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La sana visione della lotta sindacale urta in diversi ostacoli che ne impediscono l’affermazione. Fra questi la deleteria proposizione di rivendicazioni che poco o nulla hanno a che fare con il percorso del sindacato di classe, per il quale anzi possono costituire una pericolosa dispersione di forze.
Fra queste queste la nazionalizzazione delle aziende in crisi, agitata dall’opportunismo di marca tanto stalinista quanto trotzkista, col secondo che pretende di distinguersi, peggiorandola, aggiungendo la postilla “sotto controllo operaio”. Altra rivendicazione spuria è la imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze che, a detta dei promotori – fra i quali occorre aggiungere la “Assemblea nazionale dei lavoratori combattivi” di Bologna del 27 settembre “per rilanciare l’unità della classe” – sarebbe un modo per “fare pagare la crisi ai padroni”.
La nazionalizzazione contiene il pericolo di chiudere i lavoratori nell’orizzonte dell’azienda e nel nazionalismo.
Rispetto al programma del comunismo, inoltre, è senz’altro errata quando viene agitata prima della conquista del potere politico da parte della classe operaia e non dopo, uno dei provvedimenti economici e politici di transizione verso il socialismo. All’interno del capitalismo non fa che aiutarlo a rendersi più conseguente, efficace e infame. Un capitalismo nazionalizzato, sotto la dittatura borghese, è più perfettamente capitalista, non un poco di meno.
Va inoltre smentita l’affermazione, più volte ripetuta dai dirigenti nazionali trozkisti – ad esempio a Genova il 17 febbraio, durante il presidio antimilitarista promosso dai portuali del CALP, e sabato 30 ottobre nell’assemblea dei lavoratori della Whirlpool di Napoli – secondo cui la rivendicazione delle nazionalizzazioni rientrerebbe nella tradizione del movimento operaio internazionale, laddove essa invece risale solo alla controrivoluzione staliniana.
Provvedimento che, del resto, ebbe l’approvazione della dottrina economica prevalente e una vasta applicazione pratica negli anni successivi alla grande crisi fra le due guerre da parte di ogni tipo di regime borghese: democratici, stalinisti, fascisti, nazisti, poi maoisti, ecc ecc..
Anche nella richiesta della cosiddetta patrimoniale noi vediamo aspetti fuorvianti per il movimento operaio. Chiedere che a tassare i capitalisti sia lo Stato di classe della borghesia ci appare un paradosso dietro al quale non può non nascondersi un’insidia. La grande borghesia infatti, quando costretta, ha già storicamente dimostrato di acconsentire a un piccolo salasso pur di mantenere il suo regime economico e il potere politico.
A detta dei propugnatori, questa tassa patrimoniale, come affermato in un volantino distribuito alla mobilitazione nazionale per il fronte unico di classe dello scorso 24 ottobre, renderebbe possibile “rilanciare la sanità, la scuola pubblica, i trasporti e i servizi sociali”. L’utopia di tale pretesa è palese. Le risorse così racimolate non sarebbero altro che un trasferimento di denaro in seno alla classe dominante stessa: il plusvalore estorto ai proletari passerebbe dalle mani dei singoli capitalisti allo Stato borghese, che non è che il capitalista collettivo. Nulla garantisce che tale rimpinguare le finanze pubbliche sarebbe destinato a scopi sociali, invece che a esclusivo beneficio del capitalismo.
Il solo modo per il quale una parte della spesa statale possa andare a beneficio degli interessi proletari è che essi si organizzino e lottino per la soddisfazione dei loro bisogni – più salario, meno orario, gratuità delle prestazioni sociali – e non tramite illusorie politiche della macchina statale della classe dominante. La borghesia, in grave crisi storica, potrebbe essere portata ad accettare di buon grado l’adozione una simile “una tantum”, scaricata prevalentemente sulla piccola borghesia e sulle aristocrazie operaie. Darebbe un esempio di “solidarietà civica” e di “patriottismo” davanti alla classe operaia, prima di procedere presto a ridurre i salari e ad aumentare lo sfruttamento nei cantieri, nelle fabbriche, nelle campagne in nome della unità nazionale e per il “bene del paese”.
Del resto negli ultimi tempi in molti Stati europei il tema di una tassa patrimoniale sulle ricchezze non è affatto estraneo agli stessi ambienti borghesi. In Francia se ne parla con insistenza nei media, mentre in Spagna una legge patrimoniale è stata appena adottata dal governo guidato dal “socialista” Pedro Sanchez lo scorso 24 ottobre.
Leggiamo sul quotidiano El Paìs del giorno dopo: «Gli incassi stimati sono di 14 milioni di euro per il 2021 e di 346 milioni per il 2020». In sostanza la tassazione aggiuntiva e la patrimoniale frutteranno entrate irrilevanti rispetto ai 222 miliardi di gettito fiscale complessivo dello Stato spagnolo. Nel 2022 quando la patrimoniale raggiungerà l’apice del prelievo sulle grandi fortune, riguarderà meno dello 0,2% delle entrate fiscali complessive. Possiamo dare per scontato che dopo tale manovra di facciata verrà il momento di tartassare ulteriormente e con maggiore ferocia la massa dei salari proletari.
Per questi motivi il movimento operaio non ha da insegnare allo Stato in mano alla nemica borghesia cosa deve fare, mentre occorre concentrarsi sulle rivendicazioni economiche che, unificando il proletariato tutto, si pongono l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori.
Percorrendo fino in fondo la strada della lotta e della sua potente organizzazione la classe operaia, diretta dal suo partito, prenderà per sé tutto il potere e allora procederà davvero, e alla svelta, alla storica e programmatica “espropriazione degli espropriatori”.
Quattro anni fa, in occasione delle elezioni del 2016, sul nostro The Communist Party n.5 osservavamo come tutta quella vuota rappresentazione non esprimesse che la miseria del capitalismo. Eppure quel novembre sembra lontano dopo quattro anni, dopo la messa al bando dei musulmani, la guerra commerciale contro la Cina, il rapimento di bambini immigrati, la minaccia di guerra contro l’Iran, le proteste per l’assassinio di George Floyd e di Breonna Taylor; dopo Charlottesville, Pittsburgh e Portland. Oggi, nei mesi peggiori della peggiore epidemia degli ultimi cento anni, torniamo a ripetere: le elezioni non rappresentano che la miseria del capitalismo.
Ogni decisione politica è un riflesso delle condizioni sociali prevalenti. In alcuni momenti questo diventa particolarmente evidente. Ormai la dimensione del fallimento del capitalismo è davanti a tutti, sotto forma di una incontrollata pandemia, quando un presidente pubblicamente minaccia un colpo di Stato e quando le tecniche militari apprese nelle guerre imperialiste sono impiegate nelle nostre città. La crisi del capitalismo è tornata a casa.
In questo contesto, la sceneggiata elettorale in sé non potrebbe essere più noiosa. Basta confrontare i programmi politici per scambiare per la stessa persona Donald Trump e Joe Biden. Sono entrambi “di destra” e imperialisti. Entrambi hanno fatto carriera in politica ostentando il loro razzismo, entrambi melliflui opportunisti disposti a cambiare posizione in un istante per i propri interessi personali.
Nonostante questa identità
sostanziale entrambi i partiti repubblicano e democratico sostengono che queste
elezioni sono una questione di vita o di morte. Per i repubblicani Trump sarebbe
l’unico baluardo contro l’anarchia, in agguato nell’ombra dietro Biden, che
distruggerebbe l’America bianca. I democratici sostengono che Trump
distruggerebbe quella meraviglia che è la democrazia americana e che solo
votando per Biden si salverebbe. In realtà non c’è nessuna decisione da prendere
in queste elezioni. La borghesia vincerà in ogni caso: così funziona la
democrazia! La vera reale decisione in questo momento non è tra Trump e Biden,
ma tra lo sfruttamento capitalista e la libertà comunista.
Lo scontro fra i due partiti è solo una messinscena. La risposta dei democratici alla presidenza Trump è stata solo disfattismo e in realtà limitata a difendere quei rappresentanti della classe dominante interessati alla carriera all’interno del partito. Il proletariato si è tenuto fuori da tutto questo trambusto, nonostante i tentativi dei democratici di utilizzarlo per i propri fini.
La loro prima parola subito dopo le elezioni del 2016, fu “resistenza”! Il termine si riferiva al mito storico della resistenza europea al fascismo. E questa resistenza del 2016 aveva della precedente la vuota melensaggine. Sarebbe stato un resistere attraverso rispettabili mezzi legali, solo rivestendo le vecchie opprimenti istituzioni democratiche di costumi rivoluzionari.
La difesa della classe operaia non è mai stata il suo obiettivo: la resistenza dei democratici non esigeva che un ritorno alla “normalità”, a un immaginario passato “civile”. L’indignazione dei resistenti per i danni alle proprietà che hanno accompagnato le prime proteste anti-Trump (alle quali rispondevano cantando “pacifica protesta”) e la loro solidarietà con la polizia furono le prime prove delle loro simpatie.
L’enfasi sui metodi legali era per incanalare nelle istituzioni
controllate dal grande capitale i rancori della parte rovinata della piccola
borghesia, che lentamente cominciava a agitarsi man mano che si deteriorava la
sua condizione economica. L’opposizione a Trump è stata quindi dirottata verso
l’indagine Muller e l’impeachment, procedimenti che, ovviamente, non dovevano
portare a nulla e a nulla hanno portato.
Il proletariato è l’unica forza che ha veramente combattuto per sé negli ultimi quattro anni. È l’unica forza nella società che Trump – e Biden – temono veramente. È stata la rivolta di maggio e giugno di quest’anno a scuotere profondamente la borghesia, che ha sentito il bisogno di rispondere con una dimostrazione di forza, spingendosi a grossolani appelli alla religione che hanno messo in imbarazzo perfino i militari. Le proteste l’hanno spinta ad atteggiamenti retrogradi riguardo alle libertà civili e a impiegare il Dipartimento della Sicurezza interna come organizzazione paramilitare.
Trump dapprima ha chiesto pubblicamente di rimandare le elezioni mentre, fino a pochi giorni fa, affermava che non avrebbe accettato di lasciare la Casa Bianca. Tutto questo non è che teatro, di una classe disperata e di uomini disperati, che cercano senza successo di correggere il disordine delle loro azioni. La pandemia l’ha dimostrato, e dietro i deliri di Trump, sulla minaccia “anarchica” e sulle cure alternative, si è cercato di nascondere la responsabilità del capitalismo incapace di gestire la minaccia del virus.
Le proteste scoppiate quest’anno, interclassiste, hanno avuto significative componenti proletarie. In gran numero operai, molti negri ma anche delle altre razze, sono scesi a protestare nonostante la pandemia e il reale pericolo di aggressione poliziesca. Vi hanno partecipato diversi sindacati e in alcuni casi hanno marciato inquadrati lavoratori di alcune categorie. Le componenti proletarie della rivolta hanno svolto le azioni più efficaci – per esempio lo sciopero e la manifestazione, a giugno, dei portuali del Sindacato Internazionale Lavoratori Portuali di Longshoremen e del sindacato dei magazzinieri, e il rifiuto del sindacato dei lavoratori dei trasporti di guidare verso le prigioni gli autobus con i manifestanti arrestati.
Gli scioperi a causa
del Covid sono stati quanto di più efficace per proteggere i lavoratori dalla
pandemia costringendo le varie strutture del governo ad agire. I lavoratori dei
magazzini Amazon hanno ottenuto una paga più alta, delle protezioni fornite dal
datore di lavoro e migliori procedure di pulizia. I lavoratori agricoli di
Yakima, Washington, la maggior parte dei quali immigrati dall’America Latina, si
sono assicurati uno stipendio più alto e hanno costretto i padroni a riconoscere
il loro sindacato, Trabajadores Unidos por la Justicia. Gli insegnanti di
Chicago sono riusciti ad impedire che si riprendessero le lezioni in presenza
semplicemente votando per lo sciopero. Questi provvedimenti di protezione della
vita sono stati imposti dai lavoratori stessi, contro una borghesia e uno Stato
capitalista a cui non importa nulla della vita dei lavoratori.
Il Covid-19 ha reso evidente ciò che già era chiaro: il conflitto tra il proletariato e la borghesia è una lotta di vita e di morte, una guerra incessante, e se il proletariato deve sopravvivere deve muoversi unito come classe. Non saranno a salvarlo i buoni auspici della borghesia e le sue sceneggiate elettorali. Questo era vero prima della pandemia e sarà vero anche dopo.
Questa elezione non è diversa dalle precedenti. Trump e Biden rappresentano gli interessi della stessa classe borghese. In numero di repressioni e di omicidi di massa Biden rivaleggia con Trump. Durante il suo primo decennio al Senato si fece un nome per la sua opposizione agli scuolabus con integrazione razziale, che avrebbe spinto i bambini bianchi “in una giungla razziale”. Fu un entusiasta sostenitore della guerra in Iraq e, presidente della Commissione per le relazioni estere del Senato, fece passare la legislazione per permettere l’invasione: un milione di iracheni sono morti a causa di quella guerra. Come vicepresidente ha fatto parte di un’amministrazione responsabile di una lunga lista di atrocità all’estero: il colpo di Stato militare del 2013 in Egitto, le violenze in Siria e in Libia, la divisione dell’Ucraina, l’assassinio per violenza, malattie e fame di 250.000 yemeniti. Se ci fosse un processo di Norimberga per i “crimini di guerra” della borghesia americana, Donald e Joe ne uscirebbero condannati entrambi.
Joe Biden
ha dimostrato di non essere un nemico della repressione all’interno. Ha
sostenuto la Patriot Act nel 2001 e nel 2002 l’istituzione del Dipartimento
della Sicurezza Interna (che oggi sarebbe la polizia segreta di Trump). Possiamo
essere certi che le iniziative “anti-estremismo” di Trump e del procuratore
generale William Barr continueranno sotto la presidenza di Biden. Questa è
dunque la scelta che la democrazia presenta alla classe operaia, tra il “ricco”
e il “povero”: per Biden il potere politico ha portato il denaro; per Trump il
denaro ha portato il potere politico, il “politico” e il “tycoon”. Ma
rappresentano una sola classe, la borghesia. E sono uniti nella loro guerra alla
classe operaia.
Il proletariato non può arrivare al potere democraticamente. In quanto marxisti, sappiamo che una rivoluzione si ha quando una classe oppressa diventa dominante. Questo non può avvenire senza la soppressione del potere dei vecchi oppressori, che inevitabilmente cercheranno di riconquistare i privilegi perduti. Nella rivoluzione proletaria, questo significa la completa esclusione della borghesia dall’attività politica per tutto il tempo in cui sopravvive come classe. Farlo è del tutto antidemocratico, perché rifiuta l’uguaglianza astratta di tutti i cittadini (l’uguaglianza secondo la legge) che è alla base della democrazia. La dittatura del proletariato non può dare lo stesso status ai membri della borghesia fino a quando la loro vecchia classe sociale non cesserà di esistere.
Oltre a sopprimere i vecchi poteri, la nuova classe dominante dovrà affermare le proprie forme di governo, il proprio Stato. Nella rivoluzione francese del 1789 la borghesia abbandonò gli Stati Generali feudali per formare una democratica Assemblea Costituente. Nelle Rivoluzioni russe del 1917, l’assolutismo zarista cedette il passo prima al governo provvisorio borghese, poi, nella insurrezione bolscevica, al governo proletario dei soviet. I soviet, i consigli operai, furono la forma della dittatura del proletariato, la realizzazione di quello che Lenin chiamava Stato-Comune.
Lo scopo del partito internazionale del comunismo è la costituzione della repubblica mondiale degli operai e non progetti politici che mancano questo obiettivo finale. I partiti della democrazia affermano invece il loro impegno a mantenere lo Stato borghese. I comunisti non hanno nulla da guadagnare nel collaborare con essi, se non facilitare la infiltrazione della ideologia borghese e la repressione della classe operaia. I gruppi “di sinistra” che inseguono la democrazia borghese fraternizzano con il nemico. La repressione contro lo staliniano Partito Comunista Americano alla fine degli anni Quaranta, dopo il suo entusiastico sostegno ai democratici nel periodo del fronte popolare, è uno dei tanti esempi di questa strategia fallita.
Ora non è un momento rivoluzionario. La classe operaia non è organizzata in un proprio partito politico e in sindacati di classe. Nonostante questo i comunisti continuano ad agire all’esterno e contro lo Stato borghese e i suoi scagnozzi politici. Dobbiamo dire ad ogni lavoratore che la democrazia è un sistema orientato contro la nostra classe, che il proletariato ha il compito storico di governare da solo, e che nell’unità del suo movimento detiene la forza per poterlo fare.
Il nostro partito è guidato da un unico corpo di teoria e di pratica che arriva al presente fino dalla pubblicazione del Manifesto comunista nel 1848. Tutta la nostra attività è in accordo con questa continua linea politica, segnata tutta da una serie di tesi invarianti.
Nel momento in cui oggi scriviamo nessuno può dire quali saranno i risultati delle elezioni, ma possiamo già affermare che sicuramente anche se vincerà il democratico Biden cambierà solo la forma ma non la sostanza della politica degli Stati Uniti, sia all’interno sia verso l’estero. Ci sono già delle contestazioni nei conteggi, per le elezioni presidenziali ma anche per quelle del Congresso, dello Stato e locali, che potrebbero trascinarsi fino all’inverno. Ma anche quando i risultati saranno chiari, chiunque vincerà, siamo certi di cosa il nostro partito farà: continuare la battaglia per preparare il potere dei lavoratori, per la rivoluzione, per il comunismo.
È istruttivo passare in rassegna le trascorse epidemie del XX e XXI secolo. Alcune specie di animali selvatici sono vettori di agenti patogeni che possono passare ad altri animali, al bestiame degli allevamenti e quindi all’uomo. Gli animali domestici e da allevamento condividono il maggior numero di virus con l’uomo e, come i suini, ne sono portatori di un numero otto volte superiore a quello dei mammiferi selvatici. L’attività degli uomini entra così in contatto con virus di cui il loro sistema immunitario non è a conoscenza. I virus Ebola, Sida e Covid-19 hanno prosperato negli animali prima di infettare l’uomo.
L’influenza è una malattia virale trasmessa all’uomo dagli animali, infetta principalmente uccelli e pollame, e il passaggio all’uomo avviene spesso attraverso i maiali. È causata da un virus RNA caratterizzato da una significativa capacità di mutare e di integrare il materiale genetico di diversi virus. Alcuni dei virus influenzali umani sono derivati da virus mutanti, i cui geni sono la ricombinazione in suini e in polli di virus animali o influenzali precedenti. Circolano per un periodo di tempo variabile da un anno a un decennio e scompaiono, possono riapparire in inverno nei paesi temperati e tutto l’anno nei paesi tropicali e subtropicali. L’influenza, dei tipi A (il più virulento e a rischio di pandemia), B, C, D, causa di solito tra i 290.000 e i 650.000 decessi all’anno in tutto il mondo, per lo più bambini e anziani affetti da malattie croniche. In Francia, secondo l’Istituto Pasteur, ogni anno si registrano da 10.000 a 15.000 morti a causa dell’influenza stagionale, con 2-8 milioni di contagiati e una mortalità dello 0,1%.
