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PAGINA 1
Infinita
Guerra Fredda
Gli attriti attuali tra Stati Uniti e Russia sugli armamenti e i programmi militari riporta, come ha dichiarato recentemente Vladimir Putin, al clima della guerra fredda, cioè all’affrontarsi delle due massime (ex?) potenze mondiali, durato decenni dalla la fine della Seconda Guerra, per spartirsi le zone di influenza.
In quegli anni, che registrarono un costante aumento delle spese militari mondiali, ma soprattutto negli Stati Uniti e nell’allora Urss, lo scontro tra i due blocchi fu propagandato, in perfetta sintonia da entrambe le parti, come fra due opposte classi sociali, due opposti regimi politici, due opposti modi economici di produzione, due opposti programmi e visioni del mondo: proletariato contro borghesia, dittatura contro democrazia, comunismo contro capitalismo, marxismo contro liberismo. E, nei reciproci, simmetrici, apostrofi, Impero del male e Imperialismo.
In sostanza, però, dietro alle guerresche dichiarazioni ufficiali, i due rivali hanno co-gestito l’imposizione per mezzo secolo dell’ordine imperialista mondiale, spartendosi e schiacciando l’Europa e i paesi del Terzo Mondo.
Finalmente, dopo il crollo dell’impero “comunista”, economicamente più debole e arretrato, e il ritorno dello Stato moscovita nei suoi confini slavi (e nemmeno); dopo la sostituzione della “dittatura sovietica” con un regime parlamentare, elettorale e con tutte le libertà; dopo la totale apertura del mercato russo ai capitali interni ed esterni, anche lo scontro con gli Stati Uniti, secondo quella lettura del conflitto martellata sulla testa di due generazioni di sudditi in tutto il Mondo, finalmente avrebbe dovuto cessare, dando spazio alla “pacifica emulazione”, già del resto da molti decenni preconizzata dai “comunisti”. Ma così non è stato.
Mentre per una decina d’anni lo Stato russo si è trovato costretto alla difensiva, cercando di risalire la china della catastrofe economica e sociale che ha tragicamente flagellato la sua classe operaia e riportato l’apparato economico e amministrativo indietro di decenni, gli Stati Uniti, approfittando della sua temporanea debolezza, sono riusciti, grazie al loro potere economico e militare, a circondare la Russia con una nuova “cortina di ferro”, facendosi vassalli molti degli Stati dell’ex impero russo e impiantandovi numerose e robuste basi militari, da Ovest e da Sud. È un processo che, dopo che in Asia centrale, sta proseguendo in questi mesi con le progettate basi Nato in Polonia, nella Repubblica Ceca, in Romania e in Bulgaria.
Come la nostra scuola di partito sostiene da sempre, il socialismo russo è stata la Grande Menzogna del Novecento. La rivoluzione d’Ottobre 1917 fu presto tradita e capovolta nella controrivoluzione staliniana, che dette origine ad uno Stato capitalista al cento per cento. Il monopartitismo e la pianificazione centralizzata dell’economia non essendo per niente in contraddizione con l’accumulazione del plusvalore e l’impiego capitalistico del lavoro salariato. Al Pcus, votato alla difesa degli interessi nazionali russi, di comunista restava solo il nome.
Con questa Grande Menzogna si è mascherato un conflitto interimperialista in scontro e lotta internazionale di classe, e il proletariato mondiale, tradito dai suoi partiti, ci ha creduto e per mezzo secolo è stato sospinto a “tifare” per la presunta “sua” parte, con enorme nocumento per il sano orinetamento delle speranze ed energie proletarie.
La reazione a questa disillusione, nelle “disincantate” opinioni di oggi, se si vuole è ancora peggiore: Comunismo o Capitalismo non sono che forme di governo, intercambiabili, al di sopra di una stessa realtà oggettiva, eterna, immutabile, da nessuno sano di mente criticabile, che è e sarà sempre, la presente società fondata sul capitale.
Le contraddizioni tra Russia e Stati Uniti (ed Europa?), che stanno oggi così platealmente riesplodendo nonostante i due Stati si richiamino agli stessi principi liberali e aderiscano allo stesso “sistema economico”, hanno le stesse determinazioni del tempo della “prima” guerra fredda: non uno scontro tra due diversi, inconciliabili sistemi politici e prospettive di società future, non questioni ideologiche, ma gli interessi divergenti di due economie ugualmente capitaliste, anzi imperialiste, per il controllo dei mercati e delle materie prime. Questo la nostra dottrina previde a chiare lettere.
Il riaccendersi della competizione tra gruppi imperiali è confermato dalla brusca impennata che ha avuto negli ultimi anni la spesa militare in tutti i paesi. Secondo i dati dei principali centri di ricerca sugli armamenti la spesa per armamenti è cresciuta dai 135 dollari per abitante (del Mondo!) nel 2001 ai 184 dollari del 2006. Negli ultimi dieci anni la spesa militare è cresciuta del 37%.
Il Capitale prosegue così la sua folle marcia verso uno scontro bellico
devastante. Una marcia che può essere contrastata solo dall’intervento
comunista e internazionale del proletariato rivoluzionario.
Un’altra “riforma” di fine luglio, un’altra sconfitta per la classe operaia.
Il testo distribuito dell’accordo firmato questa notte non è certo privo di ambiguità, ma è evidente che, con gli infiniti rinvii e lo strepito di tutte le trombe e i tromboni del regime, si stava preparando il peggio del peggio.
Un simbolico e temporaneo ammorbidimento dello “scalone”, che interesserà un piccolo numero di anziani, è servito a far passare, a regime e definitivamente, un ulteriore prolungamento della vita lavorativa e la possibilità per i governi attuali e futuri di ridurre ad arbitrio gli assegni di pensione.
Nella scarna tabella firmata da ministri e sindacalisti si legge la formula perentoria: "Dal 1 gennaio 2013: Età 61, Anni+Anzianità 97".
Quindi, per l’anzianità sarebbe eliminato il limite dei 40 anni, che nemmeno un Maroni aveva osato toccare. Un operaio entrato in fabbrica a 14 anni lavorerà non più per 40 ma per 48 anni. Tutti coloro che hanno iniziato a lavorare ad un’età inferiore ai 21 anni, cioè la classe operaia in senso stretto, vedono peggiorato il loro pensionamento, sempre rispetto alla deprecata da tutti Legge Maroni.
Dei limiti di vecchiaia, attualmente 65 anni per gli uomini e 60 per le donne, nulla si dice. Ma poiché, evidentemente, 61 è maggiore di 60, e la parola "donne" mai è scritta nell’accordo, verrebbe da pensare che intendono provare a far saltare anche quei termini, come del resto hanno dichiarato in molti “necessario” e voler di fare. Quindi, i casi sono due: o per le donne la pensione di anzianità è già di fatto eliminata, ed andranno in pensione a 60 anni qualsiasi anzianità assommino, oppure si vorrebbe farle lavorare fino all’età di...
Tutta la canea che è stata fatta da destra e da sinistra sulla difesa delle pensioni dei giovani è solo offensiva ipocrisia, prima di tutto perché ai giovani l’ammontare delle prestazioni è già stabilito che venga calcolato in base ai contributi versati, come per un prestito in banca, e quindi non risente delle pensioni in atto col vecchio regime; secondo il governo si riserva di calcolare a suo arbitrio i coefficienti per il calcolo degli assegni futuri; terzo, è inevitabile che fintanto si prolunghi la vita lavorativa dei vecchi, posti per i giovani ce ne saranno pochi.
Ma quello che è importante imparare da questa triste vicenda è che la classe operaia è sola, circondata da ogni lato da feroci e spietati nemici. Ogni sorta di mantenuti e nullafacenti a vita si è in queste settimana scalmanata a gridare nelle televisioni e sui giornali che gli operai lavorano poco, che da vecchi solo fingono d’essere stanchi e malridotti mentre invece il lavoro rende liberi. Gratta il borghese è scoprirai lo schiavista.
Tutte le istituzioni del regime borghese si sono espresse contro i lavoratori, dalle minime alla massime, italiane ed europee, dalla Banca d’Italia alla Corte dei Conti alle Commissioni di Bruxelles: lavorate, lavorate... Per le pensioni i soldi non ci sono, dicono, mostrando calcoli ammaestrati e numeri falsi, quei soldi che si trovano sempre per le guerre e per le grandi ruberie delle Grandi Opere. Capitale contro salario.
Che tutto il mondo borghese sia contro la classe operaia è ovvio ed inevitabile, dai capitalisti, allo Stato dei capitalisti, ai Governi dello Stato dei capitalisti, tutti quanti, di "destra" o di "sinistra", perfettamente intercambiabili e indistinguibili quando si tratta di tenere sottomessa la classe lavoratrice. Dal 1989 in poi un unico piano di attacco alle pensioni è stato mosso contro la classe operaia in Italia, in accordo con i sindacati, da tutti i governi che si sono succeduti: cambiavano i nomi e i colori ma stringevano il cappio con la stessa mano.
Quello che invece costituisce un vero tradimento è il comportamento dei partiti cosiddetti "operai" ed anche "comunisti" e dei sindacati dei lavoratori.
Le grandi Confederazioni di regime, Cgil-Cisl-Uil-Ugl, hanno firmato una simile schifezza, il 20 di luglio, di notte come i ladri, senza indire una sola ora di sciopero. Anzi vanno sostenendo che "è giusto e sano" aumentare la vita lavorativa. C’è da domandarsi a cosa servano simili sindacati se non a collaborare allo sfruttamento e alla sottomissione dei lavoratori. Nemmeno hanno aperto una vertenza, stavolta nemmeno hanno fatto finta: il Presidente del Consiglio gli ha sottoposto la sua decisione, e loro hanno firmato. Stop. Tutto si è mosso a livello di partiti e il sindacato non ha richiesto e imbastito nemmeno, come altre volte, un’apparenza di trattativa, il "tavolo" come si dice in sindacalese.
