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In tutti i paesi del mondo le condizioni dei lavoratori sono sotto attacco. In molti casi i mezzi di questa offensiva mondiale del capitalismo sono gli stessi da Oriente a Occidente, da Nord a Sud. La minaccia delle "delocalizzazioni" è mondiale. Non riguarda solo il cosiddetto Primo Mondo verso il Secondo e il Terzo. Si "delocalizza" persino dall’Indonesia e dalla Cina. Anche la "flessibilità" del lavoro salariato non è cosa che riguarda solo l’Occidente. Vi fanno fronte, ad esempio, anche i lavoratori sudcoreani, quelli indonesiani, gli iraniani. Si è sempre più di fronte ad un unico Mondo capitalistico. Questa è la realtà sotto i nostri occhi.
Eppure questa internazionalizzazione dei problemi, dei drammi che la classe lavoratrice deve affrontare, non appare in primo piano, anzi scompare offuscata e nascosta sotto la polvere alzata da falsi obiettivi: la Nazione, la Religione, l’Etnia, la Democrazia.
È un risultato dei rapporti di forza mondiali fra proletariato e borghesia ed è allo stesso tempo uno strumento di lotta in mano alla classe capitalista. La stampa borghese tace delle lotte operaie fino a quando queste non diventano tanto importanti da imporsi all’attenzione. Così, mentre sulle prime pagine campeggiano le grandi manifestazioni organizzate dai partiti islamici in reazione alle note provocatorie vignette, è necessario essere degli esperti speleologi della stampa quotidiana per scoprire cenni a manifestazioni anche le più dure e partecipate per obiettivi di classe.
Diciassettemila lavoratori dei trasporti in sciopero a Teheran, con scontri ed oltre mille arresti nella "repubblica islamica" per eccellenza, oppure diecimila operai in Indonesia, il più popoloso "paese musulmano" al Mondo, che assaltano i palazzi istituzionali per ottenere aumenti salariali, evidentemente non fanno notizia.
L’esistenza della lotta di classe in questi paesi guasta quel quadro così ben dipinto dai commentatori borghesi di un "mondo islamico" isolato e arretrato, socialmente e politicamente, dove le classi sono ancora disciolte nel magma indistinto del popolo e la religione islamica e le sue diverse sette sostituiscono i moderni partiti politici. Questa presentazione dei paesi islamici è falsa è corrisponde solo all’interesse che hanno sia la borghesia occidentale sia quella dei cosiddetti paesi islamici a fare in modo che i lavoratori di Occidente e di Oriente non si riconoscano reciprocamente fratelli di classe ma si temano e si odino, come fanatici islamici gli uni, grassi e complici degli sfruttatori gli altri. Che i partiti borghesi, in veste islamica o laica, abbiano oggi un seguito nel proletariato più ampio di quanto non ne abbiano organizzazioni e partiti che si richiamano alla lotta di classe ed al comunismo è fuori di dubbio. Ciò però è dovuto non a differenze culturali innate, ma ad una causa storica e politica ben precisa, cioè alla sconfitta del movimento comunista internazionale dalla metà degli anni venti del secolo scorso e dall’imporsi della controrivoluzione stalinista in Russia. La sconfitta del comunismo rivoluzionario, con l’eliminazione fisica di un’intera generazione di rivoluzionari alla scala internazionale, ha comportato lo stravolgimento di tutti i principi comunisti ad opera dello Stato falsamente comunista russo.
La fabbricazione del falso mito del "socialismo reale", che si è avuta prima in positivo, poi, oggi, dopo il suo "crollo", in negativo, ha portato alla formazione in molti paesi di partiti "comunisti" solo di nome, nei fatti alleati di uno dei due campi imperialisti. Questi partiti, come il PCI in Italia, il PCF in Francia ecc., hanno esaltato per decenni il falso mito del "socialismo reale" per poi rinnegarlo completamente dopo il suo fallimento. Il comunismo rivoluzionario non ha nulla a che vedere con la tradizione stalinista, patriottica, filoimperialista di questi falsi partiti operai.
Ma la lunga sconfitta della prospettiva comunista rivoluzionaria non può essere che temporanea: il capitalismo nel suo sviluppo prima e nel suo attuale declino tiene in grembo la nuova società senza classi e spinge, pur senza volerlo, verso di essa così come la vecchia società feudale covava in grembo le forze rivoluzionarie borghesi.
La lotta proletaria, che non è certo cessata col crollo dell’URSS, è ineliminabile nella società del capitale e, poiché non può trovare soluzione entro i confini sociali e politici del capitalismo, è destinata ad acuirsi ed a raggiungere quel livello critico che innesterà il processo rivoluzionario alla scala internazionale.
Ma perché questa "tensione" sociale non si esaurisca in sterili rivolte destinate alla sconfitta, è necessaria l’azione del partito, non solo e non tanto per la sua capacità organizzativa, che già la classe, fino ad un certo punto, esprime spontaneamente, ma per la sua funzione di indirizzo, per il maneggio della dottrina rivoluzionaria, che altro non è che l’esperienza delle passate sconfitte e delle poche ma esaltanti vittorie: teoria, programma e tattica comuniste.
Se la degenerazione nello stalinismo del movimento rivoluzionario proletario mondiale, scatenatosi con la rivoluzione d’Ottobre sulla base delle distruzioni della Prima Guerra, è da indicare come l’aspetto politico della odierna grave situazione di smarrimento del proletariato, ad essa si sono andati sommando gli effetti negativi che lo sviluppo economico del capitalismo dopo la Seconda Guerra ha avuto sulla classe mondiale dei salariati. Se la controrivoluzione staliniana ha privato il proletariato del suo partito, lo sviluppo su scala planetaria del capitalismo ha posto le basi per il suo assoggettamento economico, ma anche sociale, politico, "culturale".
Sull’onda delle rivoluzione anticoloniali ed antifeudali del secondo dopoguerra, rimaste nel quadro della rivoluzione borghese per l’opera stessa dello stalinismo, il capitale è riuscito ad espandersi da un Occidente per esso sempre più povero di profitti e a trovare ossigeno in quantità nei miserrimi salari delle masse contadine inurbate, principalmente dei paesi asiatici.
Il salto di questi paesi, tra i più vasti e popolosi alla scala mondiale, Cina, India, Indonesia, dal feudalesimo o dal modo di produzione asiatico al capitalismo, con tutto il corollario di immani tragedie per i contadini poveri e per il nuovo giovane proletariato, ha permesso al capitalismo di sfuggire alla morsa fatale che lo stava avvinghiando, terminato il periodo economico espansivo della ricostruzione post bellica. I salari asiatici, pari ad un decimo di quelli occidentali e l’apertura di nuovi immensi mercati, hanno frenato la caduta del saggio di profitto e rimandato la crisi catastrofica del capitalismo.
Su questa doppia base, distruzione del partito politico comunista e diffusione mondiale del capitalismo, si sono eretti nel democratico Occidente i più idioti luoghi comuni, primi fra tutti quelli che il numero dei proletari si sta riducendo, che la miseria diminuisce progressivamente, che il marxismo ha mostrato il suo fallimento sia come previsione politica sia come teoria economica.
Se una fabbrica si sposta dall’Italia alla Cina, ciò significa soltanto che il proletariato industriale s’è spostato con essa. Ciò ha varie conseguenze, la più importante è l’aumento del saggio di profitto, ma non certo quella dell’estinguersi dei proletari. Questi anzi, come qualsiasi fesso sa, in primo luogo i padroni che li sfruttano, sono molto più numerosi di prima. Perciò, quello che attualmente può costituire un fattore di crisi e debolezza per il proletariato mondiale e per la rivoluzione, dialetticamente diverrà un fattore di forza eminentemente rivoluzionario.
Basta spostare gli occhi da una certa immagine dell’Occidente al mondo globalizzato per mostrare la falsità di queste asserzioni: ormai nessuno nega che i grandi colossi asiatici stanno entrando prepotentemente nell’arena dei massimi capitalismi portando in dote centinaia di milioni di giovani proletari; nessuno può negare che a livello mondiale la miseria è crescente e che, mentre i salari, a livello internazionale, diminuiscono, parallelamente aumentano i profitti.
Il capitalismo, come tutti sanno, nacque in Inghilterra. Alla descrizione delle condizioni terribili in cui versava la giovanissima classe operaia inglese, i due fondatori della teoria rivoluzionaria del proletariato, Marx ed Engels, dedicarono una parte fondamentale del loro lavoro di tutta una vita. Cosa hanno di diverso da allora le condizioni di milioni di proletari dell’Asia e non solo? Nulla. In molti casi sono anche peggiori.
Questi paesi stanno percorrendo in pochi decenni la strada che i paesi occidentali hanno percorsa nel corso di tre secoli e presto li avranno raggiunti e forse superati. In questo forsennato periodo milioni di vite proletarie di uomini, donne e bambini sono state, sono e saranno sacrificate sull’altare del dio Capitale. Ma imputare questo alla "arretratezza" è illusorio da un lato e ipocrita dall’altro. In quei paesi i capitali investiti sono quelli delle modernissime aziende nazionali e multinazionali dei più avanzati capitalismi.
Ma si sbaglia di grosso chi crede che i paesi a giovane capitalismo si svilupperanno in modo progressivo fino a giungere al "benessere" europeo. Dovrebbe far pensare il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori d’Occidente. Se il proletariato asiatico rappresenta l’arretratezza e i lavoratori occidentali, "acculturati", "democratici" e "riformisti", rappresentano il progresso, allora coerentemente si deve concludere che, facendo una media globale, non si sta affatto progredendo bensì arretrando, in quanto sono le condizioni dei lavoratori occidentali che muovono verso quelle dei lavoratori del resto del mondo e non viceversa. Quindi il futuro capitalista, il "modello", non è l’Europa, bensì l’Asia.
Il punto è che le coordinate con le quali orientarsi nello sviluppo storico del capitalismo non sono quelle, appartenenti all’ideologia borghese, del progresso in economia e della democrazia nella politica, ma quelle, marxiste, dei ritmi d’accumulazione del capitale, del calo tendenziale del saggio di profitto e dei rapporti di forza nella lotta di classe mondiale fra proletariato e borghesia. Sono questi gli elementi che ci permettono una bussola per orientarci e sapere dove si sta andando.
Noi già lo sappiamo e lo diciamo ad ogni passo ai proletari: verso l’alternativa guerra borghese o rivoluzione proletaria. Il crescere delle tensioni tra gli Stati, sotto la spinta della crisi di sovrapproduzione a livello mondiale, dimostra che la critica marxista delle contraddizioni interne al sistema di produzione capitalistico è sempre valida. L’aumento continuo delle spese per gli armamenti dimostra che il capitalismo va orientandosi verso una risoluzione traumatica della crisi, cioè con un nuovo scontro militare alla scala mondiale di cui le giovani schiere proletarie dovrebbero fornire la carne da macello.