I coronavirus, mutanti molto comuni, identificati nel 1965, appartengono a una famiglia ampia di virus con un RNA che codifica da 7 a 10 proteine. Con gli aculei delle loro corone, aderiscono alle cellule attraverso un recettore specifico per penetrare e moltiplicarsi. Sono diffusi negli uccelli e nei mammiferi e alcuni possono essere trasmessi all’uomo, essendo la terza causa più comune di infezione delle vie respiratorie superiori. Alcuni sono molto comuni, altri assai virulenti perché, come tutti i virus RNA, hanno una notevole variabilità genetica con le ricombinazioni. Le varianti più patogene attaccano le cellule polmonari causando asfissia e compromettendo le cellule delle pareti dei vasi.
La folle densità umana nelle mostruose e insalubri metropoli del capitale, l’allevamento intensivo degli animali, l’isteria del muoversi convulso, inutile e irrazionale di merci e di uomini imposto dalla iper-globalizzazione del sistema produttivo capitalistico sono il cocktail esplosivo per la diffusione di queste malattie. Non sempre le principali epidemie hanno avuto origine in Cina, come per interesse alcuni affermano. Solo che la Cina del XXI secolo sta producendo oggi dei virus nel contesto di esplosione delle sue attività industriali e di smisurato inurbamento, con condizioni di lavoro e abitative malsane, esattamente come gli altri grandi capitalismi nei secoli XVII-XIX.
Epidemie si sono avute nell’Inghilterra del XVIII secolo, dove il capitalismo si è sviluppato per primo e ha impiantato monocolture foraggere per l’allevamento di bovini, che si infettarono con bestiame importato dall’Europa.
L’epidemia di peste bovina in Africa nel 1890 ebbe origine in Europa, che allora stava vivendo una grande crescita dell’agricoltura; la portarono in Africa orientale gli italiani, poi si diffuse fino al Sudafrica (sterminò anche le mandrie del “suprematista bianco” Cecil Rhodes). Uccidendo l’80-90% del bestiame causò una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa subsahariana, creò anche l’habitat per la mosca tse-tse, limitando il ripopolamento della regione.
La malattia di Lyme, causata da un batterio veicolato dalle zecche, prima di arrivare in Europa si era diffusa in Nord America dove decimò gli animali prima di passare agli esseri umani.
L’influenza del 1917-19 fu nominata spagnola perché solo la Spagna, non coinvolta nel conflitto mondiale, ne dette pubblica notizia, mentre altri governi imposero la disinformazione e il segreto militare: fu proibito di parlarne e che si prendesse alcuna misura di protezione. Per la sicurezza del capitale mondiale non erano morti abbastanza proletari sui fronti di guerra!
Era partita nel 1917 dal Kansas dove si concentravano allevamenti intensivi di suini e pollame. La sua diffusione ad un terzo della popolazione mondiale fu accelerata dalla guerra e dal movimento delle truppe. Uccise almeno 40 milioni di uomini, molti in India e in Cina, principalmente giovani adulti. Infine scomparve, in modo inspiegabile. L’alto tasso di mortalità era dovuto anche alla malnutrizione, alle condizioni di vita malsane dei soldati e della popolazione, con infezioni batteriche secondarie, e colpiva principalmente la popolazione più povera. Oggi sappiamo che la maggior parte dei decessi fu non per il virus ma per un batterio, la polmonite pneumococcica, oggi combattuta con antibiotici e un vaccino. Quel virus fu identificato nel 1931 nei suini: il virus A H1N1, che circolerà nell’uomo fino al 1957-58.
La pandemia influenzale nota come “asiatica” del 1956-58, dovuta alla ricombinazione nel virus A H2N2 di diversi altri tra cui H1N1 nelle anatre selvatiche nel sud-ovest della Cina, fu responsabile della morte di oltre due milioni di uomini in tutto il mondo, di cui 15.000 in Francia.
Il virus circolò per undici anni per portare infine alla terza pandemia influenzale del XX secolo: quella “di Hong Kong”, dall’estate del 1968 alla primavera del 1970. Il virus A H2N2, che nel frattempo aveva provocato epidemie di influenza stagionale, fu sostituito dal virus A H3N2. Partì dalla Cina centrale nel febbraio ‘68 e si disseminò per via dei trasporti aerei divenuti allora più accessibili, provocò un milione di morti, di cui 50.000 negli USA (autunno 1969) e 40.000 (inverno 1969-70) in Francia. Gli ospedali anche allora furono sopraffatti. Tuttavia la stampa internazionale rimase misurata e rassicurante, nemmeno venne fuori il termine “pandemia”, e passò quasi inosservata alla popolazione.
Fu allora iniziata la pratica della vaccinazione in massa e furono rafforzate le reti internazionali di allerta e ricerca.
È con le crisi economiche degli anni ‘75-82 e col varo dei piani di austerità a livello globale, che imposero in molti paesi la contrazione della spesa sanitaria, che si passò dalla sotto-informazione all’iper-informazione sui rischi infettivi. Dagli anni Ottanta, dopo la grande crisi economica, che convinse le borghesie mondiali alle politiche di austerità dello pseudo-liberalismo economico, iniziò anche la diffusione di informazioni sulle epidemie, come l’Aids e lo scandalo del sangue contaminato. La discrezione dei media si ribaltò nel suo contrario, denunciando i dirigenti infedeli, esperti di ogni tipo da allora si susseguono sugli schermi, spesso bisticciando fra loro, si impartiscono continue lezioni di igiene... Il catastrofismo diventa un genere di spettacolo che si ammannisce alla popolazione.
La malattia “della mucca pazza” alla fine del decennio 1980-1990, iniziata in Gran Bretagna, era causata da ruminanti nutriti con farina di animali malati. La presenza di una proteina anomala, il prione, per semplice contatto con i tessuti cerebrali causa una degenerazione neurologica irreversibile. La trasmissione agli esseri umani fu molto bassa ma lo “scandalo” mise in luce i percorsi oscuri delle filiere di produzione della carne.
La Sars, o sindrome respiratoria acuta grave, si è verificata nel 2002-2003 con un nuovo virus, il coronavirus. Apparve in Cina nel 1997, originata nei pipistrelli poi passata allo zibetto poi all’uomo. L’epidemia colpì 30 paesi ma uccidendo solo 800 uomini, e nessuno in Europa. Poi è inspiegabilmente scomparsa nell’agosto 2003.
L’influenza aviaria H5N1, variante del virus A, nel 2004 ha infettato le anatre selvatiche e gli animali domestici, polli e maiali, ma è difficile da trasmettere all’uomo. Nel 1983 quella epizoosi imperversò in Pennsylvania, costringendo a macellare 17 milioni di polli. E nel 2004 dal sud est asiatico si è diffusa nel resto del mondo. L’OMS ritenne possibile che potesse causare una pandemia umana con fino a 100 milioni di morti. Questo non è poi avvenuto.
La pandemia influenzale con il virus A H1N1 pdm09 del 2009 è nota come influenza suina. Questo virus apparve la prima volta in Messico in un allevamento, una variante H1N1 che riuniva segmenti virali di quattro virus di diversa origine: suino nordamericano, suino isolato in Europa e in Asia, aviario e dell’influenza umana. Le pubblicazioni ufficiali predicevano la possibilità di una mortalità estrema. I governi ordinarono una diffusa vaccinazione della popolazione. L’influenza, iniziata in estate, si concluse però improvvisamente a dicembre con l’arrivo dell’influenza stagionale.
Osserviamo qui che l’influenza stagionale di inizio 2020 con i soliti virus H3N2 e B non è circolata in presenza del Covid-19.
Nel 2014-2016 l’epidemia di virus Ebola con febbre emorragica, veicolata dai pipistrelli, ha infettato prima gli scimpanzé poi gli uomini. I primi casi comparvero nel 1976 in Congo, ma l’epidemia si è avuta nel 2014-2016 in Congo e in Africa occidentale nel 2018. Il tasso di mortalità fu spaventoso: 50% secondo l’OMS. Nel 2015 ci sono stati 20.000 infetti e 9.000 morti.
Nel 2010 ad Haiti l’epidemia di colera fu importata dai soldati nepalesi delle Nazioni Unite. Alla fine del 2012 il coronavirus Mers, la sindrome respiratoria mediorientale, proveniente dall’Arabia Saudita, zoonosi originata dai pipistrelli poi trasmessa ai cammelli, rimase misteriosamente localizzata.
Nel 2013 il nuovo virus H7N9 infettò gli uccelli e i polli degli allevamenti intensivi, fra gli uomini fece solo 250 morti e rimase localizzato in Cina.
Infine il Covid 19 ancora in corso. Come nel caso dell’influenza spagnola il virus ha potuto diffondersi rapidamente per l’accresciuta circolazione degli uomini. È apparso a Wuhan, nella Cina continentale, nel dicembre 2019. L’origine sarebbe nelle grandi colonie di pipistrelli della regione, passato poi al pangolino, una carne pregiata in Cina. Wuhan è una regione calda e umida, altamente urbanizzata e industrializzata. L’agroindustria con i suoi allevamenti intensivi preme contro gli affollati quartieri periurbani: concentrazioni di animali che favoriscono mutazioni e il diffondersi di virus. Possibile quindi che varianti virali siano passate alla specie umana. La mortalità all’inizio era molto alta perché i casi esaminati erano tutti già molto gravi, poi si è passati dal 5,6% allo 0,5%. La malattia si è diffusa nel resto dell’Asia e nel mondo attraverso il movimento degli uomini. Nell’80% dei casi i sintomi sono moderati e la mortalità riguarda principalmente persone molto anziane, con patologie o in stato di povertà. Alla malattia, che può passare inosservata soprattutto nei soggetti giovani, l’organismo risponde con una reazione immunitaria; in alcuni casi questa risposta è sproporzionata e si rivolge contro le cellule della mucosa respiratoria che trasferiscono l’ossigeno al sangue. Il Covid-19 provoca anche danni alle pareti vascolari. A questo punto la malattia non è più virale ma autoimmune. Ma molti elementi sono ancora incomprensibili. Perché le epidemie a volte rimangono localizzate, perché cessano, sono domande a cui la scienza non ha ancora dato risposta.
Camminano sulla testa
La corsa al profitto guida il mondo dominato dal modo di produzione capitalistico e dalla sua irrazionalità, facendo sprofondare nel caos la stessa intelligenza e istinto di sopravvivenza della specie. Questo genera la diffusione – ampliata dalla propaganda borghese – di una generale diffidenza verso la scienza e di aperture all’irrazionale e all’esoterico del “new age”. Ci si prostra davanti a una “anti-scienza,” un contrapporre ai metodi dello studio e della ricerca la pigra ignoranza e l’individualismo della piccola borghesia, che sbandiera il suo pessimismo, senso di impotenza, inutilità e morte, quasi rassegnata alla sua prossima rovina e assenza di futuro. Un “uomo” sempre “peccatore” del quale “la natura” sarebbe in procinto di sbarazzarsi alla svelta.
Perfino alla guerra in Iraq si cercò di dare un fine “ecologico”, la distruzione delle “armi chimiche”.
Dietro questi sentimenti il regime del capitale nasconde la sua incapacità di prevedere e predisporre piani di risposta ad emergenze del tutto prevedibili. Sarebbero delle spese inutili!
Sul piano sociale gli Stati intanto ne approfittano per vietare riunioni sindacali e manifestazioni di sciopero, ma giammai il lavoro nei ristretti ambienti delle fabbriche, dei cantieri, dei magazzini.
Ai danni della malattia è da aggiunge l’ubbidienza dei dirigenti anche sanitari non alla salute degli uomini ma a quella del capitale, assetato di guadagno e ormai preso per la gola dalla crisi economica, della quale l’abisso è stato enormemente approfondito dal crollo dei consumi, nonostante le fabbriche si escluda di poterle fermare mai. Gli operai debbono rischiare la vita, come soldati al fronte, nella spietata guerra economica e commerciale fra le varie borghesie mondiali.
Perché la grande paura della borghesia non è il Covid ma la rivolta che può montare nel mondo intero!
Solo il proletariato mondiale, armato delle sue organizzazioni economiche e del suo partito di classe, è in grado di preparare la sua dittatura che renderà possibile la distruzione del modo di produzione capitalista, mortale e criminale sempre, e di dare vita alla società comunista – le cui basi sono presenti da più di un secolo – con la sua forza vitale e la sua Scienza finalmente libera, posta al servizio dell’umanità intera.
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Per la quarta volta dal secolo scorso l’Armenia e l’Azerbaigian sono di nuovo in guerra fra loro per il territorio noto come Nagorno Karabakh, o Alto Karabakh montuoso. Considerando i bollettini di guerra di entrambe le parti finora sarebbero andate perse le vite di oltre 5.000 soldati. Una cifra con ogni probabilità gonfiata, specie se si considerano soltanto i militari, ai fini della propaganda di guerra di entrambi i paesi. Ma sappiamo con certezza che in una decina di giorni di combattimenti le vittime militari e civili si contano già in molte centinaia.
Un breve sguardo alla storia del Nagorno Karabakh. Mentre quasi il 90% delle montagne del Karabakh era abitato da armeni la pianura vedeva la prevalenza dell’elemento azero, così nel 1921 la regione fu integrata nell’Azerbaigian sovietico, pur ottenendo lo status di oblast autonomo. Nei decenni successivi del governo “comunista” e “sovietico” nella regione la componente etnica armena è scesa a circa il 77%.
Nel 1988 gli armeni del Nagorno Karabakh dichiararono l’indipendenza proclamando la Repubblica dell’Artsakh e suscitando un conflitto tra Armenia e Azerbaigian, il primo della serie che ha accompagnato la dissoluzione del blocco orientale. La repubblica non ottenne riconoscimento ufficiale da alcun paese, nemmeno dall’Armenia, e alla fine della guerra nel 1994 rimase de facto indipendente. Già nel 2005, in seguito a una “pulizia etnica”, quasi tutti gli abitanti della Repubblica dell’Artsakh erano armeni, dopo aver espulso alcune centinaia di migliaia di azerbaigiani che vivono tuttora in campi profughi.
Ci sono resoconti contrastanti su chi ha lanciato il primo attacco nel conflitto in corso. Indipendentemente da ciò entrambe le parti si sono chiaramente preparate per un’altra guerra. Alcuni rapporti evidenziano come membri del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) intervengano dalla parte armena e come uomini dell’”Esercito Nazionale Siriano”, che fa capo al presidente turco Erdoğan, siano schierati dalla parte azera. Sebbene questo sia negato dagli armeni e dagli azeri, non è difficile credere che entrambe le parti traggano vantaggio da questi incalliti mercenari. Secondo un rapporto del Centro Siriano per i Diritti Umani (un’organizzazione non sempre attendibile), la Turchia avrebbe inviato 1.200 combattenti siriani a sostegno delle forze armate dell’Azerbaigian. La stessa fonte asserisce che riceverebbero una paga fra i 1.500 e i 2.000 dollari al mese.
In ogni caso non solo l’Armenia ha perso numerosi villaggi, ma sia all’interno sia in campo internazionale è messa peggio dell’Azerbaigian. Il presidente Ilham Aliyev, come suo padre e predecessore Nazar, guida la democrazia totalitaria dell’Azerbaigian. Gode del sostegno di una parte consistente della popolazione, anche grazie alle notevoli entrate dello Stato provenienti dalla rendita petrolifera, che ha anche permesso all’Azerbaigian acquisti di armi in vari paesi fra cui Turchia e Israele.
Il primo ministro armeno Nikol Pashinian invece, portato al potere da una ribellione popolare, deve ancora affrontare la sfida delle elezioni, anche se per ora sembra godere anch’egli di un certo sostegno.
Sebbene Stati e organizzazioni come Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite abbiano chiesto la pace, Aliyev gode di un forte e aperto sostegno della Turchia e del Pakistan, così come di un certo appoggio militare di Israele.
Questo sembra un paradosso: lo Stato ebraico in funzione anti-iraniana si schiera dalla parte della Turchia dominata dalla Fratellanza Musulmana, quella di cui fa parte anche il movimento palestinese Hamas, da sempre considerato, a parole, il suo peggiore (o il migliore) nemico.
LL’assetto delle alleanze regionali fa sì che l’Azerbaigian possa contare su una decisiva superiorità aerea. Velivoli da guerra turchi hanno abbattuto due Sukhoi-25 armeni, mentre i droni di fabbricazione turca e israeliana contribuiscono a far pendere la bilancia dei rapporti di forza a favore dell’Azerbaigian.
Anche Macron, che dalla Francia ha espresso critiche sul coinvolgimento turco, non sostiene l’Armenia con la stessa energia con cui Turchia e Pakistan sostengono l’Azerbaigian.
La Russia è tradizionalmente alleata dell’Armenia, ma Pashinian è considerato da Putin un filo-occidentale. Mosca non permetterebbe certo a un paese come l’Azerbaigian, sostenuto dalla Turchia, di minacciare l’esistenza dell’Armenia, ma potrebbe anche consentire alle forze azere di avanzare in Nagorno Karabakh.
Le due successive tregue raggiunte dalle parti con la mediazione russa non hanno fermato i combattimenti e i bombardamenti, anche contro obiettivi civili, provocando numerose vittime. In realtà si è trattato di diversivi per prendere tempo e tornare alle ostilità con rinnovato vigore. Né pare stia dando miglior esito l’ennesimo cessate il fuoco raggiunto sotto l’egida degli Stati Uniti d’America. Negli ultimi giorni l’esercito dell’Azerbaigian è all’offensiva e sembra abbia conquistato alcune città e villaggi di confine e che stia puntando adesso sull’importante città di Shushi, occupata dagli armeni nel 1992.
Indipendentemente da chi risulterà vittorioso, saranno i proletari di Armenia e di Azerbaigian a perdere, i quali non hanno comunque nulla da guadagnarci, sono loro che da una parte e dall’altra crepano al fronte, subiscono i bombardamenti, sono costretti ad abbandonare le loro case e a vivere sotto le tende o all’addiaccio.
Sebbene appaia una guerra tra le nazioni armena e azera, o addirittura sia presentata come una guerra di religione tra cristiani e mussulmani, in realtà si tratta di una guerra tra Stati capitalistici e gruppi di Stati per i loro egoistici interessi e per dividere la classe dei proletari. È una piccola guerra imperialista che ha come scopo principale mantenere al potere bande di politicanti al servizio dell’imperialismo.
La corretta politica proletaria di fronte a un tale conflitto è invitare i proletari soldati di entrambe le parti a denunciare la guerra come imperialista. Senza questo appello, che può essere lanciato solo da un vero partito comunista, i proletari della regione non hanno alcuna speranza di prepararsi alla loro storica vittoria, che è andata dispersa a causa della controrivoluzione staliniana.
Un tempo tutta la regione ospitava un vivace movimento operaio e una consolidata tradizione bolscevica che portò alla formazione di forti partiti comunisti. Oggi il nostro partito, erede della tradizione della Internazionale Comunista a cui questi partiti aderivano, non esiste nel Caucaso. Ma domani lo raggiungerà il nostro richiamo all’internazionalismo proletario e al disfattismo rivoluzionario contro la guerra borghese e per la guerra civile rivoluzionaria.
Un paese di giovane capitalismo la cui economia conosce ritmi di crescita sostenuti non può evitare di pianificare una politica energetica per fare fronte ai bisogni dell’industria nazionale. Per l’Etiopia la possibilità di risolvere gran parte del problema sta nella gigantesca diga in ultimazione lungo il corso del Nilo Azzurro, non lontano dal confine col Sudan. La “Grand Ethiopian Renaissance Dam”, nota con l’acronimo Gerd, quando entrerà in funzione sarà in grado di produrre 6.500 megawat, raddoppiando la produzione di elettricità del paese. È un obiettivo al quale il governo di Addis Abeba mirava da tempo, tanto che già negli anni ’60 il negus Haile Selassié aveva accarezzato un progetto analogo, sperando nell’aiuto statunitense. Adesso che i lavori sono oltre il 70%, il vecchio sogno appare ormai a portata di mano.
