Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 321 - dicembre-gennaio 2007 [.pdf]
PAGINA 1 L’imbroglio del TFR: FAR INVESTIRE GLI GNUDI
La collisione nello Stretto di Messina
CONFERENZA PUBBLICA - Iraq-Libano-Palestina: Per la rivoluzione proletaria, fuori da ogni resistenza nazional-popolare - L’indirizzo comunista internazionalista
PAGINA 2-3 Riuscitissima riunione di partito a Sarzana, 20-21 gennaio  [RG97]: L’ANTIMILITARISMO DI CLASSE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE - STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO AMERICANO (3) - LA QUESTIONE EBRAICA - CORSO DELL’ECONOMIA CAPITALISTA - BILANCIO DELLA "RIVOLUZIONE" IN IRAN - LA QUESTIONE MILITARE
PAGINA 4 La storia italica nello specchio deformante della sua ideologia (VI - Indice dei capitoli): La pretesa intesa storica tra borghesia illuminata e aristocrazia operaia
– I troppi nemici dei comunali di Taranto

 
 
 
 

PAGINA 1


L’imbroglio del TFR
FAR INVESTIRE GLI GNUDI

In questi giorni i Sindacati confederali tengono assemblee nelle fabbriche per informare i lavoratori sulla riforma del Trattamento di fine rapporto e per convincerli ad aderire ai Fondi Pensione, soprattutto a quelli cosiddetti chiusi, a gestione sindacale, per costituirsi una pensione integrativa, dicono, che permetta loro una vecchiaia più serena.

Tutte le successive leggi di riforma delle pensioni che si sono avute in Italia, attuate alternativamente da governi di destra e di sinistra, si fondano su di un progetto a lunga scadenza redatto fin dal 1989 dal sindacalista Marini, promosso allora a Ministro, e sono state tutte condivise ed appoggiate dai sindacati di regime. Questo traghettamento si è attuato nelle Riforme Dini, Treu, Maroni e continuerà con la prossima che il governo sta in gran segreto per varare, ancora una volta con l’appoggio, almeno di fatto, dei sindacati confederali.

Gli stessi documenti che i sindacalisti utilizzano per convincere i lavoratori ammettono che la necessità di integrare la pensione è sorta dopo l’andata a regime della riforma Dini del 1995, che ha cambiato il sistema di calcolo dall’allora retributivo a quello contributivo, «riducendo così, in alcuni casi anche notevolmente, il valore delle future pensioni». E, conclude la stessa CGIL, «la differenza tra i due sistemi di calcolo è sostanziale in quanto con il sistema retributivo il valore della pensione viene calcolato indipendentemente dal valore dei contributi versati, ma considerando il numero degli anni di contribuzione e prendendo a base la media della retribuzione degli ultimi dieci anni. Per il sistema contributivo invece viene preso come base per il calcolo tutto l’arco della contribuzione (35 anni o più). Essendo la contribuzione versata proporzionale allo stipendio percepito, tanto più si discosterà (causa l’inflazione o altri fattori concomitanti) il primo stipendio dall’ultimo, tanto minore sarà il valore della pensione rispetto all’ultimo stipendio». Mentre col sistema retributivo la pensione è pressoché uguale all’ultimo stipendio percepito, col sistema contributivo, in cui rientrano tutti coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il gennaio 1996, essa avrà «valori intorno al 50%» di quelli attuali.

Se si aggiunge che i lavoratori più giovani spesso non hanno un lavoro continuativo e dunque nemmeno contributi, che i loro stipendi sono in genere molto bassi, soprattutto nei primi anni, si vede che le pensioni per la maggioranza dei proletari saranno assolutamente insufficienti alla sopravvivenza.

Quindi, possiamo concludere che la riforma delle pensioni è oggi già stata attuata, la borghesia potendo appoggiarsi sul tradimento (sì, è questa la parola) dei sindacati di regime e approfittando della contingente debolezza del movimento di difesa operaio, disorganizzato e flagellato dalla crisi economica.

Come abbiamo dimostrato con dettagliati conteggi nell’arco ventennale della sua attuazione, questo organico piano di attacco borghese alla classe operaia in Italia comporta una drastica riduzione della massa salariale, essendo la pensione nient’altro che salario differito, quanto sarebbe necessario che ogni lavoratore accantonasse mensilmente in proprio per il suo sostentamento quando non sarà più impiegabile.

Nel modo di produzione antico gli schiavi non più atti alla fatica, per vecchiaia, infortunio o malattia, venivano abbattuti. Il capitalismo invece, fondato sulla mistica dell’individuo-cittadino, se ne vergognerebbe, un poco. Non a caso non riesce a liberarsi dalla tentazione per la... eutanasia.

Nel secolo scorso gli Stati borghesi, nel quadro ideale sia dell’organicismo fascista sia di quello socialdemocratico-stalinista, convergenti nello stesso fine, la ricerca utopica di un capitalismo razionale, hanno accentrato fra le funzioni di uno Stato-leviatano anche la previdenza per la classe operaia: non più la classe lavoratrice avrebbe potuto esigere dai capitalisti una maggiorazione sulle paghe necessaria allo scopo, ma quella quota lo Stato l’avrebbe prelevata dai salari (è ininfluente se dalla contabilità del padrone o da quella dell’operaio) e trasformata immediatamente in Capitale. Evidentemente si tratta di una massa di valore enorme e di grande impulso allo sviluppo dell’accumulazione e dei profitti.

In questo meccanismo il proletario resta proletario. Quello che l’ente statale di previdenza sottrae dal salario mensile non si configura come capitale, tanto che alla fine della vita attiva al lavoratore viene corrisposta una pensione periodica, ma non ne riceverà mai indietro il montante. E la pensione non è ricevuta né calcolata come la rendita di un dato capitale accumulato, investito a dato tasso di interesse (fatti i conti sarebbe di molto inferiore) ma come salario differito, frutto di anni di lavoro, non di risparmio.

Inoltre, nello stesso spirito di equa ripartizione della miseria proletaria, che ha caratterizzato un certo razionalismo capitalista novecentesco, diciamo fordista, l’obbligatorietà dei versamenti e le prestazioni relativamente uniformi sembravano strumenti migliori per garantire la pace sociale ed un ordinato rifornimento e ricambio operaio nelle fabbriche. Alcune delle rivendicazioni classiche del programma socialista ottocentesco, post mercantile e post capitalista, di fatto, saranno nel Novecento realizzate, a scopo invertito di conservazione invece che di rivoluzione, ad opera del nemico di classe, in ambiente mercantile e imperiale capitalista. Ma nessuno allora, tranne noi marxisti, ne avrebbe messo in dubbio la fragilità e reversibilità, prima e dopo che cotanta razionalità capitalista venisse a culminare e a trovare massima applicazione planetaria nei campi e sui mari della Seconda Guerra.

Perché quindi questa oliata macchina, così utile alla classe dominante, negli ultimi decenni del secolo scorso ci si sforza oggi da parte borghese in tutti i paesi pezzo a pezzo di smantellare? Semplicemente perché, sempre in misura maggiore, «il capitale non riesce a mantenere i suoi schiavi», e quindi, per la difesa del saggio del profitto, è costretto a ridurre i salari, quelli correnti e quelli differiti. A ridurre cioè i salari molto al di sotto del loro valore.

Questa sregolatezza, questo si salvi chi può, rispetto alle precedenti prevenzioni statali per il Lavoro, è sì il fallimento di una utopia borghese, ormai da più di mezzo secolo fatta propria e alimentata da ogni opportunismo socialdemocratico, stalinista e post-stalinista, ma in realtà vi si deve riconoscere la regolarità del modo di produzione capitalistico il quale, nel momento della sua crisi, come una potenza infernale torna ad erompere da sottoterra dove si pretendeva di tenerlo celato, per esigere da una umanità lavoratrice spaurita e disorientata il suo tributo fatto di sacrifici umani, di miseria e di insicurezza permanente.

Questo è il capitale vero, sempre lo stesso sotto tutti i regimi, incontenibile macchina di distruzione e rivoluzione. Questo va abbattuto.

Ogni consolidato punto di riferimento e ogni abbellimento di questa società in disfacimento crolla su sé stesso e disvela l’inganno.

La garanzia di una vecchiaia decente non esiste più, come tutti gli altri diventa un problema individuale del singolo lavoratore. Nel capitalismo ognuno è solo, solo nasce, vive e muore. Una volta ridotta la questione ad un fatto individuale di ogni singolo lavoratore la classe dominante ha già vinto perché la forza dei lavoratori sta solo nella loro unità, nella loro forza organizzata.

In questo scenario di miseria da ogni lato, ecco che un rumoroso apparato mediatico impone all’attenzione la trovata della riforma del TFR. Le future pensioni operaie saranno ridotte, lo dicono loro, alla metà. Già, è un problema... Ma che investano, gli operai, per dio! Ma cosa investire, quando i salari dei proletari, quelli che lavorano, sempre meno bastano per vivere? Vediamo, vediamo... Il TFR, c’è rimasto il TFR! Che lo investano!

In realtà, però, il TFR è già investito, è già sbloccato, nei conti disponibili delle aziende. Ecco che capitalisti, Stato, Fondi sindacali e Finanziarie si mettono ad organizzare una bella giostra, un giro di conto fra di loro. In ballo c’è una gran massa di valore con la quale, così concentrata, ci s’illude di poter meglio agguantare qualche percento decimale di sovraprofitto spostandola in giro per il Mondo là dove il capitalismo ancora respira.

