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PAGINA 1
Iraq
Contro collaborazionisti e resistenti
In Iraq, col referendum del 15 ottobre, il 78% dei votanti, circa 9 milioni su 19 di aventi diritto, ha approvato il progetto di costituzione, ufficialmente elaborato dalla Transitional National Assembly, uscita dalle elezioni del 30 gennaio scorso, che svolge funzioni ad un tempo di Parlamento e di Assemblea costituente. Per bocciare il progetto costituzionale sarebbe stato necessario che il testo fosse respinto in almeno 3 delle 18 province da più di 2/3 dei votanti, anche in presenza di una maggioranza di voti favorevoli nel resto del Paese. Come previsto, le province a maggioranza curda del nord e quelle a maggioranza sciita del sud hanno approvato il testo, che è stato invece rifiutato in tre province a maggioranza sunnita, quelle di Salahuddin, al-Anbar e Ninive, ma in quest’ultima solo con un 55% dei voti.
Si è così aperta la strada alla nuova tornata elettorale del prossimo 15 dicembre, che dovrebbe portare alla formazione di un parlamento e di un governo stabile.
Tutto questo naturalmente in via ipotetica, perché la situazione reale
del Paese è ben lontana dalla normalità propagandata dagli occupanti
statunitensi e dai loro alleati, indigeni e no.
“Errori” o necessità?
Nell’aprile del 2003 gli angloamericani occupavano l’Iraq, accolti come “liberatori”. In pochi giorni di avanzata delle truppe super armate della coalizione occidentale, dopo minimi combattimenti l’esercito iracheno si dissolveva nel nulla. Grandi e piccoli gerarchi fuggivano abbandonando le poltrone. Non si è giunti, quindi, ad una resa formale dello Stato, come era avvenuto, per esempio, nel 1945 in Germania.
La popolazione, dopo i lunghi anni di privazioni imposte dalle guerre, dall’embargo, uscita da un regime di polizia e di terrore, attendeva dagli occupanti la “libertà”, cioè una vita un po’ meno grama, vedere ricostruite strade e scuole, ospedali e acquedotti: Per questo le truppe occupanti non trovarono, in generale, un ambiente ostile.
Oggi, a distanza di più di due anni, la maggioranza della popolazione considera ormai gli anglo-italo-americani soltanto un esercito d’occupazione, che non ha risolto alcuno dei problemi della vita quotidiana ma li ha anzi pesantemente aggravati e ha imposto un regime di terrore non migliore di quello di Saddam.
In questi mesi inoltre è andato rafforzandosi un movimento di resistenza sempre più agguerrito, che con le azioni di guerriglia e con gli attentati rende insicure strade e aeroporti, costringe ad un controllo capillare dei campi di estrazione e degli oleodotti, ha basi operative in molte città e villaggi in varie zone del paese.
Questa situazione di guerra infinita, che ha già provocato più di 2.000 morti (ufficiali) tra i soli soldati statunitensi e decine di migliaia di vittime tra la popolazione civile irachena (si calcola ben 100.000), viene imputata, da parte di molti osservatori, ad una serie di valutazioni inesatte e di veri e propri errori di natura politica e strategica che sarebbero stati commessi dagli Stati Uniti.
L’errore più grave sarebbe stato quello di aver voluto dichiarare guerra all’Iraq in flagrante violazione del “diritto internazionale”, che significa, in sostanza, contro la esplicita disapprovazione delle altre grandi potenze – buona parte dell’Europa, della Russia, della Cina – che hanno visto nell’operazione una prevaricazione e aperta minaccia ai loro interessi.
A questo si sarebbe aggiunta la ingenua previsione di poter controllare una regione socialmente così complessa come quella irachena con un ridotto numero di soldati, contando su un appoggio attivo della popolazione che poi non c’è stato. Infine la decisione di escludere gli Stati contrari alla guerra dalle promettenti commesse per la ricostruzione avrebbe inasprito l’isolamento internazionale della coalizione e ritardato l’esecuzione delle grandi opere infrastrutturali.
Una serie di errori che, per molti commentatori, sarebbero da addebitare all’egoismo nazionalista e al delirio da superpotenza di cui è intrisa l’attuale compagine di teste d’uovo che alberga alla Casa Bianca.
Noi, nonostante il clima da basso Impero in cui viviamo, tra guerre di religione, presidenti unti del signore e uragani diocomandati, crediamo che non di errori si tratti ma di necessità, la necessità del maggiore capitalismo di difendere ad ogni costo il suo dominio mondiale in un momento in cui la sua potenza economica, e dunque la sua supremazia militare e politica, sta perdendo terreno. La produttività del capitale investito in Occidente è minore di quello investito in Oriente, quando il perdurare della crisi di sovrapproduzione mondiale inasprisce lo scontro tra tutti gli imperialismi.
Gli Stati Uniti, o i “neocon”, di “destra”, non hanno “sbagliato”. La borghesia americana è stata costretta a volere la guerra per una serie di motivi strategici di grande rilievo, quali l’ulteriore rafforzamento della presenza militare nella regione dopo l’occupazione dell’Afghanistan e il controllo sul petrolio iracheno.
La guerra ha però messo in luce alcune debolezze strutturali del loro
apparato militare e anche della loro struttura economica.
Verso la distruzione dello Stato unitario
Al termine della Seconda Guerra mondiale, i Liberatori vennero d’oltre Atlantico ad occupare l’Europa scaricando navi intere di farina e latte condensato, scatolette di carne e cioccolato; se non conquistavano i cuori dei vinti affamati almeno ne riempivano gli stomaci. Dopo i carri armati arrivarono il Piano Marshall e grandi capitali statunitensi, che dettero il via alla ricostruzione e presto costrinsero paesi, preventivamente spianati dalle fortezze volanti, a ripartire col ciclo della accumulazione, risospinsero nelle fabbriche le masse dei disoccupati e di contadini poveri, così lasciando tornare ad arricchirsi le nostrane classi capitaliste borghesi. Infine, dopo decenni, qualche briciola avvelenata (che oggi si paga) cadde anche sui salariati. Si provvide a che in Italia lo Stato restasse in piedi assicurando la pace sociale e la sottomissione operaia, sotto le insegne nazionali democratiche-repubblicane del clerico-stalinismo. Allo scopo o fu riciclata la vecchia burocrazia fascista o perfettamente sostituita da quella proveniente dai partiti antifascisti, senza soluzione di continuità; così per l’esercito, la polizia, la magistratura.
Altri esempi in grande di colonizzazione imperialista postbellica, da parte degli Stati Uniti, si verificarono nei martoriati Giappone e Germania, ai quali si aggiunse, pochi anni dopo, la Corea del Sud.
È impossibile dunque addebitare il tragico pantano iracheno ad errori di quella compagine statale che più di ogni altra al mondo ha esperienza nell’esportazione di “libertà” e “democrazia”. Risulta invece che, dopo la presa di Baghdad, i vincitori hanno lasciato la città per ben cinque mesi in mano alle bande criminali, dopo aver distrutto a cannonate le sedi dei ministeri del vecchio regime (escluso quello del petrolio) e lasciato depredare le ricchezze nazionali. Hanno inopinatamente licenziato la vasta burocrazia sulla quale si basava lo Stato, riducendo alla fame decine di migliaia di famiglie, disperdendo ed inimicandosi così le uniche strutture in grado di mantenere l’ordine. Prima fra tutte l’armata irachena. Indubbiamente l’esercito era uno dei simboli dell’unità nazionale, «multietnico e multiconfessionale, custode del “nazionalismo arabo”, capace di opporsi alla disgregazione del paese in patrie etniche», come si afferma sul Manifesto. Proprio per questo il Viceré Paul Bremer lo avrebbe sciolto.
Ipotizzammo, dopo quegli avvenimenti, che il disegno statunitense fosse quello di colpire i simboli dell’Iraq arabo per distruggere l’unità dello Stato, aprendo la strada al suo smembramento in varie entità statali più piccole, su basi etniche o religiose. Questo piano ha trovato conferma nel progetto di costituzione approvato dal parlamento, eletto con le elezioni farsa del gennaio scorso, ma scritto da Washington. Il progetto, nonostante la sua genericità, sembra aprire la strada alla divisione dello Stato in tre regioni dotate di forte autonomia, addirittura con un proprio parlamento, proprie forze militari e soprattutto il controllo sulle risorse petrolifere (naturalmente “aperte” allo sfruttamento delle multinazionali). Questo significherebbe che la regione curda avrebbe il controllo dei pozzi di Mossul e di Kirkuk, quella sciita controllerebbe i pozzi di petrolio sul Golfo, mentre per la regione sunnita, al centro del paese, e per la capitale Baghdad non resterebbero che vecchi pozzi in via di esaurimento.
Sarebbe la fine dello Stato unitario e una reiterazione di quel divide et impera già applicato a questa tormentata regione dopo la fine della prima guerra mondiale, quando le potenze imperialiste si spartirono le spoglie dell’Impero Ottomano.
Con questa strategia gli Stati Uniti sperano di guadagnarsi il definitivo
sostegno dei reazionari partiti irredentisti curdi e delle loro milizie
armate, di controllare il turbolento proletariato sciita attraverso l’alleanza
con il clero, che naturalmente avrebbe la sua bella fetta di torta petrolifera,
di “normalizzare” infine le zone a maggioranza sunnita, focolaio della
guerriglia, con una forte azione di repressione armata e di impoverimento
economico.
