|
|||||||||
|
|||||||||
|
PAGINA 1
Unire le lotte, per
la difesa dei salari, non delle aziende!
La crisi economica del capitalismo continua ad aggravarsi, e peggiorano duramente le condizioni di vita della classe lavoratrice. La crisi non è passeggera, ma storica: è una irreversibile crisi di sovrapproduzione. Il capitalismo è ormai decrepito, saturo di merci e capitali, e non esiste politica borghese, di destra o di sinistra, che possa rimediare a questo fatto ineluttabile.
La sola risorsa a disposizione della borghesia per mantenere il suo regime economico e i suoi privilegi è quella di aumentare lo sfruttamento del proletariato: diminuire il numero dei lavoratori attivi, ingigantire la disoccupazione, abbassare i salari, esasperare l’intensità del lavoro.
Ma questo non risolve la crisi, che è solo dilazionata e resa più generale: come fu nella prima metà del Novecento, la temporanea soluzione per il capitalismo sarà una nuova guerra mondiale, per la distruzione delle merci e dei capitali in eccesso, un rito di morte necessario a questo infame sistema economico per mantenere in piedi il suo cadavere, che ormai appesta il mondo intero.
La classe lavoratrice può e deve opporsi fin da oggi a questa prospettiva ed iniziare a incamminarsi sulla strada della successione storica al capitalismo, nel vortice della sua crisi: l’emancipazione dal lavoro salariato, il Comunismo.
Ma per decenni la politica borghese dei sindacati di regime (Cgil-Cisl-Uil-Ugl) ha diseducato i lavoratori a lottare e li ha convinti che solo attraverso la “concertazione” e la “collaborazione” con i padroni fosse possibile ottenere almeno un effimero “benessere”. Oggi che il capitalismo sta mostrando il suo vero volto, precipitando nella miseria milioni di lavoratori, la classe operaia non sa come reagire. Essa è oggi come un bambino che deve imparare a camminare, ed è naturale che inciampi anche negli ostacoli più grossolani.
La borghesia alterna il bastone alla carota: da una parte poliziotti e tribunali sono pronti ad intervenire nei casi in cui i lavoratori si mostrano più combattivi, nello stesso tempo si illude la classe con gli “ammortizzatori”, si concede un po’ di cassa integrazione, si scaglionano dismissioni e licenziamenti, si fanno false promesse di rilancio aziendale.
A questo fine il padronato si appoggia agli attuali falsi sindacati, traditori degli interessi della classe operaia, e ai falsi partiti operai. Questi sindacati e partiti di regime fanno leva sulla impreparazione e sulla ingenuità della maggioranza dei lavoratori per mantenerli isolati all’interno delle proprie aziende, facendo apparire ogni singola lotta un caso da affrontare e risolvere a sé.
Anche in Italia sono centinaia le aziende in cui i lavoratori devono affrontare la chiusura, i licenziamenti, i peggioramenti salariali e normativi. Ma ogni singola lotta avviene e si sviluppa entro i confini aziendali, separata e opposta alle altre. E per il padronato è una questione vitale mantenere divisi i lavoratori, perché più impedisce e ritarda la reazione organizzata della classe operaia, più è libero di peggiorarne le condizioni a vantaggio dei profitti aziendali e del capitalismo in generale.
La realtà è invece opposta. Se è vero che ogni azienda ha le sue peculiarità è altrettanto vero che non è la malvagità o l’incapacità del singolo padrone ma la crescente crisi mondiale del capitalismo che spinge il capitale in tutti i paesi a misure sempre più estreme contro i lavoratori. Al di là dei casi singoli l’obbiettivo che unisce tutti i lavoratori, quelli che temono per il loro posto di lavoro come quelli che sono stati licenziati, i precari come i lavoratori fissi, i vecchi come i giovani, è la difesa del loro salario, indispensabile per vivere in questa società.
Il sindacalismo di regime invece – con la Cgil in testa e la sua “sinistra” allineata – sottomette la difesa del salario alla difesa del posto di lavoro. Condiziona la vita della classe operaia alla buona salute del Capitale. Si chiedono così quattrini per i padroni perché tengano aperte le aziende, perché non licenzino, ma ci si guarda bene dal garantire un salario ai licenziati; si dà la parola d’ordine della “difesa del posto di lavoro” o del “blocco dei licenziamenti”, ma ci si guarda bene dal rivendicare un salario ai lavoratori disoccupati.
Indirizzate invece alla “difesa del posto di lavoro” le maestranze, chiuse all’interno dell’azienda, saranno disposte a sopportare ogni sacrificio pur di mantenere in vita la macchina stessa che li sfrutta, come già avviene in alcuni casi (Eutelia) in cui i dipendenti continuano a recarsi quotidianamente al lavoro senza percepire lo stipendio. Di fatto si mettono così i lavoratori di un’azienda in diretta concorrenza con quelli delle altre del settore.
Il capitalismo domani avrà sempre maggiore difficoltà a mantenere in vita la sua struttura produttiva. I lavoratori devono quindi lottare in difesa della propria vita noncuranti della sopravvivenza del capitalismo stesso e della sua cellula produttiva, l’azienda. La classe operaia deve tornare a rendersi non responsabile e nemica di questo regime economico. Sempre più si dimostra che la vita della classe operaia, in realtà, è possibile solo distruggendo il Capitale.
Oggi, per uscire da questa grave contraddizione, è necessario intraprendere un percorso tendente alla ricostruzione dell’organizzazione sindacale di classe. Sarà questa necessariamente fuori e contro i sindacati di regime, ormai irrecuperabili; sarà strutturata verticalmente per categorie, ma anche territorialmente, come nella gloriosa tradizione delle Camere del Lavoro, per unire i lavoratori delle aziende grandi e piccole; tenderà ad un coordinamento nazionale ed anche alla solidarietà internazionale del movimento; considererà strumento più efficace di lotta lo sciopero generale, per avanzare le rivendicazioni veramente unificanti di tutta la classe che lavora:
- Salario garantito ai lavoratori disoccupati
- Riduzione di orario a parità di salario
- Aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate
- Diritti di cittadinanza ai lavoratori immigrati.
Fra un mese andrà di nuovo in scena la triviale farsa borghese della “volontà popolare” con le elezioni che stavolta avrebbero valenza regionale. La propaganda borghese di destra e di sinistra, nel tentativo di scalfire la giusta indifferenza per le elezioni di molti proletari, afflitti da ben altri problemi, si è messa in moto utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione e tappezzando le città con offensivi manifesti pieni di faccioni e con le vuote parole della peggiore pubblicità commerciale.
Il marxismo da sempre afferma che attraverso il voto il proletariato può, tutt’al più, scegliere la cricca di politicanti che, per un certo numero di anni, coordinerà gli interessi del Capitale, contrapposti ai suoi. In definitiva la classe lavoratrice è chiamata a mettere la croce su chi, a turno, la manterrà oppressa alle inesorabili leggi di questo putrido sistema economico.
La crisi di sovrapproduzione spinge i governi mondiali ad attaccare le condizioni di vita e di lavoro di un proletariato diviso e disorganizzato per cercare di rinviare l’ineluttabile collasso a cui il capitalismo, per sua natura, è diretto.
La sola strada che possono percorrere i lavoratori è quella di ritrovare
la loro smarrita coscienza di classe, che non passa attraverso il
voto, ma nella riappropriazione dell’unico mezzo di lotta, lo sciopero,
e della coscienza storica, che ritroveranno militando generosamente
nel
loro partito – il Partito Comunista Internazionale – quando, finalmente
liberi dal mito borghese della democrazia, ritroveranno il loro fine ultimo,
la emancipazione rivoluzionaria dalla schiavitù del lavoro salariato.
È finalmente esplosa forte e fiera la rabbia dei braccianti immigrati. Pugno in faccia ai lustratori del capitalismo e del suo “progresso”, lo sciopero, che questo è stato, esploso a Rosarno non è episodio di una guerra fra razze, ma fra opposte classi sociali, una tipica lotta di braccianti stagionali con i medesimi tumultuosi tratti della sua storia secolare. Da una parte uno strato di puri proletari salariati che, come tutta la loro classe, non hanno niente da perdere e non hanno patria, dall’altra i fondiari, i capitalisti agrari, il loro Stato e polizia e i loro giannizzeri armati, con su gli alberi i frutti che intanto maturano.
È bastato che la classe si alzasse in piedi per terrorizzare i borghesi e far sparire dalla scena tutti i suoi bravacci.
Sì, è vero che le condizioni di alloggio, di retribuzione e di lavoro a Rosarno erano “da schiavi”, come ora tutto il pretume borghese finge di accorgersi e di lamentare. Ma quelle sono da sempre le condizioni della parte più bassa e avventizia della classe lavoratrice. Sono quelle paghe al limite della sopravvivenza e quelle lunghe giornate di lavoro la condizione normale e inevitabile a cui nel capitalismo tende tutta la classe operaia, nel capitalismo nascente ottocentesco come nel contemporaneo in declino e morente. È forse diversa la condizione dei giovani lavoratori precari anche al Nord, cittadini italiani e di razza bianca? E guadagnano più dei 30 euro al giorno del “negro”? E non sono ugualmente licenziati senza preavviso e senza le paghe arretrate quando comoda al padrone?
Il razzismo, frutto di una lurida campagna ben organizzata dai mestatori del regime borghese, è lo strumento necessario per dividere il fronte della classe operaia. Altra grande frattura è quella imposta fra vecchi operai “garantiti” e giovani privi di qualsiasi protezione e previdenza. Non si tratta di combattere il razzismo con l’anti-razzismo, non di “integrarli” nella “nostra” società, ma di integrarli nella nostra classe e nelle sue lotte. E da integrare, ben si vede, non sono i braccianti immigrati, ma gli operai italiani!
Niente di questa semplice verità traspare dagli atteggiamenti dei sindacati di regime, si veda il documento della Fiom, ma anche quello di un sindacato di base come le RdB. Tutto è addebitato alla “criminalità locale”, come se il problema, invece che connaturato alla società del capitale, fosse di “ordine pubblico” o prodotto di una particolare “immoralità”, contro la quale soltanto i lavoratori dovrebbero lottare, evidentemente insieme ai borghesi “onesti”, perché il loro Stato funzioni ammodo. La classe operaia lo Stato borghese lo deve combattere, non “migliorare”. Né davvero si vede come la “ndrangheta” possa essere peggiore dello Stato nel torchiare la classe operaia, per conto dei borghesi.