Per alimentare la centrale elettrica occorre riempire il bacino con oltre 70 miliardi di metri cubi d’acqua (un cubo di 4 chilometri di lato!) convogliandovi tutto o parte del flusso del Nilo Azzurro che scorre in Etiopia. Il problema sarebbe: a quanta produzione agricola annua possiamo rinunciare per avere un determinato ammontare di elettricità? Una volta determinato il complessivo fabbisogno alimentare e quello energetico individuare i tempi opportuni per il riempimento del grande lago sarebbe un facile calcolo.
Ma c’è “un piccolo inconveniente”. Il regime del capitale, con la sua anacronistica segmentazione dell’ecumene, l’insieme delle terre abitate, in Stati nazionali rende impossibile ogni soluzione. Dati i vigenti rapporti di produzione era inevitabile che insorgesse un contenzioso fra l’Etiopia e gli altri due paesi bagnati dal Nilo a valle della diga, il Sudan e l’Egitto, i quali ne dipendono per l’approvvigionamento idrico e l’agricoltura. Il riempimento del bacino richiederà diversi anni. Gli esperti del governo del Cairo anticipano scenari fortemente negativi per l’economia egiziana, tanto più catastrofici quanto più rapidi saranno i tempi di riempimento. Se avverrà in dieci anni l’Egitto dovrà rinunciare al 14% dell’acqua e al 18% dei terreni coltivabili. Se in sette anni si perderanno il 22% dell’acqua e il 33% dei terreni. Se poi i tempi di entrata in funzione a pieno regime della diga si accorciassero a soli cinque anni sparirebbe il 50% delle terre agricole egiziane.
Se questa prospettiva si realizzasse anche soltanto in parte sarebbe insostenibile per un paese di oltre 100 milioni di abitanti, già flagellato dalla crisi economica mondiale e alle prese con una disoccupazione di massa: potrebbe trovarsi a dovere fare i conti con la perdita di oltre un 1,2 milioni di posti di lavoro in agricoltura. Il presidente al-Sisi minaccia ritorsioni militari contro l’Etiopia mentre promette agli egiziani che non soffriranno la sete.
Dalla sua il Cairo conta sull’appoggio del Sudan, il quale si è avvicinato all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, stretti alleati dell’Egitto, dopo la caduta avvenuta lo scorso anno del regime legato alla Fratellanza Musulmana dell’ex presidente Omar al-Bashir. A metà luglio la propaganda incrociata di questi capitalismi rivali minacciava di invadere la sponda occidentale del Mar Rosso.
Ma i tempi per la guerra non sono maturi per nessuno, e i tre paesi bagnati dal Nilo si sono ripromessi di tornare al tavolo della trattativa. Il governo di Addis Abeba, non troppo credibile, rassicurava che le forti piogge stagionali avevano alimentato un abbondante e insolito flusso d’acqua nel bacino, come rileverebbero le immagini dai satelliti. Nello stesso tempo il governo etiope lanciava un chiaro messaggio al Cairo e a Khartum ostentando i suoi legami con la Turchia, paese che appoggia la Fratellanza Musulmana e arcinemico dell’Egitto nella guerra in Libia. Sempre a metà luglio il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu volava ad Addis Abeba per incontrare l’ex presidente etiope Mulatu Teshome Wirtu, ribadendo le relazioni economiche e politiche con l’Etiopia, che della Turchia è il secondo maggiore partner commerciale dopo la Cina.
La complessa situazione sociale
L’arma del nazionalismo è utilizzata dal governo etiope per distrarre dalle tensioni interne, deviate dalla classe dominante sui conflitti interetnici. L’Etiopia, in cui si parlano oltre 90 lingue, deve fare i conti con una storica contrapposizione fra le due principali componenti etniche: gli amhara, da molti secoli politicamente egemoni, e gli oromo (i “galla” della letteratura italiana ed europea d’epoca coloniale), i quali sono un terzo della popolazione, di un paese che con 110 milioni di abitanti è il secondo più popoloso dell’Africa.
Sul finire del XIX secolo il negus neghesti Menelik II, espressione delle vecchie classi nobiliari etiopi, aveva condotto una politica di espansione militare a partire dal Nord, a netta prevalenza amhara, verso le terre abitate dagli oromo. Lo scopo era rafforzare una sovrastruttura statale molto fragile, espressione di una base economica ancora in gran parte feudale, per dare vita a una sorta di tardivo assolutismo illuminato volto a mettere il paese al sicuro dai voraci appetiti delle potenze coloniali.
Nel 1889, anno della fondazione ufficiale di Addis Abeba, Menelik si fece incoronare imperatore d’Etiopia, suggellando la vittoria definitiva arrivata dopo un decennio di guerre incessanti contro i deboli e frammentati regni degli oromo. La scelta del luogo in cui doveva nascere la nuova capitale aveva come scopo di imporre una dominazione che intendeva avvalersi anche di una base razziale. Il dominio politico degli amhara fu una costante dello Stato etiope per oltre un secolo, salvo per il breve intervallo della dominazione coloniale italiana, che fece di tutto per favorire la componente oromo e le altre minoranze per contrastare la guerriglia patriottica degli arbegnuoch che si opponevano alle truppe di occupazione.
Tale prevalenza politica degli amhara perdurò durante il regime stalinista del Derg, che governò il paese fra il 1974 e il 1991 e che, in un tentativo di accentramento, contrastò le tendenze centrifughe dovute all’arretratezza economica e alla conseguente fragilità dell’organismo statale. Il potere centrale combatté oltre alle spinte irredentiste degli oromo anche le aspirazioni indipendentiste dei tigrini, che in seguito ebbero come esito la secessione dell’Eritrea avvenuta nel 1993.
Negli anni ’90, con il cambiamento di regime politico, il governo tentò di assopire le tensioni etniche attraverso l’elevazione delle lingue oromotica e tigrina al rango di idiomi ufficiali (alle quali si sono aggiunte di recente anche il somalo, parlato nell’Ogaden, e nell’Afar, la lingua dei cosiddetti dancali di epoca coloniale), senza tuttavia riuscire a sopire se non per un breve periodo i contrasti di nazionalità.
Una prima rivolta degli oromo, scatenata dai piani di espansione residenziale della città di Addis Abeba verso le campagne circostanti, si è verificata nel 2016 dando luogo a incidenti e a feroci repressioni che secondo alcune fonti causarono circa 500 morti. Ma la febbre dell’investimento immobiliare in un paese in rapida crescita, segnato da un processo impetuoso di inurbamento delle masse contadine, non conosce tregue.
Negli ultimi mesi il conflitto etnico, alimentato da squadre della morte parastatali al servizio dell’espansione edilizia da una parte, dall’altra dalle organizzazioni politiche dell’irredentismo interclassista degli oromo, ha subito una recrudescenza nonostante che nel 2018 fosse stato firmato un accordo fra il governo e il Fronte di Liberazione Oromo, che era valso al premier Abiy Ahmed, anch’egli di etnia oromo, il conferimento del Premio Nobel per la pace.
A fine giugno l’uccisione ad Addis Abeba di un noto cantante di etnia oromo, con un lungo passato di milizia irredentista e di alcuni anni in prigione, è stata la miccia di una nuova ondata di violenza che ha provocato più di 200 vittime. I disordini hanno assunto un carattere di rivalità razziale fra i “semitici” amhara e i “cuscitici” oromo. Si sono avuti episodi di violenza anche contro i simboli della dominazione dei negus e della vecchia nobiltà etiopica: nei pressi di Harar è stata abbattuta una statua di ras Makonnen, uomo di fiducia di Menelik II e padre dell’ultimo negus Haile Selassié.
Frattanto la tensione è tornata a crescere nella regione del Tigray, in cui la lingua maggioritaria è il tigrino, dove è radicata una tradizionale insofferenza verso il potere centrale, identificato con la preminenza dell’elemento etnico amhara.
La popolazione del Tigray è stata flagellata da una serie di carestie che hanno seminato morte e miseria. Due di queste nel 1958 e nel biennio 1984-85 ne hanno ucciso per fame centinaia di migliaia senza che lo Stato etiope adottasse iniziative efficaci per impedirlo. Una nuova crisi alimentare incominciata nel 2019 rischia di reiterare di quel tragico copione.
Il governo attualmente in carica si è formato nel 2018, segnando una svolta dopo una fase durata per un quarto di secolo, dal 1991, cioè dalla rimozione di quanto restava del regime “marxista” del Derg (dal 1987 aveva già cambiato nome), quando il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray acquisì un peso determinante nella politica etiopica.
Il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, il partito più importante della borghesia locale e che monopolizza l’assemblea regionale, mostra segni di insofferenza verso i tentativi di rafforzare il potere centrale e verso l’atteggiamento del capo del governo sempre più incline a una sorta di “bonapartismo” al di sopra delle differenze etniche. L’attrito è cresciuto in seguito alla decisione di Addis Abeba di rimandare le elezioni politiche con la motivazione della pandemia da Covid-19. Un fatto che ha frustrato l’aspettativa degli autonomisti tigrini di sostituire il governo di Abiy Ahmed con una nuova compagine che moderi l’accentramento dei poteri che ha ridimensionato l’influenza dei notabili locali.
Negli ultimi mesi l’insofferenza verso il potere centrale si è manifestata in tutte le principali città della regione con parate militari delle forze autonomiste tigrine. A conferma dell’atteggiamento di insubordinazione verso Addis Abeba il 9 settembre scorso si sono svolte le elezioni regionali seppure dichiarate illegali dal governo. Il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray ha ottenuto il 98% dei voti, un plebiscito che la dice lunga sulla portata dello scontro in atto, oltre che sulla credibilità del regime democratico.
Le tensioni “etniche” sono tornate a riaccendersi nei primi giorni di novembre. Il 2 del mese un gruppo appartenente a una milizia oromo ha attaccato una scuola nel villaggio nella regione del Benishangul-Gumuz, uccidendo 54 amhara. Lo stesso giorno nel Tigray un attacco contro una base dell’esercito nei pressi di Makallè provocava la morte di alcuni soldati dando inizio a un nuovo confronto militare.
Il governo federale di Addis Abeba, dopo avere sospeso i voli aerei con il capoluogo tigrino Makallè e con le città di Axum e Shiré e interrotto le comunicazioni via internet, il 4 novembre ha intrapreso una offensiva militare nel Tigray. Nel momento in cui andiamo in stampa la situazione è ancora confusa. Si parla di bombardamenti ma per ora non ci sono conferme.
Restano per noi comunque alcune certezze: la questione nazionale in Etiopia, fra massacri e deportazioni di massa, si dimostra ancora una volta come uno strumento di dominio nelle mani della classe borghese, mentre l’industrialismo in ascesa nel paese alleva un nuovo esercito di proletari che affascia moltitudini di operai indipendentemente dal gruppo etnico di origine.
I tumulti che in ottobre hanno agitato la Nigeria, sfociati in molte città del paese in massacri compiuti dalle forze di polizia e in sabotaggi e saccheggi da parte delle masse diseredate, erano incominciati a principio del mese scorso con una protesta contro le violenze di un reparto speciale “anti-rapina” delle forze di sicurezza. Per lunghi anni il Sars, questo il suo nome, si era reso responsabile di violenze e omicidi ai danni degli strati subalterni della popolazione e da tempo si era sviluppato un movimento di protesta, giunto infine a costringere il governo a sciogliere il Sars.
Tuttavia nei giorni successivi già si è scoperto che il provvedimento si limitava a cambiare il nome del reparto. Le piazze sono allora tornate a riempirsi di una massa crescente di proletari, già esasperati dalla miseria e dalla disoccupazione.
Come si è ripetuto centinaia di volte nei paesi economicamente alla periferia del capitalismo, nei quali l’età media della popolazione è notevolmente bassa, folle di giovani, condannati a una condizione di oppressione ed emarginazione, sono scesi in strada per esprimere la loro rabbia e si sono scontrati con la spietata repressione poliziesca lasciandoci molte decine di morti.
Le radici del malcontento della gioventù proletaria della Nigeria sono tutte nel bilancio fallimentare di questo paese che 60 anni fa riusciva a liberarsi dal giogo della dominazione coloniale britannica.
Prima dell’indipendenza l’agricoltura costituiva la parte più rilevante dell’economia. Il dominio coloniale aveva imposto culture destinate al mercato mondiale, come cacao, olio di palma, arachidi, che costituivano il 70% delle esportazioni, cui si aggiungevano cotone e gomma arabica. Tuttavia questo non avevano soppiantato le colture di sussistenza, che secondo alcune fonti (da verificare) riuscivano a fare fronte al 95% dei bisogni alimentari interni.
In 60 anni di indipendenza politica lo squilibrio economico e sociale del paese non ha fatto che amplificarsi. Mentre la popolazione si è moltiplicata per quattro, raggiungendo circa 200 milioni di abitanti, il 60% della popolazione attiva è ancora addetta all’agricoltura e nelle campagne è predominante l’inefficiente piccola azienda contadina di sussistenza. L’inefficienza dell’agricoltura fa sì che il contributo dall’agricoltura al reddito nazionale non superi il 40% del Prodotto Interno Lordo. Nonostante le decine di milioni di braccia impegnate nel lavoro nei campi, per fare fronte al suo fabbisogno interno la Nigeria deve importare annualmente 3 miliardi di dollari in generi alimentari di base.
Il governo ha ripetutamente tentato di stimolare la produzione locale, ma senza successo. A tal fine ha cercato a più riprese di chiudere il confine col vicino Benin dal quale affluiscono prodotti alimentari a buon mercato, in prevalenza riso, comunque introdotti in Nigeria grazie al prosperare del contrabbando. Un altro degli aspetti delle “distorsioni” dell’economia del paese – da noi considerate come l’inevitabile portato dell’anarchia capitalistica che orienta la produzione secondo le opportunità di valorizzazione dei capitali, a prescindere dai bisogni umani – è la convulsa storia dell’industria nigeriana.
Con l’indipendenza la borghesia locale si riprometteva di impiantare una manifatturiera nazionale che avrebbe potuto sostituire molti generi d’importazione. Ma il proposito ha dovuto fare i conti con lo sviluppo dell’estrazione del petrolio che, con la promessa di pingui rendite, ha convogliato nel settore minerario il grosso degli investimenti. La carenza di investimenti ha fatto ristagnare l’industria, le cui esportazioni si sono ridotte oggi a un terzo del massimo raggiunto prima della crisi del 2008.
In questa economia depressa, tanto dell’agricoltura quanto della manifattura, l’unico settore relativamente prospero è il petrolifero. La Nigeria, con una produzione giornaliera di poco più di due milioni di barili al giorno, ne è il primo produttore africano. Ma anche in questo settore non tutto va bene: la produzione giornaliera odierna è di almeno 300.000 barili al giorno inferiore rispetto al massimo raggiunto nel primo decennio di questo secolo, quando la popolazione del paese contava 50 milioni di abitanti in meno. In un simile contesto è sempre più difficile per la classe dominante nigeriana fronteggiare le esplosioni del malcontento di un giovane proletariato che, forte del numero e della sua concentrazione, imboccherà risoluto la via della sua guerra sociale. Nella Nigeria indipendente si scontra il proletariato contro lo Stato dei borghesi
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
I lavoratori sono sottoposti incessantemente al bombardamento della propaganda della politica padronale che – al di sopra delle sue bande fintamente contrapposte – vuole far loro credere che il voto e le istituzioni rappresentative democratiche e interclassiste siano strumenti utili alla difesa delle condizioni di vita della classe salariata.
È invece con lo sciopero che i lavoratori possono ottenere anche in pochi giorni aumenti salariali e miglioramenti nelle condizioni di lavoro che nessun percorso parlamentare sarebbe in grado di offrire loro pure nel corso di anni. Questo è ciò che hanno imparato migliaia di lavoratori organizzatisi col SI Cobas. Questo è quanto nel secondo dopoguerra il falso partito comunista (PCI) e i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) sono riusciti a cancellare dalla testa e dal cuore della maggioranza dei lavoratori d’Italia.
Lo sciopero è la più genuina arma di lotta della classe operaia ed è per questo che quando i lavoratori se ne avvalgono – astenendosi dal lavoro senza preavviso né termine prestabilito, bloccando le merci e i crumiri – si trovano le istituzioni democratiche schierate contro, prima con la polizia a sgomberare i picchetti, poi con la magistratura a completare l’opera repressiva.
Le aziende che sfruttano i lavoratori con ogni sorta di mezzi – legali e non – sono invece lasciate libere di continuare a farlo; anzi, i governi d’ogni colore – che si avvicendano attraverso la truffa elettorale – si sforzano di offrire al padronato sempre nuovi strumenti utili ad aumentare lo sfruttamento degli operai e di tutti i lavoratori salariati.
I 458 procedimenti penali a Modena – contro lavoratori, lavoratrici e militanti politico-sindacali – per i picchetti sgomberati alla Italpizza, alla Alcar Uno e in altre vertenze, sono lì a dimostrare in modo esemplare che lo sciopero, formalmente garantito dalla tanto incensata costituzione democratica e repubblicana, è nei fatti perseguito da questo regime padronale e che la democrazia è una maschera della sua dittatura di classe.
Così come fece il PCI passato in mano allo stalinismo anche oggi quelli che resta dei partiti operai opportunisti chiama i lavoratori alla difesa della democrazia e della costituzione, come in occasione dell’ultimo referendum.
Invece la maschera democratica non va difesa ma strappata dal viso di questo regime borghese per mostrare il suo vero volto alla massa dei lavoratori! Questa è ed è sempre stata la direttiva dell’autentico comunismo, quello di sinistra, che fondò il Partito Comunista d’Italia a Livorno nel 1921.
La classe lavoratrice deve essere chiamata alla difesa soltanto delle sue condizioni di vita e di lavoro e delle sue armi di lotta: lo sciopero, i suoi sindacati di classe, il suo partito.
Coerentemente con questa pratica di lotta – che implicitamente esclude ogni compromissione con l’ideologia democratica della classe dominante – la classe lavoratrice camminerà verso il suo vero obiettivo politico, che non è la difesa dell’assetto istituzionale democratico ma il suo abbattimento con la rivoluzione e la dittatura del proletariato, unici mezzi per emancipare l’umanità dal capitalismo.
Occorre quindi rafforzare il sindacalismo di classe e l’autentico partito comunista rivoluzionario.
Manifestazioni come quella odierna trovano giustamente il sostegno di gran parte del sindacalismo conflittuale, così come fu per quella a Prato del 18 gennaio scorso. Ma ciò che è necessario non è una episodica convergenza delle forze del sindacalismo di classe bensì la costruzione di una pratica di azione unitaria in tutte le lotte operaie a tutti i livelli: aziendale, territoriale, categoriale, intercategoriale e nazionale. La parola d’ordine che indica la strada maestra da seguire è quella del FRONTE UNICO SINDACALE DI CLASSE !
Questo obiettivo può essere perseguito solo se i militanti e i lavoratori delle varie organizzazioni sindacali si uniscono e si battono per esso contro la maggioranza delle attuali dirigenze, che si sono dimostrate il principale ostacolo alla pratica dell’unità d’azione dei lavoratori e da anni si fanno la guerra a colpi di scioperi separati e in concorrenza, danneggiando tutto il sindacalismo conflittuale e la classe lavoratrice.