Al lavoratore come individuo si viene quindi a proporre la scelta se e come investire il suo TFR, facendogli credere che possa così recuperare qualcosa di significativo della decurtata pensione, piuttosto che lasciando le cose come stanno: se vuole, può investire una parte del suo salario per costituirsi una rendita vitalizia.

In realtà si adescano i singoli lavoratori per una lotteria. E tutti sanno che nelle lotterie a vincere è sempre il banco. I sindacati confederali spingono i lavoratori ad aderire ai Fondi perché, se c’è una cosa certa in questa operazione, è che a guadagnarci saranno sicuramente i gestori: i carrozzoni confederali, all’americana, si trasformeranno in grandi finanziarie e ne trarranno grassi guadagni. Un loro motivo in più per evitare la riorganizzazione reale della classe operaia sul suo terreno di classe, che possa infrangere quella "pace sociale" di cui sono ad un tempo i sacerdoti ed i beneficiati.

I sindacati di base invitano invece i lavoratori a non aderire ai Fondi, a mantenere i soldi nell’azienda. Difficile davvero individuare, nell’imbroglio delle alternative, quella meno-peggio.

Di sicuro, con questo sporco giochetto, la classe dominante ottiene questi risultati:
1. Non caccia un soldo (dopo aver scippato la metà delle pensioni).
2. Sposta le aspettative operaie dalla necessità dell’organizzazione e della lotta collettiva di classe costringendo il singolo ai calcoletti e trappole della finanza, davanti alle quali si presenta solo, impreparato e indifeso come un micro-capitalista.
La classe operaia cosciente non ha da imitareinvidiare la piccola borghesia e i suoi meschini risparmi che non la salveranno dalla rovina: giustamente la disprezza come classe che nella crisi nemmeno ha le capacità potenziali di difendersi e di reagire che invece possiede il proletariato organizzato.
3. Ancora più di quando il salario differito era amministrato dall’azienda o dallo Stato, la sicurezza di ottenerlo realmente dipende dalle alternative delle crisi delle borse e delle monete mondiali, le cui nubi tempestose tutti vedono addensarsi all’orizzonte e danno per certe.

La risposta proporzionata all’attacco padronale non potrebbe essere che: riorganizzazione sindacale di classe per lottare per la reale difesa delle condizioni di vita e di lavoro di tutta la classe operaia, e soprattuto dei suoi reparti più sfruttati e peggio pagati.
 
 
 
 
 
 
 
 


La collisione nello Stretto di Messina

Sin dai tempi antichi è nota la pericolosità delle acque dello Stretto di Messina, con correnti capricciose e gorghi prodotti dai venti e dalle maree, tanto che si formò nell’immaginario degli uomini il mito delle mostruose creature di Scilla e di Cariddi, che, celate in antri marini sulle opposte sponde, fameliche divoravano gli sventurati naufraghi.

Oggi nello Stretto un enorme traffico commerciale si incrocia con quello passeggeri: Reggio Calabria e Messina per molti aspetti sono un unico agglomerato urbano separato dal breve braccio di mare attraversato ogni giorno da migliaia di persone per motivi di lavoro e di studio. A Messina c’è un policlinico e una antica e prestigiosa università, a Reggio l’aeroporto e la facoltà di architettura. Si conta che nelle 24 ore sono circa 150 le corse di traghetti, di tre diverse società armatoriali, che varcano lo Stretto e da 20 a 50 i mercantili che dallo Ionio penetrano nel Tirreno o viceversa. La presenza del terminal container a Gioia Tauro e l’apertura della "autostrada del mare" Salerno-Catania alimenta sicuramente il traffico lungo quelle rotte.

Dopo le tante collisioni avvenute negli anni, dal 1985 si è dovuto imporre il pilota a bordo durante il transito per le navi superiori a 10.000 tonnellate.

Il 15 gennaio alle 17.53 l’aliscafo Segesta Jet della Bluvia, del gruppo FS, con 151 passeggeri a bordo, partito da Reggio Calabria e diretto a Messina è entrato in collisione con la nave portacontainer Susan Brochard, di un gruppo armatoriale tedesco ma battente bandiera di Antigua e con comandante russo: l’impatto violento causa la morte di 4 dei 6 uomini dell’equipaggio e di 100 feriti tra i passeggeri. La prua del mercantile ha squarciato la plancia di comando del monocarena, le cui lamiere hanno dilaniato le carni dei marittimi che lì si trovavano per la conduzione del natante. Ad aver perso la vita sono stati espertissimi uomini di mare, anche impegnati nei sindacati: il comandante, il direttore di macchina, il motorista e un marinaio. Se l’urto avesse coinvolto l’imbarcazione pochi metri più al centro, dove si affollavano i passeggeri, il bilancio di perdite umane sarebbe stato assai peggiore.

Ancora, a distanza di tempo, non sono note le cause precise dell’incidente, sebbene si siano insediate diverse commissioni di indagine. Dai primi dati a disposizione sappiamo che in quel giorno le condizioni meteo-marine erano ideali per la navigazione, e che in quel tratto di mare incrociava, oltre alle due imbarcazioni coinvolte, anche una terza, il traghetto Zancle del gruppo Tourist-Caronte. Il Segesta portava una velocità di 22,3 nodi e che tanto questa quanto la rotta erano rimaste costanti sin dall’uscita del porto di Reggio, mentre la Susan Brochard al momento dell’impatto era quasi ferma, dopo aver diminuito la velocità che era di 17-18 nodi. Il comandante dell’aliscafo, dopo aver fatto sfilare in senso contrario alla sua marcia il traghetto della Caronte, non si sarebbe accorto di avere sulla dritta a prua la portacontainer e da qui la collisione? O forse i motori dell’imbarcazione monocarena delle FS si sono spenti all’improvviso, riducendola ad un bersaglio impossibile da evitare nel bel mezzo del mare?

Quello che è certo è che il sistema di sicurezza approntato per la navigazione nello Stretto è molto carente. Esiste un sistema di telerilevamento radar, il Vessel Traffic Service, composto da 4 radar e 4 radiogoniometri dislocati sulle due sponde e collegati alla collina messinese di Forte Ogliastri, dove c’è un centro di controllo della Guardia Costiera. È in funzione dal 1992 ma è ancora, dopo 15 anni, "in fase sperimentale". Inoltre, da allora non stato più migliorato e quindi non è attrezzato per fornire subito il nome della nave rilevata, necessario per lanciarle un avviso. Per di più solo il giovedì viene tenuto in funzione per le 24 ore, gli altri giorni della settimana, per i noti motivi di "razionalità" capitalistica, è operativo solo fino alle 17.30. Quindi al momento dell’incidente lo avevano già spento da 23 minuti!

I limiti del sistema hanno fatto preferire alla Capitaneria di Porto di Messina l’adozione di un altro sistema, di tipo satellitare, l’AIS che, invece, permetterebbe di identificare il nome delle navi in transito. Solo che ancora non ha raggiunto la sua piena capacità operativa.

Al capitale importano le commesse degli impianti: una volta consegnati e intascato il prezzo, che siano utilizzati davvero e in modo acconcio e ben manutenuti non importa più a nessuno. Anzi, si ha interesse a che funzionino al peggio possibile e che si rovinino per giustificare una nuova commessa: qualsiasi apparecchiatura, appena installata, deve diventare immediatamente inefficiente ed "obsoleta". Anche così il Capitale distrugge il lavoro passato.

L’industria dei trasporti ha le sue ferree necessità dettate dal Capitale che, per una maggior celerità di rotazione delle merci, impone ritmi frenetici tanto in mare quanto nelle operazioni portuali di carico e scarico. L’emergere delle economie dell’Estremo Oriente, con la Cina opificio del mondo, fra i vari effetti ha certo incrementato di molto i traffici marittimi, aumentandone la pericolosità, sempre con le macchine a tutta forza con tutte le condizioni meteo e con equipaggi sottopagati, sottodimensionati e soprasfruttati.

Il capitale, nonostante il perfezionamento della tecnica, non è in condizione di trarne vantaggio, se non nel senso del profitto e non in quello della sicurezza dei lavoratori. Lo stesso si comprova in tutti i settori, in particolare nei trasporti, come nelle ferrovie, e si risparmia su apparecchiature talvolta davvero banali.

Nel comunismo, invece, con una ripartizione meno folle del lavoro e delle produzioni in tutti i paesi, diminuirà drasticamente, forse a qualche percento rispetto ad oggi, la massa dei prodotti, non più merci, trasportate. E, non premendo più il calcolo della rotazione del capitale, l’odierno mito della velocità apparirà come il simbolo di una trascorsa sfortunata umanità che aveva smarrito ogni controllo sulla sua vita e sui suoi ritmi e tempi. Forse, come all’inizio della marineria, certe rotte si percorreranno solo in dati periodi dell’anno, secondo le correnti, i venti, le maree e... la dolce stagione.
 
 
 
 
 
 


Iraq - Libano - Palestina
Per la rivoluzione proletaria, fuori da ogni resistenza nazional-popolare
L’indirizzo comunista internazionalista

CONFERENZA PUBBLICA

Firenze, Borgo Allegri 21/r, Sabato 10 marzo 2007, ore 17.30
 

In molti dei paesi arabi il proletariato può vantare sane tradizioni di lotta di classe, sia sul piano della sua difesa sindacale contro il padronato sia sul terreno politico e dei metodi insurrezionali. Ma le sue lotte coraggiose non hanno mai potuto superare la rivolta, sempre repressa nel sangue.

