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Puntuali all’appuntamento, apriamo con la consueta "Presentazione"
questo trentanovesimo numero della Rivista. L’anno si chiude nello stesso
fesso e disperato grigiore di controrivoluzione con cui si è aperto, con
le stesse inenarrabili sofferenze di un’umanità sempre più schiava e
succube delle atrocità del capitalismo; e il Partito continua il suo lavoro.
I lettori ritroveranno anche stavolta, come sempre, i temi fissi, gli argomenti costanti del nostro lavoro teorico. In tanta odierna orgia di novità, cambiamenti e mode nuovissime, il Partito ha il coraggio di riaffermare anche nelle sue forme esteriori la fedeltà a sé stesso, al suo modo di leggere i fatti e di esporre la sua teoria; immediatamente riconoscibile in qualunque momento, su una strada che è sempre la solita. Per tanti avversari, la nostra insanabile debolezza. Per noi, e massimo alla luce di questi tempi fetidi, è la nostra forza.
Il "filo" di questa Rivista, lo diciamo con orgoglio, è il solito: trattazione economica, basi teoretiche, storia sindacale e del Partito Internazionale a cavallo delle due Guerre, analisi di situazioni di particolare interesse storico e didattico sul grande scenario internazionale, e come sempre, frammenti illuminanti della nostra "memoria storica" tratti dall’Archivio della Sinistra.
Vediamo allora cosa propone il sommario, articolo per articolo.
Saltati due numeri, riprendiamo l’annunciata serie di grafici tratti dal "Corso del capitalismo", riferiti a quasi un secolo di economia politica degli Stati Uniti d’America. Di tutti gli strumenti che la nostra teoria ci dota per capire il presente ed individuare le linee di tendenza del futuro prossimo e remoto, quello dello studio degli indicatori economici che i formidabili avversari del Comunismo ci mettono a disposizione è uno dei più importanti. La Tabella Storica pubblicata nel "Corso" da cui traiamo questi grafici, ed alla quale rimandiamo il lettore per una visione d’insieme, sintetizza "numericamente" fenomeni storici giganteschi e drammatici: e questi numeri dicono altro al Partito della Rivoluzione di quanto non dicano agli economisti borghesi che quotidianamente li impiegano per la politica economica degli Stati.
In "Sogno-Bisogno del Comunismo" dal piano-programma della trattazione nel numero precedente prende sostanza la nostra etica rivoluzionaria, che nasce da un ricordo insopprimibile in ogni essere umano, e diventa teoria volta al rovesciamento dell’ordine presente.
In termini storici, questione sindacale e politica del partito, sono trattati nel terzo e quarto articolo; nell’uno, che segue dai numeri precedenti, si esamina la storia contrastata dell’attività del sindacato di classe, all’apertura del secolo, quando le differenti correnti che confluirono nel Partito Socialista, si scontrarono in visioni diverse della conduzione politica del sindacato; l’altro articolo tratta la spinosa e contrastata direttiva al Partito Comunista di Gran Bretagna da parte della Terza Internazionale, di affiliarsi al Labour Party, le critiche di sinistra a quella decisione, e sopratutto il tormentatissimo esito di tutta la vicenda.
Dopo l’articolo generale introduttivo della Rivista precedente, si entra nel merito della preistoria e storia moderna del Messico, per ritrovare le radici lontane della questione contadina ed i motivi della rivoluzione nazionale. Parimenti segue dallo scorso numero la trattazione sulla storia della fase rivoluzionaria alla metà del secolo scorso in Spagna, ripresa sulla falsariga dei lavori di Marx ed Engels.
La recente storia dell’imperialismo prosegue nel settimo articolo che tratta delle necessità militari del secondo dopoguerra, con la creazione della Nato, ed i bisogni della politica economica dei vincitori, gli Stati Uniti d’America, che imposero la loro dittatura economica e militare sulla vinta Europa con i vari "Piani" ed aiuti. La trattazione di storia dell’oggi, con l’analisi delle radici del futuro conflitto economico tra Vecchio e Nuovo Mondo, e forse innesco per una terza guerra imperialista, chiude la parte "mobile" della Rivista; a seguire le due parti fisse, ormai tradizionali nel nostro lavoro.
Il nostro modo di "fare storia" ha già iniziato a descrivere la fase interbellica; svanita la fiammeggiante prospettiva della Rivoluzione mondiale nella controrivoluzione staliniana, nel pieno della crisi economica che scuote il mondo, solo l’infima minoranza dei compagni della Frazione rimaneva schierata sul fronte rivoluzionario. Per i proletari, privi di guida ed anzi traditi dai loro capi passati al nemico, sconfitte continue e sanguinose mentre si iniziano a delineare i fronti del futuro massacro e gli Stati si danno con sempre maggior lena a parlar di pace.
E sempre riferiti allo stesso periodo ripubblichiamo per l’Archivio
due articoli del marzo ’34 usciti su "Prometeo", alla vigilia dell’Anschluss,
che dimostrano in modo dolorosamente drammatico come sempre, prima dei
conflitti interstatali, le borghesie nazionali soffochino nel sangue i
movimenti operai nazionali: la fine dello Stato austriaco sotto il tallone
del Reich nazionalsocialista è segnata dalla violenta repressione da parte
del governo cristiano-sociale, che non esita a cooptare le milizie controrivoluzionarie
legate al futuro invasore. La camicie brune di Hitler e l’esercito del
Reich chiuderanno il cerchio della sconfitta operaia.
(continua dal numero 36)
Settore Usa
Concentrato della virulenza
e della decomposizione planetaria
del capitalismo
La tabella storica
Questo il titolo che, ristampando il Corso con riordino della materia che veniva pubblicata sul giornale in un sovrapporsi di temi, abbiamo dato al capitolo che allinea quanto dedicato all’analisi dell’espandersi capitalistico negli Stati Uniti d’America. Quel centro di accumulazione nazionale, preso a modello dalle vili borghesie dell’est, oggi privatizzate esattamente come ieri collettivizzate, nell’arco di due secoli ha rivoluzionato in continuazione e profondamente sé stesso e le sue classi sociali, trasformando un continente dallo stato selvaggio ad un groviglio di contrasti industriali, agricoli e finanziari che solo la distruzione del mercantilismo e del lavoro salariato possono risolvere.
La Tabella Storica è una rappresentazione numerica, certo perfettibile e ampliabile, di quei giganteschi fenomeni ai quali sono legati i destini della nostra rivoluzione internazionale che, appoggiandosi alla crisi sociale e alla disobbedienza e rivolta classista del proletariato americano di tutti i colori di pelle, saprà neutralizzare questa potenza militare a guardia planetaria della conservazione borghese.
