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In una società divisa in classi una di queste detiene il potere statale organizzato a suo beneficio. Nell’epoca in cui viviamo, fondata sulla produzione capitalistica di merci, queste classi sono la borghesia e il proletariato. Le diverse borghesie nazionali, nonostante siano in lotta tra di loro per accaparrarsi le materie prime, le aree strategiche e i mercati, hanno come nemico comune il proletariato.
Il modo di produzione capitalistico, che ha sviluppato mostruosamente la produzione dei manufatti, si è impossessato dapprima dei mercati nazionali, poi di tutto il mercato mondiale, imponendo ovunque la sua divisione del lavoro tra le classi e riproducendo le stesse patologiche infinite opposizioni, come quella fra città e campagna.
Tuttavia questo dominio del Capitale sul mondo intero non addiviene a darsi un piano generale ed organico, al contrario, la divisione della produzione per aziende in concorrenza le une alle altre e la produzione di valori mercantili, e non direttamente di valori d’uso per il consumo umano, provocano catastrofiche crisi economiche in successione, ed un aumento constante della miseria e della insicurezza delle classi lavoratrici.
Fino al secondo dopoguerra la maggior parte della produzione delle merci avveniva nei paesi occidentali. In questi ultimi decenni si è andata concentrando invece verso oriente, soprattutto in Cina e in India, dando colà origine ad un vasto proletariato industriale. Oggi anche questi giovani capitalismi estorcono alla classe operaia masse enormi di plusvalore.
È solo grazie a queste ultime grandi aree, dove è ancora possibile un certo sviluppo del capitalismo, che il suo cadavere, nel senso della sua troppa vecchiezza storica, è riuscito a rimandare la sua ineluttabile crisi generale. Questa, infatti, non è prodotta dalla insipiente gestione dei suoi governanti, si autodefiniscano liberali o, falsamente, "comunisti", ma alle contraddizioni insite al modo di produzione.
Con la caduta del saggio di profitto anche le borghesie dei paesi a capitalismo più maturo revocano alla classe operaia quei miseri miglioramenti e garanzie che avevano concesse nel momento, irripetibile, della eccezionale crescita economica dovuta alla ricostruzione successiva alle distruzioni della Seconda Guerra imperialista. Oggi il proletariato si ritrova ad avere salari, pensioni e assistenze, nonché condizioni di lavoro, sempre più disumani, e sempre più paragonabili a quelle del primo capitalismo, descritte e denunciate dai maestri del comunismo nell’Ottocento europeo.
Il capitalismo anche in Italia sferra duri colpi alla classe operaia, dal drastico peggioramento delle pensioni alla riforma del mercato del lavoro, che rende il lavoratore privo di qualsiasi protezione di fronte alle peggiori imposizioni del Capitale. I lavoratori, così ricattabili, sono costretti a ritmi di lavoro forsennati, spesso causa di infortuni e di morti.
Le Confederazioni sindacali, oggi totalmente asservite agli interessi del Capitale nazionale, non solo non si sono impegnate nella lotta generale contro questi peggioramenti, ma ne sono state ideatrici e corresponsabili nell’imporle ai lavoratori.
Le guerre che gli Stati borghesi conducono, in Kossovo, in varie zone dell’Africa, in Afghanistan e in Iraq, e le prossime preannunciate, sono solo e soltanto guerre di rapina, di banditismo, di dominio dei mercati e delle fonti di materie prime, di assassinio cosciente e programmato. Prima vittima di queste guerre è ovunque la classe operaia, da una parte come dall’altra del fronte. Tutti i partiti dello schieramento parlamentare, dall’estrema destra alla cosiddetta estrema sinistra "pacifista", sono complici di questo militarismo imperialista.
Solo il movimento internazionale della classe operaia ha la capacità storica di far finire tutto questo.
Occorre che, superando le difficoltà attuali, risorga dai luoghi lavoro la lotta per la difesa economica e per migliori condizioni; occorre ritessere le file di una vera e generale organizzazione sindacale di classe che rifiuti ogni sottomissione a priori alle compatibilità della produzione capitalistica.
Ma la lotta difensiva da sola non basta per l’emancipazione del proletariato dal capitalismo. Occorre la chiara coscienza del fine, che netto deve intravvedersi oltre le nebbie dell’oggi. Per questo occorre il partito della classe operaia, comunista e rivoluzionario, indispensabile per dirigere il movimento verso i suoi necessari destini che negano e superano lo stato di cose presenti. Potere rivoluzionario di classe, repressione della reazione borghese, organizzare un nuovo sistema internazionale di produzione senza classi, senza capitale e senza mercato.
La società organizzata comunisticamente ridurrà drasticamente,
da subito, la produzione ai puri valori di uso collettivi realmente necessari,
distribuiti liberamente a tutti secondo i bisogni. Il lavoro associato,
ridotto in durata solo ad una frazione di quello attuale, sarà allora
il primo bisogno e il primo godimento dell’uomo in una società finalmente
fraternizzata.
È passato più di un anno dall’ultima baraonda elettorale, collaudato quanto triviale teatrino della democrazia borghese il cui solo scopo è la manipolazione delle classi subalterne.
Allora davano a far credere che cacciato Berlusconi le cose per i lavoratori sarebbero migliorate. Gli si opponevano, pieni di promesse elettorali, i partiti della cosiddetta sinistra massimal-capitalista: Pdci, Verdi, Rifondazione, in realtà tutti finanziati dallo Stato e sinceramente anticomunisti. Questi, che promettevano di gran cose su precariato, pensioni e pace, non avrebbero data vita facile al governo Prodi e intenzioni simili venivano anche dalla Triplice sindacale. Assicuravano che si sarebbero battuti per l’abolizione della Legge 30, della Bossi-Fini, per la chiusura del Cpt, per nessun ritocco al Tfr e alle pensioni. E poi per la lotta al lavoro nero e al rispetto delle norme riguardanti la sicurezza sul lavoro, per il diritto alla casa per tutti, e, infine per il ritiro del contingente italiano impegnato nelle varie operazioni di “briefing” o di “peace keeping”.
Come tutti hanno poi potuto vedere, la “sinistra antagonista” in parlamento, compresi i terribili No-global, non solo non ha affatto “ricattato” il governo, ma ha votato perfino per i rifinanziamenti militari, sempre con lo spauracchio Berlusconi, chiave “antifascista” che apre tutte le porte. Intanto le condizioni dei lavoratori continuano a peggiorare, la carneficina per “morti bianche” aumenta, i contratti di lavoro “atipici” sono in costante estensione, i Cpt non solo non si chiudano ma “raddoppiano”.
Ciò dimostra, oggi come in passato, che la la sinistra operaia in parlamento è composta solo di simulacri di partiti, in realtà piccole agenzie di pubblicità politica ed elettorale messe e mantenute lì dalla classe dominante e che al massimo si preoccupano di conservare i propri poteri di nicchia.
Questo non è un fenomeno solo italiano. Nell’ultimo quindicennio in vari paesi europei di rilievo quali Regno Unito e Germania i governi “di sinistra” hanno confermato le leggi e ogni misura antiproletaria dei loro predecessori di centro e di destra, ed hanno anzi proceduto nello smantellamento sistematico del sistema statale di garanzie, quanto mai effimero, e nella riduzione drastica delle tutele ai lavoratori nel campo previdenziale, sanitario, scolastico, abitativo.
Il proletariato, fatto di lavoratori “garantiti” e non, di immigrati
e disoccupati, non si fa illusioni, giudica il parlamento un volgare inganno
borghese e confida per un reale cambiamento dello stato di cose presenti
solo nelle sue lotte e nelle sue organizzazioni di classe. Questa è
la strada che può portare alla liberazione del proletariato dalle
proprie catene.
Il macello di quattro anni d’occupazione in Iraq e di guerra feroce si misura nella morte, anche per gli stenti, di almeno 200.000 iracheni, ma alcuni elevano questa cifra a 600.000. Dalla parte delle truppe occupanti si contano circa 4.000 morti e quasi 24.000 mutilati. Due milioni di iracheni sono fuggiti nei paesi vicini, minacciati a loro volta di destabilizzazione. Un altro milione di civili, troppo poveri per fuggire, sono ammassati in campi profughi.
Finanziariamente la voragine della guerra è abissale. Almeno 500 miliardi di dollari volati in fumo, o meglio finiti nelle casse delle imprese vicine all’amministrazione Bush: Halliburton, Bechtel, Blackwater e altre. Ma le infrastrutture non sono mai state ricostruite, la rete di distribuzione dell’acqua potabile non è stata ripristinata, l’energia elettrica è sufficiente solo per qualche ora al giorno, l’estrazione del petrolio resta inferiore a quella sotto il deposto regime.
La popolazione nel suo insieme si è considerevolmente impoverita, la mortalità infantile è duplicata, la disoccupazione raggiunge il 40-70%, a seconda delle regioni.
La criminalità è in aumento dappertutto, producendo battaglioni di ladri, sequestratori, assassini pronti a tutte le infamie per qualche dollaro. L’insicurezza è generalizzata: a Bagdad negli ultimi mesi si sono contati cento morti al giorno tra attentati, rappresaglie, vendette settarie. Le milizie, private e statali, che obbediscono alle varie fazioni stanno conducendo da mesi azioni intimidatorie tendenti ad inimicare i tre gruppi religiosi in cui è uso considere diviso il Paese.
Le manovre diplomatiche di questi ultimi mesi dimostrano le gravi difficoltà
da cui gli Stati Uniti, a quattro anni dalla proclamata “vittoria”, non
riescono ad uscire e il tentativo di quanti di queste difficoltà
intendono profittare. Il teatrino che oppone il Congresso al Presidente
riguardo all’indirizzo strategico in Iraq riflette la volontà di
cercare una via d’uscita dal pantano prima di essere costretti ad una vera
e propria ritirata in disordine.
Il vertice di Sharm el Sceihk
La conferenza di Sharm el Sheikh del 3 e 4 maggio scorsi, nata male è finita peggio. Simbolicamente, già la scelta della data per il vertice non era felice, a due giorni dal quarto anniversario della proclamata vittoria; e neppure il luogo indovinato, la “località balneare” di Sharm el Sheikh, in Egitto, una zona super protetta dove però pochi mesi fa avevano colpito i terroristi “islamici” dando una dimostrazione di forza. Ma sicuramente gli Stati Uniti, che fino a pochi mesi fa duramente osteggiavano anche la possibilità di un simile incontro, avevano ormai fretta.