Uno dei fattori che hanno impedito l’affermarsi di un processo rivoluzionario comunista nei paesi del Nord Africa, come in Siria o in Iraq, è stata certamente la imposizione da parte dallo Stalinismo della falsa prospettiva della cosiddetta Rivoluzione per Tappe.

Questa falsa indicazione politica, propagandata sia dai Partiti comunisti dei Paesi coloniali sia di quelli imperialisti, finalizzata agli interessi capitalistici della Russia e non del socialismo, ha imposto e impone al proletariato di rimandare ad un futuro indefinito la lotta per il socialismo e di battersi invece, a fianco dei partiti borghesi, per l’avvento di un regime nazionalista, democratico, costituzionale.

Il proletariato, che non ha patria perché ovunque è sfruttato e oppresso, non ha neppure "amici" o "alleati" nella sua lotta per l’emancipazione. Il suo nemico è, in primo luogo, la borghesia del proprio paese che, come nell’Iraq di Saddam, non ha esitato a mandarlo al macello nella guerra contro l’Iran, poi in quella per il Kuwait, per poi chiamarlo prima ad una impossibile difesa del regime contro la coalizione occidentale e poi alla "resistenza contro l’occupante".

La classe operaia internazionale, ha una sola strada da seguire:
- Lottare esclusivamente per la difesa dei propri interessi immediati e non per i falsi obiettivi interclassisti di libertà e di democrazia, che servono solo a mascherare la dittatura della borghesia.
- Confidare solo nella propria emancipazione economica e sociale, nel Comunismo, conseguente all’abbattimento del potere politico della classe borghese.
- Organizzarsi in opposizione alla classe e agli Stati borghesi nei sindacati di classe e nel partito comunista, questo, dalla sua nascita, unico e internazionale.
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2-3


Riuscitissima riunione di partito a Sarzana
Party Meeting at Sarzana
20-21 gennaio 2007
[RG97]


L’ANTIMILITARISMO DI CLASSE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE [Resoconto esteso] Working Class Anti-militarism and the First World War
STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO AMERICANO (3) Dopo la guerra d’indipendenza [Resoconto esteso] History of the American workers’ movement [ full report ]
LA QUESTIONE EBRAICA: (7) Davar, Dire e Fare [Resoconto esteso] The Jewish Question
CORSO DELL’ECONOMIA CAPITALISTA Course of the capitalist Economy
BILANCIO DELLA "RIVOLUZIONE" IN IRAN Balance sheet of the Iranian “Revolution”
LA QUESTIONE MILITARE [Resoconto esteso] The Military Question El marxismo y la questión militar

 

Organizzata premurosamente da un incrollabile compagno apuano, al quale va la nostra unanime ammirazione, abbiamo potuto tenere la riunione invernale del partito a Sarzana, alloggiati in un comodo piccolo albergo e con la disponibilità di una sala tranquillissima, con vista sul fiume Magra proprio là dove fra i monti sfocia al mare. La sistemazione, apprezzata da tutti, oltre che godibile per l’ambiente e la mite stagione, ci ha consentito di lavorare indisturbati e concentrati e senza il minimo perditempo.

Il sabato mattina, come di consueto, è stato dedicato alla organizzazione delle nostre diverse attività, il sabato pomeriggio e la domenica all’esposizione dei numerosi rapporti, tutti di argomento assai impegnativo ed importante.

Come da sempre abbiamo curato che tutto il nostro lavorare, oltre che non innovativo e coerente alla dottrina, sia ben annodato, con relazioni fra loro volte e serrate né possa mai essere né dare la sensazione che l’una sia ad indebolire invece che a rafforzare l’altra. La conservazione e la possibilità di riproduzione di una simile attività di partito richiede e determina la presenza di questa atmosfera adatta, che ci sforziamo di mantenere anche all’interno della attuale minima compagine militante, "ferocemente antiborghese" ed "a contatto con la classe operaia", quella di ieri e quella di oggi.
 

L’ANTIMILITARISMO DI CLASSE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Il primo rapporto, sull’antimilitarismo, si è sviluppato nella descrizione del comportamento del Partito Socialista Italiano a partire dallo scoppio della guerra fino alla conferenza di Zimmerwald. In questo ci si è avvalsi di un largo utilizzo di citazioni sia dei dirigenti del PSI, sia della II Internazionale e, soprattutto, di Lenin. Citazioni che saranno inserite nella pubblicazione completa del rapporto.

Al momento dello scoppio della guerra, nell’agosto 1914, l’Italia pur facendo parte di una delle due coalizioni militari in conflitto, dichiarò la sua neutralità. Questa, però, non era dettata da una volontà di pace fra gli Stati, bensì dal carattere ambiguo che ha sempre contraddistinto la stracciona borghesia italiana la quale, prima di gettarsi in una guerra che riteneva indispensabile fare per i suoi interessi capitalistici, voleva, altresì, mettere in vendita al migliore afferente il proprio intervento e, allo stesso tempo, essere sicura di poter far sedere un proprio rappresentante al futuro tavolo della pace: cioè schierarsi dalla parte del vincitore.

L’ambiguità della classe dominante italiana determinò all’interno del Partito Socialista un’apparente unità di intenti tra le diverse correnti che lo componevano, tutte quante dichiaratamente contrarie all’entrata dell’Italia in guerra.

Ma la domanda che i rivoluzionari fin da allora si posero fu questa: davvero tutto il Partito Socialista, a prescindere dalle sue diverse tendenze, si sarebbe schierato apertamente ed in maniera classista contro la guerra? A prima vista poteva sembrare così; basti leggere quanto scrivevano perfino i destri sulla "Critica Sociale" con affermazioni di principio che sembravano abbastanza in linea con la dottrina marxista.

Ma l’abbastanza significa che manca qualche cosa e quel qualche cosa mancante veniva costantemente usato come un cuneo per introdurre l’interventismo all’interno del partito. E se non passò l’aperto interventismo, che forse sarebbe stata migliore soluzione, tante altre cose però passarono.

Era contro la guerra l’estrema sinistra rivoluzionaria che, senza conoscere Lenin, auspicava la mobilitazione del proletariato e la simultaneità dell’azione antimilitarista di classe in tutti i paesi e, in mancanza di questa simultaneità, tendere con tutte le energie a sabotare la guerra sabotando il proprio Stato nazionale, perché sabotare anche uno solo dei due militarismi in lotta sarebbe equivalso a sabotarli entrambi.

Era contro la guerra la sinistra del partito (quella che poi sarà identificata con il massimalismo) che ne deteneva la direzione e che nei suoi documenti enunciava corrette direttive classiste, ma che in effetti rappresentava solo un atteggiamento pacifista. Senza arrivare a comprendere, forse, che il pacifismo equivale alla consegna del proletariato inerme nelle mani del militarismo, adottava però una parola d’ordine programmatica che ben sintetizzava questa tendenza.

Contro la guerra si dichiarava anche la destra storica del partito il cui pacifismo era dovuto alla fedeltà nei confronti degli interessi e della posizione assunta dallo Stato italiano.

Man mano che la situazione evolveva ed il capitalismo italiano assumeva una collocazione sempre più apertamente dichiarata, anche all’interno del PSI si decantavano le posizioni delle varie anime del partito e la direzione, in modo lento ma progressivo, adottava sempre più chiaramente quel carattere parolaio ed inconcludente che si sarebbe condensato nella formula di Lazzari "né aderire, né sabotare". Formula ad un tempo inefficace e falsa perché "non sabotare" equivale ad "aderire".

Dobbiamo riconoscere che il PSI, in effetti, si distinse da tutti gli altri partiti della II Internazionale per la sua non partecipazione attiva alla union sacrée e per il suo affannoso tentativo di ricucire le fratture che si erano generate all’interno dell’Internazionale. Delegati italiani furono inviati a contattare i dirigenti del Bureau internazionale e dei vari partiti affiliati allo scopo di organizzare incontri internazionali dove si sarebbero dovuti indicare comportamenti comuni nei confronti della guerra e per fare pressione sui vari governi affinché cessassero i combattimenti e si giungesse alla fine del conflitto in tempi brevi.

Di ben altro tono era la consegna della sinistra: all’ordine di mobilitazione rispondere con lo sciopero generale nazionale. Quindi, anche se con ambiguità, il partito nel complesso dimostrò il suo impegno di opposizione alla guerra, denunciandone il carattere imperialista. Quando vennero in Italia i socialisti interventisti degli Imperi Centrali o della Intesa furono debitamente biasimati e invitati a tornarsene indietro senza nemmeno ascoltare le loro proposte corruttrici. Ed il comportamento tenuto, in queste occasioni dai socialisti italiani venne molto apprezzato e più volte portato ad esempio dallo stesso Lenin.

Ma quando dalle enunciazioni di principio si sarebbe trattato di passare alla prova dei fatti, il Partito Socialista Italiano si dimostrò incapace di trarre la lezione dagli avvenimenti storici: ossia la necessità di rompere definitivamente con la II Internazionale la quale aveva dato prova di non essere, né poter divenire uno strumento di azione rivoluzionaria.