Qui riportiamo la traduzione in grafici di una prima parte delle serie statistiche della Tabella, allo scopo di facilitarne e renderne evidenti le tendenze generali.
Grafici n. 1 e 2 - Territorio; Densità; Popolazione; Popolazione
Urbana; Immigrazione - 1790-1990 - dalle colonne 2, 4, 5, 1 e 3 rispettivamente.
Questi primi due quadri hanno il pregio di iniziare dal 1790 coprendo quindi due secoli di storia americana. L’alzarsi delle curva del Territorio indica nel 1803 l’acquisto dalla Francia della Luisiana, bacino immenso oltre il Mississippi, il che fece raddoppiare l’estensione della repubblica; del 1819 è l’acquisto dalla Spagna del Territorio dell’Oregon, vasta regione settentrionale affacciata sul Pacifico; del 1836 il distacco del Texas e del 1853 l’acquisto dal Messico dell’Arizona e del Nuovo Messico; l’acquisto dell’Alaska dalla Russia è del 1867 ma nelle statistiche americane, e nel grafico, viene preso in conto, insieme alle Hawai, solo in questo dopoguerra. L’effetto di tale vasto territorio subpolare è evidentemente deprimente sulla densità media; anche scorporandone però il peso, questa non sale al di sopra di 30 abitanti per chilometro quadrato.
L’espansione territoriale qui riassunta grossolanamente coincide con l’impianto del modo di produzione capitalistico per cui ha significato la dedotta curva della densità di popolazione. Sono noti gli importanti raffronti con i paesi europei, piccoli ma assai addensati, e la similitudine alla vasta e poco popolata Russia; è altresì da ricordare il cenno del Corso alla Cina, invece sia densa sia estesa.
I grafico della Popolazione mostra ovviamente la sua grande crescita, dovuta la prodotto dei due fattori aumento del territorio e aumento delle densità insediativa. La crescita della popolazione nei due secoli dà il notevole 2,4% medio annuo. Questo ritmo relativo aumenta: presi i sei periodi successivi delimitati degli anni 1790, 1865, 1913, 1929, 1960, 1979, 1993, si ottiene la serie calante regolarmente dei tassi di accrescimento demografico: 3,0% - 2,1% - 1,4% - 1,3% - 1,2% - 0,97%. Il grafico "P" presenta un curvatura verso l’alto che tende a diminuire, significando che l’aumento assoluto annuo della popolazione ha cessato di crescere. In migliaia di nati più immigrati eccedenti i morti abbiamo, come media annua, negli stessi periodi la serie: 424 - 1281 - 1537 - 1900 - 2337 - 2321, addirittura con leggero calo nell’ultimo periodo ben significando una raggiunta "stabilizzazione" delle società americana, effetto e anticipo della sua crisi.
La curva "PU" rappresenta la popolazione urbana, intesa quella abitante in centri di più di 2.500 abitanti. Si rileva come l’urbanesimo sia iniziato solo alla fine del secolo scorso e come nell’ultimo periodo sembri che la popolazione urbana cresca meno della totale. La definizione di centro abitato però è insufficiente e più rispondente al fenomeno dell’accentramento capitalistico è quello di area metropolitana.
Il grafico per l’Immigrazione indica il totale decennale in milioni. È evidente il massimo del primo decennio del secolo, con più di otto milioni di persone entrate; minimo dopo la Depressione, poi risalita veloce in questo dopoguerra per fornire di forza lavoro la ripresa del capitalismo. Ci mancano dati recentissimi. Da notare che questi si riferiscono solo alle entrate legali negli Stati Uniti, non computando le immigrazioni clandestine, che non sottostanno alle forche caudine della richiesta del "visto", valutate di alcuni milioni, attraverso il confine messicano. Ne risulta che il peso dell’immigrazione tuttora non è affatto trascurabile nella trasformazione della società americana e nell’arricchimento del suo capitale.
Grafici n. 3 e 4 - Forza lavoro civile; Salari; Disoccupati 1900-1990
- dalla colonne 7, 13 e 11.
Questi grafici iniziano solo dal 1900.
Anche la forza lavoro "F" cresce sempre e sulla forma delle curva si possono fare le stesse considerazioni che su quella della popolazione.
Illuminante quella sui Salari: è chiaro che, a differenza di tutti gli altri grafici, che sempre salgono variandone solo il grado di velocità, qui siamo di fronte ad un fenomeno tendenzialmente stabile e che se è cresciuto in passato è destinato a decrescere oggi. Smentendo le teorie controrivoluzionarie e mistiche del Progresso per la classe lavoratrice, qui risulta evidente come il massimo della "prosperità" appartenga ormai al passato e che le condizioni di chi lavora non riprenderanno per lungo pezzo a salire. Nella Tabella la colonna 13, quella dei Salari, si intenda calcolata dal prodotto delle colonne 12 e 26, ovvero dal rapporto 12/24.
Il grafico dei Disoccupati è qui tracciato per medie quinquennali. Svetta la crisi del 1929-33, preceduta, come da teoria, dal miglior quinquennio del secolo! È il benessere capitalistico che si capovolge nel suo complemento catastrofico, il benessere produce la miseria. Con questo non vogliamo affermare che la fase depressa attuale escluda il precipitare di un futuro collasso industriale, anzi. Le oscillazioni nella disoccupazione sono continue, essendo come ben sappiamo, necessario fondo di riserva per la domanda di forza lavoro. Quasi pieno impiego nel quinquennio 1965-69, poi di nuovo aumento, massimo nel 1980-85, poi diminuzione di poco. Quel che dal grafico ricaviamo è la evidenza del fatto che nulla come la grande depressione si è finora riprodotto in questi nostri decenni di crisi, fenomeno sconvolgente che siamo però legittimati ad attenderci in un futuro non lontano, fra le cui conseguenze la ripresa del movimento proletario sulle sue basi di classe e rivoluzionarie,
Grafico n. 5 - Indice della Produzione Industriale 1860-1990 - dalla colonna 14.
Torniamo qui a rappresentare l’enfiarsi della Produzione Industriale, dal 1860 al 1890 e con "ingrandimento" dal 1980 al 1984.
