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Il grande tema delle origini del Partito, gettato alle ortiche dal grande opportunismo di matrice staliniana in nome dell’aggiornamento, dell’arricchimento, della lettura delle concrete circostanze storiche e, perché no, d’una certa dose di sano pragmatismo, è stato riproposto all’attenzione di tutti e, nel gran torneo delle interpretazioni, delle scomuniche e delle risposte “laiche”, si è avuto il tempo di andare a riscomodare il presunto “settarismo” delle origini, imputato a chi per eccellenza fondò il Partito Comunista d’Italia, la Sinistra.
Naturalmente, nelle reazioni a catena inevitabili delle polemiche, mentre gli attuali dirigenti del P.C.I., figli naturali del nuovo gruppo dirigente che scalzò la Sinistra dalla direzione del Partito nel 1923, hanno preteso di condannare le “anguste” posizioni della Sinistra, a loro volta sono andati soggetti agli strali degli eredi veri dell’opportunismo socialdemocratico, che hanno con lo stesso linguaggio accusato l’attuale P.C.I. di persistente spirito settario ed arrogante; e così si potrebbe continuare fino a toccare il polo opposto degli schieramenti politici.
Fuori dalle esigenze congiunturali di qualche momento il vero Partito Comunista non ha mai cessato di riproporre i cardini fondamentali, strategici e tattici che determinarono, dopo la fondazione della Internazionale, quella del partito in Italia, operando una definitiva e irreversibile resezione in rapporto alla socialdemocrazia traditrice e antiproletaria.
Per questo, e su questa sana e insostituibile base di princìpi e di programma storico, di fronte alle meraviglie e ai clamori suscitati nel proletariato infeudato alla controrivoluzione da oltre 60 anni, il Partito Comunista Internazionale è l’unica se pur flebile voce che non s’incrina né di stupore né per vane aspettative di fronte all’affrettato e strumentale tuffo nel passato non tanto lontano, volto a meglio turlupinare la classe operaia.
Di fronte alla sempre più smaccata politica imperialista della Russia borghese e capitalista, sgretolandosi ormai inevitabilmente il mito del socialismo in un solo paese e dunque del primo paese socialista, il gruppo dirigente del P.C.I., che di contorsione in contorsione, di calunnia in calunnia, di tradimento in tradimento ha contribuito con lo Stato russo a mandare al macero fior di eroi comunisti, oggi “democraticamente”, e dunque per la via carognesca e borghese della libertà di critica e di pensiero, è giunto alla conclusione che è il momento di denunciare il mito dello Stato guida.
Ma attenti alle sottigliezze ed alle astuzie: caduto il mito Russia e quella “via”, ne rimane l’altra, presunta europea e più avanzata; in realtà passaggio dichiarato armi e bagagli dalla parte del nemico, sotto addirittura lo scudo della Nato, in vista della costituzione di un terzo polo!
Nel frattempo la residua cosiddetta “base” del partito, frastornata e incapace di orientamento, viene solleticata dal pirla di turno a reagire e a dar vita virilmente ad una reazione filo-sovietica, in nome di una ancora vitale “propulsività” della Russia “socialista”.
Noi, che dal 1926 denunciammo senza timori reverenziali il rovesciamento dei rapporti tra Internazionale e Partito russo davanti al sarcastico ed enigmatico Stalin, e che abbiamo non da ora sostenuto che la ripresa proletaria mondiale dovrà passare attraverso la caduta del mito Urss, non possiamo certo rallegrarci del tentativo di revocare in vita il cadavere imbalsamato e denunciamo, insieme con i nuovi democratici, i vecchi dogmatici che si premuniscono contro il pericolo che la classe operaia, cadute le ultime illusioni, si riconosca storicamente nel suo vero Partito di classe.
La possibilità del sorgere di un partito esplicitamente filorusso, o la formazione di una consistente ala filorussa dentro il P.C.I. non farebbe altro che rallentare un processo storico ineluttabile e benefico. La storia della Sinistra, come continua ad essere ripresentata nel nostro lavoro organico di partito, dimostra in modo inequivocabile che le fusioni e le scissioni strumentali, da sempre, non sono che tentativi di mascherare la perdita della bussola, di trovare impossibili giustificazioni di fronte alle storiche responsabilità davanti al proletariato, di impedire che la lotta di classe avanzi per i suoi passaggi obbligati. Già dal 1921 al 1923 certi espedienti e manovre, verbalismi rivoluzionari e furbizie, trascinarono il proletariato da una sconfitta ancora non definitiva all’abbandono del suo organo di combattimento genuino, il Partito di classe.
Per questo nessuna tarda e ipocrita resipiscenza, nessuna illusoria fedeltà al tradimento potrà farci deflettere dalla difesa dei princìpi di sempre, che costituiscono la condizione per la lotta contro il capitale, sotto ogni clima, sotto ogni latitudine, ad Est come ad Ovest.
In una breve esposizione, in compendio, delle idee essenziali sulla questione “Economia e politica nell’epoca della dittatura del proletariato”, Lenin così si esprime:
«Teoricamente è fuori di dubbio che tra il capitalismo e il comunismo vi è un determinato periodo di transizione.
«Esso non può racchiudere in sé i tratti o le particolarità di ambedue queste forme di economia sociale. Questo periodo di transizione non può non essere un periodo di lotta tra il capitalismo agonizzante ed il comunismo nascente o, in altre parole, tra il capitalismo vinto, ma non distrutto, e il comunismo già nato ma ancora debolissimo.
«Non soltanto per un marxista, ma per ogni persona colta che conosce più o meno la teoria dell’evoluzione, deve essere ovvia la necessità di un’intera epoca storica che si distingue per i tratti propri dei periodi di transizione.
«Tuttavia le considerazioni sul passaggio al socialismo che ci viene fatto di sentire dei rappresentanti contemporanei della democrazia piccolo-borghese (e tali sono, nonostante la loro etichetta pseudo socialista, tutti i rappresentanti della Seconda Internazionale, inclusi uomini come Mac Donald, Jean Longuet, Kautsky e Friedrich Adler) si distinguono appunto per l’oblio completo di questa verità politica.
«Il tratto proprio dei democratici piccolo-borghesi è la ripugnanza per la lotta di classe, il sogno di farne a meno, l’aspirazione a spianare e a conciliare, a smussare gli angoli acuti.
«Perciò questi democratici non vogliono a nessun costo riconoscere la necessità di un intero periodo storico di transizione dal capitalismo al comunismo, oppure considerano loro compito escogitare piani per conciliare le due forze in lotta, invece di dirigere la lotta di una di queste forze».
I farneticamenti dei piccolo-borghesi del nostro tempo sono tanto più impressionanti, sia che sostengano l’esclusione ormai definitiva della dittatura proletaria come condizione per la transizione dal capitalismo al socialismo, come è nella maggioranza dei casi, compresi gli staliniani, sia che, in qualche scampolo di elaborazione teorica, attribuiscano al periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (esclusa naturalmente la condizione del potere proletario) la caratteristica di “un modo di produzione relativamente autonomo”, un giro di frase attraverso la quale si tende a formalizzare la “transizione” e a congelarla come una realtà difficilmente superabile, al punto di attribuirle una propria autonomia.
Nel periodo di transizione al socialismo, sotto la dittatura proletaria, dunque continua la lotta di classe, nella compresenza di tratti e particolarità di ambedue le forme di economia sociale, il capitalismo e il comunismo.
Si tratta di affermare quanto poi negarono Stalin ed i post-stalinisti, cioè la continuazione della lotta di classe dopo la conquista del potere politico. Ciò è una contraddizione con l’esistenza del potere politico proletario. Ma la situazione in Russia è piena di contraddizioni.
«Queste contraddizioni non sono fortuite e non potranno essere eliminate che nel corso di varie decine di anni. Infatti, finché sussistono le vestigia del capitalismo e della piccola produzione, le contraddizioni in tutto il regime sociale tra queste vestigia e i germogli del socialismo sono inevitabili (...) Queste contraddizioni provocheranno inevitabilmente conflitti, disaccordi, attriti (...) È necessaria un’istanza superiore abbastanza autorevole per poterli praticamente risolvere. Una tale istanza è il partito comunista e l’associazione internazionale dei partiti comunisti di tutti i paesi: l’Internazionale Comunista» (Da “Risoluzione del Partito sui compiti dei Sindacati”, del 17 gennaio 1922).
Questi problemi si sono affrontati storicamente nella Russia, ma non vale per Lenin il pretesto dell’opportunismo piccolo-borghese, oggi più che mai vegeto ed insidioso, secondo il quale riguarderebbero solo quel paese arretrato, che bene avrebbe fatto a non avventurarsi in simili difficoltà:
«La dittatura del proletariato in Russia, in confronto ai paesi avanzati, deve inevitabilmente distinguersi per certe sue particolarità, in conseguenza del carattere molto arretrato e piccolo-borghese del nostro paese. Ma le forze fondamentali e le forme fondamentali dell’economia sociale sono in Russia le stesse che in qualsiasi altro paese capitalistico, cosicché queste particolarità possono riferirsi soltanto a ciò che non è essenziale».
Queste forme fondamentali dell’economia sono: la piccola produzione mercantile, il capitalismo, il comunismo. Le forze essenziali sono: la piccola borghesia (specialmente i contadini), la borghesia, il proletariato.
Nell’analizzare i rapporti tra lo Stato proletario e le organizzazioni economiche dei lavoratori nella fase della Nuova Politica Economica (NEP) – l’interesse per la quale sta aumentando perché agli occhi dei traditori rappresenterebbe un passo indietro nella via del comunismo, che dovrebbe portare al riconoscimento del fallimento della grande impresa – ricordiamo che la lezione della NEP non solo è valida per il suo significato politico rivoluzionario, ma perché è la prova del robusto maneggio della dialettica con cui si muove il partito non solo russo, ma l’Internazionale ancora saldamente ancorata alla visione generale della rivoluzione.
Nella mente di Lenin e nell’azione del partito bolscevico è chiaro che il socialismo ha due condizioni: il grado di sviluppo delle forze produttive e il grado di sviluppo della rivoluzione nei paesi borghesi avanzati. Le forze produttive non si alzano da un livello patriarcale o medievale senza un meccanismo economico che porti all’industria i prodotti agricoli, e viceversa. Questo trasporto (sostituiamo questa parola all’altra di “scambio”) nella situazione della Russia 1921, ed anche in una situazione dieci volte migliore, non si può fare che nelle forme del commercio capitalista, o in forme ancora più deteriori, in quanto non avvengono tra grandi unità produttive, ma in parte con le infelici aziende piccolo-contadine.
Una forma superiore di questo doppio trasporto non si avrà che dopo eliminata anche nelle campagne la piccola produzione. Ove è piccola produzione ivi è scambio mercantile, ivi è capitalismo, ivi non è socialismo.
Ma, siccome si muore senza quel doppio trasporto, ecco che, cessando di vietarlo, si deve lasciarlo giocare nelle forme borghesi. Volgarmente: o mangiare questa minestra o saltare dalla finestra. (Vedi: “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”).
Ecco la capitale delle difficoltà e delle contraddizioni che il potere sovietico affronta senza indorare la pillola, avendo ben presente la natura della transizione al socialismo, i suoi passaggi obbligati, le condizioni generali. Si tratta di dominare teoricamente e praticamente la natura di questa dinamica, senza giocare con le parole.
«Nell’epoca della dittatura del proletariato l’economia in Russia rappresenta il terreno di lotta che il lavoro organizzato in modo comunista, ai suoi primi passi, nell’ambito di un immenso Stato, conduce contro la piccola produzione mercantile e contro il capitalismo che si è conservato e che rinasce sulle basi della piccola produzione mercantile.
«In Russia il lavoro è organizzato in modo comunista anzitutto in quanto è abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, e in secondo luogo in quanto il potere statale proletario organizza su scala nazionale la grande produzione sulla terra dello Stato e nelle imprese statali, ripartisce la manodopera tra i diversi rami dell’economia e tra le imprese, distribuisce tra i lavoratori una grande quantità di generi di consumo appartenenti allo Stato.
«Noi parliamo dei “primi passi” del comunismo in Russia, perché tutte queste condizioni da noi sono realizzate soltanto parzialmente, o, in altre parole, la realizzazione di queste condizioni si trova allo stadio iniziale.
«Immediatamente, con un solo colpo rivoluzionario, è stato fatto ciò che è possibile fare subito: ad esempio, sin dal primo giorno della dittatura del proletariato, il 26 ottobre 1917, fu abolita la proprietà privata della terra, senza alcun indennizzo ai grandi proprietari, furono espropriati i grandi proprietari terrieri. In qualche mese furono espropriati, anch’essi senza alcun indennizzo, quasi tutti i grandi capitalisti, i proprietari delle fabbriche, delle officine, delle società per azioni, delle banche, delle ferrovie, ecc.
«L’organizzazione della grande produzione industriale da parte dello Stato, il passaggio dal “controllo operaio” alla “gestione operaia” delle fabbriche, delle officine, delle ferrovie, tutto ciò, nei suoi tratti essenziali e fondamentali è già stato realizzato; ma per l’economia agricola siamo appena agli inizi (“aziende sovietiche”, grandi aziende organizzate dallo Stato operaio sulla terra dello Stato). Così è appena cominciata l’organizzazione di diverse forme di cooperative di piccoli agricoltori, come transizione dalla piccola agricoltura mercantile a quella comunista (...) L’economia contadina continua ad essere piccola produzione mercantile.
«Qui abbiamo una base per il capitalismo straordinariamente vasta e con radici molto profonde, molto solide. Su questa base il capitalismo si conserva e rinasce in una lotta accanita contro il comunismo. Forma di questa lotta: piccola e grande speculazione contro l’ammasso del grano (e di altri prodotti) da parte dello Stato e in generale contro la distribuzione dei generi alimentari fatta dallo Stato» (Lenin, “Economia e politica nell’epoca della dittatura del proletariato”).
In questa cornice, in cui il problema essenziale sta nella assoluta chiarezza nell’identificare le categorie, i gradini della scala economica, il rapporto tra Stato sovietico e organismi economici non può che essere contraddittorio. Gli attriti, i disaccordi, i conflitti non possono essere sottaciuti o mascherati, e devono tendere ad una soluzione.
La istanza superiore è il partito, è la Internazionale Comunista. Tutti i problemi devono essere affrontati secondo questo quadro di comando, per cui non si tratta, come avviene nell’anarchia dell’economia borghese, di una mediazione di interessi il cui fine rimane la conservazione del modo capitalistico di produzione, ma di una mediazione finalizzata alla transizione al socialismo. I conflitti di lavoro, la dislocazione delle forze produttive, gli strumenti di gestione, non hanno più i semplici connotati del dannato antagonismo tra capitale e lavoro, ma sono intesi secondo il fine del comunismo.
La riammissione del capitale privato nell’industria e del capitale straniero comportano problemi molto difficili da affrontare. E la necessità della difesa degli interessi materiali della classe operaia è un problema reale. Si tratta di affrontarlo nell’ambito della visione comunista.
I menscevichi insistono per una completa separazione tra Sindacati e Stato con la motivazione che nella NEP gli operai sarebbero costretti a difendersi contro il capitalismo privato e di Stato, e rivendicano libere elezioni, libertà di parola e di azione per tutti i partiti socialisti dentro e fuori dei Sindacati.
Il portavoce del Consiglio superiore dell’economia nazionale, Miljutin, smentì le voci di una riammissione indiscriminata del capitale privato nell’industria, ma confermò che le aziende che il governo non era in grado di far funzionare sarebbero state consegnate a imprenditori privati:
«Non possiamo comportarci – disse Miljutin – come il cane che sta sdraiato nel fieno, non lo mangia e non permette ad altri di mangiarlo».
La condizione prima per il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive, e lo Stato proletario deve riuscire a garantire tale sviluppo senza mettere in discussione la difesa materiale della classe operaia. Questa impresa non è possibile senza l’apporto delle organizzazioni economiche di classe. I Sindacati includono nelle loro file la totalità degli operai dell’industria, e sono quindi una organizzazione della classe dirigente, dominante, della classe al potere, che esercita la dittatura, che contribuisce alla costrizione esercitata dallo Stato.
«Ma non si tratta di una organizzazione statale, coercitiva, bensì di una organizzazione che si propone di educare, di far partecipare, di istruire, di una scuola, di una scuola che insegni a dirigere, ad amministrare, di una scuola di comunismo».
I Sindacati, per il posto che occupano nel sistema della dittatura proletaria, stanno, se così si può dire, tra il partito e il potere dello Stato. La dittatura del proletariato, inevitabile al momento del passaggio al socialismo, non viene esercitata dall’organizzazione che riunisce tutti gli operai dell’industria. Perché? A questo proposito possiamo leggere le tesi del II Congresso dell’I.C. sulla funzione del partito in generale.
«Di fatto il partito inquadra l’avanguardia del proletariato e questa avanguardia esercita la dittatura del proletariato. Ma se non si hanno le fondamenta, quindi i Sindacati, è impossibile esercitare la dittatura, adempiere le funzioni dello Stato. Bisogna adempierle per tramite di diverse istituzioni, anch’esse di tipo nuovo, e precisamente per tramite dell’apparato dei Soviet (...) Soltanto l’avanguardia che ha assorbito l’energia rivoluzionaria della classe può esercitare la dittatura. In tale modo si forma una specie di ingranaggio e questo meccanismo è la base stessa della dittatura del proletariato, l’essenza del passaggio dal capitalismo al comunismo» (Lenin, “I Sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotski”, 30 dicembre 1920).
Inaccettabile era la pretesa della Sinistra Socialrivoluzionaria – che come partito era stata vietata ma poteva ancora agire come gruppo nel congresso dei sindacati, come del resto l’Opposizione Operaia nelle file bolsceviche – di sostenere il completo controllo del sindacato sull’industria. Una mozione sottoposta dal Consiglio Centrale dei sindacati si era pronunciata non soltanto per la difesa degli operai contro i piccoli capitalisti, ma anche per la formazione di organi speciali attraverso cui i Sindacati avrebbero esercitato il controllo sull’industria di proprietà privata, una reminiscenza del “controllo operaio” del 1917. L’orientamento che prevalse fu che il Sindacato avrebbe adottato un duplice comportamento, “produttivistico” nell’industria di Stato, e “consumistico” nei confronti degli imprenditori privati. Rimaneva il problema che, se i sindacati fossero riusciti ad elevare i salari e a migliorare le condizioni dell’industria privata, gli operai sarebbero migrati dalle aziende governative a quelle private. Questioni certamente non facili da affrontare, ma reali e che non potevano essere trascurate.
Le implicazioni della NEP furono affrontate nel XI Congresso del partito nel marzo 1922 e al V Congresso dei Sindacati nel settembre. Si affermò che i sindacati dovevano appoggiare le rivendicazioni dei lavoratori delle aziende private ed anche nelle aziende socializzate dove gli operai fossero vittime di abusi burocratici.
A proposito degli scioperi il congresso non li vietò, ma fece appello ai Sindacati perché si astenessero dal proclamarli.
«Né il partito comunista, né il governo sovietico e neppure i sindacati possono dimenticare e nascondere agli operai che lo sciopero in uno Stato retto da governo proletario può essere spiegato e giustificato soltanto da deformazioni burocratiche dello Stato e da residui di capitalismo».
Parole sante, che se oggi, nel clima di confusione ideologica e di gioco delle tre carte tra le schiere dell’opportunismo, provocano facili ironie, ripropongono il tema essenziale della esatta definizione dello Stato proletario. La questione è continuamente presente alla coscienza del partito e nel dibattito interno: Lenin, polemizzando con Trotski a proposito del suo affrettato opuscolo su “Funzione e compiti dei sindacati”, batte con vigore sul chiodo:
«Secondo Trotski in uno Stato operaio la funzione dei sindacati non è di difendere gli interessi materiali e spirituali della classe operaia. È un errore. Il compagno Trotski parla di uno “Stato operaio”. Scusate, ma questa è un’astrazione. Quando, nel 1917, noi parlavamo di uno Stato operaio ciò era comprensibile: ma oggi, quando ci si viene a dire “perché difendere la classe operaia, da chi difenderla, visto che non c’è più la borghesia, visto che lo Stato è operaio?”, si commette un palese errore. Questo Stato non è completamente operaio. Ecco il punto. Qui sta uno dei fondamentali errori del compagno Trotski. Adesso siamo passati dai princìpi generali alla discussione concreta e ai decreti e ci si vuole tirare indietro da questo lavoro pratico e concreto. È inammissibile. In realtà il nostro non è uno Stato operaio, ma operaio-contadino, questo in primo luogo. E ne derivano molte conseguenze (...)
«Ma non basta. Il programma del nostro partito (...) mostra che il nostro Stato è uno Stato operaio con deformazione burocratica. Che forse in uno Stato che si è formato in condizioni concrete di questo genere, i Sindacati non avrebbero nulla da difendere, e se ne potrebbe fare a meno per difendere gli interessi materiali e spirituali del proletariato interamente organizzato? È un ragionamento del tutto errato dal punto di vista teorico, che ci riporta nel campo dell’astrazione o dell’ideale che raggiungeremo tra 15 o 20 anni (...) Il nostro Stato è attualmente tale che il proletariato nel suo insieme organizzato deve difendersi, e noi dobbiamo utilizzare queste organizzazioni operaie sia per difendere gli operai contro lo Stato, sia perché gli operai difendano il nostro Stato. Queste due difese si effettuano mediante una combinazione originale dei nostri provvedimenti governativi e del nostro accordo mediante la “simbiosi” con i nostri Sindacati» (Lenin).
La critica opportunista, specie se intinta di sinistrismo, non riesce a mandar giù una simile dialettica, come pure altre deliberazioni del partito in questa fase.
Sempre nell’XI Congresso il partito decise che i sindacati non dovevano assumere in prima persona alcune funzioni di controllo della produzione nelle attività private e in quelle affidate a privati, in contrasto con la posizione assunta nel 1917-1918, quando ai sindacati fu affidato il controllo della industria di proprietà privata. Il contrasto fu giustamente spiegato con le motivazioni che nel 1917-1918 la macchina dello Stato proletario non era stata ancora installata, e la classe operaia doveva quindi controllare l’industria soprattutto attraverso i sindacati. Ora la classe operaia possiede uno Stato proprio e attraverso questo, e non attraverso i sindacati, controlla l’intera economia.
Come pure il sinistrismo, incapace di valutare dialetticamente la questione, non riesce a digerire la decisione presa dell’XI Congresso di escludere i sindacati dalla partecipazione alla gestione effettiva dell’industria. Veniva ora fermamente stabilita la gestione individuale in luogo di quella collettiva ad opera dei comitati:
«Il principale compito del proletariato dopo che ha conquistato il potere è di aumentare il volume della produzione e incrementare le forze produttive della società. Ciò richiede che le amministrazioni delle fabbriche siano dotate di pieni poteri. Qualsiasi interferenza diretta dei sindacati nella gestione delle aziende deve essere considerata assolutamente dannosa e inammissibile».
Ancora una volta, senza l’accettazione della condizione prima per il socialismo, e cioè un alto grado di sviluppo delle forze produttive, tutte le elucubrazioni piccolo-borghesi sulla partecipazione, sull’ “autogestione”, tragedia non solo di allora ma degli eventi attuali della classe operaia, non portano a nulla. Lo Stato proletario o è o non è, ed è suo compito dirigere il processo generale, assumersi la responsabilità delle scelte necessarie. Le direttive del partito non possono limitarsi alla bella teoria e ad un appetibile dialettica: nel campo pratico si tratta di prendere misure anche amare, ma che vanno assunte con tutta la responsabilità.
Il congresso decise così che soltanto i dirigenti delle aziende erano responsabili della fissazione dei salari, delle razioni alimentari e della distribuzione del vestiario da lavoro, sebbene fossero tenuti a questi adempimenti dai contratti collettivi stipulati con i sindacati.
Ancora una volta lesa democrazia? Neanche per sogno.
«La produzione è sempre necessaria. La democrazia è una categoria attinente soltanto al campo politico (...) La produzione è sempre necessaria, la democrazia non sempre. La democrazia nella produzione genera il pericolo che la gente si disorienti e si chieda: quando occorre la democrazia, quando la direzione unica, quando la dittatura?» (Lenin, “I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotski”, dicembre 1920).
L’equilibrio tra persuasione e coercizione, difesa degli interessi materiali dei lavoratori e pressione sui lavoratori per l’aumento della produttività comportava una grande intelligenza politica che Lenin possedeva in sommo grado e che non tutto il partito digeriva, diviso tra lo zelo di Trotski e il candore di Bucharin. Eppure questa intelligenza non comportava, ancora una volta, semplicemente capire, ma fare, la prova delle prove.
Trotski nella tesi 41 del suo opuscolo diceva:
«Nel campo del consumo, cioè delle condizioni di esistenza individuale dei lavoratori, occorre condurre la politica del livellamento [l’egualitarismo, tipicamente piccolo-borghese, nell’impostazione degli odierni “sinistri”]. Il campo della produzione, che è per principio prioritario, resterà ancora a lungo decisivo per noi».
Risponde Lenin:
«Teoricamente è una confusione completa. È assolutamente errato. La priorità è una preferenza, ma la preferenza senza consumo non è niente. Se mi si dà la preferenza concedendomi un ottavo di libbra di pane, io rispondo umilmente no grazie per tale preferenza! La preferenza sul piano delle priorità è preferenza anche sul piano del consumo. Senza di ciò la priorità è un sogno, una nuvoletta, e noi siamo pur sempre dei materialisti! Se si parla di priorità bisogna dare pane, abiti, carne».
L’istanza superiore per risolvere i conflitti è il partito comunista e la associazione internazionale dei partiti comunisti di tutti i paesi, il Komintern. Questo significava che, quanto ancora Partito e Internazionale stavano sulla corretta impostazione programmatica e pratica, la polemica anche aspra tra il punto di vista produttivistico e quello consumistico non poteva essere risolta fuori dal tema delle condizioni essenziali per il socialismo, il grado di sviluppo delle forze produttive e lo sviluppo della rivoluzione nei paesi borghesi avanzati.
Ed allora, perché la questione non rimanesse congelata nell’ideale, si trattava di prendere decisioni pratiche: al XII Congresso del partito, il primo congresso cui non partecipò Lenin, si affermava una netta prevalenza del punto di vista produttivistico:
«Puntando con tutti i mezzi ad un miglioramento delle condizioni della classe operaia, le autorità statali e i sindacati devono ricordare che un miglioramento diffuso e prolungato è possibile solo sulla base di una industria in espansione, cioè redditizia. Tenere in attività fabbriche con un numero di lavoratori che non corrisponde all’effettiva produttività è una forma di sicurezza sociale irrazionale ed è perciò dannosa agli interessi della classe operaia di domani».
Ecco la necessità primaria, che si era presentata anche a proposito della concessione dei premi in natura.
La cosiddetta questione delle priorità è ardua e va affrontata:
«Non si tratta di esaltarle nelle tesi, ma di distribuire grano e carne».
L’applicazione delle giuste direttive non si risolve esclusivamente nelle tesi, ma deve fare la prova della pratica. A questo proposito le sottigliezze del tipo “democrazia della produzione” sono errate e non approdano a nulla.