Alla conferenza hanno partecipato i ministri di una cinquantina di Stati, e persino quelli “canaglia” Iran e Siria, e rappresentanti di organizzazioni internazionali tra cui l’ONU e l’Organizzazione per la Conferenza Islamica. Benché l’incontro sia stato definito “storico” dal Segretario di Stato Condoleza Rice e nonostante l’impegno di Washington per la sua riuscita, esso è finito per gli USA con una umiliazione sul piano diplomatico, e per il governo iracheno con un mezzo fiasco su quello economico.
La presenza al vertice di Stati che non hanno approvato l’intervento statunitense, come la Russia, e persino di Iran e Siria, spesso accusati di appoggiare in vario modo la resistenza irachena, ha rappresentato una patente smacco per la diplomazia americana che finora si era sempre opposta a coinvolgere nella “questione irachena” i paesi che non facevano parte delle Forze alleate.
Ma non è il solo boccone amaro che la Signora Rice ha dovuto inghiottire. Al vertice è stato lanciato l’International Compact with Iraq, un ambizioso piano quinquennale che dovrebbe servire a «rafforzare il ruolo della Comunità internazionale per stabilizzare il Paese. Il governo iracheno ha rivolto un appello ai paesi vicini, riconoscendo la loro funzione fondamentale per combattere il “disastro del terrorismo” e ha promesso di lavorare per un Iraq democratico, libero, federale, prospero e aperto al mondo, con un’amministrazione trasparente e non corrotta, una sicurezza adeguata, un’equa divisione delle risorse».
I maggiori paesi creditori, Arabia Saudita, Kuwait, Russia e Cina, che rivendicano circa 50 miliardi di dollari, prestati al precedente regime, soprattutto durante la guerra con l’Iran, non si sono fatti impietosire e, nonostante le pressioni statunitensi e nonostante le scarse possibilità di incassare un solo dollaro visto lo stato delle finanze irachene, non hanno accettato di azzerare il debito, come richiesto da Bagdad, ma solo di ridurlo di circa 30 miliardi di dollari.
Della situazione di debolezza di Washington ha saputo ben profittare la diplomazia iraniana il cui capo non solo ha disertato il previsto incontro col Segretario di Stato ma ha addirittura accusato apertamente gli Stati Uniti delle violenze in atto in Iraq e ha richiesto che gli USA presentino «il loro piano per il ritiro dall’Iraq per permettere il ritorno di pace e stabilità nel paese». Il diplomatico iraniano ha anche aggiunto che «c’è bisogno di tempo per risolvere i problemi» e che l’incontro tra ministri degli Esteri necessita di condizioni precise, di «incontri sostanziali e non teatrali».
Unica nota positiva per la diplomazia statunitense è venuta dalla
Siria: durante l’incontro tra i rispettivi ministri degli Esteri pare che
Damasco si sia impegnata a rafforzare il controllo militare alla frontiera
con l’Iraq per impedire l’ingresso in quel paese di combattenti stranieri;
la strada in questa direzione era già stata preparata dal Presidente
della Camera dei rappresentanti, la democratica Nancy Pelosi, che si era
recata in Siria un mese fa tra le reprimende di George Bush.
La nuova legge sul petrolio
L’invasione dell’Iraq fu decisa dall’imperialismo statunitense e dai suoi alleati per mettere le mani sul petrolio iracheno, ma dopo quattro anni di occupazione, almeno secondo i dati ufficiali, la quantità di petrolio esportata è inferiore a quella, già ridotta a causa delle sanzioni internazionali, dell’Iraq prebellico.
Alla fine degli anni Settanta l’Iraq era riuscito ad esportare fino a 3,5 milioni di barili di petrolio al giorno; questa cifra si era notevolmente ridotta dopo la prima guerra del Golfo ma era poi risalita per raggiungere i 2,5 milioni nel periodo immediatamente precedente l’ultima guerra. I dati ufficiali riferiscono che le esportazioni attualmente sono attestate a circa 1,5 milioni di barili, ma la situazione sul terreno è così caotica che probabilmente una buona parte del petrolio viene rubato ed esportato di contrabbando. Inoltre le autorità curde, che incassano le rendite per le estrazioni nelle zone sotto il loro controllo, hanno firmato contratti con società straniere senza l’approvazione del governo centrale.
Per reagire a questa situazione i cervelloni di Washington hanno pensato di far approvare dal Parlamento iracheno una nuova legge sull’estrazione degli idrocarburi mentre il governo dichiarava che accordi regionali, fuori della sua giurisdizione, sarebbero stati dichiarati illegali.
Questa legge è stata disegnata da Washington, ovviamente, già da molto tempo. Il progetto, che prevede «la creazione di un’agenzia statale per il petrolio con poteri assoluti sui pozzi e sull’assegnazione dei contratti di sfruttamento» (“Il Manifesto”, 4 maggio), dovrebbe rispondere a due esigenze: assicurare una distribuzione della rendita petrolifera tra le varie regioni sulla base delle rispettive popolazioni al fine di depotenziare la tensione tra i vari partiti e le diverse comunità; aprire la coltivazione dei giacimenti alle società straniere, annullando la legge sulla “nazionalizzazione” che risale al 1972, per attrarre investimenti, aumentare la produzione e ricostruire l’economia irachena (consentendo così agli Stati Uniti e ai loro alleati di mettere finalmente le mani anche “legalmente” sulle grandi riserve petrolifere irachene.
Il progetto, che comprende quattro allegati ancora segreti, è
già stato approvato dal Governo iracheno, ma attende l’approvazione
del Parlamento, che però ha qualche difficoltà a funzionare,
sia per l’”assenteismo” dei parlamentari (ancora nel gennaio scorso il
vicepresidente dell’assemblea denunciava infatti che non meno di 150 su
275 parlamentari erano “scomparsi”, se ne stavano cioè tranquillamente
all’estero o nascosti in posti sicuri, per godersi i 12.000 euro di stipendio
mensile in un paese dove chi è fortunato ne guadagna 200) sia per
i dissidi tra i vari partiti. Nell’aprile scorso, per esempio, Moqtada
al Sadr ha fatto uscire i suoi uomini dall’esecutivo, mettendo in crisi
il fragile governo di Nouri al Maliki, perché esigeva che il governo
richiedesse il ritiro delle truppe statunitensi entro una data certa. La
stessa cosa minacciano di fare adesso i sunniti del Partito Islamico Iracheno
se entro il mese di maggio 2007 non sarà emendata la costituzione.
La legge inoltre è aspramente criticata dai nazionalisti e dai sindacati
che paventano la svendita del petrolio alle compagnie straniere. Anche
le autorità curde si oppongono alla nuova legge che rimetterebbe
in discussione gli accordi che hanno già stipulato con le compagnie
petrolifere.
Il piano di “pacificazione”
La situazione a Bagdad negli ultimi mesi è diventata insostenibile. L’inviato del “Sole 24 ore” già il 1° dicembre scorso descriveva così la situazione: «La città è stata consegnata nominalmente all’esercito e alla polizia, in realtà è stata abbandonata alle milizie sciite filo-iraniane che infiltrano l’80% delle forze di sicurezza. Chiedere al premier Nouri al Maliki, come vorrebbe Bush, di scioglierle è come pretendere da un ostaggio che si liberi dei suoi sequestratori (...) I segni del collasso si colgono ovunque; l’elettricità è erogata per una o due ore al giorno, il 50% della popolazione non ha acqua potabile e per frenare l’inflazione, con prezzi decuplicati in un anno per benzina e gasolio, la banca centrale vende dollari a quotazioni inferiori a quelle di mercato. Ogni giorno affiorano dozzine di cadaveri torturati e mutilati. Almeno tremila morti al mese (...)».
Il piano del Pentagono pretende di riportare una certa sicurezza nella città utilizzando una massiccia presenza militare statunitense assicurata da nuovi contingenti militari; questi dovrebbero stroncare la resistenza dei quartieri sunniti, impedire nuovi attentati, mettere in riga l’esercito e la polizia irachena e far cessare le azioni di pulizia etnica, oltre che colpire la dilagante criminalità comune. La “pacificazione” di Bagdad permetterebbe l’inizio di un ritiro, almeno parziale, delle truppe d’occupazione. Ma quel risultato è ben lontano.
Il piano non incontra soltanto l’opposizione dei gruppi della resistenza armata, ma anche l’opposizione degli stessi partiti sciiti che compongono la maggioranza del parlamento di Bagdad, la Alleanza Unita Irachena, che vedono minacciato il loro potere. Essi rifiutano la presenza militare statunitense nei quartieri dove hanno le loro roccaforti, come Sadr City, si oppongono alle epurazioni nella polizia e nell’esercito e alla limitazione del potere delle loro milizie. L’ayatollah Ali Sistani ha espresso a gran voce la sua contrarietà al varo di una legge che preveda il reintegro nell’amministrazione dello Stato e nel’esercito dei membri del Baath, come nelle intenzioni del Capo del Governo.
Intanto la resistenza ha dato prova della sua forza opponendosi tenacemente alla offensiva statunitense. Gli americani hanno avuto più di cento morti nel solo mese di aprile, mentre un attentatore è riuscito a penetrare addirittura nella superblindata zona verde e a fare scoppiare un ordigno nella caffetteria del Parlamento, ferendo parecchi parlamentari e uccidendone uno.
Negli ultimi giorni si segnalano scontri tra le due principali milizie sciite, l’organizzazione Badr, braccio armato del Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica (SCIRI) e l’esercito del Mahdi diretto dal giovane ayatollah Muqtada al Sadr. Le due forze, sebbene facciano parte della stessa coalizione parlamentare, sono profondamente divise, sembra, riguardo alla strategia da adottare: un portavoce di Moqtada al Sadr ha accusato lo SCIRI di avere un’agenda sostenuta dall’estero, cioè di essere favorevole alla spartizione dell’Iraq per formare uno Stato sciita nel Sud del paese come nell’interesse dell’Iran; Moqtada rivendica invece il proprio “nazionalismo” e l’opposizione ferma all’occupazione angloamericana. L’esercito americano non è stato a guardare ed è intervenuto negli scontri appoggiando con gli elicotteri le milizie dello SCIRI.