I compiti del proletariato
A più di due anni dalla fine ufficiale della guerra, la situazione del Paese è ancora difficilissima; la ricostruzione delle infrastrutture di base è ben poco avanzata mentre la situazione sociale resta tragica: un quarto dei bambini soffre di malnutrizione cronica, la probabilità di morire prima dei 40 anni è tre volte più grande che nei Paesi vicini, molti giovani non vanno più a scuola, tre quarti degli abitanti non dispongono di un approvvigionamento stabile di elettricità e un terzo ha grandi difficoltà a trovare persino l’acqua potabile; il numero di disoccupati è enorme. Si aggiungano a questo l’insicurezza, la paura degli attentati e delle bombe, le uccisioni indiscriminate, gli arresti arbitrari e le torture generalizzate.
I proventi del petrolio iracheno, che avrebbero dovuto, secondo alcuni, coprire i costi della ricostruzione, dopo più di due anni d’occupazione e nonostante l’aumento del prezzo del barile, sono molto inferiori a quelli previsti e ancora non hanno raggiunto i livelli d’anteguerra mentre le spese della guerra sembra ammontino, per i soli Stati Uniti, alla cifra impressionante di cinque miliardi di dollari al mese.
In questa situazione, estremamente difficile, la classe operaia irachena è sola nella sua lotta quotidiana per la sopravvivenza. Non è una situazione nuova né imprevista: nella fase storica presente il proletariato non ha alleati, non ha sostenitori della sua difesa; deve trovare la forza all’interno della sua classe, non attenderla dall’esterno.
Il proletariato iracheno non ha certamente un alleato negli Stati Uniti e nei partiti da essi foraggiati, che sostengono apertamente gli interessi del grande padronato multinazionale ed esercitano il terrore per mantenere l’ordine. Ma non trova alleati neppure nei partiti e nei movimenti che lottano, pacificamente o con le armi alla mano, contro l’occupazione. La resistenza irachena è composta da una miriade di gruppi, partiti e movimenti, che vanno dai baathisti, sostenitori del vecchio regime, ai nazionalisti arabi, a vari movimenti religiosi islamici e perfino da autodefiniti comunisti nazionalisti. Ma queste diverse componenti hanno un progetto comune: scacciare gli eserciti occupanti per ricostituire uno Stato unito e indipendente, uno Stato dove le classi che essi rappresentano possano di nuovo vendere il loro petrolio, far coltivare le loro terre, far produrre le loro merci, in pace e soprattutto senza dover spartire profitti e rendite con gli invasori. Il tutto sulla pelle del proletariato, che dovrà continuare a sputare sudore e sangue. Giustamente la resistenza rappresenta, a detta di molti commentatori, la vera continuità dello Stato indipendente iracheno; uno Stato, sia esso il guerrafondaio baathista o meno, sempre massacratore dei proletari.
È per ripristinare questa sua condizione ottimale che la borghesia irachena vuole mobilitare le masse proletarie nella guerra contro l’esercito occupante e contro il governo collaborazionista. Per ottenere questo risultato non esita a condurre una guerra feroce contro le avanguardie proletarie che non intendono sottomettersi a questo disegno e difendono la loro indipendenza e le loro organizzazioni di classe.
La sistemazione del mondo in libere e stabili nazioni non è valico che sta fra la condizione presente e il socialismo. Il comunismo si dà il compito di scardinare la fradicia impalcatura degli Stati nazionali in vista dell’instaurazione del potere proletario in aree a dimensione almeno regionale. In questa necessaria prospettiva strategica la lotta contro l’occupante straniero non trova alcuna collocazione. La classe operaia ha da condurre la sua dura lotta quotidiana in difesa della sopravvivenza e del salario. Anche in questo suo obiettivo contingente essa si trova contro tutte le classi del proprio paese. Condizione per la difesa proletaria di oggi e per l’assalto di domani è, sul piano organizzativo mantenere l’indipendenza politica del suo partito comunista; sul piano dell’azione il tenersi fuori da qualsivoglia fronte e milizia di resistenza interclassista. Si tratta dunque, anche nell’Iraq occupato e martoriato dalla guerra civile, di ritessere la trama del Partito Comunista Rivoluzionario e l’ordito fine delle organizzazioni sindacali su basi di classe.
Il proletariato potrà ritrovare la sua unità e la sua forza non sulla base dell’appartenenza ad una patria, ad un’etnia o ad una religione, ma su quella dell’appartenenza alla sua classe, alla classe degli sfruttati.
Come, contro la ricomposizione della classe operaia, il partito Baath, nonostante le sue origini “laiche”, ha fomentato le divisioni religiose ed etniche per mantenere il suo potere borghese, lo stesso cercano oggi di ottenere gli Stati Uniti, lo stesso tornerà domani a praticare la resistenza se arrivasse a cacciare gli occupanti.
Le classi dominanti cercano in ogni modo di dividere il movimento proletario.
Questo, in Iraq, in quelle difficili condizioni, di clandestinità e di
guerra aperta, deve aggrapparsi alle sue tradizioni di classe e internazionaliste,
deve opporsi agli schieramenti di guerra e dedicarsi, come in realtà sta
facendo, alla vivace attività di ricostituzione di sindacati liberi e
di associazioni, in grado di contrapporsi sia alla propaganda reazionaria
delle varie chiese, sia a quella dei partiti borghesi, siano essi collaborazionisti
o resistenti.
In poco più di un mese, il 21 ottobre e il 25 novembre, i lavoratori del settore privato e di quello pubblico sono stati chiamati a due scioperi generali. Il primo, dell’intera giornata, è stato indetto da una parte del sindacalismo di base, il secondo dai sindacati confederali. A questo, di sole 4 ore, ha aderito un’altra parte del sindacalismo di base, estendendone la durata all’intera giornata.Delocalizzazione, esternalizzazioni, subappalti, forme contrattuali atipiche, precarizzazione in genere e tutto questo orribile vocabolario, con cui i lavoratori hanno preso loro malgrado confidenza, sono le armi maneggiate dalle borghesie dei paesi “avanzati”. Con esse quello che era l’esercito del lavoro è stato ridotto a una massa disordinata, dispersa e indifesa, al punto che oggi la maggior parte degli stessi lavoratori non comprende più il significato della parola classe.Alla sfacciata complicità con il padronato e con lo Stato dimostrata da Cgil, Cisl e Uil, che portano i lavoratori in piazza con una piattaforma vaga e priva di ogni connotato di classe, fa riscontro la debolezza organizzativa e il non poco settarismo del sindacalismo di base. Pur avanzando giuste rivendicazioni, questo non riesce a muoversi unitariamente nemmeno nel momento culminate della lotta, comportandosi più con le riserve e pregiudiziali dei partiti politici che con quegli atteggiamenti che dovrebbero essere connaturati in organismi sindacali che si proclamano di classe.
Questo il volantino diffuso dal Partito ai lavoratori scesi in sciopero, nella prima e nella seconda tornata.
Questa condizione della classe operaia non è stato l’inevitabile epilogo di un preteso “progresso” storico, ma un risultato che la borghesia non avrebbe potuto raggiungere se la sua opera di classe dominante non fosse stata coadiuvata dal lavoro pluridecennale del PCI e dei suoi degni eredi, di tradimento e disfattismo entro le file dei lavoratori. Il compenso per costoro è stata la fiducia accordategli dalla classe dominante nel “governare il paese”, cosa che, pare, si apprestino nuovamente a fare, quale valida alternativa, per la borghesia, al centro-destra di Berlusconi.
Oggi si tratta dunque di ricostruire il nostro esercito. Questo significa innanzitutto ricostruzione del Sindacato di Classe, poiché le Confederazioni ufficiali sono irrimediabilmente passate dalla parte dei padroni.
Per vincere gli ostacoli che si frappongono a questo obiettivo noi comunisti internazionalisti riteniamo indispensabile il ritorno alle originali tradizioni del movimento operaio quali esse erano prima d’essere stravolte dalla terza e peggiore delle ondate opportunistiche, quella staliniana.
Questi i caratteri fondamentali su cui deve avvenire la ricostituzione delle forze proletarie:
– Decenni di sindacalismo di regime hanno ottenuto il risultato di far apparire ai lavoratori l’attività sindacale come qualcosa di lontano, burocratico, corrotto quasi quanto la politica parlamentare. Nella sua vera tradizione la milizia sindacale è svolta da semplici lavoratori, dopo l’orario di lavoro, a loro spese e sacrificio. L’uso eccessivo di funzionari stipendiati, dei distacchi, delle assemblee in orario retributivo solo apparentemente facilitano l’organizzazione e sono utilizzati spesso come forma di corruzione, di intimidazione e ricatto.
– L’attuale estrema frammentazione e precarizzazione della classe operaia rende imperativa l’organizzazione territoriale dei lavoratori così da spezzare l’isolamento dovuto alle dimensioni spesso ridottissime delle singole imprese e in modo tale da unificarli in quanto appartenenti alla classe e non all’azienda. È necessario ritornare alle tradizionali gloriose Camere del Lavoro, non quali sono diventate oggi, ossia semplici patronati, ma quali centri d’organizzazione della lotta di classe.
– Altro mezzo fondamentale per superare la grave debolezza dovuta dallo spezzettamento in aziende piccole e piccolissime è tornare ad avanzare le classiche rivendicazioni generali della classe. In questo senso devono essere utilizzate le energie a disposizione dei sindacati di base, piuttosto che verso obiettivi di categoria. Certo si tratta di un compito molto arduo, ma è quello fondamentale di un Sindacato di Classe: raccordare le rivendicazioni limitate a quelle generali.