La responsabilità vera delle dure condizioni dei braccianti, e degli immigrati irregolari in genere, è sì da ascrivere alle infami leggi discriminatorie dello Stato borghese, che dividono i lavoratori in base al passaporto. Ma questo è stato possibile perché i sindacati di regime, Cgil-Cisl-Uil-Ugl, mai si sono opposti a questo e nulla hanno mai fatto per quella gran massa di lavoratori costretti alla illegalità. La difesa della classe operaia coincide con la lotta in difesa della sua parte più debole, contro la organizzazione borghese del crumiraggio, ossia l’utilizzo di lavoratori più ricattabili e a più basso salario, siano essi precari o immigrati. I sindacati di regime hanno abbandonato gli immigrati “irregolari”, così come hanno preparata e accettata la “regolarizzazione” del precariato, perché sono sindacati traditori dell’insieme della classe operaia. La comune organizzazione di tutti i tipi di salariati e la comune battaglia sindacale per comuni obbiettivi, con la mobilitazione e la forza dei regolari, viene a difendere prima di tutto questi ultimi, insieme alle nuove generazioni di lavoratori.
Gli anti-razzisti, che organizzano gli immigrati in quanto tali e non insieme ai lavoratori italiani, che trattano il razzismo come una malattia da cui guarire la presente società, non come un’arma della borghesia nella sua guerra permanente alla classe lavoratrice, esprimono solo un movimento d’opinione, piccolo-borghese, imbelle, moraleggiante, estraneo alla classe operaia. È un anti-razzismo che non nega nessuna delle premesse sociali del razzismo.
Sempre più assimilabili le condizioni dei lavoratori di tutte la nazionalità, di tutte le razze e categorie, sempre più facile e necessaria la loro unitaria riorganizzazione sindacale di lotta e il recupero della loro comune e antica prospettiva di emancipazione.
Per questo rivolgendoci alla classe, a Rosarno come in ogni altro luogo
del mondo, gridiamo e invitiamo a gridare la loro, la nostra, unica consegna:
Proletari
di tutti i paesi unitevi!
Il proletariato è una classe di migranti, una unica classe mondiale di sfruttati, senza patria, la cui sola vera e comune necessità è la lotta per difendere le sue condizioni di vita e di lavoro, non avendo nulla da perdere, e in realtà un mondo intero da guadagnare.
In ogni paese la borghesia nasconde ai lavoratori questa verità chiudendo la loro visione entro orizzonte nazionale. I media di massa, con una cinica e ben organizzata campagna razzista, fomentano la diffidenza e l’odio fra proletari indigeni e immigrati. In questa infamia le democrazie si stanno dimostrando anche più sofisticate ed efficienti dei regimi borghesi apertamente razzisti e dittatoriali del presente e del passato.
Il razzismo è un mezzo di divisione, come il lavoro precario, la cessione di rami d’azienda a ditte esterne, la frattura fra vecchi operai “garantiti” e giovani privi di qualsiasi protezione e previdenza, la concorrenza fra lavoratori di diverse aziende o stabilimenti ottenuta grazie al progressivo smantellamento della contrattazione nazionale.
Il razzismo perciò non è un istinto malato da cui la società borghese possa guarire, ma un frutto inevitabile delle sue condizioni d’esistenza ed un’arma nella guerra di classe del capitale al proletariato, e cesserà quindi solo dopo la presa del potere da parte del proletariato.
Per questa ragione combattere il razzismo con l’anti-razzismo, sul piano astratto delle opinioni e dei valori morali, non solo è impotente, ma è dannoso. Il comunismo non sarà una impossibile mediazione inter-culturale, ma il superamento e la sintesi delle antiche culture storiche dell’uomo in una forma superiore che le verrà tutte a negare.
La lotta oggi da ingaggiare è invece quella classista proletaria, che ha per obiettivo la sua unione. Suo scopo è impedire l’impiego di lavoratori a condizioni peggiori, siano esse un salario più basso, una maggior libertà di licenziamento o il vile ricatto dell’espulsione in caso di licenziamento! La vera lotta della classe operaia va a coincidere con la difesa della sua parte più debole: con ciò i lavoratori relativamente meno sfruttati tutelano innanzitutto se stessi dalla concorrenza al ribasso dei loro fratelli di classe più ricattabili.
Questi semplici e sani principi dell’azione e della lotta di classe sono stati calpestati a scala internazionale da tutto il sindacalismo di regime, che ha agito ovunque secondo il metodo diametralmente opposto: hanno attuato con Stato e padroni una tattica che ha visto prima l’attacco alle condizioni di precari, immigrati, giovani, dipendenti di piccole aziende, e subito dopo quello ad una ultima ristretta cerchia d’operai “garantiti”, ottenendo così la sconfitta dell’insieme della classe operaia.
In ogni paese i sindacati ufficiali (in Italia Cgil-Cisl-Uil-Ugl, in Francia Cgt-Cfdt-Fo, in Inghilterra le Trade Unions) sono organizzazioni irreversibilmente passate dalla parte dei padroni e chi vi continua a militare con l’obiettivo di risanarle (come la sinistra Cgil) in trent’anni ha ottenuto il solo risultato di facilitarne l’azione anti-operaia con l’illusione del pluralismo interno e di ritardare e boicottare l’opera di ricostruzione di un vero Sindacato di Classe.
Ma chi oggi, prendendo a pretesto il tradimento di Cgil-Cisl-Uil, proclama di voler lottare contro il razzismo fuori dal campo della lotta sindacale, organizzando manifestazioni d’opinione interclassiste o proponendo scioperi di soli lavoratori immigrati, impossibili a realizzare e falliti in partenza, contribuisce solo a nuovo e peggiore disorientamento e confusione.
La strada obbligata è quella della ricostruzione dell’organizzazione
sindacale di classe, strutturata territorialmente come nella tradizione
delle Camere del Lavoro, al di fuori delle aziende e unendo le categorie,
per poter inquadrare anche i lavoratori delle piccole imprese, che si muova
secondo i principi della lotta di classe. Un movimento che non prenda le
distanze ma faccia proprie le rivolte come quella dei braccianti di Rosarno
e la loro sacrosanta reazione alle fucilate padronali.
Sarzana, 30-31 gennaio 2010 [RG106] |
||||||||||||||
|
Alla data precedentemente stabilita e confermata dalla convocazione del centro una rappresentanza dei nostri gruppi si è trovata a Sarzana per la nostra periodica riunione di lavoro. I compagni liguri avevano tempestivamente prenotato una sala adatta e raccolta e predisposto tutto per il comodo alloggio dei compagni.
Chi proveniva da più lontano e i liguri si sono incontrati fino dal venerdì, gli altri sono arrivati parte la mattina parte il primo pomeriggio di sabato. Degli assenti, alcuni per motivi di salute, è stata data lettura di comunicazioni scritte ed è stato rivolto loro il saluto dei presenti.
Come è ormai metodo collaudato, la mattina del sabato è stata dedicata a fare il punto dei lavori in corso e al programma del futuro loro svolgimento, con scambio o suggerimento di materiali, il pomeriggio del sabato e la domenica mattina riservate all’ascolto delle relazioni che, talvolta con una certa difficoltà, riusciamo a ripartire nelle ore disponibili.
È evidente che questi nostri elaborati, benché tutti degni del massimo apprezzamento, non sono da considerare ciascuno per sé ma come rifrazioni nell’oggi di una unica forza sociale, che è storica ed oggettiva, e alla cui coerente teoria e al cui invariante programma politico tendono ad approssimarsi sempre di più.
Questo impegnativo compito può essere svolto appieno solo da una compagine militante dispostasi secondo il modulo del partito politico unico e centralizzato che il comunismo rivoluzionario marxista ha formulato fin dalla sua nascita.
Questo partito, che non per nostra volontà è oggi un piccolo partito,
è tale, e in tanto si distingue da altre forme inferiori e parziali, per
il suo impegnarsi a costituire il ponte fra una scuola di pensiero,
cioè un ambiente dove si insegna e nello stesso tempo si impara,
e un metodo di azione, il costante indirizzo che ci impegnamo a
rivolgere alla classe, la nostra vivente classe, che solo noi possiamo
vedere perché ne conosciamo il passato e i destini, e che costituisce
la base materiale ed alimento della nostra esistenza di partito.
Il Terzo Libro del Capitale - Il capitale finanziario
Nella riunione il lavoro espositivo sulla V sezione del Terzo Libro è proseguito con la riproposizione dei punti essenziali del Capitolo 25: “Credito e capitale fittizio”.
Marx qui non fa un’analisi particolareggiata di tutti gli strumenti che, al tempo della stesura in forma organizzata di questa enorme quantità di appunti, consentivano il funzionamento e lo sviluppo del circuito commerciale e del sistema del credito. Quello che gli appunti di Marx, e la riorganizzazione di Engels, avevano per scopo era mostrare e spiegare la natura fittizia, anche se anticipatrice di valori reali, espressa dalla circolazione di effetti, e insieme la possibilità reale, di fatto obbligata, che in determinate situazioni essa portasse a truffe e raggiri, più o meno legalizzati, il cui effetto era – ed è – spostare capitale reale, in forma monetaria, da una tasca ad un’altra. Alla luce di oltre un secolo di finanza capitalistica, le stesse condizioni che Marx sintetizza e descrive come relazioni fra credito e capitale fittizio sono oggi spaventosamente cresciute in quantità e qualità.
Gli appunti di Marx datano la fine degli anni ’60 del 19° secolo. Allora come oggi il circuito commerciale necessitava per il suo funzionamento senza intoppi di “anticipi” di capitale – che viene qui definito appunto “fittizio” – senza il quale il ciclo denaro-merce-denaro si arresta. Marx avverte che nell’analisi qui sviluppata il credito pubblico non viene considerato; il capitolo tratta nello specifico del credito commerciale e del credito bancario.
Nel Primo Libro, al Terzo Capitolo si spiega come dalla circolazione semplice delle merci nasca la funzione del denaro quale mezzo di pagamento, creando con questo un rapporto di debitore e creditore, fra produttori e commercianti di merci.
Con lo sviluppo del commercio e della produzione capitalistica, che produce unicamente in vista della circolazione, la base naturale del sistema creditizio si generalizza e si perfeziona.
In sintesi estrema viene considerata qui soltanto la cambiale come generalità di promessa di pagamento, che costituisce il vero e proprio denaro del commercio; la cambiale al termine del suo giro si annulla compensando debito e credito, e funziona quindi come denaro. Come questi anticipi reciproci di produttori e commercianti formano la base reale del credito, così il loro strumento principe di circolazione, la cambiale, costituisce la base dell’effettiva moneta di credito, delle banconote, e così via.
