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La crisi
generale del capitalismo - prevista e attesa dal comunismo rivoluzionario - è finalmente esplosa
Tutte le previsioni scientifiche del marxismo si sono avverate.
Fra esse l’anticipazione della crisi economica, che oggi si impone, immane oltre ogni visibile orizzonte, ad una umanità sgomenta e impotente non solo a resisterle ma perfino ad intravvederne le cause, come nei poemi classici le sciagure umane per l’ira capricciosa degli dei.
Carlo Marx svelò, a metà dell’Ottocento, questo mistero moderno, individuandone l’origine nell’intimo meccanismo della circolazione del capitale. Il capitalismo, descrisse, è il regime economico più rivoluzionario della storia, distruttivo prima e auto-distruttivo poi, e matematicamente dimostrò non potersi mantenere per un tempo indefinito senza periodici sconvolgimenti, sempre più estesi e catastrofici.
Quella in corso, e appena iniziata, sarà la peggiore crisi economica della storia, che la segnerà come un termine e rispetto alla quale sarà inevitabile parlare di un prima e di un dopo. Noi comunisti lavoriamo nella ipotesi che questo trauma, e che quel dopo che alla scala storica si sta aprendo, siano portatori di un nuovo assalto internazionale del proletariato comunista alle borghesie di tutto il mondo, alle sue istituzioni e alla sua folle accumulazione.
Il capitalismo, pienamente affermato dapprima solo in Inghilterra, nel breve volgere di due secoli, più con la forza dei bassi prezzi delle merci che con quella delle cannoniere, ha travolto ogni resistenza in tutti i continenti, ha abbattuto imperi antichi e società millenarie e ovunque imposto il suo modo di produzione, fondato sul mercato, sul lavoro salariato, sul profitto. Oggi in tutti i paesi è al potere la borghesia capitalista e in tutti i paesi il fine del lavoro dell’uomo non è più la conservazione e la riproduzione della vita, ma la conservazione e la riproduzione del Capitale, mostruoso Totem che si nutre implacabile del sangue di chi lavora al fine di accrescersi all’infinito e oltre ogni misura e scopo.
La crisi economica che con vastità mai vista si sta abbattendo sulla nostra specie, non è provocata dalla miseria, ma dall’abbondanza: sono state prodotte troppe, inutili, merci solo per la necessità del capitale di produrle, eccedenti le capacità di consumo di questa società. È una crisi di sovrapproduzione, di merci e di capitali. Non è dovuta alla incapacità del lavoro di trarre dalla natura il necessario; all’opposto, deriva dalla sua grande forza e potenza, grazie ai progressi della tecnica e delle conoscenze, ma che, incatenato al Capitale, genera fame, insicurezza e bisogno invece che certezza e ricchezza reale di vita. È una carestia “artificiale”.
Come il capitale ha ormai sottomesso e avvinto nelle sue relazioni l’intero pianeta, corso dai suoi frenetici e dissennati flussi di merci, di lavoratori migranti, di denaro e di debiti, così la sua crisi, innescata accidentalmente dal fallimento di alcune banche a New York, si è istantaneamente manifestata per ogni dove, essendo le economie di tutti i paesi già predisposte e mature al tracollo.
Il gioco del credito facile, che ipotecando il futuro è uno strumento per forzare il consumo di merci, può solo ritardare lo scoppio della crisi di sovrapproduzione, ma facendola più esplosiva, generale e profonda. All’improvviso si scopre che da anni ormai si producevano merci che nessuno avrebbe in realtà potuto acquistare.
Passata la illusione del credito infinito e per tutti, il precipitare della recessione rivela del capitalismo la vera natura. Il “welfare” capitalistico è una menzogna, e lo è sempre stata, anche quando, durante l’euforia produttiva, nell’inter-crisi, i borghesi e i falsi partiti operai illudevano sui miti del “progresso”, che sarebbe stato irreversibile e definitivamente acquisito alla classe di chi lavora. È invece ora evidente che il capitalismo ai proletari non ha mai potuto “garantire” nulla, dalle sue origini in poi, nei paesi di vecchio capitalismo fino a quelli di nuova travolgente industrializzazione. Comune nel tempo e nello spazio è la condizione della classe dei salariati; necessariamente accomunata sarà la sua rivolta.
Fra i tanti miti che il vento della crisi si porta via c’è quello che il regime economico del capitale potrebbe storicamente “scegliere” fra un percorso di politica economica liberale ed uno che prevede l’intervento nell’economia degli Stati, linea di approccio questa che spesso, bestialmente, si mistifica come “comunismo”. L’opposizione storica è Liberismo-Statalismo da una parte, Comunismo dall’altra. Oggi, come in ogni crisi, la borghesia, nel più totale marasma e annaspare dottrinario, cerca rifugio sotto il bastone del suo Stato al quale chiede salvezza. E lo Stato del capitale fa il suo mestiere, difende la società del capitale, in questo caso dal capitale stesso.
Gli Stati moderni sono apparati enormi che dispongono di forze armate, d’oro nei forzieri e del credito che ne deriva, ma anche l’economia del capitale, che oggi pencola sull’orlo del baratro, è ormai gigantesca, e la dimensione della bolla speculativa addirittura incalcolabile.
Lo Stato è una parte, è interno al regime del capitale, e vive solo del plusvalore che il capitale riesce a trarre dal lavoro operaio. Le leggi dell’economia capitalista “prevalgono” su quelle degli Stati. Fra le facoltà dello Stato, che non produce ricchezza ma solo la consuma per il suo mantenimento, non si trova quella di intervenire sulle variabili generali della riproduzione del plusvalore: sviluppo della tecnica, composizione organica, saggio del profitto, dimensione del capitale in funzione. Lo Stato, tramite finanzieri e poliziotti, può solo “covare”, proteggere il capitalismo, e ripartire la ricchezza che c’è, fra gruppi di capitalisti e fra le classi, al fine del mantenimento dell’ordine generale, e in questo senso è una forza economica potente e necessaria al capitale. Prima di tutto per mettere la sua forza dalla parte della borghesia nella sua guerra permanente contro la classe operaia al fine di ridurre i salari e aumentare la giornata di lavoro.
Ma se gli Stati non producono ricchezza la possono distruggere. Ad un certo punto del precipitare della crisi l’accumulazione del capitale si rende impossibile. La classe borghese, che vede minacciata la conservazione dei suoi privilegi sociali, si risolve ad un “fallimento ordinato” che le consenta di mantenere il controllo del potere politico. Questo fallimento, che verrà ad azzerare tutti i suoi debiti, è la guerra imperialista moderna. La guerra è la bancarotta del capitalismo e di tutte le sue promesse di progresso e di pace, ma anche la sua necessaria rigenerazione e, all’immediato, un suo grande affare.
Se la borghesia riesce a sottomettere la classe operaia alla disciplina interna di guerra, la sua crisi sociale è risolta e si pongono le basi per risolvere anche quella economica: tornano a riempirsi le fabbriche abbandonate, si riaccendono i freddi altiforni, si risolve con gli sterminii sui fronti il problema della sovrappopolazione operaia.
Ma, ben prima della guerra, il fallimento generale del capitalismo mondiale avrà conseguenze sconvolgenti su tutte le classi sociali, per prima sulla piccola borghesia, produttrice o rentier, piccolo industriale, artigiana e contadina, e sulle aristocrazie del lavoro; su questi fragili, quanto vasti strati la crisi si abbatterà come tempesta e vi provocherà panico e reazioni scomposte.
La crisi potrebbe così aprire un varco nella coesione sociale, attraverso
il quale la classe operaia, solo in quanto diretta dal partito comunista,
deve essere pronta a gettare il ferro della sua risoluta azione rivoluzionaria
volta ad abbattere dal potere tutti gli strati borghesi. Solo dopo si potrà
passare alla felice radicale de-capitalizzazione e de-mercantilizzazione
della economia e a ricostruire un vivere sociale su nuove basi non più
convulse, ma ordinate, armoniose e razionali.
Qualsiasi argomento è utilizzato dalla propaganda borghese per continuare a mistificare il comunismo davanti ai proletari, imputando al esso delle responsabilità che con il comunismo non hanno niente a che spartire.
L’ultimo è il ritrovamento di un filmato sull’agonia del giovane Jan Palach, che decise di sacrificare la propria vita come supremo atto di denuncia della occupazione della Cecoslovacchia da parte dai carri armati del Patto di Varsavia. Il rinvenimento presso gli archivi degli Studi del Cinema risale al 2002, ma in Italia si è voluto attendere il quarantesimo anniversario per esporre in iniziative e convegni la documentazione di quello che viene definito dai borghesi di ogni tendenza un martirio “contro il comunismo”. Alle celebrazioni hanno partecipato le più svariate correnti della borghesia, dagli anticomunisti fascisti, agli anticomunisti democratici, agli anticomunisti cattolici, agli anticomunisti... “comunisti”.
Nel gennaio del 1968 Alexader Dubcek venne eletto segretario del sedicente Partito Comunista Cecoslovacco al posto di Antonìn Novotny, rappresentante dell’apparato tradizionalmente ubbidiente a Mosca. Le “riforme” di Dubcek, che egli stesso chiamò “Socialismo dal volto umano”, nella famosa “primavera di Praga”, non erano dettate, come si voleva far credere, allora e oggi, da principi ideali e comuni a tutte le classi, ma da interessi borghesi meramente economici.
In seguito alla Seconda Guerra mondiale imperialista i vincitori si spartirono le aree di influenza, e all’Impero Russo dell’Europa spettò la parte ad Est, agli Usa quella ad Ovest. Robuste occupazioni militati americane e russe mantenevano il controllo sociale, politico ed economico nelle rispettive aree. Oggi, dopo il collasso dell’Impero Russo, l’occupazione americana si è estesa anche alla parte orientale del continente.
