risultato delle distruzioni belliche, ma il massimo precedente, del 1944, è di solo 1,42 milioni, da rapportare con una popolazione assai maggiore di quella russa e giapponese.
Quindi le minacciose contorsioni del Drago, che invece di lingue di fuoco vomita vile mercanzia, a basso costo, d’ogni tipo, che intimorisce e ipnotizza il borghesume occidentale, ormai decrepito ed incapace anche di qualsiasi reazione difensiva, sono dovute a fattori che, in parte, perderanno il loro carattere eccezionale
Analizzando più da vicino la serie annuale della industria cinese rileviamo il suo andamento molto irregolare, con alternarsi di anni di grande aumento, che dobbiamo assumere con cautela, come quelli dal 1992 al 1995 col +24% annuo, a molti altri di forte rallentamento nella crescita. Si può così individuare, nei 52 anni dal 1949 al 2001, la presenza di 7 cicli, della durata, nel tempo crescente, dai 6 ai 10 anni. Lo sapevamo, l’aveva già visto Carlo Marx nella Cina, la Fabbrica del Mondo, del suo tempo: la Gran Bretagna. L’inizio e la fine del capitalismo, ci viene da pensare, due Draghi, dei quali la Storia ha avuto pur bisogno ma che dei quali, ora, ne abbiamo abbastanza e dei quali possiamo e dobbiamo liberarci.
Diverso andamento ha la serie industriale dell’India, paese per il quale non ci sorreggono precedenti studi economici di partito.
Qui si parte dal 1948 perché non abbiamo al momento dati più antichi. Ma per l’India ci sarà probabilmente possibile risalire fino all’Ottocento, quando già l’imperialismo inglese vi aveva introdotto la grande industria, lo sviluppo della quale è certo ben documentato dalla statistica coloniale.
Come anni discriminanti prendiamo il 1953, il massimo del 1966 e quello successivo del 2000 (entrambi di rilevanza mondiale). Abbiamo nei quattro periodi la serie di aumenti medi: 2,8%; 6,9%; 5,7%; 5,3%. Andamento, quindi, assai più maturo di quello cinese.
Ma la maturità nel capitalismo non significa regolarità: anche la serie indiana è segnata da un continuo alternarsi di accelerazioni e rallentamenti.
Per il confronto fra paesi meglio riferirsi alla Tabella dei Cicli
lunghi. Questa è ricavata dalla successiva Tabella, dei Cicli brevi,
definiti da tutti i massimi successivi crescenti. Quindi gli anni estremi
dei periodi dei Cicli lunghi non sono proprio gli stessi per tutti i paesi.
Per esempio per la Russia abbiamo dovuto prendere 1940-1973-1989, per la
Francia 1937-1974-2001, per l’Italia 1938-1974-2000, ecc.
Cicli lunghi della Produzione Industriale | ||||
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(note nel testo) | Dal massimo
anteguerra al 1973 |
Dal 1973
al 2000 |
Due cicli
al 2000 |
Dal 2000
al 2005 |
Durata anni | 36 | 27 | 63 | 5 |
CINA | ... | 12,6 | ... | 10,8 |
INDIA | ... | 5,4 | ... | 5,3 |
RUSSIA | 8,5 | 4,3 | 7,1 | ... |
GIAPPONE | 8,1 | 3,6 | 5,6 | 0,1 |
ITALIA | 5,7 | 1,7 | 4,0 | -0,9 |
GERMANIA | 4,8 | 2,5 | 3,8 | 0,6 |
USA | 4,4 | 2,9 | 3,7 | 1,1 |
FRANCIA | 4,3 | 1,5 | 3,1 | 0,3 |
REGNO UNITO | 2,0 | 1,0 | 1,6 | -1,0 |
Qui i capitalismi sono messi in ordine di “giovinezza”, dalla Cina, cioè, all’Inghilterra. Come sappiamo la Tabella si può leggere in verticale o in orizzontale: dall’altro al basso e da sinistra a destra gli incrementi medi sono sempre decrescenti, indicando come il capitalismo in un paese vada tanto più lento quanto più a lungo vi si è riprodotto. Per un suo meccanismo proprio il Capitale progressivamente “esaurisce” le risorse, materiali e umane, di un dato territorio ed ambiente storico-sociale. Inesorabilmente il tasso del profitto vi scende quasi a zero, non c’è più “calore” e le macchine si fermano. La classe operaia dovrà trovare in sé stessa quell’energia, da impiegare in senso distruttivo, che ha abbandonato la classe dominante.
Nella tabella dei Cicli lunghi si nota come la Cina possa ben vantare il suo slancio giovanile, seguita non da vicino dall’India, a sua volta seguita da Russia, Giappone e poi gli altri. Fanno eccezione solo, nello scorso trentennio, la Germania e, segnatamente, l’Italia, invecchiate precocemente, si direbbe.
L’ultima colonna riguarda il ciclo in corso, calcolato quindi con dati provvisori ma che ben indicano il nettissimo scarto fra “vecchi” e “nuovi”, che sembra ormai irrecuperabile.