Le difficoltà che il proletariato deve superare nella fase della NEP sono proprie di una economia che conosce le contraddizioni tra i primi passi del socialismo e il necessario sviluppo capitalistico. La disoccupazione è ancora un male inevitabile che il potere proletario non risolve con un colpo di bacchetta magica.
La realizzazione del socialismo non consiste in un quadro idillico di “giustizia sociale” nel senso piccolo-borghese del termine, ma è un grande percorso di cui è essenziale avere il dominio teorico e il filo conduttore. Mano a mano che si allontanava la possibilità dell’ossigeno che la rivoluzione in Occidente avrebbe dovuto restituire alla Russia dei Soviet, le contraddizioni interne al periodo di transizione si aggravarono.
Nel 1924 scesero in sciopero 24 mila operai nell’industria di proprietà statale; nel 1925 furono 34 mila, nel 1926 33 mila, nel 1927 20 mila, nel 1928 una cifra inferiore.
Verso la fine della NEP, nel 1928 Smidt, commissario al lavoro, affermò che negli ultimi anni i conflitti industriali avevano coinvolto ogni anno 2 milioni e mezzo di lavoratori. Ma, poiché gli operai non erano inclini a ricorrere allo sciopero, la maggior parte dei conflitti erano risolti mediante arbitrato.
La dialettica prevista da Lenin tra coercizione e persuasione stava prendendo un’altra piega, e cioè l’esplicita vittoria della borghesia di Stato con l’enunciazione del “socialismo in un solo paese”.
La lezione della NEP dunque, piuttosto che nelle anguste ed astiose interpretazioni che ancora oggi vengono portate dall’opportunismo, sta nelle alte questioni di principio che in quella occasione vengono sistemate in maniera grandiosa e con tale vigore marxista che forse solo oggi gli stessi eventi storici ne hanno potuto fare intendere la potenza, ed appunto in quanto il comunismo rivoluzionario ha subito paurosi rovesci.
La guerra di classe differisce dalla guerra degli Stati in quanto in essa talvolta la sconfitta è un passo avanti. Nell’evoluzione delle forme sociali e dell’organizzazione dei gruppi umani e degli Stati storici, dipende dal peso che ha quella dotazione di capacità e di risorse della specie che comunemente si chiama tradizione, cultura, civiltà. E tali fattori, da intendersi senza nessun errore misticistico o retorico, giocano nelle stesse guerre statali e tra popoli di diversa razza ed origine remota. Questa corrente tesi dei marxisti sentiamola esporre dalla voce dello stesso Lenin, che per altri pochi anni ci servirà come altoparlante di tutti i nostri di ieri, di oggi e di domani. Con Lenin non parla un filosofo, ma un condottiero di Stato, a misura del suo immenso coraggio e devozione al bene supremo del partito.
«È accaduto quello che ci si raccontava nella nostra infanzia a proposito della storia. Ci è stato insegnato: accade che un popolo ne conquisti un altro, allora il primo è il dominatore, il secondo il vinto. Ciò è molto semplice ed ognuno lo comprende. Ma cosa accade nella cultura di questi popoli? Se il popolo conquistatore è ad un livello superiore a quello del popolo vinto, gli impone la propria cultura, se è il contrario avviene che il popolo vinto impone la propria cultura al vincitore».
(Fine del rapporto [ - 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - ])
Il processo di degenerazione della Terza Internazionale
Il IV Congresso (novembre 1922)
Premessa
È tesi di Partito che non è possibile datare esattamente l’inizio della terza ondata degenerativa del movimento proletario, dopo quella socialdemocratica e revisionista di fine secolo XIX e quella nazionalista e patriottica dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. Le nostre Tesi caratteristiche del 1951 così si esprimono:«Non è possibile localizzare esattamente nel tempo l’inizio della terza ondata opportunista, della terza malattia degenerativa del partito proletario mondiale, successiva a quella che paralizzò l’Internazionale di Marx e all’altra che fece cadere vergognosamente la Seconda Internazionale Socialista. Dalle deviazioni ed errori di politica, tattica ed organizzazione si venne a cadere nel pieno dell’opportunismo con l’attitudine che Mosca ebbe a prendere dinanzi all’apparizione di forme borghesi totalitarie di governo e di repressione del movimento rivoluzionario».
Del resto abbiamo sempre affermato, distinguendoci nettamente dalla miriade di gruppetti tutti riconducibili a visioni soggettiviste e volontaristiche del processo rivoluzionario, che l’origine vera della degenerazione e della successiva controrivoluzione è da ricercarsi nell’immaturità oggettiva della Rivoluzione nell’Europa occidentale, in quanto solo se qui avesse vinto il comunismo anche la rivoluzione Russa non avrebbe avuto interruzioni o, peggio, ritorni indietro. In Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, dopo aver descritto il grandioso risultato della vittoria della guerra civile in Russia nel corso del 1920/21, si riconferma che l’avvento del socialismo, a questo punto, «esigeva la scesa in campo del proletariato internazionale». Ci si chiede quindi perché a quest’ultimo non fu data la medesima consegna che al proletariato russo, di andare allo stesso titolo contro tutti i nemici, unico metodo della possibile vittoria proletaria, e si pone la questione: «come questa doppia posizione si spiega?». La risposta è tale da non lasciare alcun dubbio:
«Non sono capi, dirigenti, governi e partiti che hanno nelle mani simili scelte. È la forza della storia stessa che li determina a prendere le posizioni che sorgono dai rapporti fisici della sottostruttura.
«In Russia la fase rivoluzionaria era matura per urgere in breve ciclo di forze nuove e disgregarsi di molte forme, fuori, in Europa, la situazione era falsamente rivoluzionaria e lo schieramento non fu decisivo, l’incertezza e mutevolezza di atteggiamento fu effetto e non causa della deflessione della storica curva del potenziale di classe. Se errore vi fu, e se di errore di uomini e di politici è sensato discorrere, esso non consistette nell’aver perduto autobus storici che si potevano agguantare, bensì, nell’aver colto nella lotta in Russia la presenza della situazione suprema, nell’aver creduto in Europa di poterle sostituire l’effetto di illusionisti soggettivi abilismi, nel non aver avuto, da parte del movimento, la forza di dire che l’autobus del potere proletario in occidente non era passato e quindi era menzogna segnalare in arrivo quello dell’economia socialista in Russia.
«La storia per noi non la fanno gli Eroi, ma i Traditori nemmeno (...) La storia non si fa, una volta ancora, ed è già saltuaria fortuna decifrarla: lasciamo che ogni giorno aumentino di una unità i fessi che ciò non intendono, e scussi e scussi si mettano a farla loro, a colpi di solitario pollice (...) Anzi non se ne decifra nemmeno la via sicura, il che potrebbe concludere al fatalismo, che inorridisce l’impotente nato (...) Se ne stabiliscono solo alcuni legami tra date condizioni e corrispondenti sviluppi».
In Grandi questioni storiche della Rivoluzione in Russia si è affermato, in perfetta sintonia col passo precedente, a proposito del «tragico cammino della rivoluzione europea», che la base teorica ed organizzativa del II Congresso dell’Internazionale, dell’agosto 1920, totalmente da noi rivendicata, «forse era già in ritardo sull’onda rivoluzionaria», e che da questo congresso in poi fu sempre più evidente che, nonostante la splendida vittoria in Russia, «l’opportunismo d’occidente aveva ancora notevole presa sulla classe operaia e che la malattia del 1914 non poteva avere così rapida guarigione».
Questo caposaldo fondamentale, pietra miliare della stessa possibilità storica della ricostituzione dell’organo rivoluzionario, non va mai dimenticato nell’affrontare la delicata questione dell’inizio del processo degenerativo dell’Internazionale. Si deve infatti spiegare come sia stato possibile che quella organizzazione rivoluzionaria, guidata dal glorioso partito bolscevico, che per primo non si era limitato ad invocare la rivoluzione ma l’aveva materialmente diretta verso la vittoria sconfiggendo ogni possibile razza di nemici, si sia trasformata nel più potente apparato di repressione del movimento comunista mondiale e di boia della rivoluzione.
Se per il marxismo sono sempre fatti materiali ed impersonali che determinano così giganteschi avvenimenti storici, ciò non significa rinuncia alla ricostruzione, con fedele metodo storico, delle deviazioni dell’Internazionale dalla corretta impostazione programmatica, tattica, organizzativa. Tale ricostruzione è necessaria non per il gusto deplorevole di scoprire i nomi più o meno famosi dei colpevoli (anche se di carognate ne sono state fatte in abbondanza), ma perché ciò permette all’organo militante del Partito di affilare le armi della sua battaglia quotidiana contro il nemico di classe.
Da tale angolo visuale il IV Congresso dell’Internazionale del novembre 1922 appare come una tappa decisiva nella sua traiettoria degenerativa, soprattutto in relazione alle ormai affermate tendenze favorevoli all’allargamento delle maglie nel campo dell’organizzazione con le proposte di fusione tra Partiti Comunisti ed ex-socialisti ed alla teorizzazione di tattiche scorrette, già implicite nel corso del 1921/22, non sufficientemente delineate e chiare, come quelle del Fronte Unico Politico o del Governo Operaio. Proprio al IV Congresso si precisa infine sempre meglio un forte sbandamento nella corretta valutazione del processo rivoluzionario nei paesi a capitalismo maturo, ai quali si tenta di applicare la stessa tattica seguita nell’Ottobre bolscevico, andando incontro ad inevitabili insuccessi. Tale errore di valutazione è particolarmente evidente e tragico per la Germania, nei cui confronti si arriva perfino a teorizzare uno specifico interesse nazionale che il movimento proletario e comunista avrebbe dovuto far proprio: quello dell’opposizione alla politica delle potenze dell’Intesa come si era espressa con la pace di Versailles.
Negli anni successivi alla prima guerra mondiale si assiste in tutta Europa ad una serie di tentativi da parte del proletariato di abbattere la borghesia ed instaurare governi rivoluzionari sull’esempio della vittoriosa rivoluzione russa.
La Germania, abbiamo detto tante volte, rappresenta la base dalla quale si tenta la scalata al potere comunista mondiale, essendo il proletariato tedesco il più combattivo e centralizzato di Europa, essendo esso organizzato in poderosi sindacati e racchiudendo nelle sue file tradizioni politiche che si rifanno a Marx ed Engels. Lo stesso Lenin aveva sempre guardato alla socialdemocrazia tedesca come ad un modello da seguire e tutti i partiti della Seconda Internazionale, prima dell’abominevole tradimento del 1914, erano stati influenzati dal Partito Tedesco. Dunque la Rivoluzione in Germania era per il Partito Bolscevico, come per tutti i comunisti europei, la questione delle questioni; di conseguenza la politica della Terza Internazionale aveva fra i suoi scopi fondamentali la conquista del potere in Germania. Soltanto la fusione della rivoluzione tedesca con quella russa avrebbe infatti consentito alla stessa rivoluzione russa di procedere verso il comunismo e, nello stesso tempo, di estendere l’incendio rosso a tutta l’Europa capitalista, ove erano presenti le condizioni oggettive per una instaurazione duratura e vittoriosa della dittatura del proletariato.
Ma furono proprio i tentativi rivoluzionari in Germania a mettere in evidenza la capacità della borghesia di saper elasticamente adattare il proprio dominio ad una o ad altra forma pur di non lasciarselo sfuggire di mano. Eccola quindi accantonare il Kaiser – sotto il quale aveva saputo affermarsi come classe, estendere il proprio dominio su tutta la nazione e sviluppare come non mai il suo apparato produttivo e i suoi commerci – per nascondersi dietro il paravento della Repubblica di Weimar e addirittura cavalcare la tigre dei consigli operai. La borghesia, nella sua ora cruciale, sa di potersi rivolgere alla socialdemocrazia, ad una forza che si era fino ad allora sapientemente tenuta di riserva all’opposizione, che si era maturata in seno per meglio assicurare il consenso “di tutto il popolo” ai suoi disegni nazionali, e che nel momento del bisogno tira fuori dal cappello a cilindro per coinvolgerla direttamente nella gestione del governo. La borghesia pare mettersi da parte, evitare l’intervento in prima persona, lasciare il campo agli operai. Purtroppo tutto ciò sarà una tragica apparenza.
Sarà proprio la socialdemocrazia che si incaricherà di ristabilire la perfetta continuità del regime borghese dietro una facciata “demo-socialista” e, in seguito, rafforzati i ranghi dell’apparato statale, che nel frattempo non sono in nulla mutati rispetto a quelli guglielmini, potrà sferrare la feroce offensiva contro la reazione del proletariato, coraggiosa quanto disperata e impotente.
È nei momenti decisivi dello scontro per il potere che la socialdemocrazia mostra la sua reale natura di estremo baluardo del regime borghese. Essa è in grado di svolgere questa funzione tanto meglio quanto più avrà saputo in precedenza coinvolgere il proletariato nella sua politica di grandi riforme del sistema capitalistico e di miglioramenti contingenti per le masse operaie.
In Germania ciò era avvenuto durante decenni di sviluppo “pacifico” del capitalismo, che aveva prodotto uno strato di aristocrazia operaia divenuto negli anni del primo dopoguerra una pesante cappa di piombo che il proletariato tedesco non riuscirà a sollevare. La socialdemocrazia era in grado di controllare gran parte del proletariato tedesco tramite i sindacati, le cooperative e le rimanenti organizzazioni operaie. Aveva infine saputo dar prova della sua lealtà alla causa borghese allo scoppio della guerra, nella quale aveva coinvolto il proletariato, sacrificandone in nome di superiori esigenze nazionali sia gli interessi primari che quelli storici.
Di contro alla capacità controrivoluzionaria dei socialdemocratici si devono mettere in evidenza gli errori dei comunisti tedeschi: l’incapacità del movimento proletario tedesco di dotarsi di un apparato capace di contrapporsi efficacemente alla politica forcaiola della socialdemocrazia, di dotarsi di un’avanguardia capace di essere tale e non alla coda del movimento, di un organo in grado di tracciare la corretta via della rivoluzione e sapervi incanalare le masse proletarie, le quali, indubbiamente, seppero esprimere un potenziale rivoluzionario notevole, ma destinato in ogni occasione ad essere frustrato e sanguinosamente represso, mancando un saldo partito comunista.
Si assiste nella Germania del periodo ad un tragico gioco delle parti fra i due maggiori partiti socialdemocratici. Di questi il Partito Socialdemocratico, cosiddetto Maggioritario (SPD), di Scheidemann e Ebert, autentici socialpatrioti, sarà quello che gestirà in prima persona il governo nel primo dopoguerra. Mentre il Partito Socialdemocratico Indipendente (USPD) di Kautsky e di Dittmann, che ne rappresentano l’ala destra, e di Däumig e di Stöcker, che ne rappresentano l’ala sinistra, svolgerà durante la rivoluzione il ruolo vergognoso del “centro”.
Oscillanti fra destra e sinistra, rivoluzionari a parole e traditori nei fatti, molto simili ai serratiani che ne sono il corrispondente italiano, gli Indipendenti sono sempre pronti a dare una mano al SPD quando il bisogno richiede una copertura a sinistra. Ad ogni sommovimento proletario i socialdemocratici rispondono assumendosi cariche di governo, cercando di contenere, purtroppo con successo, la rabbia proletaria all’interno della camicia di forza democratica, parlamentare e nazionale.
Schematizzando possiamo dire che i reiterati attacchi del proletariato tedesco nel primo dopoguerra avvengono quasi sempre seguendo tre fasi: una ascendente, una di riflusso, e infine una di repressione. Orbene, ad ognuna di queste tre fasi corrisponde un preciso e costante atteggiamento controrivoluzionario dei Maggioritari e degli Indipendenti e una corrispettiva impotenza dei comunisti ad attuare una politica autonoma rivoluzionaria.
Durante la fase ascendente, che vede il proletariato tedesco scendere in sciopero, i Maggioritari si assumono oneri di governo, coadiuvati dagli Indipendenti, che con il loro verbalismo rivoluzionario mistificano la reale natura dei rapporti di classe. È evidente la manovra, si tratta di prendere tempo finché gli animi si raffreddino, promuovere riforme e cambiamenti badando bene di non intaccare i capisaldi del regime borghese. In questa fase, purtroppo, i comunisti tedeschi sono sempre impreparati. Talvolta si lasciano coinvolgere nella tresca, incapaci non solo di denunciare gli sporchi piani dei “cugini”, ma anche di differenziarsi agli occhi del proletariato. In altre occasioni se ne stanno in disparte indifferenti a guardare, perché il movimento non è “diretto verso il socialismo” e così facendo si precludono la possibilità della direzione degli scioperi, cioè di strappare la direzione del movimento agli opportunisti. In ambedue i casi i comunisti tedeschi si pongono alla coda degli avvenimenti, o sono sempre indecisi o disinteressati, e non è facile per il proletariato riconoscere nel loro partito l’organo della rivoluzione.
Il segnale che la situazione è “sotto controllo” per la borghesia, e che quindi al proletariato si apre una fase di riflusso, è dato dal fatto che gli Indipendenti escono dal governo rimproverando ai Maggioritari di non aver rispettato i patti stabiliti. In realtà è vero il contrario, ma il “centro” non può compromettersi più di tanto, deve tornare all’opposizione, darsi una verniciata di verginità che gli permetterà di essere pronto alla chiamata successiva. Così facendo gli Indipendenti evitano di lasciarsi coinvolgere nella futura repressione, che l’apparato statale sta preparando. Questo infatti, passata la tempesta, è ora pronto a sferrare il contrattacco.
I comunisti tedeschi, per non aver compreso fino in fondo la natura della socialdemocrazia, sono in questa fase gli unici a continuare le agitazioni, che non sono in grado di controllare dando prova, ancora una volta, di essersi lasciati prendere la mano dalle cose ed esponendosi alla repressione armata.
Questa, gestita direttamente dal SPD, si abbatte su un proletariato sgonfiato, disilluso, scontento e, soprattutto, tradito. Travolge le frange più combattive, che si sono battute in prima persona, le avanguardie rivoluzionarie, quelle cioè inquadrate nel Partito Comunista Tedesco. In tre successive ondate (1919, 1920, 1921) il proletariato subisce una sconfitta, oltre che politica, soprattutto fisica. L’esercito regolare e le bande di Noske decapitano il movimento proletario degli elementi più combattivi consumando così la sconfitta del proletariato tedesco. Questa va di pari passo con le sconfitte del Partito Tedesco e dell’Internazionale Comunista.
Formatosi il 1° gennaio 1919, nel fuoco della Rivoluzione dei Consigli, che aveva dato quale unico risultato la formazione di un governo del Reich paritetico SPD-USPD diretto da Ebert, il Partito Comunista Tedesco Lega di Spartaco contiene già in sé tutte le deficienze teoriche e tattiche che saranno la causa delle sue future sconfitte. Le basi teoriche del KPD sono in continua oscillazione tra un estremismo anarcoide, che vede nei consigli degli operai e dei soldati la forma di per sé comunista della rivoluzione tedesca, e un riformismo radicale, che non riesce ad andare oltre i vecchi metodi politici della socialdemocrazia, che pur vorrebbe negare. Nessuna corrente politica sa trarre dal marxismo la lezione di principio fondamentale, quella cioè che è il Partito Comunista che da solo deve prendere il potere escludendo tutti gli altri movimenti e partiti.
È proprio nel momento in cui il potere sembra essere a portata di mano che si evidenziano le deficienze del Partito. La sbandata consiliarista non risparmia nemmeno Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. La Luxemburg è d’accordo per uscire dai sindacati, infeudati dall’opportunismo, il loro compito deve essere assunto dai consigli operai. Liebknecht da parte sua il 5 gennaio 1919 accetta di partecipare ad un piano insurrezionale insieme agli Indipendenti di sinistra e ai Capitani Rivoluzionari, una organizzazione che, pur separatasi dall’USPD alla fine del 1918 come gli spartachisti, si era rifiutata di fondersi nel KPD.
Il triunvirato Liebknecht - Ledebur (USPD) - Scholze (Capitani Rivoluzionari) avrebbe dovuto rovesciare il governo e assumere il potere a Berlino. Dunque anche l’ultimo atto politico di quell’ardente rivoluzionario che fu Liebknecht è speso in nome dell’unità del movimento. Già il 6 gennaio gli Indipendenti ritirano il loro appoggio al Comitato Rivoluzionario di Berlino, preparando il terreno agli sbirri di Noske, entrato nel governo di Ebert alla fine di dicembre in sostituzione degli Indipendenti dimissionari con la chiara convinzione di dover svolgere la parte del boia. Rosa e Carlo furono assassinati il 15 gennaio e forse con loro vennero meno in Germania gli unici due comunisti capaci di saper cogliere dagli errori passati le lezioni della storia.
Nel febbraio del 1919 si apre nella Ruhr la cosiddetta campagna per la “socializzazione” delle miniere, la dirigono insieme spartachisti, indipendenti e maggioritari. Ne seguirà, dopo l’ennesimo tradimento socialdemocratico, un bagno di sangue consumato dalla Reichswehr. La stessa sorte subirà pochi giorni dopo nella zona di Halle la campagna per la “socializzazione dal basso” delle imprese: nuova direzione maggioritaria, nuove esitazioni degli indipendenti, finale massacro di spartachisti. Una nuova edizione del “Comitato di sciopero a tre” nel marzo 1919 a Berlino si risolverà in una nuova tragica sconfitta: 1.500/3.000 massacrati tra i quali una delle figure più importanti della sinistra tedesca, Leo Jogiches. Nell’aprile a Monaco si inscena la farsa atroce della proclamazione della Repubblica bavarese dei consigli, voluta dagli indipendenti e dai maggioritari che riusciranno a coinvolgere anche i comunisti, per consegnarli subito dopo alle forze della repressione: rimasti a capo di una repubblica voluta da altri, i comunisti il primo maggio vengono ferocemente spazzati via.
Con la fine del 1919 il KPD entra in contatto più stretto con la Terza Internazionale, la quale proprio in quel periodo riesce a rompere l’isolamento a cui la costringeva la guerra civile in Russia. L’Esecutivo dell’I.C. segue con sempre crescente attenzione gli avvenimenti tedeschi. Da allora in poi l’Internazionale elaborerà tutte le risoluzioni politiche e tattiche che riguardano l’Occidente in funzione della Rivoluzione Tedesca. Inizia in questo periodo una specie di simbiosi tra comunisti tedeschi ed Esecutivo dell’I.C., un influenzamento reciproco che sarà una delle cause della degenerazione dell’Internazionale stessa. L’I.C., invece di far tesoro delle sconfitte dei tedeschi, cercando di comprenderne le cause e di rimuoverle con una giusta politica rivoluzionaria, finirà con l’avallare metodi che niente hanno in comune col comunismo. D’altronde il KPD niente è in grado di fare per contribuire ad un chiarimento nell’I.C.: il miglior chiarimento che avrebbe potuto dare sarebbe stato quello della presa del potere. Le sue due “anime” continueranno a scontrarsi per la direzione del Partito assommando errori ad errori.
La prova più evidente di quanto il KPD fosse fuori dai binari del marxismo si ha nell’episodio del putsch di Kapp.
Il 6 febbraio 1919 si era riunita a Weimar l’assemblea costituente dando origine alla Repubblica, che nasceva lorda del sangue dei migliori rivoluzionari tedeschi.
Con la fine dell’anno si era conclusa la repressione sistematica dei maggiori focolai della rivoluzione, il proletariato tedesco era stato battuto ma non sconfitto e la borghesia non dormiva sonni tranquilli. Inoltre il trattato di Versailles (giugno 1919) era stato un duro colpo per la nazione: perdita delle colonie, riparazioni di guerra, riduzione degli effettivi militari erano ulteriori aggravi per una borghesia già provata dallo scontro con gli operai.
In questa situazione viene deciso il putsch. Ne sono artefici principali il comandante delle truppe di Berlino Von Lüttwitz, che si era distinto nella caccia allo spartachista nel gennaio 1919, e Wolfgang Kapp, uomo degli Junkers e degli alti funzionari statali, sui quali si era fondato il potere del Kaiser e che la neonata Repubblica non si era preoccupata di allontanare. Il 13 marzo 1920 Lüttwitz occupa Berlino destituendo il governo di Ebert, Kapp è cancelliere, proclama lo stato d’assedio, sospende ogni diritto di associazione e di stampa, nomina a capo dell’esercito Lüttwitz. Ebert fugge a Stoccarda. Immediata è la reazione del proletariato tedesco, si instaura un Comitato d’azione comprendente SPD, USPD e sindacati, è proclamato lo sciopero generale, tutta la Germania si ferma.
La prima reazione del KPD è di distacco. “Rote Fahne” (“Bandiera Rossa”), organo ufficiale dei Comunisti, dichiara che lo scontro tra repubblica e monarchia non interessa direttamente gli operai (il che è anche vero) e che il partito avrebbe invitato gli operai allo sciopero generale solo nella prospettiva della presa del potere, non certo per salvare Ebert e Noske. La posizione del KPD sarebbe stata giusta se quelle di Kapp altro non fossero state che reminiscenze guglielmine. Ma, al di là delle forme, la sostanza dei fatti sta nello stato di assedio e in tutti gli annessi e connessi: Kapp è molto più simile a Mussolini che al cancelliere Hollweg. Kapp è la borghesia che vuole farla finita con la cronica insubordinazione del proletariato tedesco.
Questo è intuito dagli operai che scendono in sciopero bloccando in un giorno tutta la Germania. A questo punto il KPD muta completamente posizione: scrive “Rote Fahne” «Per lo sciopero generale! Abbasso la dittatura militare! Abbasso la democrazia borghese! Tutto il potere ai consigli operai!».
Il 17 marzo Kapp e Lüttwitz si danno alla fuga. Ma lo sciopero non si placa anzi tende sempre più a trasformarsi in guerra civile. SPD, USPD e sindacati decidono di continuare lo sciopero col chiaro intento di controllare la situazione. La socialdemocrazia alle strette con la base escogita la prospettiva del “governo operaio”, formato da partiti operai senza la partecipazione di Noske (che adesso non serve più). Le organizzazioni sindacali, viste le buone intenzioni del nuovo governo Mueller, decidono per la cessazione dello sciopero. Il proletariato “abbocca”, ma quello che è molto più grave “abbocca” il KPD. Scrive “Rote Fahne” il 26 marzo:
«Il KPD pensa che la costituzione di un governo socialista, senza il più piccolo elemento borghese e capitalista, creerà condizioni estremamente favorevoli all’azione energica delle masse (...) Il Partito dichiara che la sua attività conserverà il carattere di un’opposizione legale finché il governo non attenterà alle garanzie che assicurano alla classe operaia la sua libertà di azione politica e finché esso combatterà con tutti i mezzi la controrivoluzione borghese e non ostacolerà il rafforzarsi dell’organizzazione sociale della classe operaia. Dichiarando che l’attività del nostro partito “conserverà il carattere di un’opposizione legale”, intendiamo dire che il Partito non preparerà colpi di Stato rivoluzionari, ma conserverà completa libertà di azione per ciò che concerne la propaganda politica delle proprie idee».
È superfluo ogni commento.
Il Governo, visto che tutte le parti sociali hanno deciso di lasciargli le mani libere, può organizzare la repressione mettendo a tacere attraverso la Reichswehr i focolai insurrezionali più agitati.