Un passo in questa direzione è il Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe (CLA) che è stato costituito da militanti di diversi sindacati di base e della opposizione in Cgil. Anche la “Assemblea dei lavoratori combattivi” – riunitasi domenica scorsa a Bologna – può esserlo, a patto che dimostri di voler coinvolgere tutti gli organismi del sindacalismo conflittuale e quindi di voler costruire un fronte unico sindacale di classe e non un fronte sindacal-partitico.
I diversi orientamenti politico-sindacali che si affrontano all’interno del movimento operaio devono farlo rispettando sempre la sua unità d’azione. È in un movimento unitario di lotta sindacale che le posizioni politiche del comunismo rivoluzionario e il conseguente e coerente sindacalismo di classe troveranno le condizioni più favorevoli al loro imporsi e alla sconfitta di tutte le correnti dell’opportunismo politico-sindacale.
The workers are constantly bombarded by the propaganda that serves their employee’s politics, which – on top of its feigned opposition gangs – serves to make them believe that voting and the representative democratic-popular institutions are useful tools to defend the living conditions of wage-laborers.
By striking, workers can obtain in a mere few days wage increases and improvements in working conditions that no parliamentary path would be able to offer them in years. This is what thousands of workers organized with SI Cobas have learned. This is what the false communist party (PCI) and the regime unions (CGIL, CISL, UIL) managed to erase from the head and heart of the majority of workers in Italy after the Second World War.
The strike is the real weapon of struggle of the working class and that is why when the workers organize a real strike – without notice or fixed term, which blocks goods and scabs – the democratic institutions are lined up against it, first with the police to clear the pickets, then with their judiciary powers to finish off their repression.
Companies that exploit the workers through all sorts of means – legal and not – are left free to continue to do so; indeed, governments of all colors – which take turns through the electoral fraud – always strive to offer the employers new tools to increase the exploitation of workers and all wage earners.
The 458 criminal proceedings in Modena – against workers of both genders and political and union militants – for the pickets cleared at Italpizza, Alcar Uno and other struggles, are an exemplary demonstration that the strike, officially guaranteed by the rather dishonest democratic and republican constitution, is in fact persecuted by this employer’s regime, whose democracy is but a mask of its class dictatorship.
As has the PCI long since passed into the hands of centrism – commonly called Stalinism – so today even what little remains of the opportunist workers’ parties call the workers to defend democracy and the constitution, as they did in the last referendum.
Instead, the democratic mask should not be defended but torn from the face of this bourgeois regime to show its true face to the working masses! This is and has always been the directive of the authentic Communist Left, which founded the Communist Party of Italy in Livorno in 1921.
The working class must be called to defend only its weapons of struggle: the strike, its class unions, its party. Only with this practice of struggle – which excludes any compromise with the democratic ideology of the ruling class – will the working class walk towards its true political goal, which is not the defense of the popular and democratic institutions but its overthrow with the revolution and the dictatorship of the proletariat, the only means to emancipate humanity from capitalism.
It is thus necessary to strengthen the class unions and the authentic revolutionary communist party.
Demonstrations like today’s one rightly find the support of a large part of the militant trade unions, as was the case in Prato on January 18. But what is needed is not an episodic convergence of the forces of the class unions but the construction of a practice of unitary action in all workers’ struggles at all levels: corporate, territorial, categorical, inter-category and national. The keyword that shows the correct path to follow is that of the UNITED FRONT OF CLASS UNIONS!
This objective can only be pursued if the militants and workers of the various trade union organizations unite and fight for it against the majority of the current leaders who have proved to be the main obstacle to the practice of working class unity in action and for years they have been waging war through separate and competing strikes, hurting all the militant trade unions and the working class. A step in this direction is the Coordination of Workers for Class Unity (Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe, CLA) which has been formed by militants from different rank-and-file unions as well as the opposition in CGIL
The various political orientations of the trade unions that, as is right and inevitable, face each other within the workers’ movement must do so while always respecting its unity of action. It is in a unitary movement of trade-unionist struggle that the political positions of revolutionary communism and the consequent and consistent class unions find the most favorable conditions to impose themselves and to defeat all the currents of political-union opportunism.
Les travailleurs sont constamment bombardés par la propagande patronale, qui voudrait faire croire que le vote et les institutions démocratico-populaires sont des instruments utiles à la défense des conditions de vie de la classe des travailleurs salariés.
Avec l’arme de la grève, les travailleurs peuvent obtenir, en l’espace de quelque jours, des augmentations de salaire et des améliorations de leurs conditions de travail, qu’aucun parcourt parlementaire n’arriverait à obtenir, même en l’espace de quelques années. C’est ce qu’on appris des milliers de travailleurs organisés dans le SI Cobas. Et c’est cela que les faux parti communiste (PCI en Italie) et les syndicats de régime (Cgil, Cisl, Uil) ont réussi à faire oublier à la majorité des travailleur d’Italie.
La grève est une vraie arme de lutte de la classe ouvrière. C’est pour cette raison, que lorsque les travailleurs organisent une vraie grève, sans préavis, ni fin de lutte préétablie, ils trouvent en face d’eux l’ensemble des institutions et des forces démocratiques, toutes représentant les intérêts de la grande bourgeoisie. D’abord avec l’intervention de la police qui cherchent à disperser les piquets de grève, puis ensuite la magistrature qui continue le sale travail de répression.
Les entreprises qui exploitent les travailleurs par tous les moyens à
leur disposition – légaux ou non – sont protégées par la loi. Et les
gouvernements qui se succèdent, grâce à farce électorale, quelque soit leur couleur, s’efforcent toujours de
donner au patronats de nouveaux instruments juridiques pour mieux exploiter les
ouvriers, et de façon plus générale l’ensemble des travailleurs salariés.
Les 458 procédures pénales engagées à Modena – contre des travailleurs
et des militants politico-syndicaux – pour avoir organisé des piquets de grève à
Italpizza, à Alcar Uno et sur d’autres sites de luttes, sont là pour démontrer
de manière exemplaire que la grève, formellement garantie par la constitution
démocratique et républicaine, est en fait poursuivie par ce régime et que la
démocratie n’est rien d’autre que le masque sous lequel la grande bourgeoisie,
industrielle, financière et terrienne, masque sa dictature de classe.
Comme le faisait autrefois le PCI stalinien, organisation centriste par excellence, aujourd’hui, ce qui reste des partis ouvriers opportunistes continuent à appeler à la défense de la démocratie et de la constitution, comme lors du dernier référendum.
Alors que le masque démocratique doit être au contraire arraché de la face de ce régime pour montrer aux masses travailleuses sa vrai nature de classe: la dictature de la grande bourgeoisie sur le prolétariat, c’est-à-dire la classe des travailleurs salariés. Cette position de classe, fut celle que l’authentique courant communiste, qui fondit le Parti Communiste d’Italie à Livourne en 1921, à toujours défendu et qu’il continue à défendre aujourd’hui.
La classe des travailleurs doit être appelé seulement à la défense de ses moyens de luttes: la grève, ses syndicats de classe et son parti. C’est seulement par cette méthode de lutte – qui exclut tout compromis avec l’idéologie démocratique de la classe dominante – que la classe travailleuse arrivera à son objectif, qui n’est pas la défense de ce régime démocratique, mais son renversement par la révolution et la dictature du prolétariat, unique moyen pour débarrasser l’humanité du mode de production capitaliste, devenu totalement parasitaire et obsolète et passer au Communisme
Il est donc nécessaire de renforcer le syndicalisme de classe et l’authentique Parti Communiste Révolutionnaire
Des manifestations comme celle d’aujourd’hui sont à juste titre soutenues par une grande partie du syndicalisme de combat. comme ce fut le cas de celle de Prato le 18 janvier dernier. Mais ce qu’il faut, ce n’est pas une convergence épisodique des forces du syndicalisme de classe, mais la construction d’une pratique d’action unifiée et unitaire de toutes les luttes des travailleurs à tous les niveaux: entreprise, territorial, catégoriel, inter-catégorial et national. Le mot d’ordre qui indique la voie magistrale à suivre est celui du FRONT UNIQUE SYNDICAL DE CLASSE!
Cet objectif ne peut être poursuivi que si les militants et les travailleurs des différents syndicats s’unissent et luttent pour lui contre la majorité des dirigeants actuels qui se sont avérés être le principal obstacle à la pratique de l’unité d’action des travailleurs et qui, depuis des années, se font la guerre par des grèves séparées et concurrentes, portant ainsi préjudice à tout le syndicalisme de combat et à la classe ouvrière. Un pas dans cette direction est la Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe (CLA) qui a été formée par des militants de différents syndicats de base et de l’opposition à la Cgil
Les différentes orientations politiques syndicales qui, comme il est juste et inévitable, s’affrontent au sein du mouvement ouvrier, doivent le faire en respectant toujours son unité d’action. C’est dans un mouvement unitaire de lutte syndicale que les positions politiques du communisme révolutionnaire et le syndicalisme de classe conséquent et cohérent trouvent les conditions les plus favorables à leur imposition et à la défaite de tous les courants de l’opportunisme politico-syndical.
Il processo della crisi economica mondiale del capitalismo, in atto da decenni, è stato accelerato dalla crisi sanitaria e porterà ad un ulteriore grave peggioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice.
L’unico modo che gli operai e tutti i salariati hanno per difendersi è tornare alla lotta, con lo sciopero, unendosi progressivamente al di sopra delle divisioni fra stabilimenti, azienda, territori e categorie, con azioni comuni per i loro interessi immediati: difesa del salario, riduzione della giornata e della vita lavorativa, contro l’aumento dei carichi e dei ritmi di lavoro, per l’elevamento della Cassa Integrazione al 100% del salario per tutti, per il salario pieno ai lavoratori disoccupati, italiani e immigrati.
Affinché ciò avvenga è ineludibile il ruolo degli organismi sindacali. I sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) sono votati al collaborazionismo con la classe padronale e col suo regime politico, e per questo si opporranno sempre al ritorno alla lotta della classe lavoratrice in modo generalizzato e unito. Ad esempio in queste settimane stanno conducendo le trattative per i rinnovi dei contratti collettivi nazionali categoria di oltre 10 milioni di lavoratori (metalmeccanici, logistica, appalti, industria del legno, agroalimentare, spettacolo, pubblico impiego…) ciascuna per sé.
Le organizzazioni del sindacalismo conflittuale – sindacati di base e opposizioni di classe nella Cgil – nate dalla fine degli anni ’70 in reazione al definitivo tradimento della Cgil, sono invece dirette da dirigenze opportuniste che si fanno una miserevole guerra le une contro le altre, a colpi di scioperi separati e in concorrenza, ostacolando il già arduo compito di rimettere in piedi il movimento operaio.
Compito fondamentale dei proletari combattivi è dunque battersi per l’ UNITÀ D’AZIONE DI TUTTO IL SINDACALISMO CONFLITTUALE E DEI LAVORATORI nella prospettiva di formare, a discapito delle attuali dirigenze, un FRONTE UNICO SINDACALE DI CLASSE.
Bisogna battersi affinché il sindacalismo conflittuale organizzi scioperi unitari a tutti i livelli – aziendale, territoriale, di categoria e intercategoriale – e intervenga in modo unitario nei pochi scioperi proclamati dal sindacalismo di regime – come quello del 5 novembre prossimo di Fiom Fim e Uilm – per indicare ai lavoratori che ancora in maggioranza sono da essi controllati, i metodi di lotta e le corrette rivendicazioni del sindacalismo di classe.
Solo un’azione seria, metodica e duratura in questa direzione consentirà un più rapido ritorno alla lotta della classe lavoratrice e, quando ciò finalmente avverrà, permetterà di disporre di organizzazioni sindacali meno compromesse dall’opportunismo, più facilmente conquistabili da un indirizzo sindacale autenticamente di classe e perciò in grado di potenziare in misura determinante il movimento operaio.
È invece da rifuggire nel modo più risoluto ogni confusione e commistione fra il necessario Fronte Unico Sindacale di Classe e i disparati tentativi di fronti fra gruppi politici, terreno prediletto dei partiti operai opportunisti, che li contraddistingue in quanto tali e in cui sono condannati ad agitarsi impotenti.
Confondere e mescolare il frontismo politico con il fronte unico dei lavoratori non fa che condannare ogni tentativo in tal senso alla vita asfittica di un piccolo mostriciattolo intergruppettaro.
Il riattestarsi di una robusta minoranza della classe lavoratrice intorno al comunismo rivoluzionario non avverrà mai per unioni fra gruppi diversi, costruite sulla base della rinuncia temporanea e ipocrita a parti caratteristiche dei programmi di ciascuna organizzazione, ma solo sulla base da un lato del ritorno all’azione diretta delle masse proletarie in difesa dei loro bisogni immediati, dall’altro della presentazione di una teoria, un programma, un indirizzo tattico d’azione chiari, definiti e a base di partito.
Il partito comunista e rivoluzionario non fa frontismo politico, operazione che si risolve giocoforza nel proporre obiettivi politici cosiddetti “transitori” prima della conquista del potere politico da parte della classe lavoratrice – quali ad esempio le nazionalizzazioni e la patrimoniale – nella frivola illusione che essi la avvicinino alla rivoluzione, e che altro non fanno invece che rafforzare su di essa l’influenza del riformismo.
Il partito comunista e rivoluzionario impegna invece le forze dei suoi militanti lavoratori alla ricostruzione e al rafforzamento del movimento operaio di lotta sindacale e denuncia tutti i fallimenti del capitalismo e del suo regime politico, ribadendo che ogni passo, ogni transizione verso il socialismo, sarà possibile solo dopo la conquista rivoluzionaria del potere politico da parte della classe lavoratrice.
Il 27 settembre si è tenuta a Bologna la seconda Assemblea Nazionale dei Lavoratori Combattivi.
Un nostro compagno avrebbe dovuto tenere un discorso a nome del Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe (CLA), ma non è stato possibile essendo stato posto fra gli ultimi interventi, quando la platea era quasi vuota e il tempo per l’esposizione era stato ridotto da sette a soli tre minuti. L’intervento era stato però stampato e precedentemente distribuito ai circa trecento presenti. Sviluppava i punti accennati nell’articolo pubblicato sullo scorso numero di questo giornale, dedicato al Coordinamento nazionale dell’area di opposizione in Cgil “Riconquistiamo tutto”, tenutosi a Bologna domenica 12 settembre, che aveva deciso di non partecipare all’assemblea bolognese del 27, trovando l’opposizione di una minoranza di delegati.
La gran parte degli interventi dell’assemblea è oscillata fra due estremi: da un lato offrire mere testimonianze sulle condizioni di sfruttamento nei posti di lavoro; dall’altro trattare temi schiettamente politici e quasi per nulla sindacali. Entrambi perciò non hanno affrontato la questione dirimente: come raggiungere l’unità d’azione dei lavoratori – questo era la ragion d’essere dell’assemblea – che sostanzialmente ci si è limitati a invocare in termini quanto mai generici.
Per questo motivo il CLA ha promosso la sua assemblea nazionale tre settimane dopo – domenica 18 ottobre – ponendo al centro del documento di convocazione e della relazione introduttiva presentata da un nostro compagno il dibattito su tali questioni di merito, cercando di evitare tanto vuoti slanci retorici quanto misere polemiche, nella convinzione della forza dei nostri argomenti.
L’assemblea si è tenuta per la prima volta a Genova con una partecipazione – fra presenti e collegati on-line – di 60 lavoratori, alcuni dei quali erano per la prima volta partecipi a una iniziativa del CLA. Considerato che tale Coordinamento non si giova dell’appoggio di alcuna dirigenza sindacale l’esito è da considerarsi soddisfacente. Il CLA – che era stato presente alla manifestazione di Modena del 3 ottobre, indetta dal SI Cobas, con lo striscione e un volantino – ha confermato l’indicazione di voler collaborare con l’Assemblea dei Lavoratori Combattivi.
Da Bologna, il 27 settembre, era scaturita l’indicazione di dare all’Assemblea un carattere di organismo permanente e di organizzarla su base regionale. I nostri compagni hanno seguito le riunioni e l’attività a Torino, Milano, Roma, Mestre e a Genova. Quella più attiva è stata l’assemblea romana – con interventi in diverse mobilitazioni organizzate da altre forze sindacali – seguita da quella torinese. A Milano si è riunita una volta solo, l’11 ottobre.
Il quadro che emerge dalla nostra partecipazione a questo primo mese di attività delle Assemblee dei Lavoratori Combattivi locali è che continui a persistere una certa confusione fra “fronte unico sindacal-partitico” e “fronte unico sindacale di classe”. Ciò avviene sia invocando un generico “Fronte unico di classe” senza precisare se si tratti o meno di un fronte sindacale, sia confondendo il “Patto d’Azione per un Fronte Unico Anticapitalista” con la “Assemblea Lavoratori Combattivi”.
Un fronte sindacal-partitico non può che ridursi a un fronte politico – a un “piccolo mostriciattolo intergruppettaro”, come abbiamo scritto nel volantino distribuito alle manifestazioni di Roma e Milano del 24 ottobre e pubblicato in questo numero – giacché consolida nell’ambito sindacale le divisioni fra i diversi fronti dei partiti operai opportunisti.
Sicché, a esempio, ormai da tempo nel campo del sindacalismo conflittuale abbiamo da un lato il fronte sindacal-partitico promosso dai dirigenti del SI Cobas, dall’altro quello promosso dalla dirigenza dell’Usb, che per altro, in modo quanto mai significativo, sono accomunati dal porre al centro delle loro rivendicazioni quella riformista della “patrimoniale”.
La giustapposizione politicantesca di gruppi di orientamento divergente, nel tentativo di conseguire una unità fittizia, si presta al rischio di generare una accumulazione di posizioni opportuniste in cui la linea generale diventi la sommatoria di quanto di più conservatore si va delineando in termini di impostazioni riformiste in seno alle singole organizzazioni.
La prima Assemblea dei Lavoratori Combattivi si era tenuta a Bologna il 12 luglio, nella stessa sala – la sede del SI Cobas – in cui il giorno prima si era svolta la riunione nazionale del Patto d’Azione. Sul nostro giornale d’agosto, nell’articolo “Per una chiara distinzione fra organi sindacali e politici”, l’avevamo criticata come volta a «dare una verniciata sindacale a un fronte di gruppi partitici».
Nelle settimane successive però i militanti sindacali dei gruppi politici aderenti al Patto d’Azione hanno accettato di distinguere l’Assemblea da quest’ultimo, caratterizzandola in senso più marcatamente sindacale e come organismo composto da soli lavoratori, in vista della sua seconda edizione il 27 settembre a Bologna.
Per questo, nel giornale di settembre, scrivemmo: «Sarebbe un importante passo in avanti se da questa assemblea nascesse un organismo che ne mantenesse il carattere d’esser costituito solo da lavoratori. Resterebbe la questione fondamentale del rapporto con le altre organizzazioni del sindacalismo conflittuale ma verrebbe la pena battersi all’interno di tale organismo contro le sue errate impostazioni» (“Per una chiara distinzione fra organi sindacali e politici”).
Dato però che i militanti sindacali dei gruppi politici aderenti al Patto d’Azione, in ragione del loro opportunismo, equivocano sulla distinzione fra organismi sindacali e politici, confondono o quanto meno eludono la questione della incompatibilità fra i due piani e organismi – l’Assemblea Lavoratori Combattivi e il Patto d’Azione – affinché la prima resti sotto controllo del secondo, divenendo una sua sorta di appendice sindacale.