Nella precedente versione della Tabella di confronto fra paesi degli Incrementi medi fra annui di massimo crescenti, o dei Cicli brevi, che abbiamo esposto a Viareggio e pubblicato sul numero dello scorso giugno, poiché risaliva solo al 1937, anno non di massimo industriale per nessun paese, i cicli più antichi non erano tali, cioè non partivano da un massimo. Nella presente versione, risalente al 1929, questo è stato corretto. Inoltre in quella tabella c’erano alcuni errori di calcolo e trascrizione.
30 |
31 |
36 |
37 |
39 |
41 |
43 |
44 |
48 |
49 |
50 |
51 |
52 |
53 |
57 |
60 |
66 |
69 |
70 |
73 |
74 |
79 |
80 |
85 |
86 |
89 |
90 |
91 |
95 |
97 |
00 |
01 |
05 |
|||
|
|
23,2 |
0,4 |
12,4 |
|||||||||||||||||||||||||||||||
|
6,9 |
5,7 |
5,3 |
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|
0,9 |
12,5 |
0,9 |
1,8 |
4,9 |
3,8 |
2,6 |
2,1 |
3,6 |
1,1 |
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|
0,8 |
3,9 |
5,6 |
1,4 |
1,3 |
3,3 |
3,6 |
0,6 |
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|
5,8 |
5,5 |
8,2 |
3,4 |
0,1 |
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|
2,3 |
5,6 |
4,5 |
2,9 |
1,4 |
1,1 |
1,5 |
-0,9 |
|||||||||||||||||||||||||||
|
0,1 |
5,7 |
1,6 |
0,2 |
2,5 |
0,7 |
2,6 |
0,3 |
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|
2,0 |
1,9 |
2,3 |
3,2 |
2,3 |
1,2 |
1,1 |
1,0 |
-1,0 |
||||||||||||||||||||||||||
30 |
31 |
36 |
37 |
39 |
41 |
43 |
44 |
48 |
49 |
50 |
51 |
52 |
53 |
57 |
60 |
66 |
69 |
70 |
73 |
74 |
79 |
80 |
85 |
86 |
89 |
90 |
91 |
95 |
97 |
00 |
01 |
05 |
Questa tabella dimostra nettamente come la guerra imperialista abbia funzionato da bagno di giovinezza per il capitalismo. Tutti i paesi che hanno subito gravi danni di guerra segnano poi lunghi cicli di ininterrotta accumulazione. E in generale i cicli successivi alle guerre sono molto lunghi.
Anni di crisi internazionale del capitalismo si rilevano, oltre al 1929-33 che qui non si vede, negli anni precedenti la Seconda Guerra, e che la determinano, nel 1966 e, maggiore, nel 1973-74; infine nel 2000-2001. Ma la vera cesura è al 1974: si dà un prima e un dopo, con un generale rallentamento dell’accumulazione. Il penultimo ciclo si è chiuso nel 2000 (per la Francia nel 2001) e solo adesso si sta uscendo della recessione che l’ha seguito.
L’India è stata interessata da tutte e tre le recessioni mondiali del 1966, del 1973 e del 2000, seppure non con gravi recessioni.
Come si vede, se in Francia e in Italia si susseguono cicli della durata intorno a 5 anni, gli Stati Uniti presentano un ciclo piuttosto decennale, tanto che si può prevedere la prossima recessione per circa il 2010-2011.
A quella data anche la Cina accuserà una crisi e, ora che dipende sempre
di più dal mercato mondiale, non è da escludervi una grave recessione
come quella del 1929.
LA QUESTIONE EBRAICA: (6) Liberi dal Faraone
Abbiamo infine ascoltato un’altra parte dello studio che dedichiamo alla controversa Questione ebraica, ma che intendiamo proseguire nel senso di approccio materialista e dialettico alla storia delle religioni.
Ricorre nella storia degli ebrei la formula-professione di fede: “Il Signore ci ha liberato dalla schiavitù d’Egitto”.
È noto come nel tempo le religioni che si ispirano al Vecchio Testamento hanno fatto di tutto per edulcorare la formula in nome del suo puro valore ideale e spirituale, ma chi conosce meglio l’anima ebraica sa che la formula è quanto mai concreta e materiale. Veramente gli ebrei aspettavano il Messia, l’inviato da Dio che li liberasse dal nemico. È inutile far finta di non capire: la nozione d’una storia ciclica, che ritorna su se stessa, è più gradita alle classi dominanti di sempre, che inoculano una visione del mondo sociale e della stessa natura come rètte da leggi fisiche, mentre il movimento e la trasformazione vengono lette come metafora o apparenza.
Dunque il mito e l’ideologia tendono a manomettere una versione ancorata alla realtà storica, come fu ed è quella del mondo ebraico in generale.