L’episodio oltre che ad evocare lo spettro del Governo Operaio molto prima di quanto farà la Terza Internazionale, contribuisce a fare affiorare nel KPD l’anima legalitaria. È accantonata l’ala consiliarista e addirittura espulsa dal Partito. Il 5 aprile una conferenza di opposizione alla centrale di Levi, che aveva assunto la direzione del KPD dopo i fatti del 1919, porta alla fondazione del KAPD.
Una volta che anche l’ala estremista si è organizzata si assiste alla curiosa adesione di 3 partiti tedeschi alla Terza Internazionale. Al II Congresso, che noi abbiamo sempre definito come quello di fondazione della I.C., vengono invitati l’ala sinistra dell’USPD (che l’Internazionale reputa composta da buoni comunisti), il KPD e il KAPD (i cosiddetti infantili di sinistra). Il risultato di una tale confusione di indirizzo politico sarà l’invito dell’Esecutivo dell’Internazionale ai tre partiti “operai” di fondersi in un unico partito sulla base delle 21 condizioni di ammissione. Lo stesso KPD si dichiara favorevole ad un Indirizzo dell’Internazionale agli operai di sinistra dell’USPD affinché organizzino la necessaria scissione.
Il problema di fondo per l’Internazionale è creare un Partito Tedesco numeroso, che abbia peso organizzativo e seguito fra gli operai. È tanta l’attenzione nei riguardi dell’USPD che al congresso di Halle dell’Ottobre 1920 sarà lo stesso Zinoviev, presidente dell’Internazionale, ad intervenire direttamente auspicando una spaccatura del Partito Indipendente. Far ciò vuol dire cacciare i destri, cioè Kautsky, ed accettare le 21 condizioni. Il piano di Zinoviev ha pieno successo. L’USPD si scinde in due tronconi e più della metà dei suoi aderenti segue l’Internazionale. Un tale avvenimento sembra preludere al raggiungimento della tanto auspicata meta rivoluzionaria, si respira aria di trionfo. Zinoviev scrive commentando il suo viaggio in Germania:
«Si può e si deve dirlo, il proletariato tedesco per primo in Europa si è risollevato da una crisi senza precedenti e ha nuovamente stretto le sue file. La vecchia scuola ha vinto. Il lavoro dei migliori rivoluzionari tedeschi non è stato vano. Un grande Partito Comunista è nato in Germania. Ciò provocherà avvenimenti di significato storico senza precedenti».
Altrettanto ottimisticamente il Comitato Centrale del KPD saluta la rottura avvenuta ad Halle tra la maggioranza dell’USPD e la minoranza di destra auspicando al più presto la fusione delle due organizzazioni. L’Esecutivo dell’Internazionale rincara la dose. In una lettera del novembre 1920 ai membri dell’USPD di sinistra, al KPD e al KAPD, commentando il congresso di Halle e le prospettive della Rivoluzione tedesca scrive:
«Ci rivolgiamo a tutti i proletari rivoluzionari di Germania e diciamo loro: ora la via è stata tracciata, ora sono state create le condizioni per formare un potente partito Comunista unitario, di massa in Germania. Già all’inizio di dicembre le direzioni degli Indipendenti di sinistra e del Partito Comunista Tedesco hanno deliberato la convocazione di un congresso comune per la fondazione di un Partito Comunista Unificato. A questo congresso saranno invitati anche i membri del Partito Comunista Operaio Tedesco che desiderino entrare a far parte del Partito Unificato. Le singole, insignificanti divergenze d’opinione di un tempo debbono essere dimenticate, debbono passare in seconda linea rispetto a ciò che unisce voi tutti, che al presente militate nelle file dell’USPD, del KPD e del KAPD».
Dunque per l’Internazionale si tratta di fondare il vero Partito Comunista in Germania.
In effetti l’unificazione avviene solo tra Indipendenti di sinistra e spartachisti, nel dicembre del 1920 a Berlino. Da parte sua il KAPD non aderirà al nuovo Partito, preferendo rimanere un Partito simpatizzante della Terza Internazionale.
Il Partito Comunista Tedesco Unificato (VKPD) è un partito di massa, ha 400.000 iscritti, ed una direzione paritetica fra ex spartachisti ed ex Indipendenti, Levi e Däumig ne sono i due presidenti. Ma per quanto riguarda l’indirizzo politico il VKPD è ancora ben lontano dalla giusta politica rivoluzionaria. Anzi l’influenza degli ex Indipendenti comporta un ulteriore spostamento del Partito sul terreno legalitario, Levi, ormai capo indiscusso del VKPD, prende alcune iniziative che decampano dai principî costitutivi della Terza Internazionale, ma questa, stranamente, invece di criticarle, ne fa un esempio per tutti i comunisti occidentali.
Levi è l’antesignano del Fronte Unico Politico. L’8 gennaio 1921 “Rote Fahne” pubblica una “lettera aperta” diretta alle centrali sindacali, al SPD, all’USPD e al KAPD. Ne è autore lo stesso Levi in stretta collaborazione con Radek, che seguiva come delegato dell’I.C. il Partito Tedesco fin dalla sua nascita, ma mai come in questo momento ne ha influenzato la direzione.
In questo appello si invitano le “organizzazioni operaie” tedesche ad unirsi su una piattaforma unitaria per la difesa immediata dei lavoratori. Le richieste sono: adeguamento dei salari al costo della vita essendo la moneta colpita da inflazione, formazione di una milizia operaia di difesa, liberazione dei detenuti politici, controllo operaio sulla produzione attraverso i consigli di azienda, ripresa delle relazioni politiche e commerciali con la Russia Sovietica.
Non sono tanto i risultati di questa mossa tattica da mettere in evidenza, la proposta cade nel vuoto o è sabotata con varie motivazioni, ma il metodo ed i contenuti della proposta ad essere fuori della tattica di difesa dei comunisti. In primo luogo l’invito ai dirigenti di Partiti e Sindacati ad intraprendere una comune azione equivoca sulla loro funzione controrivoluzionaria. Di ben altro effetto sarebbe stato un appello dal basso (sindacale) fatto a tutti gli operai mettendo ben in evidenza la critica ai bonzi.
Le rivendicazioni poi sono mal poste. Alcune, come ad esempio il controllo della produzione, presupporrebbe la dittatura del proletariato, che il Partito Comunista non può certamente spartire con altri partiti. Altre, come la formazione di milizie di difesa, sono poste ambiguamente, essendo per i comunisti una questione di principio la formazione di organizzazioni armate di Partito, le quali possono svolgere azioni in comune con altre solo a condizione di non fondere con esse la propria organizzazione.
Sul piano parlamentare la sbracatura è più evidente. Levi arriva, in un intervento al Reichstag, il parlamento nazionale, ad auspicare un’alleanza fra il Reich tedesco e la Russia dei Soviet. In questo periodo “Rote Fahne” nei propri editoriali mette in evidenza come «sempre nuove ferite l’imperialismo dell’Intesa infligge alla Germania» e come solo nell’alleanza con la Russia fosse «l’unica via di salvezza per la nazione», che sotto la guida del proletariato avrebbe dovuto vincere la resistenza «della grande borghesia» e trascinare dietro di sé larghi strati della piccola borghesia.
Il VKPD ha ormai imboccato la strada del Fronte Unico. È proprio Radek che sul primo numero della nuova rivista di Partito “Die Internationale” auspica «la costituzione del Fronte Unico Proletario di lotta». In tale articolo sono svolti argomenti che verranno poi ampiamente dibattuti al III Congresso dell’I.C.
«La strategia comunista deve esser quella di convincere queste grandi masse di lavoratori che la burocrazia sindacale e il Partito Socialdemocratico non solo rifiutano di lottare per una dittatura operaia ma non si battono neppure per gli interessi quotidiani più elementari della classe operaia».
Simili argomentazioni sono pienamente ascrivibili nel solco della rivoluzione comunista, ma i tempi e i modi in cui vengono poste contribuiscono solo a seminare confusione nel Partito. Alcune sezioni bavaresi, facendo d’ogni erba un fascio, si pongono apertamente su un terreno opportunista. A Monaco si hanno manifestazioni di nazional-bolscevismo. Comunisti si mescolano alle dimostrazioni della borghesia contro l’Intesa. Al Landtag, il parlamento regionale, i deputati comunisti presentano una mozione di protesta in comune con i deputati borghesi. Nell’organo del VKPD di Baviera, il “Neue Zeit”, si preconizza il “Fronte Unico della gioventù”. Si invitano gli studenti, che si erano distinti nella repressione della Repubblica dei Consigli di Baviera, ad unirsi agli operai in un “nuovo sentimento nazionale”. Si auspica l’alleanza con la Russia per muovere guerra all’Intesa, annullare la pace di Versailles, “difendere la Repubblica dei Consigli”, nonché “la patria”.
Nonostante che il VKPD pubblichi subito un secca smentita delle posizioni prese dalla propria sezione bavarese, le ripercussioni in seno all’Internazionale sono di non poco conto. Tramonta la stella di Levi, che si dimette dalla presidenza del Partito per venire espulso quando pubblicamente prenderà posizione contro l’Azione di Marzo.
Il Partito si dibatte ormai in una grave crisi di indirizzo politico. In questa situazione l’Esecutivo dell’Internazionale “cambia cavallo”, spostando la direzione del Comitato Centrale del VKPD a sinistra. Siamo all’inizio del marzo del 1921, è ancora Radek a dare il là all’operazione. In una lettera personale indirizzata ai membri più influenti del C.C., fra i quali Brandler e Thalheimer, dopo aver criticato l’impasse in cui si è venuto a creare il Partito, auspica che questo si apra finalmente all’azione:
«Nel momento di decisioni politiche di portata mondiale – egli scrive – occorre pensare meno alla formula “radicale” e più all’azione e a mettere in movimento le masse. Nel caso in cui si arrivi alla guerra, non pensare alla pace, o solo a protestare, ma impugnare le armi».
Nel frattempo l’Esecutivo dell’I.C. invia da Mosca Béla Kun e Poganyi con chiaro intento di spingere il VKPD all’azione. Al C.C. del 16 marzo Brandler presenta un rapporto in cui sintetizza l’esigenza del momento: bisogna mobilitare le masse. Siamo alla nota “teoria dell’offensiva”.
Fröhlich è molto esplicito in questo senso:
«Fino ad oggi la nostra tattica consisteva nel lasciar andare le cose e, non appena si presentava una certa situazione, prendevamo le nostre decisioni in quel quadro. Oggi siamo noi che dobbiamo forgiare il destino del Partito e della Rivoluzione».
Il VKPD vive adesso in un’atmosfera surriscaldata; nonostante ciò, ancora una volta, non spetterà ad esso di provocare gli avvenimenti. Il 19 marzo 1921 il socialdemocratico Hörsing, capo della polizia della Sassonia prussiana, fa occupare la guarnigione di Mansfeld col chiaro intento di disarmare gli operai, ancora in armi dopo il putsch di Kapp. Il VKPD proclama lo sciopero generale e invita tutti gli operai tedeschi alle armi. L’appello però viene raccolto solo nella Germania centrale. Scontri tra dimostranti e polizia si hanno ad Halle, Berlino, Dresda e Lipsia, ma già il 28 marzo appare chiaro che l’azione è fallita. Il 31 il Partito stesso revoca l’azione. Ancora una volta il proletariato e il Partito Comunista subiscono una dura repressione. Il VKPD è duramente provato e vede di colpo dimezzare i propri iscritti.
La reazione dell’Internazionale non tarda ad arrivare. Tutto il III Congresso dell’I.C., giugno-luglio 1921, è incentrato sulla critica dell’Azione di Marzo. Sono noti gli argomenti di Lenin al III Congresso, che si risolvono nella formula: prima di chiamare il proletariato all’azione decisiva bisogna essere sicuri di averne conquistato la maggioranza ai principî del comunismo. Le critiche sono profondamente giuste e non possono non essere condivise da chi si richiama al marxismo. Ci sono però nell’atteggiamento dell’Internazionale alcune zone d’ombra. Nelle tesi sulla tattica del 12 luglio 1921, dopo aver premesso che il VKPD non ha saputo «elaborare in modo coerente la via per la quale si è incamminato con la lettera aperta», nel capitolo «gli insegnamenti dell’Azione di Marzo» si è molto espliciti:
«L’Azione di Marzo fu una lotta imposta al VKPD dall’attacco portato dal governo contro il proletariato della Germania centrale. In questa prima grande lotta che esso dovette sostenere dopo la sua fondazione, il VKPD commise però una serie di errori; il più rilevante di essi consiste nel fatto che non mise chiaramente in evidenza il carattere difensivo della lotta stessa, ma con il suo appello all’offensiva diede ai disonesti nemici del proletariato, la borghesia, il SPD e la USPD, il modo di denunciare il VKPD al proletariato come fomentatore di putsch. Questo errore fu reso ancora più grave in quanto numerosi compagni del Partito presentarono l’offensiva come il metodo principale di lotta nell’odierna situazione».
C’è dunque una novità nei rapporti tra l’I.C. e il Partito Tedesco: per la prima volta l’Internazionale sconfessa apertamente l’operato del Partito. È significativo che ciò avvenga proprio a proposito di una azione che aveva visto il VKPD tentare da solo di prendere il potere.
Gli argomenti di tale sconfessione sono quelli che subito dopo l’Azione di Marzo aveva usato Levi, l’accusa è di putschismo. Poca importanza viene data al fatto che, come la stessa Internazionale ammetterà «ponendosi coraggiosamente alla testa degli scioperi per difendere gli operai della Germania centrale», il VKPD ha dimostrato di essere il Partito rivoluzionario tedesco. Senza contare poi che avallare la tattica della “lettera aperta” di Levi significa aprire le porte della Internazionale alle tattiche manovriere, più ascrivibili nel campo opportunistico che in quello comunista. Del resto non è buon metodo di Partito sottacere le responsabilità dell’Esecutivo dell’I.C. e di chi, come Radek, Béla Kun e Poganyi, rappresentava questo in Germania, scaricando tutte le responsabilità sulla direzione del VKPD, nella persona di Brandler, che altro non aveva fatto che eseguire ordini e indirizzi.
L’Internazionale reputa ormai allontanarsi, se pur momentaneamente, la possibilità della presa del potere in occidente. Ne fa conseguire un atteggiamento che sintetizza nella parola d’ordine “alle masse”. Tale atteggiamento penalizza la possibilità per le frazioni di sinistra nell’Internazionale di elaborare una giusta tattica comunista per l’Europa. Per far ciò l’Internazionale “picchia” con argomenti di destra sulla sinistra, aprendo così le porte ad un metodo che di fatto favorisce quegli elementi, che lungi dall’aver compreso, come i bolscevichi, cosa fosse la giusta politica rivoluzionaria, aspirano solamente a muoversi in un ambito legalitario di chiaro stampo socialdemocratico. Ecco perché l’Internazionale non è in grado di comprendere la critica della Sinistra Italiana alla formula della “conquista della maggioranza”, la quale in occidente, mentre la situazione è di rinculo del movimento, non potrà non essere interpretata quale un invito a cimentarsi sul piano legalitario e parlamentare, il che non è certamente negli scopi della Internazionale stessa. Non è dunque buon metodo tentare di raddrizzare un errore per mezzo di un errore di segno opposto. Si indebolisce il Partito e si semina confusione tra il proletariato. Non a caso dopo il III Congresso l’Internazionale si pone su una china da cui non saprà più risollevarsi.
Il Fronte Unico e il Governo Operaio nelle tesi dell’Internazionale e nelle posizioni della Sinistra
Il P.C.d’Italia fin dalla sua costituzione si pose il problema di inquadrare sotto la bandiera del comunismo rivoluzionario strati sempre più larghi del proletariato e di liberare le grandi masse operaie dall’influenza socialdemocratica e collaborazionista del P.S.I. e dei caporioni della C.G.L. Il P.C.d’Italia fu il primo partito dell’Internazionale a lanciare la parola d’ordine del Fronte Unico sindacale. È bene ancora una volta ricordare come, malgrado le falsificazioni della storiografia stalinista, né l’Internazionale né Lenin in persona durante il 1921 mai mossero al P.C.d’Italia l’accusa di voler creare un partito di rivoluzionari “incontaminati” dal contatto con le masse. Al contrario, sia Lenin sia l’I.C., malgrado i dissidi in materia tattica, subito sorti e francamente dibattuti da ambo le parti, espressero positivi apprezzamenti tanto sulla scissione di Livorno quanto sulla tattica seguita successivamente dal P.C.d’Italia. Lenin al III Congresso dell’I.C., dichiarava:
«Per un movimento puramente comunista, in un paese come l’Italia (...) questa cifra di 58.000 comunisti è una cifra grande davvero. È una enorme vittoria, è una prova materiale, è un fatto che prova che la evoluzione del movimento operaio in Italia cammina più in fretta del nostro movimento in Russia (...) 58.000 operai sono già comunisti; è un fatto materiale che prova assolutamente, per tutti quelli che non vogliono chiudere gli occhi e vedere, che la massa operaia italiana verrà con noi (...) La vera classe sfruttata, l’avanguardia, è già con noi».
Nella lettera agli operai tedeschi del 14 agosto 1921, così scrive Lenin:
«La conquista della maggioranza non è certamente intesa da noi in modo formale come la intendono i paladini della democrazia filistea dell’Internazionale 2 e ½. Quando, nel luglio 1921, a Roma, tutto il proletariato – il proletariato riformista dei sindacati e il proletariato centrista di Serrati – ha seguito i comunisti contro i fascisti, è avvenuta la conquista della maggioranza della classe operaia da parte nostra. Eravamo ancora ben lontani dalla conquista decisiva; si trattava soltanto di una conquista parziale, momentanea, locale. Ma era la conquista della maggioranza. Tale conquista è possibile anche quando la maggioranza del proletariato segue formalmente i capi della borghesia o i capi che fanno una politica borghese (come fanno tutti i capi della Seconda Internazionale e dell’Internazionale 2 e ½) o quando la maggioranza del proletariato tentenna».
Tra questa valutazione di Lenin e il Fronte Unico sindacale auspicato dal P.C.d’Italia c’è, come si può vedere, la più perfetta sincronia. L’indirizzo fondamentale ed essenziale che il III Congresso della I.C. dava al P.C.d’Italia era il seguente:
«Il comunismo diverrà in Italia una attiva forza di massa se il P.C.d’Italia lotterà senza tregua, inflessibilmente, contro la politica opportunista di Serrati e avrà, nello stesso tempo, uno stretto legame con le masse proletarie nei sindacati, durante gli scioperi, nella lotta contro il movimento controrivoluzionario dei fascisti, se esso unificherà le azioni di massa della classe operaia e trasformerà le esplosioni spontanee in combattimenti accuratamente preparati».
Anche questo era soltanto quello che il P.C.d’Italia aveva fin dalla sua costituzione sempre messo in pratica. Le stesse Tesi sul Fronte Unico, approvate dall’Esecutivo dell’I.C. il 28 dicembre 1921, al punto 12 dichiaravano: «Il P.C. d’Italia potrà costituire un modello di marxismo combattivo per l’intera Internazionale». Non vogliamo certo nascondere le divergenze tattiche che esistevano tra l’I.C. e la sua sezione italiana, ma ciò non toglie che in materia dottrinale e strategica principî e fini nostri combaciassero con quelli dell’Internazionale.
Nulla avevamo da obiettare circa le conclusioni del III Congresso dell’I.C. che affermavano: 1) che per ottenere la vittoria rivoluzionaria non bastavano dei partiti comunisti solidamente inquadrati secondo i principî del marxismo rivoluzionario; 2) che occorreva che tali partiti avessero conquistato strati sempre più larghi del proletariato alla loro influenza politica e li avessero legati alla loro direzione attraverso la partecipazione attiva alle lotte ingaggiate dal proletariato per la difesa dei propri interessi materiali e contingenti.
Le nostre riserve ed obiezioni si riferivano alle troppe generiche parole d’ordine quali quelle della “conquista della maggioranza” e dell’andare “verso le masse”. Fummo perfettamente d’accordo anche sulle valutazioni della situazione generale con le quali si giustificava il Fronte Unico. Mettemmo però subito in guardia l’Internazionale dal non trarre da giuste premesse errate conclusioni, come ad esempio quella che i gruppi parlamentari comunisti avrebbero dovuto appoggiare la formazione di “governi operai” socialdemocratici per combattere governi borghesi di destra, parola d’ordine che verrà precisata al IV Congresso del novembre 1922.
Queste nostre obiezioni non furono mosse per mania di purezza, ma perché tali teorizzazioni discendevano da un errore, ormai non più soltanto tattico, enunciato già al punto 19 delle Tesi sul Fronte Unico del dicembre 1921, quando si richiamava il movimento comunista mondiale a seguire la tattica giustamente usata dal partito bolscevico in Russia dal 1903 al 1917. In Russia si trattava di combattere un regime zarista-feudale, dove la borghesia poteva svolgere un ruolo rivoluzionario e con la quale, se avesse condotto una politica conseguente, si poteva lottare per abbattere lo Stato, fermo restando il principio dell’indipendenza del partito al fine di sbarazzarsi della stessa borghesia non appena se ne fosse presentata l’occasione, come del resto puntualmente avvenne. Nei paesi dell’occidente ed in particolare modo in Germania questo non sarebbe stato più possibile perché ormai ogni movimento politico non comunista, socialisti inclusi, giocava un ruolo semplicemente controrivoluzionario.
Tali questioni, concernenti il rapporto tra il Partito e le altre forze e tendenze che si richiamavano al proletariato, furono il tema affrontato e sistemato nelle Tesi di Roma del marzo 1922, in base alle quali il P.C.d’Italia impostò la questione della tattica e dell’inquadramento della massa proletaria sotto la sua guida.
Già prima del congresso di Roma tuttavia il P.C.d’Italia le aveva affrontate alla luce dei problemi che si aprivano nella situazione italiana ed europea e di fronte ai quali gli interventi dell’Internazionale posero subito delle ambiguità. Ci si riferisce in particolare ad un articolo di Radek, “I compiti immediati dell’I.C.”, al “Manifesto agli operai di tutti i paesi”, redatto congiuntamente dall’I.C. e dall’Internazionale Sindacale Rossa, e alle “Tesi sul Fronte Unico” adottate dall’Esecutivo dell’I.C. alla fine di dicembre 1921.
La prima reazione del P.C.d’Italia fu quella di interpretare questi documenti non come un ripiegamento di posizioni, ma come un tentativo di portare sul terreno della lotta per la dittatura proletaria strati di lavoratori ancora succubi delle svariate risorse difensive controrivoluzionarie della borghesia mondiale. Il problema centrale era quello della conquista delle masse, che doveva essere intesa però come realizzazione di un’unità effettiva per la rivoluzione e non fine a se stessa. Le direttive dell’Esecutivo dell’I.C., seppure non inquadrassero del tutto correttamente tutta la questione, stabilivano dei punti fondamentali sufficientemente rassicuranti: 1) indipendenza dell’organizzazione dei partiti comunisti; 2) libertà di questi partiti nella critica e nella polemica di tutti gli altri partiti; 3) unità d’azione del Fronte proletario.
Dal gennaio 1922 apparve sull’Ordine Nuovo uno studio dal titolo La tattica dell’Internazionale comunista (ora pubblicato nel numero precedente di questa rivista). Vi erano confutate le denigrazioni socialdemocratiche su una pretesa inversione di rotta dell’I.C., secondo cui essa, riconosciuti i propri errori estremistici, avrebbe di fatto aderito alla tattica socialdemocratica della graduale e pacifica conquista del potere. D’altro canto si mettevano già in evidenza i pericoli che l’I.C. avrebbe corso se non si fosse prontamente provveduto ad un raddrizzamento di rotta, pericoli che avrebbero potuto portare i giovani partiti dell’occidente a smarrire l’orientamento della dottrina e dell’azione rivoluzionaria. Si richiama l’attenzione dei comunisti sulle condizioni oggettive e soggettive della Rivoluzione: l’adesione della maggioranza dei lavoratori è una condizione oggettiva necessaria ed indispensabile, ma è altrettanto necessario ed indispensabile che una minoranza sempre più estesa abbia una chiara coscienza e visione dello sviluppo della lotta. Tale minoranza, il Partito, non potrebbe inquadrare e disciplinare qualsiasi movimento, prescindendo dalle influenze che sul movimento stesso ha lo svolgimento dell’azione: «Il Partito non è il soggetto inalterabile delle astruserie filosofiche, ma è a sua volta un elemento oggettivo della situazione».
In questo testo, che servì di preparazione al congresso di Roma (marzo 1922), sono già centrati i problemi più gravi della tattica del P.C.d’Italia, in relazione alle condizioni materiali della Rivoluzione, riferite non solo alla situazione italiana ma a quella internazionale. Il rischio più grave delle proposte avanzate dall’Esecutivo dell’I.C. viene individuato nella mancanza di chiare indicazioni pratiche sulla “conquista delle masse”, tali da escludere volontarismo e pragmatismo che, pur potendo dare vantaggi parziali al proletariato, sacrificherebbero inevitabilmente la capacità del Partito di guidarlo nel momento cruciale e decisivo dello scontro.
Le Tesi sulla tattica presentate al II Congresso, di Roma, del P.C.d’Italia ed approvate a grande maggioranza, prima ancora di essere presentate al congresso, furono difese dalla delegazione italiana al I Esecutivo Allargato di Mosca del febbraio 1922. Esse rimasero in minoranza; d’altra parte quelle sul Fronte Unico già approvate dall’Esecutivo ristretto del dicembre 1921 non corrispondevano, nel loro contenuto, al significato globale delle nostre.
Si presentò a questo punto il problema se una sezione dell’I.C. avesse potuto adottare delle tesi che fossero, anche parzialmente, in contrasto con quelle approvate nei congressi e nei convegni dell’Internazionale. Non avendo precise istruzioni da Mosca (il Presidium dell’Internazionale si impegnò ad inviare una lettera chiarificatrice, ma le sue osservazioni, sulle quali torneremo, giunsero dopo il congresso di Roma) il congresso, di fronte all’avvenuta approvazione delle tesi tattiche da parte dello E.A. dell’I.C., prima di iniziare ogni discussione, approvò per acclamazione una mozione secondo la quale si assumeva, in nome del Partito, solenne impegno che tutta l’azione che il P.C.d’Italia esplicherà dopo il congresso sarà guidata dalle norme tattiche che l’Internazionale, giusta la deliberazione presa in tal senso dall’E.A., stabilirà per l’Italia in base all’esame della situazione svolta d’accordo con la nuova Centrale del Partito e dal Presidium dell’I.C.
Ciò non volle dire però che il congresso si sarebbe astenuto dal votare le Tesi; anzi il voto divenne una necessità perché l’I.C. sapesse che le Tesi di Roma non rappresentavano il pensiero della sola Centrale ma la coscienza della schiacciante maggioranza del partito, come a Mosca Roberto e Terracini avevano detto. Le tesi di Roma dunque non furono presentate per stabilire quali azioni avrebbe dovuto intraprendere il Partito in Italia; non avevano soltanto un valore nazionale, ma costituivano il «nostro contributo alla definizione dei problemi complessi e fondamentali interessanti tutto quanto il movimento comunista internazionale» (dalla discussione delle tesi).