Già allora il sistema bancario ha ben chiare le necessità finanziarie della produzione e del commercio. Illuminante e “moderna” la citazione che Marx riporta dagli scritti di un banchiere dell’anno 1840: «Le cambiali sono una parte integrante della circolazione di entità superiore a tutto il resto. Questa enorme sovrastruttura di cambiali poggia su una base costituita dall’ammontare delle banconote e dell’oro; e se nel corso degli avvenimenti questa base si restringe troppo la sua solidità e la sua esistenza stessa si trovano in pericolo. Calcolando l’intera circolazione [Engels chiosa “di banconote”] e l’ammontare degli impegni di tutte le banche, di cui può essere richiesto l’immediato pagamento in contanti, trovo una somma di 153 milioni, per cui può essere legalmente richiesto il cambio in oro. Come faccio a trovare l’importo in oro per soddisfare questa richiesta? 5 milioni in oro, secondo i calcoli, sono in circolazione in Inghilterra e nel Galles, e circa 4 milioni nelle casseforti della banca: un totale di 9 milioni per soddisfare la richiesta di 148 milioni (...) Le cambiali non possono essere poste sotto controllo a meno che non si impedisca l’eccedenza di denaro (...) o il basso saggio di interesse o di sconto, che le provoca in parte, incoraggiando questa larga e pericolosa espansione (...) È impossibile precisare in quale misura queste cambiali provengono da transazioni reali, ossia da vendite e da acquisti effettivi, e in quale misura esse siano create artificialmente e non siano altro che cambiali di comodo; ciò accade quando si emette una cambiale per ritrarne una in corso prima della scadenza e creare così il capitale fittizio mediante l’emissione di puri e semplici mezzi di circolazione. Io so che in periodi in cui il denaro è abbondante e a buon mercato ciò si verifica in misura elevatissima».
Nelle relazioni industriali si effettua uno scambio continuo di anticipi che si combinano e si incrociano; e nell’accrescimento e moltiplicazione di questi anticipi consiste lo sviluppo del credito.
Esso però ha ancora un altro aspetto che si riallaccia allo sviluppo del commercio di denaro e che nella produzione capitalistica va di pari passo con lo sviluppo del commercio di merci. In particolare: la custodia dei fondi di riserva dei commercianti, operazioni tecniche di incasso e pagamento del denaro, pagamenti internazionali, tutte queste attività si concentrano nelle mani dei commercianti di denaro.
In seguito a questo commercio si sviluppa l’altro aspetto della natura del credito: l’amministrazione del capitale produttivo di interessi o del capitale monetario come funzione particolare spetta a un settore specifico, quello dei commercianti di denaro, per i quali il prendere a prestito e il dare a prestito denaro costituisce il loro affare particolare. Essi servono da intermediari tra chi effettivamente prende a prestito e chi effettivamente dà a prestito capitale monetario. Essi diventano gli amministratori generali di capitale monetario.
Marx non si dilunga su come le banche arrivino a disporre di questo capitale; accenna solo che con lo sviluppo del sistema bancario e non appena le banche pagano un interesse per i depositi, vengono depositati presso di esse i risparmi in denaro momentaneamente non impiegato di tutte le classi. Questa operazione di raccolta è distinta dall’operazione di prestito vero e proprio.
Le forme nel quale il prestito si attua sono quelle dello sconto delle cambiali, cioè la conversione delle stesse in denaro prima della data della loro scadenza, e tutti gli altri anticipi sotto forme diverse: anticipi diretti, su pegni, titoli fruttiferi, titoli di Stato, polizze di carico, su fedi di deposito o altri titoli di proprietà di merci mediante apertura di credito in eccedenza sui depositi.
Marx riporta un’osservazione di un economista del suo tempo 1834: «Tutto ciò che facilita gli affari facilita anche la speculazione, le due cose essendo spesso così intimamente connesse che è difficile dire dove cessa l’affare e dove comincia la speculazione». In altre parole, tanto più è facile ottenere anticipi su merci non vendute, tanto più questi anticipi vengono rilasciati, e tanto maggiore è la tentazione di fabbricare delle merci o lanciare quelle già fabbricate su mercati lontani al solo scopo di ottenere anticipi di denaro su queste merci.
Al termine di questo processo, il gonfiarsi senza freno del meccanismo anticipi-sconti, portò alla crisi del 1846-47, quando si ebbe uno sviluppo abnorme delle spedizioni in massa di merci contro anticipo verso le Indie e la Cina che degenerò poi in un meccanismo di concessione di anticipi, bolla, come si direbbe oggi, scoppiata poi nel ‘46 in seguito a situazioni di cattivi raccolti, che produssero la necessità di importare derrate dall’estero con pagamento in metallo prezioso, almeno 9 milioni d’oro, dei quali 7 milioni e mezzo provenienti dalla riserva metallica della Banca d’Inghilterra.
Con uno sconto bancario del 3-3,50 percento nel gennaio 1847, lo sconto salì al 7% in aprile con le prime manifestazioni di panico, per salire in novembre al 10%, cioè gran parte delle cambiali non era più scontabile che con saggi da usura o non era scontabile affatto; l’arresto dei pagamenti portò una serie di ditte di primo piano e molte altre medie e piccole alla bancarotta, la Banca stessa d’Inghilterra correva il rischio di fallire in conseguenza delle restrizioni che le erano imposte dal Bank Act del 1844, che fu sospeso dal governo.
L’ingegneria finanziaria, i derivati, gli “utili di carta” (capitalizzazioni) del sistema finanziario odierno sono ancora lontani, ma il cammino del capitalismo, la sua “finanziarizzazione”, che pare una recentissima invenzione, hanno già una strada ben tracciata. La “radice finanziaria”, il capitale fittizio, anche se per ora legato strettamente al credito – nel futuro lo vedremo andare per altre strade – gioca sempre il suo ruolo determinante.
Il relatore ha fatto una digressione storica sul Bank Charter Act, una legge promulgata nel 1844 dal Parlamento del Regno Unito, che limitò il potere di emettere banconote alla sola Banca d’Inghilterra in Inghilterra e in Galles. Storicamente si dice che questa legge porti alla nascita del Gold Standard del diciannovesimo secolo perché l’emissione di banconote doveva per legge essere coperta da un eguale ammontare di oro. Marx bolla questa legge come la massima espressione della forma usuraia del capitale bancario per il suo perverso effetto sul tasso di interesse.
Dopo l’abrogazione del Bank Act, la Banca mise liberamente in circolazione il suo tesoro in banconote, e poiché il credito di queste banconote era di fatto garantito dal credito della nazione, e quindi nominalmente sicuro, portò immediatamente all’alleggerimento delle difficoltà monetarie. Questa tecnica del “tutto per tutto”, dell’emissione cioè di banconote slegata da ogni vincolo di riferimento a valori fissi, conosciuta nei tempi odierni come Quantitative Easing, rappresenta l’ultima possibilità di rimettere in movimento il flusso monetario bloccato dall’indisponibilità di moneta, o da una profonda “deflazione” non risolvibile per altre vie di politica economica. In altre parole, è per il capitalismo e la finanza molto più auspicabile una controllabile inflazione della deflazione.
Dopo il 1847 ci furono naturalmente ancora fallimenti ma la fase culminante della crisi era superata e lo sconto bancario nel dicembre cadde di nuovo al 5%. Nota Engels che già nel corso del 1848 si preparava quella rinnovata attività affaristica che nel 1849 spezzò lo slancio dei movimenti rivoluzionari del continente e portò, negli anni dopo il 1850, prima ad una prosperità industriale fino ad allora sconosciuta, poi alla nuova crisi del 1857.
Nell’anno 1848 una commissione della Camera Alta fu incaricata di condurre segretamente un’inchiesta sulle cause della crisi del 1847, conosciuta come Commercial Distress, poi resa nota nel 1857 ed utilizzata da Marx nei capitoli successivi
A conclusione dell’analisi della crisi la diagnosi delle cause è
chiara: nella primavera 1847 si manifestò una espansione irrazionale del
credito perché i commercianti avevano trasferito il loro capitale dal
commercio alle azioni ferroviarie, e volevano ciononostante condurre i
loro affari con la stessa ampiezza di prima. Tutti credevano sulle prime
di poter vendere le azioni con profitto e riportare così il denaro negli
affari. Presto scoprirono che ciò non era possibile e dovettero così
far ricorso al credito per le loro attività, mentre prima pagavano in
contanti. Da ciò ebbe origine l’espansione anomala ed incontrollata
del credito.
Comunismo negazione storica della Democrazia
Il rapporto, continuazione di quello esposto nel corso della precedente riunione generale, iniziava spiegando come ogni classe sociale è portatrice di una propria ideologia; quella che meglio corrisponde ai propri specifici interessi di classe.
La democrazia è l’ideologia tipica della borghesia e solo di essa.
La borghesia rivoluzionaria, prima del conseguimento della sua vittoria finale, aveva prospettato il futuro Stato post-feudale non di classe ma come Stato popolare, fondato sulla soppressione di ogni disuguaglianza davanti alla legge, pretendendo che ciò corrispondesse alla libertà ed uguaglianza di tutti i membri della società. Quindi, da un punto di vista teorico, nessuno sarebbe stato escluso dai benefici che la nuova società avrebbe indistintamente offerto a tutti i suoi membri, dopo aver spezzato le rigide strutture che impedivano la permeabilità delle classi dell’ancien régime.
Anche le prime organizzazioni operaie risentirono di questa ideologia; non solo quelle fondate, a scopo filantropico, da borghesi e perfino da nobili o re, ma anche quelle sorte all’interno della classe operaia.
Prima che venisse costituita la Lega dei Comunisti, fondata a Parigi da militanti ed esuli di vari paesi, le organizzazioni operaie erano in generale segrete, ad imitazione della carboneria, e come programma avevano quello di spingere al limite estremo i principi enunciati dalla rivoluzione borghese: uguaglianza, giustizia, fratellanza. Ma ben presto si venne a delineare una netta spaccatura tra queste ideologie umanitarie, filantropiche, cristianeggianti, e la nuova teoria che avrebbe guidato il movimento proletario anticapitalista.
La Lega dei Comunisti, adottando il principio che non vi può essere moto sociale rivoluzionario senza una autonoma teoria rivoluzionaria, rappresentò il primo esempio di partito classista, e fu appunto per la Lega dei Comunisti che Marx ed Engels redassero il Manifesto del Partito Comunista.
A differenza della borghesia, che mentre proclamava libertà e uguaglianza per tutti aveva solo mutato la classe al potere mantenendo, ed anzi, rafforzando i rapporti di schiavitù della classe oppressa, il comunismo, all’opposto, proclama immediatamente ed apertamente che il suo Stato avvenire sarà uno Stato di classe, cioè uno Stato che, finché le classi esisteranno, sarà adoperato da ed a profitto di una sola classe: il proletariato. Alle altre classi, di principio e di fatto, non saranno concessi diritti. La classe operaia, per dirla con Lenin, pervenuta al potere “non lo dividerà con nessuno”.