La Russia ai paesi del suo “campo”, che inopinatamente, per decreto bi-imperiale, fu definito “comunista”, applicava condizioni economiche da regime di occupazione con imposizione di prezzi alle esportazioni ben più alti di quelle del mercato mondiale. La Cecoslovacchia, essendo un paese allora già modernamente capitalista, benché tinto di “socialismo“, stava attraversando una grave crisi economica: aveva quindi bisogno per resistere, oltre che sfruttare meglio il proprio proletariato, di acquistare materie prime a prezzi inferiori di quelli praticati dal carceriere moscovita. La borghesia cecoslovacca cercò allora di “organizzarsi” per svincolarsi, nella misura del possibile, dalla dipendenza dall’Urss. Ma i tempi non erano ancora maturi: perché i capitalisti di Boemia Moravia e Slovacchia riescano a cambiare padrone dovrà passare ancora una intera generazione.
Il regime russo fece allora un ridicolo appello “all’internazionalismo proletario”, recuperato a coprire l’egoismo nazionale e borghese russo, dopo che almeno da dieci anni si andava insegnando la dottrina ingannevole e traditrice delle “vie nazionali” e da mezzo secolo del “socialismo in un solo paese”. Nell’agosto di quell’anno si passò alle armi e i carri armati russi invasero il paese, giustificando l’intervento in nome della difesa delle “conquiste socialiste”. Non queste ovviamente erano in pericolo, perché di socialismo in Cecoslovacchia mai ce n’era stato, ma il monopolio imperialista e gli extra profitti del capitale russo.
Lo studente Jan Palach si dette fuoco in piazza San Venceslao il 16
gennaio 1969 per protestare contro quella invasione. Certo non poteva immaginare
che la sua patria borghese, così brutalmente schiacciata, appena libera
dalla morsa degli eserciti “fraterni”, si sarebbe subito e consensualmente
auto-liquidata, facendo gettito di ogni orgoglio nazionale per meglio vendersi,
a pezzi, ai maggiori colossi, tedesco, americano ed anche russo.
Un sindacato di classe è, da sempre, oltre le ubbìe correnti, un organismo che si pone il compito di unire i lavoratori di tutte le categorie, per gli stessi e comuni obbiettivi, oggi quelli, evidenti a tutti, che impone la crisi, superando divisioni e pregiudizi per rendere possibile un unico fronte proletario in grado di opporsi all’attacco padronale e statale.
Questa la reale ed urgente necessità che molti lavoratori esprimono, ben comprendendo come, di fronte alle conseguenze della crisi economica, le vertenze di fabbrica sono insufficienti e si impone l’organizzazione e la lotta generale per obbiettivi comuni.
Questa esigenza è scaturita chiaramente anche dagli interventi di molti delegati alla seconda assemblea nazionale indetta da Cub, Confederazione Cobas e SdL intercategoriale, che si è tenuta al Teatro Ambra Jovinelli di Roma il 7 febbraio, con lo scopo di “rafforzare l’unità d’azione” tra le tre organizzazioni. L’assemblea ha visto la partecipazione di un folto gruppo di dirigenti dei tre organismi sindacali di base, oltre a Giorgio Cremaschi della ciggiellina Rete 28 Aprile, una delle componenti della “sinistra sindacale”, ma soprattutto di diverse centinaia di lavoratori, militanti, delegati Rsu, i quali hanno chiesto a gran voce di superare le divisioni e dare vita ad un’unica organizzazione sindacale.
Il problema è che i dirigenti di queste tre organizzazioni sindacali, che pur le presentano ai lavoratori come il punto di aggregazione per la costruzione del sindacato di classe, in realtà ne bloccano e rimandano la formazione di anno in anno.
Ciò che in realtà impedisce la unificazione di queste organizzazioni, la proclamazione di comuni obbiettivi e il raggiungimento di un’unica disciplina di movimento, non sono problemi di tipo sindacale, nel cui ambito, “fra lavoratori”, ogni contrasto è superabile, specie nell’odierno precipitare della crisi, ma inconfessabili tornaconti nei piccoli giri del politicantismo. Ognuna di queste organizzazioni sindacali è diretta e controllata, o contesa, fra determinati partiti, gruppi e correnti politiche. Questi partiti, tutti parlamentari o ex, sono “comunisti” e “proletari” solo di nome, e la loro prima preoccupazione, ed unica in quest’ambito, è quella di non perdere influenza all’interno della “loro” organizzazione sindacale. A parole parlano di unità, dichiarano di voler, “domani”, costruire un sindacato di classe; in realtà hanno sempre messo paletti e sbarramenti per difendere ognuno il proprio orticello, nel timore che, unendoli, un’altra consorteria potrebbe prevalere.
I partiti che hanno la direzione delle organizzazioni sindacali di base (e si diffidi soprattutto di quelli che rivendicano la “indipendenza dai partiti”), a causa del loro programma che è democratico-borghese ed in realtà anti-comunista, non solo non possono svolgere il compito di agevolare la rinascita del sindacato di classe, ma sono lì ad impedirla. Non è nemmeno tenuto nascosto che i dirigenti, tutti ormai sindacalisti “di mestiere” e con distacchi a vita, si comportano con le organizzazioni come se fossero cosa loro e non si vergognano di strapazzarle pubblicamente e a piacimento in totale disprezzo di ogni regola e finalità.
Non si spiega altrimenti come il difficile impegno prodigato contro corrente per decenni da tanti militanti, nelle categorie e nei posti di lavoro, con dedizione e spesso sacrificio, non sia riuscito a mettere insieme che una rissosa consorteria di micro-sigle devastate da una serie interminabile, ed evidentemente interminata, di scissioni, i motivi delle quali sono comprensibili solo agli “iniziati”.
Noi sappiamo che solo un partito veramente comunista, espressione della sola classe operaia e che in essa già rappresenta la sua negazione post-salariale, che solo il nostro partito potrà anticipare, accompagnare e assecondare, senza contraddizioni, la lotta per la difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro del proletariato; noi sappiamo che questa lotta, prima parziale e limitata, è destinata ad allargarsi, a diventare lotta generale di classe; noi sappiamo che questa lotta, anche sul piano difensivo, non potrà essere condotta sul piano della legalità ma dovrà forzatamente rompere la legalità borghese, che impone margini sempre più stretti al movimento dei lavoratori (come dimostrano anche i recenti provvedimenti contro lo sciopero nel settore trasporti); noi sappiamo che questa lotta sindacale, ad un certo grado di estensione ed energia, trapasserà necessariamente in lotta politica per l’abbattimento del regime capitalistico e l’instaurazione della dittatura del proletariato.
Noi comunisti rivoluzionari questo lo sappiamo, e per questo affermiamo che è dannoso e stupido cercare di imporre una definizione di tipo politico-ideologico alle organizzazioni sindacali. Scopo del sindacato di classe è inquadrare per la lotta quanti più lavoratori possibile. Non è “tingendoli di rosso”, trasformando i sindacati in “partiti operai”, che si può raggiungere questo obbiettivo.
I partiti si definiscono dalla ricchezza e completezza del loro programma che scaturisce e fa riferimento ad una sola classe; ma in essi milita una minoranza di individui, appartenenti a tutte le classi; i sindacati hanno un rudimento di programma, duro ed essenziale, ma ad essi aderisce la maggioranza dei lavoratori, e solo lavoratori. I due piani sono entrambi necessari alla lotta della classe operaia, sono sì utilmente comunicanti, ma hanno tempi e funzioni diverse e debbono restare distinti. È solo per la confusione imperante in questo campo nel sinistrume, dagli anarchici ai post-sessantottini, che si vanno a perorare “alleanze politiche” con tutti, impossibili e interclassiste, che finiscono per confondere e indebolire e non rafforzare il movimento.
Saranno le nuove generazioni di lavoratori, spinti dall’intollerabile
peggioramento delle loro condizioni, a trovare la forza e la determinazione
per liberare le loro organizzazioni da questi metodi, che sono quelli tipici
del sindacalismo di regime, come per esempio le iscrizioni per delega.
Dal risorto movimento difensivo della classe sorgeranno i suoi nuovi dirigenti,
che energicamente dovranno far pulizia dei veti incrociati e degli interessi
particolari, propri di quello che, nella nostra secolare tradizione, definiamo
“opportunismo”.
Si è svolta con unanime apprezzamento e soddisfazione la riunione generale del partito, che abbiamo convocato nella sede di Firenze nei giorni 31 gennaio e 1 febbraio scorsi. Erano presenti rappresentanti praticamente di tutti i nostri gruppi e con arrivi dalla Spagna, dalla Francia e dalla Granbretagna.
Nonostante lo sciopero in Francia, con le sue ripercussioni sui trasporti, ci abbia costretto ad alcune modifiche nell’ordine dei lavori, siamo riusciti ugualmente a svolgere tutti gli impegni previsti, anche nella parte organizzativa del venerdì pomeriggio e del sabato mattina, aspetti che non vogliamo chiamare “tecnici” in quanto nel partito niente è neutrale, cioè indifferente allo scopo. Mezzi e fini si determinano reciprocamente ed il “come” si lavora influisce su quanto prodotto. Il frutto della nostra collettiva milizia, che appare oggi prevalentemente sulla stampa, non è da valutare in sé, soltanto, ma come risultato del giusto metodo comunista.
È evidente che il partito non vuole con ciò sentirsi separato dal resto del mondo, in particolare del suo, cioè della classe operaia. Ma siamo convinti che il futuro accrescersi, qualitativamente e quantitativamente, dell‑organo rivoluzionario, forse anche senza doverlo dire e in serena naturalezza, scanserà dalla sua strada tutti gli strumenti tipici del granduomismo, della polemica fra opinioni, del politicantismo e simili miserie borghesi.
Dopo le sedute organizzative, quindi, abbiamo dedicato il pomeriggio
del sabato e la mattina della domenica all’esposizione delle relazioni.