Il programma rivoluzionario comunista risorge dalle sue ceneri, come la mitica Fenice, e prospetta l’unica non tragica soluzione per il proletariato di oggi e di domani e, possiamo dire, per l’umanità intera.
L’economia capitalistica basata sulla spasmodica ricerca del profitto
quale motore di tutto va distrutta e sostituita dall’economia di specie,
secondo un piano "globale", dove l’umanità si riconosce nella sua unità
e stabilisce un rapporto organico con le altre specie e con la natura.
Gli apparati degli Stati capitalistici, basati sui loro eserciti e sui
loro apparati di repressione a difesa del profitto e dei privilegi delle
classi dominanti vanno distrutti. Questa è la strada, forse ancora lunga
ma già scritta, che il proletariato internazionale dovrà farsi carico
di percorrere se vorrà evitare tragedie peggiori ancora di quelle del
secolo appena trascorso.
Il capitalismo, per le sue dittatoriali leggi economiche, ha sempre meno briciole da offrire alla classe lavoratrice d’Occidente che, a ritmo più o meno accelerato, vede peggiorare le sue condizioni di vita e di lavoro, spinte verso quelle del proletariato del resto del mondo. Sta finendo sotto i nostri occhi l’illusione del capitalismo "buono", dispensatore di benessere anche per i lavoratori. Con essa crollerà l’altro grande mito: quello della democrazia, che si rivelerà fondata solo sulla pace sociale ossia sull’annullamento politico della classe lavoratrice. Quando i lavoratori, spinti dalla necessità, disseppelliranno finalmente l’ascia di guerra, il capitalismo calerà la maschera democratica per mostrare il vero volto della dittatura borghese.
Quanto meno i falsi schieramenti "di destra" e "di sinistra" hanno da prospettare ai lavoratori, tanto più sono costretti, per nasconderlo, a strillare, scapigliarsi e agitare falsi spauracchi. Come nei film di Hollywood, si cerca rimedio alla mediocrità del copione negli "effetti speciali". Da destra si agita lo spettro del comunismo (riferendosi, naturalmente, al capitalismo di Stato russo o cinese), da sinistra quello della deriva autoritaria. Il "programma politico" è solo in negativo, si riduce alla sconfitta dell’avversario dipinto come il male peggiore e non si esce dalla falsa alternativa, e comunque capitalista, Fascismo/Stalinismo.
Dietro questo volgarissimo spettacolo la realtà dei fatti segue il suo corso. Il governo di destra non ha fatto che proseguire la politica del precedente di sinistra: riduzione dei salari reali (in atto dal patto del luglio 1993, sottoscritto dalla CGIL), aumento della precarietà del lavoro (pacchetto Treu, legge 30), blocco delle pensioni (Dini-Prodi), imprese militari (Iugoslavia, Kosovo, Afghanistan, Iraq). Questo non è il programma della destra o della sinistra: è il programma del capitalismo. È il Capitale, nazionale e internazionale, il regista che decide (per quanto può, nello scontro delle sue frazioni), e i mezzibusti che sfilano alla televisione sono solo attori di una rappresentazione, che recitano ciascuno la parte assegnata per ingannare la classe operaia.
Il rinnovato contratto dei metalmeccanici, definito dalla FIOM come una vittoria e che nei fatti aumenta la flessibilità e riduce il salario, è invece il mondo reale. In questo c’è la falsa opposizione alla legge 30 della CGIL, che indice contro di essa quattro ore di sciopero generale nazionale in un anno e poi la applica a livello aziendale, quando lo stesso Treu si è già espresso chiaramente contro l’abrogazione della legge.
Gli opposti schieramenti borghesi hanno un interesse superiore comune: tenere in vita il cadavere della democrazia con iniezioni di adrenalina ed elettroshock. Il proletariato deve continuare a credere nel feticcio della democrazia perché questa è la miglior garanzia della pace sociale, della dilazione della lotta di classe. I lavoratori devono restare prigionieri dell’idea secondo cui la difesa dei loro interessi deve obbligatoriamente passare ogni quattro anni per il collo di bottiglia delle elezioni e svolgersi per il resto della legislatura nell’aula parlamentare. "Rifondazione" – che al fine di mantenere il controllo sui lavoratori continua a fregiarsi del nome di comunista pur rinnegandone ogni principio – è il puntello da sinistra di questa illusione di classe.
Noi comunisti invitiamo i proletari ad uscire da questo vicolo cieco. La strada per la difesa degli interessi della classe lavoratrice va necessariamente oltre il capitalismo ed è contro le sue "sacre" istituzioni, prima fra tutte il parlamento.
La via per la liberazione dei lavoratori dalla schiavitù capitalistica
è quella della lotta: la riorganizzazione territoriale dei lavoratori
nel rinato Sindacato di Classe, fuori e contro CGIL-CISL e UIL, e la milizia
dei migliori nelle file del partito comunista.
Il 14 Febbraio, come preannunciato dalle agitazioni dei giorni precedenti, le assemblee della Fiat-Alfa di Pomigliano contestano duramente i rappresentanti confederali, venuti a richiedere l’approvazione dell’accordo che chiuderebbe la vertenza per il contratto dei metalmeccanici. Al lancio di uova e al grido di venduti!, viene loro rinfacciato di avere scambiato con minimi aumenti di salario nominale la flessibilità, la precarietà e i sabati lavorativi. Ai sindacalisti non rimane che tagliare velocemente la corda.
Come a Pomigliano, l’accordo viene respinto in molte altre assemblee del gruppo Fiat (Melfi, Mirafiori) e di altre importanti fabbriche d’Italia, e quasi ovunque l’accordo viene decisamente contestato.
La reazione dei Confederali, per bocca di Rinaldini della Fiom, è di denuncia delle "violenze" che avrebbero impedito lo svolgimento delle assemblee. Evidentemente viene ritenuta "violenta" qualunque assemblea operaia che non accetti i diktat del sindacato di regime.
Ma in sua difesa interviene la direzione Fiat che il 20 febbraio invia otto lettere di licenziamento: vengono colpiti i rappresentanti sindacali che avevano partecipato alla contestazione, tutti aderenti allo Slai-Cobas, da tempo a Pomigliano punto di riferimento della opposizione operaia organizzata.
Non è la prima volta che i Sindacati Confederali ricorrono alla repressione del padrone e dello Stato per difendere le loro posizioni dalle proteste dei lavoratori. Ciò mostra chiaramente di quali interessi si fanno portatori e rende evidente la loro natura di organizzazioni estranee e contrapposte alla lotta operaia in difesa delle condizioni di vita e di lavoro.
È una conferma che il Sindacato di regime non è più conquistabile, tantomeno operando dall’interno di una sua "sinistra". Nessuna "sinistra sindacale" ha infatti espresso una parola di solidarietà ai licenziati di Napoli, né al Congresso della Cgil né fuori. La politica di Cgil-Cisl-Uil-Ugl è apertamente sostenuta e difesa dallo Stato e dai padroni, dei quali condivide i fini economici e dei quali si riduce ad una appendice per il controllo della classe operaia.
Si conferma ancora quanto si imponga ai lavoratori la necessità di
ricostituzione dello strumento che rappresenta i loro interessi immediati
e organizza e conduce le lotte contro lo sfruttamento capitalistico: il
Sindacato di Classe.
Movimento operaio americano (1) dalla Colonizzazione allo Stato Federale [Resoconto esteso] | American Workers’ Movement [diffuse report] | El movimiento obreno en los Estados Unidos |
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Dopo quasi mezzo secolo, dal 1958, siamo tornati a riunirci nella città di Parma. Nessuno dei compagni presenti allora è più fra noi, una mancanza che ha il suo peso. Ma chi avesse bisogno di un riferimento alla persona di un capo per rintracciare la continuità programmatica o soltanto organizzativa del partito è evidentemente non all’altezza del sentire e della milizia comunista, non emancipato dalle vili patologie borghesi, individualiste, democratiche, elettorali che da ogni lato insidiano e delle quali solo il partito della rivoluzione può e deve tenersi immune.
È noto che il procedere delle nostre ricerche non si fonda sul metodo del conflitto fra opinioni di individui o gruppi interni al partito, ma nella convergente ricerca storica sulle sue basi di dottrina. Il dibattito, quindi, non vi è proibito da specifica norma congressuale, che sarebbe poco, quanto operativamente scartato in quanto inadeguato ai nostri metodi e ai nostri fini.
In una luminosa e tranquilla sala prescelta dai compagni locali, con ampie vetrate su un bel parco innevato, abbiamo potuto svolgere i lavori nel nostro stile serrato e sereno. Presente rappresentanza di quasi tutti i nostri gruppi; purtroppo mancavano i compagni francesi e anche alcuni italiani, bloccati dai treni che con poca neve nemmeno partono più. Anche gli attesi al venerdì sera non sono potuti arrivare che l’indomani mattina. Molto efficacemente disposta la logistica per l’ospitalità dei compagni, nella bella e antica città, nonché ricca tradizione proletaria.
La mattinata del sabato è andata occupata per l’organizzazione della riunione, nella lettura della posta giunta da chi non era potuto essere presente, il riferire il lavoro fatto, lo scambio di materiali, il piano di pubblicazioni e le modalità di intervento per la propaganda e nelle lotte operaie.
Dedicate poi le sedute del sabato pomeriggio e della domenica mattina
all’ascolto delle sei relazioni predisposte da diversi compagni, delle
quali diamo subito qui un resoconto breve e che saranno riprodotte per
esteso nei prossimi numeri di "Comunismo".
Abbiamo ascoltato dapprima il rapporto sul movimento operaio del paese capitalisticamente più sviluppato e potente, gli Stati Uniti d’America, primo capitolo di un nuovo lavoro che il Partito ha iniziato.
Il relatore ha esordito descrivendo le peculiarità del processo di colonizzazione del Nord America: a differenza di quanto avvenuto nel Centro e Sud del continente, non vi erano ricchezze da rapinare, tranne quella che le mani dell’uomo potevano produrre. Le prime colonie ebbero quindi fin dall’inizio bisogno di un gran numero di braccia a basso prezzo. Il problema fu inizialmente affrontato con il servaggio a contratto e la deportazione di masse di condannati. Poi fu preferito l’utilizzo di schiavi, che venivano importati dall’Africa a basso prezzo, e che in pochi anni ripagavano il loro costo con il lavoro; solo che, a differenza dei servi a contratto, non venivano liberati ma restavano schiavi a vita.
In un paese prevalentemente agricolo, la produzione di manufatti era quasi esclusivamente svolta da artigiani, e le sole concentrazioni operaie si avevano nei cantieri navali e sulle navi. Molto lentamente, nel Settecento comincia a formarsi un proletariato urbano, composto di ex-servi, operai arrivati direttamente dall’Europa, e schiavi liberi. Ma ancora per tutto il secolo il lavoro manuale è principalmente di tipo servile, e le lotte economiche si manifestano inevitabilmente come rivolte violente, nelle quali bianchi e negri spesso fraternizzano contro il comune nemico di classe.