Per diversi militanti sindacali la distinzione fra i due ambiti e movimenti non è affatto chiara, come è emerso dai loro interventi all’assemblea bolognese del 27, in cui chiamavano indifferentemente l’uno col nome dell’altra. Una confusione alimentata almeno da una parte dei dirigenti sindacali che aderiscono al Patto d’Azione.
Manifestazione esemplare di questa voluta confusione è stata il comunicato nazionale del SI Cobas del 27 ottobre scorso. L’assemblea del 27 settembre si era conclusa con una mozione finale che ne definiva il carattere permanente e fissava una prima giornata di mobilitazione per sabato 24 ottobre. Il comunicato nazionale del SI Cobas che tre giorni dopo commentava l’esito della giornata dichiarava: «Lo sciopero generale della logistica di venerdì scorso e le manifestazioni del giorno seguente indette dal Patto d’azione per un fronte unico anticapitalista hanno...». Quindi i dirigenti nazionali del SI Cobas hanno intestato in capo al Patto d’Azione una mobilitazione stabilita dall’Assemblea Lavoratori Combattivi, esautorandola dalle sue decisioni.
Da questo quadro emerge la necessità e l’indicazione – affinché l’Assemblea Lavoratori Combattivi divenga effettivamente un organismo utile all’unione delle lotte operaie al di sopra delle divisioni aziendali, di categoria e fra sigle sindacali – di battersi per una sua chiara distinzione dal Patto d’Azione, richiedendo di fare chiarezza in tal senso ai militanti e ai dirigenti sindacali che fanno parte di entrambi gli organismi e pretendendo che questi si dotino di strumenti di funzionamento – a cominciare da quelli per la comunicazione interna quali a esempio le mailing-list – indipendenti e separati.
Da una riunione dei primi di novembre del “tavolo di presidenza dell’assemblea nazionale del 27 settembre a Bologna” – il gruppo dirigente dell’Assemblea Nazionale Lavoratori Combattivi – è scaturita una indicazione nel senso da noi auspicato, che però a oggi non è divenuta ancora una presa di posizione pubblica ma ha mantenuto il carattere di comunicazione interna.
Un fatto positivo ma è certo – come visto si è già palesato – che non pochi, anche dirigenti, non sono d’accordo e che vi è una battaglia politico-sindacale da condurre affinché tale indicazione divenga pubblica, effettiva, si imponga e venga difesa.
I nostri compagni sin dal principio, come si evince dai documenti a cui qui facciamo riferimento, si sono attestati su questa indicazione, che si inserisce nella battaglia per la riorganizzazione sindacale della classe operaia.
Turchia - La marcia dei minatori
I minatori di Soma, a Manisa – dove nel 2004 in un incidente morirono in 301, secondo le cifre ufficiali – e di Emenek (Karaman) hanno iniziato una marcia verso la capitale Ankara. Sono organizzati nel Sindacato Indipendente dei Lavoratori delle Miniere, un sindacato di base. I lavoratori, memori della grande marcia dei minatori di Zonguldak del 1991, rivendicavano oltre un anno di salari non pagati e migliori condizioni di sicurezza sul lavoro, con riguardo alla epidemia del Coronavirus e in generale. I lavoratori sono stati attaccati più volte dall’esercito ma non hanno desistito.
Nel frattempo uno sciopero alla Şişecam Kromsan ve Salt Enterprise, stabilimenti chimici nelle città meridionali cosmopolite di Adana e Mersin, è stato procrastinato dal presidente Erdoğan in quanto considerato una “minaccia alla salute pubblica e alla sicurezza nazionale”. Questi lavoratori sono organizzati nel Sindacato dei Lavoratori del Petrolio, della Chimica e della Gomma affiliato alla Türk-İş, la maggiore confederazione sindacale di regime del paese. 550 operai si trovano attualmente in congedo non retribuito.
Montreal - Serrata alle Farmacie Jean Coutu
I 680 lavoratori del centro di distribuzione delle Farmacie Jean Coutu di Varennes, un sobborgo di Montreal, sono senza contratto di lavoro dal 31 dicembre 2019. Lo scorso 24 settembre l’azienda ha deciso di porre termine alle trattative ricorrendo alla serrata. Il sindacato del magazzino, pur condannando questa mossa della direzione, ha rinnovato la disponibilità a negoziare: un atteggiamento molto debole.
I lavoratori sono preoccupati anche per la possibilità che sia subappaltata parte delle attività del magazzino e per il mancato rispetto delle clausole di anzianità.
Nel tempo si sono avute molteplici ristrutturazioni, riduzione dei salari e peggioramenti nelle condizioni di lavoro. La proprietà per controllare i lavoratori ha proposto anche l’utilizzo dei braccialetti elettronici – come in Amazon, dove stanno sperimentando metodi di sfruttamento sempre più sofisticati. Mentre i governi borghesi d’ogni colore propongono interventi legislativi uno dopo l’altro volti a ridurre la libertà di sciopero, i padroni possono sempre, e legalmente, usare la serrata per fiaccare la lotta operaia. Nel 2018, la fonderia di alluminio Bétancour per 18 mesi ha fatto la stessa cosa, schiacciando i lavoratori col ricatto economico.
Come uscire da questa situazione?
Oggi le centrali sindacali sono divenuti sempre più enti di cogestione delle aziende. Li chiamiamo sindacati di regime perché collaborano col padronato per preservare la salute dei profitti aziendali e delle economie nazionali, cioè del capitalismo. Anche quando si manifesta la buona volontà dei gruppi sindacali di fabbrica o territoriali, dei loro dirigenti e delegati nel guidare le lotte, questi si scontrano con una struttura che non vuole la lotta della classe lavoratrice, che l’ha ripudiata per sempre. I lavoratori sono alle prese con l’impalcatura giuridica borghese che cerca di impedire lo sviluppo del movimento di lotta, con i sindacati di regime che coadiuvano governo e padronato in questa opera, e con le divisioni della struttura economica e produttiva capitalista fra aziende e categorie.
La classe operaia è numericamente numerosa e compie il lavoro su cui ruota l’intera società capitalista. Il lavoro di gestione della produzione a fini del profitto è solo parassitario e così la classe sociale che ne trae beneficio e privilegio sociale. I lavoratori, che condividono gli stessi interessi economici e sociali, diametralmente opposti a quelli della borghesia, devono unire le forze solidali. Questo è l’unico modo che hanno per difendere le loro condizioni di vita.
Che si tratti di lavoratori del settore pubblico – insegnanti, infermieri, assistenti all’infanzia – o di impiegati nella piccola e grande distribuzione o di manovali o di magazzinieri come al centro Pharmacie Jean Coutu, la strada da seguire è quella dell’unificazione delle lotte al di sopra delle fabbriche, aziende, categorie e territori.
Lavoratori! Bisogna non restare isolati e non basta fare affidamento sui dirigenti o sui delegati sindacali combattivi per promuovere la lotta. Organizzatevi in comitati di lotta autonomi; cercate il sostegno di altri lavoratori in difficoltà e in lotta; collegatevi ad altri sindacati combattivi o a organizzazioni di lavoratori come il Centro dei Lavoratori Immigrati, che ha recentemente combattuto a fianco dei dipendenti di Dollarama; fate appello anche ai sindacati di lotta come Industrial Workers of the World, che sa come condurre lotte offensive e vittoriose. Sono i numeri e l’unità le vere armi dei lavoratori in lotta.
Ospedalieri canadesi
In risposta alla minaccia di privatizzare 11.000 posti di lavoro negli ospedali dell’Alberta, nel Canada occidentale, lunedì 26 ottobre diverse migliaia di lavoratori sono scesi in sciopero spontaneo in 45 strutture della provincia. I lavoratori sono membri dell’Alberta Union of Public Employees (Aupe): infermieri, tecnici di laboratorio, addetti alle pulizie, alla mensa, inservienti.
Le Infermiere Unite dell’Alberta (Una) sono solidali con lo sciopero: «Incoraggiamo i nostri iscritti a unirsi ai picchetti dei colleghi in sciopero e a non sostituire i lavoratori dell’Aupe in sciopero», ha detto il presidente dell’Una.
Le richieste dei lavoratori comprendono aumento del personale, revoca dei piani di privatizzazione della sanità pubblica e nessuna ritorsione contro gli scioperanti. In risposta allo sciopero il governo, attualmente del Partito Conservatore Unito, ha invocato il licenziamento degli assistenti, degli infermieri e la riduzione degli stipendi dei medici.
La sera stessa dello sciopero il Consiglio per i Rapporti di Lavoro dell’Alberta ha ordinato di interrompere lo sciopero “selvaggio”. I dirigenti dell’Aupe hanno detto che avrebbero notificato ai loro iscritti l’obbligo di obbedire alla direttiva.
Gli scioperi degli ospedalieri dell’Alberta vantano una tradizione combattiva nel Canada occidentale che risale alla One Big Union, ai minatori e ai carpentieri.
Una organizzazione comune dovrebbe essere intrapresa in Alberta con i sindacati degli insegnanti che stanno affrontando simili minacce di privatizzazione. Anche i sindacati dei lavoratori delle poste e dell’edilizia hanno condotto di recente scioperi senza preavviso.
I lavoratori delle poste si sono organizzati attraverso reti di militanti sia all’interno sia all’esterno del sindacato. Sforzi simili da parte dei militanti sindacali per formare coordinamenti di lavoratori offrirebbero le basi per scioperi più ampi.
L’insegnamento degli scioperi selvaggi dei postini del 2016, che bloccarono le poste canadesi in tutto il paese – coi picchetti di solidarietà per aggirare le leggi che limitano lo sciopero e ne eliminano ogni efficacia – potrebbero essere la base per la crescita di un fronte unico dal basso per difendere gli interessi della classe operaia.
Portogallo - Sciopero delle mense scolastiche
Con la crisi sanitaria la borghesia è ovunque alla ricerca di ogni opportunità per accrescere lo sfruttamento degli operai.
A Barcelos – cittadina di 120 mila abitanti nel Portogallo settentrionale – martedì 20 ottobre i lavoratori delle mense scolastiche sono scesi in sciopero chiudendo i refettori di sette istituti, due terzi del totale. I lavoratori accusano l’azienda – l’Unicelf – di aver ridotto l’orario di lavoro, e in proporzione il salario, di aver peggiorato i carichi e ritmi.
Infine è aumentata ancor di più l’incertezza dell’impiego. Di solito si lavorava da settembre a giugno con contratti rinnovati di mese in mese. Quest’anno i turni sono solo mattinieri o pomeridiani e la durata del contratto è diventata ancora più precaria, potendo il lavoratore essere lasciato a casa ogni inizio settimana invece che con un contratto di nove mesi. Ai licenziati non viene nemmeno corrisposta la liquidazione.
La quantità di lavoro è aumentata anche in conseguenza della necessità di sanificare gli ambienti e gli utensili.
Il sindacato ha chiesto che tutti coloro che hanno lavorato nelle mense scolastiche nell’ultimo anno vengano assunti e che l’azienda ristabilisca i loro precedenti diritti: il pagamento del trattamento di fine rapporto dell’anno scorso e la riassunzione con la consueta formula contrattuale.
Si tratta del Sindicato da Hotelaria do Norte, affiliato alla Confederação Geral dos Trabalhadores Portugueses – la maggiore confederazione sindacale di regime in Portogallo. A seguito dello sciopero del 20 ottobre ha programmato uno sciopero nazionale per il lunedì 26, ma preavvisando le imprese che hanno potuto così organizzarsi per ridurre gli effetti della giornata di astensione dal lavoro. Lo sciopero per avere maggiore efficacia avrebbe dovuto essere dispiegato senza preavviso, condotto, se possibile, a tempo indeterminato e, se necessario, bloccando l’accesso agli istituti a merce e crumiri.
Lo sciopero ha avuto un buon esito, colpendo 200 istituti scolastici, soprattutto nel centro e nel Nord – mentre il Sud è notoriamente arretrato – e coi picchetti più partecipati a Coimbra e Porto.
Il 5 novembre è stato ingaggiato un altro sciopero nazionale della categoria, in risposta a 122 licenziamenti da parte dell’azienda Eurest.
Ancora una volta, anche in Portogallo si conferma la necessità di un vero sindacato di classe.
L’Agro Pontino è un vasto territorio che la bonifica degli anni ’30 del secolo scorso ha reso disponibile all’agricoltura che tutt’oggi continua ad avere un peso notevole nell’economia locale. Coltivato da principio da coloni in prevalenza di provenienza veneta e friulana, il paesaggio agrario è caratterizzato da una vasta pianura in cui l’abbondanza d’acqua e la vicinanza al mercato di Roma ha visto prosperare aziende di piccole e medie dimensioni. Le numerose imprese perlopiù a carattere familiare sono sopravvissute in parte allo sviluppo dell’industria che a partire dagli anni ’60, grazie ai fondi della Cassa del Mezzogiorno, si è radicata localmente insieme alla diffusione della figura dell’operaio-contadino, considerata in genere dagli investitori di capitali come garanzia di scarsa combattività sindacale. È stato tutt’altro che infrequente il caso dell’operaio di fabbrica proprietario di un appezzamento di terreno da dedicare alla produzione agricola e all’allevamento di bestiame, spesso eccedente di gran lunga il fabbisogno alimentare della sua famiglia.
Questo ha limitato la conflittualità operaia e ha permesso alla borghesia di contrastare più agevolmente le rivendicazioni salariali. Questi fattori hanno favorito una certa continuità nell’assetto territoriale che non ha conosciuto l’esodo dalle campagne conosciuto in tutta Italia e in altre aree del Lazio. Attualmente l’11% della popolazione locale continua a essere occupata in agricoltura.
A partire dalla metà degli anni ’80 la fiorente agricoltura pontina ha visto l’irruzione del bracciantato di origine straniera che in seguito è diventato addirittura prevalente sui salariati agricoli italiani. Vessati da imprenditori avidi e dal caporalato imperante e costretti a lavorare a seconda della stagione anche 12 o 13 ore al giorno per paghe da fame, questi lavoratori costituiscono in termini numerici una importante componente del proletariato locale. Difficile quantificare quanti siano con precisione: alcune fonti parlano di una cifra compresa fra i 7 e i 9.000 braccianti stranieri, altre, considerando anche la forza lavoro stagionale irregolare, parlano di una cifra che si aggirerebbe addirittura attorno alle 25-30.000 unità. Ma è acclarato che questa estesa comunità di lavoratori, che vede una certa prevalenza dell’elemento indiano di etnia punjabi e di religione sikh, ma anche una certa presenza di bengalesi e africani, sia sottoposta a una condizione di estrema oppressione.
Per chi passa da quelle parti non è difficile imbattersi nelle torme di lavoratori che vanno o vengono dai campi su vecchie biciclette in strade strette, senza illuminazione e con molto traffico rischiando spesso la vita. Né è affatto raro il caso in cui qualcuno di questi lavoratori, sopraffatto dalla fatica a causa dei ritmi di lavoro disumani, assuma oppiacei per continuare a lavorare oltre quanto consentirebbero le sue forze. Quando l’assunzione di tali sostanze si protrae nel tempo accade che sfoci in tossicodipendenza da oppiacei e talvolta anche di eroina. Nell’aprile del 2019 a Latina due lavoratori indiani morirono di overdose a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Inoltre non sono affatto rari i casi di violenza da parte dei caporali e degli imprenditori che minacciano i lavoratori anche armi alla mano. Nell’estate del 2018 il tiro con il fucile ad aria compressa sui lavoratori immigrati divenne uno “sport” di moda a livello locale: in due mesi ci furono un morto e 13 feriti.
Sul finire dell’estate scorsa due gravi incidenti sul lavoro hanno riportato l’attenzione sulla condizione dei lavoratori immigrati dell’Agro Pontino. Sabato 22 agosto Amerinder Singh, un bracciante di etnia punjabi precipitava da un’altezza di 4 metri mentre era intento a lavorare su una serra senza misure di sicurezza, procurandosi gravi ferite alla schiena. Prima che l’infortunato venisse ricoverato in ospedale, i capi lo avevano portato in un campo e lì abbandonato. In seguito all’incidente i lavoratori davano vita a uno sciopero spontaneo al quale seguiva una trattativa in un clima assai teso segnato dagli insulti dei capi nei confronti dei lavoratori. Uno di questi ha reagito prendendo a schiaffi il capo. Un risultato è stato l’impegno dell’azienda a rispettare le misure di sicurezza. Poco, ma significativo.
Il 7 settembre il ventiseienne Singh Guarjant, anch’egli originario del Punjab, anche in questo caso in una serra, mentre e sostituiva il telo in piedi su un muletto, cadeva al suolo, sbatteva la testa e moriva sul colpo. La tragica fine del giovane scuoteva tutta la comunità sikh, che riesce a mobilitarsi in ragione della sua solidarietà interna, nonostante questa abbia le sue stratificazione di classe e non sia sconosciuta la figura dei suoi caporioni opposti ai lavoratori.
Dopo un presidio che si svolgeva il 10 agosto, la triplice sindacale convocava uno sciopero per il 28 settembre con manifestazione in Piazza della Libertà a Latina, scelta non casuale dato che sulla piazza si affaccia il palazzo della prefettura. I sindacati tricolore hanno organizzato un incontro col prefetto che doveva servire a “ristabilire la legalità” istituendo più controlli nelle aziende e rafforzando l’impegno delle forze di polizia.
Gli interventi dei bonzi sindacali sul palco sono arrivati a deliri “sovranisti”: il rappresentante della Cisl rivolgendosi alla platea composta da qualche centinaio di lavoratori, quasi tutti sikh, ha intimato loro che dovevano “imparare l’italiano”. Poco dopo un lavoratore sikh dal palco, contrastando quanti lo volevano tacitare, parlando in lingua punjabi, è riuscito a denunciare il clima di violenza e di intimidazione di cui sono responsabili gli imprenditori italiani, ma anche molti suoi correligionari che hanno ottenuto il ruolo di capi. Segno che la collaborazione fra gli oppressi e i loro aguzzini si può infrangere anche in una terra straniera e ostica con gli immigrati.
Durante la manifestazione un gruppo di una dozzina di aderenti all’Assemblea dei Lavoratori combattivi di Roma ha distribuito un volantino bilingue in italiano e in punjabi.
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Seduta del sabato | |
- Introduzione del centro del partito | Introducton of the centre |
Il PCd’I e la guerra civile in Italia | |
L’attività sindacale del partito | The Party’s Trade Union Work |
Origini del Partito Comunista di Cina | Origins of the Communist Party of China |
La successione dei modi di produzione | |
Moti sociali in Etiopia | |
Relazione dei compagni venezuelani | |
Sul concetto di dittatura del proletariato | The concept of dictatorship |
Seduta della domenica | |
Corso della crisi economica | |
La questione militare - La rivoluzione di Ottobre | |
La rivolta razziale in USA | The Black Question in the US |
La rivoluzione ungherese del 1919 | |
Rosa Luxemburg nella stampa del partito | Reclaiming Rosa Luxemburg for the Communist Left |
La formazione della nazione indiana | The formation of the Indian nation |
Riuscire a incontrare nelle riunioni generali gran parte dei compagni, che si conoscono, si collegano e intonano sempre meglio il nostro lavoro internazionale, è un risultato assai piccolo nelle sue dimensioni, ma certo importante, forse determinante, nella guerra sociale della classe operaia verso il comunismo.