Queste non sono presentate ai compagni per essere da loro approvate, respinte
o criticate, ma sono da tutti considerate ed apprezzate come contributi
parziali ad un lavoro unitario, che si svolge “secondo un piano”, tendente
al sempre migliore ordinamento della scienza storica di classe, che ha
la sostanza e la forza di una impersonale massa materiale.
CORSO DELL’ECONOMIA CAPITALISTA
Il primo rapporto, sul corso della crisi economica, ha esposto i grafici relativi agli incrementi della produzione industriale dal 1973 agli ultimi mesi del 2008, includendo già la fase iniziale dell’attuale crisi mondiale, rimasta esclusa dagli aggiornamenti nella precedente riunione. Abbiamo considerato la tabella riportante i valori assoluti annuali della produzione industriale, la durata dei cicli brevi, la crescita media nei cicli brevi, e i valori massimi assoluti, raggiunti di volta in volta prima del termine di ciascun ciclo, per gli anni dal 1929 al 2007.
Grafici e tabella hanno riguardato le economie capitalistiche dei seguenti paesi: Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia, Cina e India.
Tutti i grafici riportavano gli incrementi della produzione su scala annuale fino al 2007 e mensile dal gennaio 2008, così da avere un maggior dettaglio per gli ultimi dodici mesi.
Tutti i paesi presi in esame, tranne Cina e India, nel corso del 2008, chi prima chi dopo sono entrati in recessione, la crescita della produzione industriale ha prima rallentato, poi è divenuta negativa, cioè decrescita della produzione. Cina e India nel 2008 non entrano invece in recessione, ma subiscono tuttavia un marcato rallentamento del ritmo di crescita.
Abbiamo analizzato singolarmente ciascuno dei nove capitalismi sulla base dei grafici e della tabella.
1) Il primo grafico esposto è stato quello degli Stati Uniti, ancora massimo capitalismo mondiale. Il primo dato negativo nella produzione industriale si registra a giugno 2008: -0,1%. Nei mesi successivi la contrazione accelera: luglio -0,2%; agosto -1,5%; settembre -4,5%; ottobre -4,1%; novembre -5,5%; dicembre -7,8%. Il dato medio per il 2008 risulta quindi già negativo: -1,5%. L’anno di valore massimo in termini assoluti della produzione industriale USA è stato di conseguenza il 2007, pari all’indice 2.375, culmine di un ciclo breve di 7 anni, 2001-2007, con un incremento medio decisamente asfittico dell’1%, chiaro indice della senilità del capitalismo statunitense e della prossimità della sua crisi storica, qual’è quella attuale.
2) La Germania registra il primo dato negativo tre mesi dopo gli Stati Uniti: -2,3% a settembre. Anche per essa la recessione accelera: ottobre -3,9%; novembre -6,3%. Manca ancora il dato per dicembre ma il valore medio per il 2008 dovrebbe essere ancora positivo. Perciò l’anno di massimo per la borghese repubblica tedesca dovrebbe essere il 2008, con una durata del ciclo di 8 anni.
3) Il Giappone appare, anche in questa fase iniziale della crisi, come uno dei paesi in maggiore difficoltà. Il primo dato negativo nel 2008, se si eccettua uno -0,6% di febbraio, subito recuperato a marzo (+1,9%), è ad agosto, ma segna un brusco -6,9%. L’andamento appare più contraddittorio e quindi oscillante rispetto agli altri paesi. Ma la crisi morde più a fondo. A settembre si registra una tiepidissima ripresa (+0,2%) ma i dati successivi di ottobre e novembre sono pesantemente negativi: -7,1% e -16,2%! Il dato medio del 2008 perciò, pur non disponendo ancora dell’indice di dicembre, è previsto essere già negativo. L’anno di massimo per l’imperialismo del Sol Levante dovrebbe essere quindi il 2007, segnando così una depressione che dura da ben 16 anni con un incremento medio praticamente nullo: +0,47%. In sostanza il capitalismo giapponese dal 1991 ha smesso di crescere. L’incremento medio per i diciotto anni dal 1974 al 1991 era invece stato del 3,2%. La media di questi due ultimi cicli, 1974-1991 e 1992-2007, risulta quindi essere dell’1,9%.
4) Il quarto paese analizzato è stata la Francia, di cui disponiamo dei dati sino al novembre 2008, con un incremento medio per questi undici mesi già negativo: -1,4%. Questi gli indici degli incrementi della produzione industriale del 2008 mese per mese: gennaio +3,0%; febbraio +5,1%; marzo -4,2%; aprile +8,1%; maggio -1,8%; giugno -3,2%; luglio -2,0%; agosto -2,6%; settembre -1,9%; ottobre -7,2%; novembre -9,0%. L’anno di massimo anche per la Francia è stato quindi il 2007, che crebbe in media dell’1,2%. L’ultimo ciclo è stato di soli sei anni, iniziato nel 2002, con una crescita media, veramente misera, dello 0,4%. La crescita media nel ciclo lungo dal 1973 è stata dell’1,3%.
5) È seguito il grafico per il più vecchio fra i paesi capitalistici: la Gran Bretagna. Come già evidenziato alla riunione generale scorsa, essa e l’Italia, lasciando momentaneamente da parte la Russia, sono gli unici due paesi fra i nove presi in esame a non aver ancora risalito la china dopo la crisi del 2001. Si intende dire con ciò che, raggiunto il picco massimo nella produzione industriale nel 2000, in questi otto anni il livello della produzione è rimasto al di sotto di quel valore. Dal 2000 al 2007 il rinculo medio annuo della produzione industriale per la Gran Bretagna è stato del -0,5%. Dopo un 2007 con crescita praticamente nulla (+0,3%) questi sono i dati mensili per il 2008: gennaio 0,0%; febbraio +4,7%; marzo -4,6%; aprile +4,4%; maggio -4,1%; giugno -2,1%; luglio -1,9%; agosto -2,3%; settembre -2,2%; ottobre -5,2%; novembre -6,9%. Il valore medio per gli undici mesi del 2008 è uguale a -1,8%. L’incremento medio della produzione nel ciclo lungo dal 1973 al 2008 è del miserrimo 0,7%.
6) Fa coppia con la Gran Bretagna l’Italia. Anch’essa è in tutti questi anni rimasta al di sotto del livello produttivo raggiunto nel 2000. Dal 2001 al 2007 l’incremento della produzione è stato quindi negativo: -0,2%. Questi i valori annuali: 2001: -0,8%; 2002: -1,3%; 2003: -0,9%; 2004: +0,9%; 2005 -1,8%; 2006 +2,0%; 2007 0,5%. E questi i tassi mensili per il 2008: gennaio 0,2%; febbraio +3,1%; marzo -7,6%; aprile +8,4%; maggio -6,5%; giugno -5,4%; luglio -3,2%; agosto -5,3%; settembre -5,7%; ottobre -6,9%; novembre -9,7%. Il valore medio per gli undici mesi del 2008 è pari a -1,8%. Il valore medio dal 1973 è +1,2%.
7) Il settimo paese preso in esame è stata la Russia. Per il 2008 disponiamo dei dati fino a novembre: gennaio +4,5%; febbraio +7,5%; marzo +6,6%; aprile +9,1%; maggio +6,7%; giugno +0,8%; luglio +3,2%; agosto +4,7%; settembre +6,3%; ottobre +0,6% e novembre -8,7%. L’indice medio dell’incremento della produzione per questi undici mesi del 2008 è quindi +3,75% ma è evidente il brusco rallentamento segnato dai dati di ottobre e novembre. La Russia, non ex-comunista ma già-capitalista, è ormai pienamente nel turbine della crisi mondiale dalla quale al tempo dell’Urss poteva in una certa misura proteggersi dato il relativo, e reazionario, isolamento finanziario e commerciale all’interno dei suoi confini di potenza fra l’imperialista e il coloniale.
8) Gli ultimi due paesi presi in esame sono stati i giovani capitalismi indiano e cinese, che tanto hanno fatto sperare e temere i borghesi di tutto il mondo.
Per la Cina va ribadita la fondamentale avvertenza fatta nella precedente riunione, ai compagni nell’esposizione orale e ai lettori nel resoconto su questo giornale, circa il criterio di calcolo della produzione industriale utilizzato dagli uffici statistici dello Stato cinese. Mentre usualmente per valore della produzione si intende, per ciascuna azienda, solo il valore aggiunto (salari più profitto, per noi marxisti), le statistiche cinesi prendono in considerazione tutto il fatturato (capitale costante + capitale variabile + profitto). Questo fa sì che lungo una filiera produttiva lo stesso capitale costante contenuto nei prodotti sia conteggiato non una volta ma tante quanti sono stati i passaggi successivi fra aziende dalla materia prima al prodotto finale. Le performances del capitalismo cinese sono quindi da ridimensionare.
Anche per il 2008 i valori degli incrementi per tutti i dodici mesi sono positivi ma da agosto si registra un marcato rallentamento. Questi i dati: gennaio +11,7%; febbraio +11,7%; marzo +14,0%; aprile +12,0%; maggio +12,3%; giugno +12,3%; luglio +11,0%; agosto +9,2%; settembre +7,8%; ottobre +4,7%; novembre +2,0%; dicembre +2,3%. Il dato medio per il 2008 è quindi +9,25%. Quello per il ciclo lungo 32 anni, 1976-2007, 11,1%.
9) Infine anche il capitalismo indiano, come quello cinese, continua
a godere di tassi positivi di incremento dell’industria, ma in forte
calo da agosto. Questi i dati per i primi undici mesi del 2008: gennaio
+6,2%; febbraio +9,5%; marzo +5,5%; aprile +6,2%; maggio +4,4%; giugno
+5,5%; luglio +7,4%; agosto +1,3%; settembre +4,8%; ottobre -0,4%; novembre
+2,4%. L’incremento medio per questi undici mesi è del 4,8%. E per il
ciclo dal 2001 al 2007 del 7,4%.