La stessa convocazione del convegno di Zimmerwald dimostrava come per i socialisti italiani la rottura con tutti i logori legami del passato e l’adesione al programma rivoluzionario già enunciato da Lenin fosse per loro del tutto incomprensibile. Si era stabilito infatti che Zimmerwald «non doveva in nessun modo servire alla creazione di una nuova Internazionale, bensì a chiamare il proletariato ad una comune azione per la pace, a creare un centro per tale azione, a tentare di ricondurre il proletariato alla sua missione di classe». È del tutto superfluo aggiungere che l’intento, lo scopo che Lenin si proponeva era esattamente l’opposto: rompere in maniera drastica e definitiva con la II Internazionale per dar vita alla III autenticamente rivoluzionaria.

In tale occasione, la discussione sulla politica socialista di fronte al conflitto dette luogo al formarsi di tre differenti correnti.

Lenin sostenne la posizione rivoluzionaria intransigente per cui occorreva approfittare del conflitto per scatenare la rivoluzione proletaria trasformando la guerra capitalistica tra Stati in guerra rivoluzionaria di classe. L’ordine del giorno presentato dai delegati russi, polacchi, svedesi e norvegesi diceva, tra l’altro, che «solo dopo essersi liberati da ogni influenza della politica borghese della resistenza a fondo è possibile un’azione del proletariato per la pace. Ma tale lotta non può essere che una lotta rivoluzionaria. Un’azione per la pace non può avere come unico scopo il raggiungimento della pace: data la maturità degli antagonismi sociali, tale lotta diventerà lotta per il socialismo. Compito dei partiti socialisti è di precisare l’azione per la pace mercé gli stessi mezzi ch’essi devono adottare» (Avanti!, 14 ottobre 1915). Questo ordine del giorno venne respinto con 12 voti favorevoli e 19 contrari; la maggioranza dei convenuti aderì ad una tesi molto meno intransigente che, in sostanza, si ispirava alla formula italiana del "né aderire, né sabotare".

Lenin stesso, tuttavia, nonostante fosse stato posto in minoranza (non è infatti la minoranza che preoccupa i rivoluzionari), ritenne che la conferenza aveva adempiuto ad un compito positivo e che aveva servito a consolidare lo spirito internazionalista in quella nuova direzione che rappresentò il primo passo verso la costituzione della III Internazionale. «In questa conferenza la lotta delle idee si è svolta tra il gruppo compatto degli internazionalisti, dei marxisti rivoluzionari, e i tentennanti semikautskiani, che formavano l’ala destra della conferenza. Il consolidamento del gruppo dei marxisti rivoluzionari è stato uno degli avvenimenti più importanti e uno dei più grandi successi della conferenza. Dopo un intero anno di guerra, l’unica corrente dell’Internazionale che si sia presentata con una risoluzione ben definita �" e con un progetto di manifesto basato su di essa �" e che abbia raggruppato i marxisti conseguenti di Russia, Polonia, Lettonia, Germania, Svezia, Norvegia, Svizzera e Olanda, è stata la corrente rappresentata dal nostro partito».
 

STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO AMERICANO - (3) Dopo la guerra d’indipendenza

Il proseguimento del rapporto ha affrontato gli eventi del periodo immediatamente successivo alla Guerra di Indipendenza che culminò con la vittoria sulla madrepatria, la Gran Bretagna.

Ovviamente il fenomeno di più grande portata per tutto il Paese e per la classe operaia in particolare fu lo sviluppo economico, che doveva presto far divenire un popolo quasi esclusivamente agricolo e fondato sull’autosufficienza in un popolo forte consumatore di manufatti industriali. Si tratta di un processo che richiese un secolo circa per completarsi, anche se isole di autosufficienza permasero fino agli inizi del secolo XX.

Se la Guerra d’indipendenza non può essere considerata una rivoluzione, come tronfiamente amano definirla gli americani, essa tuttavia liberò delle forze che l’occupazione inglese teneva a freno, a favore dello sviluppo economico e commerciale britannico. Queste forze si possono ascrivere a tre categorie, interdipendenti, che a loro volta ben descrivono la rivoluzione industriale: mercato, trasporti, manifattura.

Lo sviluppo in America del Nord si accompagnò anche con movimenti demografici di notevole portata, sia verso l’Ovest, con il superamento degli Allegani e la colonizzazione del Midwest, sia dall’Europa con l’emigrazione di numeri relativamente alti di emigranti, nella stragrande maggioranza proletari, sia dall’Africa, con la deportazioni di masse consistenti di africani per le piantagioni del Sud.

La produzione manifatturiera si sviluppò inizialmente nel settore tessile, soprattutto nel New England, e si basò per decenni soprattutto sul lavoro di donne e bambini. Altri settori che si svilupparono inizialmente ma in modo meno massiccio furono quello siderurgico e altre attività legate all’abbigliamento; e naturalmente anche la cantieristica, che in realtà era stata l’unica attività più che artigianale anche nei secoli precedenti al XIX. Ma per buona parte del periodo considerato, gli 80 anni tra le due grandi guerre che percorsero gli States, la produzione di manufatti rimase di prevalente pertinenza delle piccole e medie botteghe artigiane.

Il rapporto quindi si sofferma sulle caratteristiche di quel mondo, che vedeva lavorare insieme figure ormai obsolete, il maestro-padrone della bottega, il journeyman, o operaio specializzato che vedeva nel suo futuro una attività in proprio, e l’apprendista, che sperava un giorno di divenire journeyman. Un mondo patriarcale, rilassato, con ritmi e attività che richiedevano un lungo percorso di apprendimento per utilizzare al meglio gli attrezzi del mestiere, che ogni operaio specializzato possedeva come dote personale.

Questo però non voleva dire che conflitti non sorgessero tra lavoratori e padroni, soprattutto nelle grandi città e dove le attività di un particolare settore si concentravano. Molto presto i proletari si resero conto che le lotte erano molto più produttive in presenza di associazioni di mestiere e di fabbrica, che, anche se proibite, sorsero e scomparvero in gran numero nell’ultimo quarto del secolo XVIII. Presto si liberarono dei rimasugli delle gilde e corporazioni medioevali, anche se i sindacati rimasero a lungo riservati agli operai specializzati adulti, bianchi e maschi. L’associazionismo sindacale vide alti e bassi nel periodo che va dalla Guerra agli anni �20 dell’Ottocento, in genere legati alle oscillazioni dell’economia.

La condizione operaia nel periodo è in genere considerata passabile se confrontata a quella dei proletari europei; in realtà ogni volta che si attraversavano periodi di crisi i padroni non esitavano a ridurre i salari a livelli insufficienti a garantire la semplice sopravvivenza, a licenziare in massa, a perseguitare con tutti i mezzi i proletari che tentavano di difendersi.

In fondo alla scala sociale non si trovavano gli schiavi, che in fondo non se la passavano, materialmente, malissimo, ma gli operai liberi di colore, che subivano prepotenze anche dagli altri operai, soprattutto da quelli di più recente immigrazione, non specializzati e quindi in concorrenza per i mestieri più umili.
 

LA QUESTIONE EBRAICA: (7) Davar, Dire e Fare

Concludevamo i lavori del sabato con l’esposizione di un altro capitolo su la questione ebraica.

Il movimento "Per Jahvè soltanto", dell’ottavo secolo avanti Cristo, segna il passaggio dell’ebraismo al monoteismo assoluto, come si è tramandato fino ai nostri giorni.

Questo movimento è determinante per la formazione non solo della religione ebraica, ma per l’assetto di un apparato politico-sociale che realizza una gerarchia netta ed organica. La lotta del movimento contro tutti i Baal (signori) dei popoli confinanti, fa dell’ebraismo una cultura definita che spicca in tutta la storia antica come espressione del perfetto monoteismo.

La nozione, che sta alla base di questa potente sovrastruttura, è che il popolo ebraico non avrebbe senso e direzione senza Jahvè, che lo ha scelto, eletto, per realizzare nella storia il suo disegno. Ogni forma di deviazione da questa nozione religiosa significherebbe urtare la suscettibilità di un Dio che si definisce esplicitamente "geloso".

Poiché, al di là di tutte le versioni edulcorate o da almanacco, il materialismo storico tiene in gran conto il portato di tutte le religioni, per affermare la sua... il comunismo di specie, non c’è da sottovalutare niente di un movimento come questo, che ha avuto ed ha una larga influenza ancora oggi nella società umana.

Il movimento molecolare della vita sociale, che si manifesta nella cultura e nelle religioni, non può essere indifferente alla versione ebraica della lingua e della fede, che concepiscono un rigido nesso organico tra "dire" e "fare". Diremmo oggi tra "teoria" e "pratica".

Dabar, per la lingua ebraica, è sia "fatto" sia "parola". Tra il dire ed il fare non c’è la frattura tipica delle società di classe e della cultura moderna, per la quale si può anche concepire un fare senza teoria e delle teorie estranee o che rifiutano il contatto con la vita pratica. Una lezione da non dimenticare, tenuto conto che nella nostra interpretazione il comunismo senza classi dovrà convertire il dire nel fare e viceversa, in forma organica tale da abolire ogni tipo di separazione e d’alienazione.

