|
|||||||||
|
|||||||||
|
PAGINA 1
Il
compagno Livio ci ha lasciato
Si è spento stamani, 4 marzo, nella sua casa di Napoli, all’età di 84 anni.
La malattia, negli ultimissimi mesi, l’aveva assai indebolito, ma a noi sembrava che mai il nostro esuberante, debordante Livio sarebbe potuto venir meno. Ci manca e mancherà la sua energia, l’intelligenza non comune, l’umore gioioso, festante.
Era impossibile non amarlo quando ai nostri incontri mostrava ancora l’entusiasmo di quel giovane che – figlio già di un fedele compagno del 1921 (e di madre tedesca, che molto presto avrebbe perduto) – aveva aderito al partito nei primi anni del dopoguerra: “perché non facciamo questo, eh, che ci vuole..?”
Coi giovani, poi, che intratteneva a tavola e nelle more delle riunioni, era come animato da una forza interna volta a trasmettere, attingendo alla sua lucida memoria, quanto più possibile delle esperienze e degli insegnamenti di una vita intera di studio severo.
Per anzianità e per la lunga milizia sentiva, giustamente, l’ansia che nulla si disperdesse del ricordo, orale e scritto, del modo d’essere comunista al quale si era abbeverato per lunghi decenni e di parte del quale, per la generale situazione avversa, era rimasto l’unico depositario. Custodiva ordinato ogni documento, aveva perfino trascritto singole frasi e felici espressioni dei vecchi compagni (una volta ci lesse una sua copia di una bella lettera, personale, di Ludovico Tarsia ad altro vecchio, di Torre Annunziata ci sembra, di consolazione per la morte della moglie) e si preoccupava di come poterli in qualche modo pubblicare o farne comunque parte ai compagni.
Per il partito era un lavoratore instancabile, forte delle sue enciclopediche letture e capacità. A questo teneva e a questo aveva impostato e disciplinato la sua vita non breve, in un molle e duro secondo Novecento che lo esigeva. E la sua stanza appariva come un attrezzato efficientissimo laboratorio. Si gettava entusiasta in ogni impegno, su diversi argomenti, spesso difficili e controversi, che poi veniva ad esporci in serena sicurezza.
Tanto si dava abbondante nelle conversazioni, travolgeva gli ascoltatori anche con due, tre, quattro lezioni dal vissuto personale e di partito raccontate, gerarchicamente intrecciate, nella stessa corrente del discorso, quanto teneva alla misura, precisione, rigore, anche meticolosità nel lavoro di partito, che ne ha donato moltissimo, nella sua ordinata calligrafia “in punta di lapis” sì che fosse tutto chiarissimo. Oltre di lui e dopo di lui.
Sì, un compagno indispensabile.
Un abbraccio alla moglie, alla figlia e ai compagni napoletani.
Finalmente, per la popolazione irachena, anche le elezioni sono passate, col tragico bilancio di altre bombe, morti e feriti.
Elezioni farsa – ma come lo sono ovunque, negli Usa e in Europa pure!
La borghesia imperialista, oggi in particolare quella americana, vorrebbe estendere il cretinismo parlamentare, che tanto utilmente applica sul proletariato occidentale, anche a quello iracheno e, in generale, alle masse oppresse del terzo mondo, sempre più numerose e, potenzialmente, minacciose.
È solo grazie alla celebrazione del rito elettorale che i giornalisti – embedded, arruolati, anche quando scrivono da qua – possono vantare che, se la guerra non ha imposto la pace, se ha rovinato le condizioni economiche, se ha distrutto case, ospedali e scuole, se è riuscita a far mancare alla popolazione irachena persino la benzina oltre all’elettricità e all’acqua potabile, però ha, infine, portato la Democrazia, consentito la dialettica dei partiti, ha fatto assaggiare il sapore della Libertà!
Ma il gran circo elettorale è stato tirato su anche per fomentare le divisioni etniche e religiose, così sancite e formalizzate, favorendo la politica degli occupanti. Ulteriori sanguinosi attentati verranno a dimostrare che i “liberatori” hanno ancora da portare la moderna civiltà in un paese “arretrato”, dominato dallo scontro “incivile” tra clan, tribù, “fanatiche” fazioni religiose e che non conosce ancora la “superiore” tradizione e le buone maniere parlamentar-democratiche.
Questa è una doppia menzogna.
1. L’Irak non è un paese arretrato, cioè né
pre-capitalista né pre-borghese, sia che la cosa si riguardi dal
punto di vista economico, sia sociale, sia politico.
2. I “liberatori” americani hanno solo sostituito un dittatore, che
giocava su troppi tavoli dopo esser stato in un tempo non lontano loro
strumento, con un’altra dittatura, democratica ma ugualmente feroce e odiosa.
Già nel 1958 la borghesia nazionale irachena, seguendo l’esempio di quella egiziana, abbatteva la monarchia filobritannica degli Husseini e si impadroniva del potere. Iniziava un processo di modernizzazione capitalista, che emarginava le chiese e che avrebbe porteto il Paese, tra colpi di Stato e repressioni feroci, a rappresentare, negli anni Settanta, una potenza regionale. Godeva della rendita petrolifera ma anche di un potenziale agricolo e industriale niente affatto trascurabile.
Il Partito Comunista Iracheno, di ispirazione moscovita, formatosi negli anni Trenta, divenne, alla fine degli anni Cinquanta, una delle maggiori forze politiche del Paese, si schierò a fianco dei partiti borghesi, secondo la tattica imposta da Mosca e contribuì a imbrigliare e deviare un particolarmente robusto movimento sociale di classe. I successivi governi borghesi – manovra classica – ricambiarono questa fedeltà con la persecuzione dei suoi militanti, a centinaia negli ultimi decenni incarcerati e massacrati, soprattutto dal regime baathista. Ancor oggi gli americani, per controllare le classi inferiori, ritengono utile sostenere il PCI, che a Bagdad è uno dei maggiori partiti del neonato parlamento, e che ricambia il favore ai nuovi padroni.
Il movimento delle classi inferiori è potuto continuare, nonostante la repressione, tanto che uno dei motivi che concorsero allo scatenamento della guerra con l’Iran fu proprio il contenimento del malcontento sociale (nei due paesi), motivo che spinse anche alla successiva guerra con il Kuwait, quando si trattò di “risolvere” la questione sociale coi suoi terrificanti macelli, secondo la lezione imparata dalle decrepite, e perfettamente democratiche, borghesie d’Occidente del 1914.
Il partito Baath, nonostante le origini laiche, ha fomentato le divisioni tribali e religiose per mantenersi al potere, appoggiandosi ai sunniti, perseguitando gli ebrei, costretti ad abbandonare l’Irak nella quasi totalità, gli sciiti, esclusi dall’apparato di Stato, e i curdi, respinti verso il confine turco.
Le classi dominanti hanno cercato in questo modo di dividere il movimento proletario, che però, pur agendo spesso in condizioni di clandestinità, ha saputo preservare le sue tradizioni di classe e i sentimenti internazionalisti, come dimostra la sua opposizione alla guerra e, in questi ultimi mesi, l’attività di ricostituzione di sindacati liberi e di associazioni al di sopra delle divisioni religiose ed etniche, in contrapposizione alla politica delle chiese, reclutatrici di consenso per i vari schieramenti borghesi e apparati statali.
Il proletariato iracheno ha, si può sperare, abbastanza esperienza per sapere che l’aggettivo “democratico” non cambia la natura di classe dello Stato, non cambia i rapporti di sottomissione fra le classi e non riduce in niente la possibilità delle classi dominanti di sfruttare il lavoro salariato.
Questa realtà di classe invece viene ben nascosta dalla cosiddetta “resistenza irachena”, tanto cara al Manifesto e a Liberazione, sia dai misteriosissimi “terroristi” dell’ancor più misterioso e “imprendibile” Zarqawi – evidentemente ben telecomandati, riforniti e protetti, anch’essi embedded nel gioco dello scontro interimperialistico – sia dai movimenti e partiti, religiosi o laici borghesi, che si oppongono all’occupazione. Quando non ispirati alla Sharia (la “repubblica teocratica” può essere anch’essa una “buona” forma di governo borghese), pretendono rifarsi ad un nazionalismo iracheno il cui programma di indipendenza e democrazia fa leva sulle utopie della piccola borghesia e serve, prima, a distogliere il proletariato dalla sua separata e autonoma organizzazione e dai suoi compiti di classe, poi a prepararne la sottomissione e, eventualmente, la repressione.
È possibile che il governo che uscirà dalle elezioni riesca ad accordarsi con alcuni o gran parte dei partiti della resistenza, un processo che a quanto pare è già in corso, sulla base di un programma di graduale ritiro delle truppe straniere e di asservimento alle pretese imperialiste in cambio di una percentuale sugli utili, naturalmente e come sempre, sulle spalle del proletariato delle città e delle campagne. La questione non dipende dalla volontà di quei partiti, ma da accordi tra ladroni imperialisti, accordi che passeranno sulle loro teste e a cui i vari partiti “nazionali” dovranno piegarsi.