Nella riunione si è voluto cambiare la sequenza di presentazione dei capitoli della V Sezione del III Libro, che fino a quel momento avevano costituito la nostra traccia, per esporre la fondamentale legge della III Sezione e le sue conseguenze, che per noi costituisce il motore primo della travolgente crisi che sta sconvolgendo il sistema finanziario.
Non abbiamo mai impostato il nostro lavoro sull’onda dell’evento specifico, ma la condizione affatto eccezionale della fase attuale del capitalismo, per la sua sua crisi generale, e la terribile confusione teorica ed ideologica che sull’argomento è fatta da tutte le parti, comprese quelle sedicenti marxiste o “rivoluzionarie”, ci ha dettato questa variazione.
In particolare, ancor prima di affrontare l’esposizione, abbiamo presentato concetti ed elementi basilari della finanza più recente, con l’intento esplicito di dimostrare che nelle loro strutture non ci sono le tante pretese novità rispetto ad un’analisi condotta, con intento rivoluzionario, alla fine del diciannovesimo secolo del trascorso millennio.
Per la nostra dottrina quella legge esposta nella Terza Sezione sta alla base delle crisi generali del capitalismo; da essa traggono necessità le cosiddette “bolle finanziarie”, essa ne determina poi lo “scoppio”. Terza Sezione e Quinta costituiscono per noi una struttura unitaria, che è presentata nel Terzo Volume in modo sezionato, ma che spiega globalmente il tracollo del capitalismo in determinate e contenute fasi storiche, in “finestre” (come si direbbe secondo un’espressione alla moda) temporalmente delimitate.
Nessun’altra scuola individua con la nostra tagliente sicurezza la causa vera e definitiva del collasso in atto. Per noi è chiaro che l’affanno sempre più grave nel mondo della produzione ha per effetto le convulsioni nella finanza, e non viceversa. Ma questa è una lezione che la pretesa scienza borghese finge di ignorare, e della quale le impacciate teorizzazioni pseudo marxiste di tanti sinistri non riescono a comprendere fino in fondo le implicazioni. Il lavoro e la sua esposizione si sono svolti quindi su piani distinti ma strettamente connessi, della critica dell’economia e dell’analisi, pur sommaria, degli aspetti più significativi della crisi finanziaria in atto.
Per un approccio ai problemi della fase presente, ci siamo fatti guidare da due illuminanti letture della Quinta Sezione, tratte dai Capitoli 30 e 29. Nella prima, “Capitale monetario e capitale effettivo - prima parte”, che abbiamo definito “la vigilia della crisi”, si tratteggiano le condizioni produttive e finanziarie che conducono alla crisi e la situazione contraddittoria tra capitale finanziario (“monetario”, nel titolo) e capitale industriale (“effettivo”).
«In un sistema di produzione in cui tutto il meccanismo del processo di produzione riposa sul credito, deve evidentemente prodursi una crisi, una affannosa ricerca dei mezzi di pagamento, al momento in cui improvvisamente il credito viene a mancare e tutti i pagamenti devono essere fatti in contanti. A prima vista sembra quindi che la crisi nel suo complesso, sia unicamente una crisi creditizia e monetaria. Ed effettivamente si tratta in realtà unicamente della convertibilità delle cambiali in denaro. Ma queste cambiali rappresentano, per la maggior parte, acquisti e vendite reali che, avendo assunto un’estensione di gran lunga superiore al bisogno sociale, sono in definitiva la base di tutta la crisi. Inoltre una massa enorme di queste cambiali rappresenta soltanto affari truffaldini che vengono ora finalmente a galla e scoppiano; rappresentano anche speculazioni fatte con capitale altrui e non riuscite».
Della seconda parte, “Elementi del capitale bancario”, ci siamo serviti per discriminare gli elementi che lo costituiscono ciascuno dei quali, nella simbologia moderna, è indicato con la lettera “M” seguita da un diverso indice numerico.
In particolare sono stati discussi due caratteristiche del capitale bancario e del suo “contraltare”, il debito pubblico.
«La forma di capitale produttivo di interesse del primo, il capitale bancario, è costituita in tal modo che ogni reddito monetario debba apparire come l’interesse di un capitale, che provenga da un capitale effettivo, operante nel processo industriale o nella circolazione commerciale, oppure no». Siamo qui nel caso della pura speculazione finanziaria. Poco dopo nota di sfuggita Marx: «In generale il capitale produttivo di interesse genera le concezioni più insensate, al punto che per esempio i banchieri giungono a concepire i debiti come delle merci».
La rivendita del debito, quale oggi, straordinaria “novità” della “finanza creativa” del ventunesimo secolo, è quella dei cosiddetti “derivati”, ottenuti suddividendo i diversi debiti, confezionati in “prodotti finanziari” insieme ad altri di altre tipologie di debito, e venduti come obbligazioni sul mercato, questa la grande “novità” della finanza moderna che, si dice, avrebbe violato le regole del mercato!
Il secondo, il debito pubblico, è il capitale preso a prestito e consumato, speso, dallo Stato, che deve però continuare a pagare annualmente un certo interesse ai creditori. I quali, d’altra parte, prima della scadenza del prestito, non lo possono riscattare ma solo vendere a terzi. Ma, «quale che sia il numero delle successive transazioni, quello del debito pubblico rimane un capitale puramente fittizio, ed il giorno in cui questi titoli di credito diventassero invendibili svanirebbe anche l’apparenza di questo capitale. Ciò nonostante... questo capitale fittizio ha un suo proprio movimento».
Il rapporto è poi proseguito a spiegare i meccanismi capitalistici di creazione del credito e della sua circolazione, illustrando le funzioni della Banca Centrale che ne “genera” una parte, con indebitamento dello Stato, mediante l’emissione di obbligazioni da parte della sua funzione specifica, il Tesoro. Queste sono poi immesse secondo un certo tasso di interesse nel circuito commerciale tramite il sistema bancario, che ne provvede alla circolazione, sempre con un tasso di interesse.
La Banca Centrale, di cui alla riunione si è tratteggiata l’origine storica, oltre a generare credito, opera per modificare il tasso si interesse, tramite le operazioni che quotidianamente effettua sul mercato finanziario, comprando o vendendo Buoni del Tesoro o altri tipi di strumenti finanziari: obbligazioni, azioni e via di seguito, immettendo o ritirando denaro fino a raggiungere il tasso di interesse voluto.
La Banca Centrale dispone anche della facoltà di regolare i vincoli di riserva delle Banche che, a fronte del denaro ricevuto, possono a loro volta indebitarsi, concedere prestiti, cioè produrre a loro volta altro credito, fino ad un limite legale di 12-15 volte, la cosiddetta “leva finanziaria”: le Banche “moltiplicano” così il circolante. Quindi il debito complessivo nel circuito finanziario è sempre molto superiore al denaro e ai titoli di Stato effettivamente esistenti. Debito produce altro debito. Se per ventura contemporaneamente si chiedesse la conversione in denaro di tutti i titoli di credito in circolazione, fallirebbe l’intero sistema bancario. Ma finché il sistema produttivo cresce e si sviluppa, l’equilibrio dinamico complessivo è assicurato.
Nelle situazioni che precedono la crisi la leva finanziaria concessa viene bellamente disattesa. Ad esempio la Barclays ha operato con una leva finanziaria di 60:1, i cosiddetti “Fondi di Copertura” (Hedge Founds), istituzioni finanziarie private, con leve di 40 e 50:1. Ciò che non può più essere generato nel meccanismo produttivo, lo si fa in quello della finanza.
Quando terminano le condizioni per la riproduzione crescente del capitale, il credito si concentra in qualche specifico settore, determinandone la crescita abnorme, che appare come una effettiva crescita di valore, essendo in realtà soltanto effetto di irrealizzabili fantasie su interessi futuri. Le crisi dell’ultimo decennio hanno avuto tutte lo stesso andamento di bolla finanziaria, il cui scoppio, per rimanere nella metafora, distrugge questi valori fittizi.
Ad ogni crisi la Banca Centrale americana, la FED – è quello l’epicentro capitalistico, il punto più forte e più debole del sistema mondiale – ha dovuto forzare l’espansione senza limite del credito, continuando ad emettere Buoni del Tesoro per “finanziare” un debito ognor crescente. Nella crisi le Banche Centrali sono costrette ad abbassare “il costo del denaro”, quel tasso di interesse primario, fino quasi allo zero, significando ciò una politica di forsennata emissione di circolante.
L’equilibrio dinamico complessivo è assicurato solo finché il sistema produttivo cresce indefinitamente. Perché alla base reale della crisi c’è solo, non ci stancheremo di ripeterlo, la produttività decrescente del capitale investito, cioè del “debito”: quanto è nella nostra dottrina chiamato “caduta tendenziale del saggio di profitto”.
A sostegno della corrispondenza empirica di quanto affermato, sono stati presentati ai compagni due grafici riferiti alla finanza degli Stati Uniti d’America. Il primo mostrava l’andamento nel tempo, dal 1925 al 2008, del rapporto fra il “debito totale” e il “prodotto interno lordo”, cioè quanti dollari di debito sono stati e sono attualmente necessari per produrre un dollaro di prodotto. Il secondo, che è il reciproco del primo, quanti dollari ha prodotto dal 1966 al 2008 ogni dollaro di debito. Al netto delle differenze tra i due, dovute a fonti diverse e probabilmente a diverse metodologie di calcolo, il primo mostra una rapidissima impennata dagli anni ’80 in poi, con un rapporto al 2008 che indica che ci vogliono 4 dollari di debito per produrne uno di Pil. Il secondo, reciprocamente, espone una caduta costante che ai giorni odierni darebbe un ritorno di circa un terzo di dollaro ogni dollaro investito. Anche se i dati non coincidono, la tendenza è inequivocabile. Le crisi non possono avere spiegazione più chiara.