La Guerra d’Indipendenza, esplosa nell’interesse delle classi abbienti, vede come al solito le classi più povere fornire le truppe che si scontrano con gli eserciti inglesi, e li sconfiggono, nella speranza di un futuro nel quale ci possano essere condizioni migliori di vita e di lavoro. Ma alla fine saranno i padroni di sempre a cogliere i frutti del sangue versato dai proletari. Dalla guerra, e dalla Costituzione del 1787, nasce lo Stato federale, che in pochi decenni assurgerà al rango di grande potenza industriale e militare.
Per la classe operaia, il confronto vero con la borghesia deve ancora
cominciare.
Origine dei sindacati
in Italia
Con la sbarco degli alleati in Sicilia e nel Sud nel 1943 e 1944, lo scioglimento dei Sindacati fascisti e delle Corporazioni, vennero creati dagli occupanti degli Uffici del Lavoro, che volevano essere un argine alla ripresa della lotta di classe. Naturalmente ciò non poté impedire la nascita di nuove organizzazioni sindacali, che gli alleati e il nuovo governo badogliano cercavano di tenere sotto controllo.
Nel novembre 1943 rinacque la Camera del Lavoro a Napoli, e poi in altri grossi centri della provincia e al di fuori, come a Salerno, Foggia e Potenza. I lavoratori della provincia di Napoli e pochi altri crearono il Segretariato Meridionale della CGL, di cui Enrico Russo venne nominato Segretario Generale. La CGL, mettendosi alla testa della lotta di classe di quei mesi, ebbe un grande aumento degli iscritti a Napoli e in tutto il Sud.
L’impostazione classista del nuovo sindacato portò ad uno scontro con il PCI, che puntava invece sull’unità con le altre classi in funzione della "liberazione nazionale". All’inizio del 1944 il PCI a Bari creò quindi una nuova CGIL, con l’aggettivo "italiana", in opposizione alla CGL di Napoli.
Quest’ultima riuscì, il 20 febbraio 1944, ad avere l’autorizzazione dagli alleati a pubblicare il giornale "Battaglie Sindacali". Nella stessa data si tenne a Salerno il suo Primo Congresso Nazionale a cui parteciparono 30 Camere del Lavoro, e a cui fu assente la CGIL di Bari, che cercò di impedire l’adesione d’altre province.
Il Russo nella sua relazione si pronunciò contro ogni tregua sindacale e disse che: «Caduto il fascismo, non si può semplicemente affermare che si sono create le condizioni che portano direttamente dalla società capitalista a quella socialista, tramite la "democrazia progressiva" e senza lotta di classe».
Al Congresso venne votata l’unificazione con la CGIL di Bari, anche se poi di fatto le due organizzazioni restarono distinte. Anche Nicola Di Bartolomeo, altro importante dirigente della CGL, trotskista praticante l’entrismo nello PSIUP, dichiarava di non riconoscere alcun programma di ricostruzione nazionale.
Ovviamente nella CGL napoletana c’erano anche altre posizioni, come quelle di Gentili e del Partito d’Azione che sostenevano la necessità di partecipare allo sforzo bellico in accordo con il CLN.
Per controbilanciare il Congresso di Salerno, il PCI della Campania parla di ""unità nazionale contro l’hitlerismo". Togliatti al suo arrivo lancia l’alleanza con la monarchia e dice ai lavoratori, come riporta "l’Unità" del 2 aprile 1944, che essi non devono ispirarsi a nessun "sedicente interesse di classe", ma solo all’interesse nazionale. Togliatti stesso cercò di convincere Russo alla politica di "unità nazionale", e, non avendo successo, cominciò da parte del PCI un’opera costante di attacchi e di denigrazioni nei confronti della CGL e dello stesso Russo, già sulle posizioni della Sinistra comunista, da cui si era allontanato in occasione della guerra di Spagna nel 1936. Infine nel giugno 1944 con il Patto di Roma, il PCI, insieme allo PSIUP e alla DC, decisero di creare dall’alto la CGIL, un sindacato nato patriottico e come specchio dei nuovi rapporti interimperialistici.
Abbiamo scritto su "Comunismo" n. 1: «I sindacati formalmente liberi
formati nel secondo dopoguerra sono i continuatori del sindacalismo statale
fascista, sono cuciti sul modello Mussolini. La loro funzione, infatti,
è quella di tenere la classe operaia inchiodata alla solidarietà nazionale».
All’articolo I dello statuto della CGIL leggiamo: «La CGIL è un’organizzazione
nazionale di lavoratori. Essa organizza i lavoratori che (...) considerano
la fedeltà alla libertà e alla democrazia fondamento permanente dell’attività
sindacale. La CGIL pone a base del suo programma e della sua azione la
Costituzione della Repubblica Italiana».
Italia specchio di contraddizioni
Senza modernizzazione permanente non ci sarebbe Capitale. I paesi che come l’Italietta entrano nei gironi del mercato mondiale in ritardo rispetto ad altri portano con sé le loro arretratezze e le loro contraddizioni.
Se l’Italia fece scuola utile anche ai plutocrati del tempo, che la seguirono prima con malcelato interesse e poi la combatterono, se il Fascismo – come oggi tutti ammettono – fece da avanguardia e modello come difesa contro il soviettismo, oggi qualsiasi paese che da "arretrato" si fa moderno rischia di trovarsi nelle strette nelle quali a modo suo si trovò l’Italia.
Paese "modello", dunque? No, paese specchio di contraddizioni prodotte dall’imperialismo mondiale, che oggi celebra i suoi fasti col nome abusato di "globalizzazione".
Non siamo disposti a prendere per nuove le politiche modernizzatrici nel campo statale, sotto il nome di "neo-feudalesimo" o di "sovranazionalità", facce di un’unica medaglia.
Il problema per i borghesi è rincorrere, sul piano pratico e su quello
ideologico, le conseguenze dirompenti della "modernità" capitalistica,
per cercare di sopraffare ai concorrenti, salvando capra-borghesia e cavolo-capitale,
evitando che il lupo della Rivoluzione proletaria venga traghettato in
modo sbagliato dall’altra parte del Fiume della Storia.
Iran, bilancio della "Rivoluzione
islamica"
La prosecuzione del lavoro sull’Iran ha preso in esame il periodo successivo alla liquidazione dell’esperimento democratico di Mossadeq, con il rientro dal breve esilio dello scià, fino alla sua caduta per la "rivoluzione" del �79.
Questo periodo di oltre venti anni continua ad essere segnato da profonde lacerazioni sociali e sconvolgimenti sul piano politico, economico e dall’alterazione dei critici equilibri dell’area.
Il 1956 era stato infatti segnato dalla crisi del canale di Suez, nel 1967 la guerra arabo-israeliana aveva sconvolto il Vicino Oriente e nel marzo del 1971 la Gran Bretagna avrebbe annunciato la fine dei trattati con gli sceicchi del Golfo e il ritiro delle proprie truppe. È la fine della pax britannica, durata centocinquant’anni, motivata dagli interessi di Londra nel proteggere la via delle Indie, e il definitivo affermarsi nell’area dell’egemonia degli Stati Uniti, con l’opportunità per l’Iran del controllo del Golfo Persico e la formazione di un esercito potente ed armato allo Stato più avanzato delle tecnica dell’epoca, lautamente finanziato con i proventi delle rendite petrolifere.
Arsenale che peraltro alla fine degli anni ’70 fu inutile a fronteggiare la minaccia interna del regime, l’insurrezione popolare e gli scontri nelle città.
In questo quadro, negli anni ’60, l’assoluto controllo del potere e l’instaurazione di un rigido sistema di tutela dell’"ordine sociale" garantito dalla onnipotente polizia politica, la Savak, permise allo Scià di avviare un poderoso programma di riforme "dall’alto" che si riprometteva di portare l’Iran tra i paesi più industrializzati entro il breve termine di vent’anni.
Lo Scià, inoltre, assegnò ad un consorzio di otto compagnie straniere la produzione del greggio locale, rafforzando quindi il rapporto con l’Occidente e permettendo l’ingente afflusso di capitali nelle casse dello Stato.
Nel 1961 venne promulgata la riforma agraria, presentata come "Rivoluzione Bianca", per permettere la razionalizzazione delle politiche agricole ed estirpare il fenomeno del latifondo. Con questa riforma lo Scià intendeva colpire, conseguente con la politica del padre Reza, anche gli interessi del potente clero sciita. La riforma si risolse però in breve tempo in un fallimento, spopolando le campagne e favorendo l’abnorme processo di urbanizzazione che, in meno di vent’anni, decuplicò la popolazione in alcune città dell’Iran.
Il progressivo fallimento della riforma agraria ebbe per effetto un’ulteriore accelerazione nel programma di riforma industriale, con investimenti forzati e con lo sviluppo di relazioni commerciali. Però la struttura politica ed amministrativa nazionale non era in alcun modo adeguata per affrontare un cambiamento così profondo nell’economia, né lo erano le infrastrutture della nazione, e la corruzione della ristretta classe dominante tendeva ancora di più ad approfondire il divario sociale.
Nel 1973 si determinò quello che sarebbe stato definito il primo "shock petrolifero" mondiale, con l’aumento del 600% del prezzo del barile. Le entrate dell’Iran passarono da 200 milioni di dollari/anno a 20 miliardi. Cifra enorme, allora, che venne completamente consumata in un crescendo di spese.
Quando alla metà degli anni ’70 la rendita derivante dalla vendita del petrolio degli anni precedenti tornò a ridursi sensibilmente, il fallimento dei faraonici progetti industriali portò ad un drammatico incremento della disoccupazione e al diffuso malcontento del ceto medio commerciale, il bazar, che avrebbe poi giocato un ruolo cruciale nella "involuzione" islamista del ’79.
In questa fase convulsa, la crisi economica e finanziaria acuì la già accentuata crisi politica, alimentando in modo sempre maggiore lo scontro sociale all’interno del paese. L’intero corpo sociale non riusciva – tra manifestazioni imponenti, massacri, dissoluzione delle strutture statali monarchiche e paralisi dell’attività economica – a ritrovare la strada per uscire dal marasma. In una situazione, cui mancavano i presupposti per svilupparsi in senso rivoluzionario, furono le lotte dei proletari delle raffinerie e delle industrie intorno alle principali città a dare il colpo di grazia alla monarchia, lotte per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro.
Quella che mancò fu la conduzione classista dello scontro per i fini politici del proletariato, e non per il cambio di un regime, per la liquidazione di un apparato corrotto o per dare nuova energia ad borghesia fino allora impotente, per sostituire lo Scià con il borghese Baktiar o un tentennante Bani Sadr. Indirizzo comunista che né il Tudeh, ex staliniano, riformista e democratico fin dall’appoggio al governo Mossadeq, né i gruppi insurrezionalisti che si erano riorganizzati dal suo tracollo, avrebbero mai potuto garantire.