È quindi giusta l’indicazione al movimento proletario in Iraq
della necessità di:
- Estendere e rafforzare la sua organizzazione sindacale difensiva,
naturale e necessaria base di inquadramento e di azione collettiva e disciplinata;
- Opporsi su basi di classe agli effetti dell’occupazione
americana, che, in complicità con la borghesia irachena, attua un
regime di repressione dei sindacati e delle lotte operaie e impone condizioni
di vita durissime;
- Rifiutare ogni commistione con l’interclassista movimento resistenziale,
che ha fini diametralmente opposti a quelli propri, contingenti e storici,
della classe operaia;
- Il proletariato si trova ugualmente nemico alle espressioni chiesatiche
e a quelle laiche della classe borghese;
- Disinteressarsi di queste elezioni farsa e delle eventuali future
e non cadere nelle illusioni della democrazia borghese. La lotta di classe
è fuori dai parlamenti.
Perché il proletariato iracheno e le sue organizzazioni difensive
riescano a restar fuori da questi multiformi inganni borghesi e possano
muoversi oltre, verso le loro maggiori affermazioni socialiste, gli occorre
la direzione di un partito che attinga alla secolare tradizione del marxismo
rivoluzionario. Solo illuminate dal programma comunista e internazionalista
originario e incorrotto le masse proletarie del Medio Oriente, dall’Iran
all’Egitto almeno, potranno porre, con forza e determinazione, i loro ulteriori
obiettivi, che sono quegli stessi della classe operaia mondiale.
Il recente maremoto che ha investito le coste del Golfo del Bengala, come ogni maestoso e terribile fenomeno della natura, conferma che, ovunque si va affermando il moderno modo di relazione borghese, il portato della scienza e della tecnica del capitale non viene in aiuto né sopperisce affatto alla dispersione che esso opera delle antiche nozioni ed insegnamenti collettivi circa le cicliche leggi della terra, del cielo e del mare che, tramandate oralmente nel mito, erano patrimonio e vera scienza dei popoli pre-borghesi.
Da un lato, per la legge della rendita differenziale, si è venuti a costruire in prossimità della battigia, si è edificato sulle dune, si sono prosciugate le lagune e distrutta tutta la fascia di vegetazione litorale, il che, nel suo insieme veniva a costituire un filtro vivente fra l’ambiente marino e quello terrestre. La popolazione è scesa dalla fascia collinare, ove l’agricoltura è capitalisticamente meno produttiva, nelle pianure costiere, spesso insalubri e insicure.
In questo trapasso, che è anche di modi di produzione e di rapporti fra gli uomini, sono andate perdute antiche conoscenze, tramandati istinti di pericolo, che i borghesi oggi chiamano irrazionali e superstizioni. Quella collettiva scienza, alla vista del mare che si ritirava per centinaia di metri, forse già insegnava agli uomini di subito salire all’altura sacra dalla quale assistere, salvi, alla furia degli dèi, per farne poi leggenda, vanto e insegnamento. Il moderno civilizzato, solo orfano individuo, tira invece fuori la videocamera.
Dall’altro lato e in positivo, la “tecnica moderna” si dimostra del tutto impotente. Non in sé (che domani tornerà sapere umano, e si riapproprierà anche della leggenda e dei miti), ma per la sua collocazione in questa società di mercanti e divisa in Stati e nazioni. La nostra quindi non è nostalgia di un passato, ma di un futuro da liberare.
Rilevare, localizzare, valutare un terremoto e prevederne gli effetti è operazione che richiede una strumentazione relativamente semplice e nozioni e tecniche sperimentate. Ma la cosa non si può fare, e la Conferenza mondiale indetta allo scopo fra gli Stati borghesi si è apertamente dichiarata fallita. Sta di fatto che, per esempio nel Golfo del Bengala, si trovano stazioni di sperimentazione di armi nucleari di India, Stati Uniti e Cina. Una eventuale rete di sismografi troppo farebbe sapere di quelle esplosioni sotterranee. Ugualmente nessuno deve ascoltare le vibrazioni emesse dai sottomarini delle varie potenze capitalistiche che incrociano, si spiano e si minacciano in quelle acque.
Grandi e celebrate sono le possibilità della “comunicazione”, per ogni distanza e istantanea. Ma quando una “notizia” sarebbe davvero importante ed urgente non arriva. Anche qui responsabile non è la tecnica ma la società. Non delle “società arretrate” come sarebbero quelle dell’Asia, che neanche lo sono.
Dicono che a Los Angeles, anche quella regione pericolosamente sismica, il sistema di rilevamento dei terremoti sarebbe bene in tiro e l’allarme pronto a scattare alla prima scossa. Non ci crediamo. Ma quand’anche fosse vero escludiamo che una metropoli borghese possa razionalmente reagire di fronte a qualsiasi evento che minimamente debordi dalla normalità. L’uomo borghese non può difendersi, incapace com’è di sentimenti collettivi e di comportamenti disciplinati. L’effetto dell’allarme sarebbe il terror panico generalizzato, il “si salvi chi può”, tutti si getterebbero come pazzi negli ascensori, nel traffico e ai “telefonini”, con blocco totale, violenze e danni sicuramente maggiori di quelli di un “normale” maremoto!
Da quando l’umanità, nel suo percorso storico, si è separata ed opposta al nativo ambiente naturale e materiale, viene a porsi la questione del suo rapportarsi con esso, a volte vissuto in senso di colpa, di un peccato d’origine per averlo abbandonato, tradito e corrotto, a volte di vittima di potenti extraumane forze maggiori, incontrollabili e imprevedibili.
Nella società capitalistica, quando l’enorme sviluppo delle capacità del lavoro ha di molto accresciuto anche le possibilità di intervenire e modificare la natura, viene a porsi ed imporsi, l’angoscia e il problema della responsabilità dell’uomo per le sue azioni, di fronte a sé stesso, prima di tutto, cioè delle generazioni avvenire. La Natura, di cui esso stesso fa parte, inevitabilmente sarà il giudice ultimo, inappellabile, delle sue scelte.
La borghesia è però costituzionalmente incapace di dare una risposta a questo genere di domande. Ogni sua azione e scelta è rigidamente determinata dalla ricerca del massimo saggio del Profitto da ottenere nella prossima rotazione del Capitale, la quale si protrae su una scala temporale di non più di un paio di anni. La impresa capitalista non può comportarsi diversamente: se lo facesse, se investisse con altro criterio, con obiettivi meno ristretti, dopo la prima rotazione sarebbe automaticamente eliminata dalle imprese meno preveggenti ma più produttive di profitto. Lo stesso deve prevedersi per gli Stati borghesi, che non sono che emanazione e rappresentanti del capitale nazionale.
Oltre a non poter fare la borghesia, e in misura crescente, nemmeno può conoscere né è in condizioni di prevedere. Tanto si accresce e si generalizza l’alienazione del lavoro, la separazione del lavoratore dalle condizioni del suo lavoro, altrettanto perde, socialmente, la capacità di rapportarsi col mondo esterno, e con sé stesso quindi. L’animale conosce, spesso, con l’olfatto, l’uomo con le mani. Non individualmente, soltanto, quanto e piuttosto come specie, nel processo, vecchio di un milione di anni, che va dalle mani al cervello, a funzionamento collettivo, della specie. Lavoro e pensiero non sono fatti individuali.
Il capitalismo, se ha ereditato dalle precedenti rivoluzioni, e dalla sua, la negazione di interpretazioni ingenue o irrigidite dei fenomeni naturali, oggi, nel ramo reazionario della sua parabola storica, imprigionato nel dogma dell’individualismo e nel feticismo della merce, viene a smarrire la conoscenza del reale, sia nel senso di sapienza collettiva e utilmente impiegata, sia proprio in quello di poter vedere.
Contrastano le grandi possibilità delle forze produttive, che,
non a caso, nella fantascienza fanno sognare la colonizzazione di nuovi
pianeti, con la miserevole impotenza della società presente a risolvere
anche piccole e locali emergenze. La questione non è tecnica, o
“legislativa”, di “volontà”, come lascia intendere il movimento
ecologista, ma di politica economica, da sovvertire dalle fondamenta
con la distruzione del capitalismo.
Nel momento in cui stiamo scrivendo la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena si trova in Iraq sequestrata da una delle tante formazioni militari operanti e che vengono denominate alle volte “terroristiche”, alle volte “resistenziali”. Altri cittadini italiani erano stati precedentemente rapiti ed i loro casi si sono risolti in modi differenti, a prescindere dal motivo per cui si trovassero in terra irachena o dal tipo di attività da essi svolto. La medesima sorte è capitata a numerosi civili, appartenenti alle più disparate nazionalità, che si trovavano in Iraq per lavoro.
Una sorte non migliore è quella di milioni di civili che hanno la disgrazia di trovarsi in Iraq per nascita.
Il concetto che ispira la cattura dei civili è semplicissimo: per la “resistenza” ogni cittadino straniero, nell’attuale stato di guerra, rappresenta un invasore; se si trova in divisa militare è un nemico dichiarato, se in abiti civili o è una spia o quanto meno un complice. Dal momento in cui essi cadono nelle mani della “resistenza” la loro sorte è segnata: la condanna è la morte, a meno che, come sempre avviene in guerra, non si giunga a scambi di prigionieri o a trattative ed accordi ritenuti soddisfacenti.