Se ci siamo addentrati in un terreno che non è il nostro, che appartiene
tutto ai nostri avversari, è per dimostrare la consistenza della nostra
dottrina, dei nostri schemi, che a distanza di un secolo e mezzo, fatte
salve le ovvie diversità tecniche – non conoscevamo alla fine dell’ottocento
le carte di credito, né le compensazioni per via telematica, e così via
– rende comunque perfettamente conto della situazione presente.
STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO AMERICANO
Nel 1857 vi fu un’altra crisi produttiva, che costò al proletariato statunitense un durissimo inverno. In quella occasione fu possibile toccare con mano il vero significato dell’ideologia del “Free Labor”, e capire da che parte stessero i suoi profeti quando si trattò di chiedere misure di sollievo e lavori pubblici per i disoccupati. La ripresa del 1858 portò con sé un’ondata rivendicativa non solo massiccia, ma anche ben organizzata; e di fronte gli operai trovarono analoga organizzazione della resistenza padronale, che non esitò a mobilitare la milizia.
La guerra, anche se significò un duro colpo alla lotta sindacale e anche alle condizioni di lavoro, fu accolta con favore dai proletari (anche degli Stati del Sud), che condividevano gli obbiettivi del Nord repubblicano.
L’entusiasmo antischiavista non era limitato ai proletari americani: anche al di qua dell’Atlantico la sconfitta del Sud era vista come un obbiettivo per il progresso dei lavoratori. «Non è stata la saggezza delle classi dominanti – scrisse Marx nell’Indirizzo Inaugurale dell’Associazione Internazionale degli Operai, del 1864 – ma l’eroica resistenza alla loro follia criminale da parte delle classi lavoratrici d’Inghilterra a salvare l’Europa Occidentale dal gettarsi a capofitto in un’infame crociata per la perpetuazione e l’estensione della schiavitù sull’altro lato dell’Atlantico».
Naturalmente la classe meno patriottica è proprio quella borghese che, mentre intona inni alla Patria, non perde mai di vista il suo obbiettivo primario, quello di fare profitti sempre e comunque. Con la scusa dell’emergenza bellica si compressero ancora di più le condizioni dei lavoratori, ma presto gli scioperi cominciarono a moltiplicarsi, con tassi di successo molto alti; inoltre dopo lo sciopero vittorioso era normale che restasse una struttura sindacale, e questo fu particolarmente vero per i settori ad alta presenza femminile, come quelli della fabbricazione dei sigari e dell’abbigliamento.
Mentre i sindacati nazionali, con poche eccezioni, erano negli anni della guerra poco efficienti, la classe operaia trovò il suo punto di raccordo e di organizzazione delle lotte nelle “Trades’ Assemblies”, né più né meno che le nostre Camere del Lavoro.
Nell’immediato dopoguerra si cominciò a sentire la necessità di
una rappresentanza politica, anche grazie all’esempio che veniva dall’Europa.
Nel 1866 quindi alcuni dirigenti di grandi sindacati organizzarono una
Convenzione. La Convenzione nazionale che si tenne a Baltimora sollevò
tutti i punti sensibili del movimento operaio americano (8 ore, organizzazione
dei non specializzati, lotte economiche) che sarebbero rimasti tali per
molti decenni. La questione femminile e quella dei lavoratori di colore
sarebbero stati affrontate negli anni successivi (ma non risolti) dal nuovo
organismo, la National Labor Union.
LA FONDAZIONE DEL PARTITO COMUNISTA CINESE
In chiusura della riunione del sabato, come premessa ad un nuovo studio
sulle origini del Partito Comunista Cinese, si dava lettura di alcuni documenti
scaturiti dalle riunioni per la sua fondazione tenute a Shanghai e a Pechino
nel 1920. Il lavoro, che riprodurrà anche questi primi documenti, tenderà
ad inquadrare la situazione della classe operaia in Cina e il suo percorso
organizzativo da una parte e dall’altra il formarsi di una minoranza
comunista e i suoi rapporti con la Terza Internazionale.
ORIGINE DEI SINDACATI NEL SECONDO DOPOGUERRA
Su Battaglia Comunista, allora nostro organo, troviamo una chiara visione della complessa questione. Nel numero del 19 novembre 1945 si leggono le “Tesi sulla politica sindacale del partito”, in cui si considera che al momento mancavano le condizioni per un raddrizzamento del sindacato ad opera della frazione comunista nel suo seno e che «l’eventuale ritorno del sindacato alle sue basi di classe non può risultare che dal riflesso nel suo seno dell’imperversare della lotta di classe». Si valuta poi la eventualità che i lavoratori comincino a disertare le organizzazioni sindacali per orientarsi verso altre forme di organizzazione, come i consigli di fabbrica, ricordando che al partito non interessa tanto la forma di organizzazione quanto la concentrazione delle lotte operaie. Si ribadisce quindi la necessaria unitarietà dell’organismo di massa e la contrarietà ad ogni iniziativa scissionistica. «Il Partito non si concentra in un’azione che si formalizzi nel tentativo di slegare le Commissioni Interne dal Consiglio di Fabbrica per farne un’organizzazione particolare».
«Il Partito respinge l’idea di promuovere o di partecipare a blocchi di “sinistre sindacali” sorte non dall’opposizione di classe del proletariato al capitalismo, ma unicamente dall’opposizione alla burocrazia sindacale per sé presa».
In altri articoli di fine 1945 e inizio 1946 vediamo come i nostri compagni, eletti in alcuni comitati direttivi sindacali, ne venissero poi estromessi dai centristi, in quanto “provocatori” e (giustamente) “antinazionali”.
Si denuncia poi come gli industriali fossero convinti dai sindacati a licenziare per gradi, in modo da spezzare l’unità di classe dei lavoratori, affidando alle Commissioni Interne il compito poliziesco di controfirmare queste “selezioni”.
Circa ai Consigli di Gestione si rileva che «abituano l’operaio a guardare tutti i problemi dall’angolo visuale corporativo della sua azienda».
Ad una riunione del Sindacato Edili a Genzano Laziale, ad un nostro compagno che sosteneva la necessità che il Consiglio Direttivo fosse composto solo di operai e non anche di datori di lavoro, venne risposto dal rappresentante della C.d.L., centrista, che potevano farne parte anche datori di lavoro “purché onesti”.
Il collaborazionismo dei sindacati confederali giunge al punto di inviare
al ministro dell’interno un telegramma per avvisarlo dell’esasperazione
dei lavoratori per il rifiuto degli agrari ad assumere. Il titolo dell’articolo:
“I nuovi tutori dell’ordine”.
LA GUERRA NELLA STRISCIA DI GAZA
La riunione di partito si è svolta pochi giorni dopo la conclusione dell’operazione “Piombo fuso” condotta dall’esercito d’Israele contro la popolazione di Gaza.
Il relatore, servendosi anche di dettagliate mappe della zona di guerra, ha cercato di ricostruire le fasi di quella che abbiamo definito sul nostro giornale una “operazione di polizia” antiproletaria, per esaminare se l’intervento, al di là della inevitabile ferocia spietata di ogni guerra, poteva avere un fondamento e una qualche utilità strategici. L’analisi ha dimostrato che i reparti armati e i servizi di polizia israeliani non hanno colpito in modo deciso la struttura militare di Hamas e che l’offensiva di terra si è diretta soprattutto contro la popolazione civile con lo scopo di spargere il terrore. Le forze occupanti si sono fatte fermare alla periferia dei centri abitati per non mettere troppo alla prova un esercito sempre meno convinto e affidabile.
Lo Stato d’Israele non ha attaccato Gaza per ottenere un qualche risultato politico o militare, ha scatenato la guerra perché questa rappresenta l’unica via d’uscita dalla crisi economica, politica, sociale che lo attanaglia, ed attanaglia tutti i suoi amici e nemici imperiali d’America, d’Europa e d’Asia, che in quelle coordinate geografiche necessariamente si incontrano e scontrano.
Il compagno ha poi ripercorso le tappe fondamentali della nascita della questione palestinese, cui si volle dare una dignità “nazionale”, che la storia invece gli ha sempre negato. Si ripercorrevano le vicende di quel popolo sfortunato dalla fondazione dello Stato d’Israele, alla fine della Seconda Guerra mondiale, fino alla situazione odierna che vede milioni di proletari palestinesi chiusi in Cisgiordania e Gaza come in due grandi prigioni di cui i militari israeliani sono i carcerieri e i governanti palestinesi i kapò.
Sono stati sessanta anni di guerre e di repressione, prodotto dalle contese interimperialistiche nel Medio Oriente, loro prezioso terreno di scontro, sulla pelle del proletariato della regione, palestinese soprattutto, ma anche libanese, siriano, giordano, egiziano e, non ultimo, israeliano.
Gaza è il mondo, con le sua miseria, il suo stato di guerra permanente, le sue mistificazioni religiose e nazionali. È quanto deve aspettarsi il proletariato di ogni paese dal regime capitalista e dalla sua crisi.
A differenza del comunismo marxista, che vede della guerra la responsabilità
borghese e la possibilità di evitarla solo nella distruzione del suo potere
politico, i movimenti del pacifismo interclassista mostrano tutta la loro
cieca impotenza. Anche nello sconvolto Medio Oriente solo la classe lavoratrice,
unita al di sopra delle frontiere, dei popoli e della cultura delle rispettive
borghesie, potrà, riconosciutasi nel suo partito, respingere tutti i sofismi
e distruggere il mostro del capitalismo e le sue guerre infami e reazionarie.
IL COLLETTIVISMO AGRARIO IN SPAGNA
Uno degli aspetti più vistosi della guerra civile spagnola fu senza alcun dubbio l’esteso processo di collettivizzazione agraria, che si ebbe in una infinità di forme nella zona repubblicana.