Il principale alleato di Washington intanto, la Gran Bretagna, ha deciso
l’inizio del ritiro del suo contingente da Bassora, nel Sud del Paese,
1.600 dei circa 7.000 soldati. Quasi simultaneamente anche la Danimarca
ha annunciato la volontà di ritirare i suoi 400 soldati.
Lo schema delle classi
Questo clima sempre più incandescente potrebbe forse determinare il ritiro delle forze d’occupazione americane, col mantenimento solo di alcune basi militari, almeno in territorio curdo. Il che non significherebbe necessariamente la fine della guerra civile, che continuerebbero ad alimentare i servizi segreti delle varie potenze che già agiscono nel Paese, le agenzie americane, le forze borghesi interne delle varie resistenze, quelle dirette dal vicino Iran o da Paesi più lontani.
L’economia irachena è a pezzi e saranno necessari anni e forti investimenti di capitale per riportare il paese ad una ripresa delle produzioni estrattive, industriali ed agricole. Le classi borghese e fondiaria indigene sono state gravemente colpite dalla guerra e le loro istituzioni statali distrutte. A decidere del nuovo assetto politico del Paese e della divisione delle sue imponenti ricchezze del sottosuolo saranno gli Stati imperialisti e le multinazionali del petrolio. Ma Stati Uniti e Gran Bretagna hanno fallito il colpo e dovranno scendere a compromessi e spartire il malloppo non tanto e non solo con i paesi confinanti, ma soprattutto con la Cina, la Russia, il Giappone, i paesi europei. Alla borghesia irachena resteranno le briciole.
Il proletariato e le masse povere delle città e delle campagne irachene sono le classi che stanno più soffrendo per questa guerra efferata. Ma, in questa situazione di disordine delle produzioni, più che per l’occupazione militare, hanno ben poche possibilità di organizzare una reazione difensiva. Anche perché il proletariato dei paesi occidentali non accenna ancora a schierarsi apertamente contro la guerra e la rapina.
Le avanguardie operaie sono già da anni impegnate in Iraq ad allargare la forza e l’influenza di genuini sindacati di classe, organizzando la difesa anche armata dei quartieri proletari dagli attacchi delle milizie regolari e irregolari del regime.
Quelle minoranze operaie che cerchino di rintracciare la linea incorrotta del comunismo che fu all’origine della Terza Internazionale e del partito mondiale della rivoluzione, devono soprattutto guardarsi da confidare nella utilità di alleanze con altri strati e classi sociali nazionali, necessariamente sulla base di un programma di governo democratico, sia pure “di transizione”, libero, laico, antimperialista. È questa una prospettiva in Iraq fuori del suo tempo storico e non realizzabile nella attuale fase di imperialismo senile.
Il partito comunista di classe in Iraq non può prefigurare alleanze del movimento proletariato con altre classi rivoluzionarie, che non esistono nel Paese, per il raggiungimento del supposto fine comune della liberazione nazionale nel quadro storico dell’abbattimento di un vigente potere pre-borghese. La borghesia nazionale ha già attuata da decenni la sua rivoluzione, una consolidata nazione irachena già esiste. In Iraq oggi il potere statale della classe borghese non è revocato storicamente ma solo temporaneamente sospeso dalla presenza delle truppe straniere di occupazione, che infatti le si sostituiscono e la surrogano nella manovra dello Stato e nella repressione del proletariato. La borghesia americana guida, come può, lo Stato della borghesia irachena, che moderno Stato borghese e capitalista, però, rimane. La sconfitta in una guerra imperialista non restituisce alla classe dominante nazionale la sua potenza rivoluzionaria, semmai ne accresce l’incarognimento e l’impotenza storica.
Anche in Iraq, come ovunque, il partito comunista rivoluzionario troverà appoggio nella rivolta di strati semi-proletari delle campagne e delle città, non in alleanza però con altri partiti, ma solo e separato nella sua organizzazione, nel suo programma e nella sua azione. Le avanguardie comuniste concentreranno la loro azione nei sindacati e nelle altre organizzazioni apolitiche di lavoratori finalizzate alla difesa delle condizioni economiche e di vita degli sfruttati.
Solo con questo lavoro, in una situazione di ripresa della lotta rivoluzionaria
a livello internazionale, la maggioranza del proletariato potrà
essere strappata dai particolarismi settari e dalle illusioni borghesi,
nazionaliste, religiose, e coinvolta nella rivoluzione, necessariamente
uniclassista e a respiro internazionale, sotto la guida del partito comunista.Amministrative
a Genova
PAGINA 2
Amministrative
a Genova
Contro l’oppio elettorale
per la lotta di classe
Compagni, proletari!
Nessuna giunta amministrativa locale, finché vige il capitalismo difenderà mai i vostri interessi! Si vuole dar a bere ai lavoratori l’idea che trattandosi di eleggere un organismo locale questo sia più controllabile, e possa quindi in una certa misura tornare utile alla difesa delle condizioni di vita della classe lavoratrice. Nulla di più falso nel mondo di oggi che si trova ad attraversare la fase ultima del capitalismo, l’imperialismo, in cui le decisioni che determinano le condizioni di vita del proletariato sono prese sempre più a livello internazionale sotto la spinta di quella forza sociale anonima, il Capitale, che opprime l’umanità intera e, in primis, la classe operaia e il proletariato in generale.
Fintanto che l’umanità non riuscirà a superare il modo di produzione capitalistico a livello internazionale, nazionale e locale, non si tratterà mai di buona o cattiva amministrazione, ma di scontro fra interessi economici, fra le diverse fazione della borghesia, rappresentate dai partiti che compongono il parlamento e le giunte locali e che si contendono le poltrone.
L’opposizione fra borghesia e proletariato non è una questione tecnica amministrativa ma politica, cioè di LOTTA DI CLASSE. La borghesia nazionale ed internazionale impone il suo programma alla classe lavoratrice attraverso la sua forza organizzata, ovverosia attraverso lo Stato, con i suoi organi centrali e periferici.
La classe lavoratrice non ha nulla da aspettarsi da queste istituzioni se non attacchi alla sua condizione. Ne sono un esempio in questi anni di governo cittadino di centrosinistra i tagli e i rincari all’assistenza sanitaria e sociale e al trasporto pubblico, così come il largo impiego di lavoratori precari nell’amministrazione comunale. Il tutto in perfetta linea con quanto è dettato a livello nazionale e internazionale.
La lotta per i veri problemi che interessano il proletariato, quali difesa e aumento del salario, salario garantito ai lavoratori disoccupati involontari, riduzione dell’orario e dei ritmi di lavoro, contro gli infortuni sul lavoro, non passa per il miglioramento delle sacre istituzioni borghesi ma fuori e contro di esse.
Occorre la ricostruzione della forza organizzata dei lavoratori, separata dalle istituzioni delle altre classi, per mezzo di un vero SINDACATO DI CLASSE (fuori e contro CGIL-CISL e UIL), organizzato non aziendalmente ma territorialmente nelle Camere del Lavoro. E la classe operaia, se vuole vincere, deve guardare oltre le nebbie della società presente, ricollegandosi al programma comunista rivoluzionario e al partito che lo incarna. Sarà una lotta non locale e nemmeno nazionale e tenderà all’affasciamento internazionale di tutti i fratelli di classe di questo mondo capitalistico secondo la classica direttiva PROLETARI DI TUTTO IL MODO UNITEVI !
Su questo tema, martedì 22 maggio alle ore 18, in Salita degli
Angeli 9 r (Dinegro)
Riunione aperta al pubblico
Da qualche anno sul mercato si sono affacciate numerose società che gestiscono i centri telefonici, detti call-center, proliferate soprattutto perché è stato “liberalizzato” il settore della telefonia, in cui vigeva il monopolio statale.
La corsa agli appalti nella fornitura dei servizi alle grandi imprese, che preferiscono “esternalizzare” molti servizi per contenere i costi, inevitabilmente si è ripercossa sulle condizioni retributive dei lavoratori impiegati per quei servizi. Oggi il lavoratore del call-center è il “modello antropologico” per antonomasia del precario, ingaggiato con forme contrattuali sicuramente “atipiche”, e avanguardia nella classe operaia per tutti i peggioramenti alle condizioni di vita e di lavoro.
Pare che la “terziarizzazione” delle economie capitalistiche nei Paesi più sviluppati inevitabilmente porti a far fiorire queste imprese, se è vero che negli USA il 2% della forza lavoro sta in un centro telefonico. Occorre riconoscere che nell’economia dei servizi si è concentrata una cospicua frazione del proletariato, che in regioni meno industrailizzate rappresenta le maggioranza dei lavoratori salariati.
In Italia i call-center, che nel 2004 già occupavano 192.000 operatori, sono gestiti da grandi aziende del calibro di Poste Italiane o quelle del gruppo Tripi; ma anche multinazionali come Teleperformance o piccole ditte individuali si contendono la torta del mercato, tutte accomunate dal fatto di praticare forme contrattuali a tempo determinato. È un’impresa che rende se è vero che Atesia, una delle maggiori aziende del settore, fino al 2005 controllata da Telecom, solo nel 2004 ha prodotto un giro d’affari per 4.300 milioni di euro.
Una forza lavoro ricattata, per lo più giovane e femminile (l’età media degli operatori è di 28 anni, sono distribuiti in prevalenza nel Lazio e in Lombardia, sono formati per il 60% da donne e un 30% di loro è laureato), pur di impiegarsi in qualche modo per sfuggire alla disoccupazione, accetta ogni imposizione, nell’illusione che questo lavoro costituisca un momentaneo trapasso prima di una migliore “stabilizzazione”.
Il contratto oggi più in voga è quello di “collaborazione a progetto”, con durata trimestrale: ad arbitrio dell’azienda il contratto alla scadenza può non essere rinnovato e può cessare da un giorno all’altro senza alcuna giustificazione; non sono retribuiti i permessi di malattia, maternità, ferie e le troppe assenze sono sicuro motivo di licenziamento.
La retribuzione più applicata è a provvigione, con un importo per ogni contratto concluso, ma vi è quella anche a cottimo, per ogni chiamata vengono riconosciute poche decine di centesimi. In pochi casi c’è una retribuzione oraria, ma il controllo sulla produttività dell’operatore è severo.