Questo concetto e pratica, e cioè che ogni civile che si trovi in un teatro di guerra, a prescindere dal motivo della sua presenza e dal tipo di attività svolta, debba essere sottoposto alla legge militare di guerra, viene a coincidere perfettamente con lo spirito di un disegno di legge approvato al Senato della nostra italietta il 18 novembre scorso e che suscitò diverse (ma non eccessive) polemiche: quello sulla Delega al Governo per la revisione delle leggi penali militari di pace e di guerra, nonché per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, firmato dai ministri Martino e Castelli.
Approvato al Senato ed immediatamente trasmesso alla Camera dei deputati, il disegno di legge si trova ora temporaneamente arenato. Infatti in Commissione Difesa e Giustizia è passato un emendamento che ha momentaneamente bloccato la calendarizzazione in aula della Legge, precedentemente prevista per il 21 febbraio.
Vale ugualmente la pena di parlarne.
Questo provvedimento, frutto di un lavoro al quale sono stati impegnati giuristi ed esponenti delle Forze Armate, fu a suo tempo presentato come una necessaria riforma per adeguare il nostro paese alle più avanzate legislazioni europee ed allo statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale. Gli oppositori, al contrario, lo presentano come la riesumazione dei codici militari fascisti. Noi diciamo che hanno ragione entrambi.
L’approvazione al Senato ha suscitato un certo scalpore soprattutto perché la legge, se passerà e quando passerà, in pratica rappresenterà la militarizzazione dei giornalisti, degli “operatori di pace”, quali volontari, Croce Rossa, etc, e di tutti i civili a qualsiasi titolo impegnati nelle aree occupate dalle truppe italiane.
La sezione della legge che si riferisce al giornalismo appare come la traduzione italiana del contratto che il Pentagono fece firmare ai giornalisti embedded quando si misero al seguito dell’esercito durante l’attacco all’Iraq. Non sarà, quindi, più possibile leggere dei reportages di un “intervento di polizia” condotto dai soldati italiani in zone di guerra come l’Afganistan, o di “missioni di pace” come viene considerata ufficialmente quella italiana a Nassiriya, basati sull’osservazione diretta da parte degli inviati, ma solo su comunicati dello Stato Maggiore. Verrà vietata la diffusione di qualunque notizia, che non sia stata preventivamente autorizzata dai comandi militari. Illegale riferire anche il numero dei morti e dei feriti.
Una volta approvata anche dal secondo ramo del Parlamento, la Legge delega estenderà infatti la giurisdizione dei giudici militari e del codice militare di guerra anche alle “missioni di pace”. Perfino i “volontari” delle Ong potrebbero rischiare fino a cinque anni di carcere militare per “somministrazioni al nemico di provvigioni” (art. 248 del codice penale). Pure le ditte e le imprese appaltatrici, e soprattutto i loro dipendenti, che operano nei teatri (di “pace”, di “guerra”, come definirli?) verrebbero sottoposti alla legge militare di guerra.
È evidente che queste disposizioni, facendo un tutt’uno, tra militari armati ed impegnati in operazioni belliche, e civili presenti a vario titolo (informazione, lavoro, “volontariato”) espongono questi ultimi, disarmati, alla mercé del nemico. Per quale motivo i “terroristi” non dovrebbero considerare alla stregua di nemici o spie quei giornalisti, camionisti, etc, che di fatto sono stati militarizzati e sottoposti alle leggi di guerra proprio dallo Stato al quale appartengono, da uno Stato occupante?
Dalle dichiarazioni de L’Unità, da quelle del diessino Ennio Fassone, della rifondata Elettra Diana, etc, parrebbe di capire che duro è stato lo scontro tra destra e sinistra e che l’approvazione al Senato sia passata solo per l’inferiorità numerica del Centrosinistra nei confronti del Centrodestra. Spinti da curiosità siamo andati a vedere lo scarto dei voti tra i due irriducibili schieramenti, tra i demolitori ed i sostenitori dei “valori costituzionali”. Con estremo stupore abbiamo dovuto constatare che il Centrodestra, in questa occasione, ha voluto giocare con “lealtà”, “cavallerescamente”, ad “armi pari”, ed ha lasciato a casa qualche decina di suoi senatori: ne ha schierati soltanto 132. Non ci siamo stupiti più di tanto invece quando abbiamo constatato che il Centrosinistra ignobilmente ha tagliato la corda per paura che il disegno di legge “fascista” potesse non venire approvato: solo un terzo dei rappresentanti del centrosinistra hanno partecipato al voto: si sono presentati in 45! Se qualcuno è tanto fesso da credere ancora alle dichiarazioni sulla “Legalità” e sulla “Libertà” dei centrosinistri e se ha anche del tempo da perdere si vada a contare quanti sono i senatori ulivisti ed affini e veda quale sarebbe stato l’esito del voto se avessero avuto intenzione di contrastare la “legge liberticida”.
Certo, nel teatrino delle marionette parlamentari, il gioco delle parti vieta che la complicità tra gli “opposti” schieramenti politici venga alla luce: i centrosinistri hanno tutto l’interesse a presentare i destri come i riesumatori delle liberticide leggi fasciste, infatti loro si sono opposti al disegno di legge ed hanno tutti votato contro. Tutti, nessuno escluso... quelli che c’erano! I destri, da parte loro hanno tutto l’interesse a non sbugiardare i “comunisti” ed ha prendersi tutto il merito di aver fatto passare, per ora solo al Senato, quella che può essere definita una Legge marziale permanente.
Da perfetti ipocriti, nella loro indignazione, i sinistri, si sono limitati a presentare solo l’aspetto della legge che imbavaglia la stampa, che trasforma gli inviati di guerra in semplici divulgatori di bollettini militari; ruolo che, in fondo, nella maggioranza dei casi, i giornalisti già svolgono di buon grado e senza grandi costrizioni. Da parte dei più sinistri, ad esempio il Manifesto, è stato pure posto l’accento sulle minacce di repressione che incombono sopra i “volontari” delle Ong. È stato però passato sotto silenzio, o appena appena accennato, il fatto che il codice militare di guerra nei confronti dei militari è già applicato da tempo.
In tutti i provvedimenti che avevano finanziato le missioni di “pace” italiane del dopoguerra, Libano, Golfo persico, Kuwait, Somalia, Mozambico, Albania, Bosnia, Kossovo, sempre era stata inserita una norma che prevedeva una deroga a quell’art. 9 che dispone l’applicazione automatica della legge di guerra ai corpi di spedizione all’estero e quindi queste missioni si erano svolte sotto l’ombrello giuridico del codice militare di pace, quello stesso che viene applicato nelle caserme e nei centri di addestramento reclute in madrepatria.
La svolta si è avuta dal 2001 con la partecipazione italiana all’operazione Enduring Freedom in Afganistan, operazione, come si ricorderà, approvata e sollecitata anche dal centrosinistra. Da allora è stata riesumata la legge di guerra che, “indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra”; viene applicata in tutte le operazioni di “pace” all’estero.
Il codice militare di guerra, oltre ai soldati inviati nelle aree di conflitto, viene applicato “anche al personale militare di comando e controllo e di supporto del corpo di spedizione che resta nel territorio nazionale”. Insomma, il disegno di legge delega votato al Senato dal Centrodestra, estende i poteri dei tribunali militari a tutta quanta la società civile, trasformando il paese in uno stato militarizzato, per tutto il tempo delle “missioni di pace”.
La demolizione della garanzie costituzionali perpetrata dal governo Berlusconi, riesce a fare indignare e commuovere i cuori di tutti i sinistri, nessuno escluso, e neppure quelli anarchici fanno eccezione.
Poveri citrulli! Credete veramente che quel codice penale militare di guerra, approvato nel 1941, anche se tenuto in ghiacciaia, sia rimasto tutt’ora in vigore per una semplice dimenticanza? O perché si pensava che fosse inutile abrogarlo tanto di guerre non ce ne sarebbero più state?
No! quel fascistissimo codice penale militare è tutt’ora in vigore perché lo Stato democratico non può abolirlo, perché rappresenta un’arma di cui esso si servirà per combattere la peggiore di tutte le guerre, quella di classe. È soprattutto nei riguardi del fronte interno che la legge militare fu pensata ed attuata dallo Stato fascista, così come è stata conservata da quello democratico, così come verrà rimodernata e snellita dall’attuale maggioranza di Centrodestra, con la tacita complicità del Centrosinistra.
Noi non ci preoccupiamo della Democrazia né che la Costituzione non venga “scalfita”, quella Costituzione che rappresenta la codificazione della società divisa in classi, dello sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale. Si preoccupa di ciò chi vede la guerra solo dal punto di vista dello scontro fra Stati e non comprende l’esistenza della incessante lotta fra le classi; chi lotta per la pace fra gli Stati perché vuole l’eterno perpetuarsi della pace fra le classi.
È una battaglia alla quale, anche qualora fosse sincera, i comunisti
non possono partecipare.
Il 29 e 30 gennaio i compagni del partito si sono ritrovati nella sede della nostra redazione di Firenze per la periodica riunione di lavoro.