Lezione fondamentale della nostra corrente sulla Guerra di Spagna è che la mancanza del partito di classe, e perciò della chiara determinazione a distruggere lo Stato capitalista e ad impiantare la dittatura rivoluzionaria del proletariato, ha condotto il proletariato spagnolo ad una delle peggiori sconfitte nella storia della classe operaia mondiale. Tutte le organizzazioni presenti nel proletariato rinunciarono alla lotta di classe per accorrere alla difesa del capitalismo e della democrazia borghese.
Dopo queste necessarie e imprescindibili puntualizzazioni l’esposto è continuato facendo menzione di documenti dell’antichità classica nei quali si riferisce del comunismo agrario nella Penisola Iberica. La conquista romana influirà grandemente nella distribuzione della proprietà agraria, però i terreni comunali, in possesso a nuclei di popolazione rurale, si manterranno fino ad un periodo relativamente recente.
Nel secolo XIX, il processo liberale di assegnazione delle proprietà comuni mise all’incanto una gran parte di questo patrimonio ancestrale delle comunità contadine, del quale passaggio beneficerà ovviamente la borghesia a detrimento dei contadini poveri, che traevano dai terreni comuni la loro fonte di reddito e i mezzi di sussistenza.
L’arrivo della Seconda Repubblica con le sue demagogiche promesse, necessarie al capitalismo in un paese eminentemente agrario e con una grave crisi economica e sociale, aprirà un periodo di convulse rivolte contadine, tradite dai suoi rappresentanti politici a Madrid.
Lo scoppio della guerra civile fece sì che il contadiname, in modo quasi istintivo, collettivizzasse la immensa maggioranza dei terreni di proprietà dei grandi latifondisti. Fu l’ultima fiammata che s’incendiò a favore del collettivismo agrario, fiamma che era però condannata irreversibilmente a spengersi in assenza di una prospettiva rivoluzionaria comunista di classe.
Le collettività agrarie, nonostante le innegabili migliori condizioni nel livello di vita ottenute dai suoi membri, in maggioranza giornalieri e contadini poveri, erano inevitabilmente condannate a muoversi in ambito mercantile capitalista fintanto il potere politico rimaneva nelle mani della borghesia.
Particolare rilevanza nella sua progressiva dissoluzione ebbe la politica apertamente controrivoluzionaria dello stalinismo, espressione dello Stato capitalista russo, vero gendarme antiproletario a livello internazionale.
La corretta politica proletaria e comunista, tesa alla dittatura del
solo proletariato e del solo suo partito, in Spagna avrebbe invece dovuto
allora appoggiare un simile movimento in armi di contadini poveri e senza
terra – sebbene in sé, nelle loro aspirazioni di classe, siano costretti
fra la conservazione di forme passate e la conduzione proprietaria e aziendale
capitalista della terra – per convogliarne la forza d’urto contro lo
Stato dei capitalisti e dei fondiari per il suo violento abbattimento.
Concludeva l’esposizione dei rapporti dei nostri lavori di Partito la relazione sulla Questione militare incentrata in questa parte sull’organizzazione degli eserciti francesi dopo la rivoluzione del 1789, ed in particolare sulla fanteria che divenne l’arma principale dell’espansione della borghesia francese ora al potere.
Base economica della nuova imponente macchina bellica rimaneva ancora l’agricoltura che, secondo una statistica del tempo, forniva i tre quarti della ricchezza nazionale. Ma il settore delle trasformazioni industriali era in forte espansione ed in grado di fornire nel grande sforzo militare del 1793, solamente dalle officine di Parigi, ben 700 fucili al giorno compreso munizionamento ed uniformi. Dove non bastava la produzione arrivavano i decreti di esproprio della borghesia rivoluzionaria contro la nobiltà reazionaria, soprattutto per il vettovagliamento.
Dopo i grandi sforzi del generale Dumouriez nel ricostruire un primo esercito rivoluzionario da quello feudale, vennero i continui lavori di Napoleone Bonaparte che tendevano ad uniformare e standardizzare gli organici militari, amalgamando le vecchie formazioni rivoluzionarie, sovente improvvisate ma di gran valore, con quelle delle nuove leve obbligatorie.
Vista la struttura economica del tempo il proletariato era poco rappresentato nell’esercito, formato prevalentemente da contadini e sottoproletari.
In appena una decina d’anni ne triplicarono gli effettivi, nel periodo napoleonico si arrivò a 800 mila, possibile solo con un contemporaneo aumento dello sviluppo produttivo.
La forte carenza di ufficiali intermedi e superiori fu parzialmente contrastata con il riordino del rapporto quadri-truppa e l’attivazione di nuove scuole per ufficiali.
Un punto cruciale riguardava la catena di comando, ovvero il sistema di trasmissione degli ordini durante le operazioni belliche, che da Napoleone discendeva verso le varie unità le quali, secondo la nuova strategia dell’imperatore, erano dislocate su ampi fronti di manovra, che erano di un minimo di una quarantina di chilometri e fino ai quattrocento della campagna di Russia.
Engels nei suoi scritti militari spiega come dopo Napoleone le tattiche militari risultano modificate ed impostate dal nuovo modo di produzione, che rende possibili i principi della guerra. Le battaglie, fra eserciti di moderni Stati, sono condotte sul principio napoleonico di massicci mezzi d’attacco, uomini, artiglierie e movimento.
Nel Seicento si applicava la “strategia di attrito”, ovvero scaramucce, piccole battaglie con scontri e perdite volutamente contenute fra eserciti relativamente piccoli. Lo scopo dei fatti militari era di giungere il prima possibile ad una trattativa fra le parti per riassegnare il controllo di piccole estensioni di territorio quando non solo alcune fortezze o roccheforti. Nel Settecento, segno di un avanzamento produttivo, con Gustavo di Svezia si passa alla “strategia di esaurimento” con scontri più intensi e distruttivi allo scopo di erodere la volontà e la capacità del nemico a resistere. Qui decidono le battaglie e non le trattative. Con Napoleone, istinto pratico, meticoloso ed infaticabile, si ha la razionalizzazione della “strategia di annientamento”, ovvero la distruzione nel più breve tempo possibile di ogni possibilità e capacità d’azione del nemico. Strategia che è giunta fino all’attuale modo di condurre le guerre, con costi e devastazioni che crebbero vertiginosamente, segno questo dell’enorme disponibilità di ogni tipo di materiale, anche umano, messo a disposizione dalla produzione industriale a scala planetaria.
Gli schemi strategici, che Napoleone elaborava sulla base di attenti studi topografici dei teatri di guerra, si possono ricondurre a tre modelli base, che sono stati esposti alla riunione tramite degli schemi grafici.
Il primo, “aggiramento strategico alle spalle”, si basava sulla constatazione che i vecchi eserciti feudali marciavano compatti, seguiti a breve distanza dalla gran serie di carri delle linee di rifornimento, molto lenti, da cui dipendevano per ogni esigenza. Le truppe napoleoniche invece, addestrate a spostarsi a marce forzate di anche 50 chilometri al giorno con vettovagliamento individuale sufficiente alla giornata, avevano grandi vantaggi negli spostamenti. Individuata la formazione avversa, questa strategia prevedeva una dislocazione di truppe di fronte al nemico con compiti di attacchi diversivi mentre il grosso delle forze, protetto da uno schermo strategico naturale come un fiume o una serie di colline, attaccava alle spalle la compatta formazione avversaria tagliandole dalle linee di rifornimento e impedendole ogni manovra di sganciamento. Fu così a Mondovì, Lodi, Marengo, Jena e il suo apice a Ulm.
La seconda, la “posizione centrale”, fu usata quando, in inferiorità numerica, si tentava di impedire il congiungimento delle forze avversarie interponendo le armate nello spazio fra le due avversarie, permettendogli di sconfiggerle in sequenza. Mentre un contingente secondario trattiene un esercito nemico, Napoleone affronta e vince il primo e diretto avversario, e quindi attacca l’altro prima che abbia la meglio della sua forza di contenimento. Così a Montenotte, non altrettanto bene a Waterloo.
La terza strategia, detta “concentrazione sul campo di battaglia”, era usata per ingannare i nemici sulle reali intenzioni di movimento. In pratica Napoleone disperdeva le sue armate su un vasto territorio, permettendo loro quindi un migliore foraggiamento, e le faceva concentrare all’ultimo momento prima della battaglia decisiva giocando di sorpresa.
Il rapporto poi descriveva l’armamento tipo usato dalle fanterie dell’epoca,
le artiglierie e la cavalleria. Ne risulta un vantaggio delle forze inglesi,
con potenza di fuoco dei fucili pari al doppio di quelli francesi, delle
artiglierie e dei tipi di cavalli usati in combattimento, condizione dovuta
alla maggiore esperienza e tradizione nel campo della lavorazioni dei metalli
dell’industria inglese rispetto a quella francese.
Il marxismo ha individuato nella religione «il riflesso immaginario, nella testa degli uomini, di quelle forze esterne che dominano la loro esistenza quotidiana» (Federico Engels, “Antidühring”).
La specie umana non da sempre ha considerato l’anima come immortale, anche se il culto dei morti esisteva ancor prima delle religioni. Certi studi antropologici condotti su tribù primitive dell’Oceania e dell’Asia hanno evidenziato come l’uso di seppellire i defunti rispondeva all’esigenza di assicurare all’estinto una continuità di esistenza materiale: quindi si seppelliva il cadavere disteso in posizione del sonno, vestito con i suoi indumenti abituali, e con le armi per la caccia e altri oggetti di uso quotidiano; si pensava che il defunto continuasse a vivere e le sue spoglie venivano dipinte di rosso, il colore del sangue, che rappresenta la vita.
Ma il concetto di “anima” e di una dualità tra materia e spirito si introduce ad un certo livello di sviluppo della società, quando si era sostanziata una accumulazione di plusprodotti e si erano venute a formare le classi dove vi erano dei dominanti e dei dominati. A quel punto trova una collocazione ideologica il regno dei morti e l’immortalità delle anime, anche come forma consolatoria e di riscatto all’ingiustizia patita.