Ed infatti il Manifesto nasce come documento programmatico di un partito che non si rivolge all’umanità, ma ad una classe: «La storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi [...] La moderna società borghese, nata dalla rovina della società feudale, non ha fatto sparire gli antagonismi di classe; ha solo creato, al posto delle vecchie, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme della lotta».
Il proletariato non può quindi battersi per ricavarsi uno spazio all’interno della società borghese, per impossessarsi di una quota del potere: obiettivo del proletariato è la distruzione di questa società, della sua ideologia e della sua tipica forma politica, su cui poggia il suo potere. Così il rifiuto della democrazia, da parte del movimento proletario fin da suoi albori, non può essere messo in minimo dubbio. Mai potrà esistere società in cui le differenti classi sociali possano convivere in una situazione di collaborazione e di pace.
Ma il comunismo non si limita al riconoscimento dell’esistenza della lotta di classe, il comunismo ne dà una spiegazione materialista affermando che 1’esistenza delle classi è conseguenza di determinate fasi dello sviluppo storico della produzione e che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato, dittatura che non si limiterà ad impossessarsi della macchina statale borghese. Di più, il comunismo anticipa che la stessa dittatura del proletariato rappresenterà solo il passaggio verso la soppressione di tutte le classi.
Il rapporto continuava con la lettura di ampie citazioni dagli scritti di Marx ed Engels e delle loro polemiche contro le teorie democraticheggianti e piccolo borghesi di Proudhon e Bakunin.
Il rapporto si soffermava poi sulla obiezione, da sempre rivolta ai comunisti rivoluzionari dall’opportunismo socialdemocratico, che Marx, e Lenin stesso, alcune volte abbiano utilizzato il termine di “democrazia socialista” e di “democrazia proletaria” come sinonimo di socialismo, o di dittatura del proletariato, in opposizione alla “democrazia borghese”. Questa denominazione si spiega con l’intento di affermare che l’una non è l’altra, e che solo dopo l’abbattimento della democrazia borghese si potrà realizzare il suo affermato fine, cioè l’eliminazione di ogni genere di oppressione politica di classe. Il che è confermato dagli scritti di Marx, e da Lenin anche nell’azione, i quali preconizzano come unico mezzo per il trionfo del proletariato non l’impiego degli strumenti maggioritari e democratici concessi dalla classe dominante, ma l’affermazione della dittatura rivoluzionaria e lo schiacciamento violento della controrivoluzione borghese.
Il rapporto ha infatti dimostrato che fra democrazia, qualunque sia l’attributo con la quale si voglia accompagnare, e socialismo non vi è continuità ma opposizione: affermare l’una significa escludere l’altro.
Il partito di classe non presuppone per la sua esistenza l’accesso
a “spazi” e a “libertà” che la democrazia lascerebbe sussistere,
ma sulla pregiudiziale che questi altro non sono che delle armi di cui
il potere borghese si serve allo scopo di disarmare la classe e narcotizzare
fino all’ultimo cervello proletario.
Continuando il lavoro sulla guerra in Pakistan e in Afghanistan, il compagno, che la scorsa volta aveva dato una presentazione generale del primo Paese, ha questa volta affrontato il secondo.
Su questo disponiamo di un articolo di Engels del 1858, scritto dopo la prima guerra anglo-afghana, caratterizzata da una bruciante, anche se non definitiva, sconfitta per l’esercito inglese. Engels mette in evidenza le peculiari caratteristiche geografiche del paese, caratterizzato dalla presenza di varie catene montuose tra le più alte del mondo che rendono difficili i collegamenti tra le vallate e gli altipiani; il potere centrale di Kabul ha difficoltà a controllare il paese, per le divisioni tribali che lo attraversano, la tradizione guerriera delle popolazioni, insofferenti a qualsiasi dominio straniero.
Il compagno ha approfondito la descrizione geografica del paese e ne ha schematicamente tracciato la geografia economica: l’Afghanistan ha una popolazione stimata a circa 31 milioni di abitanti, con una densità media di 48,0 abitanti per Kmq. (l’Italia ha circa 58 milioni di abitanti con una densità di 192 ab/Kmq.). Nel paese si parlano diverse lingue, segno delle diversità etniche che ne contraddistinguono la popolazione: il Persiano afgano o Dari (ufficiale) 50%; il Pashtu (ufficiale) 35%; alcuni dialetti Turco-Altaici (turkmeno, uzbeco) 11%.
La grande maggioranza della popolazione afghana è musulmana, i musulmani sunniti sono circa l’84%; gli sciiti il 15%; altri (sikhs, indù) 1%.
Le città principali sono Kabul, la capitale, che conta circa 3 milioni di abitanti; Kandahar (322.000); Herat (305.000); Mazar-el-Charif (131.000), Djalalabad (58.000); Konduz (57.000).
La crescita demografica è pari al 3,4% all’anno (in Italia il tasso di crescita è dello 0,05%), ma la speranza di vita di un afgano è solo di 44 anni (in Italia è di 80 anni).
Il prodotto interno lordo è attribuito all’agricoltura per il 48%, all’industria per il 22% e ai servizi per il 30%, ma la popolazione attiva, calcolata in circa 15 milioni, si dedica per l’80% all’agricoltura, per il 10% all’industria e per il 10% ai servizi, dimostrando l’arretratezza economica e sociale del paese anche se non mancano zone in cui l’agricoltura è condotta in maniera moderna, con l’impiego di salariati, e alcuni moderni insediamenti industriali di multinazionali occidentali. India e Cina sono molto attive nel paese, la Cina soprattutto nel settore estrattivo, l’India nelle infrastrutture.
Il rapporto è proseguito dando un rapido quadro dell’attuale situazione militare del Paese, della dislocazione delle forze della Nato e degli Stati Uniti e della loro consistenza soprattutto dopo la cosiddetta “nuova strategia” di Washington che sta facendo lievitare il numero dei soldati statunitensi impiegati nell’area dai 68.000 (di dicembre) a circa 100.000, a cui devono essere aggiunti i cosiddetti “contractors”, cioè i mercenari privati che a fine dicembre erano ben 104.000 ma che è previsto debbano aumentare a 130-160.000. Di questi moderni mercenari, “quasi 10.000 sono statunitensi, circa 16.000 sono stranieri e il resto locali”.
Dunque gli Stati Uniti avranno presto in Afghanistan quasi 250 mila
uomini sul libro paga tra soldati e mercenari; questo dimostra l’importanza
attribuita a quell’area dal Pentagono, e non a torto visto che l’Afghanistan,
oltre che retroterra storico del Pakistan, confina con i Paesi dell’Asia
centrale da cui transita il petrolio del Mar Caspio diretto verso la Cina,
con la Russia a nord e ad occidente con il problematico Iran.
Il rapporto sul corso dell’economia ha dapprima presentato una serie di grafici concepiti per un raffronto fra l’andamento e la profondità della recessione in corso e quella del 1975.
Per gli stati Uniti si rilevavano delle diversità. Il 1973, precedente la crisi, aveva marcato un buon progresso degli indici, il 1974 stagnazione. Invece stavolta abbiamo che sia il 2007 sia il 2008 segnano incrementi prossimi allo zero. La profondità massima della recessione è invece simile: -24% in entrambi i casi. Ma la durata sembra diversa: quella del 1975, calcolando i mesi di contrazione rispetto all’anno precedente, durò 13 mesi mentre la crisi attuale a novembre, dopo 18 mesi, segnava ancora un -5% sull’anno precedente, che a sua volta già era sceso del 5% sul 2007.
Curva simile ma più accentuata per la Germania, che precipita molto di più che nel precedente, un enorme -28% rispetto a -13%, e che a novembre si tiene ancora sul -8%.
Anche il Giappone ha accusato un recessione molto più grave che nel 1975: precipitato da ritmi stabili intono a +20% ancora nel 1973 e sceso nel febbraio 1975 a -20%, stavolta segna già stagnazione nel 2007 per crollare ad un incredibile -37% nel febbraio 2009. Ciononostante la recessione continuava ancora nel novembre scorso con -4%.
Confronto analogo per la Francia, che nel 1974 anticipò di un anno i restanti capitalismi, ma allora raggiungendo un -15%, stavolta -21%. Per la Gran Bretagna -9% allora, -15% oggi. Per l’Italia -20% allora, -25% oggi.
Per la Russia vi sono le evidenti difficoltà al confronto statistico. Fatto certo però è che attualmente il paese accusa una profonda recessione, analoga a quella dei concorrenti, con un -17% nella scorsa estate.
La Cina non arriva al regresso produttivo ma l’andamento della sua curva è del tutto parallela a quella degli occidentali, scendendo ad un minimo di +2% lo scorso inverno. Il relatore ricordava però la inaffidabilità del metodo di calcolo delle statistiche cinesi.
Nemmeno l’India è entrata in recessione ma, raggiunto lo zero, segna ripresa fin dall’aprile 2009, ma con escursione fra massimi e minimi più credibile di quella cinese.
Si passava quindi ad esporre un grafico di confronto fra i sette maggiori capitalismi relativo al commercio internazionale. Qui la recessione ha colpito tutti. Fin dall’ottobre 2008 gli scambi mondiali si sono andati riducendo per raggiungere la massima velocità di contrazione, intorno al -30%, fra aprile e luglio 2009. Poi il restringimento dei traffici continua progressivo ma a velocità minore, intorno al -12% ad ottobre 2009, il quale però già segnava un -10% rispetto al 2008.
Venivano poi proiettate delle tabelle numeriche finalizzate ad un confronto
fra la forza di esportazione dei diversi capitalismi. Il confronto quantitativo
pone ancora la Germania al primo posto mondiale quanto a valore dell’esportato,
seguita dalla Cina che ha tolto il secondo posto agli Usa. Seguono Giappone,
Francia, Olanda, Gran Bretagna, Italia.
Origine dei sindacati in Italia
Lo studio, dopo avere seguita la storia dei sindacati in Italia fino alla loro ricostituzione nel secondo dopoguerra, abbiamo ritenuto di riprendere più in dettaglio la materia, e in particolare documentare l’atteggiamento della nostra corrente di sinistra nel primo dopoguerra, nei confronti delle diverse organizzazioni di difesa operaia allora presenti. Anche perché oggi, grazie al notevole lavoro di riproduzione effettuato dal partito, possiamo utilizzare in copia la collezione di organi fondamentali della stampa del P.C.d’I., come Il Comunista e Il Lavoratore, per spingere più in profondità il nostro sguardo sull’intervento comunista di allora nella classe.