Si tratta, come sa chi segue il nostro lavoro di indagine economica, di una rappresentazione che descrive solo il progredire del capitalismo escludendo l’effetto delle crisi periodiche e delle guerre: qui è rappresentato il capitalismo Usa come se si fosse sviluppato senza discontinuità, la curva collegando fra loro solo anni di massimo nelle produzioni e ignorando gli altri. Insomma partendo da questo concediamo all’imputato di condanna a morte la versione dei fatti a lui più favorevole... Il grafico che pubblichiamo è disegnato prendendo non gli anni di massimo ma gli estremi dei decenni, con esclusione del 1913: lo scostamento rispetto all’inviluppo dei massimi non è però grande non essendo alcuno dei vertici adottati anno di grave crisi.
Come per la Popolazione venivamo qui a considerare gli aumenti assoluti negli Indici della Produzione, ben sapendo e non stando qui a ricalcolare i saggi relativi, che si confermerebbero regolarmente discendenti. Prendendo gli anni di massimo nel 1860, 1873, 1883, 1892, 1902, 1913 1920 (prima della guerra), 1929, 1943 (scavalcando depressione e riarmo), 1969 (scavalcando guerra e ripresa), 1979, 1993 otteniamo la serie dell’aumento medio annuo assoluto dell’indice: 0,5% - 0,7% - 1,3% - 1,8% - 4,8% - 6,6% - 17,1% - 18,5% - 33,1% - 26,4%. L’ultimo periodo è in controtendenza rispetto ai precedenti, come ben mostra il grafico. Segno di grave impiccio sovraproduttivo di merci che va ingolfandosi ormai almeno da vent’anni e finirà per bloccare del tutto la folle macchina della riproduzione.
Grafico n. 6 - Indice del Prezzi al consumo 1800-1994 - dalla colonna
22.
Si distinguono nettamente due periodi: fino alla Seconda Guerra mondiale
le deflazioni periodicamente compensavano i cicli inflativi; dopo è il
deprezzamento dei segni a dominare. Risultano confermate le nostre diagnosi,
che le guerre portano inflazione (1860, 1915, 1940) e le crisi deflazione.
In tutto l’arco di duecento anni le variazioni dei prezzi sono sempre state
violente, provocando spesso la rovina di interi ceti agricoli; l’attuale
non è maggiore come variazione annua, ma è sempre nello stesso senso
e nemmeno la crisi del 1974-1975 è riuscita ad invertirla, anzi l’ha esasperata.
- "Utile" o "Profitto"
- L’enigma ricchezza
- Onesti, bricconi e malvagi di oggi
- Attuale iperempirismo
- La gatta frettolosa
- Morale sociale
- La ragione di Stato
- Sotto il giogo della necessità
Riunione generale di Firenze - settembre 1995
SINDACALISTI RIVOLUZIONARI E RIFORMISTI
ASPIRANTI BECCHINI DEL PARTITO DI CLASSE
Il congresso del partito socialista italiano del 1906 a Roma ha visto le posizioni della sinistra marxista ai minimi storici, dato il confronto tra l’ala sindacalista e quella riformista, uscita vincente con 26.943 voti, contro 5.278 dei sindacalisti e 1.161 per l’o.d.g. Lerda degli intransigenti.
La giusta reazione verso il riformismo prende la forma errata del sindacalismo rivoluzionario che intende sostituire il sindacato al partito, riducendo il primo ad «educare e promuovere la costituzione sindacale, cioè in classe, del proletariato», come riporta il loro ordine del giorno al congresso. Viene detto sì alla distruzione dello Stato borghese ma non alla dittatura politica proletaria. Nello stesso o.d.g. viene detto poi che gli organismi di mestiere devono arrivare a rappresentare la totalità degli interessi operai non solo per la finale azione rivoluzionaria ma anche per «miglioramenti compatibili con la esistenza della società presente».
Ecco le basi della concezione gramsciana del controllo operaio del 1919. Lo stesso o.d.g. afferma poi che l’azione rivoluzionaria si applica con lo sciopero generale, ma «mira a togliere alle classi capitalistiche le difese materiali dello Stato, trasferendone le funzioni agli organi sindacali o all’individuo».
Era ovvio che riformisti tutt’altro che sprovveduti come Turati o Treves avessero buon gioco nel combattere questa che definirono come mitologia soreliana che tornava a Bakunin per paura delle parole potere e partito. Ai sindacalisti potremmo rispondere con le stesse parole usate da Engels contro gli anarchici nel suo scritto "Dell’autorità": «Gli anti-autoritari domandano che lo Stato politico autoritario sia abolito d’un tratto, prima ancora che si abbiano distrutte le condizioni sociali che l’hanno fatto nascere. Essi domandano che il primo atto della rivoluzione sociale sia l’abolizione dell’autorità. Non hanno mai veduto una rivoluzione, questi signori? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia: è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari, se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non vuol aver combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le armi inspirano ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno se non si fosse servita di questa autorità di popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può al contrario rimproverarle di non essersene servita abbastanza largamente? Dunque, delle due cose l’una: o gli anti-autoritari non sanno ciò che dicono, e in questo caso non seminano che confusione; o essi lo sanno, e in questo caso tradiscono il proletariato. Nell’un caso e nell’altro essi servono la reazione».
L’o.d.g. Lerda, che si mantenne nella linea del partito storico, rifiutava il sindacalismo come concezione teorica capace di condurre all’emancipazione del proletariato, ma ne accettava il principio della lotta di classe, inviso all’o.d.g. integralista che lasciava aperta la possibilità di una collaborazione coi partiti borghesi.
I sindacalisti uscirono dal partito nel 1907 e fondarono l’Unione Sindacale Italiana in antitesi alla CGL, egemonizzata dai riformisti. Rigola parlava di "autonomia temperata" del Gruppo parlamentare, e quanto alla Confederazione sosteneva l’impegno della Direzione del partito, «quando si tratti di cose interessanti non solo il Partito socialista ma anche e principalmente il proletariato», a «sentire anche le organizzazioni di mestiere». L’autonomia riguardava anche le sezioni del partito, tanto è vero che a Milano se ne ebbe una seconda, sotto il patrocinio di Turati.
Al congresso del partito del 1908 a Firenze, la destra manifestò più apertamente le proprie idee, e Rigola disse che «le organizzazioni economiche non possono essere più sotto la dipendenza del Partito Socialista», sostenendo la supremazia della Confederazione sul Partito. La frazione intransigente di Lazzari e Ratti si oppose, anche se confusamente, a tali posizioni sostenendo la necessità di «un solo programma, un solo principio, un solo metodo, una sola disciplina». Veniva respinto il mito sindacalista dello sciopero generale, ma non l’arma possente che questo poteva costituire, arma di cui i riformisti erano invece ansiosi di sbarazzarsi. Al congresso vinsero i riformisti con 18.000 voti contro 6.000 degli integralisti e 5.400 di un o.d.g. intransigente firmato da Lerda, Serrati e Musatti.