Naturalmente la nostra lettura vede ogni sovrastruttura come ideologica, e dunque tentativo di tradurre nella testa il movimento reale. Siamo per rimettere sui piedi anche la storia ebraica antica e moderna, e identificare quali forze, classi o gruppi dominanti furono interessati a determinate scelte, anche tragiche, come la crocefissione di Cristo.
Ma non dimentichiamo che, al tempo di Cristo, ad essere crocifissi erano gli schiavi ribelli, e non è certo causale che Cristo sia sorto in circostanze che reclamavano la liberazione degli schiavi in tutto l’orbe romano. Niente nella storia è casuale, come oggi si crede e si tenta a far credere.
Allora non abbiamo timore a sostenere che il messaggio di quegli eventi antichi può e deve alludere oggi alla liberazione del proletariato soggetto ai nuovi Faraoni, il Capitale, con le sue Piramidi, e la Babele delle sue Torri, che un certo fondamentalismo islamico si illude di far cadere al di là della lotta delle classi, contro e come surrogato della lotta fra le classi. Ecco perché la nostra posizione è assolutamente unica e non collima con nessun altra.
Se però, come si ama fare con operazioni subdole, si vorrà sostenere che Marx la pensava così semplicemente in quanto “ebreo secolarizzato e risentito” contro i nuovi padroni, allora diremmo che il materialismo storico ha sì la sua componente ideologica, ma non si riduce ad essa. Di questo siamo portatori, non solo di romanticherie che scaldano il cuore.
Dunque la storia dell’ebraesimo ci interessa poiché rappresenta una
interpretazione influente non solo nella storia antica, ma anche in quella
moderna, dominata dallo scontro di classe tra capitale e lavoro, che si
tenta da ogni costo di camuffare come scontro religioso.
PAGINA 3
La
storia italica nello specchio deformante della sua ideologia
Capitolo V
esposto a Cortona il 3 ottobre 2004.
Non si contano gli atteggiamenti di sufficienza, quando non di esplicito disprezzo a cui la nazione italica è stata sottoposta dai nemici e dagli amici momentanei per i giri di valzer nei quali si è specializzata. Se li è meritati?
Non stiamo al gioco né delle frustrazioni né di facili entusiasmi, che esula dal nostro metodo; possiamo però, molto più seriamente e scientificamente riconoscere che tutte le sovrastrutture ideologiche legate a nazionalismi, culturalismi, religioni, di fronte alla realtà italiana non sono sufficienti a render ragione né del fascismo, considerato una creazione specificamente italica, né del seguito, in questo caso facendo uso strumentale del concetto di “biografia” che abbiamo accettato di prendere in considerazione.
Che la penisola si sia data un assetto unitario secondo i criteri che abbiamo detto, che mossero Gramsci alla ricognizione dei suoi limiti e magagne, è un dato oggettivo. Una volta che fu accettata nel “concerto europeo”, con molte riserve, i suoi governanti si distinsero presto per la tendenza a rispettare poco i patti, a fare i propri interessi, spesso miopi e meschini, a saltare le alleanze. Ciò a creato un idealtipo che tutti conoscono: la borghesia italiana furba, anzi furbastra, tendenzialmente inaffidabile, ma pur sempre “geniale”, specie nell’arte, nella navigazione e... nell’eroismo, sapientemente ostentato per camuffare il proprio più che evidente servilismo.
Abbiamo però anche sottolineato come questa sudditanza nei confronti dei partners ha sempre avuto come pendant la durezza, spietata e vigliacca nei confronti del nemico interno. Cominciò col trattamento truculento da parte dello Stato unitario, nella persona d’un garibaldino come Bixio, della realtà contadina meridionale e della soppressione del brigantaggio, che stava diventando la base di manovra di velleitarismi vandeani.
In seguito costellano la sua storia gli eventi segnati dalla mano pesante nei confronti del nascente proletariato industriale, dalla repressione crispina dai fasci siciliani, dalle cannonate sulla folla ordinate da Bava-Beccaris, nei moti contro il carovita del 1898, dalle violenze delle squadre fasciste che intendevano distruggere la forza operaia dopo la guerra mondiale.
Perché tanta differenza tra i rovesci militari, da quelli subiti perfino dagli abissini ed eritrei nella vergognosa campagna d’Africa, fino a Caporetto, per non parlare delle pietose imprese dell’esercito durante il Secondo conflitto imperialistico, e la burbanza con la quale invece furono puntualmente repressi i moti operai? Non è sufficiente demonizzare, limitandoci al carattere dei militari, al conservatorismo intriso d’accademia e di odio contro i ceti popolari. Ci sono ragione più serie, determinate dalla natura e dalla storia dello Stato italico che, giunto tardi nella scena capitalistica, si trova in una condizione di inferiorità nei processi di modernizzazione, e dunque subisce rovesci quando si arriva alla guerra esterna, ed invece calca la mano contro gli inermi, la cui sola forza è quella della disperazione, contro quell’organizzazione operaia e sindacale, che si difende quasi sempre a mani nude, ma ormai un chiodo fisso nella strategia nazionale, che può sperare di irrobustirsi solo schiacciando il nemico interno.