Noi materialisti marxisti – che sappiamo quanto poco valgono gli individui, e le nostre persone – siamo però coscienti della forza delle dottrine sociali e della presenza attiva dei partiti nella lotta delle classi, e in particolare del ruolo del partito comunista, coscienza critica della classe operaia e dei suoi destini, e organo dirigente il necessario e risolutore scontro rivoluzionario.
Il partito, anticipazione del futuro comunista all’interno della società borghese, è insieme organo di battaglia e la forma più alta di convivenza umana. Il nostro lavoro nelle sale delle riunioni generali, e in generale nelle file del partito, è come meglio possiamo volgere il nostro individuale sdegno, le nostre volontà ed energie alla grande causa del comunismo.
A distanza di più di un secolo noi ci riteniamo i continuatori della tradizione gloriosa di quel partito mondiale che fu la Terza Internazionale nei suoi primi anni, che era già stata l’Associazione Internazionale culminata nella Comune di Parigi, organi mondiali di quella classe operaia che da sempre si proclamò dei senza patria, fin dalla Lega dei Comunisti, anche prima che tale la descrivesse il Manifesto di Marx e di Engels. Noi lavoriamo alla ricostruzione di quel partito mondiale di cui la classe ha impellente bisogno e che essa stessa verrà a cercare e a estesamente alimentare di forze generose. È un compito certo immenso davanti a noi, che sarà avversato dalla borghesia di tutti i paesi, con tutti gli strumenti di forza e di corruzione ideale e teorica di cui ampiamente si avvale.
Ma noi comunisti siamo favoriti in questo proposito perché disponiamo, soli, di una conoscenza vera, realistica, scientifica delle leggi storiche che descrivono lo scontro concreto fra le opposte classi e sotto-classi, e in una buona misura possiamo prevedere gli eventi e le loro reazioni in risposta agli atteggiamenti che in successione il partito andrà assumendo.
Rispetto alle espressioni politiche delle classi borghesi, abbiamo inoltre il grande vantaggio che, come è unitario il nostro fine comunistico e non lacerato in una opposizione interna di interessi di classi e ceti, così può essere unitario il nostro partito, nel suo programma e nel suo funzionamento interno.
Questo programma del comunismo ortodosso si irradierà nella società e nel mondo, sospinto da un bisogno sociale e storico oggettivo e maturo. Noi offriamo la nostra milizia a quel programma, che è preesistente a noi, al quale ci teniamo ben stretti mettendogli a disposizione i nostri sentimenti e le nostre forze.
Questo dato materiale esclude quindi – se non in caso di degenerazione grave – che nel partito si muova un conflitto di opinioni non sanabile con lo studio e l’approfondimento di quel preesistente programma e della nostra più che secolare e coerente tradizione di partito, che solo ha avuto delle discontinuità nei difficili cicli nella internazionale guerra sociale della classe proletaria.
Grazie a questa impersonalità del programma, all’interno del partito ci siamo potuti liberare di tutti i pregiudizi del gioco democratico e della soluzione maggioritaria dei conflitti, inevitabili nei movimenti, nel pensiero e nella malata psicologia stessa dei borghesi. Le tesi del partito sono tutte già scritte. E le potrà formulare e confermare ancora meglio, quando occorresse in futuro, tramite solo l’ordinato e convergente lavoro dei suoi militanti.
Anche in questa riunione generale abbiamo potuto quindi dedicare appieno le sue dieci ore, su due sedute, solo al nostro concorde lavoro comunista, senza inutili perdite di tempo.
Dobbiamo ancora una volta riconoscere il grande impegno dei compagni che si sono prodigati nella organizzazione della riunione e gli incaricati delle numerose relazioni, difficili studi nei quali si sono a lungo applicati, tutti ammirevoli per rispondenza alle valutazioni e alle tesi della nostra scuola e tutti necessari a corroborare il bagaglio di certezze e di orientamento del partito, destinato a dirigere domani l’onda mondiale dei lavoratori insorti per l’ultima rivoluzione politica della storia.
A questa riunione abbiamo iniziato a esporre il capitolo riguardante la controrivoluzione e il tradimento del Partito Socialdemocratico Ungherese.
Il compagno iniziava ricordando la politica vacillante e debole dei socialdemocratici nei confronti delle classi aristocratiche e borghesi. Col pretesto che la religione era da ritenere “una questione privata”, impedivano il disciplinamento del clero e della borghesia, mentre i preti nei villaggi incitavano indisturbati i contadini all’affamamento delle città e alla controrivoluzione.
Tranne pochi ministri del precedente governo che si erano fatti ricoverare nei sanatori migliori, gli aristocratici, gli ufficiali e in generale i borghesi di sentimenti controrivoluzionari si aggiravano liberi in tutto il paese, perché il commissario alla giustizia, un socialdemocratico, si era opposto a ogni offesa della libertà personale.
Oltre all’immondizia ereditata dal capitalismo che si manifesta in occasione di tutte le rivoluzioni, la corruzione aveva anche una causa speciale: in conseguenza dell’applicazione “moderata” della dittatura proletaria preconizzata dai socialdemocratici, gli elementi avidi di rapina della borghesia e soprattutto della piccola borghesia si erano infiltrati in diverse istituzioni sovietiche.
I socialdemocratici trovavano troppo radicali le disposizioni economiche e le sabotavano dove era loro possibile, grazie anche alla massa di ex impiegati di Stato e dei parassiti borghesi lasciati per “ragioni umanitarie” nell’apparato dell’amministrazione e dell’approvvigionamento pubblico. Provvedere di viveri la capitale divenne sempre più difficoltoso.
Le sopravvivenze dell’ideologia democratica impedivano l’applicazione di provvedimenti decisi contro il contadiname renitente. Requisizioni energiche di alimenti si facevano soltanto nei luoghi in cui i contadini proprietari avevano organizzato controrivoluzioni armate. Queste, sempre più frequenti, venivano facilmente represse.
Si sono poi elencate le forze controrivoluzionarie che si erano levate contro la Repubblica sovietica ungherese: a Vienna, fin dal 12 aprile 1919 si era formato il Comitato Antibolscevico (Antibolsevista Comitét - ABC). Vi fecero parte un gruppo di vecchi politicanti esuli ungheresi, quasi tutti appartenenti alla vecchia aristocrazia filomonarchica, fra loro il maggior esponente era il conte Istavàn Bethlen, che aveva dichiarato di essere disposto a collaborare attivamente alla causa dell’eliminazione del bolscevismo in Ungheria, acconsentendo anche a una eventuale occupazione da parte alleata di Budapest (purché non fossero i rumeni o i czechi a realizzarla), e garantendo la formazione di un governo democratico di coalizione aperto pure ai socialdemocratici moderati come Garami.
Nel Comitato Antibolscevico, inoltre, vi erano i conti: Pál Teleky, Zichy, György Szmrecsány, Tivadar Batthyàny e Màrton Lovàszy, che sin dal tempo di Kàroly, avevano cercato di riunire le forze controrivoluzionarie della grande borghesia e dei latifondisti. Questi avevano l’appoggio di una parte degli ufficiali guidati da Gyula Gömbös, che più tardi divenne presidente del consiglio dei ministri. La dirigenza della reazione clericale e i prelati si affrettarono a sostenerli.
Il Comitato, favorito dai vertici militari francesi, costituisce un governo controrivoluzionario ad Arad (Romania) e svolge attività illegale in Austria (rapina all’ambasciata ungherese di Vienna) e azioni di guerriglia lungo il confine (tentativo di penetrazione in Ungheria di un gruppo armato al posto di confine di Bruck an der Leitha).
A questo Comitato si affianca l’Associazione Ungherese di Difesa Nazionale, che nasce come associazione di veterani il 30 novembre 1918 ed è presieduta da Gyula Gömbös, ex capitano dell’esercito. Il 22 febbraio del 1919 è messa fuorilegge dal governo Berinkey insieme al PCU. Essa trasferisce la sua sede centrale a Szeged, dove elabora un programma politico dichiaratamente antisemita e protofascista conosciuto come “Idea di Szeged”, divenendo uno dei nuclei intorno ai quali si formano le forze armate controrivoluzionarie dell’ammiraglio Horthy.
La controrivoluzione della grande borghesia si era data un’organizzazione propria chiamata gli Ebredö Magyarok (gli ungheresi che si ridestano) – la quale ebbe un ruolo di primo piano nella caduta della dittatura del proletariato nel regime del terrore bianco di Horty. Ne facevano parte anche la cosiddetta intelligenza, ovvero funzionari fuggiti dai territori occupati dall’Intesa, gli studenti e la piccola borghesia. Erano già attivi, come detto, con il governo Kàroly al quale rimproveravano le “esagerazioni della democrazia”.
Anche la socialdemocrazia austriaca sostenne fedelmente i controrivoluzionari ungheresi, ai quali assicurò diritto d’asilo durante la dittatura del proletariato e piena libertà d’azione. Oltre a questo i socialdemocratici austriaci erano impegnati a stornare la classe operaia austriaca dalle simpatie che cominciava a dimostrare verso la rivoluzione proletaria.
Siamo poi passati a descrivere il tentativo di putsch del 24 giugno 1919, quando i controrivoluzionari si impossessarono dei monitori danubiani, navi fluviali corazzate, e con questi, assieme a 300 allievi ufficiali dell’ex-Accademia militare, tentarono con le armi di prendere Budapest. Cominciarono a cannoneggiare l’Hotel Hungaria, quartier generale del governo dei Consigli. Questo tentativo fu presto schiacciato, ma lasciò sul terreno molti compagni morti. Il Consiglio governante graziò i 300 allievi ufficiali ribelli, condannandoli solamente all’educazione sociale correttiva. Il tribunale rivoluzionario condannò a morte i tredici ufficiali organizzatori della rivolta, ma anche questi furono graziati per l’intromissione delle Missioni e del “nostro” Ten. Col. Romanelli. Kun stigmatizza e condanna i fatti accaduti alla riunione del Comitato esecutivo centrale del 25 giugno ed esorta ad applicare con fermezza la sua risoluzione: «Considerato che l’applicazione della dittatura, oltre a non riuscire a condurre i borghesi alla ragione, li incoraggia nelle loro mene controrivoluzionarie, il Comitato Esecutivo Centrale decide di rafforzare nella maniera più completa e decisa la dittatura e chiede al governo dei Consigli che, se necessario, la controrivoluzione borghese sia soffocata nel sangue».
Infine abbiamo dato lettura dell’articolo dall’eloquente titolo “Il complotto borghese-socialista contro l’Ungheria soviettista” apparso su “Il Lavoratore”, organo triestino del PDd’I, del 20 settembre 1921.
Ricapitolazione del lavoro del Partito sulla teoria delle crisi
Il compagno ha ritenuto opportuno – prima di addentrarsi nello studio delle Teorie sul Plusvalore – fornire una visione d’insieme del rigoroso lavoro che il Partito ha continuato sull’argomento nel secondo dopoguerra, non per mostrare all’esterno una “biblioteca di marxologia” ma nella continuità della lotta fra le classi sul piano della teoria. Il relatore, nel presentare ai compagni una sommaria spiegazione dei testi, ha seguito il piano del “Capitale”, opera che descrive e contemporaneamente condanna la classe nemica.
Si sono analizzati pertanto gli “Elementi di economia marxista”, del 1928, nei quali si dà lo svolgimento del Libro I del “Capitale”, dalla scoperta della genesi del valore dal lavoro, alla sua misurazione come tempo di lavoro medio socialmente necessario e alla definizione del plusvalore come lavoro non pagato e fino a necessario sbocco nel comunismo, superamento dialettico delle contraddizioni che il capitalismo accumula davanti a sé.
“Vulcano della produzione o palude del mercato?”, del 1954, affronta il problema se si possano studiare i fenomeni dell’economia utilizzando modelli matematici, grandezze numeriche e se sia quindi possibile individuare le sue leggi quantitative di funzionamento, utili a prevedere il corso futuro, la traiettoria che dovrà inevitabilmente condurre alla catastrofe l’odierno bestione trionfante.
Una delle più sfruttate soluzioni dei borghesi per “uscire dalla crisi” sarebbe il ritorno alla “buona” produzione (di profitto, s’intende) e lasciare da parte la “cattiva” speculazione; i malesseri del vecchio malato sarebbero da attribuire alle manovre monetarie di un gruppo di banchieri senza scrupoli. In materia il Partito ha condotto a termine un lavoro che si potrebbe quasi dire definitivo: “Libertà, eguaglianza, sovranità popolare, sono l’altra faccia della medaglia su cui è scritto: merce, lavoro salariato, denaro”, del 1968.
Con un salto dal Primo al Terzo Libro del “Capitale” è bene legare a questo testo gli studi che si trovano nel Il Partito Comunista dai numeri 329, del 2008, a 349, del 2011.
Il capitalismo è sempre definito come un sistema efficiente, un modo di produzione razionale che scientificamente impiega le risorse materiali della società; gli sconquassi che periodicamente lo devastano sarebbero solo piccoli o grandi incidenti di percorso da cui riprenderebbe sempre la sua via maestra. In “Ardua sistemazione del programma comunista rivoluzionario fra i miasmi della putrefazione borghese e la pestilenza opportunista”, del 1960, si propone una lettura molto importante del «Capitale» contro tutti i traditori che lo vorrebbero ridurre a una semplice descrizione della società presente senza avere già in sé il programma dell’avvenire comunista: si parte dal livello aziendale e si studia il movimento di questo capitale singolo; si passa quindi al capitale sociale e al suo movimento complessivo; si chiude con l’abolizione del capitale nel comunismo.
“Dalla ineluttabile crisi agonica del capitalismo alla dispersione dell’opportunismo complice e rinnegato”, del 1964, è invece incentrato (utilizzando i classici tre esempi di Marx) sulla rotazione del capitale; come la sua velocità influisce sulla quantità di capitale da anticipare (e da avere a disposizione a ogni ciclo) per poter continuare la produzione anche al ciclo seguente. I paragrafi dedicati alla “liberazione di capitale” mostrano il fenomeno dello sciupio di forze produttive. Gli studi “Si legge nella strada storica segnata dai programmi l’antitesi tra rivoluzionari proletari e servi assoldati del capitale”, del 1961, e “Il programma comunista quale folgorò a mezzo l’Ottocento annunzia morte alla viltà dell’oggi”, del 1962, conducono una spietata analisi di questo sperpero, prima nella produzione immediata poi nella circolazione, per il trasformarsi del denaro in merce e viceversa, tempo sociale immolato sull’altare del profitto.
Venendo al tema centrale del lavoro che il compagno dovrà portare avanti è d’uopo cominciare dalla legge fondamentale dell’economia capitalista, la caduta tendenziale del tasso di profitto. “Ricapitolazione del lavoro di partito sulla legge marxista della caduta tendenziale del saggio di profitto”, del 1967, e “Il declinare storico del saggio del profitto nella cinquantennale metodica registrazione del partito per la verifica delle leggi di Marx”, del 1996, esaminano la legge in quanto tale e le controtendenze che rendono quella caduta tendenziale ma storicamente irreversibile.
Qual è dunque la teoria marxista della crisi? Il capitalismo più sviluppa le forze produttive, più rivoluziona e disciplina le energie lavorative, più assoggetta mediante la scienza la natura alle necessità della produzione, nella stessa misura accumula davanti a sé gli ostacoli da superare per la sua conservazione. La sua missione storica, il suo aspetto storicamente e socialmente utile, il suo progredire è proprio la causa del restringersi delle sue possibilità di sopravvivenza. È il capitalismo stesso, il suo funzionamento, a essere un processo contraddittorio, critico, in cui ogni causa diventa poi conseguenza, in una spirale che esplode in una crisi.
Il rapporto si è concluso con una lunga citazione dall’introduzione che, nelle pagine di Prometeo, precedeva i capitoli sulla questione della proprietà nel capitalismo, dandoci un legame fra passato, presente e futuro, a conferma che lo studio in corso sulla successione dei modi di produzione è stato necessario alla comprensione del moderno meccanismo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il cui funzionamento è condizionato dalla sua impossibilità di risolvere le contraddizioni ereditate da tutti i precedenti sistemi sociali classisti.
Origini del PCC - La situazione in Estremo Oriente tra il 1921 e il 1922
Al Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista, in riferimento alla situazione nei paesi dell’Oriente, veniva ribadita la corretta impostazione della lotta rivoluzionaria già affermata al Secondo Congresso. Nelle “Tesi sulla situazione mondiale e sui compiti del Comintern” si ribadivano i punti fermi che avrebbero dovuto guidare la lotta rivoluzionaria nei paesi arretrati.
Prima di tutto era affermata l’impotenza della borghesia indigena nel condurre la lotta rivoluzionaria perché legata da interessi economici al capitale straniero, potente legame materiale che la rendeva docile nei confronti dell’imperialismo straniero e incapace di condurre una reale lotta anti-imperialista, a cui si aggiungeva la paura di non poter fermare un movimento sociale che avrebbe certamente infranto anche il suo dominio di classe.
Il secondo punto era il ruolo del proletariato come guida del movimento rivoluzionario contadino. Ciò ha una duplice valenza, in quanto da una parte si afferma come anche nei paesi arretrati il proletariato, sebbene ancora debole numericamente, sia l’unica classe in grado di mettersi alla guida del movimento rivoluzionario e condurlo alla vittoria, dall’altra si individua nelle masse contadine il principale alleato nella lotta rivoluzionaria.
Infine viene affermato come punto fermo della rivoluzione comunista mondiale il necessario legame della lotta rivoluzionaria nelle colonie e semi-colonie, che vedeva il giovane proletariato indigeno alla testa di enormi masse contadine, con la rivoluzione monoclassista del proletariato dei paesi capitalisticamente sviluppati.
Nel 1921, sebbene al Terzo Congresso dell’Internazionale fossero emersi i primi segnali di pericolo verso una degenerazione opportunista riguardo la tattica nei confronti dei vecchi partiti della Seconda Internazionale, prontamente denunciati dalla Sinistra, la linea generale non subiva deviazioni dalla corretta impostazione marxista. Solo quando la controrivoluzione avrà trionfato a Mosca l’Internazionale diventerà uno strumento della politica estera dello Stato russo.
Tra il 1921 e il 1922, mentre a Occidente i tentativi rivoluzionari del proletariato erano stati sconfitti, la Russia sovietica era riuscita a sopravvivere agli attacchi delle armate bianche e degli eserciti stranieri e si accingeva a concludere vittoriosamente la guerra civile. L’avanzata dell’Armata Rossa verso Est permetteva alla Russia una proiezione verso il Pacifico e un’azione più incisiva verso la Cina, che ora, a differenza dei primi anni del governo rivoluzionario, poteva andare oltre le proclamazioni di principio.
L’interessamento dei bolscevichi verso la Cina doveva tenere in considerazione il contesto del paese, la mancanza di un forte potere centrale, spartito fra vari “signori della guerra”, e la divisione del paese nelle sfere di influenza degli imperialismi che manovravano le opposte cricche militariste.
Si pensò che lo Stato sovietico avrebbe potuto trarre dei vantaggi sfruttando quegli antagonismi. Ma ciò non era esente da rischi, poteva palesarsi un contrasto tra il perseguimento di una politica rivoluzionaria, che avrebbe dovuto appoggiarsi sul proletariato e sulle masse rivoluzionarie indigene, e gli interessi dello Stato russo che, in cerca di un alleato a Est, avrebbe stretto accordi con la concessione di aiuti ai capi militari. L’espediente di servirsi di una cricca militare contro un’altra, se poteva dare dei risultati nell’immediato, rischiava di compromettere lo sviluppo del movimento rivoluzionario in quanto, seppure momentaneamente in lotta tra loro, qualunque fazione sarebbe scesa a patti con l’avversario, interno o straniero, pur di volgersi contro il proletariato e le masse contadine al fine di mantenere il dominio di classe.