Le tesi furono compilate prendendo quale base di partenza i 10 punti programmatici formulati all’atto di costituzione del Partito a Livorno. Avendo stabilito la funzione storica del Partito si trattava di entrare nei dettagli di applicazione per fissare con il massimo possibile di precisione le regole tattiche corrispondenti alle varie situazioni che il Partito, nello svilupparsi degli avvenimenti, si sarebbe trovato a risolvere. La sua assidua opera di penetrazione all’interno della classe operaia deve innanzi tutto esplicarsi nella partecipazione proficua ad ogni azione concreta del proletariato. Così dicono le Tesi:
«Dovunque un gruppo, sia pure esiguo, di lavoratori si è costituito per lottare sul terreno della lotta di classe, il Partito Comunista deve portare la sua parola ed il suo incitamento, anche se questa azione presenta solo rudimentalmente ed in forma embrionale i caratteri propri ad una azione prettamente rivoluzionaria; non è mai il caso di estraniarsi od irridere: bisogna sempre intervenire, perché attraverso la lotta qualunque movimento, per quanto poco rilevante e poco deciso sia, al suo inizio, finirà con l’inquadrarsi nel complesso delle attività rivoluzionarie del proletariato».
Un aspetto connesso riguarda l’atteggiamento del Partito Comunista nei confronti degli altri partiti che hanno le proprie basi di adesione all’interno della classe lavoratrice. Essi il più delle volte inquadrano, solo per irretirla, la maggioranza del proletariato, maggioranza che il Partito si prefigge di influenzare. Il compito che il Partito si pone è come conquistare la maggioranza del proletariato. Su questo argomento sia il P.C.d’Italia sia l’I.C. concordavano nelle linee essenziali, cioè che assistevamo ad una massiccia offensiva del capitale intenzionato a sbarazzarsi non soltanto delle minoranze rivoluzionarie ma di ogni tipo di organizzazione difensiva del proletariato. Si trattava dunque di chiedere alla classe operaia non l’ “assalto al cielo”, ma la difesa della propria esistenza:
«Non più il dissidio tra noi e i riformisti sta in ciò: che noi dicevamo “domandiamo tutto” e i riformisti rispondevano “domandiamo poco”. Noi ci limitiamo a chiedere alla classe lavoratrice se essa vuole resistere all’offensiva capitalistica. Se noi diciamo oggi, quindi, “difesa del salario”, non abbiamo bisogno di aggiungere “lotta contro la classe borghese”. L’una è semplicemente un aspetto dell’altra». (dalla discussione delle Tesi).
Questo era l’unico sistema per costringere i socialdemocratici a gettare la maschera e per provare che essi rifiutano perfino di lottare per quelle rivendicazioni che, a prima vista, potrebbero sembrare “minimaliste”, rivelando così la loro funzione antiproletaria con conseguente passaggio di grandi masse lavoratrici dal campo della socialdemocrazia a quello del comunismo. Fin qui esisteva fra P.C.d’Italia e l’I.C. una pressoché totale identità di vedute. Ma, a differenza dell’Internazionale, il P.C.d’Italia riteneva indispensabile, proprio per ottenere tale scopo, conservare indipendenti i propri organi militari, elettorali, ecc., perché solo in questa indipendenza stava la possibilità di contrapporre l’azione rivoluzionaria del Partito a quella collaborazionista della socialdemocrazia:
«Solo così ci sarà possibile far convergere l’attenzione del proletariato sul nostro Partito; solo così possiamo essere certi che quando in una data situazione i riformisti tenteranno di strozzare lo sviluppo di un certo movimento, noi saremo in grado, se lo riterremo opportuno, di continuare a dirigerlo fino alla vittoria, oppure non avremo la responsabilità della sconfitta».
Tale tattica non può essere considerata meramente sindacale; essa è uno strumento prevalentemente politico nella lotta permanente tra proletariato e capitalismo. Il Fronte Unico sindacale, o “dal basso”, serviva a varcare ogni limite di categoria o di località, a cancellare i residui di tendenze corporative. Era un fatto eminentemente politico perché sviluppava l’inquadramento delle masse proletarie sotto la guida politica del Partito di classe:
«Così e non altrimenti noi ci poniamo il problema dell’inquadramento delle masse. I compagni dell’I.C. riconoscendo più volte che il P.C.d’Italia merita di essere portato ad esempio di partito veramente marxista, hanno implicitamente riconosciuto la bontà della nostra tattica».
La quinta parte delle Tesi di Roma affronta la questione di come possa il Partito, in assenza di forze sue proprie per sferrare l’assalto al potere borghese, determinare sviluppi della situazione in senso favorevole alle proprie finalità ed in modo da affrettare il momento in cui sarà possibile l’azione risolutiva rivoluzionaria. Non escludendo nessun mezzo, le Tesi però pongono un limite invalicabile:
«Le iniziative, gli atteggiamenti, non devono in alcun modo essere o apparire in contraddizione con le esigenze della lotta specifica del Partito».
I punti 37, 38, 39 delle Tesi prendono in considerazione anche l’eventualità che la destra borghese dia l’assalto al governo, strappandolo alla socialdemocrazia. Il Partito non solidarizzerà col governo “di sinistra”, già denunciato come assertore della conservazione capitalistica. Dicono le Tesi al punto 38:
«Potrà avvenire che il governo di sinistra lasci compiere ad organizzazioni di destra, a bande bianche borghesi, le loro gesta contro il proletariato e le sue istituzioni, e non solo non chieda l’appoggio del proletariato ma pretenda che questo non abbia il diritto di rispondere organizzando una resistenza armata. In tal caso i comunisti dimostreranno come non possa trattarsi che di una effettiva complicità, anzi di una divisione di funzioni tra governo liberale e forze irregolari reazionarie: la borghesia allora non discute più se le convenga meglio il metodo dell’addormentamento democratico e riformista o quello della repressione violenta, ma li impiega tutti e due nello stesso tempo. In questa situazione il vero e peggiore nemico della preparazione rivoluzionaria è la parte liberale governante: essa illude il proletariato che ne prenderà la difesa in nome della legalità per trovarlo inerme e disorganizzato e poterlo prostrare, in pieno accordo con i bianchi, il giorno che esso si trovasse messo dalla forza degli eventi nella necessità di lottare contro l’apparecchio legale che presiede al suo sfruttamento».
Anche le Tesi 34 e 36 trattano di un ipotetico accordo del Partito Comunista con il blocco della sinistra borghese e stabiliscono che sarebbe controproducente per il Partito, che ne uscirebbe indebolito, dovendo esso sollecitare le masse proletarie a battersi contro qualsiasi coalizione governativa. La Tesi 35, di fronte alla possibilità che l’accordo per il “governo di sinistra” contenga rivendicazioni in parte interessanti il proletariato anche se con scopi demagogici ed in maniera diversiva, sostiene che il Partito inviterà il proletariato ad “accettare le concessioni della sinistra come un’esperienza” su cui i comunisti anticiperanno il loro fondato pessimismo.
Netto era il rifiuto del P.C.d’Italia quanto al Fronte Unico politico come metodo d’azione finalizzato alla costituzione di un “governo operaio”. Ciò perché il compito essenziale di un Partito Comunista sta nella preparazione materiale ed ideale del proletariato alla lotta rivoluzionaria per la sua dittatura. Il Partito deve condurre una critica spietata al programma della sinistra borghese e ad ogni programma che ritenga possibile trarre la soluzione dei problemi sociali nell’ambito delle istituzioni democratiche e parlamentari. La socialdemocrazia attua le condizioni di maggior respiro e di più efficace difesa del capitalismo dando alle masse l’illusione di poter utilizzare le istituzioni borghesi per la propria emancipazione. Così il punto 33:
«L’avvento di un governo della sinistra borghese o anche di un governo socialdemocratico possono essere considerati come un avviamento alla lotta definitiva per la dittatura proletaria, ma non nel senso che la loro opera creerebbe utili premesse di ordine economico e politico, e mai più per la speranza che concederebbero al proletariato maggiore libertà di organizzazione, di preparazione, di azione rivoluzionaria. Il Partito Comunista sa e ha il dovere di proclamare, in forza di ragioni critiche e di una sanguinosa esperienza, che questi governi non rispetterebbero la libertà di movimento del proletariato che fino al momento in cui questo li ravvisasse e li difendesse come propri rappresentanti, mentre dinanzi ad un assalto delle masse contro la macchina dello Stato democratico risponderebbero con la più feroce reazione.
«È quindi in un senso ben diverso che l’avvento di questi governi può essere utile: in quanto cioè la loro opera permetterà al proletariato di dedurre dai fatti la reale esperienza che solo la instaurazione della sua dittatura dà luogo ad una reale sconfitta del capitalismo. È evidente che la utilizzazione di una simile esperienza avverrà in modo efficace solo nella misura in cui il Partito Comunista avrà preventivamente denunziato tale fallimento, e avrà conservata una salda organizzazione indipendente attorno a cui il proletariato potrà raggrupparsi allorquando sarà costretto ad abbandonare i gruppi e i partiti che avrà in parte sostenuto nel loro esperimento di governo».
Questo poderoso corpo di tesi, nell’accettare lo spirito della tattica elaborata dell’Internazionale dal III Congresso fino alle stesse Tesi del dicembre ’21 dell’Esecutivo, voleva da un lato preservare il P.C.d’Italia e l’Internazionale stessa da ogni visione avventuristica della lotta rivoluzionaria, senza, dall’altro, ricadere nel più vieto opportunismo dal quale si era appena usciti.
La critica che ne fece il Presidium dell’I.C., in occasione del 1° E.A. del febbraio 1922, fu del tutto inadeguata e perfino ingenerosa. Essa, fatta arrivare all’Esecutivo del P.C.d’Italia in ritardo rispetto al congresso di Roma sotto forma di una serie di “Osservazioni” pubblicate su “Lo Stato Operaio” del 24 aprile 1924, si svolgeva su due piani.
Innanzi tutto rilevava una presunta mancanza di un’analisi precisa della situazione italiana e di un programma d’azione particolareggiato a breve scadenza, senza vedere come dalle formulazioni generali delle Tesi risultassero invece del tutto definite, chiare e precisamente delimitate, le norme di azione pratica del Partito. In secondo luogo si accusava il Partito Italiano di avere espresso in queste Tesi un modo di considerare le questioni tattiche assolutamente infantile e settario, proprio perché, nello stabilire i compiti del Partito, si preoccupava di salvaguardarne la compattezza, la indipendenza organizzativa, in definitiva quegli stessi principî che anche le Tesi dell’Internazionale dichiaravano di voler difendere, senza però precisare come.
Il Presidium dell’Internazionale faceva questo genere di critiche alle Tesi di Roma, mentre durante i lavori del 1° E.A. Zinoviev, riconfermando le Tesi del dicembre ’21, ne accentuava i caratteri “parlamentari”:
«Se i comunisti hanno 5 voti (al parlamento), dai quali dipende la creazione di un “governo operaio” o di un governo borghese, se questi 5 voti favoriscono un governo borghese, come potremo legittimarlo di fronte agli operai senza partito? (...) Non dobbiamo urtare le masse operaie favorendo un governo borghese quando possiamo eleggere un governo operaio» (dalla relazione di Zinoviev al 1° E.A. del febbraio 1922).
È opportuno riportare alcuni passi delle Osservazioni del Presidium dell’I.C. alle Tesi di Roma perché mettono bene in luce proprio quei difetti che si temeva di veder riapparire, consistenti in definitiva in un modo di vedere la tattica eccessivamente volontaristico, come se il Partito non fosse a sua volta elemento oggettivo delle situazioni, ricadendo così nell’eclettismo e nel pragmatismo propri dei Partiti socialisti. C’è innanzi tutto una critica di sindacalismo del tutto fuori luogo, poiché avevamo abbondantemente spiegato che la base sindacale del Fronte Unico non significava assolutamente che si escluda l’azione politica:
«Se il C.C. del P.C.d’Italia avesse studiato attentamente la questione avrebbe capito che voler limitare il fronte unico ai sindacati non è altro che un punto di vista sindacalista, poiché solo se si ammette che i più importanti problemi della classe possono essere risolti per mezzo dell’azione sindacale, solo in questo caso si può tentare di eliminare i partiti politici. Se non è così, se ogni più grande lotta economica diventa una lotta politica, allora il Partito Comunista ha il dovere di tentare la lotta per gli interessi del proletariato insieme con gli altri partiti operai, costringendoli ad inquadrarsi nel fronte comune».
C’è inoltre una visione delle lotte proletarie puramente volontaristica, in quanto si attribuisce al P.S.I. capacità di provocarla:
«Noi invitiamo il Partito italiano a lottare per lo scioglimento della Camera allo scopo di instaurare un governo operaio. Fissando un programma minimo per le rivendicazioni da realizzare dal governo operaio, i comunisti devono dichiararsi pronti a formare un blocco col partito socialdemocratico ed appoggiarlo, per quanto esso difenda gli interessi della classe operaia. Se il P.S.I. acconsentirà incominceranno le lotte, le quali saranno trasportate dal terreno parlamentare in altri campi (...) Se il P.S.I. respinge la nostra proposta, allora le masse si persuaderanno che noi abbiamo mostrato loro una via concreta e che il P.S.I. invece non sa che fare».
E così le Tesi di Roma non potevano apparire diverse da un insieme di frasi generiche, settarie e tipiche di un radicalismo infantile:
«Le Tesi della Direzione del Partito – concludono le Osservazioni del Presidium – dimostrano che essa non ha superato l’infantilismo, la malattia di un giovane e sterile radicalismo, di un radicalismo il quale si risolve in una paura settaria del contatto con la vita reale, in una mancanza di fiducia nelle proprie forze e nella tendenza rivoluzionaria della classe operaia quando questa entra il lotta».
Intanto la lotta di classe in Italia, anche se il proletariato doveva ormai subire l’offensiva borghese, non poteva dirsi del tutto spenta. In varie occasioni la Direzione della C.G.L. fu costretta a proclamare la lotta contro il padronato, ma non perdeva occasione per attenuarla, per frazionarla ed incanalarla nelle sabbie della legalità. Il P.C.d’Italia non solo non invitava gli operai a disertare queste lotte col pretesto che erano guidate dai riformisti; incitava invece a seguire quelle direttive premettendo però che non si sarebbero realizzate a favore dei lavoratori se non le avessero perseguite con forza e impegno di classe, incalzando i loro dirigenti, controllando che non venissero barattate con un decadimento della loro organizzazione (come avvenne nel caso del patto di pacificazione con i fascisti).
In realtà le lotte operaie in questo periodo erano sostenute solamente dal Partito Comunista, cioè dai suoi militanti nel sindacato, mentre da parte della dirigenza della C.G.L. si compivano solo sabotaggi ed erano espulsi quei gruppi che agivano in contrasto con le direttive sindacali. Si limitò il diritto di sciopero nei servizi pubblici e l’azione antiproletaria dei bonzi sindacali e del P.S.I. arrivò a soffocare, con inviti alla calma e alla rassegnazione, le più coraggiose ed estese lotte contadine, come avvenne nel ferrarese, lasciando i contadini in balia di se stessi e quindi provocando non solo la fine delle lotte sotto le gravi rappresaglie fasciste, ma anche la loro iscrizione ai sindacati autonomi controllati dall’Agraria.
Tutte queste azioni di sabotaggio, repressione e tradimento ebbero come sbocco il “Patto di pacificazione” con i fascisti che legittimava, in nome della pace sociale, la repressione delle lotte, l’imposizione di patti-capestro, l’intimidazione degli operai che vi si opponevano. I fascisti giustificarono tale patto in nome di una questione “umanitaria”, per cui ogni lotta cruenta doveva essere abbandonata e le lotte politiche ed economiche dovevano rientrare nel loro “terreno naturale”. La grave responsabilità dei socialisti stava proprio nella mancanza di ogni risposta all’offensiva cruenta del Capitale. Il risultato non poteva non essere che lo svilimento del proletariato e l’intensificazione della reazione borghese.
Il P.C.d’Italia rifiutò di sottoscrivere il Patto di pacificazione e lavorò intensamente affinché si sostenessero rivendicazioni immediate contro i licenziamenti, i bassi salari, la repressione legale ed illegale, sostenendo queste azioni difensive con la prospettiva di realizzare un fronte sindacale unitario. L’appello dei comunisti nel sindacato comprendeva una serie di punti precisi: 8 ore di lavoro, rispetto dei contratti vigenti, rispetto dei patti colonici, assicurazione dell’assistenza per i lavoratori licenziati e per le loro famiglie attraverso un indennizzo proporzionato al costo della vita e al numero dei componenti la famiglia, gravando ogni onere sulla classe padronale e sullo Stato. E si chiedeva a tutti i proletari che tali punti fossero «elevati a questioni di principio», o, in altri termini, che ci si dichiarasse pronti a sostenerli fino in fondo con il metodo dello sciopero generale nazionale.
Intanto, sentendosi incontrastati e protetti dallo Stato, i fascisti continuavano ad uccidere e devastare le sedi delle organizzazioni proletarie, senza tuttavia riuscire a distruggere completamente l’organizzazione di classe. Risale a questo periodo lo sciopero dei ferrovieri di Roma proprio a causa dell’uccisione di un loro compagno per mano fascista. Questo sciopero si estese ben presto a tutta la provincia ed in tutte le categorie dei servizi pubblici e provocò una spietata reazione delle guardie bianche, che tuttavia non ottenne alcun cedimento da parte degli scioperanti. In questa occasione anzi si poté verificare la costituzione spontanea di quel fronte unico proletario che i comunisti già da tempo sostenevano. Ai ferrovieri romani giunsero dispacci dello S.F.I. che tentava di indurli a sospendere lo sciopero, ma il compartimento di Roma era diretto da comunisti e non mollò la lotta, che ben presto si attirò la solidarietà dei ferrovieri di Ancona, di Napoli, di Reggio Calabria, i quali scesero in sciopero e lo continuarono nonostante le intimidazioni del governo Bonomi e dei dirigenti dello S.F.I. e si prospettò la possibilità che assumesse un carattere nazionale. Lo S.F.I., composto in prevalenza di anarchici e socialisti, non accettò di proclamare lo sciopero generale della categoria come chiedevano i comunisti.
Ma la spinta della lotta era veramente forte: accanto ai ferrovieri scesero in lotta gli operai metallurgici liguri per il contratto di lavoro poi quelli della Venezia Giulia, sui quali si abbatté ferocemente la reazione fascista. I dirigenti sindacali, timorosi dell’espandersi delle lotte, firmarono un accordo per porre fine alla vertenza dei metallurgici: fu accettata una riduzione dei salari del 10% e ancor più dure furono le condizioni per gli operai metallurgici della Toscana e dell’Emilia. Numerosi furono i licenziamenti. Alla capitolazione imposta dai bonzi ai metallurgici seguì quella imposta agli operai lanieri che videro i loro salari ridotti del 20%. La tattica degli scioperi “ad ondate” voluta dai riformisti in contraddizione con lo sciopero generale voluto dal P.C.d’Italia, si rivelò disastrosa in quanto le vertenze sindacali si risolvevano sempre su basi più svantaggiose. I fatti davano ragione ai comunisti che costantemente avevano ribadito che quella tattica si sarebbe risolta in una progressiva riduzione della forza d’urto dell’esercito proletario.
L’azione dei dirigenti confederali sgretolava ogni giorno la volontà di lotta del proletariato, nelle città i fascisti potevano esercitare il loro terrorismo dopo l’opera disfattista dei riformisti, protetti dallo Stato e finanziati dagli industriali, che avevano notevolmente apprezzato l’opera svolta nelle campagne: così fu definitivamente spezzata la forza del proletariato italiano nel primo dopoguerra rivoluzionario.
Il Progetto di programma d’azione presentato dal P.C.d’Italia al IV Congresso dell’I.C. propose delle specifiche iniziative, sfatando così anche l’accusa di genericità fatta dal Presidium alle Tesi di Roma. Esso si basava sull’analisi della situazione della lotta di classe in Italia, come è stata sinteticamente sopra riferita e come è possibile rintracciare in trattazioni ancora più esaurienti fatte dal Partito. Il Progetto fa riferimento alle condizioni generali economiche in Italia, alle finanze dello Stato, dei comuni, alle condizioni dell’industria e dell’agricoltura, al precipizio della Lira. L’analisi delle condizioni del proletariato mette in primo piano l’offensiva capitalistica e la crisi del P.S.I., l’una concatenata all’altra, reciprocamente causa ed effetto, ma diversamente martellanti sulla compagine organizzativa del proletariato. Le forme dell’offensiva derivano dal modo in cui si era costituita nei due campi della produzione (industria ed agricoltura) la potenza del proletariato, dai rapporti che si erano formati nel suo interno e tra la massa e gli altri ceti sociali, dagli aspetti della sua organizzazione, dalla psicologia diversa dei lavoratori agricoli e di quelli industriali.
Questa offensiva in Italia è diretta e condotta con scientifici criteri dalle organizzazioni della classe borghese. E c’è ancora chi ha il coraggio di affermare che la Sinistra sottovalutò il pericolo fascista!
Sconvolte le file del proletariato era stato facile per la borghesia passare all’offensiva antisindacale: l’opera di massacro dei dirigenti sindacali più combattivi e di distruzione delle sedi proletarie era stata facilitata dal pauroso estendersi della disoccupazione. Nella relazione introduttiva al Progetto si riferisce che la condizione dei disoccupati in Italia era spaventosa: non solo aveva carattere di continuità, ma non era nemmeno prevista alcuna forma di assistenza in una situazione in cui il costo della vita era quintuplicato rispetto all’anteguerra.
In
questo contesto l’attività del P.C.d’Italia in campo sindacale tra
il III e il IV Congresso dell’I.C. non si era affatto esaurita,
nonostante che i comunisti, il più delle volte, rimanessero isolati
nel tentare di organizzare la difesa delle più elementari esigenze e
molto spesso della stessa vita dei proletari, abbandonati da tutti ed
in primo luogo proprio dal P.S.I. Nel Progetto si riferisce anche che
fu proprio per l’azione pressante dei comunisti che si costituì nel
febbraio 1922 l’Alleanza del Lavoro tra la C.G.L., la U.I.L., il
S.F.I. e la Confederazione dei lavoratori portuali. Il P.C.d’Italia
sostenne questo organismo, ma mise subito in guardia i lavoratori del
pericolo che gli opportunisti ne potessero fare un mezzo per
mascherare i loro cedimenti e il loro disfattismo. Contemporaneamente
il Partito condusse, attraverso la sua rete sindacale, una campagna
per questi punti fondamentali:
1)
Il Fronte Unico doveva essere organizzato attraverso una vasta
rappresentanza delle masse, con comitati locali eletti da tutti i
sindacati, e attraverso l’iniziativa di un grande convegno
nazionale sindacale dal quale doveva essere eletto un organismo
direttivo con la partecipazione di tutte le frazioni sindacali
proletarie sulla base di una piattaforma comune.
2)
Il Fronte Unico doveva essere non una semplice intesa tra gli uffici
delle centrali sindacali, ma l’alleanza di tutte le categorie
proletarie e di tutte le Camere del Lavoro locali.
3)
Dovevano essere stabiliti dei postulati da difendere con l’azione
solidale di tutto il proletariato, fra i quali doveva primeggiare la
difesa dell’organizzazione sindacale ed il mantenimento dei livelli
salariali.
4)
I mezzi d’azione non dovevano essere subordinati ad una piattaforma
di natura parlamentare, ma dovevano restare sul terreno dell’azione
diretta sindacale, di pressione sulla borghesia e sullo Stato, usando
come mezzo decisivo lo sciopero generale nazionale.
In questi punti era implicita la totale divergenza del P.C.d’Italia dagli altri Partiti che vollero l’Alleanza del Lavoro «per la restaurazione delle pubbliche libertà e del diritto comune». Il P.C.d’Italia si proponeva, tramite le sue forze sindacali, di svolgere un vigile lavoro affinché l’Alleanza del Lavoro non fosse condotta a sostenere «il governo migliore» secondo la propaganda disfattista fatta in mezzo al proletariato dal P.S.I. La tattica che il P.C.d’Italia seguì per ottenere un tale risultato fu quella della sua indipendenza e dell’opposizione più rigida ad ogni piano legalitario, un risultato perfettamente antitetico a quello dei socialisti che presentavano invece l’Alleanza come il mezzo per battere il fascismo e sostenere «un governo di sinistra», come tentarono di fare durante lo sciopero dell’agosto 1922, da Turati definito per questo «legalitario». Nonostante la situazione molto sfavorevole al P.C.d’Italia non si può dire che i risultati fossero scadenti: le agitazioni della primavera del 1922 prima descritte lo dimostrarono e lo dimostrò anche il fatto che al Consiglio Nazionale della C.G.L., convocato in seguito a queste lotte, risultò che i comunisti avevano guadagnato parecchi sindacati e Camere del Lavoro come a Trento, a Roma, Como, Vercelli, l’Aquila ed altre.
Nel settembre 1922, dopo l’ennesimo tradimento socialista dell’ultimo potente sciopero del proletariato italiano (agosto 1922), facendosi ancora più feroce l’offensiva fascista, nonostante tutti i Patti di pacificazione, il P.C.d’Italia fece una proposta precisa di difesa dei sindacati con una lettera a tutte le frazioni sindacali di sinistra, in cui si riaffermava la validità dell’organizzazione dell’Alleanza del Lavoro, che i riformisti invece vollero subito sciogliere e che nessun’altra corrente politica fu disposta a difendere.
Basandosi su questa analisi dei fatti italiani, il Progetto di programma d’azione stabiliva queste direttive in campo sindacale:
1) Conquista delle masse. La conquista delle masse si deve realizzare con un’azione intensa e complessa in tutti i campi della lotta e della vita proletaria con la partecipazione del Partito in prima linea anche in lotte parziali e contingenti, accompagnandola alla critica incessante verso gli altri partiti opportunisti.
2) I comunisti nei sindacati. Il P.C.d’Italia, con il suo lavoro nella C.G.L., nello S.F.I., nella U.I.L., nella Federazione dei lavoratori portuali, nella Lega nazionale delle Cooperative, nella Lega proletaria dei mutilati ed invalidi di guerra, si proponeva l’unificazione dei grandi organismi sindacali classisti, alla condizione che fosse garantita la possibilità della sua azione e propaganda e che fosse evitata ogni sottomissione allo Stato.
3) Influenza sugli strati del proletariato non organizzato. Il Partito si doveva prefiggere una tale influenza sostenendo le rivendicazioni immediate più urgenti per questi proletari. In particolare si doveva porre in primo piano la questione della disoccupazione, proponendo la costituzione di Comitati di agitazioni di disoccupati. Il Partito inoltre si sarebbe sempre proposto di rivolgersi direttamente a tutta la massa del proletariato invitandola a lottare per rivendicazioni materiali che potevano essere di natura strettamente economica, oppure importare un certo onere per lo Stato, come i sussidi di disoccupazione. Tutte queste rivendicazioni erano giudicate ammissibili ed inquadrabili nella lotta del Partito, purché fossero considerate raggiungibili solo attraverso la lotta e l’azione diretta.