– I lavoratori esternalizzati e i precari devono essere organizzati nello stesso sindacato ed rivendicare lo stesso trattamento degli assunti dall’azienda madre. Scioperi ed assemblee devono essere comuni.
Classiche e fondamentali rivendicazioni sono:
– Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;
– Difesa del salario con particolare riguardo per i livelli più
bassi;
– Salario ai lavoratori disoccupati involontari;
– Lotta per la uguaglianza salariale e normativa, a parità di lavoro,
per età, forma di assunzione, razza, sesso, nazionalità diversi. Si deve
tendere a superare anche ogni opposizione fra lavoratori pubblici e privati.
Le periferie delle città francesi bruciano ogni notte per migliaia di fuochi appiccati ad auto, edifici pubblici, negozi, scuole, asili. Gli incendiari sono giovani e giovanissimi delle banlieues, dei quartieri periferici dove si concentrano prevalentemente le famiglie del proletariato più povero, molti gli immigrati. L’innesco è stato la morte di due giovani, riparatisi in una cabina dell’alta tensione per fuggire alla polizia.
L’eccitazione è senza scopo, non proclama obiettivi, se non quello di scaricare un rancore diventato odio verso ogni simbolo dello Stato e del mercato. Certo spontanea, ma è una manodopera a disposizione di qualunque partito.
Il governo risponde con arresti, richiama i riservisti, dichiara lo stato d’emergenza rispolverando una legge che risale ai tempi della rivoluzione algerina che permette ai Prefetti di imporre il coprifuoco. Democrazia repubblicana sotto stato d’assedio.
Ovunque, mentre i governi fanno la voce grossa e minacciano la “tolleranza zero”, le opposizioni di “sinistra” consigliano la linea morbida per meglio irretire i miserrimi di tutte le periferie del Mondo. Ma ogni tipo di controllo sociale, di fronte alla crisi e alla irreversibile decadenza dell’Occidente, si dimostra impotente. Se non funziona il modello “liberista” di Gran Bretagna e Stati Uniti, dove periodicamente la miseria esplode, da Liverpool a Nuova Orleans, e con le carceri stracolme di forza lavoro in soprannumero, nemmeno più funziona il “modello renano”, che pretendeva fare dei Paesi europei, con il loro “Stato sociale”, un mito di tolleranza e assistenza, dalla ricca Germania alla “razionale” Francia fino alla Spagna “socialista” di Zapatero, che fa strage di maghrebini a Melilla.
Non può esistere il capitalismo senza un esercito di proletari di riserva, disoccupati o sottoccupati, che permette di tenere bassi i salari del proletariato attivo, peggiorare le condizioni di lavoro, indebolire la lotta di classe dividendone il fronte. Le alternanze, nel tempo e nello spazio, del ciclo economico gonfiano a dismisura questa riserva umana. Non può esistere, quindi, il capitalismo senza le metropoli circondate da enormi periferie di condomini, talvolta fatiscenti, o addirittura di baracche, dove è costretto a vivere il proletariato e il sottoproletariato.
Non è il quartiere, la “periferia” e il suo impianto urbano, la causa del malessere. E la rivolta non è, non ancora in Europa, di affamati. È di declassati, un peso per le famiglie, rifiutati, dal lavoro, dalla scuola. Rifiutano il mondo che li rifiuta e non può non rifiutarli. Sono dei deprivati d’affetti, che nel nostro linguaggio significa essere e sentirsi utili, necessari e desiderati, incastonati in precisi rapporti di lavoro, di classe e di lotta di classe.
Per eliminare queste contraddizioni, che sono interne al regime del Capitale e da questo sempre più esasperate, bisogna eliminarne la causa, distruggere cioè questo regime che sacrifica tutto al dio denaro, al profitto, alla rendita, che accumula ad un estremo la ricchezza e precipita la maggioranza dell’umanità, anche nei Paesi più ricchi, in ogni genere di miseria.
I giovani declassati delle banlieues, quando anche la morte diventa
un gioco, vogliono distruggere tutto e tutti. sé stessi per primi. Non
hanno nulla da perdere. Ma neppure nulla da guadagnare. Al contrario la
disciplinata rivolta della classe operaia, che dovrà scoppiare, illuminata
dal partito di classe, che saprà dove davvero colpire e cosa è necessario
distruggere, ha un mondo intero da conquistare, e sa di averlo.
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Nella spaziosa e tranquilla sede che i compagni avevano prenotato in Camucia, ai piedi della collina di Cortona, si è tenuta la riunione del partito, nei giorni 1 e 2 ottobre.
Vi si è ritrovata una larga rappresentanza dei nostri gruppi. Alcuni sono giunti fin dal venerdì, altri al sabato mattina, il restante nel primo pomeriggio. Come al solito abbiamo dedicato le ore della mattina del sabato alla rassegna di quanto fatto e al riparto di quanto da fare.
Nelle due sedute del sabato pomeriggio e della domenica mattina abbiamo ascoltato, in ordine ed attenzione, le numerose relazioni, di argomento tutte assai impegnativo. Saranno pubblicate nei prossimi numeri di Comunismo, ma, dovendo dare la precedenza, per continuità, alle trattazioni lì già iniziate, per informazione ai compagni assenti e a chi segue il nostro lavoro, come di consueto ne riportiamo qui subito un riassunto essenziale.
La nostra attività, che per forza maggiore è oggi prevalentemente di studio, di pubblicazioni e di propaganda e solo in piccola parte di agitazione in seno al movimento operaio, tende a mantener vivo il patrimonio genetico del partito comunista, che è un partito diverso, da quelli borghesi e opportunisti, non solo per un proprio e opposto corpo di dottrina, ma anche per un tipo di funzionamento interno che unico lo contraddistingue. Teniamo a mantenere, a non lasciar smarrire, il filo di questa continuità.
La forma nella quali si manifesta il nostro piccolo partito è quello che hanno determinato le vicende della lotta di classe, dirette e indirette, e del suo imporsi e resistere al nemico. Il suo particolare modo di ordinarsi non è stato deciso né inventato da nessuno né pretende conformarsi a moduli ideali precostituiti. È un assetto che il partito ha trovato spontaneamente, nello svolgere collettivo delle sue funzioni, affinato dell’esperienza di lunghi decenni e confermato ben rispondere alla sua natura e ai suoi compiti.
Il partito è un organo di lavoro, che dispone di una sua scienza e tradizione. È questo coerente lavoro, sulle sue basi, che ne modella la forma: è il buon lavoro comunista che fa il buon partito.
In questo spirito, avendo ben presente la difficoltà dei tempi, che
non lasciano sperare in successi vicini, teniamo le frequenti riunione
generali, necessarie per meglio raccordare la nostra battaglia e trarne
il non sempre facile ed immediato quadro generale.
Antimilitarismo e movimento operaio
Il capitolo esposto del rapporto sull’antimilitarismo questa volta non ha mantenuto l’ordine cronologico seguito fino ai precedenti, i quali si erano sviluppati partendo dalla nascita dello Stato unitario italiano fino allo scoppio della prima guerra interimperialista. Molto lavoro esposto nel corso delle precedenti riunioni generali attende ancora la pubblicazione e quindi è stata possibile una indagine collaterale al tema trattato.
Il rapporto, sempre quindi sul tema dell’antimilitarismo, è scaturito da una ricerca approfondita dovuta dalla necessità di far luce sul documento d’archivio che abbiamo pubblicato nel numero 57, dicembre 2004, di questa rivista: Il Proletariato Italo-Austro-Ungarico contro il Militarismo e contro la Guerra.
Al momento della sua ripubblicazione non eravamo in grado corredarlo di una esauriente presentazione, essendoci ancora sconosciuti sia il lungo e faticoso lavoro che lo aveva preceduto, sia chi fossero stati i promotori del convegno internazionale i quali, animati da autentico spirito classista ed internazionalista, da anni lottavano per l’affratellamento del proletariato al di sopra delle razze e delle nazioni e soprattutto si battevano alacremente contro il militarismo. Con coerenza, anche dopo lo scoppio della carneficina europea seppero mantenersi estranei al tradimento generalizzato dei partiti della II Internazionale.
Dal 1904 e fino alla vigilia dello scoppio della guerra era stato svolto un intenso lavoro in questo senso con grande impegno profuso da un piccolo gruppo di compagni rimasti praticamente sconosciuti nelle cronache della storiografia ufficiale. L’iniziativa, il coordinamento, il compito di tenere viva la necessità di una politica socialista internazionalista contro ogni forma di sciovinismo, razzismo ed irredentismo, fu sopportato innanzi tutto dal piccolo partito socialista della penisola istriana. L’esposizione del rapporto si è quindi sviluppata illustrando la nascita e le varie tappe dello sviluppo di questo partito.
Certo contribuì alla sua connotazione rigorosamente di sinistra la sua collocazione nel particolare ambiente storico-geografico. L’Istria, assieme alla Venezia Giulia, hanno da sempre rappresentato un ponte di congiunzione tra la penisola italiana e quella balcanica. Nella storia millenaria degli spostamenti umani erano state punto di incontro e di smistamento di popolazioni, di diverse civiltà, correnti culturali e linguistiche, da Est ad Ovest, da Sud a Nord e viceversa.