È noto che, secondo antica ambizione del movimento comunista fin dalle sue origini, confidiamo lo svolgimento di tutte le funzioni proprie del partito, dalle embrionali dell’oggi a quelle più diversificate e potenziate di domani, al convergente, disciplinato ed ordinato lavoro di tutti i gruppi e singoli che costituiscono la sua compagine militante. Nelle nostre riunioni non si confrontano nuove tesi, si portano contributi alla collettiva riscoperta e difesa delle vecchie e a ridisegnare la linea di continuità che, al di sopra dei presenti, lega il passato della classe e del partito al suo futuro. Prefiguriamo un partito non conflittuale al suo interno, che lavora secondo un piano unico, a tutti noto, da tutti accettato e che tende ad utilizzare ogni sua disponibilità.
Il mezzo, i modi e i sentimenti del nostro lavorare nel partito, non sono meno importanti né separabili dai risultati cui perviene, dalle giuste valutazioni del vissuto storico e dalle giuste parole d’ordine. Non si tratta di un Galateo estetico o di un ipocrita rituale, ma di un naturale e spontaneo atteggiarsi del partito che consente la sua maggiore efficienza e coerenza nel tempo.
Come espresso in specifici corpi di tesi, neghiamo che la lotta fra le opposte classi della società attraversi il partito (siamo infatti per un partito “chiuso”), e vi si debba necessariamente, costituzionalmente, riflettere in una guerra fra individui e gruppi. “Qui non si fa politica”, è frase di Carlo Marx. La Sinistra non l’ha mai fatta, nemmeno nella Terza Internazionale in piena degenerazione e quando, sotto Stalin, si arrivò sconciamente a teorizzare che nel partito si sarebbero nascosti “traditori” e “venduti alla borghesia”.
In questo spirito, con le forze determinate ad essere, abbiamo svolto la riunione.
I primi compagni sono arrivati fin dal giovedì mattina per aver
tempo di meglio ordinare l’esposizione delle relazioni; poi, sabato mattina
riunione organizzativa, nella quale si sono rapidamente presi in esame
i termini e le questioni poste dai nostri impegni di studio e del possibile
intervento esterno. Sabato pomeriggio e domenica mattina l’abbiamo dedicato
all’ascolto dei resoconti dei gruppi di studio dei quali, come di consueto,
diamo qui subito un ragguaglio immediato e che saranno pubblicati per esteso
nel prossimo numero della rivista “Comunismo” che uscirà entro la
consueta scadenza di luglio.
Sono stati proiettati numerosi lucidi descriventi, in forma numerica e in curve, il nostro aggiornamento delle serie temporali che descrivono la congiuntura economica del capitalismo. Il relatore si soffermava su ciascuno di essi per svolgerne i raffronti storici e fra un paese e l’altro. In particolare si descriveva l’andamento della attuale crisi nei diversi paesi.
Relativamente, poi, al periodo dal 1937 ad oggi, e ai “Sei Paesi” di vecchio capitalismo cui, nei decenni, abbiamo dedicato maggior lavoro, si è cercato di trarre un bilancio globale, in un ciclo che parte, 1937, alla vigilia di una crisi economica che sboccherà nella Seconda Guerra, ad un momento, oggi, che, senza voler spingere l’analogia più di quello che ci è consentito, vede di nuovo associati fenomeni di diffusa crisi economica e di preparazione di guerre.
Si esponevano, quindi, numerose tabelle, relative alla produzione industriale, che è dato globale e di più agevole reperibilità. In particolare una dedicata a rappresentare i Cicli brevi, l’altra i Cicli lunghi del capitalismo. Come periodi di quest’ultima, delimitati da anni di massimo, ben si sono allineati gli estremi 1937 - 1973 - 2000, di anni 36 e 27 di durata rispettivamente.
Considerando il periodo complessivo, di 63 anni, comprendente una guerra, una ricostruzione e una più prolungata grave crescita senile, abbiamo la serie, dal più lento al più dinamico: Gran Bretagna (+1,6% medio annuo) - Francia (3,1) - Usa (3,7) - Germania (3,8) - Italia (4,0) - Giappone (5,6). I nostri presupposti economico-politici sono, per l’ennesima volta e nonostante post-industrialismi e globalizzazioni, confermati: il saggio del profitto è tanto minore quanto più anziano è quel capitalismo nazionale.
Considerando, invece, i due periodi osserviamo che in ciascuno dei sei Paesi il saggio del profitto vi declina inesorabilmente nel tempo.
Per contro, se la serie 1937-1973 conferma perfettamente l’andamento
crescente dei saggi, andando dal più vecchio al più giovane
capitalismo, qualche irregolarità appare nell’ultimo trentennio,
1973-2000: il tasso medio di crescita degli Stati Uniti è leggermente
più alto, quello dell’Italia è molto più basso di
quanto detta legge generale del marxismo farebbe prevedere. Resta quindi
da spiegare l’andamento eccezionalmente favorevole dell’industria americana
nel suo trascorso ciclo breve, coincidente con l’ultimo decennio del Novecento.
Certo un qualche peso possono avere motivi sovrastrutturali, di forza politica
e militare, che avvantaggiano gli Usa e svantaggiano la borghesia italiana.
Però un elemento di incertezza sta nella scelta, cui oggi siamo
obbligati, dell’anno finale, il 2000, che forse non viene ancora a chiudere
questo lungo ciclo capitalistico: i conti, tutti i conti, sono ancora da
chiudere!
Lo studio ha descritto le vicende comprese fra la rivoluzione del luglio 1958 e il colpo di Stato del 1963.
Il 14 luglio 1958, mentre la radio trasmetteva la Marsigliese, le truppe insorte davano l’assalto al palazzo reale. Dopo breve bombardamento la guardia reale si arrendeva e Re Faisal II, il principe ereditario ‘Abd al-Ilah e diversi altri membri della famiglia reale furono immediatamente passati per le armi. A compimento del colpo di Stato i militari fecero appello alla popolazione perché scendesse nelle strade. Le masse risposero all’appello con entusiasmo e Baghdad e le altre città irachene divennero immediatamente teatro di enormi manifestazioni di piazza e si verificarono massicci fenomeni di saccheggi e di espropri.
La situazione sociale irachena era talmente esplosiva che il nuovo governo, che rappresentava la classe borghese in ascesa, si trovò fin dalle sue prime mosse a dover fare i conti con un proletariato urbano e agricolo organizzato e combattivo da una parte, dall’altra con una classe di proprietari fondiari ancora potente ed accentrata. Si trattava di decidere in merito alla riforma agraria, del rapporto da tenere con le società petrolifere straniere, sulla libertà di associazione per partiti e sindacati. Emergeva inoltre il nodo dell’indipendentismo curdo. Si trattava anche di scegliere tra una politica panarabista, che avrebbe in breve portato all’unione con Egitto e Siria, e una nazionalista, che puntava a fare dell’Iraq una potenza regionale.
La prima spaccatura nel governo si verificò proprio tra la tendenza panaraba, sostenuta dal Partito Baath e dal colonnello ‘Arif, che richiedeva l’immediata unione alla RAU, e la tendenza nazionalista irachena, appoggiata dai liberali, dagli stalinisti e dal Partito Democratico Curdo. La lotta si risolse per le strade nella rivolta militare di Mosul, nel marzo 1959.
Negli schieramenti della rivolta spesso si ebbe un alto grado di coincidenza tra le divisioni economiche e quelle etniche e religiose. Ma dove la divisione economica non coincideva con quella etnica o confessionale, fu il fattore di classe che prevalse, non quello razziale o religioso. I soldati arabi solidarizzarono non con gli ufficiali arabi, ma coi soldati kurdi. I capi clanici latifondisti kurdi si unirono ai capi clanici latifondisti arabi. Le vecchie e ricche famiglie cristiane di mercanti non fecero causa comune con i contadini cristiani. Quando agivano di propria iniziativa i contadini, qualsiasi fosse la loro etnia, indirizzavano la loro ira contro i latifondisti in modo indiscriminato e senza considerarne la individuale posizione politica. Per parte loro i poveri e i lavoratori dei quartieri arabi si unirono ai contadini kurdi e cristiani aramei contro i latifondisti arabi musulmani.
La riforma agraria tendeva ad immettere la terra sul mercato e ammodernare le tecniche di conduzione in modo da consentire un’evoluzione in senso capitalistico dei rapporti di produzione e di proprietà nelle campagne, e non certo togliere dalla miseria i milioni di contadini senza terra. Le terre realmente confiscate furono quelle peggiori e il prezzo da pagare per acquisire la terra confiscata escluse i contadini poveri, senza capitali e senza accesso al credito, dai benefici della riforma e rafforzò invece i contadini piccoli e medi.
L’organizzazione al-Dawa (“la Chiamata”), intorno al giovane ‘Alim Muhammad Baqir al-Sadr (il padre di quel tale al-Sadr che avrebbe dato qualche filo da torcere ai marines americani), composta da musulmani sciiti, aveva imbastito proteste contro la legge di riforma agraria, sostenendo che l’esproprio di una proprietà privata era contrario alla Shari’a; questa campagna permise al governo di far passare il pagamento degli indennizzi ai proprietari terrieri e portò alla decisione di escludere dalla legge le terre waqf (cioè proprietà di enti religiosi) riducendo ulteriormente l’impatto della legge.
Nel novembre 1960 i ministri vicini al PC furono costretti a dare le dimissioni e furono chiuse le principali organizzazioni di massa del partito, i Partigiani della Pace, la Lega della Gioventù, la Lega delle Donne.