Sebbene la stampa borghese abbia salutato come esempio di “flessibilità” la “palestra” dei call-center, utile lavoretto temporaneo per universitari o casalinghe, la lenta crescita di economie tardo-capitaliste come quella italiana di posti di lavoro “garantiti” non ne offre più, quindi quella che doveva essere una transitoria prima esperienza per ragazzi diventa l’unico posto da cui trarre il salario, maledettamente insicuro e poco tutelato da leggi e sindacati.
Per dare risposte ai “tempi nuovi”, le stesse centrali confederali avevano fatto nascere dall’alto delle federazioni “per lavoratori atipici”, messe lì al solo scopo di occupare lo spazio sulla piazza e far accettare quelle condizioni schiavistiche, edulcorate con la concessione di qualche diritto.
Lo stesso Governo Prodi nella Finanziaria 2007 ha stanziato una regalia di 10 milioni a favore di co.co.co e co.co.pro. per l’acquisto di computer!
Questi sono i motivi che hanno condotto in certe aziende, come all’Atesia di Roma, alla nascita di combattivi organismi sindacali di base, che hanno spinto con la lotta alla applicazione almeno delle tristi leggi esistenti, come la legge Biagi che descrive il campo di applicazione dei contratti a progetto piuttosto che quelli subordinati. La denuncia del collettivo portò infatti, a seguito dell’indagine dell’Ispettorato del Lavoro, alla condanna dell’azienda.
Il 29 settembre 2006 si arrivò ad una riuscita giornata di sciopero nazionale a Roma dei lavoratori dei call-center.
Di fronte alla mobilitazione della classe, il ministro del Lavoro, “compagno” Damiano, cercò di portare ordine emanando una circolare che discriminava tra lavoratori “in-bound” (quelli che ricevono le telefonate, una minoranza) e sicuramente da assumere con il CCNL, e quelli “out-bound” (quelli che fanno le telefonate per vendere dei servizi o prodotti) che invece, quando il loro lavoro è gestito con una certa “autonomia”, possono essere inquadrati in modo atipico.
La manovra finanziaria 2007 determinò varie misure di stabilizzazione del lavoro precario, stanziando dei fondi e abbattendo l’imposizione fiscale per quelle società che assumono a tempo indeterminato, o specificatamente a favore delle assunzioni femminili nelle regioni del Mezzogiorno.
La lotta dei precari della Atesia e dei call-center in genere ha sicuramente portato ad una maggiore severità nell’applicazione dei contratti a progetto, e dopo gli accordi alla Atesia (a Roma) e alla Teleperformance (a Taranto e a Roma, avvenuto ad aprile) sono stati 10.000 i lavoratori ad essere stabilizzati con un contratto a tempo indeterminato nel comparto delle telecomunicazioni.
Certo, le condizioni contrattuali non sono fantastiche: la manovra appare solo come una sanatoria; vi è l’obbligo di accettare il ricorso, massiccio, al part-time; i diritti pregressi non sono riconosciuti; le assunzioni sono scaglionate nel tempo, alcune passano attraverso forme come l’apprendistato; certi lavoratori, come quelli a domicilio, vengono esclusi dai benefici.
All’Atesia di Roma, dove lavorano 4.000 operatori, una delle maggiori concentrazioni di lavoratori della capitale nel comparto privato, l’accordo di stabilizzazione è stato calato dall’alto, concertato tra dirigenza e bonzi confederali, attraverso statuti come l’apprendistato o i contratti di inserimento, forme che di per sè non garantiscono l’ingaggio a tempo indeterminato. E a fronte di posti “stabilizzati”, 900 collaboratori a progetto saranno espulsi. Contro questa piattaforma, il comitato dei precari Atesia per il 12 maggio ha indetto uno sciopero.
In alcune città, come a Taranto (dove sono 1.568 lavoratori: pare incredibile, ma nella provincia è il secondo aggregato operaio dopo il siderurgico), l’accordo con la direzione è piuttosto fragile in quanto avvenuto senza lotte e organizzazione dal basso, per effetto più della convenienza ad assumere, visti i bonus governativi e regionali, che per le rivendicazioni proletarie. Insomma, un grazioso dono al padrone di cui, incidentalmente, ne gode anche la servitù, ma, in assenza di lotte, di dubbia durata.
Quello che va salutato come esempio, invece, è stata l’organizzazione
dal basso dei precari della Atesia, fuori e contro il sindacalismo di regime.
Senza l’azione del sindacalismo di base, senza rivendicazioni, si starebbe
ancora a sperare nella pietà di ministri e padroni.
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La
storia italica nello specchio deformante della sua ideologia
Capitolo VIII
Esposto a Cortona nell’ottobre 2005
Il nuovo blocco storico post resistenziale
Nella nostra lettura storica se invariante è il programma comunista, non meno invariante è quello dei presunti riformisti, peggio se “riformatori sociali”, come hanno amato definirsi gli staliniani, in dispregio dei socialdemocratici classici. Ciò non significa che l’ordine dei fattori non cambi, ma il risultato è lo stesso.
Per fare il punto è il caso di ricordare ancora che il blocco storico che avrebbe dovuto portare gradatamente al socialismo era formato dall’alleanza tra operai del Nord, dell’industria, e contadini del Sud arretrato, con l’appoggio di mezze classi provenienti dal commercio, l’ambiente impiegatizio, gli intellettuali e così via.
Poiché per definizione il sistema capitalistico nella sua dinamica comporta un rimescolamento continuo delle classi a livello statistico, ci si domanda se la natura “antimonopolistica” di questo blocco sia ancora la stessa negli anni della cosiddetta globalizzazione. Naturalmente le avvisaglie del presunto profondo cambiamento nella natura del “blocco storico” furono lette dai riformatori sotto la spinta del movimento del ‘68, allorché si affermò lo slogan “studenti operai uniti nella lotta!”
In realtà l’invarianza dell’opportunismo, finché fu il caso di chiamarlo con questo classico epiteto, stava in questo. “Impraticabile” e “determinista” la formula rivoluzionaria racchiusa nel corpo di dottrina nella quale si riconosce la Sinistra, è necessario stringere proletariato tradizionale e “nuovi soggetti” emergenti in una lotta continua ed “intelligente” contro il capitale monopolistico, che lega i gruppi nazionali a quelli internazionali, per un sistema sociale che garantisca ai ceti in ascesa successo economico e democrazia, e politica ed economica e sociale. Tale posizione, al di là delle confezioni via via più o meno colorate, non cambia in tutto l’arco del dopoguerra fino ai nostri giorni.
Ci si chiede allora in che consisteva e continua a consistere la peculiarità del “blocco” e della sua teorizzazione. In sintesi, a livello storico, nell’esclusione a tutti i costi delle prospettive rivoluzionarie, considerate ormai obsolete e da combattere esplicitamente come opposte al riformismo in senso lato.
La prova che ciò che stiamo dicendo ha un riscontro concreto con la realtà sociale, e che non siamo dunque degli “iguanodonti”, come pensava Togliatti, è che, nonostante le tante idee maturate come il loglio nei campi, il confronto è ancora oggi tra i fautori del “riformismo” ed i suoi negatori, come noi siano.
Quando abbiamo accennato al fatto che il partito staliniano in Italia ad un certo punto si è smarcato definendosi “riformatore” e non riformista, abbiamo voluto cogliere quella differenza che ha preteso di identificare la “diversità” morale di esso in rapporto ai rinnegati storici del socialismo.
Che cosa intendevano costoro per “riformatore”? Di essere sostenitori di “riforme di struttura”, e non di semplici adattamenti del sistema di produzione e di distribuzione capitalistico. Poiché per loro stessa ammissione sono stati battuti dal valore intrinseco del riformismo, qualcosa deve non aver funzionato. Qualcosa che ha a che vedere con l’analisi o con le proposte alternative? Noi diciamo semplicemente con l’illusione di giocare con le parole. Il capitalismo è irriformabile, nel senso che ogni ritocco, anche consistente, non porta fuori della contraddizione reale di fondo: il fatto cioè che il dominio capitalistico, comunque si aggiorni, non può toccare il rapporto di base, e cioè la separazione storica del lavoratore dagli strumenti produttivi e dal frutto del suo lavoro. Ora, mentre il riformismo crede nella possibilità di far partecipare i proletari alla gestione del capitale, i rivoluzionari negano che questo marchingegno possa minimamente risolvere il problema.
Allora i “riformatori” volevano solo dire che le loro riforme sarebbero state “rivoluzionarie”, mentre quelle riformiste solo... riformiste! Sappiamo com’è andata a finire: i riformatori sono diventati riformisti, i riformisti liberal, i liberal conservatori, fino a che i fascisti, che nel loro fascio nazionale avevano inglobato tutti, sono stati “sdoganati”, e cioè riconosciuti come i vincitori sociali, nonostante la sconfitta politico militare!
Se nella realtà sociale pre-sessantotto la tensione tra “blocchi” sociali aveva sempre dato l’impressione della “centralità” della classe operaia, facente perno sui metalmeccanici secondo la favola “gloriosa” che la sfilata a Roma di costoro significava far tremare le vene e i polsi della borghesia, le adunate, sia pure scioperanti, del post–sessantotto, dimostrarono pienamente la vittoria su tutta la linea del modello corporativo tricolore, ben mascherato dal rivoluzionarismo estremista, composto da una gamma sempre più variopinta di gauchismi pronti alla battuta feroce, ma inconcludenti sul terreno strategico. Questo stile andò ripetendosi per un decennio, nel quale il mito dell’unità sindacale formato resistenza non fece altro che monopolizzare i tentativi di difesa del proletariato inquadrato nelle organizzazioni sindacali nazionali.
Intanto andava sfaldandosi l’organizzazione “fordista” del lavoro in fabbrica, oggetto d’analisi a non finire da parte dei sociologi ufficiali, in quanto in grado di sfarinare il vecchio blocco sociale, e di aprire la strada all’autonomia ed ai miraggi dei colletti bianchi impiegatizi di nuova formazione o residui della vecchia, che finirono per stupire i benpensanti nel 1980 con la famosa sfilata dei quarantamila.
Ricordiamo questi elementi sparsi ma salienti, perché utili per sottolineare che in questo lasso di tempo ogni illusione sulla possibilità di combattere inquadrati nel vecchio sindacalismo tricolore si consumava definitivamente.