La moderna classe operaia vi si trovava nella necessità di lottare contemporaneamente contro il potere centrale asburgico, il potere locale ed economico, essenzialmente italiano, il clero slavo e la nascente borghesia indigena. In quella complessa e difficile, ma istruttiva, situazione il socialismo istriano-triestino fu portato ad abbracciare immediatamente i principi della dottrina internazionalista e gli assunti teorici del socialismo di sinistra, che mise risolutamente in pratica.
Già al momento del suo nascere, nel settembre 1894, la Lega Sociale-Democratica aveva espresso questa qualità e nel suo Manifesto di presentazione, indirizzato al proletariato triestino ed istriano. La Lega, che aveva aderito immediatamente al Partito Socialdemocratico di Austria, venne in seguito denominata Sezione Italiana Adriatica del Partito Operaio Socialista in Austria
Ma le sezioni socialiste giuliane e dalmate, sia italiane sia slave, non tardarono a distinguersi, per le posizioni radicali e classiste, dalla Socialdemocrazia austriaca, che si ispirava a un programma riformista sul piano delle lotte di classe e semplicemente autonomista sul piano della questione nazionale: cioè quello che fu definito austro-marxismo. Mentre a Vienna, il programma sancito dal Congresso del 1901 si limitava a parlare di “evoluzione”, e stabiliva che la finalità del partito era quella «di organizzare il proletariato, di compenetrarlo della coscienza del suo stato e del suo compito, di renderlo e di conservarlo intellettualmente e fisicamente capace alla lotta, servendosi di tutti i mezzi opportuni e corrispondenti al diritto naturale dei popoli», a Trieste, al contrario, si scriveva: «il partito socialista è l’avanguardia dell’esercito proletario, risveglia il proletariato alla coscienza di classe, lo organizza, lo istruisce, lotta per assicurargli la forza. Il proletariato, incamminato sulla via delle rivendicazioni sociali, non potrà arrestarsi, ed ogni mezzo utile dovrà servire allo scopo (...) Il partito socialista non è un partito legalitario (...) la maggiore o minore resistenza delle classi avversarie determinerà l’uso dei mezzi legali o quello della violenza».
Ancora nei primi mesi del 1914 i socialisti adriatici si adoperavano attivamente perché non venisse abbandonata quella rete dei rapporti socialisti internazionali alla cui realizzazione avevano contribuito in modo determinante. Lo scoppio della guerra vanificò l’ultimo progetto di riprendere il discorso iniziato nel 1904 e sottopose a drastica verifica il proclamato internazionalismo ed antimilitarismo dei partiti della Seconda Internazionale.
Nel tragico e cruciale frangente, il 15 agosto, Il Lavoratore di Trieste ebbe una inequivocabile reazione alla manifestazione di socialpatriottismo dell’organo viennese del partito: «L’Arbeiter Zeitung, parlando della guerra in corso, si da l’aria di poter parlare per tutti i socialisti (...) Dappertutto, dopo scoppiata la guerra, il modo di sentire dei rappresentanti del nostro partito (...) in generale risulta diverso di quello che per tanti anni era potuto e dovuto sembrare». Al contrario viene elogiato il comportamento del PSI: «I socialisti d’Italia si battono strenuamente per la neutralità contro i tentativi nazionalisti».
A nulla valsero le pressioni esercitate dai socialisti tedeschi ed austriaci ed i pericoli da essi paventati sulla “minaccia panslavista”.
Gli istriani, come tutti i socialisti di sinistra d’Europa e di Russia, con l’ignobile fine della Seconda Internazionale allo scoppio della guerra, vedevano da un giorno all’altro fallire i loro tentativi di trattenerla sul binario del comunismo. Uno di essi, Valentino Pittoni, scriveva al fratello: “È l’ubbriacatura della lotta che ci sostiene accanto alla convinzione profonda che la causa è giusta e vale la pena essere suoi istrumenti (poiché quanto più si avanza negli anni e nell’esperienza tanto più ci si convince di esserne ben poco fattori – illusioni d’un tempo! – ma soltanto strumenti)».
E l’attività di questo semi sconosciuto partito non cessò nemmeno con l’entrata in guerra dell’Italia e la non onorevole posizione assunta dal PSI che consegnava il proletariato italiano nelle mani del carnefice statale. Nel corso di diversi incontri tra socialisti istriani, di nazionalità italiana e slovena, venne nuovamente ribadita la loro netta avversione alla guerra nel votare la risoluzione: «I partiti socialdemocratici uniti del Litorale condannano la guerra e le aspirazioni nazionalistiche che ne furono causa».
Dopo l’occupazione da parte dell’esercito italiano delle terre già “irredente”, le ex sezioni adriatiche, italiana e slava, del Partito Operaio Socialista in Austria aderivano al PSI. Il 26 gennaio 1919 fu tenuto il primo congresso socialista della Venezia Giulia. Il 7 aprile venne approvata l’uscita dalla Seconda Internazionale e l’adesione alla Terza.
Al congresso di Livorno, le organizzazioni triestine e regionali del
proletariato, passarono, nella loro stragrande maggioranza, al partito
comunista, mantennero la direzione della Camera del Lavoro di Trieste,
nonché di svariati organismi proletari e portarono al partito il glorioso
Il
Lavoratore.
Ideologia italica -
Il blocco post-resistenziale
La teoria gramsciana dei “blocchi storici” antagonistici è stata da noi individuata come terminologia in grado di gabellare un nuovo tipo di “alleanza”, contro la nostra tesi fondamentale di lotta di classe contro classe.
Dopo la Resistenza, una volta che il “blocco antifascista” avrebbe sconfitto quello fascista, si è dato per nuovo che il mastice politico collaudato dalla guerra avrebbe potuto rappresentare un’alternativa sociale vincente e definitiva.
Ma quale, ci si domanda oggi? Il proletariato avrebbe dovuto fungere, dalla sua posizione di “centralità”, da coagulante nei confronti delle mezze classi, contadini, piccoli imprenditori, commercianti, impiegati, tutti legati dalla volontà di lotta antimonopolio. Contro di chi? Ma contro ceti in qualche modo legati alle “rendite di posizione”.
Di questa teoria del “blocco sociale”, sempre capace di rinnovarsi, è vissuta la politica opportunistica, bene assecondata dagli interessi statuali complessivi, ora con la “concertazione”, ora con l’aperta concorrenza tra ceti emergenti.
Dopo la crisi economica degli anni sessanta e settanta, i blocchi si sono scomposti, al punto che la resa dei conti giustizialista degli anni novanta è stata vista anche in questa visione.
A che punto si è oggi col “trasformismo” italico? Al punto di sempre! Cioè allo sforzo di farlo passare per Politica, mentre invece non è altro che camuffamento della tensione antiproletaria giunta agli esiti che sappiamo oggi.
Sembra che la lotta di classe, con la sua storia, sia stata definitivamente
abolita dai “nuovi blocchi” emergenti. Non ne saremo troppo sicuri!
Proprio quando i blocchi sociali nazionali non sanno più rendere ragione
della loro composizione, i blocchi storici tra nazioni si stanno rimescolando,
mettendo a dura prova la politica sia interna sia estera degli Stati. L’Italia
ne fa parte con le sue peculiari caratteristiche di Stato-nazione arrivato
in ritardo, velleitario e pasticcione.
Origine dei sindacati
in Italia - Il fascismo e la guerra
Il rapporto veniva a descrivere dettagliatamente gli episodi di sciopero che, dalla seconda metà del 1942 a tutto il 1944, interessarono le città industriali del Nord Italia. La vulgata staliniana-resistenziale li ha descritti come patriottici e anti-fascisti, cioè motivati da un ideale politico, interclassista e di stampo democratico. Invece si trattava di pura lotta operaia di classe e per motivazioni di classe. Il proletariato industriale, schiacciato dal sopralavoro nelle officine, dalla fame e dalla repressione imposti dall’esercito occupante e dai bombardamenti dell’esercito “liberatore”, pur privo della direzione comunista, spontaneamente si porta sul suo naturale terreno difensivo e per questo si organizza e si batte.
«Lotta contro la fame e contro il terrore», s’afferma in un volantino. E ai reduci mutilati di guerra: «Voialtri siete dei disgraziati come noi. Mentre i padroni accumulano quattrini sul vostro sangue e sul nostro sudore».
Lo dimostrano il tipo di rivendicazioni avanzate dagli scioperi: salari, orari, razioni alimentari, protezione dai bombardamenti.
Gli stalinisti, per altro, soltanto si accodarono al movimento, che né si attendevano né avevano promosso. Non lo ostacolarono solo perché certi, dato il contingente rapporto di forza storica mondiale fra le classi, di poterlo strumentalizzare ai loro fini nazionali e controllare.
Inoltre, il fatto che al movimento parteciparono attivamente non solo gli operai che individualmente si ritenevano fascisti o che passavano per tali, ma anche quelli delle formazioni di controllo create appositamente dal regime nelle fabbriche, è riprova di come la lotta di classe s’imponga trasversale alle false opposizioni borghesi, fronti di guerra o di stili di governo.
La coscienza è, ancora una volta, fuori dalla classe e dal movimento
immediato. La lezione borghese e staliniana che ci si sforzò, e purtroppo
si riuscì poi ad importare nel movimento fu che lo sfruttamento operaio
era il prodotto del fascismo e della guerra fascista e che quindi per opporsi
allo sfruttamento occorresse partigianare per la democrazia e per la vittoria
alleata. La lezione comunista, che i nostri pochi compagni cercarono in
modo limpido di impartire su giornali e manifesti, era che la classe borghese
e la fondiaria, di qualunque colore si dipingano, sono il soggetto della
sottomissione proletaria e il nemico da combattere e vincere.