La rivoluzione mise però in movimento l’intera società
irachena: i contadini poveri cominciarono a trasformarsi in proletari e
a spostarsi nelle città; furono rivoluzionati i rapporti tra gli
individui e all’interno della famiglia e le donne iniziarono a liberarsi
da un’oppressione antica. Tra convulsioni spesso sanguinose il nuovo Iraq
diverrà in qualche decennio uno degli Stati più potenti dell’area,
una potenza regionale che le diplomazie imperialiste non esiteranno a spingere
verso una terribile guerra col vicino Iran, per ridimensionarne il peso
economico, finanziario e militare.
ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA
È continuata la disamina di come le organizzazioni sindacali vennero a configurarsi, in Italia, durante il fascismo. Il fascismo si vanta di non avere una teoria, ma “teorizza” il suo relativismo, di prendere da ogni partito ciò che gli giova e respingere ciò che gli nuoce. In questo anticipa un atteggiamento proclamato da tutto lo spettro politico post-fascista. Unico punto di riferimento e concetto “assorbente” sarebbe “l’idea della Nazione gerarchicamente ordinata”.
Ma, più precisamente, e nella pratica politica, è il fascismo che teorizza per primo lo “immedesimarsi” del partito nello Stato e la sua scomparsa in esso. Quindi finisce il Partito, resta lo Stato, mettendo in luce il vero rapporto tra partito fascista, e qualsiasi altro partito della borghesia, con lo Stato, necessariamente di subordinazione del partito allo Stato. “Il partito non è che una forza civile e volontaria agli ordini dello Stato” (Mussolini).
È con simili strumenti, dichiaratamente opportunisti, che anche il fascismo si trova a dover affrontare la “questione sindacale”.
È vero che un sindacato operaio, pur se ispirato, formato controllato e diretto dai borghesi, e seppure i comunisti ritengano di non dovervi militare e diano la consegna agli operai di disertarlo, rimane un corpo accettato in quanto inevitabile ma potenzialmente estraneo e conflittuale all’interno del regime borghese e di disturbo sul piano, oltre che concettuale, almeno economico. Tutta la “mistica” sullo Stato “assorbente” la Nazione non riesce a fare a meno o ad omologare del tutto la rappresentanza economica dei lavoratori.
Il relatore ha quindi ampiamente documentato con brani di interventi nelle riunioni del Gran Consiglio del Fascismo ripetute espressioni di questa preoccupazione. Si oscilla quindi fra grida di allarme per la pericolosità di una evoluzione nel senso “di classe” anche del sindacati fascisti e l’adozione di provvedimenti tendenti al più stretto controllo della sua organizzazione, come con la nomina dall’altro dei suoi funzionari. Altra garanzia veniva giustamente individuata nella coabitazione nella stessa organizzazione dei sindacati operai con quelli dei datori di lavoro.
Ma un esempio, anche se abbastanza isolato, della già detta impossibilità di imbrigliare completamente la lotta di classe, fu lo sciopero dei metallurgici lombardi del marzo 1925, in occasione del quale i sindacalisti fascisti si misero alla testa delle rivendicazioni dei lavoratori. E il Fascismo non poté fare altro che avallare lo sciopero e rivendicarne i risultati.
Con il Patto di palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 vengono abolite le Commissioni Interne, ma i sindacati fascisti continuarono a rivendicare il riconoscimento di una loro rete di fiduciari di fabbrica e la loro tutela legale nei confronti dei padroni, diritto questo che il regime non concesse.
Rigola, sindacalista ex-riformista, allora scrisse: «La Carta
del Lavoro è stato un passo ardito sulla via delle riforme, in quanto
serve ad integrare e generalizzare quelle conquiste di classe che, nel
disinteressamento dello Stato, il sindacalismo libero non riusciva ad assicurare
se non ad un numero ristretto di lavoratori». Rigola concorda con
noi sulla continuità del sindacalismo, da quello che sognavano i
riformisti, al sindacalismo fascista e al sindacalismo post-fascista.
Il capolavoro della infamia controrivoluzionaria è stato travestire, nella ex Unione Sovietica, in comunismo una variante del capitalismo, con il che si è riusciti ad invertire i fini propri della classe operaia, portati a coincidere, in economia con quelli del massimo e più veloce sviluppo dell’accumulazione capitalistica, in politica interna nell’accettazione dei principi borghesi della democrazia e della coesistenza delle classi e della dispersione del proletariato nella nazione, in politica estera nella difesa della patria Russia e nell’appoggio ad ogni sua impresa imperialista e guerresca.
Il fatto che nel 1991 tutta la nauseante – ormai logora ed incredibile – iconografia di drappi rossi e dorate falci-e-martelli fosse ammainata per mostrare la realtà di un capitalismo fratello gemello dei rivali mondiali, non ha portato alla confessione di capitalista già del precedente regime russo.
Come certi animali, incapaci di difendersi altrimenti o per aggredire non visti, il capitalismo deve nascondersi al proletariato. Mostruoso com’è, non deve farsi riconoscere. Le sue esteriori metamorfosi, il suo riformarsi, sono quindi continue: dalla democrazia al fascismo e al nazismo, e viceversa, dal capitalismo al socialismo, e viceversa. Talvolta basta un insignificante alternarsi di governi, sempre borghesi, perché se ne dovrebbe invertire la considerazione del proletariato mondiale. Facile poi scrivere colossali Libri Neri, a doppio effetto, da una parte e dall’altra, coi quali abbeverare la confusione delle masse.
Notoriamente il nostro partito ha dato una sua coerente valutazione degli accadimenti sociali di Russia interpretando in chiave marxista il ciclo che trapassa da forme autocratiche-feudali, alla rivoluzione del 1917 diretta dal partito comunista, alla successiva controrivoluzione che portava alla degenerazione del partito in Russia e nell’Internazionale, con sterminio della vecchia guardia comunista, alla cruente accumulazione primitiva del capitalismo, sotto tutela statale, nello sconfinato ed eterogeneo impero.
Questa nostra lettura della storia del capitalismo in Russia, connesso e parallelo a quello internazionale, interpreta il cosiddetto “crollo del comunismo” del 1991 in una svolta ulteriormente involutiva di quell’economia capitalistica e di quel regime statale borghese. A determinare questa crisi è, in fin dei conti, la debolezza propria della struttura economica russa, efficiente e moderna nel settore della grande industria ma molto meno in quello della piccola e, massimamente, in agricoltura.
Il “peccato originario”, anche nel senso borghese, seppure storicamente inevitabile, della controrivoluzione staliniana, che fu lo stravolgere la originaria alleanza rivoluzionaria fra il proletariato industriale e il contadiname nella brutale sottomissione politica del primo e nella ricerca di appoggio e compromesso con il secondo. Questo compromesso fra il capitale russo e il suo Stato e il mondo contadino genererà, ormai per tre quarti di secolo, uno spaventoso ritardo delle campagne.
La poca fertilità, in media, di quelle fredde terre ne è la determinante prima. Altra è il difficile e irrisolto sbocco del paese ai mari.
Il peso politico del contadiname, troppo lentamente impoverentesi e concentrantesi e ben trincerato dietro ai bastioni dell’autoconsumo, ha ritardato di mezzo secolo quelle riforme di liberalizzazione che fin dal ventesimo congresso del Pcus, 1956, pur si erano affermate necessarie.
Questa debolezza strutturale del capitalismo in Russia ha determinato anche le sue difficoltà e goffaggini sia nella contesa interimperialista, con la sconfitta diplomatica e militare del gigante russo nei confronti dei massimi rivali, americano, seppure anch’esso in declino, e cinese, in ascesa, sia la incapacità di raggiungere la “temperatura di fusione” delle diverse, antiche e difformi, nazionalità imprigionate in quella che era rimasta la “prigione dei popoli” che si rimproverava allo zar.
Si impone quindi oggi di documentare il decorso economico post-1991 dei paesi dell’ex Unione Sovietica, che, secondo la demagogia corrente, il conquistato pluripartitismo, la pratica elettorale e parlamentare avrebbero dovuto, finalmente, liberare dalla strozzatura della pianificazione statale, del controllo centralizzato dei prezzi, della invadenza burocratica.
Dopo la disorganizzazione successiva allo smembramento dell’Unione, lo Ufficio Statistico Statale della Federazione Russa ha ripreso la pubblicazione degli Annuari, ai quali è possibile attingere i dati che ci interessano. Le nuove serie, ovviamente, risalgono solo al 1992, non essendo facile, e talvolta possibile il raccordo con quelle “sovietiche”, che si riferivano al territorio molto più esteso dell’Unione. Ogni raffronto, quindi, presuppone questa discontinuità.
Alla riunione abbiamo potuto quindi proiettare e commentare un numero considerevole di quadri numerici, estratti e ridotti, senza ulteriore elaborazione per ora, dalla gran mole dell’Annuario. Ne dobbiamo rimandare il più attento studio, riproduzione e commento ad un testo più esteso.