La riprova che avevamo ragione sta nel fatto che le varie ondate di ristrutturazione passavano tutte con la benedizione, anche se camuffata da polemiche, del sindacalismo unitario, agguerrito e aggressivo nei confronti di qualsiasi tentativo di difesa di classe che uscisse dai suoi binari.
Poiché non è certo indifferente il nesso che la nostra corrente privilegia tra la sfera sociale a quelle più specificamente politica, la prova per la quale il modello corporativo di tipo fascista uscì vincitore dalla guerra, nonostante la pretesa vittoria politica dell’antifascismo, è stata lo “sdoganamento” cosiddetto delle forze che esplicitamente hanno sostenuto il fascismo, si intende adattate alla nuova situazione, con opportune revisioni e richieste di scuse e di perdoni vari.
Che funzione assume la teoria del blocco storico in questa nuova-vecchia situazione? L’analisi dei blocchi sociali, per essere credibile, dovrebbe rilevare dove sta la convergenza e l’integrazione tra ceti diversi, accomunati da un unico programma; in realtà, si assiste al gioco delle alleanze tra rami della produzione capitalistica tra loro in accanita competizione, ma accomunate da un unico obbiettivo, quello della massimizzazione del profitto. In questo modo, che un blocco sia definibile di destra o di sinistra poco conta, se non differisce per progetto politico e sociale opposto.
Di questo noi siamo sempre stati convinti, allorché abbiamo escluso alleanze con mezze classi di ieri e d’oggi, fossero moderni colletti bianchi o espressione dei “servizi”, oppure espressione di vecchi modi di produrre, in bilico tra vecchio mondo residuale della rendita fondiaria e industrialismo moderno. Ciò naturalmente non dettato da esigenze d’astratto “purismo”, com’è stato visibilmente sostenuto, ma per l’impossibilità di trovare convergenze di tipo sociale dialetticamente alternativo.
Allora, anche una volta tramontata la produzione industriale di tipo fordista, non è certo tramontata l’antitesi tra proprietà capitalistica e condizione proletaria esclusa dal controllo e dalla disponibilità di strumenti di produzione. La nostra “invarianza” di programma trova ragione in quest’invarianza di carattere sociale ed economico.
Ad essere oggettivi, d’altro canto, c’è da dire che gli eredi dell’opportunismo di stampo staliniano, nella situazione che si è creata con la sconfitta delle loro tesi sulla possibilità di realizzare un blocco sociale progressista ed “alternativo”, neanche ne parlano più. Ciò è dovuto al fatto che in fase capitalistica nella quale sempre più il tasso di profitto si fa striminzito, anche gli avversari politici della “destra borghese” pescano voti e consensi nei ceti sociali più disparati, facendogli concorrenza, a loro che avevano creduto di avere il monopolio della classe operaia.
Allora, quale blocco sarebbe oggi possibile? Se stiamo alle diatribe che si vanno svolgendo, il tema più o meno rimane lo stesso. Si tratterebbe di far leva sull’aspettativa da parte del proletariato di non veder falcidiato il già precario stato sociale, di poter raggiungere per via più politica che sindacale un riconoscimento di “nuovi diritti” che hanno il potere di promettere e non di fare alcunché.
C’è da capirli: se l’analisi marxista non fa per loro, come possono pretendere di riproporre quella keynesiana, una volta che il blocco sociale opposto se n’è già furbamente appropriato, dimostrando che il gioco storico tra protezionisti e liberisti è solo un escamotage per sovvenire in qualche modo e sempre alle esigenze del Capitale?
Si può affermare, senza timore di dire cose campate in aria, che mai come in questa fase i presunti progressisti della provenienza fallimentare che sappiamo, sono stati senza argomenti, frastornati e impanatati in beghe elettoralesche e politicantesche di fronte alle quali i presunti “riformatori” marca PCI erano d’una lucidità cristallina!
Sappiamo bene che cosa risponderebbero a queste eventuali obiezioni: il capitalismo globalizzato richiede fantasia e nuove ricette, che non sono realizzabili con i vecchi modelli d’interpretazione. Allora, fuori le nuove ricette. Le conosciamo anche troppo bene, e più ancora le pagano di proletari!
L’Italia, pur arrivata a suo tempo all’unità in ritardo in rapporto agli Stati più evoluti dell’Occidente, una volta entrata nel “concerto delle potenze”, non fa eccezione alla regola: si è trovata e si trova a far muro alla pressione proletaria attraverso i blocchi di ceti e di classi ostili al socialismo. La pretesa di opporre al “blocco moderato”, che sfociò nel fascismo, un “blocco progressista”, è sempre stata la nostra bestia nera. La nostra versione della questione, come è noto, prevede nella fase imperialistica del capitale il monoclassismo ed il monopartitismo, proprio il contrario dei “fasci”, siano essi di destra o di sinistra.
La più recente storia, non solo italiana, ai nostri occhi ci ha dato ragione, poiché al momento opportuno si sono visti crollare sia blocchi politici di tipo internazionale, sia la lenta, faticosa e impossibile tendenza a trovare alleanze tra ceti sociali quanto mai volubili e di tutto preoccupati fuorché di mettere da parte le loro pretese particolari, per trovare un programma comune.
Se il post-fascismo ha un senso, prima di tutto ha quello di mostrare come lo sfaldamento delle alleanze politiche ha siglato il fallimento di alleanze sociali. Da una parte le “forze moderate”, unite intorno ad un disegno politico conservatore, quando non forcaiolo; dall’altra le “forze progressiste” illuse di combattere rendite di posizione e privilegi attraverso accordi di stampo sociale che hanno creato nuove rendite di posizioni e nuovi privilegi.
Il rimescolamento seguito al crollo dei blocchi non è soltanto crollo di precedenti dirigenze, ma di forme sociali. Nel capitalismo imperialistico si tratta di stringere alleanze contro il proletariato attirando nei rispettivi blocchi, solo apparentemente opposti, proprie fette d’organizzazione proletaria, dandogli l’illusione ora di avere una missione, ora una centralità da difendere e da perpetuare.
Solo così si capisce come nel post-fascismo i giochi si sono riaperti: perché in realtà non si erano mai chiusi.
È nota la nostra ostilità più che giustificata nei confronti della “sociologia” la più diversa diffusa in campo borghese: eppure, anche se stiamo alle analisi recenti prodotte in questo campo, abbiamo la possibilità di trarne considerazioni quanto mai indicative che ci confermano nelle nostre storiche valutazioni. Ad esempio: l’analisi dei “ceti” sociali, contrapposta alla nostra teoria di classe, ha avuto ed ha la pretesa di non essere viziata da ideologismi e forzature di carattere politico preconcetto. Si studia e si va a scoprire che di fatto quelle realtà che chiamiamo “mezze classi” (“che sentitamente disprezziamo...”), furono la miscela esplosiva che portò dal prefascismo a fascismo, comprese quelle fasce considerate di “sinistra”, che accompagnarono a fase alterne non soltanto tutta la vicenda del regime, ma che a nostro pare continuano ad caratterizzare l’esperienza politica e sociale più recente, in particolare la nascita di movimenti “localistici” di tipo leghistico, che fanno leva, per l’appunto, sulle velleità di certi ceti emergenti che proliferano come fungaie ai piedi del grande tronco del Capitale, specie nelle fasi di acuta crisi economica.
Nella teoria dei blocchi la considerazione e la valutazione di questi ceti dovrebbe essere fondamentale, ed invece ecco che, come a suo tempo le correnti marxiste spurie fecero con la base sociale fascista, hanno preso solenni cantonate sulla loro effettiva natura.
Chi non ricorda la pretesa del partito staliniano di agganciare i fascisti di sinistra, oppure di considerare, in tempi a noi vicini, la Lega come “costola della sinistra”? Ci rifiutiamo però di pensare che queste valutazioni siano il prodotto di sviste: sono invece assolutamente conseguenti con la strategia demagogica di stile bloccardo, che è quella di sempre.
Quando sosteniamo che non sono proponibili nell’epoca imperialistica alleanze con ceti borghesi che temono di cadere nel baratro proletario, diciamo una tesi tassativa per un’intera epoca. Al contrario la politica bloccarda non conosce tregua nel suo tentativo di rincorrere le esigenze contingenti della miriade di spinte corporative, affamate di agevolazioni, piccoli privilegi, incapaci di essere tradotti in una politica di lungo respiro.
Se riflettiamo bene, l’opportunismo svolge proprio questa funzione: pur consapevole che il proletariato ha tutto da perdere inseguendo ceti e mezze classi, deve dare l’illusione che sia possibile tirarle dalla sua parte rinunciando alla sua funzione storica. Nell’Italia post-fascista, fino ai nostri giorni, cosa si è fatto se non predicare un’alleanza dei ceti medi uniti alle organizzazioni sindacali incardinate nella logica statale, in grado di battere il gran capitale, un tempo si diceva il capitalismo monopolistico?
Ma l’inevitabile contraddittorietà del capitale impedisce di legare queste forze in un progetto vero: ecco allora che nei momenti topici delle “ristrutturazioni” che si sono avvicendate in seguito al miracolo economico, il presunto blocco ha puntualmente subito gravi smacchi, dimostrando che alla borghesia come classe non interessano tanto le formule politiche, quanto il risultato in termini profitto.
Dopo le delusioni degli slogan “operai studenti uniti nella lotta” abbiamo assistito alla riscossa della logica modernizzatrice, sostenuta dall’industria tanto pubblica quanto privata, in modo da poter sostenere la concorrenza mondiale sempre più aspra ed agguerrita. Generalmente si fa riferimento alla sfilata dei 40 mila a Torino, nel 1980, per segnare lo spartiacque tra le illusioni riformatrici malate di “massimalismo” parolaio, e le esigenze di serio riformismo interpretate dal socialismo democratico. Nel frattempo l’intera impalcatura statale cominciava a reclamare adeguamenti istituzionali, che nella nostra traduzione significavano inevitabilmente “rafforzamento” dell’efficienza repressiva dello Stato borghese.
Non saremo certi noi a non vedere il nesso stretto tra economia e politica, altrimenti rinunceremmo al nostro metodo e alla nostra teoria; ma quando sono certi politologi a farlo per accentuare secondo i comodi ora le ragioni dell’economia, ora quelli della politica, allora dobbiamo permetterci il lusso di distinguere con nettezza. Ci stiamo riferendo all’inevitabile polemica sul nuovo corso della storia italica dopo la scoperta delle tangenti, del 1992 e anni seguenti, che avrebbe visto la reazione dell’Italia sana contro quella marcia, in nome d’una Seconda Repubblica capace di rinnovarsi in un ennesimo nuovo Risorgimento. Lo specchietto per le allodole sembra funzionare e non ci meraviglia, alla condizione però che non si creda che siamo tutti degli allocchi.