4) Collaborazione per un’efficace azione militare. Al punto 19 si pone il problema della collaborazione con altri partiti a base proletaria allo scopo di ottenere una più efficace azione militare. Non si esclude la collaborazione, ma si pongono condizioni precise: che la direzione sia affidata a comitati tecnici, ai quali il P.C.d’Italia avrebbe aderito, tenendo però ben distinto ed indipendente il proprio inquadramento militare:
«Non è opportuno costituire tali comitati locali con la rappresentanza diretta del Partito, in nessun caso con carattere di intesa politica, e nemmeno con carattere di intesa militare quando manchi l’accordo nazionale in tale campo, poiché la nostra opera di conquista delle masse sarebbe paralizzata (...) se si valorizzassero partiti come naturalmente adatti a sostenere quanto noi la lotta, attraverso organizzazioni improvvisate e locali. L’esperienza sta a dimostrare poi la sterilità dell’azione di detti comitati, chiamati talvolta di “difesa proletaria”, e la convenienza di lasciare organizzare la confluenza dei lavoratori di ogni partito in una difesa comune attraverso gli organi locali di un “Fronte Unico” altrimenti costituito su base di tipo sindacale che siano permanenti (...)
«Quanti più tali organi diventano complessi e confusi tanto più si verifica la penetrazione di elementi infidi, non aventi chiaro mandato e responsabilità e speculanti per conto di gruppi borghesi su spontanei movimenti di masse, come avvenne per gli Arditi del popolo (...) Sarà tuttavia opportuno disporre che, mentre i comunisti non prenderanno mai l’iniziativa di tali improvvisazioni, specie poi dove sono in prevalenza, abbiano ad aderire a comitati quali che siano se, malgrado le loro proposte contrarie, essi sorgessero, allo scopo di non perdere il contatto con le masse ed apparire loro estranei alla lotta. In nessun caso però i comunisti potranno entrare a far parte di organismi di tipo militare che esigono una disciplina diversa da quella del loro partito e del loro inquadramento sindacale».
5) Obiettivi del Fronte Unico e strategia del Partito Comunista.
L’obiettivo fondamentale dell’azione del P.C.d’Italia è la costituzione del Fronte Unico proletario per la conquista delle masse proletarie alla sua direzione, di cui se è già avuto un largo esperimento nella Alleanza del Lavoro e specialmente nello sciopero generale dell’agosto ’22. I comunisti agiranno per la conservazione e la riorganizzazione dell’Alleanza del Lavoro sabotata con ogni mezzo dai riformisti, proponendo un’unità di azione alle altre frazioni sindacali di sinistra su tale obiettivo. Gli organi dell’Alleanza del Lavoro dovrebbero essere costituiti nella maniera seguente: innanzi tutto l’organizzazione comune deve basarsi su una intesa centrale tra i vari organismi sindacali nazionali, dalla quale si avrebbe la formazione immediata di un Comitato Nazionale composto secondo una rappresentanza proporzionale alle frazioni sindacali e, su base locale, la formazione di comitati locali composti analogamente. Il mezzo fondamentale di azione dell’Alleanza è per i comunisti lo sciopero generale. Si pone però anche la questione del comportamento dei comunisti quando gli organi dirigenti dell’Alleanza così costituita non accettassero le proposte della Frazione Comunista. Ed anche tale questione è risolta ben al di fuori di ogni apriorismo, cercando al contempo di non rompere l’unità della organizzazione di classe e di assicurare al Partito Comunista la guida delle masse che potrebbero anche agire in senso rivoluzionario contro la volontà di tutti gli altri partiti
«Il contegno del Partito Comunista fin quando l’organo del Fronte Unico non accoglie le sue proposte deve essere quello di mantenersi ben disciplinato e non minacciare di agire da solo e per suo conto, ma nello stesso tempo di condurre tra le masse una campagna intensa provocando nei sindacati ed in ogni altra sede voti contro le tendenze prevalenti nel Fronte Unico che ne paralizzano l’azione e l’efficienza. Queste manifestazioni delle masse saranno utilizzate a migliorare incessantemente l’inquadramento e le posizioni del Partito (...) Il contegno del Partito, quando gli organi del Fronte Unico, pur non essendo in maggioranza comunisti, abbiano deciso l’azione, sarà di parteciparvi in ogni eventualità con il massimo slancio e la massima energia, nel tempo stesso facendo pervenire per via interna o per le dichiarazioni dei suoi delegati le sue riserve sul modo con cui l’azione è allestita (...) Nel corso del movimento il Partito Comunista, tenendosene al corrente per mezzo dei suoi collegamenti interni, farà ad ogni momento le proposte opportune agli organi dirigenti.
«Se questi si accingessero a fermare il movimento durante un favorevole sviluppo di esso, il Partito Comunista eseguirà la disposizione per disciplina, salvo a riversarne la responsabilità su chi malgrado il suo parere ha voluto emanarla. Nella sola ipotesi che la lotta avesse talmente spostato i rapporti delle forze da dare al Partito Comunista un’influenza dominante, questo potrebbe forzare la situazione afferrando la dirigenza del movimento tradito dai suoi capi primitivi».
Queste precise proposte di azione, basate su di una analisi anche minuziosa della situazione italiana, furono la migliore risposta alle accuse dell’Internazionale di «paura settaria della realtà» riferite alle Tesi di Roma. Erano anche la migliore prova che era possibile definire le norme tattiche nella maniera più chiara e precisa possibile in modo da salvaguardare il carattere rivoluzionario del Partito. Seguendo viceversa il metodo usato dall’I.C., già durante l’anno che va dal dicembre 1921 al novembre 1922 (data del IV Congresso dell’Internazionale) si erano verificate le conseguenze temute subito dalla Sinistra. Alle vaghe formulazioni dei compiti tattici erano seguiti i più diversi atteggiamenti dei Partiti Comunisti, con il che si verificava nuovamente nell’attività dell’Internazionale quella scissione tra teoria e pratica che era stata la caratteristica più temibile dell’opportunismo socialdemocratico. Purtroppo al IV Congresso dell’I.C. gli organi dirigenti di questa non furono in grado di recepire il tempestivo contributo della Sinistra, l’unico che avrebbe permesso di non innescare quel meccanismo che poi avrebbe necessariamente portato alla degenerazione.
Il problema del Fronte Unico e del Governo Operaio fu il tema centrale del rapporto di Radek al IV Congresso dell’I.C. sull’offensiva capitalistica ed anche delle Tesi redatte e presentate da Zinoviev, che furono una elaborazione delle Tesi dell’Esecutivo del dicembre ’21. In esse si cercò il compromesso tra coloro che volevano il “Fronte Unico dall’alto” e coloro che volevano il “Fronte Unico dal basso”. Zinoviev disse che esso non significava alleanza elettorale o fusione con i riformisti, come qualcuno già aveva fatto, ma il tentativo di mettere in piedi la lotta comune per le rivendicazioni quotidiane della classe operaia ed era applicabile universalmente, mentre la parola d’ordine del Governo operaio doveva essere agitata solo nei paesi dove il problema del governo era alla ribalta. Si teorizzò così, insieme al Fronte Unico, questa nuova parola d’ordine del Governo operaio, che avrebbe accentuato il disorientamento del proletariato e del Partito, mentre serviva solo a chi aveva sempre interpretato lo stesso Fronte Unico come metodo per la reintroduzione delle agognate e mai ripudiate alleanze parlamentari.
Le Tesi uscite dal IV Congresso sono precedute da un ampio quadro di valutazione della situazione internazionale nella quale si vede imminente la fase del crollo del capitalismo e quindi vicino il momento di massima offensiva del proletariato in tutti i paesi, riecheggiando l’analisi di Trotski al III Congresso. Nodi cruciali sono considerati quelli delle riparazioni di guerra, della politica dell’Intesa in Oriente che avrebbe continuato a provocare movimenti anticoloniali, della lotta fra USA e Giappone che alimentava la stessa guerra civile in Cina, del nuovo contrasto tra Francia e Inghilterra e della conseguente inadeguatezza del trattato di Versailles. In tale situazione la ricostruzione economica dell’Europa era impossibile, soprattutto perché l’America «guardava all’Europa come un avvoltoio in attesa di diventarne l’erede». E il destino dell’Europa era quello di diventare schiava dell’America se non avesse prevalso la Rivoluzione proletaria. Ecco perché la risoluzione approvata al IV Congresso sulla Tattica dell’I.C., nonostante consideri prevalente l’offensiva capitalistica, giudica la situazione ancora obiettivamente rivoluzionaria:
«L’offensiva capitalistica che in questi ultimi anni ha assunto proporzioni gigantesche obbliga la classe operaia di tutti i paesi a combattere stando sulla difensiva (...) I Partiti Comunisti di tutti i paesi hanno il dovere di allargare e di dare basi più profonde ai numerosi scioperi dell’industria che stanno scoppiando, e, se fosse possibile, di svilupparli facendoli diventare scioperi e lotte di carattere politico. È evidente che i comunisti hanno il dovere di rafforzare le lotte difensive, la capacità di comprensione rivoluzionaria e la combattività delle masse proletarie (...) La situazione resta obiettivamente rivoluzionaria e anche l’occasione più insignificante può diventare il punto di partenza di grandi lotte rivoluzionarie».
Date queste premesse, la parola d’ordine del IV Congresso è la conquista a breve termine all’influenza comunista della maggior parte del proletariato. La parola d’ordine “verso le masse”, espressa già al III Congresso, si concretizza al IV nelle due direzioni del Fronte Unico e del Governo Operaio. Quest’ultima parola del Governo Operaio viene considerata sia come slogan da adoperare genericamente per influenzare le masse, sia come parola d’ordine specifica nei paesi dove la società borghese era particolarmente instabile e dove il rapporto di forze tra i partiti è tale che risulta «di immediata necessità pratica risolvere la questione di chi formerà il governo». Quanto queste indicazioni fossero lontane dalla realtà della lotta di classe nei paesi occidentali, ed in particolare, come non valutassero appieno la funzione controrivoluzionaria di tutti i partiti diversi dal Partito Comunista, risulta chiaramente dai compiti che l’Internazionale assegnava al Governo Operaio:
«Gli obiettivi prioritari del Governo Operaio devono essere quelli di armare il proletariato, di disarmare la borghesia e le organizzazioni controrivoluzionarie, di introdurre il controllo della produzione, di trasferire la parte maggiore del carico fiscale sui ricchi e di spezzare la resistenza della borghesia controrivoluzionaria».
Nonostante
fossero stabilite condizioni precise sulla partecipazione comunista
ad un governo che si proponesse tali compiti, ed in particolare il
controllo del Comintern, ben presto si avranno i risultati disastrosi
di una tale tattica: o l’annientamento fisico dei comunisti da parte
dei loro precedenti “alleati” quando pretesero di perseguire
quegli obiettivi in compagnia degli stessi controrivoluzionari,
oppure la pratica parlamentare e legalitaria tout court. Nelle
tesi del IV Congresso si prevedevano queste diverse possibilità di
Governi Operai:
1)
Governi operai liberali, come quello che fu costituito in Australia e
come sarebbe stato possibile anche in Inghilterra in un prossimo
futuro.
2)
Governi operai socialdemocratici (come in Germania).
3)
Un governo degli operai e dei contadini poveri, come sarebbe stato
possibile nei Balcani, in Cecoslovacchia e Polonia.
4)
Governi operai a partecipazione comunista.
5)
Governi operai autenticamente proletari, che nella loro forma pura
possono essere costituiti solo dal Partito Comunista.
Ai tipi di Governi Operai descritti ai punti 1 e 2 il Partito Comunista non deve partecipare. Può invece partecipare non solo al Governo Operaio di tipo 4, ma anche a quello di tipo 3. Questi infatti, pur non rappresentando in nessuna maniera la dittatura del proletariato e neppure una fase di transizione di essa, possono diventare «un importante punto di partenza per la lotta e la Rivoluzione». Ciò, secondo l’Internazionale, era sufficiente a garantire che i Partiti Comunisti, appena costituiti, non scivolassero nuovamente nell’opportunismo. Secondo la Sinistra, al contrario, ci volevano ben altre garanzie. Ecco perché al IV Congresso dell’I.C. la Sinistra presentò un Progetto di Tesi sulla tattica dell’Internazionale alternative a quelle approvate, progetto valido per tutta l’Internazionale e non solo per il P.C.d’Italia.
Abbiamo voluto insistere su queste questioni perché pensiamo che la documentazione precedente (che è una piccolissima parte di quella disponibile) dimostri a sufficienza, contro tutta la storiografia stalinista, che, durante tutto l’anno precedente al IV Congresso, l’opposizione della Sinistra Italiana ai metodi tattici dell’Internazionale né era basata su «apriorismi dottrinari e settari», né mise mai in discussione la disciplina del Partito Italiano alle direttive dell’Internazionale.
Nella nostra critica si mettevano in risalto più le intenzioni dell’I.C., ancora incorrotte, che le deficienze. Si sapeva del resto che le difficoltà dell’Internazionale derivavano dalla situazione oggettiva: per la Russia era indispensabile un rapido crollo almeno di alcuni paesi capitalistici dell’Europa, altrimenti lo stesso potere politico del proletariato sarebbe stato in pericolo. Era dunque comprensibile il tentativo di voler affrettare la vittoria del comunismo in occidente. Ma ciò che sfuggì alla dirigenza dell’Internazionale fin da questo periodo era il legame strettissimo, che non poteva in alcun modo essere eliminato, tra gli sbandamenti della tattica e gli effetti deleteri che si sarebbero prodotti nella organizzazione. Perciò, più che criticare le generose illusioni di affrettare il processo rivoluzionario con manovre e stratagemmi, in questo periodo la Sinistra pose l’attenzione sulla necessità di fissare dei limiti precisi alle norme tattiche, consapevole che solo così si sarebbe salvato il Partito dalla degenerazione. È quanto contengono le Tesi sulla tattica dell’Internazionale presentate al IV Congresso dalla Sinistra, che riassumono un po’ tutta l’impostazione seguita dal P.C.d’Italia nell’attuazione delle parole d’ordine del Fronte Unico e del Governo Operaio.
Tali Tesi, per motivi ancora ignoti ma facili da immaginare («non ci rompete le scatole con le vostre preoccupazioni, noi abbiamo cose importanti da fare!»), non furono mai discusse né al IV Congresso, né al Quinto, al quale furono ripresentate con lievi varianti. Esse rappresentano storicamente l’estremo tentativo per impedire che l’Internazionale Comunista adottasse nuovamente e definitivamente metodi d’azione opportunisti.
Di fronte alle accuse già esplicite di indisciplina, le Tesi dicono:
«Per eliminare i pericoli opportunisti e le crisi disciplinari la I.C. deve appoggiare la centralizzazione organizzativa sulla chiarezza e la precisione delle risoluzioni tattiche e sulla esatta definizione dei metodi da applicare».
La tattica del Fronte Unico è tutt’altro che respinta, come abbiamo abbondantemente dimostrato, ma deve essere fissato un limite ben preciso:
«I comunisti propongono un’azione comune di tutte le forze proletarie. Questa tattica non deve mai venire in contrasto col compito fondamentale del Partito Comunista: cioè la diffusione in seno alla massa operaia della coscienza che solo il programma comunista e l’inquadramento organizzativo intorno al Partito Comunista condurrà alla sua emancipazione (...) Il grave problema tattico del Fronte Unico presenta dunque dei limiti al di fuori dei quali la nostra azione verrebbe a mancare ai propri fini. Questi limiti devono essere definiti in rapporto al contenuto delle rivendicazioni ed ai mezzi di lotta da proporre, ed in rapporto alle basi organizzative da proporre o da accettare come piattaforma delle forze proletarie».
Neppure la parola d’ordine del Governo Operaio viene in principio rifiutata, se intesa esclusivamente come parola di agitazione, ma si fissano dei limiti ancora più rigidi:
«Quando il proletariato si trova dinanzi alla constatazione che per conseguire le sue rivendicazioni occorre che il governo esistente sia cambiato, il Partito Comunista deve appoggiare su questo fatto la sua propaganda per il rovesciamento del potere borghese e la dittatura proletaria (...) Parlare di governo operaio come di un governo di coalizione dei partiti operai, senza indicare quale sarà la forma della istituzione rappresentativa su cui tale governo potrà appoggiarsi, significa non lanciare una parola d’ordine comprensibile agli operai, ma solo dare una indicazione che confonde i termini della preparazione ideologica e politica rivoluzionaria (...) Parlare di governo operaio dichiarando o non escludendo che esso può sorgere da una coalizione parlamentare alla quale partecipi il Partito Comunista, significa negare praticamente il programma politico comunista, ossia la necessità della preparazione delle masse alla lotta per la dittatura».
Rifiutando perfino di discutere tali Tesi l’Internazionale era ormai avviata a ripercorrere tutte le fasi della degenerazione. Il nucleo originario di combattenti comunisti sarà prima disorientato dagli sbandamenti tattici e dalle svolte repentine, e poi fisicamente distrutto dalla stessa organizzazione ormai in preda ad un nuovo e più putrido opportunismo. Per questa ragione, visti i risultati anticipati quando tali metodi furono inaugurati, il bilancio tratto dal Partito, al momento della sua ricostituzione nel 1945, degli espedienti tattici e delle manovre è storicamente e definitivamente negativo:
«In effetti, nonostante gli aperti avvertimenti della Sinistra Italiana e di altri gruppi di opposizione, i capi dell’Internazionale non si resero conto che questa tattica del Fronte Unico, spingendo le organizzazioni rivoluzionarie a fianco di quelle socialdemocratiche, socialpatriottiche ed opportunistiche, dalle quali esse si erano appena separate in irriducibile opposizione, non solo avrebbe disorientato le masse, rendendo impossibili i vantaggi che da quella tattica si aspettavano, ma avrebbe – il che era ancora più grave – inquinato gli stessi partiti rivoluzionari (...) Non si può pensare il problema tattico come il maneggio volontario di un’arma che, volta in qualsiasi direzione, rimane la medesima; la tattica del Fronte Unico da parte della I.C. significava, in realtà, che anch’essa si metteva sulla strada dell’opportunismo (...)
«Con la aperta e progressiva degenerazione dell’Internazionale dopo il IV Congresso, la parola del Fronte Unico servì ad introdurre la tattica aberrante della formazione di blocchi elettorali (...) Partendo dal Fronte Unico della classe proletaria, si arriva così all’unità nazionale di tutte le classi, borghese e proletaria, dominante e dominata, sfruttatrice e sfruttata. Cioè, partendo da una discutibile e contingente manovra tattica, avente per dichiarata condizione l’assoluta autonomia delle organizzazioni rivoluzionarie e comuniste, si arriva alla liquidazione effettiva di questa autonomia, ed alla negazione non più soltanto dell’intransigenza rivoluzionaria, ma anche dello stesso classismo marxista (...)
«È oggi possibile, senza richiamare dai testi delle discussioni di allora tutto l’insieme degli argomenti critici, conchiudere che il bilancio della tattica troppo manovrata e troppo elastica è risultato non solo negativo, ma disastrosamente fallimentare (...) Il Partito quindi si contraddistingue da tutti gli altri, apertamente nemici o cosiddetti affini, ed anche da quelli che pretendono di reclutare i loro seguaci nelle file della classe proletaria, perché la sua prassi politica rifiuta le manovre, le combinazioni, le alleanze, i blocchi che tradizionalmente si formano sulla base di postulati e parole di agitazione contingenti comuni a più partiti. Questa posizione del Partito ha un valore essenzialmente storico, e lo distingue nel campo tattico da ogni altro, esattamente come lo contraddistingue la sua originale visione del periodo che presentemente attraversa la società capitalistica (...)
«La politica del partito proletario è anzitutto internazionale (e ciò lo distingue da tutti gli altri) (...) Per conseguenza, la tattica delle alleanze insurrezionali contro i vecchi regimi storicamente si chiude col grande fatto della Rivoluzione in Russia, che eliminò l’ultimo importante apparato statale militare di carattere non capitalistico. Dopo tale fase la possibilità anche teorica della tattica dei blocchi deve considerarsi formalmente e centralmente denunziata dal movimento internazionale rivoluzionario» (“Natura, funzione e tattica del partito rivoluzionario della classe operaia”, Prometeo, n. 7, maggio-giugno 1947).
Altro aspetto importante della tattica, collegato al precedente, era costituito dall’atteggiamento verso la cosiddetta “frazione terzinternazionalista” del P.S.I. Purtroppo dovemmo constatare come fosse vero che gli sbandamenti nelle direttive pratiche avrebbero prodotto in breve tempo anche i più gravi guasti nella compattezza dell’organizzazione.
Tre potevano essere gli atteggiamenti da tenere: 1) affidare a questa frazione un compito di propaganda e proselitismo all’interno del P.S.I.; 2) cooptarla in blocco nel P.C.d’Italia; 3) accettare singoli elementi di essa che ne avessero fatto richiesta. Sappiamo che il P.C.d’Italia riteneva la terza soluzione come l’unica praticabile e corretta. Mantenere all’interno del P.S.I. una frazione “rivoluzionaria” (ammesso che lo fosse) per spostare a sinistra gli equilibri del partito avrebbe significato riconoscere la necessità, ancora valida, di un’opera di frazione all’interno del P.S.I. (vecchia tesi di Levi). Questo sarebbe equivalso a dichiarare immatura e sbagliata la scissione di Livorno.
Anche la seconda ipotesi veniva esclusa dal P.C. d’Italia:
«La possibilità di passaggio in blocco nel P.C.d’Italia inserirebbe nel Partito un insieme di elementi il cui inquadramento e la cui assimilazione nel nostro partito sarebbe difficile, indi dannosa. Le porte del nostro partito sono aperte a tutti gli operai che, provenienti da qualsiasi altra organizzazione, facciano individuale e spontanea domanda di ammissione; le porte del nostro Partito debbono restare chiuse, quando, dinanzi ad esse, riluttante ed incerta, si presenti una parte più o meno notevole di altro organismo politico organizzato su scala nazionale, un gruppo di dissidenti con l’altra parte di questo organismo nostro avversario: accettando in blocco l’ammissione di quel gruppo, noi ci vieteremmo di controllare gli elementi, contravvenendo ai principî fondamentali che presiedono alle norme costitutive ed organizzative del nostro Partito» (dalla discussione delle Tesi di Roma).
Al congresso di Roma anche Gramsci si schierò dalla parte delle Tesi dichiarandosi perfettamente d’accordo con esse. Ma fin da allora Gramsci era portatore di quella tendenza, che traeva le sue origini dall’Ordine Nuovo, che di lì a poco si insinuò nel Partito portandolo alla completa disorganizzazione. Gramsci si dichiarò contrario all’accettazione del Fronte Unico politico, ma non alla maniera della Sinistra, per considerazioni programmatiche generali, al contrario, per motivi puramente contingenti e nazionali. Infatti dichiarò:
«Se il congresso del P.C.d’Italia accetterà delle formule generiche (...) nelle quali si ammette la possibilità del Fronte Unico politico, si farà credere che il nostro pensiero sia concorde con quello largamente diffuso tra le masse, secondo il quale il Fronte Unico politico sarebbe un Fronte Unico esteso anche al Partito Popolare (che) si appoggia essenzialmente sopra la classe dei contadini (...) Io sono persuaso che non solo il Partito Popolare ma anche una parte del Partito Socialista deve essere esclusa dal Fronte Unico proletario secondo la concezione delle Tesi approvate dall’Esecutivo Allargato, perché fare un accordo con essi vorrebbe dire fare un accordo con la borghesia».
Nel P.S.I., secondo Gramsci, anche dopo la scissione di Livorno permarrebbero le famose “due anime”, essendo questo Partito, anacronisticamente, ad un tempo, sia degli operai sia dei contadini. Egli vede nella destra il Partito quello dei contadini e nella sinistra, rivoluzionaria, “maffista”, quello degli operai. Adottare la parola d’ordine del Fronte Unico politico sarebbe – secondo Gramsci – mettersi contro i “terzini” che si basano sulle grandi città dove esiste un proletariato industriale e sulle regioni dove prevale la categoria degli operai agricoli. Ma questa critica, come abbiamo detto, ha un carattere puramente nazionale; Gramsci non esclude infatti che in altri paesi, più industrializzati dell’Italia, dove la stragrande maggioranza dei lavoratori sia composta da puri salariati, la tattica del Fronte Unico politico possa essere proficuamente usata:
«Nella Germania il movimento che porta alla costituzione di un governo socialdemocratico è basato sopra le masse operaie – la tattica del Fronte Unico non ha valore se non per i paesi industrializzati, dove gli operai arretrati possono sperare di poter esercitare un’azione di difesa attraverso la conquista di una maggioranza parlamentare. Da noi la situazione è diversa. Se noi lanciassimo la parola d’ordine del Governo Operaio e cercassimo di attuarla torneremmo all’equivoco socialista, quando quel Partito era condannato all’inattività perché non sapeva decidersi ad essere o solamente un partito degli operai o solamente un partito dei contadini».
Gramsci quindi, per quanto dichiarasse di aderire alle Tesi sulla tattica presentate al congresso di Roma, non era riuscito a comprendere una questione fondamentale, cioè che la funzione della socialdemocrazia, anche quando arruoli i propri membri esclusivamente dalla classe operaia, non cessa per questo di essere un partito al servizio della borghesia».
Al contrario, per la Sinistra il rifiuto del Fronte Unico e l’adozione della tattica del Fronte Unico sindacale significava esplicare esattamente la funzione di Partito della classe operaia; d’altra parte il problema che il Partito si pone è quello di inquadrare e dirigere la classe operaia nel suo insieme e non quello di dialogare con i capi. Il dialogare con i capi servirebbe solo a demoralizzare le masse che vedrebbero in ciò solo un gesto disperato del Partito ed una sua implicita dichiarazione di sconfitta. Oltre ad un fatto puramente contingente, l’unità sindacale veniva considerata di estrema importanza anche per il fatto che il sindacato sopravviverà (al contrario dei partiti) alla rivoluzione, ed anche dopo di essa avrà importanti compiti da assolvere.
Il congresso approvò le Tesi quasi all’unanimità. L’esito della votazione fu il seguente: favorevoli 31.080, contrari 4.151, astenuti 707, assenti 2.165. Pozzoli contesta il “no” di Bernamonti perché aveva ricevuto dalla propria Federazione mandato tassativo di votare a favore. I contrari alle Tesi di Roma (Bombacci, Graziadei, Sanna) non formarono un gruppo omogeneo di destra contrapposto alla centrale ed esprimevano poco più che idee personali. Prova ne sia che le loro critiche all’opera della centrale erano le più varie e le mozioni presentate contro le Tesi sono una decina. L’Internazionale, presente con Kolarov e Humbert-Droz, prende atto delle posizioni del P.C.d’Italia e della mozione, acclamata all’inizio del Congresso, che dichiarava che qualsiasi cosa il congresso avesse approvato avrebbe avuto solo un valore dichiarativo, perché la condotta del Partito si sarebbe attenuta ai dettati dell’I.C. Come si vedrà in seguito, sarà più pericolosa l’adesione alle Tesi di Gramsci di quanto non saranno le critiche di Bombacci e C. I “pinguini” ed i “pellicani” di Zinoviev furbescamente individuano le debolezze del compagno Gramsci ed iniziano quella martellante, asfissiante opera di pressione affinché esso si stacchi e si contrapponga alla centrale di Sinistra.