Come di consueto sono stati dettagliatamente illustrati i grafici, seppure sintetici, descriventi la situazione economica mondiale, che gli astanti potevano vedere ingranditi alle pareti della sala. In scala più piccola è rappresentato tutto questo dopoguerra, più grande l’anno ultimo trascorso.
Tirando un bilancio dell’ultimo ciclo economico, fra i massimi capitalismi può distinguere fra chi, contingentemente, perde e chi vince. Stati Uniti e Germania hanno marcato i ritmi, relativamente, più alti e non hanno conosciuto recessione. Si verifica, quindi, che l’accumulazione del capitale non è affatto in contraddizione con la, evidente, miseria che cresce e con il permanere di un altro tasso di disoccupazione operaia.
All’altro estremo sono invece in netta recessione Gran Bretagna ed Italia. Molto grave in Italia per la quale l’indice della produzione industriale è sceso dall’ultimo massimo di 1943, base 100 nel 1913, nel 2000 al 1577 attuale, cioè con una contrazione del 19%. La Gran Bretagna è in recessione dal 2000.
Ma sono in recessione anche Francia e Giappone, sebbene meno grave. In quest’ultimo capitalismo la scala delle produzioni non ha mai più superato il massimo di 13431 risalente al lontano 1991, al quale, dopo alti e bassi, e tuttora sotto dell’1%.
Considerando il saggio medio di crescita nell’intero ultimo ciclo, compreso fra il penultimo e l’ultimo massimo relativo crescente, risulta confermata la serie ordinata in calo, coerente con la vecchiezza d’impianto capitalistico: Gran Bretagna +1.3%; Francia +1.8%; Germania +2.5%; Italia +3.4%; Stati Uniti +3.6%; Giappone +5.8%.
Passando al volume delle esportazioni è da notare come la Cina si sia
ormai ben piazzata al secondo posto mondiale. L’ordine attualmente è
questo: Stati Uniti - Cina - Giappone - Germania - Francia.
Iran, Bilancio della “rivoluzione
islamica”
Lo studio sull’importante paese è ripreso con un primo capitolo di impostazione geografica e storica.
Con il crollo dell’Unione Sovietica e la sua frammentazione in Repubbliche autonome e con l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti d’America, l’Iran si trova si trova al centro, in senso geografico e politico, di una rete di fortissime tensioni per il controllo del Medio Oriente e delle principali riserve petrolifere del pianeta. Questa dinamica imperialista apre scenari con conseguenze cruciali per l’intero assetto mondiale, prefigurando lacerazioni e scontri di portata mondiale tra gli Stati capitalistici.
Senza aver la pretesa di simulare gli istituti internazionali di studi strategici, la stessa natura degli avvenimenti in atto rende necessario affrontare secondo la nostra visione il processi di crisi innescato alla fine degli anni ’70 dal crollo del regime Phalavi, processo che oggi tende a saldarsi al formidabile presentarsi, sulla scena orientale, dei colossi Cina ed India.
La stessa collocazione geografica del Paese, tra le ex repubbliche sovietiche del Mar Caspio (e gli enormi giacimenti della zona, poco e male sfruttati), la Turchia, l’Iraq, l’affaccio sul Golfo Persico e i confini con Afghanistan e Pakistan evidenzia il suo ruolo di "cerniera". Che non si tratti di un paese "arretrato", ma pienamente nel campo capitalistico, lo evidenziano i suoi indicatori economici, il suo tasso di crescita annua, i settori industiali – oltre, a quello preponderante, petrolifero – e il volume di interscambio comerciale.
Con una popolazione di oltre 68 milioni, l’Iran è di gran lunga il paese più popoloso fra quelli del Golfo, e con la più alta concentrazione urbana.
Nella sua storia la Persia non ha mai subito una dominazione coloniale diretta, ma è stata oggetto delle pressioni della Russia zarista e, tra le potenze europee, in modo speciale della Gran Bretagna.
Nel 1906, contro la crescente influenza straniera, e per opporsi alla corrotta e debole monarchia Cagiara, promosso da un partito nazionalista, si afferma un governo costituzionale; ma l’ingerenza europea riprende vigorosamente dopo la scoperta del petrolio.
La storia dell’Iran moderno ha inizio nel 1925, quando un semplice ufficiale dell’armata cosacca, Rezah Khan, con l’appoggio della Gran Bretagna, prende il potere e detronizza l’ultimo sovrano qagiaro. Il nuovo monarca accelera il processo di occidentalizzazione del paese e rinomina ufficialmente il Paese "Iran", iniziando un lungo braccio di ferro con le gerarchie religiose, dando l’avvio ad una riforma della struttura agraria basata sul latifondo, di tipo ancora semi feudale
Durante la Seconda Guerra Mondiale il nord del Paese subisce l’occupazione dei sovietici, mentre al sud si stabiliscono gli inglesi e gli americani, che obbligano l’Iran a dichiarare guerra alla Germania. Per liberarsi di un alleato difficile e non allineato alla loro politica, americani e inglesi costringono Rezah Khan ad abdicare, sostituendolo con il figlio Mohamed Rezah, dando un ulteriore impulso al processo di modernizzazione, anche nel campo sociale.
Da questo momento il Paese entra nel consesso degli stati occidentali e si afferma, anche grazie all’efficiente organizzazione militare, come la principale potenza del golfo persico.
Lo sfruttamento delle risorse petrolifere determina però un nuovo contrasto tra gli Stati occidentali. Di nuovo contro le ingerenza straniere, e per una diversa ripartizione delle rendite petrolifere, un forte movimento popolare, diretto da un blocco di gruppi nazionalisti, religiosi e del Tudeh, costringe lo Shah a nominare primo ministro Mohammad Mossadeq, che nel 1951 imposta un piano di nazionalizzazione del petrolio, con l’estromissione della Gran Bretagna e l’incameramento della maggior parte della rendita.
L’Iran è sottoposto al boicottaggio economico da parte dell’Inghilterra, con l’appoggio degli Stati Uniti. La crisi economica che ne consegue, frantuma l’improbabile blocco politico che sosteneva il primo ministro
Gli americani impongono un embargo al Paese, impedendo l’esportazione del petrolio verso gli USA. Mossadeq viene rovesciato nel 1953 da un colpo di stato ispirato e sostenuto dalla CIA.
Mohamed Rezah, fuggito dal Paese demandando la soluzione della crisi al nuovo padrone americano, sale nuovamente al trono, dove resterà fino al 1979, data in cui sceglierà la via dell’esilio in seguito alla rivoluzione.
La presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente si sostanzia con un nuovo
forte alleato, e si consolida nel 1955 con la firma del patto di Baghdad
in funzione antisovietica ed antiegiziana, al quale aderiscono USA, Inghilterra,
Turchia, Iran, Iraq e Pakistan.
La guerra in Iraq e l’indirizzo
del partito
I rapporti presentati nelle precedenti riunioni generali, che stanno uscendo a puntate sulla nostra rivista Comunismo, tracciano la storia del movimento proletario in Iraq dai primi decenni del Novecento fino allo scoppio della guerra con l’Iran. Il compagno incaricato dello studio in una anticipazione ha illustrato invece a questa riunione gli aspetti che ha assunto, in questi recenti mesi, la guerra fra la coalizione e la resistenza.
È infatti una vera guerra: il numero dei soldati statunitensi morti in Iraq ha superato il secondo migliaio mentre nel nord ovest del Paese l’esercito USA, con l’appoggio di milizie prezzolate, conduce attacchi massicci contro città e villaggi per annientare i “terroristi”. A distanza di più di due anni dalla “fine” della guerra, la guerra continua e l’esercito americano, invece di ricostruirli, continua a far saltare i ponti sull’Eufrate,
Naturalmente partiti e movimenti politici occidentali che si richiamano all’ideologia “terzomondista”, ma anche al “comunismo rivoluzionario”, si sono schierati apertamente a fianco della resistenza irachena, che combatte “armi alla mano” il nemico numero uno, l’imperialismo statunitense.
La resistenza irachena, come ha ben dimostrato il rapporto, utilizzando numerose citazioni di diversa fonte, è un movimento politicamente molto composito ma costituito prevalentemente da ex baathisti, da nazionalisti, da fondamentalisti religiosi e si propone di scacciare gli occupanti per ricostituire un Iraq unito e indipendente.
Il proletariato iracheno – è stato ribadito – non ha nulla da guadagnare a schierarsi a fianco di questo movimento che è apertamente reazionario. Sono denunciati attacchi armati delle bande di resistenti contro le organizzazioni sindacali operaie e contro le organizzazioni di donne.
Il compito primario del movimento proletario anche in Iraq è quello di lottare per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro devastate dai lunghi anni di guerre. Il suo nemico è lo Stato borghese, che sia “indipendente” o al servizio dello straniero. Il proletariato non ha da preferire ad un regime a stelle e strisce uno islamico o baathista. Il proletariato iracheno, come quello iraniano, ha provato sulla sua pelle e pagato con milioni di morti la difesa di cotali regimi “rivoluzionari” e “antimperialisti”.