Se così è, tutto il tragitto che il movimento "Per Jahvè soltanto" ha fatto fino a noi, è sintomo d’una continua erosione dell’antico monoteismo ebraico, fino alla fede nell’individuo di stampo liberal, benché pretenda, non a caso, di rifarsi alla nozione di un uomo come si sarebbe prodotta dalla religione ebraica antica. Il pensiero liberal moderno, specie quello che si è affermato in America, è intriso di Vecchio e Nuovo Testamento.
 

CORSO DELL’ECONOMIA CAPITALISTA

Riprendevamo l’indomani con l’aggiornamento dei dati di statistica economica

Venivano esposti ed illustrati non pochi quadri numerici, la cui riproduzione stavolta non può trovare posto in questo primo resoconto e dobbiamo rimandare alla redazione definitiva del rapporto.

Oltre a descrivere l’andamento più recente della crisi nei diversi paesi, scopo di questo nostro continuo studio è dimostrare che i vari capitalismi nazionali che si sono avuti storicamente e si hanno oggi nel mondo, nel loro concrescere vanno tutti percorrendo la stessa strada che il marxismo gli ha individuato e convergendo tutti nella crisi generale di sovrapproduzione.

Benché ammantati in accenti esteriori di mistificazione sociale diversi ed apparentemente opposti, il capitalismo sia nei paesi suoi originari e classici sia in quelli pervenuti più tardi allo sviluppo industriale moderno è stato nel secolo scorso e continua a presentare gli stesso tratti nello sviluppo economico e sociale.

Nella imperante confusione delle letture borghesi, anche quelle non banalmente funzionali all’inganno del proletariato mondiale, il marxismo riesce ad iscrivere sotto la medesima curva storica, esprimibile anche in grafici e numeri, le apparenti discontinuità della politica borghese. Democrazia e fascismo in Europa, stalinismo e post-stalinismo in Russia, maoismo e post-maoismo in Cina, dirigismo e liberismo in India, nelle nostre tabelle e curve, seppure tratte esclusivamente da fonti di origine borghese, si unificano nelle leggi che Marx individuò e compiutamente descrisse per ogni capitalismo, da quello nascente del suo tempo e quasi esclusivamente inglese a quello planetario, e pronto a morire, di oggi.
 

BILANCIO DELLA "RIVOLUZIONE" IN IRAN

Il rapporto, che chiude questa ciclo di "bilancio" sull’Iran, si è svolto secondo due linee guida. Da una parte l’esposizione storica fino alla elezione dell’attuale presidente, il primo che non provenga dalle file dei preti; dall’altra, la collocazione dell’Iran nel quadro generale dell’area mediorientale, fino alla crisi recente che definisce le tensioni mondiali per il controllo delle fonti di petrolio e gas.

Già all’inizio dell’esposizione fu messo in evidenza il ruolo di "cerniera" dell’Iran: in questa area si sono subìti i contraccolpi della prima e della seconda Guerra del Golfo (anni 1990-1991 e 2003�"200�), dello smembramento dell’Unione Sovietica con il rientro nel mortale gioco imperialistico delle grandi aree petrolifere appartenute all’ex colosso, l’attacco da parte degli USA sotto l’egida NATO all’Afghanistan e la sua invasione ed infine l’affacciarsi prepotente sulla scena industriale e finanziaria di India e Cina per il controllo delle fonti energetiche.

Politicamente, il decennio 1990-2000 segna per l’Iran il definitivo consolidamento dello Stato fondato sulla forma teocratica, che condiziona anche lo sviluppo di una forte borghesia nazionale.

Dopo otto anni di guerra devastante non solo per le condizioni dell’economia, ma soprattutto per la società civile, il proletariato, che ha osato l’assalto al cielo, è stremato da una carneficina che ha bruciato giovani e vecchi. Ma, pur tradito dai partiti riformisti e democratici, sarà ancora capace, passato questo terribile decennio di crisi profonda, di forti battaglie, in specie negli anni 2004, 2005 e 2006 quando una serie di scioperi scuote l’Iran. E puntuale ci sarà il cambio di governo.

Con la rivoluzione i capitali, i beni della corona e i proventi delle estrazioni petrolifere diventano in gran parte proprietà di organismi industriali e finanziari parastatali, controllati direttamente o indirettamente dall’alto clero sciita, che si trova a giocare il ruolo di primo capitalista.

La proprietà fondiaria si è ricostituita in massima parte sotto la proprietà della Chiesa, dopo esser passata alternativamente dalla guerra e da due riforme agrarie che hanno parcellizzato le terre coltivabili e non hanno potuto garantire un accettabile livello di sopravvivenza ai piccoli contadini. Lo strato sociale dei braccianti e dei contadini poveri, mezzadri o proprietari di fondi a malapena sufficienti o insufficienti per il sostentamento, assente come movimento autonomo durante la rivolta contro lo Scià, assente dopo la riforma dei preti, non si è mai costituito in movimento autonomo e non ha espresso una forza significativa nel tessuto sociale d’Iran.

Negli anni �90 le condizioni economiche risentono il peso dell’enorme debito pubblico e dell’inflazione; la grande maggioranza dei giovani è senza lavoro, ed il crollo del prezzo del petrolio rende la crisi ancora più difficile. Il sistema industriale non riesce a svilupparsi in modo significativo in aree diverse dal settore energetico. Questo, inoltre, si caratterizza sempre più con una tecnologia automatizzata che impone la riduzione di forza lavoro non specializzata, portando il tasso di disoccupazione su valori critici.

Nel 1995 gli USA impongono sanzioni commerciali; l’Iran entra "a pieno titolo" nella lista degli "Stati canaglia".

Il fallimento del cauto processo di democratizzazione "dall’alto" e i tentativi abortiti di instaurare una politica di liberalizzazione perseguiti da Rafsanjani portano da un lato ad uno scontro interno al "partito dei preti" e ad una spinta in senso democratico sul piano sociale che si concretizza con l’elezione del riformista Khatami �" agosto 1997 �" alla guida del governo, volto a proseguire con più vigore il tentativo, finora riuscito, di contenere con le "aperture democratiche" la spinta sociale.

Rimane al vertice la guida politico religiosa che ha preso il posto del defunto Khomeini, l’ayatollah Khamenei, custode rigido della ortodossia sciita, esponente non solo della proprietà fondiaria della Chiesa, ma anche della concentrazione finanziaria e capitalista detenuta dalle Fondazioni (Bonyad), che controllano oltre il 40% del prodotto interno lordo e impiegano circa 5 milioni di persone su una forza lavoro di 40 milioni. Le Fondazioni hanno il controllo dei "Guardiani della Rivoluzione" (pasdaran), corpo militarizzato di 150 mila uomini, un terzo delle forze armate regolari, affiancati a loro volta da più di 300 mila riservisti (basiji) inquadrati in milizie paramilitari.

L’apparato del governo statale, di pesante complessità bizantina, frutto di una rivoluzione dall’alto irrisolta ed abortita, appare congegnato in una diarchia di potere che non è soltanto funzionale al controllo sociale quanto le "democrazie" occidentali, ma rivela le contraddizioni di uno Stato pur fondato su una base reale pienamente capitalistica.

Sul piano interno, se i "riformisti" di Khatami conquistano la maggioranza del parlamento, la repressione verso le opposizioni di matrice proletaria e piccolo borghese assume toni sempre più violenti. La spinta sociale che monta, ammantata dalla richiesta di maggior democrazia, è repressa con decisione tramite le milizie religiose. Formalmente il diritto di associazione e quello di sciopero sono riconosciuti, ma le organizzazioni che li propugnano sono colpite e represse con ogni mezzo: tanto con il governo dei riformisti quanto con quello populista, eletto nel 2005.

Naturalmente anche il programma di Khatami fallisce, prima che politicamente, sull’elevazione del tenore di vita delle masse cittadine. Rieletto una seconda volta nel 2001, con una maggioranza ben più scarsa, nel 2003 i "conservatori" sull’onda del malcontento popolare riprendono la maggioranza nel Majlis e nel 2005 conquista la presidenza il primo "laico" del dopoguerra, Ahamadi-Nejad.

Con questo triplice controllo, Parlamento, Presidenza e Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, il potere politico si accentra. Termina il dualismo degli anni precedenti, e non con una vittoria dei preti. La dittatura del partito conservatore è forse, per la derelitta borghesia d’Iran un evento positivo, perché infine il potere si concentra tutto in una sorta di partito unico sulla falsariga delle dittature europee degli anni �30, o del peronismo argentino. È formalmente sottomesso alle guide religiose, ma non "teocratico"; più "laico" di sicuro del precedente regime riformista.

Per rispondere al problema energetico �" nonostante l’Iran sia un produttore primario di petrolio, i meccanismi interni di calmierazione dei prezzi di mercato lo portano ad esborsi forsennati per l’acquisto di benzina �" è stato ripreso con determinazione il programma nucleare, già iniziato nel 1990 con l’assistenza della Unione Sovietica, bloccato e poi di nuovo ripreso nel 2003 con i riformisti al governo, e bloccato di nuovo sotto la spinta degli USA.