Tutte le esperienze, non solo quell’italica, di Stati arrivati tardi nell’agone interimperialistico sono segnate da questo motivo ricorrente: difficoltà nell’innescare e mantenere l’accumulazione del capitale, e brutalità nei confronti del proletariato. Chiaramente lo dicono la storia tedesca e russa, per non parlare di quella dei paesi che emergono, a livello mondiale, dopo il Secondo conflitto.
Intendiamo con questo “scusare” la classe borghese di questi paesi, come qualcuno ha tentato di insinuare, per accanirci contro i più antichi, democratici e meglio organizzati, tipo America, Francia e Inghilterra? Neanche ci passa per la testa. Intendiamo seguire le regole del nostro metodo, che non si limita all’indignazione, in quanto ha bisogno di conoscere le modalità della repressione statale, per non illudersi e non illudere che ci segue sulla possibilità di impostare la sua strategia su meno aspre prospettive.
In tal senso abbiamo avuto modo di negare che i totalitarismi moderni siano nati da fattori culturali, o solo da essi, per affermare invece che l’universo borghese è interconnesso, e non si sconfigge se non secondo una visione generale, non a caso riassunta nell’appello di Marx “proletari di tutto il Mondo unitevi”.
Se è vero, come è vero, che il postfascismo ha significato la vittoria del modello sociale corporativo, mascherato a livello politico dal ripristino formale della divisione dei poteri, ne discende che l’apparato statale continua a svolgere la sua funzione di repressione del nemico interno. Come avevamo previsto e valutato, lo Stato borghese moderno non poteva permettersi di smantellare i suoi apparati, anzi aveva bisogno di rafforzarli ulteriormente, come ha cercato di fare ogni volta che ne ha avuto la possibilità. Che senso può avere la tripartizione dei poteri se poggiano tutti su un modello sociale che prevede la necessità di reprimere anche penalmente ogni movimento considerato antinazionale, e che comporta la compatibilità con l’economia nazionale d’ogni organizzazione sindacale dei lavoratori?
Di fatto i paesi arrivati in ritardo nella competizione mondiale del capitalismo moderno rivelano tutti, in misura diversa questa esigenza: di impedire che tra le maglie dello Stato possa passare una sia pur minima pretesa di manomettere il sistema sociale.
L’Italia, più di altri nell’area occidentale, dal secondo dopoguerra in poi si è trovata, ad ondate successive, a dover fronteggiare la pressione proletaria, ancorché incardinata nel sindacalismo neocorporativo. Ed ogni volta che le crisi si sono presentate, si è aperto il conflitto di gerarchia e di attribuzioni tra i tre poteri dello stato. Il caso ultimo è esploso con la cosiddetta “rivoluzione di mani pulite” in poi.
L’anello debole della catena imperialistica, o almeno uno degli anelli deboli dell’area occidentale, continua ad essere tale, anche se si vanta d’essere a tutti gli effetti acquisito alla democrazia di tipo liberale. La spia di quanto stiamo sostenendo è costituita, come sempre, dalla politica estera italiana, che dopo essersi infeudata, inevitabilmente, allo scacchiere atlantico, ha sempre tentato però di ricavarsi una furba posizione di libertà di scelta, al punto di venire accusata di praticare contemporaneamente almeno tre politiche estere. La prima e prevalente consiste nell’adesione all’Alleanza Atlantica, secondo la scelta fatta nel 1949; la seconda nel tenere un occhio di riguardo nei confronti del mondo arabo, determinante nella politica di approvvigionamento energetico. La terza nella velleità di farsi mediatrice col mondo dell’est, con l’odiato “comunismo”; a tale politica è funzionale il maggiore partito di opposizione, infeudato al “socialismo reale” ma del quale non si esclude una evoluzione in direzione... democratica.
L’anello debole, insieme con la sua fragilità ha infatti un vantaggio, quello di conoscere meglio e prima degli altri le alternative possibili. E l’Italia deve essere attenta a mantenere rapporti d’attenzione anche nei confronti del nemico. Già nel 1960 il Presidente della Repubblica Gronchi tentò una sua cauta apertura, fallita, col suo viaggio a Mosca.
In realtà, se la politica tra gli Stati è pur sempre politica tra le classi, nessuno ha mai negato che, essendo il Partito Comunista Italiano il più consistente dell’occidente, è necessario che la mezzadria di potere sia ben governata, nella prospettiva di eventuali pressioni operaie, che sono ipotizzabili in un paese anomalo, oscillante sempre tra la normalità dello sviluppo e possibili traumi determinati dagli storici ritardi, vizi di formazione, civismo e patriottismo molto sospettabili.