La sinistra sindacale farà, come troppe altre volte in un passato lontano e recente, la sua parte in commedia. Chiederà nelle fabbriche un "referendum col voto segreto", li perderà, perché i referendum e la conta nazionale dei voti la organizza e tiene la "maggioranza", e quindi non le resterà che far rumore e convegni ma, in fine... conformarsi alla disciplina.
Un vero robusto e sperimentato sindacato non chiede né fa dipendere la sua linea dall’opinione della maggioranza numerica dei lavoratori, semmai degli iscritti, e la scelta del momento e la chiamata alla lotta, allo sciopero, proviene dal sindacato, che conosce e "sente" gli umori e il grado di forza della base, ma non elettoralmente, individualmente e segretamente consultata. Esempio: per le pensioni il sindacato di classe, se ci fosse in Italia, avrebbe dovuto sapere che lo sciopero era da decidere propagandare e fare prima, non dopo.
I partiti della "sinistra radicale" sono altrettanti schermi per ingannare la classe operai e reti di protezione contro il vero partito comunista rivoluzionario. Ora dicono che l’accordo non era quello nei patti, che non lo condividono, e promettono, dopo le "ferie" ovviamente, fiera battaglia "parlamentare". Insomma se la cavano con un discorsetto di un dieci minuti in un’aula, come sempre, quasi vuota. Recitano, insomma, anch’essi la loro “parte”. Resteranno però al governo, non merita perdere il posto per così poco. E poi, cari operai, dovete lavorare anni ed anni ancora e far la miseria da vecchi, volete altrimenti... che torni Berlusconi!
Il gioco delle parti è invero da manuale, con l’alternarsi davanti al proletariato del carceriere "cattivo" con quello "buono"...
Non tutto però è irrevocabile e stabilito. Il fatto che l’accordo sia così malscritto può significare che i borghesacci si riservano sue "interpretazioni" ammorbidite, oppure peggiorative, secondo la reazione, domani, della classe operaia.
La risposta può essere una sola: la lotta, contro tutti, la lotta di
classe, lo sciopero, unica arma dei lavoratori. E per la lotta organizzarsi,
fuori dai sindacati del tradimento, in un vero, necessario, irrimandabile,
Sindacato di Classe.
Una preoccupante penuria di grano si denuncia sui mercati degli Stati membri della Unione Europea.
Ma la minore disponibilità del cereale è una tendenza che dura da anni, risultato, dicono, di politiche dettate dalla necessità di sostenere i prezzi. L’abbandono delle terre peggiori dovrebbe, invece, far ridurre i prezzi. Si incentivano i coltivatori a non produrlo più, stanziando in loro favore dei sussidi. I piccoli coltivatori, che spesso si trovano stretti da un lato tra i fornitori e le banche e dall’altro i grossisti, che impongono il prezzo di vendita, ben volentieri hanno accettato le provvidenze di Bruxelles per integrare i loro risicati redditi.
L’abbondanza di frumento, cosa che prima del capitalismo sarebbe stata una sicura ricchezza, oggi è fonte di miseria e va eliminata. La stessa Grecia, altro forte produttore cerealicolo, appare in deficit. Paesi fortemente produttori come Ucraina e USA speculano aumentando i prezzi; a Chicago al mercato dei futures prevedono aumenti fino a primavera 2008.
Quest’anno la diminuita offerta si è fatta ancor più acuta in Europa, anche per via delle condizioni climatiche di quest’inverno e il risultato è che il prezzo del grano duro è aumentato: per l’industria molitoria, dai 190 Euro a tonnellata pagati a gennaio si è passati ai 250 di luglio. I trattamenti fitosanitari non sono dei migliori, per via dei costi, e la qualità del grano ne risente, come quest’anno allorquando un inverno ricco di precipitazioni ha favorito malattie delle spighe.
Gli industriali alimentari della pasta denunciano i rincari e minacciano di rifarsi aumentando il prezzo di vendita; i 140 pastifici italiani, che si fanno una spietata concorrenza (esportano anche il 53% all’estero), pensano di rientrare nelle spese con un rincaro di 12 centesimi al chilo, che significa di ben il 15% sui prezzi correnti. Altri rincari dal 30 al 70% vengono segnalati su burro, farina e uova da industria, con ricadute su molti prodotti al consumo.
Nel capitalismo, che rigurgita una pletora di inutili feticci tecnologici, mangiare è un lusso. Negli Stati Uniti ed in Brasile c’è il progetto di sostituire le colture alimentari con produzioni destinate all’estrazione del “bio-disel” per le automobili, in alternativa al petrolio e “risolvendo” così la “crisi energetica”. Se i borghesi troveranno il modo di accrescere i profitti trasformando il cibo in carburante, siamo sicuri che ci toglieranno il pane di bocca per alimentare le macchine, cioè il capitale!
Il “Financial Times” commentando questa crisi, così ha sentenziato:
“Fra poco tempo il cibo a buon mercato potrebbe diventare un ricordo”.
Dato che con pane e pasta ci vivono i proletari, questi rincari incideranno
certo sulle loro condizioni di vita, già immiserite negli ultimi anni.
Non è da chiedere tanto una incontrollabile riduzione dei prezzi, quanto
generalizzati aumenti salariali.
STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO AMERICANO(4) Prime organizzazioni [Resoconto esteso] | History of the workers’ movement in the USA (4) The first organisations |
ORIGINE DEI SINDACATI IN ITALIA [Resoconto esteso] | The Origin of the Trade unions in Italy - The Cgil |
CORSO DELL’ECONOMIA CAPITALISTA [Resoconto esteso] | Course of the Economy |
LA QUESTIONE MILITARE [Resoconto esteso] | The military question - feudalism |
LA QUESTIONE EBRAICA (8) I trenta denari [Resoconto esteso] | The Jewish question (8) - the 30 pieces of silver |
Per la riunione generale siamo tornati nella città di Parma, nei giorni 19 e 20 maggio scorsi. Erano presenti compagni provenienti dall’Italia, dalla Francia e dalla Gran Bretagna; gli arrivi si sono scaglionati dal venerdì 18 di prima mattina e le partenze fino al lunedì 21, tutti apprezzando l’ospitalità accuratamente predisposta.
Le sedute si sono potute svolgere nel modo più ordinato in una sala luminosa e tranquilla. Ben allenato a lavorare insieme, il nostro piccolo gruppo di militanti, secondo la serrata e spontanea disciplina che caratterizza il metodo comunista, riesce a fare quello che c’è da fare, e che ha sempre fatto, senza fretta e senza l’angosciosa attesa di risultati immediati, che sappiamo impossibili, tutte tipiche nevrosi dei miseri borghesi individui, dei quali il proletario cosciente è tutt’altro che invidioso.
Abbiamo puntualmente e nel suo insieme preso visione dei diversi impegni e attività del partito, oggi prevalentemente centrati sullo studio della dottrina marxista e dell’involversi del declino capitalistico mondiale e sulla loro propaganda all’esterno. A questa elaborazione, coscienti che è un vera battaglia sociale, e che non ha niente di congressuale o di democratico e non si fonda sulle opinioni dei singoli, tendono a portare contributo tutti i compagni.
Abbiamo anche presente che questo lavoro sulla difesa della teoria comunista non può coerentemente farsi se non tramite i moduli del partito politico di classe, che si protende verso la classe, la sua vita e le sue lotte in un complesso ma necessario e costante rapporto.
Come di consueto ci siamo ritrovati al sabato mattina per la riunione
organizzativa e al pomeriggio e la domenica per l’esposizione dei rapporti.
Questi, qui riassunti, saranno pubblicati per esteso in “Comunismo”.
Storia del Movimento Operaio negli Stati Uniti d’America - (4) Prime organizzazioni
Il primo rapporto ha proseguito la trattazione sulla storia del movimento negli Stati Uniti d’America. Il capitolo ha affrontato la questione della condizione operaia nei decenni che seguirono la Guerra d’Indipendenza. Da un punto di vista politico gli operai furono coinvolti nelle Società Democratiche, club di sostegno al Partito Democratico nel quale i proletari delle città vedevano una organizzazione che difendeva i loro interessi. Questo valse alla borghesia l’appoggio convinto dei proletari stessi alla guerra del 1812 contro l’Inghilterra. Da un punto di vista sindacale invece le organizzazioni operaie erano in genere deboli e di vita breve.
La debolezza dei proletari era evidenziata dal diffondersi dei contratti “yellow dog” (soprattutto con la manodopera femminile), nei quali il lavoratore firmava un documento con il quale si impegnava a non fare attività sindacale: ove non si attenesse al contratto sarebbe stato passibile di mancata corresponsione del salario dovuto; siccome spesso il salario era pagato anche due sole volte l’anno, la ritorsione era pesante. Inoltre erano già diffuse le “black lists”, gli elenchi dei lavoratori che non si erano comportati come i padroni volevano, e che non avrebbero più trovato lavoro, almeno nello stesso Stato o nello stesso settore industriale. Solo nel 1823 si ebbe una ripresa del movimento, che fu coronata dalla fondazione della Mechanics’ Union of Trade Associations, a Philadelphia, il primo sindacato cittadino che riuniva tutte le categorie. Questa a sua volta sorgeva dal movimento per le 10 ore. L’agitazione, e le lotte, per le dieci ore giornaliere fu l’obbiettivo che più di tutti riuscì ad affasciare i proletari, in un periodo in cui questi stentavano a costruire durature organizzazioni di lotta, periodo che durò fino agli anni ‘40.