Abbiamo visto come il III Congresso dell’I.C. avesse riproposto ancora una volta ai socialisti italiani la scissione dalla destra turatiana e la successiva unificazione con i comunisti in quello che avrebbe dovuto divenire il Partito Comunista Unificato d’Italia. Il P.C.d’Italia al contrario affermò che l’esigua frazione “terzina”, che avrebbe sostenuto l’esclusione dei riformisti, né lo avrebbe fatto per ragioni collimanti con quelle di Livorno, né avrebbe preso la decisione di uscire dal Partito nel caso non si fosse effettuata la scissione nel P.S.I. Tutto si verificò puntualmente. Il grosso del massimalismo, al congresso della frazione (16 settembre 1921) aveva sancito la propria rottura con l’I.C. in questi termini:
«Deploriamo che i compagni del Comitato Esecutivo dell’I.C. perseverino nella tattica del secessionismo aprioristico, con l’intenzione di sbloccare man mano il P.S.I. portandolo verso sinistra a successive ondate che si smorzano e perdono valore non appena si staccano dalla grande organizzazione economica, politica, amministrativa e sindacale, prima formatasi attorno alla bandiera socialista, che è la bandiera delle grandi masse italiane» (Avanti!, 17 settembre 1921).
Questo era lo spirito con cui il P.S.I. si preparava al proprio congresso di Milano: i risultati non potevano che essere scontati. Oltre alla rinnovata unità del Partito è bene vedere anche i risultati delle votazioni; le mozioni presentate furono quattro: quella “terzina” (Lazzari e Maffi) non raccolse che 3.765 voti, quella di “unità socialista” (Alessandri) 8.080; i “concentrazionisti” (Turati e Baldesi) raggiunsero i 19.916 voti, mentre i “massimalisti” (Serrati e Baratono) scesero a 47.628. Se facciamo il paragone tra questi risultati e quelli di Livorno (meglio ancora lo vedremo con quelli del futuro congresso di Roma) si vede come il massimalismo altro non fosse che un serbatoio a disposizione della destra turatiana ed una maschera dietro la quale la socialdemocrazia comodamente si nascondeva.
Il contrasto tra il P.C.d’Italia e l’I.C. fu eliminato dai fatti, e, dopo il congresso di Milano, l’I.C., con una dichiarazione che corrispondeva ai desiderati della sezione italiana, «escludeva definitivamente il partito socialista dalle sue file».
Restava il problema dell’atteggiamento da tenere verso la frazione Lazzari, Maffi e Riboldi. Il nostro partito precisò la sua posizione con un Manifesto ai lavoratori socialisti (con il quale li invitava a venire nelle sue file aprendo gli occhi sulla rovinosa politica socialista) e con la decisione di non accettare adesione di gruppi, né di avere contatti ufficiali con l’organizzazione di frazione nel senso del P.S.I., poiché i singoli elementi di tendenza affine alla nostra erano chiamati a passare nelle nostre file e non invitati a fare un lavoro per noi nelle file socialiste. Disposizioni interne chiarirono che gli elementi proletari potevano e dovevano essere cordialmente accolti, come in genere tutti quelli che erano sinceramente convinti nel venire a noi, e le ammissioni, pur seguendo le norme statutarie, dovevano essere facilitate nello sbrigarne la procedura:
«In tal modo non pochi sono stati i casi di socialisti passati a noi con aperte dichiarazioni contro la politica del loro antico partito. Quanto alla frazione di Maffi essa non è stata trattata con ostilità dal nostro Partito e dalla nostra stampa, a parte le obiettive critiche a quanto essa ha di indeciso e di incompleto nel suo atteggiamento. Non si sono evitati alcuni esperimenti di collaborazione sindacale con essa, che, se non ha avuto più grande ripercussione, deriva appunto dalla posizione equivoca in cui si trova chi voglia fare opera rivoluzionaria nelle file del Partito Socialista» (dalla relazione del C.C. del P.C.d’Italia al IV Congresso dell’I.C. sull’opera svolta tra il III e IV Congresso).
L’esclusione definitiva dalle proprie file non impedì però all’I.C. di continuare un’opera di stretto collegamento con la frazione terzina, alla insaputa del P.C.d’Italia. Già all’indomani del congresso di Milano, per tramite di Walecky, l’Internazionale instaurò un legame diretto con i terzini considerando la loro frazione «portavoce autorizzato in seno al Partito Socialista» (Terracini alla seduta del C.C. del 10 settembre 1922). I terzini ricevettero da Mosca aiuti di ogni genere anche finanziari per la pubblicazione di un giornale di frazione. Rákosi, scavalcando il Partito Comunista e malgrado il suo parere sfavorevole, verrà più volte in Italia a cercare un contatto diretto con la frazione sinistra del P.S.I. Si arrivò al punto che l’Internazionale per due anni lavorò, come disse Tasca, «in Italia in una condizione di illegalità nei confronti della sua sezione». Tutto questo lavorio non poteva che portare a risultati completamente negativi. L’avvalorare l’esistenza di una frazione rivoluzionaria nel P.S.I. impediva il passaggio in massa degli operai sinceramente rivoluzionari sotto la bandiera del P.C.d’Italia, mentre la sua netta tattica stava dando buoni frutti. In più imbaldanziva l’arrivismo dei caporioni massimalisti che, data la corte fatta loro da Mosca, si sentivano in diritto di ricattare la stessa Internazionale.
Nel frattempo Serrati rilancia ancora una volta il suo appello:
«Unità dei partiti socialisti dei diversi paesi al di sopra delle differenze di scuole e qualunque sia stato il loro atteggiamento di fronte alla guerra (...) Socialisti e comunisti, destri e sinistri e centristi, maggioritari e indipendenti, ortodossi e revisionisti (...) hanno il dovere di compiere lo sforzo più intenso e più rapido per una comune intesa che li ponga in condizione di opporre la condizione definitiva e veramente pacifica del proletariato alle soluzioni meccaniche ed alla egoistica trama dei rappresentanti del capitalismo imperialista dei diversi paesi. Ecco il Fronte Unico nel quale ancora crediamo» (Avanti!, 26 gennaio 1922).
Era proprio contro questo tipo di Fronte Unico che il P.C.d’Italia combatteva perché l’I.C. non rimanesse definitivamente impastoiata nella pratica controrivoluzionaria della socialdemocrazia. Nello spirito di quanto sopra, Serrati non mancava di «puttaneggiare con tutti», sia partecipando al congresso dell’arci-opportunista Partito Socialista Francese, sia atteggiandosi buffonescamente a rivoluzionario durante la conferenza delle tre Internazionali a Berlino.
Il P.S.I., da parte sua, lodava la decisione della C.G.L. che «a Verona deliberava l’abbandono dell’Internazionale dei Sindacati Rossi», adducendo a sostegno di tale decisione una critica del congresso sindacale di Mosca e l’affermazione che l’I.S.R., oltre agli operai russi, rappresentava solo piccole minoranze di altri paesi; mentre, al contrario, «ad Amsterdam la C.G.L. raccoglierà intorno a sé l’organizzazione centrale degli altri paesi e le minoranze sindacali che ritengono necessario spingere le grandi organizzazioni internazionali verso direttive più spiccatamente socialiste e rivoluzionarie» (Avanti!, 9 novembre 1921).
La destra del P.S.I. però non si accontentava della semplice azione di neutralizzazione del proletariato, compito egregiamente svolto dalla direzione massimalista, ma ormai riteneva giunto il momento di accollarsi perfino gli oneri della gestione del potere. Il 1° giugno 1922 il gruppo parlamentare socialista vota un o.d.g. Zirardini in cui si prospettava la possibilità di un appoggio e della stessa partecipazione ad un governo che garantisse il «ripristino delle pubbliche libertà». Di lì a poco si avrà l’andata di Turati dal re.
La C.G.L. infine si stava orientando verso l’abbandono del patto di alleanza che la legava al P.S.I., accingendosi a divenire la punta avanzata dello schieramento collaborazionista ancor prima del gruppo parlamentare. La rottura del patto di alleanza, formalmente avvenuta dopo la scissione, era tuttavia già una realtà ed imponeva ai massimalisti la necessità di organizzarsi in corrente all’interno del sindacato. Non a caso Baldesi e D’Aragona aderiranno all’invito mussoliniano di collaborazione tra fascismo e C.G.L., collaborazione che poi non avvenne, ma solo perché Mussolini pensò di farne a meno, lasciando delusi ed imbarazzati i dirigenti della C.G.L.
I massimalisti capirono che questo era il momento per rilanciare la loro presunta intransigenza rivoluzionaria e non mancarono neppure di dichiararsi, ora che la scissione era un fatto compiuto, pronti a rompere con il riformismo collaborazionista. Il 28 gennaio 1922 si ricostituì il Gruppo massimalista per la Terza Internazionale che si era sciolto subito dopo il congresso di Milano. Esso lanciava un appello ai massimalisti perché si compisse «l’atto di ripetuta adesione alla Terza Internazionale» (La Brianza, 4 febbraio 1922). Alla fine di maggio uscì a Milano il Più Avanti! con il sottotitolo “foglio socialista per la Terza Internazionale”. Esso vide la luce grazie all’aiuto finanziario dell’I.C. che, abbandonato ogni dubbio sulla opportunità dell’uscita terzina dalle file del P.S.I., da questo momento intraprese un ulteriore tentativo di recupero dell’intero partito, o quanto meno di «elementi suscettibili di spostarsi a sinistra».
Da parte loro i massimalisti, che già da qualche mese avevano ventilato la possibilità di staccarsi dalla destra e affermavano che essi – è Serrati che scrive – «sono ancora con Lenin» (Avanti! 31 marzo 1922), aspettarono a fare il gran passo solo quando si accorsero che per avere la maggioranza al prossimo congresso sarebbero stati indispensabili i voti dei terzini. La frazione maffista colse la palla al balzo per formulare una serie di richieste perentorie ai massimalisti in cambio del loro appoggio al congresso; i massimalisti accettavano tutto questo senza batter ciglio, sicuri che poi se ne sarebbe riparlato: l’importante, per ora, era quello di assicurarsi la maggioranza al congresso, maggioranza che avrebbero conservato anche dopo la scissione e con il peso della quale avrebbero imposto la loro linea politica anche al nuovo partito. Fu la stessa Internazionale a moderare la frazione terzina, questo manipolo di duci senza milizia, quando Zinoviev, il 29 luglio, in una lettera indirizzata a Maffi, Lazzari e Riboldi, dettava le direttive per l’azione da svolgere nel P.S.I.:
«Il compito dei nostri aderenti è, secondo noi, di andare incontro agli elementi proletari della frazione massimalista. Presentando voi stessi una vostra risoluzione al congresso, voi potrete e voi dovrete, nel momento del voto definitivo, dopo aver ricevuto serie garanzie, sostenere, se è necessario, i massimalisti, ben inteso alla condizione espressa che questi, non solo a parole, ma con i fatti, romperanno ogni legame con i riformisti traditori. Se la scissione si produrrà realmente, il vostro dovere è di restare nel Partito liberato dai riformisti dichiarati: l’I.C. nel suo insieme e voi aderenti dovrete nel nuovo partito fare tutto il possibile per aiutare gli elementi sinceramente rivoluzionari esistenti tra i massimalisti a riparare agli antichi errori e tenersi uniti con i proletari di tutto il mondo sotto le insegne dell’Internazionale comunista». (Il Comitato Esecutivo dell’I.C. ai compagni Lazzari, Maffi e Riboldi, in Più Avanti!, dell’11 agosto 1922).
È questo un ulteriore passo indietro dell’I.C. su quanto, appena un anno prima, al III Congresso mondiale, aveva decretato. A quell’epoca era stabilito che l’Esecutivo dell’I.C. avrebbe immediatamente provveduto, qualora la scissione si fosse verificata, «alla fusione del P.S.I., epurato dagli elementi riformisti e centristi, col P.C.d’Italia in un’unica sezione dell’I.C.» (O.d.g. sul rapporto del Comitato Esecutivo dell’I.C. approvato all’unanimità nella IX seduta, del 29 giugno 1921). Adesso invece si parla solo di restare nel P.S.I. per svolgervi opera di «recupero» dei «sinceri rivoluzionari».
I risultati allora ed in seguito conseguiti da chi si è posto il problema di spostare, con l’opera di convincimento e di “entrismo”, delle forze in senso rivoluzionario sono sempre stati nulli: ulteriore conferma della giusta impostazione della Sinistra Comunista Italiana che ha sempre considerato la tattica del noyautage come pericolosa e mai produttiva ai fini rivoluzionari.
La sopracitata lettera di Zinoviev alla frazione terzina non poteva che irritare ed amareggiare la sezione italiana dell’Internazionale. Il Comitato Esecutivo del P.C.d’Italia in un comunicato alla delegazione italiana presso l’I.C. non tralasciava di dare una solenne strigliata ai compagni italiani a Mosca:
«Voi non avete fatto dunque nulla per sostenere il nostro punto di vista? Non avete espresso un diverso parere? Dobbiamo pensarlo, se nulla avete trovato opportuno comunicarci. Nel nostro rapporto sulla questione del P.S.I., di cui vi abbiamo mandato copia, sperando che l’avreste letto... nei ritagli di tempo, esprimevamo il nostro punto di vista sull’argomento. Noi constatiamo che l’intervento dell’I.C. sulle cose italiane si fa solo quando occorre caricare il nostro Partito di critiche assurde e da orecchianti, oppure, in quanto riguarda gli affari del P.S.I., in modo da porgere a questo dell’ossigeno estremista nei momenti in cui sta per essere fregato. L’ultimo movimento (lo sciopero generale dell’agosto - ndr) ha moltiplicato la nostra importanza politica ed ha effacé i socialisti; sfatato il collaborazionismo non resta che dare gli ultimi colpi al serratismo, ed ecco che si viene a valorizzarlo, con l’invito ai terzinternazionalisti, a sostenerlo se romperà con i riformisti, cioè se compirà la più insidiosa e disfattista delle sue manovre. Compagni che sono alla destra dichiarano che una politica di avvicinamento e poi di fusione con i massimalisti provocherebbe un vero esodo dal nostro Partito: se noi scriviamo queste cose sembreremo dei ricattatori, e poi ci pare che si circondi di sfiducia tutto quello che dicono e fanno i comunisti, mentre si sorride a tutti gli scalzacani della politica italiana – che poi ci fregano regolarmente, noi e l’I.C. – da Lazzari a D’Annunzio. Starebbe a voi reagire a questo modo di fare e ad informarci a tempo dell’indirizzo che costà si adotta. Ma voi tacete: e... fate quello che non diremo per non lasciare certe cose negli atti del Partito» (Roma, 5 agosto 1922).
Venti giorni dopo, il 25 agosto, un’altra lettera partiva dal Comitato Esecutivo italiano alla volta della delegazione di Mosca:
«Crediamo che il congresso socialista riserverà una sorpresa ai compagni del Komintern, fate intendere il nostro disappunto per il fatto che si vede il problema centrale nel congresso socialista e si mette ogni momento in forse la nostra qualità di Partito solidamente costituito, e si progettano rabberciamenti organizzativi, mentre ben altre sono le brucianti caratteristiche della situazione della lotta di classe in Italia e noi siamo in piena battaglia per salvare il movimento proletario e nella stessa misura conquistarlo al Partito e alla Internazionale. Si dà enorme peso alle offerte di Maffi, che non rappresenta nulla, e si trascurano le nostre indicazioni e proposte sul da farsi nell’attuale momento veramente interessante (...) Dopo gli avvenimenti di questi giorni noi ci confermiamo sempre di più nel punto di vista tattico del nostro congresso di Roma, e vediamo come ogni altra attitudine condurrebbe al naufragio (...) Sulla questione specifica del P.S.I. ecco quanto: siamo contro per ragioni di principio e pratiche ad ogni noyautage anche “ufficioso” nel P.S.I. e non tratteremo né con i maffisti né con i serratisti, agli effetti del congresso socialista e di fusioni con il nostro partito. Sul terreno sindacale e del Fronte Unico è un’altra cosa: ma trattare per entrare nella Internazionale no: si passa dalla porta e uno per uno. Non decamperemo da questa tesi senza un congresso del nostro partito. In questo potremo anche accettare l’ordine di tacere e rinunciare a difendere il nostro punto di vista: al tempo stesso rinunceremo definitivamente a restare alla testa di un partito che non vogliamo dirigere violando il dovere della disciplina, e che non possiamo indefinitivamente dirigere mentre si creano ogni giorno cause di debolezza alla dirittura continua e logica della azione nostra (...) Una cosa è certa: che al IV Congresso mondiale porteremo il Partito così come è costituito ed indirizzato».
La centrale del P.C.d’Italia, come aveva già dichiarato ad Humbert-Droz, fin dal congresso di Roma si dichiarava disposta a lasciare la direzione del Partito ad uomini che “meglio” avrebbero messo in pratica le direttive dell’Internazionale:
«Basterebbe un semplice dispaccio a farci consegnare senza resistenza i nostri poteri. Ma non si riuscirà mai a modellarci sullo stampo per la fabbricazione di fessi in serie, perché alle nostre opinioni coscientemente maturate non rinunciamo, non avendole improvvisate a scopi di successo personale o di influenza sulla massa» (Il Comitato Esecutivo del P.C.d’Italia alla delegazione italiana a Mosca 25 agosto 1922).
Alle dichiarazioni chiare ed oneste della Sinistra Italiana sulla impossibilità di continuare a rimanere a capo del Partito, considerato quasi illegale dall’I.C., il Komintern rispondeva con quel metodo subdolo del terrorismo ideologico e della lotta politica all’interno del Partito, che di lì a poco diventerà la regola, scatenando la corsa ai posti di dirigenza, ottenendo come ultimo risultato il progressivo smantellamento di quello stupendo edificio che capi come Lenin e milioni di anonimi proletari avevano contribuito, con fatica e sangue, a creare: la Terza Internazionale.
Abbiamo già accennato ai passi che gli inviati dell’I.C., attraverso canali clandestini, avevano fatto presso Gramsci per sostituire la Sinistra alla Direzione del Partito. Ma sentiamo quanto Gramsci stesso, in una lettera a Togliatti e Scoccimarro, dice:
«Al IV Congresso io ero da pochi giorni rientrato dal sanatorio, dopo circa sei mesi di permanenza che mi avevano giovato poco, che avevano solo impedito un aggravamento del male ed una paralisi alle gambe (...) Dal punto di vista generale persisteva l’esaurimento e l’impossibilità di lavoro per le amnesie e le insonnie (...) Il pinguino (Rákosi - ndr) con la delicatezza diplomatica che lo distingue, mi prese d’assalto per offrirmi nuovamente di diventare il capo del Partito eliminando Amadeo che sarebbe stato addirittura escluso dal Komintern se continuava nella sua linea. Io dissi che avrei fatto il possibile per aiutare l’Esecutivo dell’I.C. a risolvere la questione italiana, ma non credevo si potesse in nessun modo sostituire Amadeo senza un preventivo lavoro di orientamento del Partito».
Riprenderemo questo argomento in seguito, per ora torniamo in Italia, dove dal 1° al 4 ottobre si era svolto, a Roma, il congresso che segnò la spaccatura del P.S.I. Il Partito si divise a metà: i massimalisti, insieme ai terzini, ebbero 32.100 voti, mentre gli unitari, in appena 20 mesi, dai 14.695 di Livorno, raggiunsero i 29.119 voti: quale migliore prova dell’inefficienza della tattica seguita dall’Internazionale? La scissione inoltre lasciava il Partito “epurato” completamente in mano ai centristi avendo i terzini rinunciato perfino al dibattito congressuale. Maffi intervenne solo per esprimere la dichiarazione di voto della sua frazione affermando:
«Questo è un congresso imperniato sui dirigenti. Perciò il gruppo (terzino - ndr) non ha preso parte alle schermaglie (...) Gruppi di uomini che hanno la responsabilità di quanto è avvenuto e contro cui manteniamo la deplorazione promettono ora di cambiare strada e riconoscono di avere errato: dichiarano di aderire alla Terza Internazionale e si rimettono a capo del Partito. Se ci astenessimo dal voto e contrapponessimo altra mozione di deplorazione favoriremmo i riformisti e potremmo essere accusati come i favoreggiatori degli abiuratori del socialismo. Per evitare tanta iattura sentiamo la necessità di assoggettarci al minimo dei mali» (Avanti!, 4 ottobre 1922).
La frazione maffista, per non fare il gioco della destra, rinunciò perfino a svolgere la sua azione di noyautage e appoggiò senz’altro il centrismo.
Nel Partito Socialista non avvenne una vera scissione, perché i due tronconi di partito separati, al contrario di quanto era avvenuto a Livorno, non avevano principî, finalità, tattiche, contrapposti; la loro unica differenza era l’opportunità immediata se fare o non fare un certo passo sul quale, in linea di principio, erano tutti d’accordo. Questo spiega perché il congresso di Roma si sviluppò in un’atmosfera del tutto differente a quella di Livorno, e come il dialogo tra massimalisti e destri non si sia mai interrotto. Il destro Modigliani, a ragione, accuserà i massimalisti di aver consumato la scissione affidando a loro, riformisti, il compito di realizzare quella collaborazione con la borghesia che «non vogliono attuare essi stessi pur auspicandola e vergognandosene». A conferma di ciò il massimalista Vella affermava: «Noi a Roma abbiamo fatto la scissione con i riformisti perché speravamo che ad ottobre Facta cadesse ed i riformisti, liberi da noi, si decidessero ad andare al potere». (Da Rinascita del 26 gennaio 1963).
D’altra parte, i riformisti non avevano più niente da sabotare in un Partito che, dopo Livorno, aveva cessato del tutto di rappresentare, anche potenzialmente, la guida rivoluzionaria del proletariato italiano. La loro funzione sabotatrice l’avevano ormai svolta e si apprestavano a goderne i frutti governativi; grande fu perciò la loro delusione quando dovettero constatare che il re aveva ormai deciso di arruolare i fascisti: alle accuse de Il Mondo di aver troppo aspettato a differenziarsi dal massimalismo e di non avere quindi ancora la necessaria “credibilità” nel mondo della democrazia, i riformisti rispondevano con Matteotti:
«Chi afferma queste cose dimentica le condizioni politiche dell’Italia e lo stato d’animo delle masse in quel periodo (1919-1920 - ndr). Inoltre si dimentica troppo facilmente tutto il male evitato dalla nostra azione all’interno del P.S.I.: gli smemorati di oggi hanno il torto di dimenticare tutto il male che la nostra azione dentro il Partito, a contatto diretto con la classe operaia, ha impedito» (La Giustizia dell’1 settembre 1922).
Serrati, come da tre congressi non mancava di fare, proclamò per la quarta volta «la adesione del partito socialista italiano alla I.C.». Ma, a parte i solenni proclami di Serrati, che, abbiamo visto, contavano meno di niente, la doccia fredda per l’Internazionale doveva venire proprio da Lazzari, che già nella prima fase del congresso, senza mezzi termini, rinnegava il suo internazionalismo:
«Noi non entriamo nel Partito Comunista. Non entriamo nel comunismo perché non ne abbiamo bisogno. Se noi oggi dovessimo cambiare il titolo alla nostra bandiera, noi sconfesseremmo il nostro passato. Non per nulla la grande Repubblica Russa si chiama Repubblica Socialista dei Soviet Russi. Il comunismo è la forza economica del socialismo» (Avanti!, 3 ottobre 1922).
Vella rincarava la dose accusando l’Internazionale di agire secondo scopi più nazionali russi che internazionali e poneva condizioni per un eventuale rientro nel Comintern, tra cui, per prima, quella che fosse il P.S.I. a divenire la sola sezione italiana dell’Internazionale con il rientro dei comunisti nel Partito Socialista.
Di fronte a tutto ciò e al sempre maggiore impastoiarsi dell’I.C. nella sua vana corsa alla “conquista delle masse” attraverso i capi del P.S.I., il P.C.d’Italia ribadiva ancora una volta, con estrema chiarezza, quale sarebbe stato il suo atteggiamento e quale avrebbe dovuto essere quello dell’Internazionale:
«Il P.C.d’Italia è un organismo storicamente definito nella sua organizzazione e nella sua funzione politica fino dalla sua costituzione. Il C.C. ritiene che nel Partito i nuovi elementi proletari che esso si prefigge di conquistare debbano entrare secondo le regole statutarie normali e che la scissione del Partito Socialista non giustifichi un provvedimento diverso, pericoloso per la compagine organizzativa e l’indirizzo politico del Partito come per la lotta rivoluzionaria del proletariato italiano; subordinatamente afferma che ogni gruppo politico da ammettere nella Internazionale dovrebbe rispondere per la sua dottrina e la sua attività alle 21 condizioni del II Congresso internazionale; ritiene che la frazione massimalista del P.S.I., anche se scissa dai collaborazionisti, non soddisfa a nessuna di tali condizioni, e che il distacco dai riformisti dovuto alla loro decisa tattica collaborazionista attuale, è un atto diversissimo dal distacco, chiesto nel 1920, da tutti coloro che negano il programma rivoluzionario dell’I.C. e quindi anche dagli eventuali intransigenti parlamentari che sono contro la dittatura proletaria e l’uso della violenza rivoluzionaria» (Risoluzione del C.C. del P.C.d’Italia del 10 settembre 1922).
Per evidenti ragioni statutarie ed organizzative dell’I.C. l’organo competente a risolvere la questione dei rapporti con l’ala sinistra del P.S.I. era uno solo: il congresso del P.C.d’Italia. Erano in gioco problemi di ordine costitutivo come la base stessa della composizione del Partito ed il suo nome, non certo nel senso della spassosa proposta di sciogliere il P.C.d’Italia per “rientrare” nel P.S.I. Solo un congresso poteva essere autorizzato a deliberare mutamenti alla norma ordinaria di non ammettere che adesioni individuali. D’altra parte, su tale questione, aveva parlato il Comitato Esecutivo dell’I.C. ed avrebbe parlato altresì il prossimo congresso mondiale. Solo all’indomani di esso si sarebbe potuto porre il problema dell’o.d.g. di una discussione preparatoria del congresso, ed è ben noto che nessuno dei comunisti italiani avrebbe preso in questo una posizione di contrasto esecutivo con le proposte dell’Internazionale.
Andava posta la questione se i valori delle forze politiche che costituivano il partito massimalista, per l’avvenuta divisione, e rispetto a quelli di Livorno, fossero mutati con avvicinamento ai principî ed ai metodi comunisti. Da tale questione dipendeva evidentemente quella della loro eventuale incorporazione organizzativa nel movimento comunista italiano. Attenendosi al valore ed al significato della scissione avvenuta, questa non aveva dimostrato che i massimalisti avessero acquisito, nella loro coscienza politica, questa semplicissima tesi: che è incompatibile la convivenza politica con i socialdemocratici. Serrati ha avuto ragione a difendere la sua coerenza: il suo atteggiamento attuale non smentiva quello di Bologna, Livorno, Milano. Erano, in realtà, i destri che avevano mutato la loro posizione. Mutandola essi avevano realizzato i loro principî ben noti e qui stava tutta la immutata responsabilità dei serratiani.