Se già Roosevelt si interessò del sistema sociale fondato sull’intervento statale in economia, figuriamoci i suoi eredi, mai disposti a fidarsi ciecamente d’un alleato da tenere sotto controllo e sotto osservazione. Stando alle indiscrezioni ed alle polemiche tale atteggiamento si è mantenuto vivo fino all’affaire Moro. Durante la guerra fredda le sue code terroristiche sono prodotto di intrecci mai chiariti tra presunta volontà di lotta “rivoluzionaria” e dipendenza dalle centrali terroristiche di potentati interessati al gioco sporco.
Nell’immediato dopoguerra il programma del rinato Partito Comunista Internazionale teneva conto di questa realtà. Deve pur esserci una ragione del fatto che solo la corrente di sinistra italiana della vecchia Internazionale ha avuto la possibilità ed il compito storico di rintracciare recuperare e ritessere i fili generali della dottrina e del movimento dopo il Secondo conflitto interimperialistico.
Ma la caratteristica più evidente che permette di valutare l’anello debole d’uno scacchiere è per noi costituita dalla duplice natura d’un paese come l’Italia, che se da una parte aspira ad essere una democrazia liberale, di tipo anglosassone, dell’altra non riesce a superare definitivamente la sua tendenza ad affidarsi a soprassalti demagogici, a tentazioni golpiste, a chiusure burocratiche, che la dicono lunga sugli assetti del potere statale, che deve arbitrare contraddizioni e scompensi.
Con queste osservazioni non intendiamo certo sostenere che tali problemi non riguardino anche gli Stati a più sperimentata democrazia, come Stati Uniti e Regno Unito; intendiamo soltanto sottolineare come la mediazione tra il vecchio e il nuovo è più complessa e tortuosa in un paese come l’Italia che ha imboccato l’industrialismo capitalistico dovendo fare i conti con il suo ampio retroterra contadino e colla sua storica divisione in staterelli regionali.
Ci soffermiamo su questi argomenti per ribadire una tesi da noi sostenuta con decisione, quella per la quale non c’è in Italia da attendere un più dispiegato capitalismo perché sia economicamente e socialmente possibile il passaggio al socialismo. È evidente che ciò non impedisce la conoscenza delle caratteristiche particolari d’ogni situazione particolare, in qualsiasi area interessata dallo sviluppo del moderno capitalismo. Alla condizione però che sia ricondotta al giudizio storico generale dei tempi recenti sia della storia del movimento operaio sia di tutte le classi in gioco. In questo consiste la nostra differenza in rapporto alle altre correnti che si sono poste il problema politico della presa del potere da parte delle classi subalterne.
Se emblematica è la “questione Italia”, lo è per noi egualmente quella tedesca, russa, e infine l’analisi di tutte quelle realtà spurie che si sono poste dovunque il capitalismo è penetrato nel corso del XX secolo. Lo “schematismo” che ci viene rimproverato è l’unico che ci ha evitato la bancarotta ideologica e politica, come è avvenuto per parenti ormai ripudiati.
Del resto, anche restando all’interno dell’ottica statual-nazionale capitalistica, oggi si ammette la necessità degli Stati nazionali di rinunciare a pezzi o aspetti della loro sovranità in nome d’una ragione più generale, che in ultima istanza corrisponde alla difesa complessiva del modo di produzione e di cultura che gli corrisponde. Ciò comporta sì la pretesa che “la nazione” sarebbe per certi aspetti un valore insuperabile, mentre le forme di “sovrastato” corrisponderebbero alla possibilità di far fronte a esigenze che travalicano i confini stabiliti in determinate fasi storiche. Non è dunque il socialismo in quanto ideologia, come si lamenta, a postulare il superamento dei limiti statali, ed anche le chiusure culturali di tipo nazionale o nazionalistico; questa è un’ammissione inevitabile, che però non corrisponde affatto al socialismo stesso.
Il capitalismo nella sua fase imperialistica, infatti, mentre formalmente ha dato vita ad istanze internazionali che avrebbero dovuto arbitrare i nuovi conflitti e contraddizioni, secondo un criterio democratico di pari dignità e di eguaglianza, alla prova dei fatti ha imposto all’interno di questi organismi, come la Società delle Nazioni, o le Nazioni Unite in seguito, gli interessi delle potenze che a mano a mano sono risultate egemoniche nei rapporti mondiali. La “sovranità” a cui i singoli Stati sono “disposti” a rinunciare insomma è solo una sapiente ed ipocrita imposizione, a copertura di interessi fondamentali e irrinunciabili. Non esiste dunque in realtà un’effettiva comunità internazionale, ma la convivenza di gelose chiusure, con inevitabili rinunce, che non dominano certe le contraddizioni di classe. L’illusione d’un governo mondiale che possa razionalizzare le contraddizioni tra Stati è dunque destinata a continuare, mentre al contrario, nell’ottica di classe, queste sono destinate ad acuirsi, ed in certi casi a rimettere in discussione anche assetti nazionali ritenuti saldi.