È interessante mettere a confronto due scritti di quegli anni, uno del sindacalista rivoluzionario Enrico Leone, e l’altro del riformista Ivanoe Bonomi. Enrico Leone nel 1904, ne il “Socialismo” scrive: «Con l’ultimo sciopero generale il proletariato d’Italia ha fatto il suo ingresso specifico di classe nella nostra storia nazionale. Esso aveva lottato misto e confuso con i primi elementi della borghesia liberale per l’indipendenza italiana. Ripagato con lo sfruttamento più acerbo del nuovo regime politico unitario, si era unito al malcontento dei bassi e medi ceti proprietari nel 1894 e nel 1898 in una sommossa senza caratteristica politica e senza vastità nazionale. Non aveva ancora agito da solo come classe autonoma, e come antagonista di tutto il resto della società. Ora invece nel suo sciopero generale, non solo si è mostrato alla ribalta della storia senza l’ausilio e la cooperazione di alcun altro ceto sociale, ma ha agito di fronte al dichiarato malcontento di quella stessa minuta bottegaia, che si è sentita ferita nella borsa, che è il suo cuore di metallo, e di quella stessa democrateggiante "piccola proprietà sudata" che fa la politica del ventre. Al lume di questo fatto storico nuovo nella vita italiana la "democrazia" di cui tanto si alimentò la corrente riformistica del socialismo italiano, ponendola a capo di ogni sua preoccupazione, si è rivelata in modo palmare come l’ideologia superficiale di conglobati d’interessi fondamentalmente ostili al proletariato». Repubblicani e radicali vengono giustamente considerati come i più tenaci avversari dello sciopero generale e del proletariato.
A questa valida premessa si aggiunge una critica al parlamentarismo, in cui si dice che lo sciopero generale è «la risposta della storia e della realtà a coloro che avevano creduto che la lotta di classe tra proletariato e proprietà non fosse possibile in Italia senza aver prima preparato un ambiente più democratico di governo. La lotta di classe invece esiste già: il proletariato ha indurito le sue ossa, e si dichiara con i fatti già in atto e capace a compiere una politica propria, un’azione specifica di classe».
Arriviamo poi alle posizioni classiche del sindacalismo rivoluzionario: «Lo sciopero generale come arma, direi officinale dei sindacati, presuppone l’azione diretta politica dell’organizzazione sindacale». Ancora: «Lo Stato è l’organo della classe dominante; per ritoglierlo dalle mani delle classi dominanti e passarlo tra le mani del proletariato non basta la scheda elettorale, ma occorre creare nel proletariato la capacità tecnica a poter gestire la vita economica socializzata (...) Ora, l’organo appropriato a questa formazione d’attitudine economica è l’organo economico del proletariato: il sindacato di resistenza e di cooperazione. Riconoscere che esso è l’organo più decisivo di battaglia della classe proletaria, significa implicitamente ammettere la dipendenza di tutta l’azione parlamentare dal sottostante movimento economico del proletariato. Noi anzi diciamo di più. Non è possibile escludere il movimento sindacale dalla direzione della politica socialista (...) È nella federazione sindacale che le coscienze multiple e i molteplici bisogni delle varie categorie di lavoratori perdono le loro accidentalità particolari, e si fondono in una massa omogenea da cui rampolla la inevitabilità coscienza unitaria della classe. Così inevitabilmente dall’interesse economico nasce e si svolge la coscienza politica; onde il sindacato entra con la sua azione diretta nella politica proletaria, arrecandole forza di coesione, di disciplina, di unità, e dandole la base effettiva di classe che non ha nelle prime fasi».
A queste parole chiarissime segue una nota altrettanto chiara: «E che sarà del Partito socialista, come organizzazione politica distinta? L’esperienza avvenire dirà se esso è destinato a sparire del tutto e a fondersi nell’unificato movimento politico-economico del socialismo, o a restare l’avanguardia e la sentinella avanzata dello spirito rivoluzionario del proletariato». Oltre alla dissoluzione del Partito qui auspicata, è interessante l’affermazione di stampo consiglista della capacità tecnica che il proletariato deve acquisire prima di prendere il potere, come dire che potrà prendere il potere solo quando avrà acquisito tale capacità tecnica di gestire produzione e distribuzione. Questa leva è invece già oggi nelle mani dei lavoratori: quel che manca loro è la capacità politica.
Non meno interessante è lo scritto "Le vie nuove del socialismo" di Ivanoe Bonomi: «Senza un’affannosa ricerca dottrinale si compiva in Italia quell’opera di revisione critica del pensiero di Marx che altrove, e specie in Germania, suscitava tanta abbondanza di pubblicazione. L’esperimento e non la critica distruggeva la formula; la realtà e non il libro correggeva la teoria. Il riformismo italiano è nato così sul tronco schietto del sindacalismo operaio. Ma questo sindacalismo operaio era troppo giovane ed inesperto per mantenersi a lungo fedele ad un determinato indirizzo. La sua giovinezza lo spingeva a tentare nuovi esperimenti; la confidenza temeraria nelle sue forze lo incitava a troncare gli indugi. Di questo stato d’animo del sindacalismo italiano si accorse a tempo l’ala rivoluzionaria del partito, che pensò subito a trarne profitto. E mentre fino allora i rivoluzionari si erano baloccati con le formule marxiste, d’un tratto essi innestarono le loro frasi rivoluzionarie sul sindacalismo operaio, mescolando il catastrofismo marxista allo sciopero generale, e con questa stana miscela inebriante iniziarono la conquista dei sindacati per influire con essi sul partito».
Dice Bonomi che la mossa riuscì ma si concluse poi con la sconfitta alle elezioni del 1904 e con l’indebolimento dei sindacati, e continua: «E allora, con quella rapidità italiana, che è propria di un paese che ha molta duttilità intellettuale e nessuna tradizione cui rimanere fedele, il sindacalismo tornò donde s’era mosso: ai metodi riformistici. L’odierna Confederazione del lavoro è appunto il risultato di questa nuova evoluzione (...) Il vecchio partito marxista che pretendeva di racchiudersi in sé tutto il movimento proletario ha, al contatto del sindacalismo operaio e delle realtà della vita economica e politica, modificata profondamente la sua natura (...) Il sindacalismo operaio ha potuto saggiare la diversa efficacia dei metodi riformistici e dei metodi rivoluzionari. Ed è tornato ai primi, spontaneamente, senza costrizioni artificiose. Da questo momento, il sindacalismo operaio imbeve permanentemente del suo spirito il partito, il quale diventa un organo necessario alla sua lotta politica e non già – come era nelle orgogliose pretese di un tempo – tutto il socialismo».