Nel frattempo, sul lato politico, i proletari, via via che il voto veniva esteso a strati sempre più ampi della classe, ricevevano crescente attenzione da parte dei politicanti borghesi, anche se non mancarono capi sinceri e determinati, provenienti sia dalla classe borghese sia dagli strati operai e artigiani. Nel 1828 fu fondato il Working Men’s Party (Partito dei Lavoratori) a Filadelfia. Ma né questo, né altre organizzazioni effimere che nacquero negli anni seguenti, riuscirono mai a raccogliere il sostegno e l’adesione di masse operaie, anche se qua e là vi furono episodi locali di battaglie elettorali di successo. D’altronde nessuna di quelle organizzazioni può meritare il titolo di socialista, anche in senso utopico: le teorie alle quali si informavano seguivano delle fantasiose linee di pensiero di diretta derivazione illuministica.
I proletari continuarono a seguire i due partiti nazionali, ed in particolare
il Partito Democratico. Per questa ragione, pur con interruzioni notevoli,
soprattutto nei decenni a cavallo dei secoli XIX e XX, da un punto di vista
politico la classe operaia americana è sempre stata arretrata rispetto
a quella europea, nonostante le continue iniezioni di socialismo e di altre
dottrine rivoluzionarie portate dalla incessante immigrazione europea:
tedesca, inglese, italiana.
Origine dei sindacati in Italia - La Cgil
Il secondo rapporto è tornato a trattare il tema importante della storia del sindacato i Italia.
Nel capitolo precedente, esposto a Viareggio del giugno scorso e pubblicato in Comunismo n.60, si riferiva della nascita a Napoli nell’immediato dopoguerra della “Cgl Rossa”, della quale restano oggi le pagine del suo organo “Battaglie Sindacali”, e da questo potevamo trarre le informazioni necessarie per dedurne il carattere combattivo e genuinamente classista.
In questa riunione invece si è trattato della Cgil, che nasceva a Bari apertamente patriottica, per iniziativa dei partiti del Cln.
In essa, fin dalle sua prime dichiarazioni programmatiche risuonano le parole, di ben amaro sapore per la classe operaia, della necessità di “sacrifici” per il bene delle “aziende”, di “aumento della produzione”. E poi di “partecipazione” alla gestione delle imprese, al fine di migliorare il “rendimento del lavoro” e abbassare i “costi di produzione”, sposando in pieno, anche nel linguaggio, il punto di vista borghese.
Ma la classe operaia italiana non sottostava pacificamente alle direttive collaborazioniste degli stalinisti e del Cln. Di Vittorio il 15 luglio 1946 lamentava che «le masse tendono a sfuggire dalle mani delle nostre organizzazioni, hanno fatto lo sciopero generale senza la Camera del Lavoro e hanno degenerato in violenze. La Cgil si impegna a contenere il movimento delle masse, a moderare le rivendicazioni dei lavoratori, ad evitare gli scioperi e le agitazioni». Nello stesso anno la Cgil invita gli operai ad aderire al Prestito per la Ricostruzione e nel settembre firma il patto per la tregua salariale per sei mesi, poi rinnovati.
È evidente che la Cgil nasce come sindacato tricolore, con operazione verticistica frutto del nuovo assetto interimperialistico.
Ma, come fu già all’epoca ben precisata la difficile questione dal nostro partito, in una Conferenza a Torino del 1946, questa ipoteca borghese sul sindacato operaio e la sua “funzione controrivoluzionaria attuale” non deriva da una “natura di classe capitalista” ma solo dalla “situazione politica generale”: il problema non consiste nella “forma di organizzazione” ma nel “rapporto di forze”.
Quindi al congresso di Firenze della Cgil partecipò anche il nostro
partito con il motto: “Per il sindacato di classe, organo di battaglia
del proletariato, contro il sindacato-prigione, feudo dei partiti di governo
e riserva strategica dell’imperialismo”. Di Vittorio impedì ai nostri
compagni di prendere la parola, benché rappresentassero migliaia di organizzati,
sostenendo che non esprimevano una corrente “costruttiva”.
Anche a questa riunione abbiamo potuto aggiornare il nostro quadro essenziale del corso economico del capitalismo. I compagni hanno potuto stavolta meglio seguire la lunga esposizione avendo predisposto la proiezione ingrandita su uno schermo dei grafici e delle tabelle popolate di numeri.
Quadri delle produzioni industriali. Paesi: Usa, Germania, Giappone, Francia, Gran Bretagna, Italia, Russia, Cina, India. Avendo già esposto le serie storiche nelle precedenti riunioni qui ci siamo concentrati sugli anni più recenti, con i dati mensili, tranne che per la Russia della quale si mostravano i ritmi di crescita dal 1989, anno del crollo e disvelamento del falso socialismo mentitamente “sovietico”.
In ordine di vecchiezza. La Gran Bretagna, decano capitalista, mostra un “diagramma piatto”, con leggere oscillazioni intorno allo zero. Industrialmente, rantola. L’ultimo dato, del febbraio, segna un incremento della produzione dello 0,3% superiore all’anno precedente. Il significato di questo fenomeno, sui piani dell’economia e delle prospettive rivoluzionarie e che si può riassumere nella domanda se esiste un “post-capitalismo”, noi lo dobbiamo cercare nel contesto mondiale e nelle sue dinamiche, con una “divisione del lavoro” che muove capitali e forza lavoro attraverso i continenti. I vecchi capitalismi attingono sempre più alla rendita e all’interesse piuttosto che al profitto. Pare che la City di Londra, grazie alla legislazione e alla fiscalità particolarmente permissiva, accolga e “ricicli” capitali monetari da tutto il mondo. Evidentemente non è la classe operaia, che si immiserisce costantemente, a godere di questi flussi.
Ritmi di crescita non molto maggiori mostrano gli altri “vecchi” Francia, Italia e Giappone, con peggioramento nei primi mesi di quest’anno, benché non ancora in recessione.
Invece sono ancora in espansione Stati Uniti e Germania, benché con i primi in rallentamento: dal massimo del +5,9% annuo a settembre al +2,3% a marzo. La Germania invece dopo la recessione del lontano 2002 ha mostrato un andamento in accelerazione quasi ininterrotto e continuato fino a che abbiamo dati: +7,9 a febbraio e +7,6 a marzo, che è davvero molto.
Discorso a parte per la Russia la quale, dopo la rovinosa recessione del decennio 1989-1998, sembra riprendersi, benché occorrano ulteriori considerazioni circa l’attendibilità di quei dati e il loro riferirsi alla industria manifatturiera ovvero a quella estrattiva.
Il quadro cambia drasticamente venendo ai giganti asiatici. Pienamente confermata la tesi marxista della inevitabilità del capitalismo e della universalità delle sue leggi. Questo solo basterebbe ad elevare il lavoro di Marx a vetta svettante sulle bassure del pensiero borghese. Unico il capitalismo e le sue piaghe, unica la rivoluzione e il suo partito.
Non ignoriamo però la quantità: nella serie storica Inghilterra-Usa-Cina identità è la qualità capitalista, diverso l’ordine di grandezza di queste successive “fabbriche del mondo”.
India e Cina, benché società dalla storia molto diversa, viaggiano entrambe nell’ultimo anno con le produzioni in crescita su ritmi ben superiori al +10%. Anch’essi corrono corrono, ovviamente, verso la catastrofe.
Per questa riunione il relatore aveva potuto completare ed illustrare l’aggiornamento del quadro del commercio mondiale, che comprende, oltre ai prodotti dell’industria, le materie prime ed agricole. Dati relativi alle importazioni, esportazioni, saldo, in dollari e in percentuali mondiali, periodo 1948-2005.
Rimandando la pubblicazione del quadro completo, molto significativo in tutte le sue parti, alla rivista Comunismo qui accenniamo solo alle tendenze da rilevare.
L’andamento in tutto questo secondo dopoguerra del totale dei traffici mondiali cresce, costantemente e velocemente; la vera crisi, anche quella di guerra, sarà anticipata dal suo contrarsi.
Benché ogni capitalismo aumenti regolarmente il valore delle sue esportazioni e delle sua importazioni, la sua fetta del commercio mondiale varia grandemente e non sempre parallelamente alla sua crescita industriale: alcune economie si volgono al mercato mondiale più di altre. Ma la quota di accesso agli scambi globali è una buona misura della vitalità di un industrialismo rispetto agli altri.
Qui in estrema sintesi.
Primo gruppo: declino già dal 1948.
L’Inghilterra, dai massimi altissimi del secolo precedente, nel 1948,
uscita vincente dalla guerra, si era già ridotta ad esportare l’11%
del totale mondiale e ad importare il 13%: non poco però e seconda solo
agli Usa. Dopo cala regolarmente fino al 4% e 5% nel 2005. Bilancia fortemente
negativa.
Gli Stati Uniti hanno anch’essi un massimo nel 1948 per le esportazioni,
col 22%, che via via si riduce al 9% nel 2005. All’opposto le importazioni
nello stesso arco di anni irregolarmente tendono a crescere fino al 17%
nel 2003 per poi cedere al 16,5% nel 2005. Bilancia: uno sproposito in
rosso, -830 miliardi di dollari.
Secondo gruppo: apice nel 1973, Germania, Francia, Italia, Giappone.
La Germania toccò nel 1973 il 12% delle esportazioni mondiali e il
9% delle importazioni, ridotte nel 2005 al 9% e al 7%. Ottimo saldo positivo.