Dunque la Stato nazionale viene concepito come insuperabile nella logica degli interessi, al punto che ogni Stato-nazione ha la pretesa di continuare ad approfondire la mai realizzata “unità” interna, ammettendo con ciò che le sue interne contraddizioni si acuiscono o si attenuano nella altalena degli sviluppi economici e quindi culturali. Naturalmente la spiegazione che viene data dal pensiero politico borghese è quanto mai debole: l’unità spirituale e l’armonia del popolo sarebbe soggetta ad un incessante sviluppo, di cui non si indicano le modalità. Al contrario noi pensiamo che la dialettica interna tra le classi in ogni nazione è soggetta alle tensioni, ai rapporti mutevoli tra di esse, per cui di fronte alla pressione del proletariato lo Stato tenterà sempre di riorganizzarsi per reprimere, mentre a livello dei rapporti mondiali l’egemonia di certe potenze rispecchierà non solo la sua superiorità nel mercato, ma anche la sua sapienza nel tenere soggetta la classe dei proletari.
Queste valutazioni ci permettono di comprendere come nell’ottica del socialismo alla scala nazionale, preconizzato da Stalin e perseguito anche in Italia dalle forze dell’opportunismo dopo il Secondo conflitto, il processo di coesione nazionale è andato svolgendosi secondo un andamento molto accidentato e contraddittorio, nel corso del quale, nei momenti topici, i partiti democratico-socialisti (compreso naturalmente il partito di Togliatti) si sono preoccupati di dimostrare la loro lealtà alla Costituzione, lasciando poi intendere al proletariato che la lotta sarebbe potuta riprendere in un futuro indeterminato.
Possiamo identificare questi svolti significativi nel 1948, all’inizio del processo, nel 1964, quando all’avvento del centrosinistra si parlò di preparativi di colpo di Stato, da parte del generale De Lorenzo sollecitato dal presidente Segni, poi ancora dopo l’attentato di Piazza Fontana nel 1969. E ancora si è minacciata la possibilità di tentativi autoritari ogni volta che la tensione sociale interna si saldava con difficoltà internazionali, fino alla caduta del muro di Berlino.
Recenti messe a punto di carattere storiografico, sia pure in chiave revisionistica, hanno dimostrato, documenti alla mano (storico Pons), che fino alla caduta del mito Russia, nonostante gli strombazzati “strappi”, in Italia il partito staliniano ha continuato a rivendicare il ruolo della Russia come “patria del socialismo”, in modo tale che potesse svolgere il solito duplice ruolo di punto di riferimento del proletariato quale partito “di lotta e di governo”, e nello stesso tempo baluardo insostituibile a difesa della Costituzione “nata dalla Resistenza”.
Dopo i fatti di Polonia Berlinguer, ora riconosciuto come “grande italiano”, nel 1981 parlò di “esaurirsi della spinta propulsiva dell’URSS”, patria della rivoluzione d’Ottobre, senza però mettere in discussione il suo ruolo del mondo, dopo aver riconosciuto i suoi interni “tratti illiberali”, che auspicava potessero essere corretti, come tentò di fare il “riformatore” Gorbaciov.
Partiamo dall’esito finale del mito Russia per far comprendere meglio l’andamento ambiguo e fallimentare della “via nazionale al socialismo”, giustificata con l’apporto di Gramsci prima, e di tutta una serie d’elaborazioni e rivisitazioni, incentrate nel ripensamento della storia del tessuto nazionale. Ancora oggi non ci si riesce a decidere quanto questa posizione possa essere detta in funzione dell’esito socialista, e quanto invece di sostegno dello Stato democratico borghese inteso come base necessaria per ulteriori conquiste utili alle classi “popolari”. Segno che la realtà italiana, sempre vista nel contesto dell’apparato imperialistico mondiale, ha continuato a presentare peculiarità tali da far pensare alla possibilità di far leva su di esse per stravolgere definitivamente ogni riferimento concreto al socialismo secondo Marx e Lenin, ma soprattutto secondo gli sviluppi della realtà della storia.
Ancora una volta lo studio della doppiezza non vuole essere un’accusa morale, ma oggettivamente politica, capace di trovare i suoi anche personali interpreti, come sempre avviene.
Nessuno può negare che la politica opportunistica dei partiti che insistono a richiamarsi alla tradizione operaia è quanto ci vuole per tenere legato al carro della borghesia un proletariato che, pur avendo perduto la bussola di classe, è ancora, nonostante tutto, capace di mobilitarsi per ragioni di salario e di condizioni di lavoro. Il nostro partito non ha esitato a dire che occasioni come i funerali di Togliatti nel 1964, o quello di Berlinguer nel 1984, furono momenti in cui il proletariato dimostrò d’avere attaccamento sincero in capi che rappresentavano ai suoi occhi un richiamo effettivo alla propria tradizione. Segno che nell’anomala Italiuzza l’organizzazione operaia aveva ancora delle velleità, e che decenni di politica opportunistica non erano stati capaci di sradicare la sua voglia e necessità di lotta e di emancipazione nella direzione del socialismo.