Abbiamo però potuto ampiamente riferire i dati grezzi relativi a: demografia; occupazione della forza lavoro e sua ripartizione fra settori produttivi; consumi della popolazione, in valore e in quantità fisiche, come alimenti e disponibilità di abitazioni; forma di imprese, che i russi hanno cura di distinguere fra quelle di proprietà statale e quelle private; andamento della produzione industriale in generale e dei diversi settori; ripartizione ed estensione dei diversi tipi di conduzione della terra; quote della produzione agricola per tipo di conduzione; base tecnica della conduzione agricola espressa in disponibilità di macchine e uso di fertilizzanti; andamento dei raccolti, in totale e suddivisi per tipo di conduzione; capitale bestiame, in quantità e in produzione, anch’esso suddiviso per tipo di conduzione; rete dei trasporti, per ferrovia e stradali, e volume di merci trasportate; investimenti stranieri nella Federazione per paese di provenienza; rapporti economici con i paesi della “Confederazione di Stati Indipendenti”, l’ex Urss, in termini di investimenti flussi migratori, scambi finanziari e commerciali reciproci; andamento dei prezzi; struttura dell’import-export suddiviso per paesi di origine-destinazione.
Le conclusioni da trarre intanto risultano queste.
1. Tutti i dati concordano nel confermare, alcuni in modo davvero drammatico, la profondità della crisi che ha sconvolto il grande paese, una lacerazione che nei dati sulla popolazione e sulle produzioni non è inferiore a quelli provocati dalla Prima Guerra con successiva guerra civile e da quelli della Seconda Guerra e dell’invasione. Sicuramente, fin dal 1929-33 negli Stati Uniti d’America, mai si era assistito, in tempo di pace, ad una simile distruzione e catastrofe.
2. La ripresa appare, ormai con i dati al 2003, a 12 anni dal crollo, ancora incerta e molto indietro rispetto ai massimi precedentemente raggiunti: la produzione industriale della Federazione, scesa nel 1998 al 46% di quanto era nel 1990, nel 2003 ne è ancora solo al 70%. Tutte le serie esposte (trasporti, consumi, ecc) confermano la estrema difficoltà della ripresa da fondo.
3. Il modo agricolo ha risposto anche peggio alla crisi, praticamente rifugiandosi nell’autoconsumo. Il bestiame è stato macellato: dal 1993 al 2004 i bovini sono passati da 52 a 25 milioni di capi, i suini da 31 a 16, gli ovini da 51 a 17... Diminuita la terra coltivata, forte contrazione del raccolto di cereali e di foraggio, resistono le colture ortive, aumento solo delle colture industriali (lino, barbabietola, semi oleosi).
4. La “privatizzazione” delle aziende industriali, procedendo dal 20% del 1992, sembra aver raggiunto il 52% di utilizzo della forza lavoro. In agricoltura va rapidamente diminuendo la produzione proveniente dalla “organizzazioni agricole” (colcos e sovcos), evidentemente smembrantesi, a favore delle “aziende familiari” (in gran parte) e delle fattorie “di contadini e di imprenditori individuali” (in piccol numero ma in forte crescita). Per misurare il grado di sviluppo agrario, va ricordato, il marxismo tiene d’occhio la forma tecnica ed il tipo di rapporto di lavoro, più che il titolo di proprietà della terra.
In risposta a facili demagogie correnti, si ricorda che la questione se la “pianificazione statale” sia favorevole o meno allo sviluppo del capitalismo, è mal posta, anche quando si dimostrasse che il capitale si possa, e si lasci, “pianificare” da un suo “esterno”. Non è lo Stato che interviene nell’economia, ma è l’economia capitalista che interviene nel suo Stato, utilizzandolo secondo la bisogna.
* * *
Del resoconto del nostro lavoro in campo sindacale ha dettagliatamente riferito un compagno ferroviere, circa gli avvenimenti successivi all’incidente di Crevalcore e delle successive reazioni dei lavoratori delle ferrovie e delle loro organizzazioni. In particolare ha riferito delle difficoltà a mantenere sul giusto indirizzo il sindacato OrSA, gravemente colpevole di aver abbandonato lo sciopero spontaneamente indetto dai lavoratori subito dopo l’incidente.
Rimandiamo i lettori al riassunto della relazione che pubblichiamo in
queste stesse pagine.
PAGINA 3
Danni collaterali
del capitalismo in estremo oriente
Due notizie Ansa di luglio che riguardano la Cina e il Giappone confermano la putrescenza del sistema produttivo capitalistico.
Pechino, 20 luglio - Oltre 63.735 operai sono morti in incidenti sul lavoro dal gennaio 2004 in Cina. Secondo i dati ufficiali i morti sono 350 al giorno. Lo ha detto Wang Dexue, dell’Ufficio per il controllo della sicurezza sul lavoro. Nei primi 6 mesi in Cina sono avvenuti 426.283 incidenti sul lavoro. Solo per quanto riguarda quelli in miniera, le morti sono state 2.644. Gli incidenti, è stato precisato, sono causati da carenza nella sicurezza, cattiva qualità dei macchinari o degli impianti.
Tokyo, 23 luglio - In Giappone, nel 2003, 34.427 persone si sono tolte la vita, con un aumento del 7,1% rispetto al 2002, secondo l’Agenzia nazionale di polizia. Aumentano i suicidi fra i minori del 57,6% rispetto al 2002. Fra coloro che si sono tolti la vita, 9.464 erano donne e 24.963 uomini. In base a uno studio sui motivi del suicidio nel 2003, al primo posto ci sono i problemi di salute, i problemi finanziari e i problemi familiari. Altro motivo, la crisi economica che ha portato a numerosi fallimenti di imprese.
Le condizioni di lavoro in cui è costretto a lavorare il proletariato cinese per la famelica corsa all’accumulazione giovanile di capitale in quel nuovo Eldorado portano ad una ecatombe che è sicuramente ben più alta delle cifre fornite dagli uffici borghesi “per il controllo della sicurezza”.
La seconda notizia riguarda un fenomeno, trasversale a tutte le classi, che arriva da un paese dove un capitalismo stramaturo genera diffuse sofferenze, che si vogliono far apparire “personali”, in aggiunta alle “morti bianche” che anche qui non mancano.
In qualsiasi fase il capitale crea sfruttamento, morte e distruzione;
i proletari sono gli unici in grado di poter sovvertire questo stato di
cose.
Secondo una informazione el Ministero del Lavoro spagnolo, i pescatori
arrivano a lavorare in media 80 ore settimanali. Il riposo è dell’ordine
di 4-5 ore al giorno, dopo un lavoro massacrante e pieno di pericoli. La
paga si effettua secondo il volume del pescato cosicché quando si
pesca poco anche altrettanto si mangia. Nel caso della flotta spagnola,
in maggioranza artigianale, si tratta di piccole barche con cabine ridottissime
e con gravi carenze igieniche. Infine la nota aggiunge che le condizioni
di vita e di navigazione hanno trasformato la pesca marittima nel lavoro
più pericoloso dell’Unione Europea. Evidentemente, dato l’allarmismo
della nota, si dimostra opera di un pericoloso agente comunista infiltrato
in qualche sezione del Ministero, per la qual cosa si dovranno prendere
adeguati provvedimenti.
A differenza dei romani, che dal vasto Impero si accontentavano di trarre
il tributo lasciando alle Province la libertà anche religiosa e
sussitere le caste sacerdotali indigene, dal 16° al 19° secolo
le potenze coloniali vennero ad imporre ai selvaggi ridotti in schiavi,
con le buone o con le cattive, l’oppio della religione cristiana
e i suoi riti, la comunione, ecc. L’evangelizzazione, la salvezza
delle anime, era lo scopo dichiarato della colonizzazione di interi continenti.
L’odierno imperialismo capitalista, più accentrato, dittatoriale
e fascista di tutti gli storici precedenti, afferma la sua missione
di diffondere la Democrazia nel mondo, fumoso principio che ormai nessuno
sa più cosa sia e dove sia. Ne sopravvivono però i riti cretini,
e altrettanto oppiacei, dell’elettoralismo democratico per cui vediamo,
fra i “cinici sghignazzi delle classi dominanti”, anche le disgraziate
donne afghane costrette, libere cittadine, ad incespirare nel burka
fino al seggio elettorale, ingaggiate nella campagna elettorale di Mr.
Bush.
Abbiamo gia parlato della crisi dello “Stato sociale” in Germania, conosciuto come “modello renano”, di lontane origine bismarckiane-lassalliane-Weimar-hitleriane, la cui progressiva demolizione, iniziata nell’era Kohl, si è accentuata con gli ultimi due cancellierati a guida socialdemocratica.
La disoccupazione è in continuo aumento, anche se qualcuno nei palazzi di Berlino è sempre convinto che l’aumento di flessibilità serva a ridurre i disoccupati. Falso: i senza lavoro in tutto il territorio federale sono più di 4,5 milioni, un tasso dell’11 per cento.
Il Sig. Harts, uomo del regime socialdemocratico, ex dirigente Volkswagen (azienda in parte controllata dallo Stato della Bassa Sassonia, da oltre 40 anni feudo SPD), deve aver pensato “a mali estremi, estremi rimedi”. Innanzitutto chi è senza lavoro per più di 12 mesi vedrà ridursi il sussidio da 500 a 345 euro e a poco piu di 300 per i residenti all’Est; poi c’è l’obbligo per i disoccupati ad accettare lavori socialmente utili (cosiddetti) per la paga simbolica di UN EURO L’ORA, pena la perdita del sussidio, misura che ricorda il lavoro coatto di nazista memoria cui erano sottoposti gli avversari politici del regime guidato dall’ex pittore di Branau.