La Francia è circa alla metà, ma con bilancia negativa.
Italia e Giappone, più giovani, riescono a ritardare il massimo delle
esportazioni al 1993, poi calano al 3,6% l’Italia e al 6% il Giappone.
Italia in pareggio, Giappone in attivo.
Gli altri.
La Cina accede al mercato estero dopo il 1983 e cresce fino al 7,5%
delle esportazioni nel 2005 e al 6,3% delle importazioni, con saldo attivo.
Come rango mondiale fra i paesi esportatori è al terzo posto: l’ordine,
assai significativo, è questo: Germania-Usa-Cina-Giappone-Francia-Inghilterra-Italia-Russia.
L’India, al contrario, pare ancora rivolta prevalentemente al mercato
interno. La Russia risente dello sconvolgimento del suo assetto interno
e nelle sue relazioni imperiali tanto che il massimo percentuale di esportazioni
ed importazioni risale all’epoca dell’Urss.
Tutto questo dovrà essere più in dettaglio illustrato nell’esposto
esteso.
La questione militare - Il feudalesimo
Dopo aver esposto a Sarzana la questione militare nella fase del comunismo primitivo e nella schiavitù, abbiamo svolto il nostro punto di vista teorico e storico relativo alla società feudale.
Il materialismo dialettico vede sgorgare la violenza in modo del tutto naturale dalla lotta delle classi e dalla dinamica delle produzioni e ne dimostra gli intimi rapporti con l’economia, che ne determinano la necessità e lo sviluppo. Occorre distinguere l’uso della forza nelle guerre fra gli eserciti statali dai conflitti all’interno della medesima società, tra la classe sottomessa ed i poteri organizzati. Occorre poi indagare sull’origine di date strutture politiche e del loro interagire storico con l’uso della forza, nonché i limiti di questi poteri, le ragioni del loro sviluppo, della loro affermazione e del loro crollo.
Quindi, limitandoci all’occidente europeo, abbiamo passato in rassegna, quasi cronologicamente, i fatti essenziali della storia della società feudale in rapporto alle vicende militari, rilevando la funzione a volte vitale della violenza nello sviluppo economico.
Lo Stato è organizzazione della violenza di classe. Ne esaminiamo la trasformazione delle strutture, in rapporto alle fonti materiali da cui attinge la sua linfa vitale. Evidentemente quelle fonti non sono altro che la disponibilità economica di una o più classi e la funzione dello Stato è la difesa degli interessi di quelle classi e il mantenimento dei rapporti di produzione vigenti.
Quando il modo di produzione feudale sarà incalzato da altro più efficiente anche i signori feudali tenderanno ad essere sostituiti nel potere da altre classi. La loro signoria si svuota di contenuto ed essi appaiono solo come parassiti e cortigiani. Ma la forza dei loro eserciti non è in immediata e meccanica corrispondenza con lo sviluppo materiale delle tecniche produttive e con la maturazione sociale. Per questo occorrono le rivoluzioni.
Come premessa a questo capitolo del rapporto si è accennato ad una vecchia controversia fra marxisti e ideologi borghesi sulla valutazione del feudalesimo, ma che investe tutta la concezione del movimento della storia umana. I borghesi, certi della superiorità ed eternità della democrazia e del capitale, descrivono il feudalesimo come un periodo di rinculo generale, di caduta nell’oscurantismo e nell’autoritarismo. Non c’è dubbio che nel trapasso dalla società schiavista a quella feudale si sia registrata una caduta della curva della produzione, ma si è trattato di un fatto transitorio anche se lungo. Ciò avviene ogni qualvolta da un modo di produzione si passa ad uno successivo e la durata della ripresa in cui si vanno formando le nuove strutture non è sempre identica. Basti pensare che è nel medioevo che, distrutta l’unità imperiale dello schiavismo romano, si pongono le premesse della formazione delle nazioni moderne.
Il relatore passava poi a descrivere dapprima le forme del lento declino dell’Impero, incalzato dalle invasioni dei barbari, poi, anche con citazioni di Engels, si illustravano le tecniche di organizzazione e di battaglia delle popolazioni dei germani e dei franchi.
Particolare attenzione si portava poi alla formazione del potere temporale
della Chiesa, con un’organizzazione di tipo statale specifico, e al lungo
scontro fra Chiesa ed Impero.
La questione ebraica: (8) I trenta denari
L’accusa mossa da sempre all’ebraismo è quella di “tradimento”, per cause abbiette: il denaro. Anche noi ricorriamo spesso, nel nostro linguaggio, all’accusa di tradimento, di partiti e sindacati operai, come origine delle sconfitte del proletariato e della causa comunista: gli esseri umani e le loro organizzazioni tradiscono. Ma quei contraccolpi sono dovuti a cause e processi storici oggettivi.
Giuda intendeva forse rimpinguare le casse per la causa? Qual’era la causa del movimento degli zeloti? Era un partito nazionalista che considerava Gesù troppo tiepido sulla questione dell’impegno politico contro l’Impero romano e le forze collaborazioniste.
L’accusa canonica contro chi pratica il prestito viene pronunciata già nell’anno 300, e poi accomunò sia la scolastica sia la Riforma protestante, dando vita a Shylock e alle forme di antisemitismo di vario genere.
La dialettica materialistica non procede per pregiudizi contro il Capitale. La nostra lotta contro il capitalismo non ha niente a che vedere col “socialismo reazionario” e con i rigurgiti di demagogia populista. L’odio antisemita è stato una delle risorse di queste posizioni, che si atteggiano ad anticapitalismo ma che non ne conoscono le dinamiche storiche e non le vogliono conoscere.
Con la formula “lotta alla giudodemoplutocrazia” si fece d’ogni erba un fascio, riuscendo la grande borghesia industriale e finanziaria a tirarsi dietro le mezze classi e cercando di trarre il proletariato alla propaganda nazionalistica portatrice di chiusura e di odio nei confronti del sentimento internazionalista.
Se è vero che identificare qualcuno come nemico giurato equivale il più delle volte a proiettare le proprie fantasie malate, non c’è dubbio che nell’età moderna il rapporto della cultura occidentale col denaro ha significato scatenare odio, piuttosto che conoscenza delle proprie irrisolte contraddizioni. Appena si analizza la natura del denaro, invece che cogliere la sua funzione sociale, si crede ancora al suo potere metafisico, se ne stigmatizzano i “vizi” insuperabili, l’attaccamento all’idolo, senza venire a capo della ragione dialettica di tale tabe. C’è voluta la scienza e lo studio appassionato di Marx per trovare il bandolo della questione. Il materialismo storico coglie la natura idolatra del denaro, ma in quanto tramite della produzione e della distribuzione reali.
Non è con apparenti rovesciamenti di valori che si può vedere la fine di un sistema di produzione. La trasmutazione dei valori viene dopo e non prima i veri storici rivoluzionamenti dei rapporti di produzione. Non basta rovesciare la condanna dei sicli-shekel in esaltazione.
Nel comunismo non c’è denaro né concorrenza, né egemonia delle nazioni. Il comunismo è anticipato a livello teorico come superamento di questi caratteri, e dunque nessuna banca degli investimenti mondiale, nessun governo globale dell’economia può pensare di prefigurarlo.
Nelle parole di Marx (ebreo apostata) la “questione ebraica” sarà risolta dall’abbattimento del Capitale. Non solo la questione ebraica ma anche quella nazionale, quella “islamica”, quella “cattolica”.
Nella società comunista ci saranno sentimenti? Certo che si, ma se questi sono il prodotto di relazioni sociali fondamentali, non potranno che mutare in profondità.
* * *
Nel corso della riunione è stato anche brevemente affrontata la questione irachena: il relatore ha fatto il punto sullo sviluppo del lavoro oltre quanto già riportato sulla stampa del partito.
Si è anche cercato di approfondire l’esame di quella nebulosa che
viene definita “resistenza irachena”, mettendone in evidenza le contraddizioni,
al fine di meglio delineare la natura dei diversi gruppi e partiti.
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La
storia italica nello specchio deformante della sua ideologia
Capitolo IX
Esposto a Parma nel gennaio 2006
Specchio di contraddizioni
Se abbiamo preso a pretesto certe linee della storia italica, non lo abbiamo fatto a caso, se non altro perché è in Italia che si sviluppa quel fenomeno sociale e politico che è il fascismo, uno degli eventi che hanno segnato in modo determinate l’imperialismo e livello mondiale.
Per quanto ci si sbracci oggi nel sostenere che, sì, il fascismo fu una dittatura, ma non efferata come quella nazista o quella staliniana, è difficile negare che Mussolini finì per essere scelto a maestro del nazismo germanico, e fu per lungo tempo ammirato da personaggi come Churchill. Non solo: non è una nostra scoperta che lo stesso Roosevelt inviò degli emissari a studiare in Italia il fenomeno dell’interventismo statale in economia, al punto che certe linee del New Deal sono state tratte proprio dall’esperienza del corporativismo in Italia. A noi, notoriamente, non interessano tanto le persone dei capi, quanto i processi sociali che li determinano e li esprimono.
Quando abbiamo sostenuto la nostra specifica tesi sulla natura del fascismo, ci siamo trovati tutti contro. Che cosa abbiamo detto di tanto madornale? Che il fascismo non rappresentava e non rappresenta una forma di reazione contro la modernizzazione capitalistica, la quale tenderebbe di per sé alle forme democratiche o social-democratiche, quanto la più conseguente ed adeguata espressione politica di quella modernità economica e sociale e la punta di diamante della reazione borghese complessiva contro la marea montante del proletariato rivoluzionario dopo la Prima Guerra mondiale.