Nessuna dichiarazione programmatica era scaturita dal congresso di Roma, ad essa si sfuggiva con il nascondersi dietro il criminale equivoco fabbricato dopo la guerra: siamo indiscutibilmente comunisti nei principî, lo siamo sempre stati. Nessun riconoscimento di errori, nessun atteggiamento che dimostrasse una tendenza ad uscire dalla trappola costituita dal falso comunismo e rivoluzionarismo ostentato da Bologna in poi. Se i riformisti fossero stati nella posizione tenuta a Bologna, i massimalisti avrebbero seguitato a tenerli con loro. La sostanza rimaneva immutata; la malattia opportunista non accennava a migliorare, il massimalismo non si era spostato a sinistra. Come Mosca aveva previsto, dopo Livorno, era andato a destra avvicinandosi ai riformisti. Ma questi avevano marciato troppo in fretta; da qui, e solo da qui, la scissione, che, ad una critica serena, non mostra alcun contenuto di sinistra, se non nello sfruttamento demagogico di una aspirazione delle masse di cui l’apparato dirigente si serviva, non per elaborare un nuovo atteggiamento politico veramente rivoluzionario, ma unicamente per lavorare alla difesa di certe posizioni di gruppo. La divisione di Roma non fu che il corollario del fallimento del massimalismo e del suo stato maggiore:
«Ogni diversa illusione ottimista farebbe mancare noi al compito nostro: condurre sotto la bandiera del comunismo le masse del proletariato italiano che sono finora state zimbello della politica di princisbecco che ha per teatro i congressi socialisti, le loro pietose beghe, la loro miserevole sceneggiatura. Da due anni a questa parte il P.C.d’Italia ha fatto molta strada per sollevarsi da tale pantano e malgrado tutte le avverse condizioni vi è da essere soddisfatti. Bisogna continuare: occorre per questo un senso di severa fedeltà alla propria linea di pensiero e di pratica, cui i militanti che hanno dato l’opera in questi due anni non rinunciano in nessun modo» (L’Ordine Nuovo, 7 ottobre 1922).
All’apertura del III Congresso mondiale Zinoviev, riferendosi a Levi e Serrati, aveva dichiarato: «Credo di avere diritto di affermare che in questa sala l’atmosfera è più pura perché quest’anno quei due signori non sono più con noi». A questa affermazione erano seguiti gli applausi dei rappresentanti comunisti di tutto il mondo. Il IV Congresso un anno dopo, permetteva che Serrati facesse di nuovo il suo ingresso trionfale a Mosca. Nel messaggio inviato dall’I.C. al congresso di Roma del P.S.I. Zinoviev aveva chiesto che una delegazione del P.S.I. (epurato) fosse inviata al IV Congresso per costituire in quella sede un comitato di fusione che avrebbe dovuto ripetere l’operazione di unificazione, operata in Germania, tra KPD e USPD.
La prova del livello di volontà e serietà del Partito Socialista viene rivelato dalla composizione stessa della delegazione che fu mandata a Mosca al IV Congresso. La delegazione, composta in base a criteri di rappresentatività delle varie correnti, comprendeva i “terzini” Maffi e Garruccio, i massimalisti Serrati e Tonetti ed il velliano Romita contrario alla riunificazione con i comunisti ed inviato, dalla sua corrente, per sabotare tale riunificazione. Inoltre, quale maggiore prova di serietà, e non poteva essere altrimenti data la sua eterogenea composizione, la delegazione partiva dall’Italia senza un preciso mandato operativo. Serrati, infine, lasciava la direzione dell’Avanti! al traditore, ex repubblicano, ex fascista Pietro Nenni, che pure mai aveva nascoste le proprie posizioni anticomuniste.
Questi buffoneschi, ma anche tragici preparativi non potevano che rafforzare la Sinistra nelle sue posizioni contrarie alle fusioni organizzative. Da allora in poi l’opposizione della Sinistra a tali metodi di organizzazione è riconducibile ad una questione di principio valida in ogni situazione: se si riconoscono giuste le basi sulle quali il Partito è già organizzato, è semplicemente assurdo porre condizioni per l’adesione di un individuo o gruppo che sia, in quanto l’inserimento nel lavoro collettivo sarà organico e perfettamente indolore; se quelle basi non si riconoscono giuste per qualche questione essenziale allora diventa assurda la volontà stessa di unificarsi. Ecco perché il Partito si è sempre ricostituito come Partito e mai come gruppo. Rinunciare a questo principio significherebbe rinunciare agli insegnamenti storici della lotta della Sinistra su di una questione di assoluta importanza. Avevamo espresso già la nostra opposizione all’unificazione tra KPD e sinistra dell’USPD (Il Soviet, 24 ottobre 1920), ammettendola solo come eccezione senza minimamente approvare le motivazioni di Zinoviev. A maggior ragione ci opponemmo con tutti i mezzi possibili alla volontà dell’I.C. di realizzare la fusione tra P.C.d’Italia e massimalisti.
Il IV Congresso mondiale si occupò largamente della questione italiana, mentre rinviò la questione della tattica e del programma dell’I.C. al V Congresso.
Come abbiamo visto, al congresso socialista di Roma, i destri turatiani si erano divisi dai centristi di Serrati, mentre i sinistri “terzini”, “per non fare il gioco della destra”, tacciono e si accodano ai centristi, ai Serrati, ai Vella, ai Nenni. Subito dopo tale congresso il Comitato Esecutivo dell’I.C. disponeva che si formasse un comitato paritetico tra i rappresentanti della direzione del P.S.I. ed i rappresentanti del C.C. del P.C.d’Italia. I compagni del Comitato Esecutivo del P.C.d’Italia si opposero alla formazione di tale comitato chiedendo che un congresso del Partito venisse convocato dopo il IV Congresso dell’I.C.; ad esso il Comitato Esecutivo avrebbe fatto la relazione dell’opera svolta, dopo di che il congresso avrebbe senza dubbio attuato gli ordini dell’I.C. Il C.C. del Partito aderì all’unanimità ai concetti espressi dal Comitato Esecutivo.
Poiché però l’Internazionale pose la questione della disciplina furono nominati i due rappresentanti comunisti del comitato paritetico; tale comitato doveva essere formato da due comunisti, due socialisti, un presidente scelto dal Comitato Esecutivo dell’I.C. Non avendo il presidente mai convocato il comitato, questo non ebbe ragione di riunirsi nei pochi giorni che divisero il congresso socialista di Roma dalla partenza dei delegati per il congresso di Mosca. A Rákosi, che aveva minacciato di ufficializzare il rifiuto del P.C.d’Italia di attuare una decisione dell’I.C., la Sinistra aveva ancora una volta prospettato le dimissioni: «Non ostacoleremo con le nostre persone la modificazione della tattica e dei metodi organizzativi che l’Internazionale ci chiede». In questa occasione, furbescamente, Togliatti si accosta all’Internazionale motivandolo con la preoccupazione di non lasciare il Partito nelle mani della destra. Al congresso di Mosca, in una riunione della delegazione italiana dell’8 novembre 1922, il rappresentante della Sinistra ancora una volta ribadisce la disponibilità della Centrale del Partito a lasciare la direzione in mano ad altri uomini più idonei ad attuare le direttive dell’I.C.: «Poiché la Centrale non condivide la politica dell’Internazionale sulla questione italiana si considera politicamente esautorata. In questo momento in Italia non vi è una rappresentanza dell’Internazionale».
Al congresso di Mosca la delegazione italiana si dette il compito di combattere decisamente la fusione tra P.C.d’Italia e P.S.I.. La questione dell’aumento dei partiti comunisti, delle loro funzioni e dei loro compiti avrebbe dovuto trovare sviluppo in occasione di un’ampia discussione che, come abbiamo detto, non ci fu. Tale questione dovette essere solo sfiorata dalla maggioranza della delegazione italiana per la necessità di sostenere le proprie posizioni. Il 13 novembre 1922 si riunì la delegazione italiana con la commissione ristretta per la questione italiana. Zinoviev aprì la seduta chiedendo quali siano i propositi del P.C.d’Italia. Si fece osservare a Zinoviev che prima di arrivare alle conclusioni era necessario cominciare con un rapporto informativo sul P.S.I. Zinoviev ribatté che la scissone del P.S.I. era un fatto innegabile e che quindi i comunisti italiani dovevano fare le loro proposte. Da parte italiana si insistette ancora sulla procedura. Zinoviev decise di dare la parola ad un rappresentante della maggioranza e ad uno della minoranza del P.C.d’Italia. Data l’impossibilità di svolgere un dettagliato rapporto, il rappresentante della Sinistra fece la seguente dichiarazione:
«Il C.C. ha discusso per tempo l’atteggiamento da tenersi di fronte alla eventualità di una scissione del P.S.I. Noi abbiamo subito esposto il nostro punto di vista contrario a quello dell’I.C. Non eravamo d’accordo sul come arrivare ad inserire utilmente nel P.C.d’Italia gli elementi operai del P.S.I. Noi dicevamo che occorre iniziare la propaganda per attirare a noi questi elementi prima del congresso socialista e continuarla ancora dopo. Dopo lo sciopero di agosto noi avevamo proposto di lanciare un manifesto con questo scopo agli operai socialisti. Ma l’Internazionale ce lo impedì, per cui noi abbiamo sostenuto una politica che permettesse di condurre a noi individualmente gli operai socialisti senza infrangere le basi organizzative del P.C.d’Italia».
Contro il parere di Trotski, che incitava all’unificazione affermando che nel P.S.I. vi era un gruppo organizzato «che viene verso di noi», la maggioranza italiana ribatteva che esso andava a destra: «Il gruppo massimalista che a Roma ha fatto la scissione è più a destra di quello che a Roma l’ha rifiutata». Serrati si era avvicinato all’Internazionale solo perché i riformisti l’avevano abbandonato. La conquista della maggioranza non sarebbe certo avvenuta con la fusione con il P.S.I. Se nel Partito Socialista vi erano stati degli operai rivoluzionari essi erano già passati al Partito Comunista che si presentava come il solo Partito della classe operaia; quelli rimasti nel P.S.I. avevano aderito alla frazione terzina e sarebbero anch’essi venuti al comunismo solo che l’I.C. avesse tenuto un altro atteggiamento. Il P.C.d’Italia aveva già ottenuto la fiducia delle masse operaie, scopo verso cui tendeva la politica della Internazionale: «I socialisti stessi hanno fiducia in noi e non nel P.S.I.».
L’attacco sferrato dalla reazione borghese, la sua vittoria, con l’avvento del fascismo al potere, il dissolvimento delle organizzazioni proletarie, tutto ciò non poteva che riflettersi anche all’interno del Partito Comunista e determinare un restringimento dei ranghi del Partito. Ma sarebbe stato assurdo poter pensare di rovesciare lo sviluppo di questa situazione semplicemente cooptando nel Partito Comunista lo stato maggiore del massimalismo.
I massimalisti, al contrario, dovevano essere denunciati quali disfattisti, strappare loro la base proletaria, rafforzare, pur nell’indietreggiare inevitabile del proletariato militante, il predominio del Partito Comunista con la liquidazione degli altri partiti. Questa occasione, grazie al costante lavoro svolto dal P.C.d’Italia, si era presentata all’indomani dello sciopero di agosto. Il Partito avrebbe avuto la possibilità di svuotare il P.S.I. della sua base proletaria se da Mosca non fosse arrivato il veto in nome dell’unità proletaria. La delegazione italiana si dichiarava quindi contraria all’unificazione con i socialisti e impossibilitata di accettarla per disciplina, non potendo essa scavalcare gli organi direttivi del Partito:
«Alla delegazione al congresso la Centrale ha dato un mandato di fiducia su alcune questioni e su altre imperativo per la maggioranza. La modifica della costituzione del nostro Partito è solo possibile dopo la convocazione del nostro congresso nazionale».
La insistente richiesta di un congresso nazionale fu categoricamente rifiutata dall’I.C. benché Zinoviev avesse affermato di voler «sapere se tutto il P.C.d’Italia è contro la tattica del Komintern». L’I.C. arrivò a minacciare, per bocca di Radek, di rimettere la questione della fusione agli operai italiani invertendo in modo clamoroso il rapporto Partito-Classe. La delegazione in rappresentanza del P.C.d’Italia si comportò in modo compatto rifiutando categoricamente la fusione con il P.S.I. Lo stesso Gramsci si espresse per l’adesione individuale al Partito ridicolizzando i tentativi fusionisti: «Fondere i due partiti è come voler far sposare Gianduia con la figlia del re del Perù, che non ha re e quindi non ha figlia di re». Ma questa sua posizione era dettata dal fatto (lo si era visto anche durante il congresso del P.C.d’Italia a Roma) che, secondo lui, il P.S.I. non era un partito a base operaia ma contadina.
Zinoviev, Trotski, Bucharin, Zetkin obiettarono contro il mandato operativo. Bucharin affermò che «se tutti i delegati hanno mandato imperativo il congresso diventa inutile». A ciò il rappresentante della Sinistra italiana rispose di non discutere «la questione dei mandati imperativi in generale. Ma noi crediamo che le centrali abbiano il diritto di prendere alcune misure contro possibili deviazioni». Trotski è quello che più di tutti è favorevole ad una immediata unificazione e si dichiara nel modo più assoluto contrario al metodo dell’adesione individuale prospettata dagli italiani perché «i migliori elementi sono attaccati al loro partito e non lo abbandonano facilmente; l’adesione individuale porterebbe a noi solo i rifiuti. Noi vi proponiamo di accettare l’adesione collettiva prima, dopo farete la selezione individuale». La commissione ristretta per la questione italiana, sentita la delegazione del P.C.d’Italia, emise una risoluzione sulla quale dichiarò «di non poter accettare il punto di vista della centrale del P.C.d’Italia e ritiene necessario di continuare le pratiche con la prospettiva di arrivare alla fusione con il P.S.I., sotto necessarie garanzie».
Dopo di ciò il C.C. del P.C.U.S. invia una lettera alla delegazione italiana:
«Alla delegazione del P.C. d’Italia:
«Cari amici,
«La situazione della questione italiana al congresso è tale che noi crediamo nostro dovere dirvi apertamente e da buoni compagni ciò che segue.
«La Grande Commissione del congresso si è dichiarata all’unanimità di essere per principio per la fusione del P.C. d’Italia con il P.S.I.; non vi è dubbio che anche il congresso approverà all’unanimità questa decisione. Questo è un fatto del quale non potete non tener conto. Le vostre opposizioni sono già state sentite. Ma il congresso deciderà – è questo del tutto chiaro – altrimenti. Ora tutta la questione consiste in ciò: come passerà questa questione al Plenum del congresso, se da parte vostra saranno commessi tali errori, che potrebbero fiaccare le posizioni dei comunisti italiani verso gli elementi dei massimalisti. Questo sarebbe molto triste. Se gli oratori della vostra maggioranza anche al Plenum vorranno ostinatamente parlare contro la fusione, questo solo rinforzerà la posizione di quei massimalisti i quali meno di tutti si dovrebbero rinforzare. Lo spettacolo sarà assolutamente indesiderabile. Al Comitato Esecutivo dell’I.C. sarà difficile l’appoggio del P.C.d’Italia durante e dopo la fusione. Il P.C.d’Italia sarà del tutto isolato. Il danno politico sarà enorme. L’errore sarà irreparabile. Il nostro consiglio: voi potete al congresso fare una breve dichiarazione, che la maggioranza della vostra delegazione era contro la fusione e ha già portato le ragioni, ma dovete contemporaneamente dichiarare che siccome la commissione ha deciso altrimenti, voi accettate questa decisione e l’attuerete coscientemente. Se farete questo ci darete la possibilità di rivolgere tutta la polemica contro le posizioni del P.S.I. e la prospettiva non sarà invertita. Il nostro dovere è di avvertirvi contro un errore politico. Aspettiamo una vostra sollecita risposta.
«Per incarico del C.C. del P.C.U.S., Lenin, Zinoviev, Trotski, Radek, Bucharin».
La maggioranza della delegazione italiana, dando una magnifica prova di disciplina rivoluzionaria, rispose immediatamente con la seguente lettera:
«Mosca, 24 novembre 1922
«Al C.C. del P.C.U.S. - Mosca
«Cari compagni,
«riceviamo la lettera di oggi firmata Lenin, Zinoviev, Trotski, Radek, Bucharin. Prendere la parola al Plenum del congresso sulla questione italiana sarebbe un dovere per la rappresentanza del P.C.d’Italia. Davanti all’assise suprema dell’I.C. il nostro intervento dovrebbe portare la difesa di tutta la nostra attitudine durante due anni di lavoro e di lotta per il comunismo, su una linea e con un metodo nei quali noi crediamo più che mai e il cui sviluppo conduce all’opposizione più netta alla fusione che l’I.C. sta per deliberare. Noi siamo d’avviso che le critiche al nostro contributo alla lotta internazionale rivoluzionaria sono quasi tutte non solamente ingiuste, ma spesso fondate su malintesi di fatto. Noi sappiamo che nelle riunioni delle commissioni non si sono discussi i nostri argomenti e le nostre proposte generali per lo sviluppo dell’azione comunista in Italia con l’ampiezza che sarebbe stata necessaria. La nostra convinzione non è per niente scossa. Lo dichiariamo apertamente. Ma un “passo” del nostro partito fratello della Russia non è, per i comunisti italiani, un atto senza valore. Comprendiamo che si tratti di far forza su noi stessi e di rompere noi stessi la linea legittima del nostro contribuito alla lotta dell’Internazionale, condotta fino ad oggi con slancio entusiastico che d’altronde non sarebbe né vorrebbe essere confusa con una testardaggine volgare. Noi prendiamo davanti al nostro Partito la responsabilità di ritornare sulla risoluzione già presa. Dopo il vostro invito, il vostro fraterno consiglio, noi vi dichiariamo che la rappresentanza del P.C.d’Italia tacerà. Essa non sosterrà le opinioni che voi conoscete e della giustezza delle quali resta convinta».
Quanto sopra sta a dimostrazione di come le dichiarazioni di disciplina fatte dalla Sinistra Italiana non siano mai state formali e come essa, unica, a differenza di quanti prima di schierarsi annusavano l’aria, non solo abbia saputo sacrificare le proprie persone per il bene supremo della causa rivoluzionaria, cosa inconcepibile ai politicanti di ogni colore, e abbia saputo tacere anche quando sapeva di essere sola nella giusta via della dottrina marxista. Fu di importanza capitale questo atteggiamento pratico della Sinistra, che, da un lato non volle mai ostacolare nei fatti le decisioni centrali dell’Internazionale, ma, dall’altro, mai rinunciò a rappresentare la continuità pratica delle giuste posizioni, senza minimamente curarsi né della conta delle opinioni né di procurarsi i necessari appoggi per prevalere: la lezione storica, confermata dalle battaglie degli anni immediatamente successivi contro la “bolscevizzazione” e lo stalinismo emergente, che il Partito ne ha ricavato è che le giuste posizioni vanno sempre difese anche nelle più avverse condizioni materiali, fatta salva sempre la disciplina esecutiva di ordini centrali, che comunque debbono essere chiari, materiali e visibili come lo fu la lettera del P.C.U.S.
La delegazione italiana emette due successive risoluzioni dove «riconferma di rinunciare a sostenere con discorsi nel Plenum del congresso le sue opinioni; e assicura che in tutte le circostanze essa sosterrà che le decisioni del IV Congresso debbono essere accettate ed applicate senza discussione dal P.C.d’Italia (e rinnova) la domanda che si autorizzi la convocazione del congresso».
Il IV Congresso decise la nomina di un comitato di fusione composto da due membri di ciascun partito sotto la presidenza di un membro dell’I.C. L’Esecutivo dell’I.C. era incaricato di vegliare sulla attuazione delle 21 condizioni di ammissione: Vella ed il suo gruppo sarebbero stati espulsi dal Partito e i comitati dei due partiti avevano il compito non solo di preparare la fusione ma anche di dirigere le azioni politiche comuni dei due partiti. Non più tardi del 1° gennaio 1923 avrebbe dovuto iniziare la pubblicazione di un organo comune. Il congresso di fusione si sarebbe convocato entro il 15 febbraio. Se prima di questo congresso comune si dovessero convocare dei Congressi straordinari dei due partiti, sarà l’esecutivo che ne deciderà la data, il luogo, le condizioni. Il IV Congresso infine richiamava tutti i compagni italiani alla «più stretta disciplina. Ogni compagno, senza eccezione, è tenuto a fare il possibile affinché la fusione si attui senza difficoltà e al più presto. Ogni trasgressione della disciplina, nella situazione attuale, equivarrebbe ad un delitto contro il proletariato italiano e contro l’I.C.».
Ma le riserve alla fusione vengono ora da parte dei socialisti: Maffi valuta inattuabili le condizioni della fusione e la richiesta della espulsione di Vella. Romita, in una lettera ai suoi compagni di delegazione, il 3 dicembre, fissa le linee del suo radicale dissenso nei confronti della fusione. L’esistenza di forti riserve sull’unificazione da parte di Serrati è confermata anche dalla lettera scritta da Lenin a Lazzari l’11 dicembre 1922. Fioritto e Romita sono decisamente contrari alla fusione. Garruccio giustifica l’approvazione data, a Mosca, al manifesto congiunto, soltanto «per frustrare l’opera antiunitaria della maggioranza della commissione comunista». All’Esecutivo Allargato del 1923 Gramsci dichiarò che Serrati e gli altri dirigenti massimalisti al IV Congresso di Mosca avevano affermato che i socialisti avrebbero formato frazioni all’interno del Partito Comunista Unificato (Stato Operaio, 24 aprile 1924).
A Mosca la Sinistra, date le decisioni del IV Congresso, decide di non prendere parte ai comitati di fusione per non intralciare, con la semplice presenza dei propri aderenti, quello che già si prospettava di difficile attuazione. Di parere contrario sono Gramsci e tutti coloro che poi entreranno a far parte della nuova direzione: decidono di parteciparvi «per non lasciare in mano alla minoranza la questione» e per ottenere le maggiori garanzie possibili: l’opportunismo si cela sempre nella lotta contro la «destra» e per «ottenere le migliori condizioni».
Intanto nel P.S.I. in Italia, Nenni con un colpo di mano si è impadronito dell’”Avanti!” e scaglia una feroce campagna contro l’unificazione. Nel P.S.I. si costituisce un “Comitato Nazionale di Difesa Socialista”, che si ripromette di scatenare il partito contro una «direzione che si pone fuori dalle delibere congressuali», attuando la «liquidazione sottocosto del P.S.I. come un fondaco di mercante». La “conquista delle masse” alla maniera prospettata dall’Internazionale è clamorosamente fallita causando la disgregazione del Partito e della organizzazione proletaria, distruggendo in un colpo due anni di indefesso lavoro.
Nel frattempo la situazione in Italia era radicalmente cambiata: il fascismo aveva fatto il suo ingresso trionfale nella città dei cesari e dei papi. Le prime misure attuate dal governo fascista furono quelle di riunire in un’unica milizia Guardie Regie e Carabinieri. Le squadracce nere vennero trasformate in Milizia Nazionale agli ordini diretti del Capo dello Stato. Il nuovo apparato poliziesco si scagliò immediatamente contro le organizzazioni di lotta del proletariato, dichiarandosi disposto ad agire con tutti i mezzi per sradicare i suoi nemici. A Torino, dove il movimento operaio resisteva fieramente, i fascisti scatenarono una bestiale repressione. Oltre trenta operai, strappati dalle loro case, furono uccisi a sangue freddo nelle strade e nei campi. Ai cadaveri erano stati appesi cartelli che annunciavano una più feroce vendetta fascista. Diversi di quei morti erano comunisti: capi o semplici militanti, molti altri comunisti si salvarono per puro caso.
I dirigenti comunisti sottoposti alla repressione fascista e privati del lavoro si trovarono obbligati all’espatrio. Malgrado tutto ciò i sentimenti della classe operaia non si erano del tutto spenti ed il Partito Comunista, grazie soprattutto al suo apparato illegale, resisteva come organizzazione. La centrale riusciva a rimanere in stretto contatto con tutto il paese. Adesso più che mai il Partito avrebbe avuto bisogno di poter contare su quella disciplina assoluta e cieca che la centrale aveva applicato sul Partito, cosa ormai impossibile dopo gli ultimi avvenimenti. Non potendo seguire la linea adottata dal Partito nei suoi due anni di vita, era costretto a tacere perdendo giornalmente il suo prestigio e contribuendo ad accentuare gli effetti della reazione fascista sul proletariato ormai disarmato politicamente.
«Per uscire da questa situazione – scriveva il rappresentante della Sinistra in una lettera al Comitato Esecutivo dell’I.C. il 6 gennaio 1923 – prendendo l’altra linea indicata dalla volontà dell’Internazionale, bisogna arrivare alla fusione con i massimalisti, che il Partito disciplinato si prepara a subire (...) Fra i massimalisti si è sviluppato un movimento contro la fusione che ha conseguito un successo immediato ed imprevisto (...) tra gli “ottimisti della fusione”. I borghesi ed i riformisti sfruttano magnificamente la situazione dei rapporti tra i due partiti. Come condurre una campagna contro di loro, come avere una tattica per opporci alla scomparsa di ogni movimento sindacale rosso? I riformisti rialzano la testa ed annunciano la nostra espulsione dai sindacati (...) Non ho ancora visto il vostro rappresentante. È necessario che la Commissione di unificazione venga qui a prendere i suoi poteri: non si deve perdere neanche un minuto».
In una ulteriore lettera, inviata il 16 gennaio 1923, sempre al Comitato Esecutivo dell’I.C., si rinnova la necessità impellente, per salvare quello che rimane del movimento proletario, di concludere immediatamente la fusione con il P.S.I.
Il 17 gennaio parte una lettera per Gramsci, che si trovava a Mosca, in cui si rimproverava a lui e a quanti lo hanno seguito il loro atteggiamento di voler ottenere le “maggiori garanzie”:
«Vi invito a riflettere quale esito ha avuto il fatto del voto favorevole alla risoluzione per la questione italiana, e all’aver insistito per far pesare di più le condizioni di fusione: formano il cavallo di battaglia degli antifusionisti, che sono nel P.S.I., oggi, i trionfatori e la fusione ne resta resa più difficile».
La Sinistra Comunista Italiana, nell’unico scopo di salvare il carattere rivoluzionario del Partito e le sorti del movimento proletario, aveva sempre combattuto l’unificazione con l’ala “sinistra” del P.S.I. che si sapeva coscientemente responsabile della sconfitta dei generosi moti operai. Ora che l’I.C. aveva adottato la strada dell’unificazione, solo la Sinistra accettò totalmente tali disposizioni sacrificando innanzi tutto le persone dei propri rappresentanti che, in buon ordine, abbandonarono i posti di comando del Partito, pur sapendo che i “fedelissimi” di Mosca avrebbero dato il colpo di grazia dall’interno al Partito, così duramente provato dalla feroce repressione borghese.
Ma non per questo la Sinistra Italiana abbandonò il lavoro di Partito. Si impegnò in una diuturna battaglia tesa a provocare, nel seno del movimento comunista nazionale e negli organi competenti dell’I.C., una vasta discussione e consultazione sul valore delle esperienze di lotta acquisite dal Partito e sul suo indirizzo programmatico e tattico, fuori dalle situazioni contingenti e transitorie che potrebbero offuscare l’esame generale dei problemi. La Sinistra non cessò mai di partecipare attivamente alla discussione del programma, dell’organizzazione e della tattica dell’I.C. lottando contro ogni revisionismo e soprattutto esigendo chiarezza nella determinazione delle direttive, un piano completo e chiaro per l’indirizzo e l’azione del Partito. Quando da tale dibattito non risultasse un consenso totale del Partito – pur restando al proprio posto nella milizia comunista obbediente alle direttive dell’I.C. – la Sinistra dichiarava di non poter prendere parte agli organi di direzione del Partito lasciandoli nelle mani di coloro che fossero perfettamente convinti delle direttive che erano chiamati ad applicare.