I consigli operai, gli shora, nati dopo i formidabili scioperi
di Isfahan e Tabriz e le lotte dei campi petroliferi, quando la controreazione
prese l’abito dei preti islamici –
e fu questo lo sbocco inevitabile, il
Termidoro del coraggioso movimento
proletario d’Iran – divennero
i "consigli islamici", una cinghia di trasmissione dell’ideologia dei mullah.
Oggi, dopo che tutte le motivazioni ufficiali addotte da Washington per scatenare la guerra contro l’Iraq si sono rivelate false, emergono anche sulla stampa borghese le vere cause della guerra: «La guerra di Bush aveva tre scopi – scrive "Limes" nel numero di dicembre 2005 – Primo: installare in Iraq alcune basi militari per dominare l’area del Golfo e non solo. Secondo: stabilire a Baghdad un regime relativamente democratico, da agitare come paradigma per l’intero mondo islamico. Terzo: assicurarsi il controllo delle riserve petrolifere irachene».
L’attuale guerra del Golfo dopo tre anni ha portato l’Iraq nell’abisso di una guerra civile senza vie d’uscita, una situazione simile a quella dell’Algeria dove la guerra tra bande terroristiche e Stato borghese ha provocato in una decina d’anni più di centomila morti, soprattutto tra i proletari e i diseredati e ha creato un clima di terrore diffuso e capillare che ha annichilito, per anni, ogni tentativo di riscossa proletaria contro l’oppressione e lo sfruttamento.
All’occupazione angloamericana, che ha già provocato decine di migliaia di morti tra i civili iracheni, si oppone una agguerrita resistenza che risponde alla repressione generalizzata intensificando i suoi attacchi contro obbiettivi militari e civili.
In una situazione sempre più difficile, gli occupanti operano ad aumentare le contrapposizioni etniche e religiose, imitando la politica di Saddam Hussein; essi sperano così di dividere il proletariato e aizzare le varie comunità le une contro le altre per rafforzare il loro potere di "mediatori". Ma i solchi così scavati all’interno della nazione irachena hanno aperto delle voragini in cui precipitano anch’essi.
Persino lo svolgimento delle tanto propagandate "elezioni democratiche" e poi, quasi in sordina, l’approvazione della Costituzione del primo parlamento liberamente eletto, ma costretto a riunirsi nella cosiddetta "green zone", difesa dalle truppe occupanti, non hanno portato ad una normalizzazione della situazione. Ogni giorno decine e decine di cadaveri riempiono gli obitori e le fosse comuni mentre l’esercito americano, proprio nel giorno dell’apertura del parlamento, ha sferrato l’offensiva più potente dall’inizio della guerra contro la città di Samara, qualche centinaio di chilometri a nord di Baghdad.
In questa situazione tragica il proletariato iracheno sta faticosamente cercando di ricostituire delle organizzazioni indipendenti che possano rappresentare una difesa di classe dalla pressione del governo, degli eserciti d’occupazione, della guerriglia, delle milizie bianche, delle bande criminali. Non così la guerriglia antiamericana che ha sicuramente degli alleati in molti Stati concorrenti di Washington.
È significativo che in piena crisi sul nucleare iraniano sia circolata la notizia che nei prossimi giorni i diplomatici statunitensi saranno a Teheran per cercare di ottenere la collaborazione dello "Stato canaglia" nella gestione della questione irachena. Gli Stati borghesi sono nemici tra loro ma alleati nella lotta contro il proletariato.
La classe operaia irachena è sola e chiede aiuto al movimento proletario
internazionale. Ma la classe operaia dei paesi più industrializzati, l’unica
che potrebbe portare un aiuto concreto ai suoi fratelli iracheni, non è
in grado di farlo, priva com’è degli strumenti che ne possono organizzare
e dirigere la forza dirompente, i suoi sindacati di classe e il suo partito
politico rivoluzionario.
La questione ebraica: (4) Un’identità
per la borghesia tedesca
L’odio antiebraico ebbe il potere di attribuire un’identità ad una borghesia tedesca incapace di darsene una, credibile, per la quale valeva la pena di combattere e morire. Nel turbinio del modo di produzione capitalistico non solo gli individui ma anche le Nazioni sono minacciate nella loro identità. E qual’è la loro attuale?
Ogni "cultura", cioè ogni classe, cerca di mantenere intatta la sua, ma la "rivoluzione permanente" delle forze produttive la scardina e la corrode.
L’antiebraismo non è soltanto dell’odio, ma la consapevolezza, più o meno chiara, della propria inconsistenza mascherata da volontà di potenza.
Le "ideologie" hanno il limite di semplificare all’eccesso la complessa realtà sociale che rispecchiano, e la cultura democratica non sembra capace a sua volta di uscire dai luoghi comuni.
Che cosa impedisce all’attuale ambiente borghese di andare oltre le formule stereotipe dell’antisemitismo?
Andare a fondo della crisi di identità significa non affidarsi a formule
misticheggianti, come la "banalità del male". Non ci possiamo ridurre
a dire che il Nazismo è stato prigioniero della "banalità del male".
Che ha commesso eccidi e sterminio "inevitabilmente" e senza ragione plausibile,
accecato dal demone distruttivo e basta.
L’evento sportivo-mediatico che va in onda ogni 4 anni (per fortuna) dovrebbe essere, secondo il rincoglionimento corrente, l’apoteosi della fratellanza, la sportività, etc.
Intanto, ancora il 6 marzo, ad olimpiadi ultimate, Torino è stata esclusa dallo sciopero nazionale degli autoferrotranvieri perché in corso le "paraolimpiadi", cioè quelle in cui partecipano atleti disabili!
Riguardo allo "spirito olimpico" ci è capitato tra le mani un simpatico trafiletto apparso sul quotidiano Repubblica nel quale sono citate alcune "direttive comportamentali" all’interno degli stadi olimpici. Ad esempio che era vietato mangiare il panino se non era dello sponsor. Il giornalista posa sul tavolino della tribuna stampa la bottiglia di succo d’arancia; una "volontaria" gli si avvicina e con gentilezza gli chiede di metterla nello zaino: non che all’Oval di Torino sia vietato consumare bevande, ma se si vuole bere in un’area dove si potrebbe essere ripresi delle televisioni l’unica bottiglietta ammessa è quella di una certa bevanda scura... Anche ai bambini è vietato portare cibi e bevande proibite, sandwich fai da te, o una merendina "griffata" da un concorrente dello sponsor: queste cibarie possono essere addirittura sequestrate... Agli scolari delle scuole, in gita per far un po’ di pubblico nei palazzetti non proprio pieni, viene dato un foglio che, tra i vari divieti, intima di non portare thermos... Lo sventurato giornalista non si da’ pace: ma almeno posso vestire come mi pare? neanche per sogno. Tutti, giornalisti e spettatori devono attenersi tassativamente alle regole del giochino: se non indossano una giacca a vento non giustamente "sponsorizzata" un solerte addetto coprirà con il nastro adesivo il marchio reprobo.
Insomma non basta non scioperare ma fare solo gli "spettatori": bisogna
anche prestarsi nel "tempo libero" ad assecondare i loro dementi traffici.
PAGINA 3
La
storia italica nello specchio deformante della sua ideologia
Capitolo esposto alla riunione a Torino del settembre 2003 [RG87]
La parentesi fascista
È noto il giudizio che Croce dette del fascismo, e che provocò la reazione di molti ambienti sia borghesi sia "operai": Parentesi. Secondo il corifeo principe del pensiero liberal-conservatore, il fascismo doveva essere considerato una parentesi, dopo la quale si dovevano ripristinare le condizioni della vita e dello Stato liberale. Chi credette, ed ancora oggi crede, che il filosofo abbia dato questa valutazione per leggerezza, o superficialità, o sottovalutazione del fenomeno, si sbaglia di grosso. Lo stesso Gramsci polemizza in questa direzione, assumendo un atteggiamento che finirà per superare il Croce in "idealismo storicistico"!
Ma andiamo con ordine: «L’Italia ha avuto altresì secoli e millenni in cui ha portato grandissimo contributo alla civiltà del mondo, e non sono lontani gli anni nei quali, con altre nazioni sorelle, fiorì di vita operosa e indefessamente progressiva in un perfetto regime liberale, e, unita con quelle, sostenne una lunga vittoriosa guerra. Che cosa è nella nostra storia una parentesi di 20 anni?». Queste sono le testuali affermazioni che fecero epoca, e che Croce scrisse in Per la nuova vita in Italia.
L’escrescenza fascismo doveva, ai suoi occhi, non essere sopravvalutata, perché, nelle sue strutture fondamentali, l’Italia si poteva riagganciare alla sua storia millenaria, e farsi ancora onore tra le potenze liberali... con le quali aveva vinto una guerra. Come si può pensare che avesse detto queste cose "a cuor leggero", e non invece consapevolmente, e cioè proponendo una lettura ottimistica, che dal punto di vista dell’"imperativo politico" significa dimenticare le divisioni, andare avanti, in nome dello Stato e della Nazione?
Lettura che non poteva essere accettata da chi aveva in mente di fare ancora la Patria, di operare in nome del "secondo Risorgimento", che sarebbe stato la "Resistenza". Se il primo Risorgimento non fu adeguato, perché lasciò fuori le "masse popolari", era evidente che si poteva campare decenni nella nuova prospettiva. E questo ha fatto l’opportunismo antifascista, ammettendo che la missione non è ancora compiuta. Pensiamo solo alle spinte "devoluzionistiche" maturate nello scorcio finale del XX secolo, a causa della situazione non semplicemente italiota, ma mondiale, chiamata eufemisticamente col nome di globalizzazione.
La ""Repubblica fondata sul lavoro", e dunque segnata dall’apporto del movimento operaio a guida opportunista, si è presentata come "Stato sociale", in cammino verso il "socialismo", per quattro decenni, fintanto che non è stata dichiarata bancarotta da parte del "socialismo reale" in Russia, portandosi dietro satelliti e compari vari.
È evidente che credere alla possibilità di costruire all’infinito "patrie", più o meno amiche del proletariato, è una bestemmia intrinseca per la dottrina comunista. La funzione degli Stati nazionali è stata storicamente utile fino alla Prima Guerra mondiale, ma non ha più nessuna valenza progressista dopo il macello imperialistico. Gli argomenti con i quali lo "storicismo-idealismo" gramsciano ha sostenuto questa via sono stati oggetto di insistente analisi ed elaborazione da parte del Partito ex comunista, trovando adattamenti di vario genere, oltre che "apporti", arricchimenti, correzioni, secondo la prassi opportunista.