Perché proprio in Italia si affermò quel tipo di apparato e di reazione violenta contro la classe operaia? Perché, e lo abbiamo messo in risalto nei precedenti capitoli, una nazione e uno Stato arrivati in ritardo nel “concerto europeo” e nella competizione tra pescicani mondiali, non poteva farlo senza forzare la situazione, in modo da colmare il ritardo, a tappe, appunto, “forzate”. L’esempio è stato puntualmente seguito da tutti gli Stati che successivamente hanno preteso di entrare nel girone infernale del capitale.
In un’ottica internazionalista quale è la nostra, è questo l’interesse saliente che ci spinge a valutare i processi sociali e politici d’un paese come l’Italia. Le beghe culturali, la polemica stantia su quanto corrisponda al vero un presunto carattere italico, passano in secondo piano.
Nonostante la regione italiana avesse conosciuti i fasti dei comuni e del rinascimento, restò poi tagliata fuori dai traffici e dell’industrialismo moderno, in modo che, una volta che le vicende portano all’indipendenza politica, da subito la tensione si accentrò intorno alla questione “industria subito”, pur con la remora dell’arretratezza di vaste regioni. Da allora, ogni volta che le crisi europee venivano a turbare i mercati, l’Italia si trovava a far fronte alle necessità della sua modernizzazione, tra rivolte sociali sempre più aspre.
Ciò non deve meravigliare perché, estrapolando, ci accorgiamo che, fatte salve le peculiarità delle diverse aree, ogni paese che entra nei ritmi nell’agone capitalistico, porta con sé il gravame delle sue più o meno profonde arretratezze.
Non fu casuale che la rivoluzione russa scoppiasse durante il primo conflitto mondiale, per far fronte al quale una potenza come l’impero zarista si trovò costretto a premere brutalmente sul contadiname e sul proletariato nascente, che non ebbero altro scampo, per difendere la loro condizione, se non lo scontro aperto, non solo a livello rivendicativo ma soprattutto politico.
I passaggi bruschi che la modernizzazione (termine quanto mai generico ed anodino col quale la borghesia chiama l’assoggettamento del proletariato al modo di produzione capitalistico) ha imposto anche in Italia stanno alla base dei bruschi contraccolpi a cui è andato soggetto l’intero apparato statale, fino appunto alla presa del potere da parte del fascismo.
La polemica democratica e liberale su questo tema è interminabile, ed ancora oggi non è riuscita a darne una giustificazione ragionevole. Non a caso la borghesia mai è riuscita nella formazione del suo partito unico, quello stesso che il fascismo pretendeva di aver realizzato. Questo, la tanto reclamizzata libertà di opinione, impedisce alla borghesia la invocata “memoria storica”, finalmente “condivisa”, tale da spianare la strada ad una pacificazione ed un impegno sempre più sicuro nel proseguimento dei propri fini.
Non pretendiamo naturalmente che si condivida la nostra, esclusiva,
lettura, che fa riferimento agli interessi storici di classe proletari.
Ribadiamo alcune delle sue conclusioni, utili non solo per la questione
italica ma per ogni paese o nazione che pretenda di rapportarsi alle altre
nella cornice dell’economia borghese, la quale sempre più si dimostra
insofferente dei limiti nazionali, e nello stesso tempo non riesce a liberarsi
di essi.
1) Il fascismo tentò di dotare la borghesia italiana d’un
suo partito nazionale unitario, che superasse definitivamente e con la
forza le divisioni di vario tipo al suo interno, sia provenienti da lontano
sia da un presente quanto mai confuso e contraddittorio.
2) La conduzione dello Stato fondata su convincimenti liberali
e il clima di pluralismo partitico si dimostravano inadeguati a mantenere
la sottomissione del proletariato nel turbine della industrializzazione,
e a zittire gli strepiti della piccola borghesia. La borghesia italiana
scelse allora la forma di governo fascista, pur ripromettendosi di alternarlo
alle forme del metodo parlamentare quando le mutate contingenze storiche
le avessero fatte preferire.
3) Nei momenti di crisi sono le stesse forze democratiche e liberali
che non esitano ad invocare lo Stato forte, che si riconoscono incapaci
di
evitare il ricorso alla coercizione ed ai poteri eccezionali. La pressione
del Capitale è d’una potenza tale per cui ogni pretesa di sottrarsi
al suo abbraccio ed alle sue esigenze è destinata a soccombere.
Da una parte si fa credere di volere e potere governare la Tecnica, e il Profitto che la muove e determina, attraverso la Politica, col dominio dei processi sociali-naturali e storici; dall’altra si ammette che in determinate cruciali circostanze non è possibile salvare la costruzione razionale del Diritto, che è inevitabile ceda all’uso della potenza, della forza. Questo non esclude che si torni poi a restaurare un simulacro di governo della ragione e della tolleranza democratica.
La modernizzazione procede per strappi. Anche chi crede che il suo avanzare sia progressivo, prevedibile e governabile, dovrà ammettere che periodicamente si ribella alla ragione borghese, presenta il suo conto fatto di apparente irrazionalità, di necessità, di inevitabilità. Allora si determina, e si teorizza, lo stato di eccezione, del resto previsto da tutte le costituzioni democratiche e liberali.
La pratica dello stato di eccezione ha però dimostrato che, una volta revocate le presunte garanzie, non è possibile tornare al punto di partenza. Il fascismo è un dato, una “conquista” borghese, storicamente acquisita. Ecco allora la necessità di introdurre la teoria della “parentesi” di Benedetto Croce, di cui abbiamo parlato agli inizi del nostro discorso.
La modernizzazione, come è naturale, non è mai finita... Sappiamo come Marx ha descritto la fenomenologia, le modalità e le leggi immanenti alla natura del Capitale, che deve continuamente rivoluzionarsi, spingendo le forze produttive a far saltare i rapporti di produzione che stanno loro stretti.
Che lo Stato borghese, italico o d’altra nazionalità, costituisca la rappresentanza politica dei rapporti di produzione dominanti è sotto gli occhi di tutti. Questa macchina garantisce alla borghesia il dominio di classe e le condizioni sociali per la conservazione dell’apparato economico.
Quando all’ordine del giorno si pone la necessità di ridefinire i rapporti economici e di potere fra le classi e i ceti dominanti allora si sentono scricchiolii da tutte le parti, poiché i diversi gruppi in concorrenza non vedono le cose esattamente allo stesso modo, avendo esigenze particolari da far valere. Gruppi, bande e logge borghesi si muovono in modo diverso, e possono anche non condividere la priorità che vengono messe sul tappeto.
Quale reparto borghese ebbe la meglio col “colpo di Stato” fascista? Quelli più interessati al profitto industriale o quelli attardati su posizioni redditiere? Come sappiamo la definizione di questi problemi non fu certo indolore, e noi lo sappiamo meglio di altri: dalla giusta valutazione di certe cose dipende la tattica e la strategia rivoluzionaria. L’ordinovismo, che vide male in queste tensioni borghesi, previde male anche per l’indirizzo del partito del proletariato.
Oggi non si fa altro che parlare di necessarie riforme dell’assetto statale, dal campo costituzionale a quello dei rapporti tra poteri. Dove si sta andando?
Quelli che oggi per fare rumore parlano di “regime”, sanno di fare demagogia a buon mercato, poiché non hanno il coraggio di dire che lo Stato democratico non è certo l’opposto di quello autoritario, ma solo l’altra faccia della medaglia, come dicemmo bene a proposito del “cambio di governo” con l’avvento del fascismo. Del resto, cianciando di “azienda Italia”, non si vuole forse dire che lo Stato deve essere funzionale all’economia ed ai suoi signori?
Quando dunque si parla di modernizzazione come processo inarrestabile, e non si precisa in quale tipo di modernizzazione ci si trovi, si cade in una voluta genericità di tipo ideologico, che i sociologi chiamano “povera di contenuto referenziale”. In termini più semplici non si vuol chiamare col proprio nome una società di classe, nella quale i processi di sviluppo economico sono dominati dall’imperativo del profitto. I rapporti economici che si ergono sulle forze produttive culminano nella macchina dello Stato, che ha il compito di dare ordine e continuità a tutto l’apparato sociale.
Nell’Italietta “conflitti istituzionali” recenti hanno fatto pensare ad uno “scontro fra poteri”, che le Vestali della Democrazia dipingono come incontrollabili e pericolosi. E si ritiene necessario un “ammodernamento” della macchina statale, un trapasso da una Prima Repubblica ad una presunta Seconda, che dovrebbe essere caratterizzata da un esecutivo più forte, con più poteri, e da un sistema elettorale fondato su regole del gioco che favoriscano la formazione di governi stabili. Niente ci sarebbe di tanto strano in tutto questo, se non che il blocco che si autoproclama progressista, oltre a perdere poltrone, teme che lo Stato nel suo insieme sia costretto a gettare la maschera e a manifestarsi per quello che è: la macchina repressiva del proletariato nella sua complessa composizione “moderna”.
Ma le accuse reciproche tra maggioranza e opposizione di voler dar corpo ad un “regime”, servono a nascondere che il regime non è mai passato: la forma sociale fascista è sopravvissuta alla fine del fascismo e alla sua sconfitta militare nella Seconda Guerra.
Che bisogno c’è insomma di dare un nuovo volto allo Stato, dal momento che non ha mai smesso di reprimere la classe operaia?