Circa il rifiuto della “compatibilità” con le necessità delle aziende, su Il Comunista del 14 ottobre del 1921 troviamo un articolo titolato “I cerotti dei ciarlatani confederali”, da cui leggiamo: «L’organo direttivo della Confederazione avanza una pregiudiziale e un principio nuovo. Prima di dire se si possono ridurre i salari, occorre conoscere lo stato delle aziende. Se sarà necessario, si dovrà ridurre il salario dei lavoratori, parallelamente al reddito dei capitalisti». Il nostro articolo risponde che «non esiste un rapporto diretto tra redditi e salari». Come abbiamo già visto, le preoccupazioni per l’economia nazionale non sono nate con Lama o con Di Vittorio, ma sono sempre state presenti nella Confederazione Generale del Lavoro.
Sullo stesso giornale del 20 ottobre troviamo un bellissimo articolo titolato “Sindacalismo e Stato”. Qui si risponde ad un’intervista del teorico sindacalista Enrico Leone. «Leone preconizza lo sdoppiamento dei due fattori: il proletariato che si ritira sull’Aventino dell’azione puramente economica; il partito che divenendo apertamente organo della democrazia borghese e piccolo borghese si decide al logico passo di varcare le antiche soglie ministeriali [...] Superfluo ricordare che il trionfo del connubio mostruoso tra socialismo e democrazia non si è generato che sul terreno del puro operaismo alimentato negli equivoci della neutralità politica e dei compiti puramente sindacali [...] Quivi si rende evidente come quanto nel sindacalismo vi è di sostanziale, sia l’adattamento del compito economico del proletariato nei quadri angusti di un liberismo economico, che nell’affermare l’indipendenza dei fenomeni economici dall’apparecchio statale, non fa che enunciare un postulato tipicamente borghese».
Riguardo ai rapporti da tenersi con i sindacati diretti da anarchici – questione oggi quanto mai attuale – sullo stesso giornale del 25 ottobre, nell’articolo titolato “Contro il dilagare degli equivoci” si riferisce che l’Internazionale Sindacale Rossa aveva preso l’iniziativa di un convegno tra la Confederazione, l’Unione Sindacale e il Sindacato Ferrovieri, gli ultimi due diretti dagli anarchici. I comunisti anche allora erano comunque per l’unità di movimento ed organizzativa con questo tipo di sindacati. «I dirigenti confederali hanno sabotato tale iniziativa [il convegno] affacciando ridicole pregiudiziali, e tra esse quella che, avendo l’Unione Sindacale proclamata la inviolabile autonomia dei sindacati dai partiti politici, la Confederazione vedeva inutile ogni approccio perché dal canto suo non avrebbe mai rinunziato al patto di alleanza col Partito Socialista [...] Fingono di scandalizzarsi di una formula che in fondo li avvicina più che allontanarli dai sindacalisti, come quella dell’autonomia dei sindacati dai partiti politici».
La rivendicazione di “autonomia dai partiti” veniva utilizzata a
pretesto contro l’unità del movimento operaio sia da chi la rivendicava
sia da chi la condannava. «Il Sindacato Ferrovieri, il Consiglio Generale,
composto di socialisti, sindacalisti e anarchici, non aderisce all’I.S.R.
perché ciò contrasterebbe colla autonomia dai partiti politici [...]
A parte il fatto che gli statuti dell’I.S.R. garantiscono in realtà
una larga autonomia del movimento sindacale, è ridicolo che l’autonomia
dai partiti politici venga invocata non solo dai ferrovieri sindacalisti
e anarchici, ma altresì dai loro alleati socialisti, mentre lo stesso
argomento, nel seno della Confederazione, serve ai socialisti per respingere
ogni passo verso la unificazione con l’Unione Sindacale. L’autonomia
dai partiti politici serve al socialista ferroviere per allontanarsi da
Mosca, ma serve la negazione dell’autonomia stessa al socialista confederale
per rimanere legato al partito di Barnum».
Il compagno ha riferito dei recenti episodi di lotte operaie e di come si prospettano le parti nell’imminente congresso della Cgil. A questo vengono presentate al dibattito due mozioni che si vogliono contrapposte. In realtà non vi è diversità di indirizzo di politica sindacale e non vi si trova alcun ritorno a rivendicare una linea classista e combattiva ma solo una formale e superficiale richiesta di democrazia interna finalizzata alla difesa di interessi di corrente.
Riguardo poi il sindacalismo anticoncertativo si tornava a condannare la sua incomprensibile e ingiustificabile scissione “dall’altro”. I suoi dirigenti, dopo che hanno operato una ulteriore divisione di quel poco che c’era, spinti dalla base e da una evidente e irrimandabile necessità oggettiva, tornano oggi a parlare di congressi di unificazione. Unificazione del movimento sindacale di classe che, evidentemente, da decenni ormai, sono gli ultimi a desiderare, ben rispondendo in questo alla impostazione opportunista delle forze politiche a cui fanno capo. Si vuol nascondere dietro la ricerca di una fittizia unità sindacale quella che è una operazione politica per tentare ancora una volta di riunire le disciolte membra della "sinistra" extra ed intra parlamentare, per dar vita ad un "nuovo" soggetto politico dopo le batoste elettorali incassate da Rifondazione e compagni.
Questa politica ostacola la tendenza ad organizzare lavoratori in singole
fabbriche, in particolare i giovani e i precari, dei quali molti e combattivi
sono gli immigrati
La questione militare - La rivoluzione Americana
La seconda relazione sulla Rivoluzione Americana ha esposto i primi scontri fra le improvvisate formazioni armate dei coloni ribelli contro il ben organizzato esercito inglese. I primi avevano una forte motivazione ma scarso e diverso armamento, nessuna disciplina e coordinamento, molti non avevano neppure le scarpe o un’arma; fra i secondi era un ottimo addestramento, comando centralizzato, esperienza, ma anche supponenza e scarsa motivazione, specialmente nei corpi mercenari.
L’inizio dei combattimenti avvenne presso Lexington e Concord dove i coloni avevano stabilito i loro primi depositi di armi e munizioni. Gli inglesi organizzarono una semplice operazione di polizia per distruggerli e neutralizzare sul nascere la ribellione: con due colonne di 756 uomini, con la consueta scorta di carri, avrebbero dovuto cogliere di sorpresa i due villaggi. Ma la rete spionistica degli abitanti funzionò ed essi ebbero il tempo di mettere al sicuro le armi e disporsi per un attacco. Nata accidentalmente una piccola sparatoria, si vide l’inesperienza degli americani al combattimento, che si dispersero in modo disordinato. Ma, distrutti i depositi già parzialmente svuotati, sulla via del ritorno gli inglesi furono attaccati con imboscate e azioni di guerriglia dove persero 247 uomini, tra morti e feriti, tutti i loro carri e centinaia di fucili.
Questo primo fatto d’arme è un po’ lo stereotipo di tutta la guerra: gli americani al momento non sono in grado di affrontare gli inglesi in campo aperto ma possono solo colpirli con azioni di guerriglia, per poi ripiegare su basi sicure; gli inglesi sono molto rallentati nei loro spostamenti dal tipo della loro organizzazione militare.
Così Engels: «Quando scoppiò la guerra d’indipendenza americana le ben addestrate truppe mercenarie all’improvviso si trovarono di fronte schiere d’insorti che, pur non sapendo fare gli esercizi, sapevano però tirare meglio, erano dotati in gran parte di carabine precise e combattevano per la propria causa e quindi non disertavano. Questi insorti non facevano agli inglesi la gentilezza di ballare con loro in aperta pianura, a passi lenti, il noto minuetto della battaglia, secondo tutte le regole tradizionali dell’etichetta militare; essi attiravano l’avversario in fitti boschi, dove le sue lunghe colonne di marcia erano esposte, indifese, al fuoco di franchi tiratori sparsi ed invisibili; disposti in gruppi sciolti, essi utilizzavano ogni riparo del terreno per colpire il nemico e per di più, con la loro grande mobilità, restavano sempre irraggiungibili per le lente masse avversarie».
Gli americano decisero di occupare due colline sovrastanti Boston al fine di cingerla d’assedio e poi liberare la città simbolo della loro insurrezione. Gli inglesi ruppero l’assedio cannoneggiando le linee nemiche e poi riconquistarono le alture, ma furono respinti dai fucili Kentucky a lunga gittata. Gli americani dovettero comunque abbandonare le loro linee per mancanza di munizioni ma poterono ripiegare in modo ordinato attraverso una via di fuga incredibilmente lasciata sguarnita dagli inglesi. Persero la battaglia ma vinsero moralmente perché inflissero pesanti perdite agli inglesi. Per la prima volta avevano affrontato il nemico in una vera battaglia in campo aperto dimostrando una certa capacità militare.
Washington si occupò subito di organizzare le sue forze sul piano della disciplina e del comando, dotarle di un’uniforme per potersi riconoscere, ma soprattutto di impostare la produzione delle officine per la guerra, soprattutto l’artiglieria.
Una buona parte dell’esercito americano era convinto che gli inglesi avrebbero portato un attacco scendendo dal Canada, e organizzarono una spedizione di 8 mila uomini su due colonne allo scopo di occupare fortini e vie d’accesso contando sul sostegno dei coloni locali, che non arrivò. Partirono nell’ottobre del 1775 ma, a causa anche di un pessimo inverno, parziali successi non risolutivi, mancanza di rifornimenti, diserzioni, ferme volontarie non rinnovate, ed infine il vaiolo, tutta l’operazione si risolse in un drammatico fallimento perdendo metà degli uomini che erano partiti.
Le sorti di tutta la guerra sembrava volgere a favore degli inglesi ma un aiuto insperato venne dalla conquista del forte di Ticonderoga dove gli americani trovarono 50 cannoni da fortezza che, dopo immani sforzi, riuscirono a trasportare sulle alture di Boston per realizzare il piano di liberazione della città simbolo e grande porto loro necessario.
Gli inglesi, considerando la città non difendibile e priva di una popolazione lealista, decisero per una evacuazione ben organizzata di tutta la guarnigione, ora di 6.500 uomini. Questa durò ben 2 settimane durante le quali Washington non dette l’ordine di attacco. In entrambi i fronti, soprattutto a Londra, non si voleva colpire a fondo l’avversario per non compromettere i futuri accordi commerciali tra le parti. Dopo l’ordinata partenza degli inglesi Washington entrò da liberatore in Boston senza sparare un colpo, perdendo così irrimediabilmente l’occasione per annientare l’esercito inglese e conseguire una prestigiosa vittoria. Tra i suoi timori c’era anche quello verso i suoi numerosi “minut men”, che componevano il grosso del suo esercito: erano proletari che, iniziate le prime lotte a difesa delle loro condizioni di lavoro, terribili quanto mai, ora erano armati e avevano assaporato anche il gusto inebriante di alcune vittorie, anche se parziali.