Continua poi l’autore: «Oggi in Europa lottano due concezioni estreme: la vecchia concezione, difesa dagli ortodossi del marxismo, secondo cui il partito è tutto il movimento socialista e l’organizzazione sindacale una specie d’esercito di riserva; e la nuova concezione del sindacalismo rivoluzionario, per la quale il partito non ha più ragion d’essere, anzi è un impedimento al netto delinearsi della lotta di classe, che si annebbia e si attenua tutte le volte che scende sul terreno elettorale. Ma in mezzo a queste due concezioni estreme, ci sembra che l’odierno socialismo europeo ne maturi una terza. Già l’Inghilterra ci insegna come un grande movimento sindacale possa esprimere dai suoi fianchi un partito – il Partito del lavoro – a cui affidare, sotto il suo assiduo controllo, la rappresentanza dei suoi interessi politici. E le tendenze recenti del socialismo tedesco, francese e italiano provano del pari come il movimento di classe del proletariato possa sottomettere a sé il partito, imbeverlo del suo spirito più libero, più sciolto da dogmi e da profezie, senza per ancor sopprimerlo interamente anzi facendo di esso l’organo delle sue battaglie politiche. Ma se il partito può e deve rimanere come strumento necessario, come braccio politico della classe proletaria, è però evidente che l’evoluzione odierna prepara la fine del suo antico carattere, della sua antica funzione, della sua antica disciplina. I vecchi partiti marxisti si proclamavano orgogliosamente gli artefici del socialismo, e d’ora innanzi, invece, essi non saranno che uno degli organi della classe proletaria, dalla quale dovranno ricevere il battesimo socialista. Fino ad oggi, imperando l’antica concezione che il socialismo è tutto nella credenza diffusa da un partito, questo partito ha dovuto essere ferreamente disciplinato, compatto, unitario, rigido come una Chiesa; ma in avvenire il socialismo, trasferendosi nel movimento operaio, l’organo politico della classe proletaria potrà riflettere le sue diverse tendenze e i suoi vari gradi di maturità e di cultura, spesso potrà anche – come in Francia e in Inghilterra – essere costituito da parecchi partiti. Oggi gli appartenenti al partito debbono ancora credere in certe profezie e in certi principi teorici, che hanno valore di verità assolute e indiscutibili, ma nei partiti di domani basterà porsi sul terreno pratico e ideale della classe operaia per diventare degni di interpretarne, nelle assemblee politiche, le speranze e i bisogni. Insomma, la classe proletaria forgerà i suoi organi politici sul modello di quelli della classi borghesi, i quali, per la loro duttilità, la loro scioltezza, la loro libertà intellettuale, sono perfettamente adatti al regime democratico». Conclude infine Bonomi: «È naturale che il vecchio partito, con la sua vecchia anima e la sua superata funzione, scompaia, simile al sasso che, dopo aver sconvolto le specchio inerte della acque, si perde nel fondo, mentre sulla superficie continua a propagarsi, in giri concentrici, l’effetto del suo urto».
Anche noi comunisti sosteniamo l’estinzione del partito, almeno nel
senso di organo politico, ma una volta arrivati a una società senza classi,
tramite la presa del potere e l’esercizio della dittatura politica proletaria.
Potremmo paragonare il partito a Mosè, che muore un attimo prima di vedere
la terra promessa poiché ha ormai assolto alla sua funzione di guida.
Anarco-sindacalisti e riformisti vorrebbero invece farlo morire mentre
il popolo eletto sta attraversando il mar Rosso, con il risultato certo
di farlo spazzare via dai flutti. Evidentemente essi lavorano per il Faraone
della nostra era: il Capitale.
Riunione di Partito, Maggio 1995
Nell’articolo "Intorno al Congresso Internazionale Comunista", pubblicato su "Il Soviet" del 3 ottobre 1920 un redattore della Frazione Comunista Astensionista del Partito Socialista Italiano commentava «la importante questione dell’affiliazione del movimento comunista inglese al Labour Party dibattuta al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista».
Vi si rilevava che, «appoggiata da Lenin, questa proposta fu approvata nonostante forte opposizione. Ci limitiamo per ora a dire che noi non condividiamo né il criterio metodologico di Lenin né la sua valutazione della situazione politica inglese. Ricordiamo anche che la compagna Pankhurst avanzò la determinante obiezione che i comunisti di sinistra inglesi non sono per separarsi dalle masse, dato che affermano la necessità di lavorare nei sindacati, ma solo desiderano star fuori dall’organizzazione del partito politico laburista rappresentato da un congresso di controrivoluzionari piccoli borghesi». La ricerca dell’influenza sui lavoratori tramite le organizzazioni economiche piuttosto che in alleanze confusioniste con i partiti socialdemocratici contraddistingue la Sinistra Italiana fin dalle sue prime manifestazioni.
Lenin tenne il suo intervento al Secondo Congresso dell’Internazionale "Sulla affiliazione al Labour Party inglese" il 6 agosto, pochi giorni dopo che si era riunita a Londra la Communist Unity Convention, dal 31 luglio al primo agosto, per formalmente costituire il Communist Party of Great Britain. A questo convegno, mentre la questione dell’adesione alla Terza Internazionale fu subito risolta, quella dell’affiliazione al Labour Party sollevò profonde divergenze di opinione, ed una forte minoranza, compresa la Pankhurst, una parte degli Shop Steward e il Socialist Labour Party argomentarono contro quella politica e non aderirono al nuovo partito. L’ingresso nel partito negli anni seguenti di questi anti-affiliazione non deve far pensare che l’umiliante corteggiamento del Labour Party da parte del CPGB fosse cessato.
Quella politica fu formulata proprio nella fase di formazione del CPGB, quando si richiedeva la massima differenziazione dal Labour Party.
I più entusiasti fra coloro che appoggiavano l’affiliazione erano certamente gli ex membri del British Socialist Party, una organizzazione che era già stata affiliata al Labour Party. Il predecessore del BSP, la Social Democratic Federation, era stata una delle organizzazioni che avevano fondato il Labour Party ma aveva rotto con esso in un tentativo di costruire un partito rivale, basato sulla "lotta politica" intesa come negatrice delle rivendicazioni economiche. Fu durante questa fase che la SDF aveva
condannato il coinvolgimento del SLP nella lotta di classe come "sindacalismo"! La fusione della SDF con altri organismi (sempre di destra) aveva portato alla formazione prima del Social Democratic Party, poi del BSP. Le successive fusioni avevano teso a costituire una organizzazione che prendesse il posto dell’Indipendent Labour Party come principale organizzazione in Gran Bretagna della Seconda Internazionale.