Lo Stato di diritto non ha mai realizzato le sue promesse, consistenti in una divisione di compiti tra i tre poteri fondamentali. Le garanzie costituzionali, la salvaguardia dei diritti, non sono che la costituzione formale di cui ha bisogno la borghesia per mascherare agli occhi del proletariato la sua dittatura di fatto. La crisi che è in grembo alla modernizzazione dell’economia non guarda in faccia a nessuna remora formale.
Se il capitale produce e ha bisogno di superstati per rispondere alle sue esigenze di regolazione dei conflitti a livello sopranazionale, non saranno certo gli Stati nazionali a impedirlo. Tutti ormai sanno che le forme di Stato sopranazionale, come l’Europa o la Nato, forniscono alle borghesie imperiali strumenti di controllo e di impulso su tutte le funzioni che stanno alla base dei loro interessi di fondo. Allora che senso avrebbe per il proletariato mettersi dalla parte d’uno Stato più grande o più piccolo, federale o centralizzato?
Da tempo la mancanza di condizioni favorevoli, che impedisce alla classe di porre la questione del suo potere, della sua dittatura, dà il destro alla borghesia di prendere misure preventive contro ogni possibile riproposta dell’alternativa: o Stato della borghesia o Stato del proletariato. Ecco in che consiste la modernizzazione a livello politico.
Poiché non crediamo al politicantismo da strapazzo, siamo in grado di comprendere in che consistono i processi politici essenziali, che si affermano al di là delle persone e dei progetti che queste credono di poter mettere in piedi in ogni momento. Nel caso dell’Italietta, al di là dei luoghi comuni che si raccontano ogni giorno, siamo convinti che non sia casuale come col crollo dei partiti “post-fascisti” che hanno interpretato per 50 anni il dominio borghese, si sia compiuta un’epoca: era necessario mettere al passo lo Stato nell’epoca del declino dei vecchi imperi, far quadrare i conti con gli assetti sopranazionali sempre più esigenti, nella cornice dei quali le borghesie più influenti cercano di mediare i loro interessi.
Che al personale di governo abbia fatto il suo turno una banda di cialtroni apparentemente nuova, fondata su appartenenti alla classe dei parvenus, non cambia certo la natura dello Stato e la sua funzione, ma solo pretendeva dare una effimera verniciata di “modernità” ad un apparato che può cercare credibilità in una miscela di populismo nazionale, di illusioni riformatrici e di trivialità massmediatiche.
Dovremmo forse con questo modificare qualcosa a proposito del nostro programma storico? Certamente No. L’Italietta rimane, anche nella percezione dei concorrenti, una realtà determinante per il suo assetto geografico e politico, per la funzione che può svolgere in un’area che rimane strategica. E, parallelamente, in questo desolante quadro borghese, merita di essere sottolineato che non è casuale il fatto che una pur minima tradizione di sinistra rivoluzionaria si sia potuto mantenere in questo contesto.
Generalmente, cioè nella convinzione della borghesia, ogni residuo di pensiero e di azione autenticamente comunista appare espressione di arcaismo, di ritardo storico, di nostalgia senza futuro. Eppure, nonostante tutto, cambiati nomi ed indirizzi, la classe al potere deve far conto ciclicamente su un personale di governo che proviene dal tradimento del programma comunista, dall’opportunismo storico. Perché questo personale rimane così necessario, sia pure in tanta ostentata “modernità”? Il proletariato italiano ed anche in parte europeo porta sulla sua pelle le stigmate di lotte e di elaborazioni teoriche che nessuna rivoluzione apparente, giudiziaria e d’altro segno, è in grado di cancellare o di sostituire. Se la Sinistra c’è ancora è perché sono in piedi gli apparati di sempre, lo Stato, le forme sindacali, la trama dei rapporti capitalistici, la vergogna d’un sistema di potere che non sa indicare nessuna prospettiva reale alla specie umana, dovunque si trovi ad operare.
Se il comitato d’affari della borghesia non ha avuto scrupoli ad affidare ad una sua “maschera”, ad suo antropologico esponente la direzione politica, vuol dire che non ne può fare a meno, mentre, quando può, la “politica” si preoccupa di dare almeno l’impressione che lo Stato sta al di sopra degli interessi immediati della classe borghese. Si agita insistentemente la questione del cosiddetto conflitto di interessi del capo del governo, ma non si riesce a venire a capo di niente, poiché l’intreccio di affari e politica viene accettato come normale e dopo tutto indice di modernità e di furbizia. La “modernizzazione” ha assunto anche questa valenza: lo Stato neanche si preoccupa di apparire su di un altro piano dall’economia, al punto che non si sa se è meglio parlare di “azienda Italia” o di “patria”, come preferirebbero gli ex fascisti associati al governo.
Non è certo la prima volta che la classe al potere si fa trovare con le mani nel sacco: si pensi al caso dello scandalo della Banca romana alla fine dell’Ottocento. L’Italietta c’è abituata al gioco degli equivoci.
Ciò che invece non torna è l’impotenza della classe operaia, che con il partitaccio ex-stalinista prima, e la storia del partito “diverso”, poi con l’illusione della giustizia che avrebbe dovuto punire e scompaginare i ladri del regime, sembra aver abboccato al moralismo ed alle promesse di severità contro i “nemici del popolo”.
La nostra funzione resta quella di non cedere alle sirene, di cogliere il nesso stretto che collega l’economia alla politica, in modo tale da non lasciare nulla di intentato nello sforzo di riorganizzazione della classe contro l’apparato di potere che implacabilmente la domina.
Nel mese di giugno i giornali borghesi non hanno dato particolare risalto a scioperi e manifestazioni che hanno visto protagonisti lavoratori, in gran parte “invisibili”, appartenenti alla categoria più precaria e meno garantita: i lavoratori delle pulizie, un esercito di circa 450.000 proletari, in prevalenza donne e in numero sempre più crescente costituito da stranieri.
Questi lavoratori, trattati a volte come bestie, nelle ore in cui gli esseri umani riposano, sono alle prese con spazzoloni, scope, macchinari e prodotti chimici, non sempre conformi alle più elementari norme di sicurezza, per ripulire ospedali, banche, stazioni e aeroporti.
Sono divisi in più di 26.000 le imprese, di cui molte cooperative nate per uno sfruttamento ancora più intensivo. Diffusissimo è l’orario ridotto e i turni di lavoro spezzati. Il 96% dei contratti è a tempo determinato, definito magari, con notevole sforzo di fantasia, “a progetto”.
Ciononostante tutto questo al capitale non è sufficiente ed il padronato
avanza ai sindacati richieste di ulteriori sacrifici:
1) Abolizione dell’indennizzo per malattia per i primi tre giorni;
2) Abolizione della maggiorazione in busta paga per il sesto giorno
lavorativo;
3) Applicazione rigorosa della Legge 30 che legalizza ogni forma di
precariato;
4) Abolizione dell’Art.4 che obbliga le Società vincitrici di appalto
ad assumere il personale della precedente gestione;
5) Aumento del periodo di apprendistato da 18 a 48 mesi.
Va sottolineato che l’Art.4 non viene mai applicato perché gli appalti si vincono col massimo ribasso e quindi con la conseguente riduzione del personale e della paga.
Molti lavoratori parlano di continui ricatti da parte delle imprese che li costringono a piegare la testa con la minaccia del licenziamento.
Capita poi che l’appalto passi da una impresa “normale”, ad una Cooperativa ed in questi casi, per conservare il lavoro, viene chiesta ai lavoratori una quota di iscrizione anche di varie centinaia di euro.
Riguardo allo stipendio, quello medio di un “fortunato” con un contratto a tempo pieno è di 844 euro.
È a questo modello di lavoratori “non garantiti” che punta il capitalismo,
rafforzando tuttavia l’esercito di coloro che veramente non hanno più
altro da perdere che le proprie catene.
PAGINA 4
Sterilità
da Capitale
Il 24 marzo Papa Ratzinger, parlando ai vescovi europei convocati in Vaticano, attaccava i governanti riuniti a Berlino per le celebrazioni del 50° anniversario del Trattato di Roma, ritenuti troppo laici e orfani del magistero di Santa Romana Chiesa: «Se l’Europa dimentica i valori universali che il cristianesimo ha contribuito a forgiare, rischia l’apostasia”, Europa che, “senza equilibrio tra economia e società, sotto il profilo demografico sembra incamminarsi verso il congedo dalla storia”.
La Chiesa, e le sue Banche, ben conoscono e hanno ragione di lamentare il declino economico europeo, causa ed effetto delle fallimentari prospettive di crescita demografica. I dati sull’Europa a 25 prevedono che dai 457 milioni del 2006 si arriverà nel 2050 al di sotto dei 400 milioni di abitanti. Al contrario, la potenza cinese di giovane capitalismo, temibile concorrente nell’attrarre capitali finanziari, se ha avuto ed ha anch’essa i suoi gravissimi problemi demografici, rivive un baby-boom che nel 2040 dovrebbe portare la popolazione a 1,5 miliardi (In 30 anni nasceranno 4 Italie, titolava il “Corriere della Sera”). In Cina ogni anno la forza lavoro aumenta di 10 milioni di unità e il tasso di crescita del PIL è stato, l’anno scorso, del 10,3%.
Anche il Vaticano teme la penuria di nuovi nati, fattore gravissimo per il mercato del lavoro e per gli assetti industriali, finanziari, previdenziali, e sociali in genere, anch’essa spettro di una crisi che deve confermare alla borghesia la necessità della secolare e irreversibile collaborazione della Chiesa contro il proletariato. In tempo di smarrimento e miseria si torna ai “fondamenti”, e cosa di meglio del falso gioco fra clericalismo e laicismo per scansare il “fondamentalismo” comunista? Giustamente il Papa ricorda l’utilità controrivoluzionaria che può avere l’influenza ecclesiale in seno alla società civile e la forte ingerenza politica negli affari interni degli Stati. Ma, come la crisi del Capitale precede e determina la crisi dei Valori, non sarà una reprimenda dall’alto sulla bontà e necessità dei Valori, seppure cristiani, a risolvere quella e questa.