L’indecisa politica inglese si tradusse in continui cambi di comandanti generali, ma il livello di scontro si alzò con il potenziamento degli effettivi cui si aggiunsero 22 mila mercenari provenienti dall’Assia e Hannover e da una forte flotta da guerra. Per tagliare in due le colonie ribelli fu organizzata la presa di New York con una manovra congiunta di una colonna di 10 mila inglesi discendente dal Canada lungo la valle del fiume Hudson e uno sbarco dalla flotta di fronte la città. Washington, considerando impossibile un’adeguata resistenza, alleggerì le difese della città, rafforzò le retrovie e mandò rinforzi al confine canadese con il compito di fermare la discesa inglese. Questo obiettivo fu raggiunto e con il sopraggiungere dell’inverno il fronte nord era tranquillo.
Ben diverso l’altro. Il 22 agosto 1776, 15 mila anglo-assiani dei 35 mila a disposizione di Howe, nuovo comandante inglese, protetti dal fuoco di 500 cannoni navali da 88 fregate, iniziarono lo sbarco a Manhattan provocando lo scompiglio fra gli americani che dovettero pian piano cedere le loro posizioni anche per la cronica mancanza di munizioni, qui necessarie in gran quantità. Le perdite americane furono grandi (2.000 uomini fra morti e feriti, contro le 660 inglesi). Dopo 40 giorni di continue scaramucce e un colloquio tra le due parti, fallito causa la dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio, di cui gli inglesi chiedevano la cancellazione, New York cadde sotto il controllo inglese.
Washington riuscì a riparare a nord con le truppe rimaste per riorganizzarle
soprattutto con l’aiuto dei primi volontari europei tra cui l’eroe
nazionale polacco Kosciuzko e il barone prussiano von Steuben cui fu affidato
l’organizzazione e l’addestramento militare degli americani.
PAGINA 3
I lavoratori
non chiedano né credano nella pelosa carità dello Stato borghese ma lottino
per difendere il loro diritto alla vita
La borghesia è consapevole di quali pericoli correrà se il proletariato tornerà a lottare. Questo pericolo è taciuto, ma ogni tanto, leggendo tra le righe della stampa borghese, il pennivendolo si lascia sfuggire qualcosa.
Benché travolta dalla crisi la propaganda borghese si ostina a mostrare ”ottimismo”. Però di ottimismo, in realtà, la borghesia ne dimostra poco.
Ha scritto Marco Magrini sul Sole 24 Ore: «Senza lavoro non c’è pace. È il 1919. Sulle macerie della Prima guerra mondiale, il Trattato di Versailles prescrive la nascita del’Ilo, International Labour Organization, con l’idea che senza giustizia sociale non ci può essere stabilità politica. Novant’anni più tardi l’organizzazione di Ginevra, che nel frattempo è passata sotto i colori delle Nazioni Unite, si trova a fronteggiare una crisi ben meno dolorosa, ma ugualmente gravida di incertezze». Forse con quel “meno dolorosa” si intende dire che in quel periodo il proletariato, sull’onda della vittoria in Russia, era fortemente combattivo, cosa che oggi non è.
Nel suo intervento al “Ministerial Meeting” dei G8+6 di Roma il Direttore Generale dell’ILO, Juan Somavia, lanciò un monito non solo sulla gravità della crisi, che potrebbe comportare la perdita di quaranta milioni di posti di lavoro in tutto il mondo, ma altresì sulla lunghezza dei tempi di recupero dell’occupazione sia pure in una possibile ripresa. «Anche se la ripresa arrivasse quest’anno o il prossimo le difficoltà sul mercato del lavoro potrebbero protrarsi per sei, sette, otto anni. È questa la ragione per cui, indipendentemente dagli sviluppi della crisi ed anche in presenza di segnali positivi di ripresa, occorrerà tenere alta la guardia e continuare a rafforzare le politiche di protezione sociale. Il “Global Jobs Pact” adottato da metà giugno da governi, sindacati e imprenditori alla Conferenza annuale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro si prefigge questo obbiettivo. Un nuovo patto basato sull’avanzamento dei diritti fondamentali del lavoro, così come sul rilancio del dialogo sociale da realizzare in un nuovo contesto di grande cooperazione internazionale che non deve essere considerata “straordinaria” e finalizzata a superare l’emergenza, ma rappresentare in via definitiva e stabile il nuovo scenario destinato ad esprimere le politiche finanziarie e sociali di cui abbiamo bisogno per costruire il nostro futuro e non ricadere negli errori del passato».
Una giostra di parole che noi possiamo facilmente sintetizzare: stiamo attenti a che il gigante proletario non si risvegli per i troppi scossoni che gli si stanno preparando, ai quali possiamo, e dobbiamo, opporre solo le chiacchiere soporifere del “dialogo sociale” e del “nuovo contesto” assistenziale...
Ed ecco alcuni esempi pratici di “dialogo sociale”.
La British Airways, in conformità alle norme del Patto globale che prescrive misure per non licenziare, ha chiesto ai propri dipendenti di ridurre orari e stipendi al fine di evitare misure più dolorose (3.700 licenziamenti su 40.000 dipendenti), inoltre ha chiesto loro di lavorare un mese gratis. La British Telecom, sempre per non licenziare, ha proposto ai suoi 106.000 dipendenti la “vacanza della vita”: un anno senza lavoro con la paga al 30%. La Kpmg, un colosso della consulenza, ha fatto altrettanto proponendo dei periodi sabbatici da uno a tre mesi al 30% del salario. Oppure di ridurre temporaneamente la settimana lavorativa a quattro giorni, con una riduzione salariale del 20%. L’IG Metal, il sindacato tedesco dei siderurgici, ha firmato un’intesa per portare la settimana lavorativa a 30 ore nelle fabbriche dell’ovest e a 33 in quelle dell’est con riduzione del salario. Nella sola Inghilterra circa il 10% della forza lavoro è coinvolta in programmi per frenare la disoccupazione.
I governi per tamponare la falla continuano ad indebitarsi, nell’utopia di una forte ripresa economica che possa risanare questi passivi. Ma visto che questa ripresa non ci sarà, si genererà una rottura catastrofica che imporrà alla nave capitalista, prima di affondare sommersa dai debiti, di scoprirsi, da panciuto mercantile “assistenziale”, in corazzata da guerra di classe.
L’articolo del giornale padronale termina citando il punto 36 della
Dichiarazione conclusiva del G8 che si è tenne a L’Aquila: «L’impatto
della crisi economica sul mercato del lavoro può minare la stabilità
sociale». Bene questo è quello che noi comunisti vogliamo e ci attendiamo.
Che il proletariato mondiale riesca a togliersi le bende dagli occhi e
a ritrovare la smarrita solidarietà di classe, fra chi nulla ha da perdere
se non le proprie catene.
PAGINA 4
L’anti-irredentismo di una
sinistra della Seconda Internazionale di fronte alla Prima Guerra
La Sezione Italiana Adriatica del Partito Operaio
Socialista in Austria
Manovre di avvicinamento alla guerra
Altri timidi tentativi
Una nuova proposta per un convegno socialista italo-austro-ungarico venne rilanciata da Bissolati due anni dopo. In una lettera inviata a Treves e pubblicata il 29 luglio 1907 su Il Tempo, Bissolati riteneva la situazione politica assai più favorevole di quella del 1905, specialmente per quanto riguardava il partito socialista di Austria. Nel maggio si erano svolte le elezioni politiche a suffragio universale ed il partito socialdemocratico vi aveva registrato un ottimo risultato inviando in Parlamento ben 87 deputati. A questo riguardo Bissolati affermava: «Quando ci radunammo a Trieste nel 1905, il partito socialista era in Austria una forza in embrione, che oggi si è mirabilmente spiegata e accampa superba nel Reichsrat. Certi impegni impossibili allora per la debolezza politica dei compagni nostri di là dell’Isonzo, sono possibili oggi e sarebbero oltre ogni limite fruttuosi».
Il ragionamento di Bissolati denota a qual punto il cretinismo parlamentare riesca ad impossessarsi della mente anche dei più validi compagni quando si accettino le regole del gioco democratico. Il fatto che da una manciata di deputati si fosse arrivati a piazzare, in una sola volta, 87 culi socialdemocratici sulle poltrone del Parlamento di Vienna era dipeso esclusivamente dalle elezioni tenute per la prima volta a suffragio universale, e non significava affatto che il partito socialista avesse aumentato la propria presa sulla classe operaia. Significava solo che i lavoratori socialisti, ai quali precedentemente era negato il diritto di voto, ora avevano potuto esprimerlo e, come prevedibile, lo avevano dato al partito di classe. Tutto qui. Ma se fino al giorno innanzi i socialisti d’Austria si rifiutavano di indire uno sciopero per “al massimo cominciare una piccola agitazione”, non sarebbero certamente stati gli 87 onorevoli a portare il proletariato nelle piazze dell’Impero.
La proposta fu ripresa il giorno successivo e fatta propria da Il Lavoratore di Trieste ed anche, seppure con un certo scetticismo, da Il Popolo di Trento. Sembra però che nessuno abbia avuto molta fretta di organizzare il convegno se si pensa che il casus che servì da pretesto per mandarlo a monte si verificò solo l’ottobre dell’anno successivo. Il 4 ottobre 1908 l’Austria aveva proceduto all’annessione della Bosnia Erzegovina. I rappresentanti socialisti, posti di fronte al fatto compiuto, pur disapprovando l’operato del governo, minimizzarono l’accaduto dichiarando che, in sostanza, non era successo altro che «la definizione formale di una situazione di cose già da lungo tempo esistente», nel senso che il Congresso di Berlino già nel 1878 aveva decretato l’affidamento di tutta l’area all’amministrazione austriaca.
«Noi vediamo con sommo dolore – commentava Salvemini – che i socialisti austriaci (...) non solo non insorgono, ma dichiarano ufficialmente per bocca di Adler e un po’ anche, è doloroso doverlo constatare, dell’italiano Pittoni, che l’Austria non ha fatto nulla di male a metter fuoco alle polveri e che in questa faccenda gli altri Stati non hanno nulla da dire e nulla da censurare» (Critica Sociale, 16 ottobre). Si noti però che i rimproveri mossi da Salvemini alla socialdemocrazia austriaca non concernevano una mancata posizione di classe, ma l’alterazione degli equilibri statali. Nello stesso articolo infatti il professore esortava i socialisti italiani a smetterla di inseguire “la pace ad ogni costo”.