Inizialmente l’invito al BSP di affiliarsi al Labour Party era provenuto da Kautsky, come soluzione organizzativa all’adesione di diverse strutture inglesi della Seconda Internazionale. Non c’erano problemi politici all’affiliazione a quel tempo dato che il BSP era l’organizzazione difesista e reazionaria diretta da Hyndman. Solo verso la fine della Prima Guerra Mondiale il BSP aveva iniziato ad esprimersi timidamente contro la guerra. Il BSP, i cui membri costituiranno la maggioranza del CPGB, specialmente nel suo primo anno, dopo lunga affiliazione al Labour Party sarebbe diventato aduso ad assumere atteggiamenti assai conciliatori nei confronti del Labour Party, ed in generale la sua politica si era ridotta ad un approccio solo propagandistico che sminuiva l’importanza delle organizzazioni operaie.
È indicativo che J.F.Hodgson, rappresentante del British Socialist Party alla riunione della sottocommissione dell’Internazionale di Amsterdam nel febbraio 1920 (prima della formazione del CPGB), si era opposto alla proposta di una risoluzione che invitasse tutti i gruppi comunisti ad unirsi sulla base di una opposizione senza compromessi ai partiti della Seconda Internazionale, fra i quali il Labour Party. Al suo ritorno in Inghilterra aveva protestato contro il carattere non rappresentativo della riunione e sostenuto che le sue risoluzioni non erano impegnative. Alla conferenza di fondazione del GPGB nel 1921 non fu altri che Mr.Hodgson a rappresentare la risoluzione in favore dell’affiliazione al Labour Party, che la vide approvata con 100 voti contro 85.
L’adozione di questa linea, con il successivo sottomettersi al Labour Party come sua inevitabile conseguenza, avrebbe generato un retaggio di equivoci e confusione nella sinistra inglese che ci accompagnava da vicino fino ai nostri giorni. Siccome il nome di Lenin è così spesso invocato per difendere questo indirizzo, è utile esaminare particolarmente gli argomenti della sua insistenza su tale politica.
Poiché gli interventi di Lenin al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista sulla questione sono particolarmente importanti per la nostra analisi, in particolare il "Discorso sul ruolo del Partito Comunista" e il "Discorso sulla affiliazione al Labour Party inglese", ci concentreremo su questi. Le citazioni sono ricavate da "Speeches at Congresses of The Communist International", Edizioni Progress.
Il Secondo congresso, come abbiamo detto, ebbe luogo pochi giorni dopo la formazione del CPGB in Gran Bretagna. Descrivendo la Communist Unity Convention come un «Congresso del British Socialist Party» il quale aveva deciso di «trasformare il partito in un partito comunista», Lenin delineava la strategia del nuovo partito composto principalmente dal vecchio BSP, che prevedeva appunto la conferma della sua precedente affiliazione al Labour Party: «Devo venire alla conclusione che la decisione di rimanere nel Labour Party è la solo tattica corretta». Lenin non poteva non conoscere come il British Socialist Party si era comportato nel periodo precedente il 1918: mai aveva cercato di impostare una campagna ben inquadrata e diretta contro la dirigenza laburista, anche perché se lo avesse fatto sarebbe stato certamente espulso.
La sinistra sindacalista e comunista in Gran Bretagna, che non aveva lesinato le critiche al BSP nel passato e non aveva alcuna intenzione di smorzarle ora all’improvviso, premeva su di Lenin perché cercasse di condividere la sue critiche, il che avrebbe facilitato la sua adesione al nuovo partito.
In risposta alle affermazioni di Sylvia Pankhurst, che era impossibile per dei comunisti aderire ad un partito affiliato alla Seconda internazionale, Lenin argomentò: «dovrebbe essere chiaro che il Labour Party inglese si trova in una posizione molto particolare: è un tipo di partito altamente originale, o piuttosto, non è affatto un partito nel senso ordinario della parola. È costituito da membri di tutte le Trade Unions ed ha circa quattro milioni di aderenti e consente sufficiente libertà a tutti i partiti politici affiliati». Lenin concludeva il suo tentativo di rimuovere le preoccupazioni della Pankhurst dipingendo il Labour Party come un’organizzazione che, "metà sindacale e metà politica", consentiva la critica dei capi e perciò, per conseguenza, la possibilità per la frazione comunista di organizzarsi separatamente al suo interno.
Rilevò poi il fatto che la questione dell’affiliazione alla Terza Internazionale era stata sollevata anche alla Conferenza del Labour Party, che aveva obbligato tutte le federazioni e le sezioni del partito a discutere della questione.
Ma la replica di Lenin mancò di rispondere adeguatamente alla domanda della Pankhurst, che in sostanza formulava timori sul conseguente appannarsi della distinzione tra i partiti della Seconda e della Terza Internazionale, e sollevava preoccupazioni sul "sostituzionismo" presupposto all’argomentazione di Lenin, cioè spacciare il Labour Party per un Partito Comunista come stratagemma per guadagnarsi rapidamente l’influenza sulle masse.
Le osservazioni di Lenin mostrano come egli vedesse il Labour Party prevalentemente come un organismo sindacale, l’affiliazione al quale avrebbe offerto al nuovo partito comunista di Gran Bretagna l’opportunità di influenzare una vasta massa di lavoratori, i quali erroneamente egli credeva organizzati nel Labour Party. Questo punto di vista è ulteriormente accentuato nelle "Tesi sui Compiti fondamentali del Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista" dove si ordinava ai gruppi comunisti di Gran Bretagna di aderire al Labour Party il quale vi è descritto col carattere di federazione di tutte le organizzazioni sindacali della classe operaia.
Nel "Discorso sul ruolo del Partito Comunista" Lenin disse: «Nei confronti del Labour Party inglese si tratta semplicemente di una questione di collaborazione fra la minoranza avanzata dei lavoratori inglesi e la loro vasta maggioranza», ed aggiunse: «Noi categoricamente insistiamo che i comunisti inglesi fungano da legame fra il partito, cioè la minoranza della classe lavoratrice, ed il resto dei lavoratori». Il necessario legame tra la minoranza comunista e la maggioranza dei lavoratori che Lenin richiama è da attuare tramite le organizzazioni sindacali. Lo conferma il passaggio, piuttosto ambiguo che segue, nel quale Lenin precisava che la sua politica era sottoposta da una condizione: doveva essere perseguita fin tanto che «non sia smentito che il Labour Party inglese non è composto da proletari».