Il comunismo è antimperialista nel senso che è contro il capitalismo, di cui la politica imperialistica è solo l’evoluzione necessaria, “suprema” e ultima.
In Iraq non si pongono più compiti storici di emancipazione nazionale
e di rivoluzione borghese. La cacciata degli americani è problema commercial-finanziario,
che può dividere la borghesia nazionale irachena, ma questa è già al
potere, nel suo insieme, nel suo costituito Stato nazionale. Uno smembramento
dello Stato iracheno, prodotto da una qualunque combinazione di forze centrifughe
interne o esterne, non verrebbe a modificare questa condizione.
La questione ebraica:
(3) Universalismi in conflitto
Intendiamo sottolineare in questo lavoro come quando ci si allontana dalla struttura economica e sociale delle diverse forme di società, e si pretende di emettere giudizi di tipo ideologico (nel senso vero che attribuiamo a questo termine), si corre facilmente il rischio di fraintendere e di commettere non solo errori, ma orrori!
Che anche l’universalismo ebraico sia, come gli altri, in particolare quello cattolico, il prodotto sovrastrutturale delle condizioni storicamente date in cui è nato e si è variamente adattato, è fuori discussione. Il fatto è che le varie manifestazioni di “universalismo” sono destinate a scontrarsi, proprio a causa della loro provenienza da condizioni materiali contraddittorie.
Il nostro “universalismo”, che continuiamo, non a caso, a chiamare “internazionalismo”, è di tipo diverso, in quanto non neghiamo che il proletariato, chiamato dal Manifesto ad unirsi contro l’idra capitalistico-imperialistica, deve fare i conti con le proprie condizioni nazionali, non per accettarle, ma per combatterle secondo le diverse necessità storiche.
Ciò è tanto più vero quando la borghesia produce i fascismi ed i nazismi – senza parlare del mostro statale staliniano, che li coniuga all’interno del degenerato movimento comunista, sconfitto nella sua funzione internazionalista.
Allora si comprende meglio come ci si appella a forme di reazione contro certi universalismi in nome d’interessi “corporativi”, che non sopportano lo spirito disgregatore dell’individualismo nelle sue varie manifestazioni.
Per quanto si pretenda di cambiare le cose con le parole, non è forse vero che la polemica contro o a favore della globalizzazione si sviluppa facendo leva su azioni e reazioni che hanno la loro matrice nello scontro di classe a livello internazionale?
Dunque abbiamo il compito di smascherare la matrice sociale degli universalismi,
sia che li intendiamo in senso storico positivo, sia come espressione di
pericolo o di complotto.
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Berlusconesco
omicidio del morto
ovvero la riforma istituzionale in Italia
(Continua dal nuumero scorso)
L’opposizione fra i fronti imperiali della Seconda Guerra, che furono disegnati come fra forme di governo negantisi reciprocamente, non verte sui rapporti tra borghesi e proletari, che erano stati prima del fascismo, furono durante il fascismo e restano dopo, di spietata oppressione, ma tra borghesi e borghesi.
La Libertà politica, questo è il senso del mondo moderno, non serve più al Capitale, che procede nella storia stretto in vincoli sempre più stretti, nelle sue aziende, nelle sue iniziative, nei suoi individui, in ogni angolo della Terra. Lo Stato capitalista, che risponde ormai solo al grande capitale, nazionale ed internazionale, tende a disfarsi di questa maschera, la Libertà individuale, per impugnare apertamente il suo metodo proprio: l’organizzazione della forza armata di classe. La nostra risposta non può essere quella di raccogliere la gettata maschera e batterci per tornare a coprirne il volto, in una lotta, più che utopista, retroversa, per la riconquista dei valori e delle libertà democratiche. Chi questo ha fatto e continua a fare rinnega il marxismo e si pone fuori della storia. «Questa ormai ha posto solo per i totalitarismi: o quello del capitale mondiale e della pianificazione borghese, o quello della rivoluzione proletaria».
L’avvento del socialismo non sarà un completamento od una integrazione della democrazia liberale, ma una nuova fase storica, che dialetticamente la nega e che succede ad essa soltanto attraverso l’acme insurrezionale del conflitto di classe. «Il più scemo è chi resta sul ramo secco della libertà», perché la successione non è dal Fascismo alla Democrazia, bensì dalla Democrazia al Fascismo.
Questo non ci impedisce però di essere del tutto certi che nemmeno i metodi della fase totalitaria e fascista salveranno la società borghese dalla catastrofe, che riporterà davanti alla storia, in un nuovo immancabile ciclo, l’esigenza della guerra di classe e della vittoria totalitaria della rivoluzione. «Di fronte a questa nuova costruzione del mondo capitalistico, il movimento delle classi proletarie potrà reagire solamente se intenderà che non si può né si deve rimpiangere il cessato stadio della tolleranza liberale, della indipendenza sovrana delle piccole nazioni, ma che la storia offre una sola via per eliminare tutti gli sfruttamenti, tutte le tirannie e le oppressioni, ed è quella dell’azione rivoluzionaria di classe, che in ogni paese, dominatore o vassallo, ponga le classi dei lavoratori contro la borghesia locale, in completa autonomia di pensiero, di organizzazione, di atteggiamenti politici e di azioni di combattimento, e sopra le frontiere di tutti i paesi, in pace e in guerra, in situazioni considerate normali o eccezionali, previste o impreviste per gli schemi filistei dell’opportunismo traditore, unisca le forze dei lavoratori di tutto il mondo in un organismo unitario, la cui azione non si arresti fino al completo abbattimento degli istituti del capitalismo» (“Prometeo”, aprile 1947).
* * *
Chiarita la nostra posizione riguardo alle leggi “liberticide” possiamo riprendere ad esaminare come, di fatto, lo Stato borghese venga ad annullare tutte le garanzie costituzionali, le norme e gli usi, scritti o non scritti.
Sembra che proprio Enrico De Nicola, abbia dichiarato che la Corte Costituzionale, di cui era presidente, rappresentava la tomba della Costituzione. Che sia stata pronunciata o meno, l’affermazione non manca di verità poiché con l’istituzione della Corte Costituzionale viene demandato ad un organo dello Stato il controllo di quella Legge che ha la particolare prerogativa di tenere lo Stato sotto controllo. Come se il protetto proteggesse il protettore. Inoltre, con il potere di giudicare sulla legittimità costituzionale delle Leggi e degli altri atti aventi forma di Legge, si verifica il fatto che un organismo burocratico statale possa tenere sotto controllo il Parlamento, espressione massima della democrazia e della volontà popolare.
Si dice che non stia bene parlare male dei morti, ma non possiamo non dimenticare come i primi tentativi di scardinare la Costituzione furono fatti quando l’inchiostro con il quale era stata scritta non aveva finito di asciugarsi, e questi tentativi venivano fatti proprio da un illustre padre della Costituzione stessa: Alcide De Gasperi. De Gasperi aveva elaborato la cosiddetta teoria della “democrazia protetta” grazie alla quale il giovane e debole Stato democratico italiano sarebbe stato da difendere contro i suoi nemici. I mezzi per raggiungere questo scopo consistevano in un aumento del potere e dell’indipendenza del Governo rispetto al Parlamento e in una serie di Leggi eccezionali che miravano a restringere le libertà civili ed a garantire l’ordine. Strumento di questa strategia fu la Legge elettorale del 1953 grazie alla quale il partito, o la coalizione di partiti, che avesse ottenuto il 50% dei voti più uno nelle elezioni politiche, si sarebbe accaparrato i due terzi dei seggi alla Camera; ciò, oltre al totale controllo del Parlamento, avrebbe permesso alla maggioranza governativa di apportare alla Costituzione tutti i cambiamenti voluti senza che le opposizioni potessero far ricorso al referendum popolare. Quella Legge venne allora definita “Legge truffa” dalle opposizioni di sinistra. Oggi, invece, Walter Marossi, su “Critica Sociale” afferma che si trattò «del primo organico progetto di modernizzazione elettorale del paese». Al neo-socialista ricordiamo che la prima Legge di organica modernizzazione elettorale del paese fu quella Acerbo del 1923, di cui quella De Gasperi non era che una copia sbiadita.
A quando il riconoscimento ufficiale dei meriti borghesi del fascismo? In effetti passi in tal senso, anche se lenti, vengono fatti. Non è certo un caso che a cura dell’archivio storico del Senato, con un saggio di presentazione del socialista Giuliano Vassalli, Presidente emerito della Corte Costituzionale, siano stati pubblicati quest’anno i discorsi parlamentari di Alfredo Rocco, colui che contribuì in modo decisivo a delineare l’architettura istituzionale del fascismo con la elaborazione delle Leggi fondamentali del regime: dalla riforma generale dei Codici, alla facoltà dell’Esecutivo di emanare norme giuridiche. E siamo tornati in tema.
Per tutto il periodo post-fascista, senza che si sia verificata una formale revisione della Carta Fondamentale della Repubblica, di fatto il Governo ha progressivamente aumentato la sua preminenza ed indipendenza dal Legislativo. Per più di 50 anni il Parlamento si è limitato a svolgere la funzione di notaio dell’Esecutivo: si pensi soltanto alla abusata prassi del Decreto Legge con la successiva ratifica del carrozzone parlamentare, divenuta ormai “atto dovuto”.