La prima messa a punto polemica nei confronti della Sinistra, sia pure neanche nominata, in questa direzione, e cioè la correzione del giudizio sul fascismo, a copertura ideologica della Via nazionale al Socialismo, è stata del "frigido Palmiro": «Il fascismo non è sorto in contrasto con la vecchia Italia, ma in convivenza con essa e con l’aiuto di quelle che erano le sue forze dirigenti. Questo spiega l’unità di tutti i gruppi possidenti e dirigenti intorno alla squadre d’azione, distruttrici della libertà prima della marcia su Roma; questo spiega l’unità dei gruppi reazionari attorno al fascismo al tempo della marcia su Roma; questo spiega il fallimento dell’Aventino; questo spiega l’unità di forze borghesi e anche di intellettuali, che ancora si realizza dopo il 1927, dopo il 1935, quando Mussolini si getta nella via delle avventure imperialistiche che dovevano portarci alla disfatta militare e alla catastrofe» (Rapporto di Togliatti al V Congresso del PCI). Un modo di ragionare nazionale: la catastrofe per Palmiro è ormai la sconfitta della Patria.
Non è uno scherzo. È un segno eloquente della funzione assegnata ormai alla "classe operaia", ed in particolare all’aristocrazia operaia, legata al Capitale "progressista" delle grandi fabbriche. Non si creda che la classe politica borghese del post-fascismo non fosse consapevole della "vocazione nazionale" del PCI: lo sapeva bene, ma non poteva certo sbandierarlo senza mettere in repentaglio l’effetto trascinamento che i dirigenti "comunisti" dovevano svolgere in rapporto ai proletari. D’altro canto la presunta "doppiezza" del "Migliore" corrispondeva perfettamente alla doppia politica sempre seguita dalla borghesia al potere in Italia, metà monarchica metà repubblicana, metà laica metà cattolica, metà filo occidentale e metà disposta a compromessi con le potenze subalterne, fino al mondo arabo che detiene il prezioso petrolio.
In un mondo a condominio interimperialista che era di per sé "doppio", è comprensibile l’effetto che poteva fare la nostra coerenza rivoluzionaria, il nostro "pane al pane". Con un solo codicillo, non indifferente: che la nostra non era coerenza per amore ingenuo di purismo, ma tale da salvaguardare la tradizione e le possibilità di farla finita col regno del Capitale. Di questo i "doppi" di "sinistra" potranno farsene un’idea solo quando il muro di Berlino gli cadrà addosso, e tutte le loro illusioni di salvare capra e cavoli andranno a gambe all’aria.
Ma questo clima di revisione storica, di ricerca delle radici del fascismo nella "autobiografia d’una nazione", era quello degli ambienti post-fascisti, al punto che ogni altra linea interpretativa, in senso squisitamente politico, sembrava esclusa. La rivista "marxista" Società, diretta da Bianchi Bandinelli, famoso... storico dell’archeologia!, così scriveva nel 1945: «Non accettiamo quella concezione idilliaca della moderna storia d’Italia che vede nel fascismo un’aberrazione passeggera e casuale, come di un corpo estraneo violentemente introdottosi nel nostro organismo sociale. Il fascismo non è caduto dal cielo, il fascismo non è il dono invidioso d’una divinità ostile, il fascismo non è l’invasione degli Hyksos: il fascismo è nato dalle viscere della nostra società». Come si vede la lezione di Gobetti ha lasciato una traccia, da leggere sempre nel contesto della "nostra Italia": come se prima del fascismo non ci fosse stata traccia di lotta di classe, come se, per stare a quella ricognizione sulla "storia della nazione", non ci fossero stati sufficienti segni della natura dittatoriale e forcaiola del Capitale.
Sennonché lo scopo è ancora quello: puntare sulla borghesia "buona", isolare e neutralizzare quella "cattiva", apportare un contributo attraverso la "cultura del proletariato" più evoluto, e "nazionale"...
Chiusi gli occhi rivolti all’indietro – che sono utili per andare avanti – ripropongono una minestra riscaldata che non tiene conto del che cosa ha lasciato in eredità l’esperienza fascista. Noi abbiamo sostenuto che inevitabilmente il capitalismo, non solo italiano, dispone di due strumenti complementari, il bastone e la carota. La pretesa che usi solo la carota, e non il bastone, è illusoria. Per questo abbiamo sempre sostenuto che il proletariato deve avere un suo partito autonomo, che non rinuncia a sé ed ai suoi fini neppure quando la borghesia usa sapientemente la carota. Del resto, quando suona l’ora della guerra aperta, la borghesia sceglie tra burro e cannoni, perché non può garantire quello e gli altri. Al contrario l’opportunismo crede che il Capitale possa "scegliere", e sia totalmente responsabile della sua scelta, come se fosse una questione "morale". È evidente il divario profondo tra la nostra e la loro interpretazione. Con una piccola grande osservazione da fare: che se è vero che la società non è un laboratorio, ma una realtà vissuta, aperta, è ancora vero che certe lezioni dovrebbero essere imparate.
Ci si domandi ora se lo schema interpretativo del campo opportunista abbia avuto ragione o invece sia stato smentito dalla storia recente.
Il nuovo Mito è che con l’adesione allo "stato di diritto", come sistema di garanzie per tutti i lavoratori, questi avrebbero avuto "tutto da guadagnare". L’accettazione da parte delle correnti opportunistiche del modello nazionale, da "migliorare", da "riformare profondamente" (le famose "riforme di struttura"...), secondo l’alleanza d’un "blocco storico" di forze comprendenti il proletariato, i contadini, le mezze classi disponibili, insieme con la "borghesia produttiva", e cioè non "parassitaria", etc..., come passaggio graduale al socialismo, si è storicamente infilata nel cul di sacco della solita Italia del terrorismo più o meno organizzato dallo Stato, del burocratismo invincibile, dei "corpi separati", fino alla cosiddetta "rivoluzione giudiziaria", che, guarda caso, è scoppiata pochi anni dopo il crollo del muro di Berlino, cioè una volta saltate le paratie del "socialismo reale".
Perché di questo si tratta. Di mito in mito, la classe operaia ha perso, oltre il suo partito storico, anche la minima capacità di difendersi sul piano economico, in nome delle sempre incombenti necessità capitalistiche, questa volta della crisi generale e strutturale del sistema, riconosciuta, inevitabile, conclamata. Il nuovo "mito", la democrazia incardinata nelle "regole", è stato finalmente denunciato, non certo per essere riconosciuto, ma per essere raccomandato, ancora e per sempre, come il... minor male.
Così almeno la vede uno dei principi della politologia attuale, il "liberal" Panebianco, notoriamente lucido, ma non per questo disinteressato: «"Stato di diritto" e "democrazia rappresentativa" sono formule che evocano due miti (...) È imperativo, per la stabilità di un sistema occidentale, che non si determini una delegittimazione radicale, incrociata, dei sacerdoti addetti alla custodia dei due miti. Se i paladini dello "Stato di diritto" (i magistrati) e i paladini della "democrazia rappresentativa" (i politici al governo in virtù di un voto di maggioranza) ingaggiano tra loro un conflitto mortale, il rischio è che alla fine niente si salvi, che si sgretolino "tutte le regole" su cui si fonda la convivenza nei sistemi detti di democrazia liberale» (Corriere della Sera, 30 gennaio 2003).
Quanto la, o le, vie nazionali al socialismo hanno contribuito a creare o a collaborare a tenere vivo il Mito dello Stato di diritto? Tanto quanto hanno contribuito a far credere al Mito Russia; questo, utile per tenere insieme i cocci a livello internazionale, l’altro, per riunire i frammenti a livello nazionale. E pensare che saremmo noi a coltivare romanticamente il mito della rivoluzione! Come si vede, quando si esercita la "ragione" come fa Panebianco, sia pure in forma retorica, con risvolti realistici, allora ci si trova costretti ad ammettere cose che non si farebbe mai nella politica "politiciènne" d’ogni giorno.
Noi, che abbiamo sempre considerato lo "Stato di diritto" lo specchietto per le allodole per tenere il proletariato bloccato sul posto di lavoro, o cacciato da esso quando meglio torna al Capitale, non ci siamo mai lasciati circuire dalle "forme" borghesi. La borghesia, e qualsiasi classe al potere, invece, vive di forme, per nascondere lo squallore della sua sostanza. Non è forse così ogni volta che si passa dalla fase originaria e creativa del cambiamento al suo mantenimento a tutti i costi mediante liturgie e simboli? È così, e dobbiamo essere capaci di vederlo. Si pensi, tanto per intenderci, all’apparato messo in scena dal "socialismo reale" in Russia, da Stalin a Breznev, sostenuti da un sinedrio di ideologi, addetti alla salvaguardia solo formale dei principi del marxismo. Noi l’avevamo visto già con l’imbalsamazione di Lenin alla sua morte. Fummo considerati spergiuri. Eravamo e siamo soltanto "scientifici" e dialettici.
Il fatto è che è diventata una moda rivedere gli eventi storici con una lente statica, come se certuni si muovessero ed altri stessero fermi. Nella fase controrivoluzionaria ha prevalso un tipo di "storicismo" molto particolare, compreso quello di Gramsci: alla sua lente di ingrandimento non sfuggono i dettagli, gli errori, le insufficienze; ma ormai purtroppo mancano le premesse, il programma storico.
La preoccupazione è quella di battere "i nullisti", che saremmo noi, realizzando riagganci con quei gruppi, anche borghesi, che erano stati tagliati fuori dai 21 punti di ammissione alla Internazionale Comunista. Il percorso, irto di contraddizioni, doveva culminare nella formazione di "alleanze antifasciste", per realizzare la "svolta", "richiudere" la "parentesi" autoritaria, se non totalitaria, come altri l’hanno chiamata.
È evidente che in quest’opera ognuno ha giocato il ruolo più confacente con le sue radici e le sue rappresentazioni della realtà di classe. Non siamo ancora alla messa sotto accusa di Lenin, ma certo della via che ha preso la Russia. Questa riflessione era d’obbligo anche per noi. Ma Gramsci preferì elaborare una "via nazionale", piuttosto che vedere le cause della controrivoluzione. Abbiamo scritto un Dialogato per questo, e non abbiamo intenzione di ripeterci.
Sappiamo però che oggi, in nome dello Stato di diritto, si pretende di "processare" la rivoluzione secondo le angustie del Codice Penale, senza tener conto che i nemici della rivoluzione, Fascismo compreso, insieme con le armate bianche, non è che stessero con le mani in mano. Eppure si rimprovera a Lenin di aver emanato, ad esempio, un decreto che aveva per titolo: "La madrepatria socialista è in pericolo", che conteneva un comma che prevedeva l’esecuzione "sul posto", cioè senza processo, di un’ampia categoria di criminali, descritti come "agenti del nemico", speculatori, scassinatori, vandali, agitatori controrivoluzionari e spie tedesche.