Di fatto la cifra di quattro milioni di iscritti al Labour Party era vera solo sulla carta perché è da tener conto che la maggior parte di essi era costituita da sindacalizzati che pagavano la quota politica. Questa consiste in una deduzione d’ufficio delle quote sindacali verso le casse del Labour Party, il quale in cambio concede l’automatica iscrizione al partito. Al riguardo, nel 1927 i Conservatori introdussero una nuova legge per la quale i sindacati, nel silenzio del lavoratore, non potevano più detrarre a tutti gli iscritti la quota politica, ma dovevano chiederne una formale richiesta. Il risultato fu che gli iscritti al Labour Party quasi dimezzarono! La stessa indifferenza che aveva prima evitato che i lavoratori revocassero la quota politica, li portava adesso a non concederla.
Lenin, rivolgendosi alla Pankhurst ed a Gallacher (allora ancora oppositore dell’affiliazione al Labour Party, membro del BPS, sindacalista e dirigente del Comitato Operaio del Clyde, organizzazione di Shop Steward), affermò «Non potete negare il fatto che, nelle file del Labour Party, il British Socialist Party gode di sufficiente libertà per scrivere che alcuni dirigenti del Labour Party sono dei traditori; che questi vecchi dirigenti rappresentano gli interessi della borghesia; che essi sono agenti della borghesia nel movimento della classe operaia. Non lo potere negare perché è assolutamente vero. Quando i comunisti godono di questa libertà è loro dovere aderire al Labour Party».
Questo atteggiamento deriva dalla prima considerazione: che ci sono lavoratori nel Labour Party che possono essere conquistati al comunismo ascoltando la coerente critica ai capi laburisti. In pratica questo però si ridurrebbe a denunciare i dirigenti nelle riunioni di sezione e nei congressi del Labour Party, invece che fuori di esso. In realtà, in quelle sedi, ogni critica si sarebbe risolta in dibattiti sulla politica del Labour Party, e piuttosto che portare i lavoratori verso il Partito Comunista avrebbe loro istillato illusioni sulla possibilità di trasformare il Labour Party in uno strumento rivoluzionario, alternativo al Partito Comunista.
Qui consisteva la contraddizione nella consegna di Lenin, che pensava che l’agitazione nel Labour Party fosse in un certo qual modo equivalente a quella nelle Trade Unions, identificando il Labour Party nelle Trade Unions. Benché, allo stesso tempo, rifiutasse recisamente la nozione del Labour Party come "espressione politica delle Trade Unions", spiegando che era il Partito Comunista il partito dei lavoratori nelle Trade Unions. Ora, mentre questo naturalmente era vero, nel senso che il comunismo è il conseguente sbocco finale delle lotte economiche dei lavoratori, ciònondimeno il Labour Party tuttora era la "espressione politica delle Trade Unions", nel senso di espressione politica della burocrazia sindacale e delle aristocrazie del lavoro. Questo era ciò che la Sinistra in Gran Bretagna stava sperimentando, e per questo era così contraria ad aderire al Labour Party.
Lenin comunque si ingannava ritenendo l’affiliazione cosa facile da realizzarsi. Per un verso, alla prima riunione dell’esecutivo provvisorio del CPGB fu respinta la proposta anche di solo informare il Labour Party che il BSP aveva cambiato nome: il nuovo Partito Comunista era preparato ad un atteggiamento senza compromessi. Per altro, nonostante Lenin vedesse il Labour Party come «un tipo di partito altamente originale (che) consente sufficiente libertà a tutti i partiti politici affiliati», di fatto, nel 1920 il Labour Party aveva già mutato la sua precedente meno rigida struttura e stava rapidamente diventando in tutto un partito socialdemocratico, con uno statuto molto rigido che, in particolare, escludeva l’azione illegale e rivoluzionaria, e solo permetteva esattamente quel tanto di flessibilità necessaria per far posto alle diverse sezioni della borghese aristocrazia del lavoro. Nei discorsi di Lenin al Secondo Congresso non c’è accenno al fatto che già nel 1918 lo statuto del Labour Party era stato drasticamente rimaneggiato, che la precedente struttura federale era stata sostituita da una più strettamente controllabile (che nel 1932 poteva spingere alla dimissioni anche il centrista ILP).
Nel suo discorso sul ruolo del partito comunista al Secondo Congresso Lenin si preoccupò di precisare: «Dobbiamo dire francamente che il partito dei comunisti può aderire al Labour Party solo alla condizione che mantenga piena libertà di critica e possa condurre la sua propria politica. Questo è della massima importanza».
Nel numero del febbraio 1920 di "The Socialist", organo del Socialist Labour Party, J.T.Murphy, già attivo nel movimento sindacale prebellico e teorico del movimento degli Shop Steward, formulava i suoi "Dieci Punti" avversi ad altrettanti a favore dell’affiliazione al Labour Party. Uno di questi consisteva nella semplice constatazione che il federalismo del Labour Party era in ogni caso una bestemmia dei principi comunisti. Certamente noi siamo certi che Lenin non perorava il federalismo come struttura interna del partito comunista, ciònonostante, spingendo il CP ad aderire al Labour Party, che si dichiarava una federazione, sembrava aprire la strada, specialmente per chi era pronto ad utilizzare le sue parole al di fuori del contesto, ad una interpretazione con qualche analogia con la politica del Fronte Unito degli anni che seguiranno.
Non fa meraviglia quindi che tanti dei punti di Murphy che criticavano la politica di affiliazione possono indirizzarsi ugualmente bene a criticare quella del Fronte Unito. Così, contro coloro che pensavano che l’affiliazione avrebbe dato una comoda opportunità di influenzare il Labour Party partecipando alle sue conferenze annuali e facendovi approvare ordini del giorno socialisti, Murphy rispondeva: «Questo implica che il Partito Comunista tende ad impossessarsi del Labour Party, ovvero a far approvare risoluzioni rivoluzionarie demandandone l’esecuzione a quei reazionari. Nella prima eventulità questa politica è fondamentalmente sbagliata perché il Labour Party, come composizione e struttura, non è un’organizzazione rivoluzionaria, i suoi membri non sono né comunisti né rivoluzionari, ed è strutturalmente incapace di mobilitare le masse per un’azione rivoluzionaria. È un prodotto del capitalismo e può essere usato solo per la conservazione del capitalismo. Nella seconda, le masse sarebbero tradite ed il loro slancio rivoluzionario usato per rafforzare le forze della reazione. Questa posizione inoltre indica che il BSP non intende bene la funzione di un partito comunista nella lotta per il potere. È evidentemente soddisfatto di essere di incitamento ad un altro partito, delle cui azioni rifiuta le responsabilità invece di essere un forte partito rivoluzionario che dirige le masse nell’azione». Applicare ciecamente la tattica di Lenin, dati i suoi irrealistici presupposti, sarebbe stata assai dannosa per la "indipendenza" del Partito Comunista, e avrebbe finito con il mettere in ombra le differenze tra il marxismo rivoluzionario ed il riformismo.