Un vero e proprio dibattito sulla riforma costituzionale, in Italia, ha avuto inizio nelle Università già nei primi anni ‘60, in particolare nella facoltà fiorentina di Scienze Politiche, la prestigiosa “Cesare Alfieri”. Sempre all’interno delle Università, negli anni ‘70, si intensificarono gli studi e le pubblicazioni sulle riforme costituzionali. Il problema cominciò allora ad investire una certa élite dell’opinione pubblica e dal chiuso delle aule universitarie si trasferì nei programmi dei partiti politici.
Il lento cambiamento istituzionale passava attraverso la riforma dei Regolamenti Parlamentari del 1971 e piano piano si faceva strada l’ipotesi di “attuare razionalizzando” la Carta Fondamentale. Dopo il messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica Giovanni Leone dell’ottobre 1975, arrivava la proposta socialista della “Grande Riforma”, presentata da Craxi al congresso di Rimini del 1982. I punti centrali della riforma craxiana erano: l’elezione diretta del Capo dello Stato, l’introduzione dello sbarramento del 4%, la semplificazione delle procedure parlamentari. Contemporaneamente anche Spadolini enunciava il suo “Decalogo” proponendo la costituzione di un tipo di Governo in cui il Presidente del Consiglio fosse libero dal condizionamento del Parlamento. «Reputo necessario che si formi una prassi costituzionale tale per cui il Presidente del Consiglio possa proporre al Presidente della Repubblica la revoca dei ministri e dei sottosegretari». Spadolini tra le altre cose proponeva l’assunzione diretta, da parte del Presidente del Consiglio, della responsabilità dei Servizi Segreti. Nel suo “Decalogo” Spadolini proponeva anche la riforma dei Regolamenti Parlamentari sul voto segreto, sulla Legge finanziaria. Poi ancora la riforma della Presidenza del Consiglio e dell’organizzazione ministeriale “su modelli europei”, la riforma delle autonomie locali, etc. Per la elaborazione e lo studio dei dieci punti di revisione istituzionale, proposti, venne istituita una Commissione bicamerale (ottobre 1983 - gennaio 1985), presieduta dal liberale Aldo Bozzi. Nell’ottobre del 1988 si ha la Legge sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio e nell’ottobre dello stesso anno vengono modificati i Regolamenti parlamentari che ampliano il ricorso al voto palese spuntando l’arma di disturbo istituzionale compiuta dai cosiddetti “franchi tiratori”.
Come 16 anni prima aveva fatto il suo predecessore, anche Francesco Cossiga, in qualità di Presidente della Repubblica, nel giugno 1991 inviava al Parlamento il suo messaggio sulle riforme. «Le 82 cartelle del mio Messaggio alle Camere del 26 giugno 1991 sono l’estremo tentativo di affrontare con gli strumenti della politica quel rinnovamento istituzionale indispensabile per far diventare l’Italia una democrazia normale» (Francesco Cossiga, “Per carità di Patria”).
Nel luglio ‘92 venne istituita una nuova Commissione parlamentare per la revisione della seconda parte della Costituzione. Questa Commissione venne presieduta prima dal democristiano Ciriaco De Mita e poi dalla pidiessina Nilde Iotti. A causa della fine anticipata della XI legislatura, i lavori della Commissione si dovettero interrompere prima che fosse possibile un confronto ed un voto parlamentare sulle riforme. Seguì poi la terza bicamerale, presieduta da D’Alema (1995/97), per arrivare, infine, alle proposte attualmente discusse in Parlamento.
Di “regole” e “ritocchi” più o meno sostanziali al rapporto tra Governo e Parlamento, fra partiti di maggioranza e gruppi di opposizione e fra Stato e Regioni si continuò a discutere per tutta la XII legislatura, fino a quando, fallito il tentativo dell’ex parlamentare repubblicano Antonio Maccanico di dare vita (1996) ad un “Governo di larghe intese” in grado di gestire la fase “neo-costituente”, si giunse ad un nuovo scioglimento anticipato delle Camere ed alla indizione di nuove elezioni (1996).
Questo quanto dichiarava Antonio Maccanico il 10 febbraio 1996, nella sua qualità di Presidente del Consiglio incaricato: «È emersa la determinazione largamente maggioritaria a perseguire una riforma organica e coerente che, partendo da una profonda revisione della forma di Stato attraverso la costituzione di un ordinamento di federalismo cooperativo e solidale, investa anche la revisione della forma di Governo (...) È anche emersa la convinzione quasi generale che (...) sia indispensabile un’opera di revisione che porti ad un deciso rafforzamento delle istituzioni unitarie di vertice e di Governo della nostra repubblica (...) È convinzione quasi unanime che si debba perseguire un consolidamento delle prerogative del Governo rispetto al Parlamento anche attraverso il conferimento di una posizione di netta preminenza del Presidente del consiglio rispetto ai ministri (...) È largamente condivisa la tendenza al superamento del bicameralismo perfetto, alla riduzione del numero dei parlamentari (...) Riguardo alla procedura, la maggioranza è favorevole alla costituzione di una Commissione bicamerale con poteri referenti».
Negli ultimi anni c’era già stato un notevole rafforzamento del potere governativo e soprattutto del Presidente del Consiglio, ma di ciò non possiamo darne la colpa a Berlusconi. Con il Regolamento Violante ogni tentativo ostruzionistico in Parlamento è stato bloccato a priori ed i tempi dell’iter legislativo, severamente contingentati, consentono deliberazioni in tempi brevi anche su problemi complessi e particolarmente complicati. Luciano Violante, allora Presidente della Camera dei deputati, in occasione della lezione di chiusura del corso di perfezionamento per consulenti d’assemblea presso la facoltà di scienze politiche dell’Università La Sapienza, affermò: «L’indirizzo che seguo nel lavoro parlamentare è quello della decisione, un indirizzo che riguarda in particolare la interpretazione del Regolamento e che stiamo dando alla riforma dello stesso. Nel Regolamento ci sono alcune norme che non sono state adoperate in passato dai Presidenti in modo intensivo e completo in quanto, in un sistema che si reggeva sul potere dei Gruppi parlamentari, erano i parlamentari a determinare sostanzialmente il calendario. Oggi, con il nuovo sistema elettorale, i gruppi parlamentari hanno molta meno capacità di coordinamento fra di loro (...) Le istituzioni politiche devono dunque darsi delle regole ed avere la stessa velocità della società civile».
Nel gennaio 1998 Violante affermava che, con l’adozione del nuovo Regolamento della Camera dei Deputati, i procedimenti legislativi avevano acquistato in efficienza eliminando lungaggini e tempi morti. A riprova di quanto affermato riportava come esempio la velocità dei lavori parlamentari per cui il tempo medio di esame dei provvedimenti in Assemblea si era ridotto da 6 ore e 31 minuti nel ‘97 a 3 ore e 36 minuti nel ‘99; il numero di emendamenti presentati in media per ogni provvedimento deliberato era sceso da 196 a 71. La nuova organizzazione dei lavori e l’introduzione di tempi definiti per il voto in Aula di ogni provvedimento legislativo avevano consentito alla Camera dei Deputati di migliorare sensibilmente il tasso medio di attuazione del calendario che era salito dal 58% nel 1997 al 78% nel 1999.
Sembra proprio che il presidente del Senato Marcello Pera non abbia tutti i torti nel dire che «basterebbe questa storia per smentire una tesi che in questi giorni è stata avanzata: che della riforma della Costituzione non ci sia affatto bisogno e che essa è venuta all’improvviso, a freddo, senza tempi di maturazione».
* * *
Ma l’opposizione contesta dicendo che, se è vero che il pluralismo deve essere modellato ed adattato alle esigenze di stabilità e soprattutto efficienza, è anche vero che bisogna stabilire dei limiti entro i quali il potere governativo debba contenersi e non rincorrere l’efficienza senza limiti; evitare, cioè, di concentrare potere ed esercizio del potere nelle mani di un unico titolare, altrimenti si corre il rischio di esautorare il Capo della Stato ed il Parlamento e soprattutto si arriverebbe «all’assurdo che i cittadini sarebbero liberi al momento del voto, ma schiavi nel quinquennio successivo». Che abbiano letto Lenin?
Le opposizioni ammettono, anche se con mille sfumature, che si debba promuovere una riforma costituzionale che garantisca efficienza e durata e il problema sarebbe solo quello di evitare una eccessiva concentrazione di potere in un unico organo titolare dell’esecutivo, come il progetto di riforma berlusconiano finirebbe per fare. Si dichiara che occorre scongiurare quelle velleità che ignorano i fondamentali principi del costituzionalismo e della democrazia. Ed i segnali, in questo senso sarebbero preoccupanti.
Il Prof. Leopoldo Elia, che tra le varie cariche ha ricoperto anche quella di Presidente della Corte Costituzionale, bolla la proposta di riforma di centro-destra come anti-illuminista perché «contrasta col principio cardine del costituzionalismo elaborato in più di due secoli dopo le rivoluzioni di fine settecento: il principio che si oppone alla concentrazione di troppi poteri in un solo titolare di ufficio pubblico». Poi però dichiara che, una volta attuata la riforma, il Primo Ministro italiano, «per la convergenza dei poteri che si realizza nella sua persona, può essere assimilato soltanto al presidente della repubblica francese quando è leader della maggioranza dell’Assemblea nazionale». Successivamente dice che il futuro Premier italiano avrebbe gli stessi poteri che ha, attualmente, il capo del Governo spagnolo il quale, in base all’art. 115 della Costituzione iberica, agisce “sotto la sua esclusiva responsabilità”. Altro paragone viene fatto poi con la costituzione di Israele.