Fa quindi parte del bagaglio di molte religioni storiche, anche antiche, la nozione di una qualche forma di esistenza oltre la morte. Per quella cristiana, non alle sue origini, ha assunto l’aspetto individualistico di struttura penitenziaria per gli uni e compenso postumo per gli altri. Evidentemente di questo ambiente fantastico le Chiese terrebbero le chiavi e il controllo degli accessi per le anime, cosa assai utile per l’esercizio del potere temporale. Per questo i papi possono modificare l’archittettura dell’ultraterreno, cosa che, in teoria, dovrebbe essere immutabile ed eterna perché creata dalla divinità.
Le chiese giocano con le superstizioni per continuare ad affermare il proprio ruolo conservatore nella società.
Una “ristrutturazione” dell’oltretomba fu approvata da Papa Ratzinger, per cui venne abrogato il Limbo: il 20 aprile un documento Vaticano con l’abolizione di quel luogo-non-luogo cerca di risolvere un problema teologico considerato urgente. I vaticanisti più informati sui giornali informano che l’allora Cardinale Ratzinger, nel 1984 aveva già dichiarato di “non credere” al Limbo. Non ci è chiaro come si dirimono le questioni di dottrina all’interno della Chiesa cattolica!
Il Limbo è quel particolare ambiente oltremondano che fu istituito per quelle anime dei bimbi defunti e non battezzati i quali, non avendo ancora la coscienza del peccato, ma avendo conservato il peccato originale, non sarebbero potute entrare nel Regno di Dio; niente battesimo da parte della Chiesa - niente Paradiso! Oggi tanta indulgenza verso i non battezzati suona come un adattamento politico ai tempi contemporanei.
Resta però l’impianto religioso della Salvezza derivata dalla Redenzione, riflesso ideologico maturato nelle condizioni di vita degli schiavi prima, dei salariati poi. L’uomo è incapace di pagare alla divinità il prezzo del suo riscatto. Quindi necessita di un Redentore, un mediatore che paga per lui, con la sua passione e il suo sangue. Il meccanismo psicologico che si impossessa del lavoratore alienato è qui trasparente.
Una soluzione mistica che non dispiace per niente alla borghesia, classe sociale ormai putrefatta che ha sempre più bisogno dell’oppio religioso per il fine di conservare il suo dominio di classe, ormai ingombrante eredità di un passato superato dallo sviluppo delle forze produttive e dalla socializzazione del lavoro.
Nella rivolta degli schiavi moderni, illuminati dal loro programma
comunista emancipatore, sta la loro reale e terrena Salvezza.
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Il fallimento
dell’Ucraina, che si venda
all’Est o all’Ovest
Come ormai da alcuni inverni anche per questo 2008/2009 si riferisce sui media di tutta Europa il confronto tra Russia e Ucraina circa le forniture di gas.
La Russia sta tornando a svolgere un ruolo nello scacchiere imperialista e, essendo il primo produttore ed esportatore mondiale di gas, usa anche questa leva per rafforzare il suo potere. Si è fatta promotrice in questi anni della costituzione di un cartello del gas, dal nome Gas Exporting Countries Forum, simile all’Opec del petrolio, la cui prima riunione si è svolta nel 2001. Dal suo sito ne elenchiamo i membri: Federazione Russa, Algeria, Libia, Egitto, Qatar, Brunei, Emirati Arabi, Iran, Indonesia, Malaysia, Nigeria, Bolivia, Trinidad & Tobago, Venezuela, e come osservatori Guinea Equatoriale e Norvegia.
Dopo l’incontro alla fine di ottobre, quando i tre principali produttori di gas, Russia, Iran e Qatar, che detengono circa il 60% delle riserve al mondo, si erano già uniti, il 23 dicembre nelle sale del Cremlino il capo di Stato russo Dmitri Medvedev, ex presidente di Gazprom, ha annunciato l’accordo per il nuovo cartello, che avrà sede a Doha in Qatar. Questa alleanza per stabilire i prezzi del gas costituisce un nuovo scacco per i concorrenti imperialisti occidentali.
Attualmente con le repubbliche ex “sovietiche” il colosso russo del gas Gazprom stipula contratti della durata annuale e con tariffe di “favore“, mentre per i clienti europei gli accordi sono di lungo termine, fino a vent’anni, e i prezzi applicati sono quelli di mercato.
Da Il Sole 24 ore del 2 gennaio ricaviamo qualche dato. La media dei prezzi per l’Europa è stata di 400 dollari per mille metri cubi contro la stima di 320 per l’anno appena iniziato. Nel 2008 l’Armenia ha pagato il gas 110 dollari e la previsione per il 2009 è di 154, con l’intento di allineare i prezzi a livello di mercato nel 2011. Nel 2008 la Bielorussia ha pagato il gas 128 dollari e la richiesta di Gazprom per il 2009 è di 200 contro l’offerta di Minsk di 160; spera la “fedele” Russa Bianca che non ci siano date sull’allineamento dei prezzi. Nel 2008 la Georgia ha pagato il gas 260 dollari ma, dopo la guerra di agosto, la minaccia per il 2009 è di 500.
L’Ucraina per il 2008 era riuscita a tenere il prezzo a 179,5 dollari. Per quest’anno la Russia, dopo aver visto respingere la richiesta di 250 dollari, l’ha raddoppiata: «Dovranno pagarne 418», ha esclamato l’amministratore delegato di Gazprom, Aleksej Miller, alla televisione russa. Fino a pochi minuti prima il responsabile della ucraina Naftogaz, Oleh Dubina, era sembrato avvicinarsi a un compromesso, offrendo di pagare 235 dollari, meno dei 250 chiesti ma un po’ di più della precedente offerta ucraina, 201.
La questione si complica perché attraverso il territorio ucraino transita circa l’80% del gas russo esportato in Europa e Kiev pretende di alzare il nolo pagato dai russi. Naftogaz dichiara di non poter garantire il funzionamento sincrono del sistema di trasporto tra Ucraina, Russia e Unione Europea finché non sarà in vigore un nuovo contratto. Il prezzo chiesto da Naftogaz è di non meno di 2 dollari per ogni cento chilometri percorsi da mille metri cubi di gas, a confronto dei 1,70 dollari concordati per il 2008.
Mosca, all’indomani della ormai sbiadita “rivoluzione arancione” del 2004 aveva preso le sue contromisure per poter rifornire i clienti europei senza passare attraverso il territorio della ormai infida Ucraina.
Dei due progetti, il primo chiamato North Stream scaturisce da un accordo del settembre 2005 tra l’allora cancelliere tedesco Gerhard Schröder, in barba alla fantomatica unione europea, e il capo al Cremlino Vladimir Putin. L’accordo prevedeva la costruzione di un gasdotto posato sul fondo del Mar Baltico della lunghezza di 1.200 chilometri, per collegare la città di Vyborg, vicino a San Pietroburgo, con Greifswald, sulla costa nordorientale tedesca, scansando oltre all’Ucraina anche i territori della Polonia e delle tre repubblichette baltiche, Lettonia, Estonia e Lituania. Nella North Stream, di cui l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder è ora a capo del comitato degli azionisti, fanno parte, oltre a Gazprom con il 51% delle azioni, anche altri colossi multinazionali. La Wintershall controllata dalla Basf, nota azienda di primaria importanza nel settore della chimica, detiene il 20% del capitale, pari a quello in mano alla E.on, che ha il suo quartier generale a Düsseldorf ed opera nel settore energetico dalla produzione alla distribuzione; il restante 9% delle azioni appartiene alla nuova entrata, la Olandese Gesunie che, oltre ad amministrare la rete nazionale, gestirà il funzionamento e lo sviluppo di una vasta rete di gasdotti nel nord della Germania, tra cui il nuovo in cantiere.
Ma nel maggio 2008 il Parlamento europeo, con una scusa da far arrossire Pinocchio, appellandosi cioè ad una “minaccia per l’ambiente” e ad una petizione firmata da 30.000 cittadini, ha invitato la Gazprom a trovare un altro percorso per North Stream riuscendo a far procrastinare l’inizio dei lavori alla seconda metà del 2011.
Al secondo progetto, chiamato South Stream, fanno parte al 50% Gazprom e la compagnia italiana ENI. Il South Stream, del quale si starebbe valutando la possibilità economica e tecnica, prevede l’attraversamento del Mar Nero dalla costa russa di Beregovaya a quella bulgara, con un percorso complessivo di circa 900 km e profondità massime di oltre 2000 metri. Per il tratto dalla Bulgaria sono allo studio due diversi percorsi, uno verso Nord Ovest e l’altro verso Sud Ovest per il quale la Serbia avrebbe dato il benestare. Dal canto suo l’Europa, vista la situazione ha cercato di studiare la posa di un gasdotto, il Nabucco, che porterebbe il gas in Europa passando attraverso la Turchia e i paesi dell’Europa Orientale. Una rotta diversa per scavalcare i territori della Russia e per diminuire la dipendenza da essa.
Secondo i dati de Il Sole 24 ore, la domanda europea di gas è di circa 560 miliardi di metri cubi, approvvigionati nella seguente divisione: produzione interna circa 220, gas naturale liquido 60, gas importato attraverso gasdotti 260, di cui 140 dalla sola Russia. La previsione per il 2030 sarà di un aumento della domanda a 640 miliardi di metri cubi, così suddivisi: netto calo della produzione interna a 60, raddoppio delle quantità di gas liquido a 130, aumento delle importazioni attraverso gasdotti a 450, di cui 210 dalla Russia.