Che la crisi economica abbia costretto certi ambienti dello Stato a farla finita col pozzo senza fondo dei fondi neri passati sotto banco dal mondo dell’economia ai partiti è una ragione plausibile. Ma la vera ragione per la quale l’Italiuzza ha tentato negli ultimi dieci anni di darsi un assetto statale più efficiente, attraverso opere in corso di ingegneria costituzionale, non sta tanto nelle tangenti, quanto in un disegno che covava da tempo in forma massonico-piduista, mirante a fare dello Stato italico un efficiente baluardo contro qualsiasi conato di ripresa proletaria.
Non per niente, appena una vecchia classe dirigente è stata falcidiata per beghe interne, la borghesia sembra ricompattata sotto un apparato politico che a mano a mano trasformisticamente ha visto riabilitati post mortem, ed anche durante la lunga vita, personaggi ormai impresentabili. Si è insomma abituata la cosiddetta “gente” a commentare con la classica formula “ma io non ci capisco niente”, scoraggiando così la lotta, lasciando che le cose andassero secondo il loro “corso naturale”!
E le “alleanze”, nel frattempo? Non potevano che continuare sotto la veste di “rovesciamento” appunto, nell’impressione generale che il maggioritario avrebbe semplificato e reso più moderna, “anglosassone”, la politica dell’arraffante borghesia nostrana.
La lezione riassuntiva e conclusiva da trarre è questa: l’Italiuzza conferma la sua storica tendenza alle scelte trasformistiche. Certo, lo sappiamo bene che alle origini, intendiamo quelle post risorgimentali, del Depretis, il termine non intendeva affatto essere dispregiativo, ma pragmatico e positivo. Nel corso del tempo però non si può negare che i suoi effetti li abbiano imparati a conoscere: in virtù di esso le classi dirigenti, ognuna inadeguata ai compiti, tende a scambiarsi favori con la presunta opposizione, in modo tale da confondere le idee ai pochi dotati di programma e di compito storico specifico. La furbizia comunque non ha niente a che vedere con la “politica”, come dice il gesuita Baltasar Graciàn, poco noto, ma acuto teorico del ‘600 spagnolo. Nell’Italia degli ultimi tempi il vecchio vizietto italiano ha avuto il merito di dare l’impressione di una guerra senza quartiere tra la destra e la sinistra, riuscendo a far prendere tempo all’intera classe dirigente borghese, che in questo modo ha potuto insabbiare scandali, tentare una credibile modernizzazione, far convergere la passione politica e l’odio nei confronti dei “berluscones” che il genio di Gadda già aveva saputo vedere in anticipo nei suoi non certo rivoluzionari romanzi...
Il blocco sociale è uno solo, altro che due contrapposti come pensava Gramsci: è quello borghese in funzione antiproletaria, con il sostegno conflittuale dei nemici “comunisti”, in tutt’altre faccende affaccendati che in quella rivoluzionaria... Con buona pace di Silvio e la sua corte dei miracoli!
Il proletariato sta nel mezzo, quasi schiacciato, tra ceti bottegai,
corporazioni di destra e di sinistra, in attesa di riorganizzarsi veramente
su posizioni di classe. Lo farà mai? La crisi economica e sociale
non risparmierà certo i suoi timori e le sue titubanze. Ma non si
illuda di essersi “emancipato” dai trasformismi che lo manovrano, lo addomesticano,
ma non possono eliminarlo.
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Lezioni
dallo sciopero dei portuali di Gioia Tauro
fuori e contro
Cgil‑Cisl‑Uil
Il porto di Gioia Tauro ha iniziato ad essere operativo dal settembre del 1995. È gestito nei suoi processi operativi fondamentali dalla Medcenter Container Terminal (Mct), della società armatoriale genovese Contship controllata dal gruppo tedesco Eurokai, che impiega 650 lavoratori dei circa 1.250 che lavorano nel porto.
Lo scalo ha conosciuto uno sviluppo accelerato che lo ha portato ad essere uno dei primi porti in Europa in quanto a movimentazione di container. Nel 2004, con il passaggio di 3.200 navi, è stato il molo commerciale più grande del Mediterraneo, il terzo d’Europa dopo quelli di Rotterdam e Amburgo e uno dei primi venti al mondo.
Il successo di questo scalo è stato dovuto a vari fattori: 1) lo sviluppo della rotta commerciale che dall’estremo oriente e dall’India, passando per Suez, giunge nel Mediterraneo e da qui ai porti del Nord Europa, conseguenza dell’impetuosa crescita economica di Cina ed India (che da sole rappresentano più dell’80% del traffico marittimo mondiale); 2) l’utilizzo sempre maggiore dei container per immagazzinare e trasportare le merci; 3) la sua recente messa in opera e quindi la disponibilità di una moderna strumentazione (22 gru più altre quattro di nuova generazione pronte ad entrare in funzione); 4) infine, ciò che più a noi interessa, un elevato grado di libertà per l’azienda nello sfruttamento dei lavoratori.
L’Accordo di Programma del luglio 1994, fra Governo, Regione Calabria e Contship, sancì la nascita del Mct e stabilì per i circa 500 giovani operai assunti un salario di 1.200.000 lire al mese, inferiore del 20% sui minimi contrattuali, e il lavoro domenicale e festivo senza maggiorazione.
Nel 1997 Contship richiedette una proroga dell’Accordo e, di fronte a un possibile rifiuto dei sindacati confederali, fece balenare la possibilità di circa 110 esuberi.
L’integrativo del 1998 riconobbe le domeniche. Fu proposto per il lavoro notturno il sistema della doppia settimana, 7 giorni si fa il turno di mattina e per i 7 dopo si fa quello di notte, ma all’azienda non andò bene: troppo poca flessibilità. Fu così introdotto il sistema misto: nei primi 14 giorni si alternano notti e mattine. Finite queste due settimane inizia quella di flessibilità, durante la quale i portuali devono essere pronti alla chiamata per qualsiasi turno.
Il contratto d’area istituito nel marzo 1999 stabilì una busta paga di 1.400.000 lire, di 370.000 inferiore a quella nazionale.
Nel 2002 fu introdotta la settimana lavorativa di 36 ore. Il nuovo contratto prevedeva sei notti fisse al mese, turni di sei ore con possibilità di imporre fino a sei ore di straordinario portando l’orario totale a 12 ore consecutive, anche “di mezzo” (cioè stare sopra una gru a movimentare i carichi), per un massimo di 22 giorni all’anno, un giorno di riposo a scalare che però può essere revocato unilateralmente a discrezione dell’azienda attenendosi al tetto massimo del 7% di riposi contemporanei.
Il ricorso allo straordinario è costante e pianificato, così da ridurre il monte salario complessivo sfruttando al massimo i già assunti ed evitando di assumerne altri.
È prevista la concessione di un compenso per lo straordinario di 20 euro al giorno per chiunque riesca a superare la media porto di 23 container all’ora scaricati, attenendosi comunque sotto la soglia dell’8% di assenteismo in tre mesi (cinque giorni): se si supera questa percentuale, niente premio di produzione di 700 euro. Naturalmente si tratta di un premio di produzione come sempre calibrato al punto giusto affinché non sia né irraggiungibile, il che indurrebbe i lavoratori a rinunciarvi, né troppo a portata di mano, così da ottenere il massimo sacrificio da parte degli operai.
Infine non è previsto né congedo parentale, né malattia.
Queste condizioni di lavoro hanno permesso alla Mct i record di cui si fa tanto vanto, scalzando Malta quale transito (Hub) per lo smistamento dei container dalle grandi navi transoceaniche provenienti dall’Asia e dal Nordamerica su navi minori destinate al Mediterraneo centrale ed orientale, al Mar Nero e al Nordeuropa.
In pochi anni il porto di Gioia Tauro è giunto a saturare la sua capacità di movimentazione. Dalle 73 navi approdate nel 1995 si è passati alle 1.331 dell’anno successivo, alle 3.254 del 1998, alle 3.276 del 2002, per poi segnare una flessione a 2.851 navi nel 2005. Dato però che in questi dieci anni la capacità di trasporto delle navi portacontainer ha avuto anch’essa uno sviluppo parossistico, al punto tale che oggi le maggiori di esse possono essere “lavorate” solo in pochi porti nel mondo in cui esiste la strumentazione necessaria, è più significativo il dato relativo al totale dei container caricati e scaricati. Questi erano 12.817 nel 1995, 398.062 nel 1996, 981.882 nel 1997, 1.423.172 nel 1998, 1.923.714 nel 2002, 2.040.680 nel 2004, 1.976.875 nel 2005. Come si vede la flessione risulta assai lieve e lo scalo calabrese rimane prossimo al suo massimo di capacità.
Se riportiamo i dati della fortuna dell’azienda che opera nel porto di Gioia Tauro non è perché noi crediamo, come tutti i partiti borghesi e in particolare i falsi partiti operai, come Rifondazione e le sue emanazioni sindacali, che allo sviluppo economico corrisponda un maggiore benessere per la classe operaia e per l’umanità in generale, ma per mostrare come proprio questo sviluppo si basi sull’accresciuta miseria e sfruttamento del proletariato.
Uno striscione affisso da alcuni lavoratori all’entrata del porto ben esprime questo fondamentale punto di vista comunista: “Voi dieci anni di record, noi dieci anni di miseria!”. Una interpellanza parlamentare riportava: «al 31 dicembre 1997 si può parlare di 576 posti di lavoro diretti e di circa 1.000 indotti»; visto che ad oggi i dati oscillano per il totale degli occupati diretti e indiretti fra i 1.250 e i 1.500, alla fortissima crescita dei traffici non è corrisposta alcuna crescita degli occupati, anzi, probabilmente una diminuzione,.
Questo ha un solo significato fondamentale: aumento smodato della produttività ossia dello sfruttamento del lavoro! Aumento che, messo a confronto con quanto pagato dall’azienda come salari ai lavoratori in questi undici anni, rende ben chiara l’idea di quanto lauti siano stati i guadagni aziendali e pesanti i sacrifici degli operai.