Ogni commento ci pare superfluo, e oggi come 150 anni fa invitiamo i
proletari tedeschi a “liberarsi delle proprie catene”, poiché, e
sempre più, è “l’unica cosa che hanno da perdere”.
PAGINA 4
La
Cgil e le “nuove identità di lavoro”
Una nuova indagine sul lavoro precario, stavolta condotta dall’Eurispes e di cui i giornali italiani danno notizia il 14 gennaio, evidenzia come stia crescendo la quota di lavoratori ingaggiati in modo “atipico”, interessando anche coloro che abbiano un’età compresa tra i 33 e i 39 anni e quindi non più soltanto i giovani. Un recente studio della CNA di Mestre calcolava che, tra i nuovi ingaggi, 8 lavoratori su 10 ormai siano inquadrati come non dipendenti. L’Eurispes non manca di rilevare che gli interessati «mostrino “sfiducia” verso il futuro e vivano il presente in modo “ansioso” manifestando anche disturbi psicologici, attacchi di panico, ecc».
È noto che questa tipologia di lavoratori è esclusa da molti diritti che l’opportunismo sindacale chiama “di cittadinanza” (per non dire “di classe”!), come i contributi per vecchiaia, malattia, infortunio, maternità, ferie pagate e un contratto a tempo indeterminato. Quelle garanzie fornite dai regimi borghesi, alle quale la classe operaia dei paesi occidentali era abituata ormai quasi da un secolo, vengono oggi a mancare e questo provoca traumi sociali in senso largo. Sono ben note le ricadute sul tardivo distacco dal nucleo familiare originario, drastica riduzione dei consumi, ritardo o rinuncia al matrimonio e quindi pianificazione delle nascite tendente allo zero. Meno figli, meno consumatori, meno lavoratori, più immigrati, meno soldati...
Fino agli anni ‘80 forme di “lavoro atipico” non erano previste né dalla legislazione né dai contratti di lavoro, Si limitavano essenzialmente alle libere professioni, nel rapporto che lega il giovane professionista al “socio anziano” dello studio, il tirocinio nel quale il giovane effettivamente impara il mestiere. Fuori dalle libere professioni, c’era sì il più brutale lavoro nero, ma una rigorosa legislazione veniva a regolare il “mercato del lavoro” in modo da proteggere, fra l’altro, la grande industria dalla concorrenza delle piccole.
Negli anni ‘90 si ha un’ulteriore drastica riduzione del tasso di profitto. Per conservare competitività sui mercati, insidiati dai bassi salari dei paesi di nuova industrializzazione, e dovendo rinunciare a certe pratiche quali la svalutazione o dovendo ridurre il debito pubblico per le ristrettive politiche UE, ecco che si impone alla società capitalistica la necessità di “riformare” il mercato del lavoro. Nei pensatoi delle università italiane fior di “giuslavoristi” stendono i loro progetti per ridurre i costi del lavoro, mentre il personale politico borghese, trasversalmente da destra a sinistra, dai salotti televisivi comincia il bombardamento ideologico sui lavoratori a proposito della “flessibilità”.
Di fatto operano una divisione all’interno della classe operaia ottenendo un “tradimento generazionale”: i cinquantenni, illusi di difendere il posto di lavoro e le residue garanzie, abbandonano al loro destino i nuovi assunti. Si sono voluti scordare, gli operai, che le classi si riproducono.
Il ragionamento sotto il quale borghesi e sindacalisti di mestiere nascondono il loro alibi, in sintesi, è il seguente. Le garanzie contro il licenziamento e l’alto “costo del lavoro” (per noi sarebbe “prezzo”...) fra salario “diretto” e “indiretto” (fondi pensione, Tfr, cassa mutua...) scoraggiano il “datore di lavoro” (idem...) ad assumere. Questi, piuttosto, trasferisce all’estero le lavorazioni. Occorre quindi rendere meno “rigido” il mercato del lavoro. Ecco arrivare il rapporto “co.co.co.”, lì dove si assumevano dipendenti arrivano i “collaboratori”, senza molti diritti. I padroni, consigliati da quegli specialisti della torchiatura operaia che sono i “consulenti del lavoro”, sorpassano anche i limiti, sempre in peggioramento, segnati dal legislatore entro cui sarebbero consentiti quei tipi di lavoro subordinato.
Ultimo approdo delle nuove forme di “flessibilità” del lavoro è la recente, cosiddetta, legge Biagi. Apparentemente limita l’abuso della collaborazione coordinata e continuativa imponendo al padrone l’obbligo di delineare un “progetto” entro il quale la collaborazione autonoma deve svolgersi; fuori dalle attività comprese in questo “progetto” i contratti di collaborazione si dovrebbero trasformare in contratti di lavoro dipendente. Ma nel contratto individuale il lavoratore si trova in ovvia condizione subalterna morale e materiale, da solo di fronte alla controparte padronale. Il contratto riporta sì il progetto e la durata del rapporto, ma spesso, se non sempre, il famigerato progetto viene quasi a comprendere molto della normale attività aziendale a cui precedentemente erano addetti dipendenti assunti a tempo indeterminato.
Nel nuovo mercato del lavoro si viene a determinare una materiale divisione dei lavoratori, su base generazionale oltre che giuridica, con i “tipici” spesso i più anziani, e gli “atipici” più giovani.
La medesima legge di riforma, come è noto, introduce altre “forme innovative” come il collocamento privato, chiamando le agenzie interinali a fare un salto di qualità onomastico e normativo, ma conservando il ruolo di moderni negrieri, il lavoro a chiamata, il lavoro condiviso, l’affitto di una squadra di lavoratori. Ma chiamarli così, col loro nome, fanno effetto e incutono timore: il governo, retto da quel maestro della comunicazione che è il Cav. Berlusconi, ben consigliato dai sindacati di regime, sa come presentare la cattiva medicina e usa l’inglese a mo’ di zucchero. La modernissima schiavitù proletaria si riconosce col latinorum, dal “job on call”, al “job sharing”, allo “staff leasing”...
Di fronte all’estendersi del fronte di lavoratori senza diritti, novelli paria della società borghese, la Cgil, sindacato ufficiale ormai infeudato allo Stato e ai padroni, nel 1998 si inventa, a tavolino, la NIdiL-Cgil (Nuove Identità di Lavoro) - Federazioni dei Lavoratori Atipici, dopo aver prefigurato prima ed accettato poi quelle forme di lavoro che fino a pochi decenni fa non avrebbe potuto non bollare come “lavoro nero”. Quelle leggi infatti i sindacati di regime hanno collaborato a propagandare e ad estendere.
La Cgil, quindi, anziché incoraggiare l’unione tra i lavoratori, siano essi giovani “atipici” o tradizionalmente inquadrati in un settore, nella stessa categoria e nella stessa locale Camere del Lavoro, sta, ancora una volta, vergognosamente al gioco del padronato e dello Stato, e ribadisce ed organizza la divisione del fronte di classe.
Per contro, private dei giovani, vengono a svuotarsi anche le federazioni dei “regolari”: con la ristrutturazione del mercato del lavoro e l’estensione del lavoro atipico non è affatto raro che alcune sedi Cgil nei centri minori ospitino solo le due federazioni sopravvissute: NIdiL e Pensionati!
La NIdiL-Cgil non si pone l’obbiettivo della unificazione normativa-salariale fra lavoratori che svolgono le stesse mansioni, ovviamente. Invece si diffonde nelle funzioni assistenziali tipiche del sindacalismo borghese: pensioni integrative, gestione del fondo Inps, insieme a servizi più propri delle società di assicurazioni e servizi integrati come l’adesione alla mutua “Valore Salute”, conti correnti agevolati, polizze assicurative e prestiti presso istituti “amici”, fino a sconti per le tessere ferroviarie, i biglietti aerei, pacchetti turistici e anche per i biglietti di alcuni teatri! Tutto questo pagando la quota anche «tramite carta di credito, su internet o con bonifico postale».
La Cgil si sforza di essere un sindacato “moderno”, attento, secondo la moda ideologica e al compito opportunista dell’oggi, all’affermazione dei “diritti di cittadinanza”. La stessa carta costituzionale della Repubblica, come sempre ricordano, li prevede “per tutti”. Ma, aldilà del nebuloso concetto di “cittadinanza”, esistono classi sociali ben determinate in relazione al modo di produzione capitalistico: la borghesia e il proletariato.
Il ciclo legato alla ricostruzione post-bellica, che portò a salari relativamente alti e alla partecipazione di larghi strati operai al pestifero “consumismo”, è dal 1973 che segna la parabola discendente con la conseguenza di vaste sacche di disoccupazione, di salari più bassi, dissoluzione del “welfare” e precarizzazione del rapporto di lavoro. Gli scenari di questo nuovo XXI secolo riportano l’orologio della storia quasi a 200 anni indietro in tema di condizione operaia.