Visto che i progetti della North Stream e della South Stream a regime garantiranno rispettivamente 55 e 30 miliardi di metri cubi di gas all’anno appare del tutto evidente l’importanza geo-strategica della Ucraina. Anche il Nabucco che secondo le stime garantirebbe l’erogazione di 31 miliardi di metri cubi annui non risolverà la domanda futura europea. Ma a risolvere anche questo problema ci sta pensando la crisi in atto, che inesorabilmente farà abbassare la domanda e i prezzi. Sarà l’andamento della crisi a decidere se questi progetti verranno attuati, se potranno essere finanziati e se Gazprom riuscirà a mantenere una rendita tale da giustificare l’investimento. Le cifre di investimento stimate per i 3 programmi sono di circa 10 miliardi di dollari sia per il gasdotto nel mar baltico sia per il South Stream, e circa otto miliardi per il Nabucco.
Ma dietro la questione del gas c’è anche l’interesse della Russia di mantenere un certo controllo sull’Ucraina, che non più tardi di quattro anni fa sembrava avesse imboccato la strada, a suon di dollari ed euro, dei protettori Usa e Europei. Gli ultimi avvenimenti confermano che vi stia riuscendo egregiamente.
Durante un vertice nell’aprile scorso un nutrito gruppo di Paesi europei guidati dalla Germania aveva affermato a chiare lettere di ritenere “prematuro” predisporre per Kiev e Tbilisi i piani d’azione in vista dell’adesione “Membership action plans” (Map), il che avrebbe conferito ai due Paesi lo status di candidati ufficiali alla Nato. Con la guerra in Georgia della scorsa estate la Russia ha lanciato un pesante ammonimento ai confinanti Stati ex suoi satelliti ed ha ottenuto ciò che voleva. Proprio su questo punto in dicembre c’è stato un accordo tra Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Francia che favorisce una riapertura del dialogo tra Nato e Russia, e bloccando ufficialmente la candidatura di Ucraina e Georgia.
Dalle parole del ministro degli esteri Franco Frattini che esprime soddisfazione sul compromesso raggiunto a Bruxelles si evince il successo Russo: «Ucraina e Georgia vanno aiutate sulla strada delle riforme, ma era prematura una decisione sulla loro adesione o anche sullo statuto di membership».
In Ucraina la sceneggiata della “rivoluzione arancione”, pompata ed orchestrata in funzione anti-russa dalle borghesie occidentali, è ormai da tempo arrivata al capolinea. Con ribaltoni, accuse reciproche, intimidazioni, in questi quattro anni nel baraccone politico ucraino oltre all’arancione se ne sono viste di tutti i colori. Senza sprecare troppe parole citiamo solamente, in ordine cronologico, alcuni avvenimenti salienti.
Il 23 gennaio 2005, Yushchenko entra in carica e la “pasionaria“ della farsa rivoluzione arancione, Yulia Tymoschenko, diventa primo ministro. L’Ucraina si avvicina così agli Stati Uniti e all’Unione Europea. Passato un anno, nel marzo 2006, la coalizione “arancione” esce ridimensionata dalle elezioni parlamentari, iniziano le accuse tra il presidente e la “pasionaria”, che viene messa da parte, ed in agosto è nominato nuovo primo ministro il filo russo Viktor Yanukovich, che era stato anche accusato di aver avvelenato il rivale Yushchenko nel 2004.
Nell’aprile 2007 il presidente scioglie il parlamento fissando nuove elezioni che si svolgeranno in settembre con il risultato a strettissima maggioranza per la coalizione “arancione” e nel dicembre Yulia Tymoschenko viene rieletta premier dal parlamento ucraino.
Ad agosto 2008 la presidenza ucraina punta il dito contro Yulia Tymoschenko, accusata di non aver condannato l’intervento russo in Georgia, al fine di assicurarsi l’appoggio della potenza alle elezioni presidenziali del 2009. A settembre la coalizione filo-occidentale al governo travolta dalle accuse sembra finire definitivamente, al punto che il presidente scioglie nuovamente il parlamento indicendo elezioni anticipate. Ma, con un altro colpo circense, il 9 dicembre il partito del presidente Yushchenko e quello del premier Tymoshenko hanno ricostituito la coalizione di governo.
Questo ultimo accordo sembra stato imposto dal Fondo Monetario Internazionale il quale è dovuto intervenire perché la situazione del paese è a rischio fallimento. Infatti, ai due miliardi di dollari che Gazprom chiede vengano onorati, ci sarebbero da aggiungere ben oltre cento miliardi di dollari di debiti, che posizionano l’Ucraina tra le economie al mondo a maggior rischio di insolvenza, alla stregua di Pakistan, Argentina, Islanda, Ungheria...
La crisi economica ha fatto sì che la divisa nazionale abbia subito una svalutazione del 45% rispetto a settembre. L’unica boccata d’ossigeno per la moneta è provenuta dal rialzo dei tassi di interesse, saliti dal 18 al 22%. Ma la svalutazione ha infiammato l’inflazione spingendola al 20% che nelle ultime settimane ha toccato il 25%.
Se non fosse per il prestito di 16,5 miliardi di dollari da parte dell’Fmi, l’Ucraina sarebbe quasi a secco di liquidi e sull’orlo della bancarotta. La borsa ha ceduto il 74% dal gennaio 2008 e le azioni del principale gruppo che produce acciaio hanno perduto il 92% del loro valore.
Afferma l’agenzia Reuters: «Si è registrato un crollo del 20% della produzione industriale nel mese di ottobre, con punte del 44% nella raffinazione di idrocarburi e del 35% nella metallurgia – i due settori di punta dell’export nazionale. Questi numeri fanno pensare che i leader ucraini non abbiano la piena percezione di quanto sia grave la crisi e c’è da chiedersi se quel prestito sia sufficiente a ottenere qualche risultato, visto che i nuovi dati mettono l’intera situazione ucraina sotto una luce completamente diversa». Alla base dei negoziati che hanno preceduto il prestito del Fmi c’era l’assunzione che nel 2008 l’economia ucraina avrebbe avuto comunque una crescita del 6% rispetto al 2007, per subire poi un calo del 3% l’anno successivo; ma ora le dimensioni della crisi appaiono enormemente più gravi, con il cuore dell’apparato industriale del paese già arrivato praticamente al collasso. «Adesso – si legge in un comunicato della Goldman & Sachs – diventa assai problematico capire quanta parte dei 40 miliardi di dollari di debito dovuti nel 2009 potrà essere effettivamente pagata o rifinanziata». Tutto fa pensare che ci sarà un’ondata di fallimenti e che tutta l’economia nazionale sarà messa in ginocchio.
Il proletariato ucraino pagherà duramente questa crisi. Lo dice serafico anche il presidente Viktor Yushenko, affermando che ci si deve attendere il raddoppio, in pochi mesi, della disoccupazione.
Nel frattempo alcune migliaia di lavoratori delle acciaierie sono stati
posti in ferie non retribuite e dopo anni di silenzio in dicembre circa
cinquemila lavoratori ucraini hanno manifestato contro l’eventualità
di licenziamenti e tagli ai servizi sociali. Questa è l’unica risposta
e l’unica strada che i lavoratori d’Ucraina possono imboccare, abbandonando
le illusioni democratiche e nazionaliste, che in pochissimi anni hanno
dimostrato che coprono gli interessano della sola classe borghese. Anche
i lavoratori dei paesi già mentitamente “comunista” presto comprendono
che devono comunque difendersi, organizzarsi e lottare, in solidarietà
con i lavoratori di tutti i paesi e nella prospettiva della distruzione
del mondo del capitale.
La crisi economica internazionale mostra ogni giorno di più la sua natura di crisi strutturale del sistema capitalistico, di crisi di sovrapproduzione. I mercati sono intasati di merci che restano invendute e molti rami di industria sono costretti a ridurre la produzione o a chiudere intere fabbriche.
I disoccupati e i cassintegrati aumentano ogni giorno; per primi è toccato alle migliaia e migliaia di precari, agli immigrati, ma ora anche i lavoratori con contratto a tempo indeterminato rischiano il licenziamento, spesso senza alcun “ammortizzatore sociale”. Nonostante questo la cassa integrazione è cresciuta così tanto che lo Stato minaccia di non continuare a pagarla.
I vari governi borghesi, non solo europei ma di tutto il mondo, tentano di difendere la produzione e i profitti padronali che derivano dallo sfruttamento dei lavoratori, accollandosi centinaia di miliardi di euro di debiti di banche e industrie, manovre queste che per adesso sono servite solo ad aumentare a dismisura i debiti degli Stati. La crisi continua infatti ad allargarsi e colpisce anche economie, come quella cinese, che fino a pochi mesi fa erano considerate in pieno miracolo economico.
Le contraddizioni interne del regime capitalistico stanno determinandone la rovina.
Ma questo regime non cadrà da solo. Se sarà la classe borghese a mantenere nelle sue mani l’iniziativa politica, se non interverrà l’azione cosciente del proletariato internazionale, l’umanità andrà incontro ad una Terza Guerra imperialista, unico strumento che permette al Capitale di rigenerarsi attraverso la distruzione catastrofica di enormi masse di merci e di milioni di uomini.
Questa crisi dimostra che in regime capitalistico non c’è speranza per i proletari.
Oggi non è più possibile salvare una singola fabbrica, un singolo
settore, ma il proletariato può salvarsi solo ricostituendo la sua unità
di classe a livello nazionale, e tendenzialmente internazionale, per imporre
al padronato e agli stati borghesi:
- salario integrale ai disoccupati;
- riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario;
- uguali condizioni di lavoro e retribuzione per i precari, i giovani,
gli immigrati.
Per questo diventa sempre più urgente la ricostituzione di un unitario Sindacato di Classe, che attui una politica di difesa incondizionata dei lavoratori, contro l’interesse dell’economia nazionale borghese, fuori dalle compatibilità capitalistiche!
Per conservare nell’oggi la prospettiva comunista rivoluzionaria, per guidare domani il proletariato alla lotta per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura proletaria occorre l’organizzazione politica del proletariato, il Partito Comunista Internazionale.