In ogni caso, le rivalità tra i signori della guerra in Cina non erano che il prodotto del più vasto scontro inter-imperialistico per la spartizione dei Paesi del Pacifico. La Prima Guerra mondiale aveva prodotto una risistemazione degli assetti politici in Europa, lasciando la situazione nell’area del Pacifico quasi immutata. In realtà proprio le conseguenze della guerra in Europa, che aveva determinato nuovi rapporti di forza tra gli imperialismi, e la mancanza di una ridefinizione dei rapporti nel Pacifico, vi rendevano inevitabile la lotta per una nuova spartizione.
L’antagonismo più acuto nell’immediato dopoguerra contrapponeva gli Stati Uniti e la Gran Bretagna per la supremazia dei mari. La Gran Bretagna appoggiava il Giappone, possibile alleato contro gli Stati Uniti. Da parte sua il Giappone, già ostile alla politica americana della “Porta aperta”, il cui fine era impedire ogni monopolio sulla Cina, era allarmato dal rafforzamento navale degli Usa nel Pacifico e temeva la loro pressione per stabilire una base sulle coste cinesi. Gli Stati Uniti, temendo una possibile alleanza tra Gran Bretagna e Giappone, proposero una tregua degli armamenti per qualche anno: nel luglio 1921 fu annunciata una conferenza sul disarmo e sui problemi del Pacifico da tenersi a Washington.
In vista della Conferenza l’Internazionale Comunista aveva emanato una serie di Tesi nelle quali si denunciavano i rapaci interessi delle potenze capitalistiche e l’impossibilità di una loro composizione. Secondo l’Internazionale nessun accordo poteva eliminare le basi delle rivalità tra le potenze presenti a Washington, a cui andava aggiunto il profilarsi del conflitto con i paesi sconfitti, ma anche con i popoli coloniali e, infine, con la Russia sovietica, «che rappresenta una breccia nel sistema degli Stati capitalisti». L’Internazionale affermava che gli accordi di Washington non avrebbero fatto diminuire le contraddizioni tra gli imperialismi, anzi, Versailles prima, Washington ora, affrettavano l’avvicinarsi di una prossima guerra.
In ogni caso le potenze che si erano accordate, più che i nemici imperiali temevano il proprio proletariato che ancora non era domato e sosteneva la Russia sovietica, nel 1922 non ancora divenuta un baluardo della controrivoluzione mondiale.
Le potenze del capitale avevano escluso la Russia dalla Conferenza di Washington, impedendole l’utilizzo dello strumento diplomatico. La Russia non era ancora uno Stato come gli altri, al potere c’erano i comunisti che orientavano la politica estera verso l’obiettivo della rivoluzione mondiale. La risposta agli accordi tra i briganti imperialisti fu una chiamata alle armi di tutti gli sfruttati dell’Estremo Oriente: nel gennaio del 1922 su iniziativa dell’Esecutivo dell’Internazionale Comunista si riunì a Mosca un Congresso delle Organizzazioni Rivoluzionarie dell’Estremo Oriente.
Il rapporto dei compagni venezuelani
La situazione della classe operaia in Venezuela nei mesi scorsi ha visto tentativi di mobilitazione principalmente in cinque categorie.
1- Sanità – Sta montando un gran malcontento per le cattive condizioni della sicurezza e del lavoro in generale. Nel settore, a scala nazionale il 45% di tutto il personale, medici, barellieri e infermieri, è affetto da Covid-19. Negli ospedali e nei centri sanitari a oggi già 275 lavoratori sono morti per Covid-19. Il sindacato degli infermieri è uno dei più avanzati nelle rivendicazioni e nella lotta. La situazione era già grave prima della pandemia per la precarietà economica. Frequenti le violazioni contrattuali. Nonostante l’assenza di discussione prima della firma del nuovo contratto, una delle rivendicazioni più sollecitate oggi è, oltre alla garanzia del posto di lavoro, il diritto alla sicurezza e all’assicurazione sanitaria.
Il sindacato nelle discussioni sul contratto chiede un aumento dello stipendio di 1.000 dollari al mese e la revisione di altre clausole contrattuali.
Mercoledì 4 novembre è stata indetta una mobilitazione nazionale degli operatori sanitari con lo rivendicazione centrale di aumentare i salari e migliorare le condizioni di lavoro e di vita. A questa manifestazione hanno confermato la partecipazione anche insegnanti, lavoratori delle telecomunicazioni, del settore elettrico e della petrolchimica.
2 – Anche fra i lavoratori della scuola c’è uno stato di generale malcontento. I sindacati, guidati da organizzazioni opportunistiche e legate alla opposizione borghese, all’inizio dell’anno scolastico, per reclutare fra i lavoratori, hanno chiesto nella contrattazione collettiva un aumento mensile di 1.200 dollari. Il governo, in risposta alle richieste di salario, ha pagato una parte della tredicesima, equivalente a un mese di lavoro, equivalente a solo 795.000 bolivar, meno di 2 dollari al tasso di cambio attuale nel momento in cui scriviamo.
3 – Altri lavoratori, come quelli impiegati nel sistema giudiziario e altri dipendenti pubblici hanno richiesto allo Stato aumenti salariali, oltre a protestare contro le irregolarità nel pagamento degli stipendi. Anch’essi chiedono un aumento salariale di 1.200 dollari. In questa categoria è stato distribuito un volantino, promosso dai nostri compagni. In altri settori dei dipendenti pubblici i sindacati hanno minacciato scioperi nazionali, in considerazione delle insopportabili condizioni economiche.
Il 6 ottobre i lavoratori del pubblico impiego, in particolare della scuola e della sanità, hanno cominciato a far pressione sui sindacati per indire manifestazioni finalizzate a salari migliori e attrezzature per la sicurezza sanitaria.
Il 26 ottobre i lavoratori del settore sanitario, dell’istruzione e dei tribunali, in modo organizzato, hanno svolto azioni di strada a livello nazionale chiedendo salari compresi tra i 1.000 e i 1.200 dollari al mese, che sono diventati una richiesta generalizzata ad altre categorie. Questo mese di ottobre è stato segnato, oltre che dalle proteste di strada dei lavoratori del settore pubblico, anche di generici cittadini che chiedono miglioramenti nei servizi di base come l’acqua, l’elettricità, il gas domestico, il servizio internet e la medicina, tra gli altri. Lo Stato ha cercato di rispondere con la repressione contro i manifestanti.
4 – Anche i lavoratori dell’industria petrolifera si sono lamentati della miseria dei salari, esacerbata dalla crisi economica nazionale e dalla pandemia. Lo scorso 22 agosto i dipendenti della Raffineria El Palito, nella parte occidentale del Paese, hanno paralizzato il lavoro per diverse ore. La ragione di questa protesta è stata non aver ricevuto un bonus di 150 dollari, che era stato versato alle maestranze dell’azienda Marina Petróleos. Questo sciopero si è coordinato con altre compagnie petrolifere dell’est del Paese. La protesta è nata dalla base e non è stata promossa dal sindacato. I lavoratori non sono stati in grado di richiedere un aumento del salario, e si sono concentrati nel chiedere il pagamento del bonus. Ma i lavoratori del settore petrolifero hanno anche chiesto la discussione e la firma del nuovo contratto collettivo, con aumenti sostanziali dei salari, clausole a difesa dalla iperbolica inflazione e provvedimenti a tutela della salute.
5. I pensionati – che non possono essere ricattati con la minaccia di licenziamento – negli ultimi mesi hanno svolto un ruolo decisivo nell’organizzare le mobilitazioni dei lavoratori in attività. Chiedono anche pensioni e assistenza sanitaria sufficienti a garantire una vecchiaia decente.
È importante sottolineare che in Venezuela, nonostante l’atmosfera elettorale per le imminenti elezioni di novembre, i lavoratori sono rimasti ai margini di questa sceneggiata e hanno concentrato le forze sulle richieste di miglioramento dei salari, delle condizioni di lavoro e di vita.
Questo benché il proletariato a livello di fabbrica abbia notevolmente diminuito la sua forza combattiva, sia a causa della repressione poliziesca contro i lavoratori delle industrie, sia a causa della enorme emigrazione verso altri paesi dell’America Latina, sia perché hanno chiuso molte fabbriche del settore pubblico e privato. Si dimostra quindi che non basta un regime dittatoriale a fermare la lotta di classe.
(Il resoconto continua al prossimo numero)
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Con Engels, Marx e Lenin, il concetto di dittatura rivoluzionaria, che abbiamo visto svolgersi da Babeuf, Buonarroti e Blanqui, evolve e si specifica nel concetto di dittatura del proletariato, che entra a far parte di un socialismo finalmente basato su un materialismo scientifico, dialettico e storico. Entra a far parte di una teoria che nasce tutta intera come Minerva dalla testa di Giove, ma non essendo frutto della rivelazione di qualche divinità, scaturisce dalla storia dell’uomo, “dalla clava al computer”, e dallo studio e dall’analisi di tale storia con il nominato metodo materialistico.
La nostra teoria, il nostro programma, il nostro Partito nascono nel 1848 con il “Manifesto del Partito Comunista” di Marx ed Engels. Gli stessi, e più tardi Lenin, con i loro scritti, i loro studi e le loro azioni, continueranno negli anni nell’opera di scolpimento del programma. Anche “Il Capitale” di Marx, formidabile arma di combattimento oltre che analisi del capitalismo in quanto tale, e non del capitalismo ottocentesco come gli opportunisti di varia risma non si stancano di ripetere, anch’esso non è che un gigantesco sviluppo di tesi già presenti nel “Manifesto” del 1848. Il programma del partito è un unico blocco che si può solo accettare o rifiutare: chi dicesse di non accettare anche solo l’1% del programma si porrebbe al di fuori del partito.
Gli opportunisti, “destri” e “sinistri”, che si definiscono marxisti e talvolta anche comunisti, hanno spesso proclamato la loro fedeltà al marxismo, rifiutando però, non a caso, la dittatura del proletariato. Conosciamo bene la falsificazione sistematica del pensiero di Marx, di Engels e di Lenin. La conosceva bene anche Lenin, che all’inizio del suo “Stato e Rivoluzione”, scrive:
«Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è sempre stata accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a “consolazione” e a mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale “trattamento”. Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia. Tutti i social sciovinisti – non ridete! – sono oggi “marxisti”».
Nella prefazione alla stessa opera, nell’agosto 1917, Lenin scrive: «Orbene, la guerra imperialista è appunto una guerra per la spartizione e la ridistribuzione di un bottino. La lotta per sottrarre le masse lavoratrici all’influenza della borghesia in generale, e in particolare della borghesia imperialista, è impossibile senza una lotta contro i pregiudizi opportunistici sullo “Stato”».
Nella “Miseria della filosofia”, nel 1847, Marx scrive:
«La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente la sintesi ufficiale dell’antagonismo delle classi nella società civile».
Pochi mesi dopo, nel “Manifesto del Partito comunista”, tale concezione arriva a maggior chiarezza. Leggiamo infatti: «Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese».
«Formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato – Abbiamo già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l’elevarsi del proletariato a classe dominante – Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive.
«Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma sé stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe».
Già ne “L’ideologia tedesca”, scritta da Marx ed Engels nel 1846, leggiamo: «Tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi».
Formazione del proletariato in classe significa che il proletariato è una classe, lo è “per sé” e non solo “in sé”, solo quando riesce a esprimere la funzione del proprio partito, il partito comunista rivoluzionario e internazionale. In caso contrario è una classe solo da un punto di vista statistico. Nel “Manifesto” del 1848 c’è già una chiara idea di dittatura del proletariato, anche se non formulata con queste parole, come scrive Lenin su “Stato e Rivoluzione”:
«Vi troviamo una definizione dello Stato del più alto interesse e che fa anch’essa parte delle “parole dimenticate” del marxismo: “lo Stato, vale a dire il proletariato organizzato come classe dominante”. Questa definizione dello Stato non solo non è mai stata commentata nella letteratura di propaganda e di agitazione che predomina nei partiti socialdemocratici ufficiali. Peggio ancora, essa è stata dimenticata appunto perché è assolutamente inconciliabile col riformismo e perché contrasta in modo irriducibile con i pregiudizi opportunistici abituali e con le illusioni piccolo-borghesi sullo “sviluppo pacifico della democrazia”».
Ancora Lenin:
«Le classi sfruttatrici hanno bisogno del dominio politico per il mantenimento dello sfruttamento, vale a dire nell’interesse egoistico di un’infima minoranza contro l’immensa maggioranza del popolo. Le classi sfruttate hanno bisogno del dominio politico per sopprimere completamente ogni sfruttamento, vale a dire nell’interesse dell’immensa maggioranza del popolo, contro l’infima minoranza dei moderni schiavisti: i proprietari fondiari e i capitalisti. I democratici piccolo-borghesi, questi sedicenti socialisti che hanno sostituito alla lotta delle classi le loro fantasticherie sull’intesa fra le classi, si sono rappresentati anche la trasformazione socialista come una fantasticheria; non come l’abbattimento del dominio della classe sfruttatrice, ma come la sottomissione pacifica della minoranza alla maggioranza, consapevole dei propri compiti. Questa utopia piccolo-borghese, indissolubilmente legata al riconoscimento di uno Stato al di sopra delle classi, praticamente non ha portato ad altro che al tradimento degli interessi delle classi lavoratrici, come è stato provato, per esempio, dalla storia delle rivoluzioni francesi del 1848 e del 1871 (...)
«La dottrina della lotta di classe, applicata da Marx allo Stato e alla rivoluzione socialista, porta necessariamente a riconoscere il dominio politico del proletariato, la sua dittatura, il potere cioè ch’esso non divide con nessuno e che si appoggia direttamente sulla forza armata delle masse.
«L’abbattimento della borghesia non è realizzabile se non attraverso la trasformazione del proletariato in classe dominante, capace di reprimere la resistenza inevitabile, disperata della borghesia, di organizzare tutte le masse lavoratrici e sfruttate per un nuovo regime economico. Il potere statale, l’organizzazione centralizzata della forza, l’organizzazione della violenza, sono necessari al proletariato sia per reprimere la resistenza degli sfruttatori, sia per dirigere l’immensa massa della popolazione – contadini, piccola borghesia, semiproletariato – nell’opera di “avviamento” dell’economia socialista. Educando il partito operaio, il marxismo educa una avanguardia del proletariato, capace di prendere il potere e di condurre tutto il popolo al socialismo, capace di dirigere e organizzare il nuovo regime, d’essere il maestro, il dirigente, il capo di tutti i lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell’organizzazione della loro vita sociale senza la borghesia e contro la borghesia.
«L’opportunismo oggi dominante educa invece il partito operaio in modo da farne il rappresentante dei lavoratori meglio retribuiti, che si staccano dalle masse, “si sistemano” abbastanza comodamente nel regime capitalistico e vendono per un piatto di lenticchie il loro diritto di primogenitura, rinunciando cioè alla loro funzione di guida rivoluzionaria del popolo nella lotta contro la borghesia. “Lo Stato, vale a dire il proletariato organizzato come classe dominante” – questa teoria di Marx è indissolubilmente legata a tutta la sua dottrina sulla funzione rivoluzionaria del proletariato nella storia. Questa funzione culmina nella dittatura proletaria, nel dominio politico del proletariato».
Tornando a Marx, già ne “Le lotte di classe in Francia”, del 1850, troviamo i termini di “dittatura della classe operaia” e di “dittatura di classe del proletariato”. Sempre Marx, nel 1852, ne “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte” scrive:
«Questo potere esecutivo, con la sua enorme organizzazione burocratica e militare, col suo meccanismo statale complicato e artificiale, con un esercito di impiegati di mezzo milione accanto a un altro esercito di mezzo milione di soldati, questo spaventoso corpo parassitario che avvolge in un involucro il corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori, si costituì nel periodo della monarchia assoluta, al cadere del sistema feudale, la cui caduta aiutò a rendere più rapida. La prima rivoluzione francese sviluppò la centralizzazione, e in pari tempo dovette sviluppare l’ampiezza, gli attributi e gli strumenti del potere governativo. Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo dello Stato. La monarchia legittima e la monarchia di luglio non vi aggiunsero nulla, eccetto una più grande divisione del lavoro (...) La repubblica parlamentare, infine, si vide costretta a rafforzare, nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla. I partiti che successivamente lottarono per il potere considerarono il possesso di questo enorme edificio dello Stato come il bottino principale del vincitore».
A proposito di tale passo, scrive Lenin:
«Il problema dello Stato nel “Manifesto” era posto in modo ancora troppo astratto, in nozioni e termini dei più generici. Qui il problema è posto concretamente e la conclusione è estremamente precisa, ben definita, praticamente tangibile: tutte le rivoluzioni precedenti non fecero che perfezionare la macchina dello Stato, mentre bisogna spezzarla, demolirla. Questa conclusione è la cosa principale, essenziale della dottrina marxista sullo Stato. Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato».
Sempre Marx, in una lettera a Weydemeyer del 5 marzo 1852, con grande chiarezza scrive:
«Per quello che mi riguarda, a me non appartiene né il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna né quello di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto tempo prima di me degli storici borghesi avevano esposto la evoluzione storica di questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano esposto l’anatomia economica delle classi. Quel che io ho fatto di nuovo è stato di dimostrare: 1. Che l’esistenza delle classi è legata soltanto a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2. Che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3. Che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi».
Veniamo ora a Engels con “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” del 1884:
«Lo Stato dunque non è affatto una potenza imposta alla società dall’esterno e nemmeno “la realtà dell’idea etica”, “l’immagine e la realtà della ragione”, come afferma Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stato di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’”ordine”; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato.
«Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, di regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e sfruttare la classe oppressa.
«Non solo lo Stato antico e lo Stato feudale erano organi dello sfruttamento degli schiavi e dei servi, ma anche lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale. Eccezionalmente, tuttavia, vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte a entrambe.
«Nella repubblica democratica la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma in maniera tanto più sicura, in primo luogo con la corruzione diretta dei funzionari (America), in secondo luogo con l’alleanza tra governo e Borsa (Francia e America)».
Il suffragio universale per Engels è solo uno strumento del dominio della borghesia, è: «la misura della maturità della classe operaia. Più non può né potrà mai essere di più nello Stato odierno».
Dallo stesso scritto:
«Lo Stato non esiste dall’eternità. Vi sono state società che ne hanno fatto a meno e che non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. In un determinato grado dello sviluppo economico, necessariamente legato alla divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione lo Stato è diventato una necessità. Ci avviciniamo ora, a rapidi passi, a uno stadio di sviluppo della produzione nel quale la esistenza di queste classi non solo ha cessato di essere una necessità ma diventa un ostacolo effettivo alla produzione. Perciò esse cadranno così ineluttabilmente come sono sorte. Con esse cadrà ineluttabilmente lo Stato. La società, che riorganizza la produzione in base a una libera ed eguale associazione di produttori, relega l’intera macchina statale nel posto che a quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all’ascia di bronzo».