Per quanto attiene le fonti "convenzionali", sono stati impostati tre progetti incentrati su tre aree strategiche; il primo riguarda il collettore di gas del Caspio Iraniano per canalizzare verso il Golfo non solo petrolio e gas russo e turkmeno, ma anche quote del petrolio kazako, commercializzando il greggio verso il Sud-Est asiatico a costi inferiori agli attuali. Il secondo riguarda la messa in esercizio dei giacimenti del Sud dell’Iraq contigui a quelli iraniani (e questo per inciso chiarisce abbastanza bene la dinamica del conflitto sunniti-sciiti nel disgraziato e tormentato Iraq, e le posizioni degli Stati Uniti riguardo la presenza iraniana nella regione) ed il terzo infine la messa a regime del prelievo di gas nei giacimenti Pars Sud, in pieno golfo persico, collegato al cosiddetto "gasdotto della pace", Iran-Pakistan-India, ferocemente osteggiato dagli USA e a quello Iran-Turchia, agganciato al progetto del gasdotto "Nabucco" dal Caspio all’Europa.

Progetti ai quali gli Stati uniti hanno per ora risposto tagliando fuori l’Iran dal sistema finanziario internazionale, vietando alle banche americane di appoggiare le operazioni iraniane in dollari (investimenti e crediti) raccomandazione cui hanno cominciato ad aderire anche alcune banche in Svizzera, Olanda e Inghilterra, e proibendo inoltre alle aziende americane, leader nel campo, l’esportazione della tecnologia e le apparecchiature di liquefazione e rigassificazione, essenziali per il trasporto del gas. In particolare proprio per le produzioni per il mercato asiatico, quelle legate allo sfruttamento di Pars Sud.

E questa è storia dell’oggi.
 

LA QUESTIONE MILITARE (I)

Il rapporto presentato è una rielaborazione di un non recente studio di partito, quello apparso in numerose puntate dal n° 23 del 1961 al n° 13 del 1966 di "Il Programma Comunista". Lo scopo è, oltre a riesporre i risultati di questa precedente analisi della questione dal punto di vista marxista, di estendere e completare alcune sue parti, nel solco del nostro tradizionale metodo di operare che considera ogni nostro lavoro un "meta progetto", mai definitivamente ultimato e sempre suscettibile di ampliamenti e approfondimenti. Come marinai prepariamo le rete di nodi dialettici destinata ad evitare dispersioni di energia dal materiale e violento fiotto rivoluzionario di domani, con pazienza ricucendo maglie già salde oggi spezzate ed infittendone sempre più la trama.

Non si deve confondere la questione degli armamenti con quella più completa della violenza o questione militare, di cui essa è solo un aspetto.

Impostazione teorica del lavoro è lo studio dell’evolversi della questione militare, secondo la successione dei modi di produzione, legato questo allo sviluppo crescente delle forze produttive, cui corrisponde un’adeguata organizzazione militare.

Come premessa affermiamo che la violenza è prodotta da cause materiali ed economiche. Al di fuori da ogni facile sentimentalismo pacifista od estetismo guerriero, con i nostri maestri dobbiamo prendere le mosse dal duro nocciolo dialettico della centrale questione, che si riassume nelle due equazioni-base: Engels, «La forza, anziché dominare l’ordine economico, fu costretta a servirlo», e Marx, «La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica». Si tratta di individuare le successive determinazioni storiche concrete di questa complessa dinamica.

Si prende le mosse dalla funzione della violenza durante l’epoca del comunismo primitivo e nel trapasso da questo alle società civili o di classe.

Le piccole comunità umane per necessità di sopravvivenza furono costrette ad unirsi e fondersi e ciò molto spesso avvenne tramite la forza. Le conoscenze delle comunità sottomesse furono assorbite dalle vincitrici e successivamente i prigionieri di guerra, che prima erano uccisi se non anche mangiati, vengono salvati e ridotti in schiavitù e la loro forza lavoro utilizzata. Ma «prima che la schiavitù diventi possibile, bisogna che sia raggiunto un certo livello nella produzione e che sia comparso un certo grado di disuguaglianza nella distribuzione».

La Grecia classica ci offre il primo quadro completo di sviluppo e crollo della società schiavista che conobbe un ritmo assai lento perché lento era il ritmo della produttività data l’ancor primitiva tecnica del lavoro. Il conflitto permanente fra aristocrazia agraria e arricchiti del commercio e dell’industria navale fu la causa prima della mancata unità greca ed anche la sua grande debolezza. Debolezza che non ebbe invece Roma la cui forza economica era basata su un’estesa agricoltura. La sua successiva ascesa a potenza mediterranea fu possibile dal contemporaneo decadere delle altre precedenti.

Si è descritto la falange oplitica, base della forza militare delle città-stato greche. Il periodo degli scontri dei soldati a cavallo dell’età arcaica greca, che scendevano a terra per lanciare l’asta e combattere corpo a corpo. va grosso modo dal 1200 all’800 a.C. mentre la battaglia tra opliti, coincidente con l’ascesa delle città-stato, va dal 650 fino al 338 a.C., data della sconfitta dei greci ad opera della più efficiente falange macedone. Nella guerra della falange oplitica l’urto non è più un duello personale tra ricchi cavalieri ma uno scontro collettivo più ampio, una battaglia campale di intere comunità ben organizzate, segno di un accresciuto sviluppo delle forze produttive. Viene descritta la panoplia, il corredo da guerra, le sue funzioni, i limiti, l’organizzazione in campo di battaglia, lo svolgersi dello scontro, il suo superamento da parte di quella macedone e la funzione dei reparti con l’introduzione della cavalleria. La struttura della falange oplitica si estese velocemente in tutto il bacino mediterraneo e fu successivamente modificata dai cartaginesi e dai romani man mano che aumentavano in modo massivo gli eserciti e l’estensione dell’impero.

Segue il quadro storico ed economico generale dello sviluppo della società schiavista a Roma, con il continuo sforzo di pianificare le sue energie e forme militari necessarie a garantire il flusso degli schiavi, che pian piano furono utilizzati nella quasi totalità delle attività produttive. Questo minò progressivamente la base costitutiva dell’antica Roma: il contadino piccolo proprietario, che alla bisogna abbandonava il campo e si trasformava in legionario; mentre cresceva l’impegno militare questi venivano ridotti in miseria e perdevano i loro averi.

Si riferiva dell’enorme numero di schiavi deportati dopo ciascuna guerra di conquista.

Diverse furono le riforme economiche apportate da Roma per far fronte a tanto sforzo: dalla prima di Servio Tullio già nel VI secolo a.C. a quella di Gaio Mario che per primo istituì l’esercito di soldati di mestiere. Questa permetteva di disporre di una forza militare certa, ma d’altra parte, progressivamente, l’esercito divenne romano solo di nome mentre di fatto fu costituito di elementi barbarici, ex nemici sottomessi, anche al livello dei generali.

Molte furono le riforme strettamente militari introdotte: da quelle necessarie per sconfiggere i cartaginesi in grandi battaglie campali, specchio sempre di accresciuti sviluppi produttivi, a quelle di Mario per velocizzare le manovre tattiche. Le legioni nella prima età imperiale erano ben 28 per un totale di 150 mila uomini, regolarmente stipendiati con differenti "contratti di lavoro" a seconda se pretoriani con paga maggiore e durata del servizio di 16 anni, o se normali legionari con ferma di 20 anni e paga inferiore, o ausiliari con ferma di 25 e paga ancor più bassa.

Lo sforzo economico per sostenere questa grande macchina bellica venne assicurato da Cesare Augusto con l’istituzione dell’erario militare che imponeva delle imposte in percentuale su importanti operazioni economiche: dall’1% delle vendite all’asta, al 4% sul commercio degli schiavi, ecc.

Ma la crisi della società basata sul lavoro degli schiavi avanza sempre più e non bastarono le 75 legioni con 900 mila uomini a disposizione di Costantino a salvare il decadente impero.

* * *

Infine, chiusi i lavori dopo quest’ultima esposizione, e quasi a suo completamento, nel tardo pomeriggio della domenica, per i compagni non costretti a ripartire subito era stato organizzata una visita agli scavi della città romana di Luni, situata a poca distanza dalla sede dove si era svolta la riunione.
 
 
 
 
 
 
 
 

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La storia italica nello specchio deformante della sua ideologia

(Indice dei capitoli)

Capitolo VI

Se ci siamo intrattenuti sul destino dell’Italiuzza dei nostri tempi, è perché la sua emblematicità è nota a tutti, e fa di continuo il giro del mondo, col nome di "arte del sopravvivere", con allegria e furbizia, ben interpretata dai suoi attori principali, più adatti all’avanspettacolo che alla tragedia che il mondo vive sotto il tallone di un modo di produzione che non è capace di trascendersi, di trasformarsi in qualcosa di diverso.
 

La pretesa intesa storica tra borghesia illuminata e aristocrazia operaia

Si è scritto fino alla nausea che lo Stato italiano è vissuto per decenni, a livello sociale, sull’alleanza tra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud per quanto riguarda la classe dominante, e tra gli operai del Nord e contadini poveri del Sud per quanto concerne la classe dominata. La questione è più o meno questa, e si è protratta fino a noi, nonostante che tutti i governi, fascismo compreso, si siano impegnati a risolvere la "questione meridionale", superata la quale finalmente l’Italia dovrebbe essere un popolo, una nazione. Sappiamo tutti che la favola non ha ancora avuto lieto fine: anzi, le statistiche ufficiali non negano che il divario relativo di sviluppo tra Nord e Sud si è sempre più acuito, in barba ai Poli di sviluppo, alla Cassa per il Mezzogiorno, alle provvidenze ordinarie e straordinarie.