Dovremmo quindi porci il dubbio che, o la riforma costituzionale berlusconiana non è poi l’arnese liberticida che viene propagandato, oppure, molto più probabilmente, tutti gli Stati hanno già da molto tempo fagocitato, di fatto, gli istituti democratici. L’estinzione sostanziale e funzionale dei Parlamenti è ormai fatto quasi secolare. La forma finisce per adeguarsi al contenuto. Si tratti quindi di un semplice e tardivo adeguarsi a traguardi già raggiunti in altri paesi o di una specifica esperienza italiana, il suo significato sarà il medesimo: quello di rafforzare la dittatura dello Stato capitalista nei confronti di tutte le classi. Fermo restando che, contro il proletariato, i Parlamenti, anche nella loro aurorale e borghesemente democratica e rivoluzionaria età dell’oro, funzionavano già benissimo.
Le prerogative del capo del Governo italiano sarebbero dunque affini a quelle del capo del Governo spagnolo che, «sotto la sua esclusiva responsabilità, può proporre lo scioglimento del Congresso, del Senato o delle Cortes Generali». Ma questa è proprio la proposta che fu avanzata dall’Ulivo alla Bicamerale per bocca di Salvi. Sentiamo quali erano le sue motivazioni: «A fronte della richiesta, e una volta acquisito il parere del Consiglio dei ministri, il decreto di scioglimento è un atto dovuto. Ricordavo all’inizio che si tratta di una soluzione che non credo debba suscitare eccessivi dubbi e preoccupazioni dal punto della tenuta democratica del sistema» (28 maggio 1997).
Sembra ovvio quindi che le posizioni espresse dagli esponenti politici non dipendano da impostazioni programmatiche od ideologiche, ma esclusivamente dalla posizione che occupano nella data congiuntura politica: maggioranza od opposizione.
Prendiamo l’esempio francese. Nel 1962 De Gaulle afferma che «lo Stato dovrà avere a capo un garante effettivo del destino della Francia e della Repubblica», quindi sottopone a referendum popolare il suo progetto di Legge che prevede l’elezione a suffragio universale del Presidente della Repubblica. Non è il caso di dire che questa Legge, allora presentata dalle sinistre come liberticida, venne approvata dal favore popolare. Quando François Mitterrand, l’oppositore numero uno del regime gaullista, nel luglio 1981 venne eletto Presidente della Repubblica, si guardò bene dallo sconfessare la Legge, la riprese e la ratificò. Nel 1992 affermava: «non è il caso di ritornare sull’elezione del Presidente a suffragio universale. Essa è entrata a far parte dei nostri costumi e tutto mostra che il popolo francese, che l’ha decisa con referendum, tiene più che mai a conservarla» (Lettera all’Assemblea Nazionale del 1992).
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Essenzialmente, insomma, quello che viene rimproverato a Berlusconi ad alla sua compagine politica non è la sostanza del cambiamento quanto solo la maniera, lo stile: l’arroganza da padroni, da conquistadores, con la quale rifiutano ogni tipo di confronto democratico con i partiti di opposizione, questa loro dittatura della maggioranza, come l’ha definita Prodi. Al riguardo Andreotti ha detto: «Mi ricordo che all’Assemblea Costituente si lavorò sempre in un clima di grande collaborazione. Anche dopo che, alla metà del 1947, si ruppe la maggioranza di Governo e i socialisti e i comunisti andarono all’opposizione. Questo non impedì alla fine dello stesso anno, di approvare il testo definitivo quasi all’unanimità varando una Costituzione che ha consentito grandi trasformazioni al nostro paese senza mai mettere in discussione le regole democratiche» (“La Repubblica”, 25 marzo).
La sostanza è dunque questa. All’epoca della Costituente occorreva dare un’apparenza democratica alla continuità dello Stato post-fascista, e democristiani e social-comunisti, che si erano divisi il lavoro ad ingannare in tal senso il proletariato, furono unanimemente concordi nella emanazione di quella Carta Costituzionale che, come ha recentemente rivendicato Gavino Angius, tendeva a stabilire «dei limiti alla sovranità popolare». Oggi quell’apparenza democratica è ormai tempo di metterla da parte, dopo che troppo ampiamente ha dimostrato la sua inutile inconsistenza anche per gli stessi borghesi.
A noi marxisti – fondati appunto sulla denegazione, empirica e programmatica,
di ogni “sovranità popolare” – resta solo da ribadire che il partito
comunista mai si porrà l’obiettivo del ritorno al sistema democratico-parlamentare
dello Stato del capitale, quando la soluzione che antivediamo è che la
fase totalitaria borghese possa esser spazzata via solo dal prorompere
rivoluzionario del proletariato.
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Lavoratori
del commercio in lotta
contro il precariato
Al momento di scrivere questa nota, è ancora aperta la vertenza dei lavoratori Coin, impiegati presso il punto vendita milanese di Piazzale Loreto, di cui la proprietà ha deciso la chiusura, con relativa perdita di 40 posti di lavoro. La chiusura di Piazzale Loreto era stata decisa dall’azienda da tempo nell’ambito di un processo di “razionalizzazione societaria”. La Coin si è sempre rifiutata di incontrare le rappresentanze sindacali, proponendo come unica alternativa al licenziamento (il commercio non può utilizzare la cassa integrazione) il trasferimento in altri negozi milanesi della medesima catena, accompagnato a “nuove forme” di organizzazione del lavoro quali: turni spezzati, turni domenicali, riduzione dell’orario, part time verticale, disponibilità ad orari flessibili secondo le esigenze aziendali.
I lavoratori al momento non hanno accettato i ricatti, continuando a scioperare con adesioni praticamente unanimi, ricevendo la solidarietà dei clienti e degli abitanti della zona.
La vertenza Coin è emblematica in quanto a muoversi e a lottare è una categoria di lavoratori non fra le più sindacalizzate e tra quelle meno “garantite”. Va segnalato tuttavia che il caso Coin, in un settore dove i lavoratori “atipici” sono la maggioranza, rappresenta un’eccezione: i 40 di Piazzale Loreto sono infatti tutti in possesso di contratti a tempo indeterminato e l’età media, benché assai lontana dalla possibilità di un prepensionamento, è notevolmente superiore rispetto a numerose altre aziende del commercio e della grande distribuzione.
Vi è probabilmente l’intenzione aziendale di eliminare progressivamente gli elementi garantiti e sindacalizzati, assumendo con contratti “moderni”, imperniati sulla massima flessibilità, lavoratori giovani, per sfruttare i numerosi vantaggi che, sia i governi ulivisti con il “pacchetto Treu” sia quelli berlusconiani con la “legge Biagi”, hanno regalato al padronato, ma anche e soprattutto in quanto i giovani sono meno pagati, più ricattabili e con minore possibilità di lotta sindacale.
Le confederazioni di regime avanzano inoltre la scusa che, essendo la Coin, come altre aziende del settore, stata ceduta a società straniere, le rappresentanze sindacali non avrebbero la controparte padronale con cui confrontarsi.
È chiaro che, in questo momento, i lavoratori della Coin lottano anche per i numerosi altri lavoratori del commercio, ancor meno tutelati e più ricattabili.
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Il Manifesto del 28 settembre riferisce di un’altra lotta, che vede coinvolti 45 lavoratori, quasi tutti giovani e stranieri e non certo appartenenti alla categoria dei “garantiti”, i quali fino a settembre erano dipendenti della società Ristogest, licenziataria con cinque ristoranti a Milano del marchio Pastarito, marchio da un anno di proprietà della Cir, cooperativa di Reggio Emilia.
La Ristogest ha abbassato le saracinesche dei suoi ristoranti.
La Cir intende trattore solo con i sindacati confederali, mentre i lavoratori, consapevoli del comportamento della “triplice” e a conoscenza di altre vertenze in cui i confederali si sono resi protagonisti di un gioco al ribasso tutto teso a favorire la controparte padronale, si sono rivolti alla CUB.
La messa in mobilità dei 45 lavoratori Ristogest è stata vista dalla Cir come una manna dal cielo, poiché chi intende rilevare i cinque ristoranti potrà godere di notevoli vantaggi fiscali e previdenziali assumendo gli ex dipendenti Ristogest. La Cir finora ha solo proposto, come denuncia la Cub, solo soluzioni individuali, con notevole riduzione del già basso stipendio e trasferimento in sedi disagiate.
I lavoratori non hanno accettato il ricatto, organizzando presso la sede milanese della Cir, in Largo Donegani, nel cuore della Milano degli affari, un presidio non gradito alla Cooperativa, costretta così a promettere un incontro con i rappresentanti della Cub.
La messa in mobilità è stata solo l’ultima di una serie di prevaricazioni: si parla infatti di pagamenti arretrati effettuati al 30\% con buoni pasto, cuochi costretti a lavare i piatti e camerieri a far le pulizie, scarso addestramento, turni spezzati tra più di un ristorante.
L’impegno difensivo dei lavoratori del commercio è di sicuro lodevole. Si tratta di una categoria notevolmente bistrattata, in un settore con un alto tasso di flessibilità, di manodopera non qualificata e di contratti atipici. In particolare nelle piccole aziende si trova un forte numero di lavoratori irregolari e un continuo mancato rispetto delle regole per la sicurezza sul lavoro.
Insomma, anche lì il proletariato ha una sola cosa da perdere: le proprie catene.