L’aver tirato in causa Pittoni (che a quanto ci risulta fu l’unico a votare contro l’annessione della Bosnia Erzegovina) provocò una lunga ed aspra diatriba con i socialisti istriani, in modo particolare con Angelo Vivante. L’atteggiamento di Pittoni può venire sintetizzato nelle due citazioni che seguono: «Che cosa ha fatto l’Austria-Ungheria in trenta anni di occupazione? (...) Un titolo di onore sarebbe stato (...) se essa avesse potuto dire al mondo: per desiderio espresso delle popolazioni (...) è stata decisa la loro definitiva unione ai paesi della Monarchia». «Il maggior numero dei loro connazionali è in Austria-Ungheria dove popolano la Croazia (...) in nome di che cosa avremmo dovuto protestare? Puramente per far dispetto all’Austria e piacere al re di Serbia?» (Il Lavoratore, 16 novembre).
Un nuovo tentativo di incontro venne dal congresso socialista di Trento tenutosi il 31 ottobre, dove fu votato all’unanimità il seguente ordine del giorno: «I socialisti italiani del Trentino, Tirolo e Voralberg esprimono vivo e concorde voto perché, a dissipare qualsiasi malinteso tra i rappresentanti del partito socialista d’Italia e dell’Austria-Ungheria in rapporto alla dibattentesi questione balcanica, sia convocato fra i rappresentanti stessi, nel più breve tempo possibile, un convegno al quale abbiano a prendere parte eventualmente anche i rappresentanti socialisti delle altre nazioni. In tal convegno sarà da stabilire una motivata dichiarazione con la quale, di fronte alla permanente minaccia di un conflitto intereuropeo, sarà riaffermato il proposito del proletariato internazionale di opporsi con ogni mezzo, anche il più estremo, a qualsiasi tentativo capitalista borghese, inteso a determinare il flagello della guerra. Si dà l’incarico alla nuova Commissione di comunicare l’ordine del giorno alla Direzione del Partito Socialista Italiano e a quello austriaco».
L’invito venne accolto molto freddamente dal PSI la cui ala riformista, come abbiamo accennato stava sempre più orientando le proprie simpatie verso le democrazie e l’Inghilterra in particolare. Questo cambiamento di orientamento da parte del PSI era stato avvertito da Pittoni che in una lettera ad Adler il 3 ottobre 1909 scriveva: «Rispondendo alle mie obiezioni, Morgari mi ha assicurato che la grande maggioranza del partito italiano è in sintonia con noi, e solo singole persone nel partito sono inclinate a un neopatriottismo, che non è compatibile coi nostri principi. Tra questi purtroppo Bissolati, il caporedattore dell’Avanti!, che ha orientamenti del tutto particolari, e sembra separarsi sempre più dal partito».
Dopo una serie di rinvii, una convocazione a Bologna per il luglio 1909 e poi annullata, venne stabilito che si sarebbe tenuto a Rovereto un incontro preliminare e ristretto (otto o dieci persone al massimo) al quale avrebbero partecipato oltre ai delegati italiani ed austriaci anche «qualche iugoslavo, qualche cèco o forse un ungherese» (Turati a Salvemini il 2 ottobre 1909).
Saltato anche l’incontro di Rovereto si parlò di nuovo di convegno internazionale a fine novembre 1910, quando fu ritenuto effettuabile in base all’esito di sondaggi svolti da Morgari: ne diedero notizia contemporaneamente, il giorno 23, l’Avanti!, lo Arbeiter Zeitung, Il Lavoratore ed Il Popolo.
Finalmente il 3 febbraio 1911 fu possibile convocare una riunione preliminare con la partecipazione, da parte italiana, di Leonida Bissolati, Oddino Morgari, Pompeo Ciotti, Rinaldo Rigola; per Trieste, la regione Giulia ed il Trentino, di Giovanni Oliva, Valentino Pittoni, Piscel e altri; per i socialisti tedeschi in Austria, di Viktor Adler, Willielm Ellenbogen, Otto Bauer; per i socialisti cechi, Nemec; per gli iugolavi, Etbin Ktistan; per i polacchi, Diamand; per gli ungheresi, Welltner e Jaszai.
L’argomento dibattuto fu ancora una volta la guerra e la risposta che il proletariato internazionale avrebbe dovuto, e potuto, dare al suo scattare. Si parlò di proclamare, in caso di mobilitazione, dapprima lo sciopero dei ferrovieri per impedire il raggruppamento degli eserciti, di sciopero generale ove le circostanze lo richiedessero, ma, in sostanza, i convenuti si limitarono a nominare una commissione mista, che avrebbe dovuto seguire gli avvenimenti e specialmente informare i due partiti di quanto succedeva nei rispettivi paesi.
Al termine dei lavori fu emesso il seguente ordine del giorno: «Nei giorni del 9 e 10 aprile p.v. si terrà in Italia un convegno delle rappresentanze socialiste e proletarie d’Italia, d’Austria e d’Ungheria per tutte le intese necessarie all’azione comune e parallela che dovrà svolgersi nei tre paesi sempre più attivamente per prevenire ogni pericolo di guerra e per giungere alla diminuzione degli armamenti dall’una e dall’altra parte. Al convegno assisterà anche una rappresentanza dell’Ufficio Internazionale Socialista di Bruxelles. Durante il convegno che si terrà a Roma o a Firenze, secondo che sembrerà più opportuno ai compagni del Regno, si farà una manifestazione pubblica con intervento delle suaccennate rappresentanze nei tre paesi. Contemporaneamente alla suddetta manifestazione, verranno convocati altri comizi pubblici, al medesimo scopo e per adesione al convegno, in tutte le città d’Italia, d’Austria e d’Ungheria. Fu pure deliberata l’istituzione di un Ufficio Permanente d’Informazioni allo scopo di facilitare lo svolgimento concorde dell’azione antimilitarista dei socialisti nei tre paesi».
Furono eletti membri dell’Ufficio Permanente Bissolati e Ciotti per l’Italia, Adler e Pittoni per l’Austria. La riunione quindi si risolse con un niente di fatto, tutto essendo rimandato al futuro convegno internazionale. Convegno al quale non si sarebbe mai arrivati, né a Roma né a Firenze. Ma ciò non accadde certamente a causa dei socialisti adriatici, nei confronti dei quali, anzi, Bissolati si sentì in dovere di indirizzare ampi elogi.
Alla fine di marzo il parlamento viennese, paralizzato dalla lunga lotta ostruzionista dei deputati cèchi, fu sciolto e furono indette nuove elezioni per il giugno successivo. I socialdemocratici d’Austria ritennero che la campagna elettorale dovesse avere priorità su tutto il resto. Che diamine! per l’antimilitarismo e l’internazionalismo proletario ci sarebbe stato tempo dopo! E su questo i “colleghi” italiani erano pienamente d’accordo. L’Avanti! già il 31 marzo aveva prospettato il rinvio dell’incontro internazionale, allo stesso tempo invitava i socialisti austriaci ad approfittare dei comizi elettorali per propagandare il programma antimilitarista del convegno. Due giorni dopo il rinvio era ufficialmente deciso e il 6 aprile la direzione del PSI comunicava che l’incontro si sarebbe svolto dopo le elezioni in Austria: ai primi di luglio.
Dalle nuove elezioni il partito socialdemocratico riportò una parziale sconfitta perdendo 5 seggi, al contrario venne segnalato «un rafforzamento del radicalismo nazionale in tutte le nazioni [dell’Austria]», come segnalava l’Arbeiter Zeitung del 24 giugno. Anche i socialisti italiani interpretarono alla stessa maniera i risultati delle elezioni austriache e ne dedussero che il socialismo avrebbe dovuto “sottomettersi alla realtà dei fatti”, «il giganteggiare di quegli antagonismi nazionali che il partito socialista si era proposto di sottomettere agli antagonismi di classe». Considerazione che faceva il paio con quanto Viktor Adler scriveva a Bebel: «Il mito secondo cui noi socialdemocratici saremmo immuni dal nazionalismo è definitivamente tramontato».
Nel frattempo l’Italia era scesa in guerra contro la Turchia procedendo all’occupazione della Libia e l’internazionalismo di Bissolati, già blando e stemperato, si tramutava in quell’acceso e convinto nazionalismo che, un anno dopo, lo avrebbe portato alla espulsione dal partito assieme a Cabrini, Bonomi e Podrecca.
Inutile dire quindi che il convegno non ci fu, come è inutile dire che i partiti socialisti, arresisi all’evidenza dei fatti, consegnavano il proletariato alle rispettive borghesie per incamminarlo a quello che fu il primo macello mondiale.
Vero è che erano molti i socialisti della Seconda Internazionale, anche aderenti alle correnti rivoluzionarie, che erano arrivati a teorizzare come ipotesi priva di fondamento la eventualità di una guerra fra le grandi potenze europee. Le armi erano troppo potenti e distruttive, si diceva, perché una guerra europea fosse possibile. Persino Pittoni scriveva nel 1905: «A Vienna e a Roma si sa che la guerra austro-italiana è un’ipotesi fantastica, al pari della guerra generale europea, poiché il capitalismo in Europa ha ormai superato la fase della guerra guerreggiata».
Non è possibile credere però che i partiti socialisti siano stati
colti di sorpresa e che si siano trovati di fronte all’evento bellico
“impreparati” a dare una risposta di classe. La diffusa illusione che
una guerra fosse ormai impossibile in Europa era stata definitivamente
fugata quando, scoppiato il conflitto balcanico, l’Austria procedette
ad una mobilitazione e concentrò forti contingenti di truppa ai confini
meridionali. Contemporaneamente la Russia aveva fatto altrettanto.
Il congresso straordinario di Basilea
Fu allora che il socialismo internazionale cominciò ad allarmarsi e si predispose ad affrontare l’evento. Il 24 novembre 1912 fu tenuto a Basilea il congresso straordinario della Seconda Internazionale la cui parola d’ordine fu: guerra alla guerra.
Il congresso svolse i suoi lavori in un clima di entusiasmo, i discorsi furono infuocati ed il lunghissimo ordine del giorno votato tratteggiava la situazione politica di ogni paese ribadendo, per quanto riguardava l’Austria, con le seguenti testuali parole, il concetto unitario del programma di Br�nn: «I socialisti dell’Austria debbono lottare anche nell’avvenire affinché le frazioni dei popoli iugoslavi dominati dalla casa d’Asburgo ottengano all’interno della monarchia austro-ungarica il diritto di governarsi da sé democraticamente».