Non ci meravigliamo certo che questa classica divisione ereditata dallo Stato italico non sia stata sanata: sosteniamo anzi che deve ed ha dovuto esserci. Ma al di là delle semplificazioni, di cui si è accusato sempre il materialismo storico da noi professato, è il caso di osservare che il gioco delle parti tra gli attori indicati è stato più complesso ed articolato; e che in particolare diversi attori ne hanno recitato le classiche due in commedia, ed anche di più, secondo la lezione pirandelliana.

Poiché il nostro lavoro intende cercare di stabilire se veramente allo svolto del millennio siamo ancora alle solite dramatis personae, se insomma l’Italia degli Agnelli e dei Pirelli può permettersi o no di condurre la danza, una volta che l’imperialismo globalizzatore è entrato nella sua fase più larga e pervasiva, proveremo a vedere come ed in che modo lo Stato centrale (che oggi si vorrebbe federativo...) si è posto il problema, fino a che punto è dipeso e dipende, come si diceva una volta, al tempo dei governi centristi, da una telefonata da Torino, alla corte della Fiat.

L’anomalia italica, che non impedisce al Bel Paese di far parte della cricca di borghesi seduti intorno al tavolo dei cosiddetti Grandi, sta in realtà nel fatto che i suoi attori hanno saputo imparare la lezione proveniente da lontano: chi può negare, come è stato scritto, che gli Agnelli si sono posti a Torino come dei monarchi, una volta che la monarchia stessa si è fatta karakiri? Ma sul piano reale delle forze in campo, anche i più attenti degli storici che non hanno voluto fare semplicemente i cortigiani, hanno ammesso l’abilità della famiglia nel combinare da sempre bastone e carota, protezionismo ed alleanza stretta col potere statale, con Roma e le sue esigenze burocratiche, e liberismo, cioè quella sufficiente apertura al mercato estero, che a dato agio alla "azienda", come la chiamava Gianni Agnelli, di fare le sue fortune, svolgendo la sua mansione di monopolio dell’auto, e nello stesso tempo di presenza nella competizione a livello europeo e mondiale. Abilità manageriale, furbizia, cinismo? Un po’ di tutto.

Ma a noi interessa vedere sinteticamente in che modo il rapporto con la classe operaia, con la sua aristocrazia, ha permesso di perpetuare un’alleanza capace di attrarre la manovalanza dal meridione, di governarla con paternalistica vicinanza, impedendo così alle avanguardie più radicali di porre sul terreno della lotta il peso della loro presenza.

Con un governo che quasi mina i poteri dello Stato, la presidenza della Fiat ha fatto da contrappeso alle asprezze della politica dei suoi managers: se Valletta favoriva i sindacati gialli e di azienda, il Presidente copriva e nello stesso tempo teneva aperto il "dialogo" con i sindacalisti riformisti, in modo da avere sempre pronta la carta di riserva da giocare. Il mito Fiat ha potuto reggere fino a noi nell’ambito e nella cornice d’una realtà che ha potuto continuare a favorire una politica della collaborazione tra le classi, mentre il blocco tanto caro al partito di Gramsci e di Togliatti ha potuto svolgere la sua funzione di gestione complessiva del regime capitalistico.

Per capire questo rebus è necessario richiamare un caposaldo della nostra visione generale del sistema capitalistico, nel quale tra la base sociale ed economica e l’apparato statal-burocratico non c’è quella frattura che le teorie borghesi pretendono. Noi sosteniamo che, se lo Stato è una macchina attraverso la quale i capitalisti reprimono il proletariato, pur riconoscendo la relativa autonomia del "politico", non si darà mai che i gestori della politica di classe siano un’altra cosa in rapporto alla loro base sociale.

Questo non significa che la borghesia non faccia dei conti sbagliati e interpreti sempre gli interessi generali, della sua classe, in modo perfetto. Le sue valutazioni e le sue manovre possono, ed anzi spesso si dimostrano un disastro, altrimenti la sua posizione non sarebbe soggetta alla sconfitta. Ma non è senza causa che la mancata epurazione dell’apparato statale fascista, in virtù del compromesso tra partiti borghesi ufficiali e partiti opportunisti, garantisse, e si premurasse di farlo, la continuità dello Stato stesso. Togliatti, in qualità di ministro della Giustizia, si fece promotore del salvataggio dei funzionari di alto livello della macchina statale, cosicché l’ingranaggio che legava la "società civile" all’organizzazione statale garantiva alle imprese, al sistema delle imprese, di riprendere a girare a pieno ritmo, al punto che in meno d’un decennio la "contadina" Italiuzza poteva ritrovarsi nel novero delle potenze, sia pure di serie B, nonostante, ed anzi in virtù della sconfitta militare.

Chiarito ciò, si spiega come il blocco delle forze sociali potesse continuare a macinare storia ed interessi comuni. La via nazionale al socialismo, non ancora messa a punto in modo organico, ma funzionante nella "prassi", stava portando la nazione tra le democrazie, nel cuore della "civiltà", al di là della divisione in blocchi della realtà internazionale, anzi, ancora una volta, in virtù di essa.

Del resto, le vicende del miracolo economico e dell’inserimento dell’Italiuzza tra le grandi potenze, è stato interpretato dallo opportunismo storico con allarmante ambiguità: in nome dell’adesione al punto di vista "sovietico" sulle relazioni internazionali, ribadito anche se un po’ annacquato fino a tutta la segreteria Berlinguer, si è sottolineato come il capitalismo nostrano fosse affetto da sussulti e crisi inevitabili. Nella prassi sindacale si escludeva qualsiasi forma di radicalizzazione, poiché il movimento operaio avrebbe avuto tutto da guadagnare dalla difesa dell’ordine democratico, e dal richiamo costante alla "vigilanza" contro i vari complotti che venivano organizzati, secondo le manovre dei "servizi deviati" in combutta con i "circoli reazionari occidentali". Questo tipo di metro di misura ha accompagnato la politica dell’Italia fino alla caduta del muro di Berlino.

C’è chi si è esercitato a sottoporre ad analisi le dichiarazioni dei congressi del partito opportunista, oppure altre esternazioni, per valutare in filigrana gli spostamenti minimi dall’appoggio leale alla politica "sovietica". Il risultato che se ne è evinto è che mano a mano che il mito Russia si arenava nelle secche della stagnazione brezneviana, la politica politicantesca non poteva che cominciare a staccare una certa distanza dal "blocco di appartenenza" per tessere il travaso nel bugliolo dell’alleanza occidentale. È per lo meno sorprendente come il vizio della politica estera italiana non appartenga semplicemente alle forze di governo, aduse ai giri di valzer da sempre, ma a tutte quelle realtà che contribuirono a presidiare gli accordi di Yalta, fino al suo svuotamento ed esaurimento della loro funzione.

Su quale base sociale poggia una realtà statale di questo genere, se non sull’alleanza garantita tra la "centralità della classe operaia" e la borghesia illuminata, facendo capo a quelli che saranno poi chiamati i poteri forti, cioè capitale statale e delle maggiori imprese, insieme con Banca d’Italia e tutti i presidi nazionali?

Ancora una volta i nodi vengono al pettine: mentre ci è sempre stata rimproverata la nostra pedanteria in fatto di uso dei termini e dei concetti, ci si deve riconoscere che avevamo ed abbiamo ragione.

Fin dal 1919 era circolata la formula "centralità", ed indovinate chi la sostenne? Il nascente movimento dei Fasci che, in nome dell’economia nazionale dei produttori, assegnava alla classe operaia questo privilegio. Non tardammo a vedere nell’operazione un tentativo di cattura da parte del nascente fascismo dei ceti operai aristocratici, a condizione che assumessero il dogma del primato dell’economia del proprio paese. La nostra prospettiva era completamente opposta, gli operai ed in proletari non hanno patria, ma tendono ad unificare i loro sforzi di emancipazione alla scala mondiale. L’Internazionale andava in questa direzione, mentre il fascismo, con la sua base di massa, in quell’opposta.

Che effetto farà ai proletari ed ai politicanti la cattura della centralità, la sua esaltazione da parte della direzione opportunista? L’avranno riconosciuta come propria? In realtà la demagogia non ha limiti, e l’influenza del partito staliniano poteva permettersi il lusso di travasare parte della terminologia fascista nel suo armamentario, a detrimento della dottrina e della corretta prassi. Il mito della centralità della classe ha alimentato la politica del PCI per tutto l’arco della sua esperienza.

Ogni volta che il capitalismo si è trovato nella necessità di "ristrutturarsi", cioè adattarsi alla dinamica del mercato, ha dovuto stringere la morsa sulla classe operaia nel suo insieme, ma in Italia cercando sempre di non inimicarsi eccessivamente il proletariato organizzato secondo la formula che abbiamo indicato: "centralità della classe operaia", a sua volta intorno alla centralità dei metalmeccanici, d’una aristocrazia operaia in continua tensione, specie nelle città del "triangolo industriale".

Non si deve credere che questa tattica si sia imposta senza tensioni anche gravi, ma politicamente i partiti dell’opportunismo storico hanno fatto le fedi false per evitare che il loro blocco potesse incrinarsi, sostenute in questo disegno dal capitale statale progressista, preoccupato di evitare derive reazionarie e rinculi verso autoritarismi pericolosi.