Le politiche nataliste degli Stati non sono impossibili né senza effetto, ma restano sempre di difficile attuazione e con risultati incerti e inevitabilmente a lunga distanza di tempo. Si veda ad esempio le campagne demografiche del fascismo in Italia o, a maggiore scala, quella del “figlio unico” in Cina, che ha provocato sconvolgimenti di enorme portata e che perdureranno ancora per molti decenni. Qui è da mettere in dubbio se le boccheggianti borghesie europee sarebbero oggi in grado di decidere ed imporre delle politiche demografiche, oltre a quella di regolare estemporaneamente il rubinetto dell’immigrazione.
Un convegno organizzato nel marzo 2006 dalla Fondazione Agnelli, per esempio, ha messo in luce quanto stia invecchiando la popolazione attiva, non rimpiazzata dalle leve giovanili: nei prossimi 15 anni la fascia centrale di popolazione in età di lavoro (20-59 anni) si ridurrà di 3.856.000 unità; in pratica, seguendo questa tendenza, la forza lavoro passerà dai 24 milioni di oggi ai 21 milioni del 2021. E i lavoratori non solo saranno di meno ma anche più vecchi: se oggi il rapporto tra lavoratori anziani (40-65enni) e quelli giovani (15-39enni) è di 1 a 1, nel 2021 è previsto di 3 a 2.
Non mandare in pensione un lavoratore anziano giova solo alla contabilità della previdenza sociale, ma per il Capitale è una risorsa “problematica” perché meno capace ad adattarsi ai cambiamenti e probabilmente meno produttivo. Il Capitale pretende carne fresca da spolpare e per questo le conclusioni di quel convegno promosso dall’alta borghesia sono state: necessità di definire nuovi criteri e nuove regole di accesso alla cittadinanza per gli immigrati, gli unici a poter compensare il calo di lavoratori giovani autoctoni.
In questo scenario, alcuni gruppi capitalistici si stanno adattando alla composizione anziana della forza lavoro: nelle fabbriche europee della Ford, per facilitare gli operai più vecchi ma specializzati, hanno introdotto sistemi di produzione ergonomica che evitino loro di doversi arrampicare sui nastri trasportatori! In Olanda, invece, hanno aperto delle agenzie di lavoro interinale per anziani, mentre in Giappone (dove si stima che ogni anno si perdano 740.000 unità all’anno per i prossimi 10 anni) Corporation come la Canon e la Mitsubishi riassumono i loro pensionati o li trattengono nei reparti.
Così la Chiesa è fermamente opposta ai tentativi di riforma nel “diritto di famiglia” che Stati tradizionalmente cattolici come Spagna o Italia, influenzati da forze “atee” e “laiciste”, stanno attuando per dare riconoscimento giuridico, ereditario e previdenziale a forme familiari diverse dal matrimonio. Anche qui è invertita la causa con l’effetto: il “matrimonio borghese”, di fatto, non esiste più. Già morto per i proletari e ridotto ad una ipocrisia, notoriamente, fin dal tempo del nostro Manifesto del 1848, per la borghesia, la sua rovina economica l’ha definitivamente seppellito tanto che oggi non gli sopravvive più nemmeno lo stabile ed elementare rapporto di coppia.
Ma dal punto di vista della sua bottega, il timore di Ratzinger per una Europa islamizzata dalle migrazioni è sicuramente fondato, in quanto si verrebbero a perdere dei “clienti” cattolici. I demografi con i loro studi ben chiariscono come i tassi di crescita della popolazione autoctona sono al di sotto della curva di mantenimento (2,1 figli per donna) e che lo spopolamento di Stati come l’Italia o la Germania sia evitato solo dai flussi migratori in ingresso. Questo fattore porta a un mantenimento numerico degli abitanti, ma ad una variazione delle sue componenti. Il tasso di crescita annuo dell’UE a 25 membri era del 4,2 per mille, ma solo lo 0,8 era dato dalle nascite, mentre il 3,4 proveniva dalle migrazioni.
Hanno una crescita naturale, cioè al netto delle migrazioni, negativa Stati come Germania e Italia. Consultando le statistiche, leggiamo che la media europea è di 1,47 figli per donna: sono meno prolifici Spagna (1,25) e Italia (1,26); quella che dovrebbe essere la locomotiva continentale, la Germania, ne fa 1,29; il Regno Unito 1,63; uno Stato additato come virtuoso per welfare state, la Danimarca, 1,74; i più prolifici dell’Unione risultano essere la Francia (dove però molti citoyens provengono dall’Africa o dalle Antille), che però arriva solo ad 1,90 e l’Irlanda con 1,98.
Per la metropoli italiana, dopo l’apice toccato nel 1964 con il baby boom del dopoguerra, si è avuto un trentennio di calo demografico, appena risollevato dopo il 1995 ma per l’apporto delle madri straniere immigrate, oltre che per la maternità in extremis delle italiane 35-40enni figlie del baby-boom degli anni ‘50; lo stesso Mezzogiorno del Paese, tradizionalmente fecondo, ha chiuso i cieli alle cicogne: basti pensare che una regione come la Puglia nel decennio 1995-2004 ha subito un 10% di calo.
A sentire i sociologi borghesi, all’interno della società civile italiana si sta verificando una mutazione psicologica in ampie fasce di donne in età riproduttiva: dicono che scelgono di essere “child-free” quelle più istruite, meno religiose, figlie uniche o con un fratello, che lavorano con passione, che sono arrivate ad un rapporto stabile sui 30 anni e che sono meno inclini a ipotesi stabilizzanti di un figlio. Questo perché verrebbe a mutarsi uno stile di vita di consumatore e l’arrivo di una culla avrebbe incidenza anche sul reddito.
Ma questa condizione accomuna tutte le metropoli europee. La percentuale di italiane 45enni senza figli è del 20%, in Germania e Gran Bretagna il 21%. Quello che allarma di più è che le italiane che rifiutano la maternità sono sempre di più nella fascia tra i 20 e i 30 anni: il 6%.
Se osserviamo la Germania, le prospettive non sono meno allarmanti: nel 2006 i nati sono solo 676.000, mai così pochi dal 1945. I sociologi tedeschi lo descrivono come un Paese che rischia lo spopolamento; ad Est, poi, sarebbe in corso una catastrofe demografica: città grandi come Halle, Magdeburgo o Dessau si sarebbero dimezzate, gli appartamenti vuoti sarebbero 1.500.000. Anche nei Lander occidentali di bambini ne nascono pochi e gli spazi vuoti sono colmati dall’immigrazione: si gonfiano città come Monaco, Amburgo, Francoforte e Dusseldorf, ad Est Lipsia e Dresda, ma si svuota la provincia. Perfino sono tornati i lupi nelle foreste per lo stato di abbandono del territorio. Anche la regione occidentale della Ruhr, in crisi industriale, è colpita dalla disoccupazione e presenta gli stessi sintomi di spopolamento della ex Ddr. Il demografo tedesco Herving Birg, docente all’università di Bielefeld, su “La Stampa” del 9 aprile 2006 commenta che la tendenza è cominciata negli anni ‘70, con l’avvento della contraccezione chimica femminile e dell’aborto legalizzato: questi dispositivi «hanno permesso alle donne di scegliere la maternità. Ma loro in massa hanno scelto il lavoro».
Borghesi e chierici quindi accusano di edonismo, individualismo ed egoismo la donna contemporanea, emancipata, che lavora, usa la pillola e che non vuole fare figli; mentre i maschi sarebbero dei soggetti irresponsabili ed immaturi per la paternità. Ma questo ritrattino psicologico non può non avere delle radici materiali. Se le nuove generazioni si aggrappano disperatamente al “benessere” è perché avvertono quanto sia effimero e precario. Un figlio ha un forte impatto economico e riduce drasticamente la possibilità di sopravvivere di espedienti, com’è la realtà della maggioranza delle giovani generazioni di proletari.
A dover essere condannati non dovrebbero essere i costumi “deviati” di una giovane generazione debosciata ed individualista, ma la presente fase senile del capitalismo in Occidentale, in tutto decadente, nell’apparato strutturale dell’economia e nelle sovrastrutture del costume e della cultura, incapace di tendere una rete di protezione assistenziale, instauratore di rapporti economici che implicano estrema incertezza per il futuro. Questa decadenza ha come risultato, tra i vari, di aver reso l’Europa un continente sterile.
L’impedimento alla vita umana che discende da questi fattori, perdurando il capitalismo, non potrà che aggravarsi, fino a dirompere nel bagno di sangue della guerra generale, rigeneratore per il capitalismo.
Per dirla con Engels, «la grande maggioranza della società capitalistica è appena protetta, e spesso non lo è affatto, dall’estrema indigenza. Questo stato di cose diventa di giorno in giorno più assurdo e più inutile. Esso deve venire eliminato, esso può venire eliminato. Un nuovo ordine sociale è possibile, nel quale spariranno le attuali differenze di classe e nel quale – forse dopo un breve periodo di transizione, un po’ travagliato, ma ad ogni modo molto utile dal punto di vista morale – grazie all’utilizzo secondo un piano e all’ulteriore sviluppo delle esistenti immense forze produttive di tutti i membri della società, ad un uguale obbligo di lavoro corrisponderà una situazione in cui anche i mezzi per vivere, per godere la vita, per la educazione e lo sviluppo di tutte le facoltà fisiche e spirituali saranno a disposizione di tutti, in modo uguale e in misura sempre crescente» (Introduzione a “Lavoro salariato e capitale”).