Un socialista rivoluzionario, Steinberg, obiettò che il decreto rappresentava «una crudele minaccia con ampie potenzialità terroristiche». Steinberg racconta che «Lenin se la prese per la mia opposizione in nome della "giustizia rivoluzionaria"». Se ci fosse stato lo Stato di diritto avremmo avuto invece un processo di Norimberga, o quello dell’Aia. Ora, che il processo di Norimberga finì per essere una farsa in rapporto alla vergogne naziste, lo hanno ammesso anche gli addetti ai lavori. Ne parliamo per dire che il sogno borghese sarebbe quello di continuare a compiere eccidi, e di trattarli con una "giustizia" umanitaria... Ci dicano come potrebbero processare gli stermini per fame, oppure quelli etnici, che si sono succeduti da 50 anni a questa parte in Africa, Asia ed Europa! Una bella faccia tosta, di fronte alla quale la "brutalità" di Lenin, vera o presunta, risulta il massimo della sincerità e della necessità. Tutto questo perché la "ricostruzione" degli eventi messa in atto nel periodo controrivoluzionario ha volutamente perduto ogni capacità di valutarne la "dinamica", e non sul banco anatomico di pubblici ministeri che hanno la pretesa di studiare e classificare la storia come se fosse un "corpus vile".
Rimane il fatto che l’accettazione dello Stato di diritto a cui è addivenuta la tradizione opportunistica, facendo leva sul valore della via nazionale al socialismo, significa niente altro che rassegnazione e rinuncia al programma storico.
Il rinculo storico su posizioni indegne perfino del reazionarismo borghese, comporta l’impossibilità di leggere gli eventi attuali, quando mai disastrosi e nefasti per il proletariato mondiale, che, contrariamente a quanto contrabbandato in ogni maniera, c’è e come, e ci sarà nonostante le metamorfosi che assume sotto la dittatura del Capitale.
L’affannarsi del revisionismo in campo storiografico è una spia eloquente del grande sforzo in campo borghese per dare un’immagine diversa della storia dell’ultimo secolo, in particolare per poter dare a intendere che quanto è maturato negli ultimi decenni è il prodotto di cattiva informazione ed educazione dell’oggettività storica. Non è a caso che si tenda a manomettere il giudizio sugli ultimi 50 anni proprio da parte di quelle correnti che hanno vissuto di rendita, di certi stereotipi che solo noi abbiamo avversato in pieno. Ci riferiamo particolarmente ai due capisaldi sui quali si è contrabbandata la storia recente come la vittoria della democrazia sul nazifascismo, e lo scontro Est-Ovest, o guerra fredda, come tra Capitalismo e Socialismo, anche se poi corretto con l’attributo di "reale".
Il compito che ci stiamo dando infatti è proprio questo: mettere in luce come il "marxismo reale", non solo italiano, non si è spostato di una virgola dai due assiomi:
1) l’unica via verso il socialismo è quella che ciascun paese è in grado di darsi sulla base delle sue peculiari condizioni e retroterra storico nazionale;
2) ciò è possibile alla condizione che si riconosca la guida del socialismo Russo, anche quando si ammetta che sono riscontrabili distorsioni autoritarie nella gestione della dittatura del proletariato in quel paese ed anche in altri satelliti. Non si dimentichi che l’apporto "originale" che si riconosce al PCI italiano ed ai cosiddetti eurocomunisti è stato quello di non aver mai negato il paese dei Soviet, anche quando la "spinta propulsiva della rivoluzione" era finita (vedi la messa a punto di Berlinguer). Si comprenderà come il fallimento del Mito russo abbia costretto tutti a rimediare... con la dichiarazione di bancarotta, che avrebbe dovuto essere meglio completata col termine di fraudolenta!
Né è da illudersi che la revisione sia finita qui: è da attendersi, secondo le bisogna, ulteriori rammendi, compreso la rivalutazione dello stalinismo, come già sta ampiamente accadendo non solo in Russia. Ciò perché l’oggettività storica per questi ambienti, che ogni giorno cianciano di "verità" non occultata dall’ideologia, non è che uno strumento per sostenere la linea politica che in ogni contingenza è destinata a cambiare.
Se abbiamo preso le mosse dalle analisi di Gramsci, è perché la manovra comincia proprio con il suo sforzo di dotare il movimento operaio d’una lettura "aggiornata" della fase imperialistica come l’aveva letta Lenin e la tradizione rivoluzionaria. Non a caso già nel 1918 Gramsci aveva letto la rivoluzione russa come "rivoluzione contro il Capitale", che cioè avrebbe smentito la previsione di Marx!
L’analisi delle varie glosse che ci preoccupiamo di analizzare dovrebbe confermarci quanto già sappiamo: e cioè che negata la Rivoluzione come processo mondiale, il comunismo decade, nel migliore di casi, a socialdemocrazia gradualista, e nel peggiore, come è successo ampiamente, in "emulativismo" alla Stalin, in sostegno e raccordo con le energie nazionali russe, mobilitate per l’accumulazione forzata che faccia della Russia una potenza capitalista mondiale, capace di competere, "pacificamente", se sarà possibile, col capitalismo più evoluto e vecchio, di tipo occidentale.
Non si tratta di colpire soltanto i tradimenti, ma ugualmente l’equivocità della storiografia dei meno sospettabili ideologi borghesi, smentiti dai fatti, magari corretti per certe "sviste" o superficialità, ma sempre osannati come la quintessenza dell’onestà intellettuale e della fede "liberal". In testa, appunto, Benedetto Croce che proprio sullo stalinismo e Stalin in particolare non aveva lesinato riconoscimenti di "grande personalità". Su Città Libera del 3 agosto 1945 Croce scriveva: «Quello che si è attuato in Russia è il governo d’una classe, o di un gruppo di classi (burocrati, militari, intellettuali) che non più ereditario imperatore, ma un uomo di genio politico dotato (Lenin, Stalin) guida». E aggiungeva: «Restando incaricata la Provvidenza di fornirgli successori sempre pari». È evidente che il Croce aveva in mente la grande coalizione che aveva sconfitto il nazi-fascismo, ma l’aver accennato al "genio" la dice lunga sul significato di questi riconoscimenti.
Il mondo e in particolare l’Europa aveva subito un assetto territoriale e di equilibri di forze che avrebbero potuto reggere a lungo. Soltanto così l’Italia avrebbe potuto riprendere il suo corso "liberale" dopo la "parentesi fascista", nell’ottica dell’idealismo conservatore di Benedetto Croce. Questo era stato possibile grazie anche al "genio" di Stalin, che poteva vantare di aver messo sul piatto dell’equilibrio i 20 milioni di morti russi nella guerra generale. E che la lezione crociana non fosse affatto casuale, ne è prova che, anche a livello politico, un personaggio quanto mai riservato come il democristiano De Gasperi avesse seguito le orme del Croce con questa parola detta al Teatro Brancaccio in Roma: «Merito immenso, storico, secolare, delle armate organizzate dal genio Giuseppe Stalin». Non parliamo poi del titolo col quale Togliatti commentava la morte del Capo, la famosa formula: «Un gigante del pensiero e dell’azione è mancato all’umanità».
Come si fa a non capire che questi personaggi, certamente non secondari
dell’apparato borghese italico, avevano perfettamente capito la funzione
esercitata dalla Russia di Stalin durante la guerra: essi consideravano
che la grande carneficina aveva imbrigliato le spinte proletarie, condotte
sui fronti propri dal "genio", per noi maligno, del dittatore russo. La
carica rivoluzionaria del proletariato era stata soggiogata al carro degli
interessi nazionali ed imperialistici, senza che avesse potuto darsi una
qualche possibilità politica, di approfittare di più d’una contraddizione
ed incrinatura che si erano rivelate nella conduzione della guerra.
PAGINA 4
Il
coraggioso sciopero dei tranvieri di Teheran
I 17.000 lavoratori dipendenti delle autolinee di trasporto di Teheran, per niente distratti dalla "vignette blasfeme", da due mesi hanno ingaggiato una lotta durissima contro l’azienda e l’apparato statale. Questi lavoratori sono dipendenti della compagnia pubblica di trasporto, la Compagnia di Autobus di Teheran e Sobborghi (Sherkat e Vahed) che opera nella capitale e nella sua conurbazione metropolitana. A fronte di una soglia di povertà ufficialmente stabilita dal governo sui 270 euro, la maggior parte di essi riceve un salario che si aggira sui 200 euro mentre il 15% raggiunge appena i 270.
In 27 anni, dal 1978 – anno della rivolta delle masse povere iraniane, i mostazafin (diseredati), della cacciata dello Scià, dell’instaurazione della Repubblica Islamica e della seguente feroce repressione del movimento proletario – la popolazione iraniana è raddoppiata arrivando a 69,8 milioni di abitanti. Oltre la metà di essi ha meno di 17 anni ed il 70% meno di 35. Siamo di fronte dunque ad un proletariato giovanissimo, fattore fortemente rivoluzionario.
In tutte le città – con la fine nel 1988 della terribile guerra contro l’Iraq, costata oltre un milione di morti – il processo di inurbamento delle masse contadine ha subito una drastica accelerazione. Distese di casermoni popolari sono stati costruiti per alloggiare gli immigrati dalle province. Teheran è così divenuta un agglomerato di 12 milioni di abitanti.
Insomma, il tipico processo capitalistico di proletarizzazione ed abbandono delle campagne, praticamente completatosi in Occidente, è nel pieno del suo compiersi invece nel resto del mondo. Giusto per il 2005 era previsto che la popolazione mondiale urbana divenisse maggiore di quella delle campagne. Secondo una stima dell’ONU ogni giorno nel mondo 175.000 persone vanno a vivere in città. Cinquanta anni fa erano 86 le città con oltre un milione di abitanti; oggi sono circa 400.
Sulla base di questi semplici dati chi è "fuori dalla storia", chi prevede la esplosione sociale delle metropoli del profitto e della rendita e il dispiegarsi di una necessaria nuova urbanistica post-mercantile, in un disegno davvero globale, o chi in tale Suburra vi ciancia di sviluppo e di democrazia?
Negli ultimi anni la classe operaia d’Iran ha subito un duro attacco alle sue condizioni di vita e di lavoro. Il tasso di disoccupazione della popolazione attiva è salito al 20%, con sedici milioni di disoccupati secondo le statistiche ufficiali ed un milione di giovani che ogni anno entrano nel mercato del lavoro.
La disoccupazione giovanile si lega a un altro dato che la dice lunga sul rigore morale islamico cui si abbevererebbero le masse: l’Iran è tragicamente uno dei paesi con il più alto tasso al mondo di eroinomani: 1,2 milioni secondo le statistiche ufficiali, che pare minimizzino drasticamente questa piaga.
In modo analogo a quanto avviene nel moderno Occidente, anche in Iran la maggior parte dei posti di lavoro sta divenendo "flessibile": si sostituiscono i contratti a tempo indeterminato con forme contrattuali a scadenza di pochi mesi. Mondo musulmano o mondo capitalistico? Uno dei metodi più usati dal padronato per aumentare il grado di sfruttamento della classe operaia iraniana è il pagamento dilazionato dei salari. Oltre un milione di lavoratori a paga minima (270 euro) attende il salario per periodi compresi fra i tre e i nove mesi; alcuni persino fino a due anni. Anche i sussidi di disoccupazione e le pensioni sono pagati in ritardo.