Del resto la spina nel fianco per le velleità riformistiche, ben camuffate da soprassalti massimalistici in grado d’interpretare certe spinte proletarie, è stata proprio la condizione anomala del proletariato italiano, non integrabile in una cornice rassicurante proprio a causa della sua tradizione di lotte, che vanno iscritte nella logica d’uno Stato borghese costruito dall’alto. Non si capisce bene se e fino a che punto la via italiana al socialismo si è mossa sulla falsariga del socialismo democratico, oppure ha tentato una anche più equivoca “terza via”, dimostratasi nel tempo sempre più impraticabile.
I nostri Schemi di sistema sociale e di Stato hanno individuato quello emulativistico-staliniano, per distinguerlo da quella socialdemocratico tradizionale, riconoscendo dunque che questo tipo di Schema è ben più ostile al proletariato, in quanto sembra assecondare certe sue istanze rivoluzionarie. Questa nostra tesi non significa sostenere che i paesi “democratici” sono indenni dalla lotta di classe, e dunque al sicuro dalla nemesi della storia: intende solo prendere atto che negli anelli deboli sta la possibilità di vedere cedimenti, a causa delle storiche ed irrisolte questioni sociali e politiche, specie riguardo l’apparato dello Stato e le sue tecniche repressive. Che l’involucro democratico costituisca la migliore delle forme mimetiche attraverso la quale la borghesia nasconde la sua capacità di controllo delle classi subalterne, non può essere messo in discussione. Né si può negare che hanno potuto ottenere questi risultati gli Stati-nazione che a sua tempo fecero la rivoluzione borghese. Il loro vantaggio nei confronti degli altri è sotto gli occhi di tutti. Hanno potuto coinvolgere l’aristocrazia operaia nella gestione del potere, le hanno potuto scodellare qualche cospicuo premio in virtù delle politiche prima coloniali poi imperiali, creando nel campo proletario delle oggettive differenze e tensioni mai risolte.
Si potrebbe obiettare che durante le guerre gli Stati anello debole
hanno avuto la possibilità di chiamare a raccolta lo stesso proletariato
in nome della “nazione proletaria”, come fece lo stesso fascismo; ma
poi, alla fine dei conti, la lezione storica la sappiamo tutti. I “dittatori
borghesi” di stampo populista sono stati puniti, mentre il sistema democratico
abilmente ha ereditato le loro intuizioni, come lo Stato corporativo ammantato
di liberalismo.
A Taranto, ai gravi problemi del proletariato come la disoccupazione imperante, la precarietà dei nuovi impieghi, l’insicurezza del lavoro, l’inquinamento dal siderurgico, si sono aggiunte anche le conseguenze del dissesto delle finanze comunali, con ripercussioni attese sul costo delle utenze e financo sul pagamento degli stipendi ai dipendenti. La possibile insolvenza del Comune riguarda 1.280 lavoratori diretti e circa 2.000 dell’indotto e delle ex municipalizzate dei trasporti e dell’igiene urbana.
Il tentativo di risanamento ha prodotto misure che prevedono anche l’aumento delle tasse sugli immobili e sulla spazzatura, la soppressione di servizi come il trasporto alunni e gli asili nido, la riduzione del monte-ore lavorativo (e dei salari) tendente allo zero agli addetti alle pulizie di scuole, municipio e tribunali (lavoratori questi anche organizzati nello “Slai Cobas per il Sindacato di Classe” e in “Cobas Confederazione”).
I 49 lavoratori dell’inceneritore di rifiuti sono stati addirittura licenziati. L’azienda, privata, creditrice verso il Comune di somme di decine di milioni di euro, ha preferito non appesantire il proprio bilancio con i conti della “cassa integrazione”, per non aggravare la propria situazione nei confronti delle banche, colpendo senza pietà i suoi salariati tarentini.
Sono state alienate le quattro farmacie comunali e si è cercato di vendere immobili, ma si sarebbe ricavato solo una sessantina di milioni, cifra insufficiente per arrivare al 31 gennaio prossimo e far fronte alle prossime uscite. In cassa a metà ottobre c’erano 5 milioni di Euro contro un fabbisogno di 82.
Alla fine, dopo sette mesi di verifiche contabili, il commissario prefettizio non ha potuto evitare la dichiarazione di dissesto finanziario, in pratica il fallimento, con debiti accertati per 318 milioni! Questo porterà al blocco degli interessi passivi e a procedure di pignoramento.
Lo Stato si dovrà far carico del “risanamento” (si fa per dire...) ma aumenteranno al massimo di legge le aliquote delle imposte locali, le tariffe dei servizi, il ricorso alle risorse esterne, fino a ridisegnare la pianta organica del personale, con possibile messa in lista di mobilità di impiegati e operai. Ma non è certo se, come auspicano i politicanti del centro-sinistrume, che intravedono una sicura vittoria elettorale dopo un decennio, il Governo-Prodi interverrà per portare subito liquidità con un decreto legge straordinario o con qualche disposizione in Finanziaria.