È naturale che un tale atteggiamento, genuinamente rivoluzionario, non sia mai stato capito dagli opportunisti e tanto meno dagli storici borghesi. Essi infatti, che hanno sempre accusato la Sinistra di tiranneggiare il Partito impedendo il dibattito e la “democrazia” interna, non riescono a capacitarsi come essa volontariamente, senza ricorrere a manovre, a pastette, ad anguillesche alleanze, abbia abbandonano le leve di comando del Partito. «È possibile – dicono gli storici accreditati presso la manipolazione di regime – che con un diverso atteggiamento di Bordiga, soprattutto nel 1923, Gramsci sarebbe rimasto spiazzato e pertanto il corso degli avvenimenti sarebbe stato diverso». Non solo è possibile ma è certo che un diverso atteggiamento della Sinistra avrebbe spiazzato Gramsci, come è vero che ci sarebbe stato un diverso corso degli avvenimenti; ma non nel senso del mantenimento del Partito sotto la guida intransigente di sinistra perché, abbandonati i rigorosi metodi marxisti, il Partito avrebbe fatto la medesima fine di quella che fece sotto la guida di Togliatti e C. La differenza sarebbe consistita in ciò: che la Sinistra si sarebbe storicamente suicidata.
I Togliatti, i Terracini, gli Scoccimarro, i Gramsci adottarono opposta posizione politica ritenendo necessario sfruttare al massimo i punti di appoggio e le cariche di partito; per essi, più che fissare dottrinariamente la posizione del Partito, era ritenuto prioritario conservare i posti di dirigenza come se fosse possibile salvare il Partito dal pericolo opportunista in maniera burocratica e dittatoriale. In una lettera dell’agosto 1923, Scoccimarro si chiedeva:
«Restare nelle cariche (...) o ritirarsi? Lottare contro le tendenze liquidatrici restando alla testa del Partito o rinunciare ed agire nel Partito come frazione? E se questa frazione costituisce la maggioranza (che non vuol romperla con il Komintern) non abbiamo noi il dovere di restare alla direzione? Quale delle due vie ci pone nella situazione migliore e ci consente di essere più forti in questa lotta? Quali delle due situazioni ci dà maggiori garanzie nel raggiungimento del nostro obiettivo?»
Sia che tali posizioni fossero sincere, sia che nascondessero soltanto il desiderio di mantenersi ai vertici dell’organizzazione, cambia poco. L’importante è il risultato che da tali posizioni scaturì: la formazione della frazione “centrista”, che non solo non rappresentava la maggioranza pretesa da Scoccimarro, ma era ancora più minoritaria della stessa destra di Tasca (come vedremo al convegno di Como nel 1924), costituita artificiosamente ed ancor più artificiosamente messa alla guida del Partito al solo scopo di smantellare tutto quello che la Sinistra aveva faticosamente costruito.
Più che legittimo è l’interrogativo dei motivi per cui nell’Internazionale si seguiva un tale andazzo da parte di capi del valore di Trotski, Bucharin, Radek, Zinoviev e dello stesso Lenin che, benché ormai definitivamente ammalato, aveva autorizzato tali metodi nel periodo iniziale in cui furono inaugurati, anche se è certo che non ne avrebbe condiviso la responsabilità quando divennero aperto tradimento. La risposta sta nella premessa a questo lavoro: fu l’immaturità oggettiva dello schieramento rivoluzionario che determinò tali smarrimenti di rotta. E nel novero degli elementi oggettivi di ciò che fu una sconfitta del proletariato (sconfitta tuttavia relativa ad una battaglia e non, per quanto importante sia stata, della guerra che si deciderà nei prossimi decenni) va sicuramente considerato il crollo dell’Armata Rossa nei pressi di Varsavia nell’agosto-settembre 1920.
Lenin, favorevole alla firma della pace, resosi conto dell’impossibilità per la Russia di sostenere ancora anni di guerra, noterà fin dal novembre del 1920, durante i lavori dell’VIII Congresso dei Soviet, che questi avvenimenti avevano determinato una svolta di fondo della crisi rivoluzionaria del dopoguerra. In un articolo successivo, dell’agosto 1921, (Tempi nuovi, errori vecchi in forma nuova) dirà che, in quel periodo, «nella nostra lotta di importanza mondiale abbiamo raggiunto il punto culminante e al tempo stesso più difficile».
Sembra paradossale ma la sconfitta dell’Armata Rossa a Varsavia coincide anche con la sconfitta definitiva, a causa del riacutizzarsi delle rivalità franco-inglesi, delle varie armate bianche controrivoluzionarie sostenute dalle potenze dell’Intesa. Per la prima volta dall’Ottobre, visto che anche la Polonia non può più rischiare altre offensive, la Russia può considerarsi vincitrice della guerra che ormai durava da tre anni: nessun soldato straniero si trova sul suo territorio e ciò costituiva un grandioso risultato storico della Rivoluzione Russa.
Tuttavia è proprio per questo che i pericoli diventano più consistenti: le potenze dell’Intesa possono lasciare in pace la Russia, sia perché vi sono costrette, sia perché non esiste più un pericolo immediato di vittoria rivoluzionaria nei loro paesi. Da questo momento – Lenin se ne rende perfettamente conto – la Rivoluzione Russa sa che non può contare a breve scadenza (che allora si contava in mesi) su alcuna vittoria del proletariato in occidente, come fino a quel momento si era sperato. Al X Congresso del P.C.U.S., nella primavera del 1921, Lenin esaminerà la nuova situazione internazionale con la stessa chiarezza e profondità di sempre: i compiti che si pongono al Partito sono quelli relativi al passaggio dal periodo della guerra a quello della pace. Durante l’ultima guerra con la Polonia sono state mobilitate tutte le risorse della Russia, gravando in particolare sui contadini, e quasi sicuramente sono state sopravalutate le forze interne.
Ottenuto il grandioso risultato che nessun soldato nemico è più sul territorio russo, ora è necessario rivolgere tutto il lavoro di Partito alla “edificazione economica”, pena la disfatta totale. Il nemico non è più rappresentato dalle guardie bianche e dalle armate imperialiste, costrette a ritirarsi, ma non per questo è meno pericoloso; esso è rappresentato dal fatto che la dittatura proletaria è immersa in una grandissima maggioranza di elementi piccolo-borghesi, soprattutto di contadini. Per continuare ad avere il loro indispensabile appoggio è necessario assolvere nel migliore dei modi gli impellenti compiti economici, facendo prima di tutto notevoli concessioni ai contadini, sui quali inevitabilmente dovrà pesare l’industrializzazione. Nello stesso tempo sarà necessario fare concessioni anche ai capitalisti stranieri con i quali è urgente ed indispensabile concludere accordi commerciali. Non è assolutamente possibile astrarre da queste urgenti necessità materiali.
Non per questo Lenin dimentica di collocare le questioni anche contingenti di mera sopravvivenza relativa al potere in Russia nel contesto internazionale della lotta di classe:
«L’aiuto dei paesi dell’Europa – dice nel suo rapporto al X Congresso del P.C.U.S. – sta arrivando, ma non così rapidamente (...) In confronto all’anno scorso la Rivoluzione Internazionale ha fatto un grande passo avanti: L’Internazionale Comunista ha cominciato ad esistere come Partito indipendente (...) Ma se da questi indizi deducessimo che in generale tra breve da quei paesi giungerà l’aiuto sotto forma di una rivoluzione proletaria duratura, saremmo semplicemente dei pazzi. In tre anni abbiamo imparato a capire che puntare sulla Rivoluzione Internazionale non vuol dire fare assegnamento in una data precisa e che il ritmo di sviluppo, sempre più rapido, potrebbe portare la Rivoluzione per questa primavera, ma potrebbe anche non portarla. Dobbiamo quindi saper conformare la nostra attività con i rapporti di classe all’interno del nostro paese e degli altri paesi, in modo da essere in grado di mantenere la dittatura del proletariato per lungo tempo».
La sconfitta dell’Armata Rossa in Polonia, la successiva pace e la sconfitta delle ultime formazioni bianche (Wrangel) determinarono quindi un cambiamento sostanziale nei rapporti di classe nella Russia. La Rivoluzione si era trovata a raccogliere i frutti della vittoria militare contro tutti i nemici interni ed esterni, ma, da un lato, il paese si trovava in condizioni economiche al limite della fame e della carestia generalizzate, dall’altro, non poteva contare a breve scadenza sulla vittoria della Rivoluzione su qualche altro Stato. Nonostante la simpatia dimostrata, neppure la presenza dell’Armata Rossa nelle vicinanze di Varsavia aveva contribuito a far decidere il proletariato tedesco a sferrare l’attacco rivoluzionario decisivo, messi nel conto anche i gravi difetti di indirizzo manifestati in tutto questo periodo dal KPD. Tanto meno il proletariato polacco, che addirittura partecipò numeroso alla “difesa della patria”.
Da quel momento in poi i compiti dei comunisti in Russia dovevano modificarsi: fino ad allora il compito principale era stato di carattere militare, da ora in avanti sarebbe diventato economico: resistere sul terreno dell’economia anche a prezzo di grandi concessioni al capitalismo interno ed esterno come condizione per mantenere il potere politico. Per la vittoria definitiva la rivoluzione russa da sola non bastava, era necessaria la rivoluzione europea. Dimenticare questo legame avrebbe condotto allo stalinismo.
I risultati non mancarono. Nel corso del 1921 e del 1922 furono fatti grandi passi in Russia nella direzione della “edificazione economica”, tanto che Lenin stesso, rimessosi provvisoriamente dalla malattia, nel suo breve intervento al IV Congresso dell’Internazionale, insistette molto sulle conquiste avvenute nell’anno precedente, prima di tutto contro il pericolo dal quale era stato possibile scampare: quello della fame, acutissimo nel corso di tutto il 1921 e che nel novembre del 1922 poteva dirsi definitivamente superato. I successi nella “edificazione economica” (è Lenin stesso ad usare tale termine, che verrà ripetuto in ogni occasione, esso sta a significare che si trattava di favorire lo sviluppo capitalistico dell’economia) si dovevano sia alla svolta della NEP in politica interna sia all’apertura del mercato russo al capitale internazionale, e soprattutto europeo, attraverso una serie di trattati e di contatti diplomatici.
Negli stessi paesi occidentali fin dal gennaio 1920 si erano fatte consistenti le tendenze favorevoli all’abolizione del blocco commerciale anti-russo, per la duplice ragione che impediva sia la rapina delle immense risorse del territorio russo sia di rifornire di merci capitaliste l’altrettanto immenso mercato; e quanto ciò fosse importante lo dimostra il semplice dato relativo all’Inghilterra che prima della guerra riceveva 1/3 delle sue importazioni di lino dalla Russia. Da parte sua il governo russo aveva manifestato, fin dal novembre 1919 dopo la nomina di Čičerin a capo della diplomazia, il suo interesse ad aprire relazioni commerciali con i paesi occidentali.
Il primo accordo fu firmato a Copenaghen con l’inviato del governo inglese per uno scambio di prigionieri politici; il 12 febbraio 1920 e nel marzo cominciarono le trattative per accordi commerciali con Danimarca e Svezia, che però furono interrotte quasi subito a causa della guerra contro la Polonia, che aveva ripreso le ostilità, nonostante le profferte di pace del governo sovietico, il 2 aprile 1920 sfondando il fronte russo a Kiev il 6 maggio. Le trattative commerciali ripresero nonostante la guerra, ma venivano continuamente sabotate.
Per quanto riguarda il pagamento delle merci di cui la Russia aveva bisogno, i delegati del governo sovietico offrivano il pagamento in oro, visto che nessuno era disposto a far credito, ma si obiettava che si trattava di oro illecitamente confiscato dal governo russo ai precedenti proprietari.
Fu la Svezia per prima a rompere il ghiaccio, non attraverso il governo ma con un gruppo di 15 società disposte a vendere all’URSS materiale agricolo e ferroviario: l’accordo fu firmato il 15 maggio 1920. Dopo tale accordo l’inviato del governo russo, Krasin, fu invitato anche a Londra dove alla fine del mese di maggio ebbero inizio le trattative con il governo. In tutto questo periodo la guerra russo-polacca era favorevole alla Polonia e l’Inghilterra si dimostrò disposta a firmare l’accordo commerciale in cambio di concessioni accettabili. Quando nel giugno le sorti della guerra si volsero a favore della Russia, il governo inglese interruppe le trattative ormai quasi giunte a conclusione e pose la condizione pregiudiziale di un armistizio immediato con la Polonia. Krasin ricevette l’ordine perentorio del governo sovietico di non cedere ed ogni contatto fu interrotto.
L’episodio permette due considerazioni. Prima di tutto, in quella situazione, una sconfitta della Polonia da parte dell’Armata Rossa, se era considerata dall’Inghilterra un fatto estremamente pericoloso, non lo era tanto per i suoi interessi immediati (era infatti la Francia direttamente interessata), ma soprattutto per la saldezza del potere politico di tutti gli Stati occidentali. In secondo luogo il governo bolscevico non ebbe il minimo dubbio nel dare la prevalenza alle questioni politiche-militari, nonostante l’estrema gravità della situazione economica interna al limite della fame; ciò dimostra che un’eventuale avanzata verso Varsavia, ed a maggior ragione una totale sconfitta dell’esercito polacco erano considerati determinanti per lo scioglimento del nodo storico in favore della Rivoluzione europea. La situazione era seguita giorno per giorno al II Congresso dell’Internazionale, che allora si stava svolgendo in una atmosfera di giustificato ottimismo.
Dopo la firma dell’armistizio con la Polonia, passata ormai la paura dell’Armata Rossa a Varsavia, che avrebbe significato ad un passo da Berlino, il governo inglese sarà nuovamente disposto a riprendere le trattative ed un accordo commerciale anglo-russo sarà finalmente firmato nel marzo 1921. Le relazioni successive tra l’URSS e l’Inghilterra non furono però molto floride, nonostante l’accordo: la politica delle cosiddette concessioni registrò un sostanziale fallimento nel corso del 1922. Al IV Congresso dell’Internazionale Trotski dovette ammettere che sulle concessioni a imprese inglesi per l’impianto di attività industriali in Russia si erano fatte solo delle grandi discussioni, ma poche realizzazioni.
Fu invece con la Germania che la Russia tenterà con successo di avere normali rapporti diplomatici e commerciali, in quanto la pace di Versailles, che strangolava l’economia tedesca, era anche all’origine della convinzione degli stessi dirigenti della Germania di poter trovare solo ad Est eventuali alleati. Visto che la Polonia era sotto tutela francese (la Francia era la più rigida sostenitrice dell’integrale applicazione della pace di Versailles) non rimaneva che la Russia. Perfino all’interno della Reichswehr non mancavano i sostenitori della necessità dell’alleanza con la Russia contro le potenze dell’Intesa, il che alimentò anche nell’Internazionale alcune posizioni favorevoli al cosiddetto “nazional-bolscevismo”. Sembra che addirittura lo stesso comandante della Reichswehr, generale Von Seeckt, nella fase più favorevole all’Armata Rossa nella guerra russo-polacca, dichiarasse pubblicamente la sua speranza che la Russia risultasse vincitrice. Ciò dimostra che esistevano rilevanti forze oggettive che dovevano condurre a gettare le basi per la conclusione di accordi di notevole importanza per i due paesi. E l’occasione non tardò a verificarsi.
La conferenza di Genova dell’aprile del 1922 fu la prima del dopoguerra tra vinti e vincitori per tentare di accordarsi sulla ricostruzione economica. Essa fu possibile anche per l’atteggiamento della Russia favorevole a fare concessioni al Capitale europeo per lo sfruttamento delle sue risorse economiche e per il rifornimento del suo mercato, improvvisamente sbarrato dalla Rivoluzione. Il 2 ottobre 1921 Čičerin aveva diramato una nota ufficiale con la quale si impegnava a riconoscere la responsabilità del governo russo anche per i prestiti fatti allo zar prima del 1914 e ciò favorirà lo svolgimento della Conferenza. Tuttavia si risolverà in un fiasco, come anche la successiva dell’Aia, a causa del nuovo e già insanabile contrasto non solo tra la Germania e le potenze dell’Intesa, ma anche tra la Francia e l’Inghilterra, mentre, da parte loro, gli USA la disertarono completamente, intenti come erano a sostituire nel mondo il loro colonialismo “dalle mani pulite” a quello delle nazioni europee ed in specie dell’Inghilterra.
Alla data della Conferenza di Genova l’alleanza franco-inglese non aveva più alcuna base materiale: ancora si reggeva esclusivamente perché nessuna delle due nazioni si sentiva pronta per una nuova guerra, nonostante che i loro interessi nell’Europa centro-orientale fossero ormai assolutamente divergenti. La Francia infatti aveva soprattutto bisogno di mezzi finanziari per far quadrare il bilancio dello Stato e non temeva, da paese ancora prevalentemente agricolo, le esportazioni di manufatti tedeschi a basso prezzo; l’Inghilterra era nell’opposta situazione, in quanto le esportazioni tedesche, uniche risorse della Germania per procurarsi la valuta per le riparazioni, erano pericolosamente concorrenti con le merci inglesi sul mercato internazionale. Perciò la politica della Francia era orientata a mantenere il principio delle riparazioni, mentre l’Inghilterra era già propensa a prendere in esame proposte di modifica. Per la Francia inoltre le riparazioni significavano mantenimento della Germania in uno stato di soggezione anche militare, impedendo qualunque pericolo di rivincita a breve scadenza, e ciò era indispensabile per la riuscita dei suoi piani: conquistare la supremazia economica in Europa per opporsi all’imperialismo inglese.
Perciò le conferenze non potevano sortire alcuna apprezzabile intesa. L’unico risultato importante della Conferenza di Genova, più sul piano diplomatico che su quello dei rapporti commerciali, fu il trattato di Rapallo tra Russia e Germania, sanzionando una tendenza oggettiva, già implicita nell’evoluzione dei loro rapporti negli anni immediatamente precedenti. Con tale trattato la Russia rientrava ufficialmente nel concerto delle nazioni europee; vi si stabiliva inoltre la rinuncia a tutte le reciproche rivendicazioni finanziarie, attaccando così lo stesso principio delle riparazioni di guerra. Da questo momento in poi le relazioni dell’URSS con la Germania migliorarono continuamente: nel novembre del 1922 vi fu perfino lo scambio dei rispettivi ambasciatori. Nel corso dell’anno il flusso commerciale fra i due paesi era aumentato considerevolmente ed insieme agli accordi commerciali furono firmate perfino intese militari con le quali la Germania si impegnava a vendere all’URSS armi ed addirittura ad inviare ufficiali tedeschi in URSS per l’addestramento.
Nel suo intervento al IX Congresso dei Soviet del 23 dicembre 1921, Lenin aveva nuovamente spiegato qual’era il dato caratteristico e fondamentale della nuova situazione internazionale. Avendo aperto la rivoluzione russa una breccia nella guerra imperialista si pensava che tutti i popoli si sarebbero sollevati ponendo a breve scadenza la vittoria del proletariato alla scala internazionale. Dato che lo sviluppo della rivoluzione europea non è stato così semplice, lineare e diretto come si sperava, dovevamo chiederci come sia potuto avvenire che l’unica repubblica socialista abbia potuto resistere, pur nell’accerchiamento di tutte le potenze imperialistiche. L’unica spiegazione poteva consistere nel fatto che l’URSS aveva ottenuto sostanzialmente appoggio e simpatia da parte di tutti i lavoratori degli altri paesi. Non si trattava di quell’appoggio nel quale i comunisti speravano, quello diretto e rivoluzionario («ciò bisogna ammetterlo francamente» – dice con amarezza Lenin), ma per quanto possa essere debole, esso ha permesso l’attuale equilibrio, la «bizzarra situazione» in cui le potenze imperialistiche, molto più forti dell’URSS sul terreno economico e militare, tuttavia erano state costrette a lasciarla in pace.
L’estrema debolezza della Russia non poteva non avere ripercussioni anche sulla politica di incondizionato appoggio alle rivoluzioni nazionali anti-imperialistiche, proclamato nelle risoluzioni del II Congresso dell’Internazionale e del I Congresso dei popoli coloniali a Baku. Le concessioni al capitale internazionale, specialmente inglese, non potevano essere solo economiche: l’imperialismo pretese un sostanziale tributo anche sul piano politico-militare. Per la conclusione del trattato con l’Inghilterra quest’ultima aveva preteso l’impegno formale della Russia di astenersi dall’appoggio diretto di movimenti anticoloniali, specialmente in Asia.
Che tali impegni, almeno in parte, dovevano essere rispettati risultò evidente negli avvenimenti in Persia, che in quegli anni stava conducendo la lotta di indipendenza dall’Inghilterra. La politica della Russia, che il 26 febbraio 1921 aveva firmato un accordo con il nuovo governo persiano, tendeva a rafforzare l’unità del nuovo Stato, per garantirsi da un possibile nuovo uso del suo territorio per attacchi contro la Russia, come era avvenuto negli anni appena trascorsi. Questa politica tuttavia si trovò in contraddizione con l’appoggio che in un primo tempo anche la Russia aveva dato, per mezzo dell’Armata Rossa, alla repubblica del Gilan, favorevole ad un governo di tipo sovietico, ed ostile al governo centrale di Teheran. Per ottenere il ritiro di tutte le truppe inglesi dal territorio persiano, nel corso del 1921 la Russia dovette abbandonare la repubblica del Gilan alla repressione dello Stato centrale persiano.
Sarebbe non soltanto ingeneroso, ma anche profondamente errato vedere in queste concessioni al capitale internazionale, come del resto in quelle contemporanee al capitale interno, l’inizio dei primi sintomi della degenerazione della Russia e dell’Internazionale. Lenin era chiarissimo e chiamava le cose con il loro nome: vista la situazione, definita «bizzarra», per cui le potenze imperialistiche lasciavano in pace il governo sovietico (perché sono costrette a farlo), bisognava saperne approfittare. Da qui in avanti i comunisti si dovranno trasformare in commercianti ed industriali perché ciò è indispensabile per riuscire almeno a mangiare, continuando così ad assicurarsi l’appoggio dei contadini. Solo a questa condizione sarebbe stato possibile mantenere nella Russia il potere politico e solo così la Russia avrebbe potuto continuare a costituire il punto di forza della purtroppo lontana, ma inevitabile, rivoluzione internazionale.
Era chiaro, ed era affermato a chiare note, che in Russia si doveva favorire lo sviluppo del capitalismo, puntando al massimo sul capitalismo di Stato. Tale ambizioso programma, l’unico che avrebbe potuto conservare per la successiva ondata rivoluzionaria le conquiste degli anni trascorsi, non poteva essere sostenuto con le sole forze dei comunisti russi, per di più decimati da tre anni di guerra civile. Il sostegno, se non delle rivoluzioni vittoriose, almeno del movimento comunista mondiale, ne doveva costituire l’ossigeno. Altrimenti la rivoluzione, rinchiusa negli angusti limiti di uno Stato nazionale, per di più semifeudale, non poteva non ripiegare e degenerare, come di fatto sarebbe avvenuto di lì a poco, soverchiata dalle preponderanti forze interne ed internazionali favorevoli allo sviluppo capitalistico in Russia. Ciò, almeno fino a tutto il 1922, era evidente e chiaramente affermato.
Tuttavia il legame indissolubile tra la vittoria del socialismo in Russia e la rivoluzione mondiale cominciò a passare in secondo piano nella propaganda interna, rispetto alle esigenze dell’elettrificazione e delle altre necessità materiali impellenti. Anche fu sottovalutato l’enorme salasso di forze proletarie e comuniste che gli anni della guerra civile avevano imposto al Partito bolscevico. Infine, già durante il 1920 e il 1921, furono lasciate passare nella stessa Internazionale alcune teorizzazioni sulle caratteristiche della Germania quale nazione oppressa dalle potenze dell’Intesa, per cui si sarebbe potuto, in un certo senso, equipararla alle nazioni sottosviluppate, abbagli deleteri per la corretta impostazione della tattica rivoluzionaria del KPD e dell’Internazionale stessa.
Al IV Congresso dell’Internazionale, nel novembre 1922, la situazione dei rapporti tra la Russia e il resto del mondo, viene esaminata in due risoluzioni. Una sulla rivoluzione russa, in cui si ribadiscono i principî generali del legame indissolubile tra la sua vittoria definitiva e la rivoluzione in occidente; l’altra sul Trattato di Versailles, in cui la Germania viene apertamente definita, proprio in quanto nazione, una colonia del capitale inglese e francese, e la lotta contro il Trattato di Versailles è considerato un obiettivo giusto in sé stesso, scisso dall’obiettivo della rivoluzione proletaria, venendo quindi a sostenere la possibilità di rivoluzioni non puramente proletarie in un paese capitalistico quale era certamente la Germania degli anni ’20. Alcune dichiarazioni di capi dell’Internazionale durante il IV Congresso cominciarono già a discostarsi sensibilmente dall’iniziale corretta visione rivoluzionaria. Ad esempio, Bucharin, nel suo discorso sul programma del Komintern, dichiarava:
«Io affermo che noi siamo già abbastanza grandi da concludere una alleanza con una borghesia straniera al fine di essere in grado, per mezzo di questo Stato borghese, di abbattere un’altra borghesia (...) Supponendo che sia stata stipulata un’alleanza militare con uno Stato borghese (l’allusione alla Germania era più che evidente), il dovere dei comunisti in ciascun paese consiste nel contribuire alla vittoria dei due alleati».
E Radek, in un rapporto preparato per il IV Congresso, che poi non fu tenuto e che fu pubblicato ad Amburgo nel dicembre 1922 con il titolo The winding-up of the Versailles Treaty, sosteneva:
«La politica di strangolamento della Germania implicava di fatto la distruzione della Russia come grande potenza; infatti, indipendentemente dal modo con cui è governata la Russia, è sempre suo interesse che la Germania esista (...) Una Russia indebolita all’estremo dalla guerra non potrebbe rimanere una grande potenza, né ottenere i mezzi economici e tecnici per la sua ricostruzione industriale, se non avesse nell’esistenza della Germania un contrappeso alla preponderanza degli alleati».
Dal IV Congresso dell’Internazionale in poi tali tendenze si accentuarono. Tuttavia potevano ancora essere ribaltate e la corretta via rivoluzionaria, come era stata individuata al II Congresso, poteva ancora essere rintracciata, sull’onda di nuovi movimenti proletari, a condizione che i capisaldi programmatici e la vita stessa dell’Internazionale fossero salvaguardati. Quando fu chiaro che, per ottenere risultati nella direzione errata, non si esitò a sacrificare non solo la compattezza dell’Internazionale ma anche i principî fondamentali sui quali si era ricostruita, per consumare poi ogni possibile tradimento, la lotta della Sinistra diventò inevitabile, prima per tentare di salvare il salvabile, poi, rimasta sola, per assicurare quella continuità sulla cui sola base poteva rinascere il Partito.
La tattica dell’Internazionale Comunista
Parti IV e V, in Ordine Nuovo, 12 e 31 gennaio 1922
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