Il limite inferiore per l’età lavorativa legale è in Iran di quindici anni. Ma si stima che circa 380.000 bambini fra 10 e i 14 anni siano impiegati in lavori a carattere permanente ed altrettanti, 370.000, in lavori stagionali. Nel 2002-2003 il governo introdusse una legge che esentò le aziende con meno di dieci dipendenti dalla Legge sul Lavoro del 1990, permettendo l’ulteriore sfruttamento dei bambini.
Il regime borghese iraniano inquadra i lavoratori in una Khane-ye Kargar (Casa dei Lavoratori), una sorta di sindacato di Stato, cui fa capo in ogni azienda con più di 35 dipendenti una Shora-ye Eslami (Consiglio Islamico del Lavoro). Questi organismi furono creati successivamente alla violenta repressione del movimento operaio nel 1984. Ufficialmente istituiti per tutelare gli interessi dei lavoratori, fungono da vera e propria polizia di fabbrica.
Un emendamento del 2003 al Codice del Lavoro del 1990 ha consentito la formazione di sindacati indipendenti dallo Stato senza previo permesso dell’autorità, con la fondamentale esclusione delle aziende "strategiche" quali la Khodro, la maggior azienda automobilistica del Medioriente con 34.000 operai, e le aziende del settore petrolchimico. Per gli altri settori il diritto sancito sulla carta è negato nei fatti e i lavoratori che tentano di organizzarsi subiscono svariate forme di repressione, di cui la più comune è il licenziamento.
La legge proibisce gli scioperi: i lavoratori però, sempre in teoria, possono non lavorare restando sul posto di lavoro. In tutto il settore pubblico invece lo sciopero è vietato in ogni sua forma.
Naturalmente di fronte al grave peggioramento delle condizioni di vita i lavoratori non sono rimasti inermi. Scioperi, picchetti e dimostrazioni sono divenuti quasi quotidiani. Riportiamo alcuni esempi più significativi. A gennaio 2004 la polizia ha sparato contro alcuni dei 1.500 lavoratori in sciopero della miniera di rame di Khatoonabad, uccidendo quattro operai e ferendone molti altri. A marzo e a giugno dello stesso anno sono scesi in sciopero 200.000 insegnanti, un terzo del totale, guidati da un sindacato indipendente il cui presidente, Mahmoud Beheshti Langarudi, il portavoce Ali-Asghar Zati e altri membri nella provincia del Mazandaran sono stati arrestati per rappresaglia. A ottobre, uno sciopero iniziato nella fabbrica della Compagnia Tessile del Kurdistan nella città industriale di Sanandaj si è rapidamente esteso alle altre fabbriche tessili della città (Shaho e Shinbaf) ottenendo il pagamento dei salari arretrati. A dicembre-gennaio un nuovo sciopero di sedici giorni nella stessa fabbrica ha condotto alla formazione di un Comitato di lotta operaio che subito s’è dovuto confrontare con minacce, licenziamenti ed arresti. Nel 2005, a fronte del nuovo salario minimo fissato dal governo a 270 euro, migliaia di lavoratori di svariate città (Tehran, Karaj, Demavand, Kermanshah, Abadan, Isfehan, Kashan, Sanandaj) e fabbriche (Filver di Tehran, Khodro, petrolchimico di Mahshahr, cantieri navali Sadra di Behshahr) hanno sottoscritto una petizione per un suo aumento a 460 euro. Il primo maggio dello scorso anno per la prima volta in numerose fabbriche i lavoratori hanno imposto fermate della produzione di alcune ore e in numerose città si sono svolte manifestazioni promosse da un "Comitato per la formazione di Sindacati Liberi". A novembre dopo un mese e 27 giorni di sciopero gli operai della Compagnia Tessile del Kurdistan di Sanandaj hanno ottenuto la riassunzione di 36 lavoratori licenziati e il pagamento dei salari arretrati.
I tranvieri e gli operai dell’azienda pubblica di trasporto di Tehran dal 2003 hanno iniziato ad organizzarsi per formare un nuovo sindacato indipendente, ovverosia su basi di classe, il Sindacato dei Lavoratori della Compagnia di Autobus di Teheran e Sobborghi (Sherkat-e Vahed, Sandikaye kargarane sherkate vahed), cui attualmente aderiscono all’incirca 5.000 lavoratori. Né l’azienda né l’amministrazione cittadina hanno finora riconosciuto questo che di fatto è il vero organismo di difesa dei tranvieri di Tehran. Questo sindacato era stato fondato in precedenza nel 1968 ma fu poi bandito nei primi anni ottanta dal nuovo regime islamico che al suo posto aveva imposto la Khane-ye Kargar e le Shora-ye Eslami.
I lavoratori inquadrati nel rinato sindacato Sherkat-e Vahed sono in lotta da ormai un anno per una serie di rivendicazioni quali aumenti salariali fino alla parificazione con gli altri lavoratori pubblici, pagamento dei salari arretrati, riduzione dei carichi di lavoro, istituzione della contrattazione collettiva ed eliminazione dall’azienda della Shora-ye Eslami. A queste rivendicazioni se ne sono aggiunte altre nel corso della lotta a seguito delle misure repressive messe in atto dall’azienda e dall’amministrazione cittadina. Queste riguardano principalmente la riassunzione dei lavoratori licenziati e il pagamento completo dei salari non pagati nel periodo di disoccupazione, la liberazione dei compagni arrestati e il loro reintegro sul posto di lavoro, anche qui col pagamento integrale degli arretrati.
Nel marzo del 2005 i lavoratori scesero in sciopero in quattro dei dieci Distretti di trasporto della capitale rivendicando un aumento salariale del 14%. La fermata fu di poche ore ma conseguì il suo obiettivo e l’aumento fu concesso. L’azienda però reagì licenziando fra marzo e giugno 17 lavoratori appartenenti al sindacato.
Due mesi dopo lo sciopero, lunedì 9 maggio, 300 uomini appartenenti alla Casa dei Lavoratori, al Consiglio Islamico della Sherkat-e Vahed, al Basij, un gruppo paramilitare formato dal governo, e alle forze di sicurezza aziendali (Herasat) giunsero su dodici camion sotto la sede del sindacato, dove si stava svolgendo una riunione, la attaccarono, la devastarono e picchiarono una decina di militanti sindacali presenti fra cui il futuro capo del sindacato, Mansoor Ossanlou, licenziato due mesi prima per la sua attività sindacale. Il tutto avvenne con la presenza consenziente delle forze di sicurezza statali. I più decisi fra i picchiatori, un gruppo di 40-50 elementi, erano guidati da noti esponenti del regime quali deputati provinciali della Casa dei Lavoratori, del Consiglio Supremo per il Coordinamento dei Consigli Islamici, del Comitato Esecutivo della Centrale provinciale dei Consigli Islamici, della Casa dei Lavoratori di Tehran Est, membri del Consiglio Islamico della Sherkat-e Vahed e delle forze di sicurezza dell’azienda.
Alcuni di questi signori, Hassan Sadeghi, Parviz Ahmadi Panjaki e Mohammad Hamze’I, nemmeno un mese dopo si recarono a Ginevra per rappresentare i lavoratori iraniani alla 93° sessione del Consiglio dell’Ufficio Internazionale del Lavoro! Il fatto che questo carrozzone, ora sezione dell’ONU, li accetti tuttora come rappresentanti dei lavoratori iraniani la dice lunga sulla sua natura di Internazionale padronale dei sindacati gialli.
Fra settembre e ottobre del 2002 visitò l’Iran un gruppo di membri della Sezione per la Libertà di Associazione di quell’Ufficio. Il rapporto da questa redatto fu consegnato, giustamente, alle autorità iraniane! Il rapporto non fu tradotto in nessuna lingua straniera, come se la condizione dei lavoratori iraniani dovesse interessare solo a loro stessi o, meglio, ai loro sfruttatori. È evidente che questo Ufficio è un organismo specificatamente volto ad impedire la solidarietà internazionale fra i lavoratori.
Alcuni stralci del rapporto furono però pubblicati sui giornali iraniani ed alcuni militanti sindacali si premurarono di tradurli in inglese. Da questi emerge che vi si denuncia vagamente la situazione di pesante repressione verso i lavoratori in Iran mentre si riconosce la positiva formazione di nuovi sindacati indipendenti. In realtà questi nuovi sindacati non erano per nulla indipendenti ma legati per mille fili al governo ed allo Stato iraniano. Si tratta della Associazione Iraniana dei Giornalisti e della Associazione Iraniana dei Camionisti. La prima, per suo statuto, non accetta nelle sue file chi non dimostri di appartenere ad una delle religioni ufficiali del paese. Tre su cinque membri del suo comitato esecutivo sono anche membri del Majles, il parlamento islamico, e quattro di loro sono membri e dirigenti del Fronte di Cooperazione Islamico, che detiene la maggioranza nel Majles nonché un ruolo dominante nella struttura statale. Non c’era da aspettarsi altro visto il ruolo sociale ricoperto dai giornalisti della stampa borghese. Ciò che conta è che l’assenza di qualsiasi remora nel dichiarare un falso talmente palese da parte dell’UIL conferma la sua natura antioperaia. La stessa situazione si ha per l’Associazione dei Camionisti in cui molti dirigenti ricoprono ruoli dirigenziali nei partiti di governo e nelle istituzioni.
Torniamo ai tranvieri di Tehran.
Il 3 giugno 2005 si tenne l’assemblea generale del sindacato degli operai e dei tranvieri della Sherkat-e Vahed, per adottare uno statuto ed eleggere il corpo direttivo. Nonostante i blocchi stradali e le intimidazioni messe in atto da tutto lo schieramento formato dalle forze di sicurezza statali ed aziendali e dai membri della Khane-ye Kargar (Casa dei Lavoratori) circa 8.000 lavoratori parteciparono all’assemblea. A fine luglio il numero di operai aderenti al sindacato licenziati era salito a settanta.
Il 7 settembre gli autisti inscenarono una protesta per il ritardo nel pagamento dei salari lasciando le luci accese durante il servizio diurno. In reazione a questa simbolica manifestazione, sette capi del sindacato furono arrestati con l’accusa di "offesa all’ordine pubblico" e rilasciati dietro il pagamento di una cauzione. Il 17 ottobre gli autisti organizzarono uno "sciopero del biglietto", rifiutandone cioè la vendita e il controllo, rivendicando il rispetto di un accordo precedente che prevedeva la riduzione dei carichi di lavoro, la parificazione dei salari con gli altri dipendenti statali e la riassunzione dei compagni licenziati.
Non solo l’accordo non fu rispettato ma il 22 dicembre altri quattordici sindacalisti furono prelevati dalle loro case ed arrestati. Fra questi il presidente del sindacato Mansoor Ossanlou. In risposta, sabato 25 dicembre il sindacato proclamava lo sciopero che riuscì in sei Distretti su dieci con l’adesione di circa 3.000 lavoratori e durante il quale furono arrestati altri 40 lavoratori. Conseguentemente un presidio permanente di autisti e familiari fu organizzato sotto il carcere di massima sicurezza di Evin, famigerato per le torture e gli assassini consumati fra le sue mura.