Engels parla dello Stato anche nell’”Antidühring”, del 1877-78:
«Il proletariato si impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma così sopprime sé stesso come proletariato, sopprime ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come Stato. La società esistita sinora, muoventesi sul piano degli antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato, cioè di una organizzazione permanente della classe sfruttatrice, per conservare le condizioni esterne della sua produzione e quindi specialmente per tener con la forza la classe sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione (schiavitù, servitù della gleba, semiservitù feudale, lavoro salariato). Lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, la sua sintesi in un corpo visibile, ma lo era in quanto era lo Stato di quella classe che per il suo tempo rappresentava, essa stessa, tutta quanta la società. Nell’antichità era lo Stato dei cittadini padroni di schiavi, nel medioevo lo Stato della nobiltà feudale, nel nostro tempo lo Stato della borghesia.
«Ma, diventando alla fine effettivamente il rappresentante di tutta la società, si rende esso stesso superfluo. Non appena non ci sono più classi sociali da mantenere nell’oppressione, non appena, con l’eliminazione del dominio di classe e della lotta per l’esistenza individuale fondata sull’anarchia della produzione sinora esistente, saranno eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò, non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria una forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è a un tempo l’ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L’intervento di una forza statale nei rapporti sociali successivamente diventa superfluo in ogni campo e poi viene meno da sé. Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non viene “abolito”: esso si estingue. Questo è l’apprezzamento che deve farsi della frase “Stato popolare libero”, tanto quindi per la sua giustificazione temporanea in sede di agitazione, quanto per la sua definitiva insufficienza in sede scientifica; e questo è del pari l’apprezzamento che deve farsi dell’esigenza dei cosiddetti anarchici che lo Stato debba essere abolito dall’oggi al domani».
Lo “Stato popolare libero” era una parola d’ordine dei socialdemocratici tedeschi negli anni 1870-80, imbevuta di ideologia piccolo-borghese e di illusioni democratiche. A riguardo scrive Lenin:
«Ogni Stato è una “forza repressiva particolare” della classe oppressa. Quindi uno Stato, qualunque esso sia, non è libero e non è popolare».
Da un lato Engels polemizza con i lassalliani e tutti coloro che, anche dentro il partito, hanno pregiudizi piccolo-borghesi da statolatri hegeliani, che venerano uno Stato considerato al di sopra delle parti. Dall’altro polemizza con anarchici e affini. Anarchici e futuri riformisti si impadroniscono poi delle parole di Engels capovolgendone il significato. I riformisti traducono l’”estinzione” in gradualismo e rinuncia all’abbattimento dello Stato, che con le riforme e l’azione parlamentare in regime democratico ci porterebbe al socialismo senza scossoni, quasi inavvertitamente. Un bel giorno a nostra insaputa ci sveglieremo e ci troveremo nel socialismo. Partendo da queste premesse ideologiche i sedicenti socialisti della Seconda Internazionale hanno portato il proletariato mondiale, a sua insaputa, non nel socialismo ma nella guerra fratricida, nella prima guerra mondiale imperialistica.
Riguardo ai social sciovinisti in questione, come a tutti coloro che rifiutano la lotta di classe, leggiamo poche righe tratte dalla “Biblioteca storica” di Diodoro Siculo, storico greco del I° secolo avanti Cristo:
«Masse di schiavi affluivano sotto le insegne di Salvio. I suoi effettivi si raddoppiarono. Dominando ormai le campagne, tentò daccapo di espugnare Morgantina, promettendo con un proclama la libertà a tutti gli schiavi che erano dentro la città. Anche i padroni offrirono loro la libertà, a patto che combattessero al loro fianco. E gli schiavi preferirono la libertà dei padroni; combatterono con coraggio e respinsero l’assedio. Ma a quel punto il governatore negò loro la libertà che aveva promesso».
Venendo ora agli anarchici, essi parlano di “abolizione” dello Stato, di quello della borghesia, e fin qui siamo d’accordo, ma anche di quello che sorge con e nella rivoluzione a opera del proletariato, del quale è lo strumento per l’esercizio della propria dittatura. Scrive ancora Lenin: «In realtà Engels parla qui di “soppressione” dello Stato della borghesia per opera della rivoluzione proletaria, mentre ciò ch’egli dice sull’estinzione dello Stato riguarda i resti dello Stato proletario che sussisteranno dopo la rivoluzione socialista. Lo Stato borghese, secondo Engels, non “si estingue”; esso viene “soppresso” dal proletariato nel corso della rivoluzione. Ciò che si estingue dopo questa rivoluzione, è lo Stato proletario o semi-Stato». Gli anarchici mettono all’inizio ciò che è alla fine. Essi pensano che una dichiarazione, un decreto, un tratto di penna, possano sostituire un processo storico lungo e complesso. Ingenui o servi coscienti della borghesia che siano fa poca differenza: di questa fanno sicuramente il gioco.
(Continua al prossimo numero)
PAGINA 7
Il corso del capitalismo è caotico e catastrofico; regolarmente, in cicli di 7-10 anni, dopo un periodo di euforica espansione ne arriva uno di crisi commerciale e finanziaria, che può durare da uno a diversi anni. E di ciclo in ciclo le contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico si aggravano, portando a una crisi sistemica, come quella del 1848 e quella del 1929. Queste crisi aprono alla possibilità del passaggio alla società comunista che solo il proletariato può realizzare. Tutte queste crisi hanno la stessa origine: l’antagonismo tra il carattere sociale delle forze produttive e i rapporti borghesi di produzione – capitale e lavoro salariato – diventati troppo stretti per queste stesse forze produttive.
Dal 1973 si sono susseguite cinque grandi crisi di sovrapproduzione, l’ultima, quella del 2008-2009, non ancora superata. Questa crisi, la prima del dopoguerra con deflazione, senza l’energico intervento delle banche centrali e degli Stati, avrebbe portato a una crisi sistemica, con un contrarsi della produzione industriale, in due o tre anni, di oltre il 50%, accompagnato da un calo dei prezzi, un crollo del prezzo degli immobili e dei titoli – azioni, obbligazioni e debiti di ogni tipo – un’esplosione degli insoluti, un completo arresto del credito, con la richiesta di pagamenti in contanti, e un aumento del prezzo del denaro: in una parola, una classica crisi di sovrapproduzione con deflazione.
Le banche centrali, la FED, la BCE, ecc., sia acquistando buoni del tesoro e obbligazioni societarie per centinaia di miliardi, sia prestando alle banche somme altrettanto ingenti, hanno salvato il sistema finanziario ripristinando la circolazione dei capitali e del credito: nessuna banca voleva infatti più prestare denaro, paralizzando così il mercato interbancario. Questo ha permesso l’aumento del prezzo dei titoli e ha salvato dal fallimento molte imprese finanziarie e industriali. Questa azione è stata completata dall’intervento degli Stati, che non hanno esitato a indebitarsi per salvare – nell’interesse della borghesia – il capitale industriale e finanziario, come lo Stato francese fece a suo tempo durante la grande crisi europea del 1848. In queste condizioni non è più tempo di parlare di liberalismo e di limitare l’intervento dello Stato; al contrario, si tratta di intervenire nel modo più energico possibile e di garantire i debiti. Questo significa che la grande borghesia chiede allo Stato di salvare il suo modo di produzione presentando il conto al proletariato e alla piccola borghesia, proprio come fece il governo repubblicano di sinistra del 1848! Niente di nuovo sotto il sole del capitalismo, sempre l’applicazione di vecchie ricette! A tal proposito rileggere “Le lotte di classe in Francia: 1848-1850” di Marx è molto istruttivo.
Con difficoltà la produzione è infine ripartita, con un avvio abbastanza vigoroso nel 2010-2011, senza però riuscire a colmare il vuoto prodotto dalla caduta precedente, per non parlare degli innumerevoli fallimenti industriali che ne sono seguiti. Con questa ripresa i prezzi dei titoli, delle azioni, delle obbligazioni, delle abitazioni, ecc. hanno ricominciato a salire.
Questo episodio è stato seguito in Europa da una recessione nel 2012-2014 e da un rallentamento negli Stati Uniti, poi nel 2015-2016 una nuova recessione ha colpito la Cina e vari Paesi asiatici oltre agli Stati Uniti.
Infine la ripresa della produzione industriale si è vista nei principali Paesi industrializzati a partire dal 2017, una ripresa che si è protratta per tutto il 2018, ma con un forte rallentamento a partire dalla seconda metà dell’anno.
USA | GERMANIA | GIAPPONE | |||
---|---|---|---|---|---|
INDUSTRIA | |||||
2009/2007 | -14,5% | 2009/2008 | -17,4% | 2009/2007 | -23,3% |
2012/2008 | -0,7% | ||||
2018/2007 | 4,0% | 2018/2008 | 8,2% | 2018/2007 | -10,9% |
2019/2007 | 4,8% | 2019/2008 | 3,2% | 2019/2007 | -13,0% |
2020/2008 | -9,6% | 2020/2007 | -22,8% | ||
MANIFATTURA | |||||
2009/2007 | -17,9% | 2009/2008 | -17,2% | 2009/2007 | -24,5% |
2018/2008 | -3,7% | ||||
2019/2007 | -3,9% | 2019/2008 | 2,3% | 2019/2007 | -13,6% |
Per un momento l’alta borghesia dei paesi imperialisti e i suoi economisti hanno creduto di aver visto la fine del tunnel. La FED, dopo aver cessato l’allentamento quantitativo nel giugno 2014, ha iniziato ad alzare i tassi di interesse e i suoi dirigenti speravano di tornare gradualmente alla normalità riducendo il passivo della banca, ovvero la gigantesca quantità di assegni circolari in suo possesso. Da questa parte dell’Atlantico la BCE ha annunciato che avrebbe pareggiato il bilancio entro la fine del 2018. Ma borghesi ed economisti hanno dovuto presto arrendersi a seguito del forte rallentamento della crescita della produzione industriale nella seconda metà del 2018 e del ritorno della recessione nel 2019. Alla fine del 2019, i dirigenti delle banche centrali e delle istituzioni finanziarie internazionali, FMI, Banca dei Regolamenti Internazionali, Banca Mondiale, OCSE, ecc. hanno dovuto ammettere di non essere affatto usciti dalla crisi del 2008-2009! Non solo la FED ha dovuto fare marcia indietro fermando l’aumento del tasso di interesse di riferimento, ma alla fine del 2019, la BCE e la FED hanno annunciato in coro di essere pronti a utilizzare di nuovo il “quantitative easing”.
Tutto ciò conferma le nostre previsioni, che dalla crisi del 2008-2009 non eravamo usciti, che gli interventi delle banche centrali avevano solo diluito nel tempo la crisi e solo rimandata la sua esplosione.
Per un’analisi più approfondita dell’attuale situazione economica iniziamo con esaminare l’andamento della produzione industriale nei principali paesi imperialisti e in alcuni paesi emergenti.
Nel frattempo si è diffusa l’epidemia di coronavirus portando la maggioranza degli Stati da metà marzo a fine aprile a chiudere i confini o a tenere la popolazione a casa. Il risultato è stato un forte calo della produzione industriale in questi due mesi e un peggioramento della crisi.
Nel maggio 1968 la Francia fu paralizzata da uno sciopero generale durato più di un mese, ma la produzione industriale di quell’anno aumentò del 4,1% come se nulla fosse accaduto. Il capitalismo mondiale era ancora in piena espansione allora. Oggi una epidemia viene ad aggravare una situazione economica e sociale catastrofica, anche per l’incompetenza dei governanti incapaci di sapere cosa fare il giorno dopo. Sono l’espressione di un modo di produzione e di classe totalmente parassitario e obsoleto.
La produzione industriale
Poiché il confinamento sanitario ha causato un forte calo della produzione nei mesi di marzo e aprile, che schiaccia il resto della curva, per dimostrare che la recessione era iniziata all’inizio del 2019 riportiamo le curve della produzione industriale in due parti: una curva prima dell’epidemia e l’altra durante l’epidemia.
Inizieremo con gli Stati
Uniti. Alla riunione sono stati esposti due grafici, uno della produzione
industriale, l’altro della manifatturiera. La produzione industriale assomma la
mineraria e la manifatturiera. Il problema è che gli Stati Uniti hanno
sovrastimato il peso dell’industria mineraria, il che distorce i risultati. In
effetti, a partire dagli anni 2000 la produzione di petrolio e gas da scisti è
cresciuta fortemente, tanto che oggi la produzione di petrolio statunitense ha
superato quella dell’Arabia Saudita e della Russia, scatenando una guerra dei
prezzi con l’Arabia Saudita per ben due volte. Quest’ultima sta cercando di
eliminare alcuni dei produttori americani giocando sui suoi costi di produzione
molto più bassi. Finora non ci è riuscita. Ma la crisi economica rischia di
rovinare tutti e tre i concorrenti.
La crescita della produzione ha raggiunto il massimo in agosto-settembre 2018, poi rallenta in modo significativo e diventa negativa da luglio-settembre 2019. Il rallentamento e il declino sono più evidenti nella manifattura.
In termini di produzione annua gli Stati Uniti nel
2019 hanno superato del 4,8% il massimo del 2007. Il capitalismo americano
sarebbe così uscito dalla recessione del 2008-2009 negli ultimi anni. Ma se
guardiamo gli indici della sola manifattura e dell’edilizia otteniamo
rispettivamente un -3,9% e un -48% (quest’ultimo indice risale al 2017; da
allora l’ONU ha smesso di fornire indici per l’edilizia). La strada è ancora
lunga. E questo può essere spiegato solo dalla sovraponderazione dell’industria
mineraria nel calcolo degli indici di produzione industriale.
Gli ultimi dati dell’anno in corso indicano che il confinamento sanitario ha causato un calo spettacolare della produzione: quasi -17% per i mesi di marzo e aprile. Poi si è avuta una relativa ripresa, ma che si è stabilizzata a -7% sull’anno precedente. Il forte calo di marzo e aprile può provocare un apparente rimbalzo, anche se siamo in recessione globale dall’inizio del 2019? Se lo farà sarà solo temporaneo, durerà al massimo qualche mese, ma le possibilità sono scarse.
Passando al Giappone il rallentamento nel 2018, poi la recessione nel 2019-2020 appaiono molto evidenti. D’altra parte, il Giappone, come tutti gli altri paesi
imperialisti a eccezione di Cina, Corea e Germania, non ha mai recuperato il
livello di produzione industriale che aveva raggiunto prima della crisi del
2008-2009: la produzione è scesa del 23% nel 2009, è continuata a scendere del
-11% nel 2018 e del -13% nel 2019. In queste condizioni, non c’è via d’uscita
dalla crisi. Intanto la BoJ, la banca centrale del Giappone, non ha mai cessato
l’allentamento quantitativo.
Di seguito mostriamo la caduta della curva dovuta al Covid-19, che ci permette di prevedere, sulla base dei primi otto mesi, un crollo della produzione industriale per l’intero anno di circa il 23%! Sono tornati al punto di partenza, al 2009 quando la produzione scese al -23,3% rispetto al 2007. La Germania è uno dei grandi paesi ad aver superato il massimo pre-crisi. Dopo un calo annuo della produzione del 17,4% nel 2009, la produzione è aumentata di nuovo fino nel 2018 a superare dell’8,2% il massimo del 2008. Ma con la recessione del 2019, questo superamento si è ridotto al 3,2%. L’anno in corso non solo cancellerà questi guadagni, ma ci si può aspettare un rinculo di circa il -10%.
La Germania, unico paese al mondo, esporta per il 40% del suo PIL: gli altri esportano tra il 10% e il 20%. È quindi particolarmente sensibile alla minima recessione globale, e in primo luogo in Europa e Nord America. Come tutti i Paesi europei fa la metà dei suoi traffici con l’Europa, il 58% delle sue esportazioni, mentre gli Stati Uniti ne assorbono l’8,6%. La Cina è al terzo posto con il 7,1%, seguita dalla Svizzera al quarto posto con il 4,2%. La Germania è quindi un termometro del capitalismo mondiale: se l’uno starnutisce l’altro prende il raffreddore.
Come mostra il grafico il rallentamento già nel 2018, poi la recessione nel 2019-2020 sono molto evidenti. La caduta dovuta al virus è spettacolare: -30%. L’epidemia non ha causato la recessione ma l’ha resa molto peggiore. E non vi sono possibilità di uscirne.
Gli altri paesi imperialisti europei, Inghilterra, Francia, Italia, Belgio, Spagna e Portogallo, mostrano tutti lo stesso andamento: un brusco rallentamento a partire dalla seconda metà del 2018, poi la recessione nel 2019-2020. Riportiamo qui solo le curve per l’Inghilterra e l’Italia che indicano il passo di tutte le altre, e riassumeremo in una tabella la situazione degli altri Paesi. La tendenza generale è chiara.
L’Inghilterra, il vecchio Leone ha ritmi proporzionati alla sua età; se la sua crescita è debole, anche i suoi cali di produzione sono di piccola ampiezza rispetto ad altri capitalismi più giovani.
L’Italia anch’essa ha visto la produzione rallentare nella seconda metà del 2018, per diventare costantemente negativa a partire dal 2019, anche se la contrazione sull’anno precedente, già in recessione, è rimasta modesta, intorno all’1%, ma con un picco negativo di -4 a dicembre 2019, che si è venuto a sommare al -5% del dicembre 2018. Particolarmente spettacolare è invece il calo della produzione dovuto alla pandemia, -43%, ma con una ripresa, visto che in agosto il calo è solo dello 0,1% Tuttavia per l’anno intero possiamo aspettarci una contrazione della produzione di quasi il 32% rispetto al massimo del 2007. Una notevole regressione anche rispetto al 2019, quando era già al -18%!
Il Regno Unito non è da meno, visto che la produzione è scesa del 24% in aprile, per poi risalire già al -6% sull’anno prima.
Nella tabella seguente solo il Belgio fa eccezione. Questo benché il vecchio capitalismo vallone si sia in gran parte trasformato in un deserto industriale. Questo è ciò che l’Europa rischia di diventare se non darà vita alla società comunista, di cui è gravida, facendo la sua rivoluzione.
PRODUZIONE INDUSTRIALE | ||||
---|---|---|---|---|
Dati OCDE | 2009/2007 | 2012-14/2007 | 2018/2007 | 2019/2007 |
INGHILTERRA | -11,1% | -11,3% | -5,7% | -6,6% |
FRANCIA | -15,1% | -12,6% | -8,2% | -8,1% |
ITALIA | -21,9% | -23,6% | -17,8% | -18,7% |
BELGIO | -10,8% | 0,0% | 8,6% | 13,8% |
SPAGNA | -22,0% | -28,8% | -21,5% | -21,0% |
PORTOGALLO | -25,1% | -29,8% | -22,6% | -24,4% |
Tutti, tranne il Belgio, sono ben al di sotto del massimo raggiunto nel 2007 (il 2000 per l’Inghilterra, che da allora è in recessione!). La terza colonna corrisponde alla seconda recessione del 2012-2014: per alcuni paesi la situazione è allora peggiorata drasticamente, quasi -30% per il Portogallo, -29% per la Spagna, -24% per l’Italia. La produzione si è poi ripresa leggermente, ma è rimasta al di sotto del massimo. La situazione si è nuovamente deteriorata dal 2019: gli incrementi vanno dal -6,6% per l’Inghilterra al -24,4% per il Portogallo. C’è anche una demarcazione tra i Paesi del Nord e quelli del Sud, che sono più drammaticamente colpiti dalla crisi di sovrapproduzione. La situazione si invertirà con l’aggravarsi della crisi, perché i Paesi che hanno conosciuto la ripresa più forte del dopoguerra, come la Germania, ne soffriranno di più.
(Continua al prossimo numero)