La Seconda Internazionale rivolgeva la sua parola classista al proletariato di tutti gli Stati ed allo stesso tempo ammoniva la borghesia mondiale con queste solenni affermazioni: «Il congresso constata che tutta d’Internazionale socialista è concorde su queste idee essenziali della politica estera. Esso invita i lavoratori di tutti i paesi ad opporre all’imperialismo capitalista la forza della solidarietà internazionale del proletariato. Esso ammonisce le classi dirigenti di tutti i paesi a non accrescere ancora con azioni di guerra la miseria inflitta alle masse dal modo di produzione capitalista. Esso domanda, esige la pace. Sappiano i governi che, allo stato attuale dell’Europa e nell’attuale disposizione d’animo della classe operaia, essi non potrebbero, senza pericolo per loro medesimi, scatenare la guerra. Si ricordino che la guerra franco-germanica ha provocato l’esplosione rivoluzionaria della Comune, che la guerra russo-giapponese ha messo in moto le forze rivoluzionarie del popolo russo. Si ricordino che il disagio, provocato dall’aumento delle spese militari e navali, ha dato ai conflitti sociali in Inghilterra e sul continente un’asprezza insolita ed ha scatenato scioperi formidabili. I governi sarebbero folli se non sentissero che la sola idea di una guerra mostruosa solleva l’indignazione e la collera del proletariato di tutti i paesi. Gli operai ritengono delitto sparare gli uni contro gli altri per il profitto dei capitalisti e per l’orgoglio delle dinastie o per le combinazioni dei trattati segreti (...) L’Internazionale raddoppierà i suoi sforzi per prevenire la guerra con la sua propaganda sempre più intensa, con la sua protesta sempre più fervida.
«A questo scopo il congresso incarica il Bureau socialista internazionale di seguire gli avvenimenti con attenzione raddoppiata e di mantenere, qualunque cosa avvenga, le comunicazioni e i legami tra i partiti di tutti i paesi. Il proletariato ha coscienza che su di lui pesa in quest’ora tutto l’avvenire dell’umanità e impiegherà tutte le sue energie, per impedire l’annientamento del fiore di tutti i popoli, minacciati da tutti gli orrori di massacri enormi, della fame e della peste.
«Il congresso rivolge appello a voi, proletari e socialisti di tutto il mondo, perché in quest’ora decisiva, facciate sentire la vostra voce. Affermate la vostra volontà dappertutto e sotto tutte le forme. Con tutta la forza sollevate la vostra protesta unanime nei Parlamenti, unitevi in manifestazioni e azioni di masse, utilizzate tutti i mezzi che l’organizzazione e la forza del proletariato mettono nelle vostre mani, di modo che i governi sentano costantemente davanti a loro la volontà attenta ed attiva della classe operaia, risoluta alla pace. Al mondo capitalista dello sfruttamento e del massacro delle masse opponete così il mondo proletario della pace e dell’unione dei popoli».
La risoluzione era chiara e precisa. Traendo gli insegnamenti della storia tracciava la linea di azione del proletariato in caso di guerra. Dimostrava tutta la profonda avversione che il proletariato europeo nutriva nei confronti della guerra ed incitava il proletariato stesso a far sentire la sua voce, a sollevare la sua protesta, ad organizzare azioni di masse per impedire la guerra.
Al riguardo Lenin ha successivamente affermato: «La risoluzione di Basilea è la sintesi di innumerevoli pubblicazioni di agitazione e di propaganda di tutti i paesi contro la guerra ed è l’enunciazione più precisa e completa, più solenne e formale delle idee socialiste sulla guerra e della tattica socialista di fronte alla guerra (...) Ma forse il manifesto di Basilea non è altro che un appello senza significato, senza un contenuto preciso, né storico né tattico, che lo connetta incontestabilmente alla guerra attuale? Al contrario, (...) la risoluzione di Basilea parla precisamente della guerra che è in atto, dei conflitti imperialistici che sono scoppiati negli anni 1914-1915. I conflitti fra l’Austria e la Serbia per i Balcani, tra l’Austria e l’Italia per l’Albania, ecc., tra l’Inghilterra e la Germania per i mercati e per le colonie in generale, tra la Russia e la Turchia e altri per l’Armenia e Costantinopoli: ecco di che cosa parla la risoluzione di Basilea, prevedendo appunto la guerra attuale. Precisamente a proposito della guerra attuale tra “le grandi potenze europee”, la risoluzione di Basilea dice che questa guerra “non si può giustificare col minimo pretesto di un qualsiasi interesse dei popoli”! (...) I rappresentanti dei partiti proletari di tutti i paesi hanno espresso a Basilea, unanimemente e formalmente, la loro incrollabile convinzione che si avvicinava una guerra di carattere precisamente imperialista e ne hanno tratto delle conclusioni tattiche. Perciò, fra l’altro, si deve senz’altro respingere come un sofisma ogni affermazione che non sarebbe stata esaminata esaurientemente la differenza tra la tattica nazionale e quella internazionale».
Non possiamo sorprenderci, quindi, se la censura austriaca tentò di
impedire la diffusione della risoluzione di Basilea sequestrando sia l’Arbeiter
Zeitung, sia Il Lavoratore del 30 novembre, che la riproducevano
integralmente. Ma la censura imperiale non ci riuscì: Il Lavoratore
di Trieste, infatti, il 25 dicembre ripubblicò la risoluzione in maniera
del tutto legale. Il potere autocratico asburgico, che non aveva il coraggio
di infrangere la “sua” legge, si dimostrò più rispettoso delle libertà
formali delle moderne democrazie, delle quali non conosceva l’ipocrisia
e la spregiudicatezza. L’escamotage al quale i socialisti dell’impero
ricorrevano era il seguente: se la censura di uno qualsiasi dei “Regni
e Paesi rappresentati al Consiglio dell’Impero” aveva sequestrato una
pubblicazione, un deputato poteva presentasse alla Camera un’interpellanza
per chiedere l’annullamento del provvedimento: indirizzata al “Signor
Ministro”, vi si chiedevano “i motivi per i quali è stata colpita
da sequestro la pubblicazione che testualmente recita...”, e qui veniva
riprodotto il testo integrale del documento sequestrato. L’intera interpellanza
poteva poi essere divulgata a mezzo stampa essendo la pubblicazione degli
atti parlamentari garantita dalla legge imperiale...
La guerra in Europa
Ma i buoni propositi espressi a Basilea servirono a ben poco perché, come sappiamo, quando, nel 1914, le grandi potenze procedettero alla mobilitazione generale i capi socialisti dei vari paesi dapprima tacquero, poi dichiararono: in Germania, che si dovevano difendere “le conquiste del proletariato” dalle “orde cosacche” in procinto d’invadere la Prussia orientale; in Francia, che bisognava che i proletari combattessero perché il paese “era vittima di un’aggressione inaudita”; in Inghilterra, perché l’Impero era in pericolo.
In Austria i deputati socialisti furono esonerati dalla imbarazzante necessità di doversi pronunciare alla Camera poiché questa era stata chiusa dal governo il 17 marzo 1914, non essendo stato possibile nella seduta del giorno 12 discutere l’aumento di 30 mila nuove reclute a causa dell’ostruzionismo dei nazionalisti cechi, e perché erano poi fallite le trattative fra cechi e tedeschi per addivenire ad un ennesimo compromesso. La Camera venne riaperta solo nel 1917, dopo l’uccisione del presidente dei ministri conte St�rgkh.
Il partito socialista austriaco fino all’ultimo momento dalle colonne dell’Arbeiter Zeitung aveva aspramente combattuto la politica provocatrice del ministro degli esteri, conte Berchtold, e ironizzato sulla defezione dei socialisti germanici. Ma, di fronte alla diffida dell’organo governativo Wiener Zeitung, secondo cui «gli elementi sovversivi, che minacciavano in sommo grado la sicurezza pubblica e dello Stato, dovevano essere resi inoffensivi in ogni senso», si affrettò a dichiarare, sempre attraverso l’Arbeiter Zeitung, che udiva «la bronzea voce della storia», poiché «calava il sipario sul gioco sfrontato della politica zarista». E il giorno in cui i deputati socialisti al Reichstag germanico approvarono i crediti di guerra, proclamando il Burgfrieden (la pace interna), lo stesso giornale scrisse che quello era «il giorno della più superba e più potente elevazione dello spirito tedesco (...) E così avvenne a Budapest ed a Praga, a Leopoli ed a Klagenfurt fra tutti i popoli dell’Austria».
In Russia il socialrivoluzionario Kerensky dichiarava che avrebbe votato i crediti militari «perché la Russia si difende». Soltanto il deputato Sciustov, a nome dei socialisti e dei cinque deputati bolscevichi, pronunzierà queste profetiche parole: «I nostri cuori battono all’unisono con quelli dei nostri fratelli in Europa. Noi non abbiamo potuto impedire agli imperi di scatenare questa guerra ma noi la finiremo. Questo è l’ultimo colpo della barbarie. Saranno i popoli a fare la pace e non voi signori diplomatici».
Il 31 agosto 1914 Il Lavoratore di Trieste annunziava la sua
trasformazione in giornale quotidiano, dandone la seguente motivazione:
«Il nostro giornale si è trovato improvvisamente, allo scoppio della
guerra, davanti al dilemma inesorabile: o uscire ogni giorno o non uscire
affatto. Il diritto di vivere, dunque, e la volontà di vivere, meglio
il dovere di vivere, in questo periodo di tempo, che sarà decisivo per
la storia delle nazioni come per i destini del proletariato in ciascuna
di esse, ci ha fatto scegliere, delle due alternative, quella di uscire
ogni giorno. Modesti, ma risoluti militi dell’Internazionale socialista
non vogliamo abbandonare il posto che ci spetta in momenti così difficili;
non vogliamo che la nostra voce ammutolisca ora che più che mai il proletariato
di questa città e di queste terre ha bisogno di udirla e di fare udire
la sua attraverso questo organo; non vogliamo privare la classe lavoratrice,
il partito socialista, a Trieste, nel Friuli, nell’Istria, dell’unico
modo possibile di comunicare, di mantenere il contatto, di affiatarsi.
Ecco perché Il Lavoratore ha dovuto in questo momento diventare
quotidiano. I compagni e i lettori nostri non si attendano dal Lavoratore,
quotidiano in tempo di guerra, ciò che esso, causa il rigore della legge,
non può dare. La vita dei popoli non è soltanto guerra e politica guerresca,
nemmeno adesso. C’è ancora, soprattutto, la lotta dei due più grandi
nemici della guerra, la solidarietà civile delle nazioni, il socialismo
contro i due maggiori responsabili della guerra: lo sciovinismo nazionalista
e il capitalismo internazionale».