La ripresa del movimento operaio necessariamente troverà le sue
migliori energie nelle giovani generazioni proletarie. Queste, private
di ogni garanzia ed anche forzatamente emancipate da una data categoria
professionale e non arroccati-prigionieri in una loro fabbrica,
nella tristezza della loro condizione presente, si trovano emancipati anche
dalle peggiori corruzioni, materiali e ideali, della società borghese:
lo aziendismo e il professionalismo. Se certo torneranno
a stringersi sentimenti e rapporti di solidarietà operaia nei luoghi
di lavoro, la prospettiva che si impone è quella di una aggregazione
territoriale della organizzazione difensiva dei lavoratori, centrata sulle
Camere del Lavoro. Ovviamente non quelle attuali, divenute covi di venduti
e di fedeli servitori della società del Capitale.
La mancata proclamazione di uno sciopero immediato e non simbolico in seguito all’incidente ferroviario di Crevalcore, è l’ultima, chiara dimostrazione dell’involuzione dell’OrSA. L’aver poi indetto, venti giorni dopo, uno sciopero sulla sicurezza insieme ai Confederali, è di questo conferma evidente. L’Orsa, dopo la firma del Ccnl, ha imboccato la strada della politica consociativa, ponendosi sullo stesso piano di Cgil, Cisl e Uil. Da parte sua l’OrSA “Macchinisti Uniti”, come sindacato di settore, sta cercando nuovi equilibri interni, che, probabilmente, non potranno essere trovati se non rompendo in maniera netta con il Nazionale.
A fare le spese di questa situazione sono i lavoratori, macchinisti per primi, che, oltre a pagare troppo spesso con la vita, hanno dinanzi un futuro certamente non roseo. La società sta procedendo infatti all’istallazione del sistema Vacma, un pulsante da premere ogni 50 secondi per controllare che il macchinista non è morto. È questa la condizione essenziale per scaricare sulle spalle dei ferrovieri la responsabilità di un sistema messo in forte crisi dalla ristrutturazione selvaggia attuata negli ultimi dieci anni. Incidenti come quello di Crevalcore, infatti, rimangono ancora contenuti per la presenza su molti treni del doppio macchinista: qualora dovesse passare il meccanismo previsto dalle FS, che presume un solo macchinista alla guida dei treni, diverrebbero, purtroppo, una triste normalità.
Il Sole 24 Ore centra con precisione confindustriale il problema: «Nelle FS continuano a convivere modelli diversi di ferrovia: uno ereditato dal passato, quando i ferrovieri erano 210 mila (oggi 90 mila); l’altro proiettato verso il futuro. Resiste, soprattutto nei sindacati di base dei macchinisti, l’idea di una ferrovia labour intensive in cui la sicurezza è garantita dall’uomo: in questa lettura il “doppio macchinista” appare ancora come questione sacra, intoccabile. Cosa che non è più nel resto d’Europa. L’azienda ha imboccato invece la strada delle tecnologie, prima timidamente, poi più convinta. È la nuova ferrovia capital intensive. Fra due anni le nuove tecnologie saranno istallate sui 10.500 chilometri della rete dove passa l’80% del traffico e, a quel punto, il doppio macchinista sarà insostenibile. Dei 17.500 macchinisti, 5 mila risulteranno in esubero. Stessa cosa per centinaia di capistazione. Sicurezza e ristrutturazione s’intrecciano strettamente e questo spiega anche la vera ragione degli scioperi di questi giorni. Un piano realistico d’esuberi o la riconversione del personale eccedente è il nodo da affrontare, il patto che Azienda, lavoratori e Governo dovrebbero stipulare. A quel punto anche il sindacato potrebbe chiedere l’accelerazione dei programmi tecnologici».
I padroni, come al solito, in tempi come questi, hanno le idee più chiare dei lavoratori: il problema non è tanto Vacma sì o Vacma no, quanto agente solo sì o no.
L’OrSA confluendo nell’alveo dei sindacati di regime, sposa la tesi che la ristrutturazione si possa “gestire” e, forse, cavalcare. Anni di lotte sono oggi messi in pericolo non tanto dalla forza dell’avversario quanto dal tradimento di chi aveva fatto propria la fiducia di migliaia di ferrovieri.
La deriva dell’OrSA non comincia certo oggi e, probabilmente, era già insita nei suoi geni, tanto che la sua nascita non è stata il risultato di un movimento di lotta ma di un obbligo a consorziare forze che altrimenti non avrebbero superato la “soglia di rappresentatività”. Allora nacque come sindacato dichiaratamente “di base”, ma oggi appare evidente che questa sua connotazione è venuta meno.
Al suo interno l’OrSA Macchinisti Uniti, quale sindacato di settore, è, a sua volta, percorsa da posizioni filo aziendali, che fanno presa su di una situazione di debolezza maggiore di quella degli anni ottanta e novanta.
A rompere questa cappa di piombo è venuto lo sciopero autoproclamato dai ferrovieri dopo l’incidente di Crevalcore. Di questo movimento i macchinisti sono stati parte integrante e molte segreterie regionali OrSA hanno dato il loro appoggio. Il Nazionale, insieme ai Confederali, ha preso le distanze ed ha indetto uno sciopero “unitario” per febbraio, con l’intento di recuperare sia le componenti interne sia i tanti che avevano già abbandonato l’OrSA e che sperano di riaprire un ciclo di lotte.
Qualitativamente questo sciopero di base è nettamente superiore a quelli che portarono, nella metà degli anni ottanta, alla fondazione del CoMU. Un lungo percorso, infatti, è già stato fatto ed il rapporto con il sistema sindacale da allora è profondamente mutato: Cgil, Cisl e Uil appaiono oramai, con chiarezza, parte integrante degli interessi governativi e societari e la parte sana dei macchinisti sa per esperienza che di loro non si deve assolutamente fidare.
Ecco perché, invece, la carta dell’OrSA novella firmataria del
CCNL potrebbe essere molto pericolosa giacché, laddove non dovesse
convincere, certamente creerebbe disillusione e scoraggiamento. Sarebbe
dunque essenziale che la parte sana all’interno di Macchinisti Uniti rompesse
finalmente con la sua dirigenza di settore e con quella nazionale e che,
sull’onda di questo primo sciopero, ricreasse le condizioni di un nuovo
movimento di lotta, che scoprisse i giochi e si riproponesse come unico
punto di riferimento per le lotte future. Perché lotte, e dure,
dovranno esserci se non vorremo assistere ad un altro taglio di personale
di proporzioni gigantesche, taglio che lascerebbe gli occupati ad una vita
di preoccupazioni e sacrifici ed aumenterebbe a dismisura l’insicurezza
dell’intero comparto ferroviario.
L’esito delle indagini sul fallimento del gruppo commerciale Ce.Di. Puglia ha portato all’arresto il 10 febbraio di sette “top-manager”, fra cui l’amministratore delegato di Conad, il grande consorzio emiliano, prima loro fornitore e dopo socio.
Che le vere vittime sono i lavoratori dipendenti se ne è accorto lo stesso Giudice Istruttore che nel mandato di arresto esprime «l’esplicita volontà di sottrarre i beni ad eventuali iniziative con disprezzo per le ragioni dei creditori più svantaggiati: i lavoratori».
È successo che nel 2001 al gruppo CeDi Puglia la concorrenza sempre più agguerrita dei grandi gruppi nazionali e multinazionali, come Auchan, Coop e Carrefour, aveva imposto di ingrandirsi. Ma, all’aggravarsi della crisi, i supermercati clienti della CeDi hanno cominciato a non pagare le forniture. A sua volta la CeDi diventa insolvente verso i suoi fornitori, tra cui il più esposto è Conad, oltre che non pagare più gli stipendi ai suoi dipendenti.
Quando appare evidente al consorzio emiliano che CeDi si avvia al fallimento, a Bologna, sede della Conad, pensano che l’unico modo per il saldo delle partite aperte euro-milionarie sia quello di entrare nella stanza dei bottoni della CeDi e salvare il salvabile prima del crack. Viene architettata una manovra di acquisizioni-dismissioni che coinvolge varie aziende fra cui Conad e Barilla. Nel frattempo nei supermercati, attendendo l’arrivo dei finanzieri e dell’ufficiale giudiziario, svuotavano le casse ogni due ore con sentinelle all’esterno per dare l’allarme.
Tutto ciò per far sparire i salari dei 1.600 dipendenti e degli enti previdenziali.
Ci sono state delle lotte operaie, ma la chiusura dei supermercati ha portato nel 2003 alla cassa integrazione, prorogata fino al 2004. Alcuni punti vendita sono passati ad altre proprietà, ma non tutti i dipendenti si sono ricollocati. La crisi di sovrapproduzione di merci riguarda ovviamente anche l’agro-alimentare, settore che trova l’Italia, nell’anello distributivo, ancora attardata con poco sviluppo della grande distribuzione.
Per i lavoratori del settore si alternano ormai lavoro nero, interinale, cassa integrazione e disoccupazione. Negli ipermercati il volano dei profitti sono paghe bassissime, lavoro precario, oltre che prezzi d’acquisto bassissimi imposti ai piccoli fornitori locali, con ricaduta quindi sui lavoratori dell’indotto.
Non resta altra via che la riorganizzazione di classe, anche contro le “cooperative di consumo”, giganti capitalisti, e sfruttatori, esattamente come gli altri.