Per la cura dei figli, nella sua opera “Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, Engels prevede scientificamente che, «col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l’unità economica della società. L’amministrazione domestica privata si trasforma in una industria sociale. La cura e l’educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse; la società ha cura in egual modo di tutti i fanciulli, legittimi e illegittimi. E con ciò cade la preoccupazione delle “conseguenze”, la quale oggi costituisce il motivo sociale essenziale – sia morale sia economico – che impedisce ad una fanciulla di abbandonarsi senza riserve all’uomo amato».
Solo nel comunismo ci sarà un progresso vero e duraturo, senza il terrore
di mettere al mondo nuovi nascituri.
Il 30 maggio a Taranto diversi reparti del proletariato sono scesi in piazza per rivendicare lavoro e salario, mostrando il volto del suo proletario, a dispetto di tutte le letture sociologiche che ne predicano l’estinzione.
La città ionica è da mesi scenario di diverse lotte operaie, riconducibili essenzialmente al dissesto finanziario del Comune, cosa che ha portato alla rovina le aziende terze incaricate dello svolgimento di numerosi servizi (molte in modo illegale). Ma nel ventre della città si agitano diversi altri movimenti, dato lo stato di crisi in diversi appalti. Più che altro è la stessa esternalizzazione di lavori che porta a crisi cicliche, in quanto il rinnovo degli appalti spesso determina nuove aziende aggiudicatrici, con conseguente perdita di posti per il personale addetto nella precedente gestione, oppure rideterminazione di livelli salariali e monte ore.
Questo scenario è stato esplosivo per i servizi comunali, ma è ben presente ovunque, tanto a livello di pubblica committenza, quanto della grande industria privata.
L’attualità descrive proletari, che avevano trovato una collocazione come salariati in servizi di facchinaggio, pulizia, cimiteriali, ora sono di fronte al baratro di una nuova disoccupazione. Sono questi lavoratori che mostrano più energia nella lotta. Ma altri e diversi focolai di crisi mettono in movimento anche gli operai dell’industria.
Due diversi cortei hanno paralizzato il centro cittadino per ben 10 ore, bloccando il traffico: uno era quello dei lavoratori dell’appalto dell’Arsenale Militare, quindi metalmeccanici specializzati, che, in fila indiana e incordati, hanno sciamato dallo stabilimento militare fino alla Prefettura, rivendicando il pagamento della cassa integrazione guadagni, il cui primo pagamento è in ritardo di sette mesi. I fondi sarebbero stati stanziati ma restano bloccati per pastoie burocratiche.
L’altro e più invadente corteo è stato quello dei lavoratori dell’appalto delle pulizie scolastiche: i lavoratori l’indomani avrebbero iniziato un nuovo rapporto di lavoro con la nuova ditta appaltante che, per conservare i livelli occupazionali a fronte del ribasso con cui si è aggiudicata la fornitura dei servizi, ha dimezzato il monte ore giornaliero e quindi il salario: chi lavorava 4 ore ne lavorerà 2, chi 3 passerà ad una soltanto.
Questo ha spinto una inferocita platea di lavoratori ad occupare il centrale Ponte Girevole per 10 ore, con conseguente paralisi del traffico veicolare e impedendo la navigazione nel sottostante Canale ad una unità della Marina. Le forze di polizia non sono intervenute. La manifestazione, in queste forme, è stata spontanea e sfuggita di mano ai sindacati, tutti presenti con loro esponenti. I due candidati sindaco al ballottaggio, entrambi di sinistra, si sono affacciati sul Canale Navigabile per cercare di dissuadere i lavoratori ma hanno ricevuto ostile accoglienza e se ne sono presto andati.
La lotta ha ottenuto dei significativi risultati: dapprima, si era deliberato che il Ministero della Pubblica Istruzione prorogasse per altri 10 giorni l’appalto precedente, con i relativi trattamenti salariali. Successivamente, seppure il nuovo appaltatore, un’azienda di Bergamo a capitale tedesco subentrante ad un gruppo di aziende locali, non fosse intenzionato a rivedere le sue politiche salariali, nei palazzi romani è stato raggiunto un accordo che vede sì l’orario lavorativo ridotto come pretendeva l’azienda ma a salario invariato in quanto la differenza salariale verrebbe erogata anticipando la Cassa Integrazione dall’Inps. Ovviamente la soluzione è solo temporanea perché in futuro, quando le provvidenze assistenziali saranno terminate, tutti i problemi si ripresenteranno aggravati.
Ma la Taranto operaia movimenta le cronache anche per altri motivi.
Ilva - Nella stessa giornata del 30 maggio, altri 400 lavoratori, quelli del centro siderurgico, precisamente del “Tubificio 2”, sono stati messi in libertà dalla direzione della fabbrica perché, per sversamento in mare di olio combustibile, la Procura ha sequestrato lo stabilimento e il padrone li ha mandati a casa senza paga finché non si rimuove il guasto agli scarichi. Gli stessi operai erano già stati obbligati a prendere le ferie nel periodo occorrente una manutenzione straordinaria.
Nella stessa Ilva, durante una fermata degli impianti, un giovane operaio 19enne dell’appalto era rimasto ucciso per un incidente occorso il 2 giugno quando dai 20 metri di altezza di un altoforno era sfuggita la testa di un martello che lo colpiva sul cranio; in luglio ad un altro operaio dell’indotto, per un altro incidente, sono state amputate le gambe.
Raffineria Eni - Agli inizi di luglio, otto camionisti di una azienda del gruppo addetta al trasporto dei carburanti, lottano contro il progetto di cessione del ramo d’azienda ad un privato, la Sud Service, cosa che comporterebbe la perdita di molte garanzie legate ai livelli salariali (inquadramento dal CCNL energia a quello del trasporto) e ai diritti (ivi compreso la conservazione dello stesso posto di lavoro, essendo la società subentrante inferiore ai 15 dipendenti). Con lo sciopero hanno determinato il mancato rifornimento di carburante a numerose stazioni di servizio in Puglia, Basilicata e Calabria, costringendole alla chiusura. Lo sciopero è stato sospeso, perché la vertenza, spostata nei palazzi romani, troverà una indecorosa soluzione: 6 su 8 saranno pensionati.
Teleperformance - Il 28 giugno, nel periodo della prima ondata di anticiclone africano, un guasto all’impianto di raffrescamento del grande call-center ha causato la diffusione in un’ala dello stabilimento di vapori di olio intossicando 30 operatori, di cui 3 donne in gravidanza, con relativi ricoveri ospedalieri. Durante la fuga generale verso l’esterno, pare che i “supervisori” (capetti che guadagnano qualche monetina in più all’ora) abbiano scongiurato ai lavoranti di restare alle postazioni per continuare a rispondere alle telefonate, nell’aria irrespirabile.
Braccianti - Il 7 luglio una cinquantina di braccianti agricoli in agro di Castellaneta, impegnati nella viticoltura, sono rimasti intossicati per esalazioni di anticrittogamici spinti dal vento, provenienti da un appezzamento agrumicolo limitrofo dove si irroravano senza troppe cautele nuvole di pesticida.
Primo Maggio alla giapponese - Alla Bridgestone di Bari la “festa dei lavoratori” è stata usata dall’azienda per tenere in fabbrica operai con famiglia, nel giorno della “Fabbrica Aperta”, per celebrare l’avvio di un nuovo impianto per la produzione di mescola di gomma, alla presenza del vice-presidente europeo del gruppo, Hiroshi Hasegawa. Quella che una volta era una giornata in cui i lavoratori richiedevano maggiori diritti, oggi viene usata dal padrone per scopi di rappresentanza, quando va bene.
Il salottificio Natuzzi attacca i lavoratori - La crisi dell’industria del mobile imbottito è dovuta a difficoltà delle imprese a restare competitive sui mercati del dollaro per il rafforzamento dell’Euro e i minori acquisti negli Usa. Ne segue la chiusura di stabilimenti o la riduzione di occupati. Per non dare segnali negativi agli investitori di Wall Street dove il titolo Natuzzi è quotato, per non attivare la cassa integrazione, si è imposto agli operai di consumare forzatamente le ferie attuali e quelle future! Nelle Murge i sindacati, che mai avevano fatto scioperare contro Natuzzi il buono, sono stati costretti a indire due diversi giorni di sciopero. Natuzzi ha ignorato i sindacati diramando tra i lavoratori un “questionario” e convocandoli in una convention a Bari dove in un monologo di due ore si è mostrato filantropo ma inflessibile nei tagli.
Sciopero alla Elettrolux per il gran caldo - Il 20 luglio sciopero di 4 ore alla Elettrolux dove il caldo insopportabile nei capannoni, i ritmi intensi di lavoro, svenimenti e l’assenza di misure adeguate per ventilare la fabbrica, ha indotto gli operai allo sciopero. I lavoratori hanno reagito alla mancanza di sensibiltà padronale, che di fronte alle torride temperature di luglio, nulla ha fatto per rendere sopportabile l’ambiente di lavoro.
Ad una classe operaia incapace di organizzarsi efficacemente sul piano sindacale corrispondono spesso dei duri attacchi da parte del fronte padronale. Ancora una volta le diverse vertenze non riescono a trovare un coordinamento nemmeno cittadino. Manca tragicamente una vera Camera del Lavoro che sappia unificare le lotte e nella quale possa domani intervenire l’indirizzo del comunismo rivoluzionario.