Eppure la sociologia più aggiornata non ha mancato di osservare come in tutte le ristrutturazioni la stessa aristocrazia operaia subiva colpi determinanti.

È bene osservare che il nostro programma non prevede di osteggiare l’aristocrazia operaia in quanto tale, perché frutto della dialettica di classe, ma di denunciare però sempre un sindacalismo corporativo che non intendesse difendere la classe nella sua interezza, con rivendicazioni inversamente proporzionali alla debolezza intrinseca dei reparti più sfruttati. Neanche siamo tanti ciechi da non capire la natura del politicantismo riformista, che tendeva e tende a dividere, piuttosto che ad unire.

Dal dopoguerra fino ai nostri giorni si è dato per buono che la "via nazionale al socialismo" poggia sull’alleanza di forze che vanno dalla classe operaia ai ceti borghesi progressisti, capaci di opporsi ai partiti reazionari che poggerebbero sulla rendita e sui sovrapprofitti, garantiti da un cemento che li terrebbe uniti, quello dell’apparato statale più retrivo. Quello, tra parentesi, salvato dalla mancata epurazione dell’immediato dopoguerra.

Questo canovaccio è stato ripetuto fino alla nausea; ogni qualvolta l’ordine democratico è stato messo in discussione dai ceti "reazionari", puntualmente si è fatto appello alla "vigilanza attiva" per la difesa della costituzione, senza che le ragioni dei presunti o reali complotti abbiano mai avuto una spiegazione convincente.

La stessa "dialettica" tra movimento sindacale ed i partiti di riferimento ha seguito il canovaccio previsto, secondo il quale l’alleanza tra i sindacati tricolore e i partiti democratici avrebbe dovuto garantire sviluppo economico e tenuta democratica.

Poiché l’analisi gramsciana aveva almeno il pregio di valutare in dinamica il blocco storico a cui si richiamava, sempre più invece le formule hanno sostituito la valutazione, l’analisi, fino al punto di riconoscere, per cause internazionali, l’esaurimento dell’esperienza che avrebbe dovuto portare gradualmente al socialismo. Questo percorso storico, che ha coperto un tempo lungo, quasi da regime immutabile ed eterno, si è infranto nell’impossibilità del "socialismo reale" di continuare a svolgere la sua presunta "funzione propulsiva", come veniva confessato dalla formula berlingueriana della sua fine, del suo esaurimento.

Un esito di questo genere, letto alla luce della dinamica sociale, del nesso tra aristocrazia operaia base dominante nel movimento sindacale, e ceti "progressisti" secondo la definizione di prammatica, indica non solo l’insufficienza dell’analisi, ma l’esplicita menzogna di chi tiene nascosta alla sua base una convinzione circolante apertamente tra i ceti dirigenti dell’opportunismo, e cioè la falsità e l’inconsistenza del socialismo russo.

È allora importante considerare in che senso e fino a che punto il dogma del "blocco storico" su cui i fautori della via nazionale al socialismo hanno puntato è una forma di "ideocrazia" praticata e fallita; quando tale alleanza forte è entrata in crisi, e perché. C’è che si richiama, tanto per cambiare, al "mitico sessantotto" che avrebbe scompaginato i giochi conservatori d’ogni parte politica e d’ogni classe. Lo hanno fatto i presunti "eretici" di cui c’impegniamo a parlare al momento opportuno, ma cadendo dalla padella nella brace. La mancanza o la rinuncia ostentata ad ogni tipo di bussola ha fatto credere che si potesse portare la "immaginazione al potere", al punto che di fantasia in fantasia mai la classe operaia si è trovata incastrata nei giochi del capitale come in questo momento storico.

Siamo invece convinti che il blocco storico accarezzato da Gramsci a suo tempo non era che la formula dotta volta ad esorcizzare il "dogmatismo tattico" della Sinistra, ostile et pour cause ad ogni bloccardismo, tanto politico quanto sociale.

Nella realtà dei rapporti di classe, al di là d’ogni elaborazione vincente, nel secondo dopoguerra, dopo il miracolo economico, se è vero che l’Italiuzza fa il salto definitivo dal mondo prevalentemente contadino a quello industriale, è anche vero che conta ancora sul patto di ferro tra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, nonostante la riforma agraria che gli stessi moderati vollero (eccetto padre Pio! come ancora lamenta Andreotti).

Ma il Sud, nonostante le "riforme" e i "poli industriali", tanto tenuti d’occhio dalla mafia e dai potentati locali, continua a regredire in confronto al Nord, il che ha comportato la fine della Cassa del Mezzogiorno ed altre provvidenze che non hanno saputo fare anche del Sud un’area veramente "integrata e moderna"!

Ed allora. Tutto questo è leggibile se teniamo presente che le leggi del modo di sviluppo capitalistico non possono essere saltate con la buona volontà, se non si rompono per via rivoluzionaria, tenendo conto dei processi generali del capitale, non soltanto a livello nazionale, ma internazionale.

Così, mentre da sempre ci viene rinfacciato il nostro immobilismo programmatico, tattico e strategico, ci vuole poco per capire che l’invarianza di quello che un tempo era opportunismo non solo non ha niente da invidiarci, ma è capace di più, di scimmiottare le spericolate manovre del capitale, il cui scopo resta sempre lo stesso: accumulare e fare profitti. La politica delle alleanze tra un sindacalismo di Stato e un intreccio politico di tronconi di partiti che si chiamarono operai continua ad illudere di progressi democratici, graduali e pacifici, in un mondo che viene definito ormai post-ideologico, complesso, e come tale difficile da "gestire". Le promesse non mancano, anche se sono sempre le stesse: pieno impiego, occupazione sempre più dinamica e attraente per le nuove generazioni, superamento del sottosviluppo dei popoli dei continenti extraeuropei più disagiati, ed altre affettazioni che sappiamo a memoria.

Non nascondiamo che in un clima politico e culturale in cui i polveroni non si contano più, non è certamente agevole richiamarsi ad una tradizione, interpretandola senza tradirla, con gli occhi aperti sui mutamenti, i trucchi che permettono al capitalismo di sopravvivere a sé stesso, oltre la sua agonia, le sue inguaribili metastasi: nonostante tutto, però, non si vedono per il proletariato altre alternative che quella classica, pena quella, contemplata dallo stesso Marx, e cioè la rovina di tutte le classi.

Di fatto la mancanza di influenza del partito della rivoluzione mondiale non ha potuto impedire che il capitalismo potesse imporre la sua logica. Ne prendiamo atto, senza ciò demordere, come è inevitabile.
 

(Indice dei capitoli)

 
 
 
 
 
 
 


I troppi nemici dei comunali di Taranto

Il 14 febbraio i dipendenti del Comune di Taranto e quelli delle aziende dell’appalto sono scesi in sciopero contro la mancata corresponsione delle paghe. Stavolta la lotta dei lavoratori sarebbe non contro il loro diretto datore di lavoro, l’Ente Pubblico, ma la Banca tesoriera, che è la Banca Popolare di Puglia e Basilicata.

La manifestazione, che ha raccolto circa 900 lavoratori, ha fatto tappa anche davanti alla sede dell’agenzia dell’Istituto bancario, alla quale già nello sciopero dell’11 novembre i comunali avevano stretto una sorta di assedio, richiedendo gli stipendi arretrati.

È successo che, essendo stato dichiarato ufficialmente il dissesto finanziario del Comune nell’anno trascorso, e contando quindi sul ripianamento dei debiti pregressi da parte dello Stato, dal 1° gennaio l’Ente pretendeva di tornare a presentarsi di nuovo affidabile presso i suoi diversi creditori, in quanto "tecnicamente" con un bilancio "equilibrato".

In questo convincimento erano stati inviati dal Comune alla Banca tesoriera i mandati di pagamento per la mensilità di gennaio, la prima del "nuovo corso", contando sull’anticipazione di fondi in attesa dei nuovi stanziamenti statali. Solo che il banchiere non si fida proprio più né del Comune di Taranto né dello Stato e ha rispedito al mittente le lettere di mandato a pagare, innescando questo nuovo sciopero.

L’episodio dimostra che nella lotta di classe il conflitto che vede impegnati i proletari non è solo contro il singolo datore di lavoro, ma anche verso tutta la classe borghese in generale, nel suo insieme interessata a ripartirsi il plusvalore. Padronato (pubblico e privato)-Stato-Finanza sono parti integranti del regime e della classe borghese e quindi tutti parte avversa, sia che si mostrino sia che tramino nell’ombra.

La crisi finanziaria, che si rovescia sui lavoratori comunali di Taranto e su quelli dell’appalto oggi, ma su tutta la classe domani, è il prodotto di quelle contraddizioni del capitalismo a cui solo il marxismo sa anticipare la risposta: del superamento rivoluzionario di classe di questo sistema economico generatore di miseria. Ben altro dell’ignobile finta-rissa sul candidato sindaco da parte delle forze locali, che si atteggiano a rimproverarsi vicendevolmente il dissesto o la corruzione morale, appellandosi ai lavoratori ogni primavera per ottenerne il consenso alle elezioni. Le loro "decisioni" provengono dai grandi centri della finanza internazionale, tramite i governi, "nemici" o "amici", ovviamente ai danni del proletariato, e a questi loschi figuri "sulla piazza" non resta altro che tenere in vita il teatro dei pupi della politica politicante, per perpetrare l’inganno opportunista. Con tutto il rispetto per i pupi.