Da quando è nato il porto di Gioia Tauro le sole organizzazioni di difesa (in teoria) dei lavoratori presenti sono stati i tre sindacati di regime Cgil-Cisl-Uil e quello “di destra” Ugl. In undici anni le ore di sciopero proclamate, a parte gli scioperi generali, sono state esattamente zero. Evidentemente le condizioni di lavoro qui descritte non sono sembrate ai confederali sufficientemente gravi da ricorrere alla lotta.
A novembre 2006 Cgil-Cisl-Uil avevano presentato ai lavoratori in assemblea un accordo con l’azienda sul nuovo contratto integrativo che, come prassi loro consueta, cedeva ulteriormente sulla produttività in cambio di un aumento di salario. L’accordo introduceva maggiore flessibilità d’orario, portava a 30 i raddoppi dei turni annui di modo che, fatti i conti, i lavoratori sarebbero stati costretti a fare quasi un raddoppio a settimana, e sanciva l’obbligatorietà dello straordinario. Tutto questo per un aumento, sulla carta, di 150 euro lordi, nei fatti di 15 netti. Per i confederali l’accordo «indubbiamente migliora le condizioni economico salariali e di vita dei lavoratori».
Di diverso avviso erano i lavoratori che in due assemblee all’unanimità bocciarono l’accordo. La votazione avvenne per alzata di mano (sana prassi classista da contrapporre a quella individualista del voto segreto), secondo il volere degli stessi confederali, i quali speravano probabilmente in un effetto “intimidatorio” ma che questa volta, evidentemente, non ha funzionato.
Da autentiche facce di bronzo i bonzi della triplice se ne infischiarono della doppia bocciatura assembleare e firmarono l’accordo, ma ne davano comunicazione in bacheca in questi termini: «Come deciso dall’assemblea...». Circa 400 lavoratori allora firmarono una lettera alla segreteria nazionale della Filt-Cgil, chiedendo il rispetto del voto assembleare, confidando in una sconfessione da parte della Segreteria Nazionale dell’operato della Cgil locale. La sconfessione, puntualmente, non arrivò.
Il 9 dicembre un centinaio di lavoratori si riunì così in assemblea presso l’hotel Mediterraneo di Gioia Tauro e decise di aderire al sindacato di base Sult (Sindacato Unitario Lavoratori Trasporti) aderente al neonato SdL (Sindacato dei Lavoratori). L’assemblea stabilì all’unanimità un primo sciopero generale dei dipendenti di tutte le aziende operanti nel porto della durata di 48 ore, dalle ore 19 del 27 dicembre alle ore 19 del 29. Secondo il comunicato dello stesso Sult del 12 dicembre: «Motivo dello sciopero è principalmente il rinnovo del contratto integrativo e, al suo interno, i problemi legati all’orario di lavoro, ai turni ed al salario, fermo ormai da un decennio».
Successivamente a questa assemblea anche l’Ugl (con lo sdoganamento di questa “nuova” confederazione, i sindacati, contro i lavoratori, oggi si danno al gioco delle quattro carte) si dichiara contraria al nuovo integrativo e proclama uno sciopero, per poi ritirarlo a una sola ora e mezza dal suo inizio. Ma, evidentemente, la tensione fra i lavoratori è ormai molto alta e l’Ugl, per non perdere la faccia e poter continuare a recitare la parte di (falsa) alternativa ai confederali, fa per la seconda volta marcia indietro e proclama uno sciopero di 48 ore dal 25 al 27 dicembre.
A dimostrazione di quanto lo sciopero sia voluto dai lavoratori è il suo successo, con un’adesione fra il 95 e il 98%. Per quattro giorni consecutivi il porto, emblema per dieci anni di pace sociale e sfruttamento proletario nei porti mediterranei, resta paralizzato. Lo sciopero lascia ferme due navi in banchina e otto in rada, e la Maersk, che movimenta due terzi dei container di Gioia Tauro, annuncia il dirottamento di almeno quindici navi verso altri scali.
Di fronte al pericoloso successo riscosso dallo sciopero il fronte antioperaio Azienda-Stato-Confederali prende le contromisure. Il Prefetto di Reggio Calabria convoca Mct e organizzazioni sindacali, compreso il Sult, il 9 gennaio per cercare un accordo. L’azienda mostra la solita tattica dilatoria per far sbollire gli animi.
La Cgil dal suo canto mette in moto la sua fabbrica di menzogne finalizzate a demoralizzare e dividere i lavoratori in lotta e impedire la loro riorganizzazione. Mentre nel comunicato congiunto del 16 dicembre aveva affermato che: «Il Sindacato Confederale, con un grande gesto di responsabilità, ha chiuso un contratto integrativo che indubbiamente migliora le condizioni economico salariali e di vita dei lavoratori», si inventa adesso, 29 dicembre, la favola secondo cui «Cgil-Cisl-Uil, una volta concordata la parte salariale, hanno deciso di affrontare le rimanenti questioni, in particolare turnistica ed inquadramenti con una trattativa successiva alla stipula del Contratto Integrativo, il tutto per non vedere vanificati i vantaggi economici ottenuti». Evidentemente i confederali pensano che i lavoratori siano così stupidi da credere che una volta firmato un contratto in cui sono affrontate sia la parte salariale sia la normativa, per semplice “parola data” si faccia poi carta straccia della seconda parte per procedere alla stipula di un altro contratto.
Nello stesso comunicato si legge che «gli scioperi proclamati dall’Ugl prima e dal Sult (...) hanno spostato la protesta su questioni che da tempo Cgil-Cisl-Uil stanno già trattando con l’azienda [ossia la parte normativa, peggiorativa nell’integrativo]. Da qui si deduce che questi quattro giorni di sciopero si sono rivelati “specchietto per le allodole”, non diretti a migliorare le condizioni salariali dei lavoratori, bensì utili a cavalcare una protesta per la legittimazione di queste due sigle sindacali. Assenti prima e anche oggi tanto è vero che nessun risultato positivo è stato portato a favore dei lavoratori. L’unico risultato che hanno prodotto è stato il danno recato al porto».
Dunque il fatto che oltre 100 operai, fra cui molti ex della Cgil, si siano iscritti al Sult non ha significato per i bonzi della Cgil e quattro giorni di sciopero totale non sarebbero un risultato positivo ma solo, ahinoi, un danno recato al porto.
Infine, a degna conclusione, scrivono i tre sindacati venduti: «Accogliamo con sollievo la nomina del Generale Mario Mori a Commissario Straordinario del Governo per il Porto e l’Area Industriale di Gioia Tauro, sapendo che non siamo più disponibili a sopportare le intimidazioni e le autentiche forche caudine che hanno dovuto sopportare quei lavoratori che liberamente, e secondo noi, giustamente, hanno cercato in questi giorni di lavorare e ne sono stati, di fatto, impediti, a poter scegliere se aderire o no allo sciopero senza nessun condizionamento o intimidazione come purtroppo è avvenuto. Anche per questi motivi, il nostro incondizionato appoggio al Generale Mori affinché possa svolgere questo importante incarico in un’area così delicata e difficile come il Porto di Gioia Tauro. Infine riteniamo importante il ruolo svolto e che continua a svolgere la Prefettura di Reggio Calabria, ma non possiamo accettare di sederci allo stesso tavolo di confronto con chi in questi giorni, irresponsabilmente e strumentalmente e per scopi e finalità di difficile comprensione ha attaccato il Sindacato Confederale, mettendo in ginocchio l’unica vera e grande realtà produttiva di questa Regione».
Quindi, dopo gli onori di benvenuto al nuovo commissario straordinario in perfetto stile fascista, Cgil-Cisl-Uil si ergono in difesa, non degli scioperanti, ma dei crumiri invocando l’aiuto dell’autorità statale.
Dopo la convocazione del Prefetto l’assemblea dei lavoratori decide di sospendere la proclamazione di altre due giornate di sciopero a gennaio, mantenendo però lo stato di agitazione e limitando le prestazioni a straordinario nella forma e quantità prevista dal contratto nazionale. Come si vede, i lavoratori si limitano a richiedere semplicemente l’applicazione del contratto nazionale. La linea di condotta del Sult riscuote le simpatie dei lavoratori e gli iscritti al sindacato di base salgono a 350 su un totale di 650 dipendenti della Mct trasformandolo nel primo sindacato nell’azienda.
L’incontro in prefettura conduce ad un nuovo accordo il 16 gennaio.
L’azienda furbescamente temporeggia, ma, alla notizia del rinvio di un incontro fra rappresentanti sindacali ed azienda previsto per il 7 febbraio, i portuali aderenti al Sult, che nel frattempo hanno costituito un Coordinamento dei Portuali di Gioia Tauro, si risolvono – orrore! – senza alcun preavviso a scendere immediatamente in sciopero, questa volta per ben quattro giorni, dal 7 al 10.
L’adesione è nuovamente totale e lo sciopero è vissuto attivamente da moltissimi operai tanto che viene proclamata un’assemblea permanente e stabilito un presidio di circa trecento lavoratori all’ingresso del porto. Insomma, una lotta degna di questo nome! Inoltre, mentre le 96 ore di sciopero di dicembre erano avvenute a cavallo delle festività, in un periodo in cui il traffico è minore, questa volta lo sciopero è in un momento di traffico intenso e l’impatto sull’economia del sistema porto è pesante.