Lo sciopero proseguì anche domenica.
Nella nottata 4.000 lavoratori si riunirono in assemblea al deposito del Distretto n° 6, uno dei più combattivi. In seguito all’arrivo del sindaco di Tehran, Mohammad Bagher Ghalibaf, ed alla sua personale promessa di far rilasciare tutti i detenuti e di andare incontro alle altre richieste degli operai, alle 5 del mattino gli autisti e gli altri operi riprendevano il lavoro. Lunedì 27 un piccolo corteo di lavoratori e parenti degli arrestati muoveva dalla prigione per raggiungere la Corte Rivoluzionaria di Tehran, invocando la loro liberazione. Nella notte undici lavoratori su diciotto furono rilasciati, restando dentro sette militanti sindacali, tutti appartenenti al comitato esecutivo. Nel frattempo i conti bancari di molti attivisti sindacali venivano congelati ed il pagamento dei salari bloccato.
Il 31 dicembre alcuni capi del sindacato si recarono a colloquio col sindaco, il quale non si pronunciò sulla liberazione di Ossanlou ma promise di dar risposta entro 15 giorni alle altre richieste dei lavoratori: introduzione della contrattazione collettiva, riconoscimento del sindacato, aumenti salariali e scioglimento del Shora-ye Eslami (Consiglio Islamico) aziendale. Intanto sette convocazioni presso la Corte di Giustizia per il giorno successivo, con l’accusa di disturbo dell’ordine pubblico, erano consegnate ad altrettanti militanti sindacali.
Messaggi di solidarietà giungevano agli autisti ed agli operai di Tehran dalle maggiori fabbriche dell’Iran: dagli operai petrolchimici del Khuzestan (regione centro-occidentale ricca di giacimenti confinante con la regione irachena di Bassora), da quelli della Compagnia Tessile Shaho, dall’Unione dei Lavoratori Metalmeccanici di Kermanshah, dagli operai della Khodro, da quelli della Compagnia Tessile del Kurdistan e dal Comitato per la formazione di un sindacato libero dei minatori del rame.
Il 1° gennaio circa 150 lavoratori manifestavano dinanzi alla Corte Rivoluzionaria per il rilascio di Ossanlou. Il giorno successivo almeno 5.000 aderenti al sindacato si riunivano nello stadio Azadi, nella parte nord-occidentale della città. All’assemblea arrivò anche il sindaco per confrontarsi con i lavoratori. Il giorno dopo il sindacato riprese la protesta delle luci accese e indisse un nuovo sciopero per il 28 gennaio.
A questo punto lo scontro diventa ancora più duro: Mansoor Ossanlou resterà dentro e le promesse del sindaco si riveleranno solo uno stratagemma per prendere tempo. Il primo cittadino, che nello schieramento antioperaio aveva recitato la parte moderata, disposta al confronto, dialogando con i lavoratori e assistendo alle loro assemblee, di fronte alla caparbietà loro e del sindacato che non accennano a desistere ma annunciano un nuovo sciopero, abbandonerà la strategia rivelatasi infruttuosa e tirerà giù la maschera denunciando il sindacato come illegale e impegnandosi solennemente ad impedire lo sciopero.
Il livello della repressione si fa più elevato. Sabato 7 gli autisti inscenano una nuova protesta viaggiando per la città con le luci accese ed appendendo su ogni autobus il ritratto di Ossanlou e una scritta invocante la sua liberazione. Alcuni affiggono cartelli con uno slogan inneggiante alla formazione di un sindacato indipendente. La protesta ha successo e vi aderiscono gli autisti di tutti e dieci i Distretti di trasporto di Tehran, in particolare il 4°, il 5° e il 9°. Nel 5° Distretto il governo schiera la yegan ha-ye vizhe, una forza speciale creata nel luglio del 2002 per combattere i "comportamenti antislamici" e la "corruzione sociale" fra i giovani. Diverse colluttazioni scoppiano quando uomini delle forze di sicurezza statali e della Herasat (la sicurezza aziendale) fermano gli autobus e cercano di strappare i manifesti affissi. Cinque autisti sono arrestati e rilasciati in breve tempo.
Passano due settimane di quiete apparente in cui le parti presumibilmente si preparano allo sciopero indetto per il 28 gennaio. La sera del 24 i militanti del sindacato diffondono per Tehran un volantino che annuncia lo sciopero e spiega le ragioni della lotta. Il 25 sei sindacalisti sono convocati per il giorno successivo alla Corte di Giustizia. Uno è tratto in arresto mentre distribuisce i volantini. Recatisi alla Corte accompagnati da altri due compagni, i sei sindacalisti sono interrogati fino a sera e poi, insieme agli altri due, arrestati. Praticamente tutto il gruppo dirigente del sindacato si trova in galera. Altri lavoratori, anch’essi convocati, intesa l’aria che tira, rifiutano di presentarsi.
Nel frattempo, in un’intervista all’Irna, il sindaco Ghalibaf definisce il sindacato "illegale" mentre la radio di Stato descrive i lavoratori come "controrivoluzionari" e "sabotatori". Iniziano a circolare voci sulla presunta preparazione da parte del governo di 10.000 Baseej per rompere lo sciopero. Nella notte di venerdì 27 centinaia di uomini delle forze di sicurezza entrano nelle case dei sindacalisti, picchiandoli e portandoli in prigione dove i pestaggi continuano. I dirigenti aziendali, uomini del Shora-ye Eslami e forze dell’ordine lavorano fianco a fianco per identificare ed arrestare dei lavoratori. La brutalità dei poliziotti è tale che in alcuni casi vengono arrestati anche i familiari. Durante l’irruzione in casa di Yaghub Salimi, dirigente del sindacato, non trovandolo i celerini picchiano e arrestano la moglie e i cinque figli, fra cui le figlie di due e dodici anni.
Tuttavia sabato mattina lo sciopero è in atto in tutti e dieci i Distretti. In ogni area lavorano in circa sei-settecento fra autisti e operai, i lavoratori alle linee di picchettaggio sono accolti da oltre un migliaio di agenti che, a forza di insulti, minacce e manganellate li costringono a salire sui mezzi. Chi si rifiuta viene arrestato. Nei depositi dove i lavoratori hanno la forza di reagire la polizia ricorre ai gas lacrimogeni e minaccia di sparare. Azienda e governo ricorrono ai militari e ai mercenari della milizia Baseej per sostituire alla guida gli scioperanti. Gli arrestati sono già centinaia, dimostrazione di quanto sentito sia lo sciopero, che infatti continua in alcune Distretti.
Alla sera i lavoratori arrestati sono 1.300. La maggior parte di loro è concentrata nella prigione di Evin. L’azienda giura di licenziarli tutti e congela da subito il pagamento dei loro salari. Gli arresti proseguiranno per tutta il giorno e la notte successiva, poi, gradualmente, incominceranno le scarcerazioni fino a fine febbraio quando, stando alle ultime notizie, restano in carcere sei militanti del sindacato, tutti del gruppo dirigente, fra cui ancora Mansoor Ossanlou. Un numero imprecisato di lavoratori non è stato riammesso al lavoro e il 22 febbraio 150 di questi hanno organizzato una manifestazione di fronte al Ministero del Lavoro chiedendone il reintegro.
Riferiamo la cronaca della lotta dei tranvieri di Teheran non perché ci stupiamo del trattamento "antidemocratico" dei lavoratori o per denunciare i metodi del regime iraniano in particolare, ma per rendere omaggio, e cercare di far conoscere la lezione di una fiera lotta operaia. Questa è la realtà sociale del proletariato in un paese borghesemente moderno, e non, come dipinto dal giornalistume di qua, sprofondato nell’oscurantismo medievale.
Per la repressione statale e padronale noi non lamentiamo la lesa Democrazia
o la violazione di metafisici Diritti umani, ma ammoniamo i lavoratori
di
tutti i paesi a prepararsi a questo livello di scontro. Esso non appartiene
solo al passato ma al futuro di tutto il mondo capitalistico. La repressione
cui sono andati incontro i tranvieri italiani è stata solo un piccolo
anticipo di quanto attende anche la classe lavoratrice occidentale. È
evidente, a chi non voglia ragionare a tutti i costi secondo pregiudizi
democratici e pacifisti, che la lotta di classe, anche rimanendo solo sul
piano cosiddetto economico, sarà messa nell’illegalità e dovrà affrontare
lo scontro con gli apparati, democratici e antidemocratici, del regine.
Mentre allo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco e nel suo indotto l’opposizione al nuovo contratto dei metalmeccanici, concluso in perdita da Fiom-Fim-Uilm, ha portato, da parte padronale, al licenziamento di dodici iscritti dello Slai, altrove, dove il sindacalismo di base non raccoglie altrettanta forza organizzata, il dissenso serpeggia esprimendosi anche con l’astensione dei lavoratori ai referendum consultivi indetti dalle centrali confederali. A livello nazionale i votanti sarebbero stati il 64%.
In alcuni distretti, però, come in quello di Taranto, l’astensione è stata più marcata: solo il 59,4% dei lavoratori è andato a votare; tra impiegati e tecnici il tasso di astensionismo sarebbe stato del 62%, tra gli operai il 40. Il 45,4% dei votanti ha approvato il contratto contro l’11,6% dei No.
Forse lo Slai Cobas tarentina pecca di ottimismo a cantar vittoria, sommando le percentuali di chi ha votato No con quella degli astenuti. Certo tanto astensionismo è segno di dissenso, e anche di disgusto per i metodi "elettorali", tipo scrutinio segreto e relativi imbrogli vari dei confederali; ma per rovesciare i rapporti di forza dalla parte della classe operaia ci vuol ben altro.
A Taranto, avere un posto all’Ilva, nonostante la fabbrica siderurgica sia un posto pericoloso, dove si rischia la vita, significa ancora essere dei "privilegiati": la paga-base di un operaio si aggira sui 1.100 Euro, un salario altrove impossibile in città.
Con la disoccupazione dilagante e le forme precarie di lavoro, un aumento qualunque, seppur basso e non il linea con l’inflazione, è un contentino che il capitalismo riesce ancora ad offrire a chi ha la fortuna di disporre di una paga regolata dagli accordi collettivi. Per di più il fronte padroni-Stato-Sindacati, come si vede, minaccia col licenziamento i lavoratori recalcitranti.
Il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro e l’evidente ruolo di regime dei sindacati confederali ancora non si traduce in un irrobustimento, non solo numerico ma anche sul piano dell’orizzonte di classe, del sindacalismo di base. La crisi non ha ancora morso abbastanza perché la classe ritrovi la via della riorganizzazione per la difesa della propria condizione di vita, al di sopra dei luoghi di lavoro e delle categorie. Questo significherà anche l’andare oltre certe posizioni politiche, tanto "estremiste" quanto settarie, extra- e inter-parlamentari ed elettorali, ma per nulla comuniste né di classe, che spesso bloccano gli esistenti "comitati di base" nel necessario percorso che li porti a superare se stessi.