È una nuova emergenza sociale che colpisce i lavoratori comunali, e soprattutto quelli dell’appalto, con il ritardo, la riduzione o la soppressione delle retribuzioni. Le cifre in rosso non permettono nemmeno il pagamento degli stipendi ai dipendenti a tempo indeterminato. Per questo motivo sono stati convocati ad una riunione - ovviamente alla sera, in ora post-lavorativa - dove il commissario ha esposto la situazione: «Se ci saranno le risorse sufficienti gli stipendi saranno pagati per intero, altrimenti ci regoleremo su quanto abbiamo a disposizione. Non perderete nulla: se un mese prenderete l’80% il restante 20 sarà recuperato in seguito», avrebbe annunciato ai 700 intervenuti.
Mentre i sindacati di regime “attendono” degli anticipi di fondi da parte del ministero degli interni, che permettano il pagamento delle retribuzioni, il disagio di classe emerge soprattutto tra le file dell’appalto e l’elenco delle dimostrazioni sarà prevedibilmente lungo, dato che ormai tutti i servizi delegati all’ente locale sono stati esternalizzati a privati. Società e “cooperative” (per modo di dire) fondate apposta dai notabili borghesi del loco per lucrare sugli appalti, si arricchiscono grazie al lavoro salariato (assai scarsamente) di dipendenti o “soci”, il cui posto è a rischio ad ogni nuova gara. Tra questi troviamo un mondo variegato che va dagli ex-detenuti dei servizi mortuari ai laureati in psicologia impiegati per l’assistenza agli anziani, tutti accomunati dal fatto, però, di essere appartenenti alla medesima classe operaia.
A farsi sentire intanto sono stati gli operai dell’inceneritore e quelli della cooperativa che gestisce i servizi cimiteriali che, alla vigilia della ricorrenza del 2 Novembre, hanno scioperato, bloccando le sepolture, per avere, giustamente, garanzie sui pagamenti. Ma sul piede di guerra anche quelli del canile che minacciano di liberare dalle gabbie 700 cani e i netturbini che annunciano il blocco delle indispensabili ed “ordinarie” prestazioni straordinarie.
Non ci scandalizza l’opera predatoria delle bande che hanno svaligiato le casse comunali nei vari episodi scoperti dalla magistratura.
Per “venir fuori” da questo “circolo vizioso”, politici, sindacalisti traditori, chierici, intellettuali indicano “riforme”, che significano sempre privatizzazione, precarizzazione, flessibilità, licenziamenti, riduzioni salariali e maggiori carichi di lavoro. La scappatoia tipica, poi, è la valvola di sfogo democratica: la soluzione endogena al sistema è “l’alternanza di governo”, l’elezionismo. Oramai ad ogni primavera ne viene somministrato a volontà: inebetisce un proletariato sempre più scorato con diatribe infinite sulla base di personalismi e niente programmi. O meglio: sulla base dell’unico programma politico, che è quello dettato dal Capitale.
Ma nemmeno con una giunta civica di “onesti”, queste patologie sarebbero sanabili: la crisi è del sistema capitalistico che oramai è irriformabile e va superato. Da marxisti sappiamo che la crisi economica è strutturale e non provocata dalla disonestà dei borghesi: se questi fossero perfettamente onesti ci sarebbe lo stesso. Quindi un eventuale ripulisti-resa dei conti fra le varie frazioni della borghesia, che si scontrano per accaparrarsi il più possibile del prodotto dello sfruttamento del lavoro salariato, non rallenterebbe affatto la crescente impossibilità del capitale a riprodursi. Forse a Taranto la bulimia di plusvalore di gruppi borghesi era eccessiva per i cerberi del capitalismo europeo e della confindustria italiana che hanno in Prodi il loro rappresentante del momento. Governo questo che ne approfitterà per tagliare ancora sul “sociale”: è la coperta capitalista che diventa sempre più corta.
La soluzione alla precarietà delle condizioni di vita della classe operaia è nel Comunismo, stadio della società umana ormai necessario. Ogni altra prospettiva, diversa dalla rivoluzione comunista internazionale, finalizzata alla conservazione, perpetua lo sfruttamento capitalistico e la permanenza in estrema precarietà per il proletariato.
La crisi fa sentire i suoi morsi su tutti i lavoratori, anche su quelli degli enti pubblici, non addetti alla produzione materiale ma che comunque per lo più sono proletari anch’essi, e molti a basso salario. Solo che, per il fatto di essere “pubblici”, si illudevano di essere immuni dalla tipica precarietà che affligge i lavoratori delle aziende private. Anche questo mito viene infine a crollare.
Sarebbe auspicabile che lavoratori di tutte le categorie, sia pubblici sia privati, si potessero incontrare e lottare insieme in una ricostituita Camera del Lavoro, che dia organizzazione e unitarietà di lotta ai vari rivoli di malcontento proletario. Altrimenti le mobilitazioni divise resterebbero effimere e presto riassorbite dai professionisti della “concertazione” del sindacalismo di regime.