L’isteria di azienda e confederali questa volta è incontrollabile e gli argomenti utilizzati dai due compari, non a caso, sono i medesimi. Il 7 sera le segreterie nazionali di categoria della triplice inviano una lettera al Ministro dei trasporti, a quello dell’Interno, al Prefetto ed al Questore di Reggio Calabria, successivamente comunicata alla stampa, dal titolo “Lotte estreme che pregiudicano lo sviluppo e l’occupazione del porto di Gioia Tauro”. La sostanza è evidente: si cerca di terrorizzare i lavoratori con la minaccia dei licenziamenti. Qual più vecchio arnese di repressione padronale? Vale la pena di scorrere il comunicato per mostrare a che bassezze sono in grado di giungere Cgil, Cisl e Uil. «Un’azione così forte (...) non ha connotati puramente sindacali». Perché? I confederali non lo spiegano. Semplicemente avanzano illazioni per screditare la lotta e soprattutto giustificarne una repressione aziendale o statale. «Il sindacato SdL (...) si dichiara pronto ad impedire con ogni mezzo lo svolgimento delle attività». Cosa vuol dire “con ogni mezzo”? Altra illazione tesa a creare il terreno favorevole ad una repressione della lotta. Infatti subito dopo si legge: «Riteniamo di poter affermare che queste forme estreme pongono evidenti questioni di ordine pubblico». Sostanzialmente i confederali invocano l’intervento delle forze dell’ordine contro i lavoratori, contro uno sciopero a cui ha aderito il 98% di essi! Nemmeno l’azienda si è spinta così avanti. Ma sa di poter contare su dei fedeli cani da guardia che fanno il lavoro sporco per essa! E per concludere l’esortazione finale: «Se come per gli scioperi dichiarati in precedenza dal sindacato autonomo [ossia il sindacato di base Sult] si dovesse ricorrere a forme di intimidazione con atti e minacce illegali verso lavoratori ed aderenti ad altre organizzazioni sindacali si dovrà intervenire con tutta la determinazione necessaria, per sradicare fenomeni che niente hanno a che vedere con la cultura del lavoro e con normali relazioni sindacali». Seguono le firme dei tre segretari nazionali di categoria.
Insomma, visto che i confederali non riescono più a sradicare questi “fenomeni”, non “atti violenti” ma il semplice inquadrarsi dei lavoratori in organismi fuori e contro i sindacati di regime, intervenga allora la forza pubblica dello Stato Democratico a far piazza pulita, permettendo ai sindacalisti confederali di poter tornare a fare pacificamente il loro “lavoro”!
L’azienda dall’altra parte batte sulla stessa corda ventilando chiusura e licenziamenti. L’importanza dello scalo di Gioia Tauro per la borghesia italiana è dimostrata dal fatto che dopo le prime quarantotto ore di sciopero è lo stesso governo ad intervenire direttamente nella lotta in corso. Alle 10 del mattino di sabato 10 febbraio, a Roma il ministro dei Trasporti Bianchi, il viceministro Marco Minniti, il Prefetto di Reggio Calabria Luigi De Sena, incontrano i rappresentanti sindacali, della Contship e dell’autorità portuale.
Contemporaneamente al porto si svolge un’assemblea con oltre trecento operai presenti. Dopo due ore di incontro il Ministro Bianchi “promette” la firma di un accordo entro 72 ore ma ammonisce i lavoratori a riprendere il lavoro entro le 13. L’assemblea, che in un primo momento è orientata verso la prosecuzione dello sciopero ad oltranza, infine accetta la promessa ministeriale.
In questa decisione probabilmente ha giocato un ruolo la dirigenza del Sult e del SdL, di area Rifondazione e perciò accondiscendente verso il governo e tendente ad accreditarlo fra i lavoratori. Se va infatti riconosciuta la combattività di questo sindacato, non va dimenticato che il bagaglio ideologico della sua attuale dirigenza, nei suoi caratteri fondamentali, è il medesimo di quello della Cgil: collocato politicamente all’interno del campo borghese, quello che fu del Pci dal 1926 in poi, della Cgil del secondo dopoguerra e, oggi, di Rifondazione Comunista.
Ciò che differenzia il Sult, come gli altri sindacati di base, oggi, dalle confederazioni di regime non è il loro indirizzo politico bensì, possiamo dire, la “genuinità” organizzativa, che non conoscono la inveterata reciproca compenetrazione di tutto l’apparato con le istituzioni borghesi e padronali, anima e corpo diremmo, e lo stuolo enorme di funzionari stipendiati. Ne consegue che mentre la Cgil è da considerarsi un organismo irreversibilmente passato al nemico, i sindacati di base sono ancora suscettibili di divenire, in una fase di lotta di classe montante – ben diversa dunque da quella attuale – un vero sindacato di classe. Questo significa che in un sindacato di base può e deve iscriversi e militare una frazione operaia del nostro partito, propagandando fra i lavoratori le corrette direttive comuniste nella lotta sindacale, fare opposizione al suo interno alla dirigenza opportunista e, sulla base di questo lavoro, avere la possibilità di assumerne la direzione, anche solo occasionalmente, o più saldamente in una fase di slancio della lotta di classe, passo questo fondamentale e necessario per la vittoria della rivoluzione comunista.
Questo sano carattere dei sindacati di base è dovuto, prevalentemente, in tempi così oscuri, alla loro età, sono cioè organismi tanto giovani che il carognume sindacal-statal-padronale non ha avuto ancora il tempo o il modo di penetrarli e di corromperli. Questo in generale ed andrebbero svolte considerazioni differenziate fra le troppo numerose sigle del sindacalismo di base, alcune per niente di nascita recente.
Per questi organismi il nostro partito prefigura una favorevole prospettiva in relazione ad un montare della lotta fra le classi. I sindacatini di base si riempiono di nuove forze proletarie disposte alla lotta; se il grado di energia dello scontro sociale lo consente le diverse organizzazioni tenderanno a fondersi in un unico sindacato; sarà presente in esso una decisa e ben orientata frazione comunista, cioè emanante da e rispondente al solo nostro partito, che compie un’opera di inesorabile critica della dirigenza opportunista e cerca, ogniqualvolta sia possibile, di dirigere le lotte dei lavoratori orientandole nel senso della loro maggiore efficacia, generalità ed estensione.
Fintanto invece continuerà l’attuale fase di stagnazione della lotta di classe, il bagaglio programmatico nazionale-democratico-borghese degli attuali dirigenti dei sindacati di base darà i suoi inevitabili frutti: o produrrà il dissolversi dell’organizzazione o ne impedirà il concrescere, chiusa nel settarismo e nel politicantismo di bassa lega.
Dopo 72 ore di sciopero i lavoratori del porto tornano così al lavoro. Dall’incontro di martedì 13 al ministero dei Trasporti scaturisce un nuovo accordo che però viene firmato da confederali ed Ugl ma non dal Sult. Il colmo è che i quattro sindacati di regime ne elogiano i contenuti e se ne arrogano il merito, quando è evidente che è frutto unicamente della lotta dei lavoratori e del Sult è che contraddice quanto precedentemente firmato da Cgil-Cisl-Uil e che i lavoratori hanno prima rifiutato in due assemblee e poi combattuto in sette giorni di sciopero.
Il Sult non firma l’accordo, che non accoglie le richieste fondamentali dei lavoratori circa la parte normativa (fra cui le principali sono la non obbligatorietà dei raddoppi dei turni di 6 ore e il limite massimo di 26 domeniche lavorate all’anno).
Il protocollo prevede un aumento salariale maggiore di quello precedente (215 euro mensili) ma accetta l’incremento di straordinari e flessibilità. L’azienda è stata disposta a cedere in salario in cambio di un incremento della produttività.
Mercoledì 15 febbraio Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale SdL intercategoriale, dichiara che «Al termine della lunghissima riunione al Ministero dei Trasporti del 13 febbraio scorso, che si è svolta su tre tavoli separati (SdL-Azienda-altre OOSS), si sono ottenuti dei risultati rispetto alle richieste dell’SdL (...) Nonostante ciò l’SdL non ha visto risolti due dei punti fondamentali richiesti e così non si è giunti alla firma ed alla conclusione della vertenza (...) L’atteggiamento responsabile dei lavoratori e dell’SdL e la positiva mediazione del Ministro Bianchi, hanno comunque fatto sì che non si riprendesse lo sciopero immediatamente e, per uno dei punti controversi, si andasse al Ministero del Lavoro. L’incontro con la sottosegretaria del Ministero del Lavoro Rosi Rinaldi si è svolto ieri e siamo in attesa di un ulteriore incontro per verificare quanto da noi denunciato e per procedere eventualmente ad una nuova mediazione del Governo. È evidente che nel caso di risultato negativo della stessa i lavoratori saranno costretti a riprendere lo sciopero in modo ancor più incisivo».
L’atteggiamento condiscendente verso il governo del dirigente sindacale traspare in modo abbastanza evidente.
Dopo 20 giorni di attesa di una risposta da parte del Ministero del Lavoro l’SdL ha emanato un nuovo comunicato: «Nonostante siano trascorsi ormai 20 giorni dalla riunione svoltasi presso il Ministero del Lavoro (...) sino ad oggi nulla è emerso e siamo nell’impossibilità di poter esprimere qualsiasi valutazione. Purtroppo dobbiamo registrare che il clima negativo che si è creato intorno ai lavoratori a Gioia Tauro si sta oggettivamente riproducendo anche a livello istituzionale attraverso il perpetuarsi di un silenzio sempre meno comprensibile e sempre più preoccupante. Convinti come siamo della giustezza e della validità delle nostre posizioni, non possiamo che registrare con estremo disappunto e sconcerto la mancanza di qualsiasi riscontro e ben presto, per veder riconosciuti i diritti dei lavoratori, ci troveremo costretti a percorrere le vie legali e le indispensabili e scontate azioni di tutela sindacale».
Ai primi di maggio nessun ulteriore sciopero è stato proclamato.
Il Partito non è presente con suoi militanti all’interno del porto di Gioia Tauro e perciò non gli è possibile disporre di una conoscenza precisa della situazione. Può darsi che la tensione fra i lavoratori si sia effettivamente affievolita e un nuovo sciopero non esprimerebbe la forza necessaria per ottenere gli obiettivi per cui i lavoratori hanno lottato. L’andamento dell’ultima assemblea, il 10 febbraio, farebbe presumere il contrario, visto che inizialmente la maggioranza dei lavoratori era orientata per lo sciopero ad oltranza. Tuttavia resta fondamentale l’ammonimento che il partito fa ai lavoratori: non si possono coniugare, come vorrebbero tutti gli antimarxisti, sviluppo capitalistico e difesa della classe operaia.
Ma lo sciopero dei portuali di Gioia Tauro ha ancora una volta confermata la diagnosi che il Partito fece sul finire degli anni settanta, quando valutò che, da allora in poi, ogni qualvolta i lavoratori fossero tornati seriamente a lottare, si sarebbero trovati a combattere non solo contro padroni, governi e Stato ma anche contro Cgil, Cisl e Uil. Ne concludemmo con la parola d’ordine: FUORI E CONTRO I SINDACATI DI REGIME, PER LA RINASCITA DEL SINDACATO DI CLASSE.