Nel 1920 le passioni si accendevano potenti e nel periodo immediatamente precedente la formazione del CPGB la sinistra in Gran Bretagna, che aveva fatto di prima mano l’esperienza dell’opportunismo del Labour Party, metteva sull’avviso Lenin dei disastrosi effetti del percorrere la via dell’affiliazione. Ma le loro considerazioni ricevettero una netta smentita: «Il compagno Gallacher sbaglia quando afferma che con l’affiliazione al Labour Party noi respingeremmo gli elementi migliori fra i lavoratori inglesi», dichiarava Lenin, «noi dobbiamo provarlo con l’esperienza». E così fu, con conseguenze disastrose, alienandoci la stragrande maggioranza di potenziali militanti. Il SLP, capofila di organizzazioni pronte ad aderire, subito si ritirò dalle trattative. Anche la WSF, il gruppo della Pankhurst, se ne stette da parte e così fecero la maggior parte degli Shop Steward, compreso la Scottish Workers’ Committe. Questi gruppi aderirono al partito nel corso dell’anno successivo, ma il danno ormai era già fatto.
Una gran parte della sinistra in Gran Bretagna era non solo ostile all’affiliazione al Labour Party ma a tutta la politica parlamentarista. La tesi di Lenin, che la tattica parlamentare fosse importante per i lavoratori inglesi – rincretiniti da decenni di partecipazione al parlamento – come si era dimostrato in Russia nell’appena formata ed effimera "Duma", vide la luce nei dibattiti del Secondo Congresso, con gli astensionisti italiani che salivano al podio per parlarne contro. Sarebbe questo un argomento che merita una trattazione a parte: in sintesi le contro-tesi degli astensionisti sostenevano che l’attività elettorale tende ad escludere l’organizzazione rivoluzionaria, che progressivamente diventa marginale, mentre prendono campo le illusioni di trarre vantaggi per il proletariato, lentamente ma più sicuramente, con l’azione parlamentare. Anche l’uso del parlamento come una tribuna per la propaganda è assai inconsistente: a che scopo a far discorsi infuocati in parlamento davanti ad un uditorio borghese? E come ci garantiremo che la stampa borghese riferisca quegli infuocati discorsi dei comunisti? Certamente il Partito Comunista meglio potrebbe contare sui suoi mezzi di informazione e di propaganda.
Anche Murphy confuta l’utilità dell’uso del Labour Party come pubblica tribuna: «I lavoratori sono sempre accessibili, nelle fabbriche, nelle strade, nei sindacati, e la creazione di una tribuna indipendente comunista è meglio che andare cappello in mano a chiedere udienza al Labour Party (...) Il Labour Party non è la classe operaia organizzata in classe, ma il riflesso politico della burocrazia sindacale e della piccola borghesia. Il rapporto con la classe operaia non dipende, né è mai dipeso, dal tramite del Labour Party».
Il decimo punto di Murphy (non li abbiamo presi in considerazione tutti dato che alcuni esprimono idee affatto inconsistenti, come quella che pretendeva di vedere nel Labour Party l’equivalente di un Soviet!) si rivolgeva all’argomentare di coloro che avrebbero appoggiato l’affiliazione come tattica temporanea. A costoro replicava che gli improvvisi cambiamenti di politica si prestano a confondere ed indebolire la confidenza delle masse nel partito comunista. Questa è la più conclusiva di tutte le critiche all’affiliazione poiché mentire alla propria classe può essere solo nell’interesse della classe nemica.
C’era però un’importante clausola accessoria nelle direttive di Lenin sull’affiliazione al Labour Party emanate dal Secondo Congresso: «Fate che i Thomase e gli altri socialtraditori, che voi avete chiamato per nome, vi espellano. Ciò avrebbe un eccellente effetto sulla massa degli operai inglesi (...) Se il Partito Comunista inglese inizia a comportarsi in modo rivoluzionario nel Labour Party, e se gli Henderson sono obbligati ad espellerlo, questa sarà una grande vittoria per il movimento comunista e rivoluzionario della classe operaia in Gran Bretagna». Quindi l’affiliazione non era per Lenin un orientamento assoluto, ma un trapasso da superarsi appena lo consentissero le condizioni della classe e del Partito Comunista.
Così è chiaro che Lenin non voleva rischiare confusione fra la politica del Partito Comunista e quella delle altre correnti che si riparavano sotto l’ombrello "federale" del Labour Party; una democrazia che, ripetiamo, anche lo ILP fu a suo tempo incapace di apprezzare all’interno dei confini del Labour Party. Lo spirito degli argomenti di Lenin circa gli Henderson, obbligati da espellere un partito comunista «che si comporti in modo rivoluzionario», erano di fatto condivise da una certa parte di sinistri del partito.
Certamente il rifiuto del Labour Party di permettere l’affiliazione del CPGB significava l’equivalente di una espulsione; perciò, si domandava, poteva il PC sveltire la cosa presentando, allegato all’atto di richiesta di affiliazione, una esplicita dichiarazione dei principi comunisti che l’avrebbe assicurato che la porta gli sarebbe stata sbattuta in faccia? Questo avrebbe avuto il vantaggio di prevenire qualsiasi necessità di "ammorbidire" i principi comunisti per rendere il PC nell’occasione accettabile al Labour Party.
Ma se questo era l’animo originario che motivava i redattori della prima domanda di affiliazione (come abbiamo visto era stata respinta perfino la proposta di informare il Labour Party che il BSP aveva cambiato nome in CPGB), la consegna di enfatizzare le differenze fra il LP e il PC lentamente poi fu messa da parte per il progredire della politica del Fronte Unito. Questa politica fu adottata verso la fine del 1921, giustificata sulla base del fatto che i partiti comunisti da soli non erano abbastanza forti per ottenere la vittoria e quindi era necessario "conquistare le masse"; a questo scopo l’influenza dei socialdemocratici doveva essere combattuta sul terreno delle rivendicazioni che sono comprese da tutti i lavoratori. Ma solo in un anno questa politica evolse in appoggio ai cosiddetti Governi Operai, una politica che fu proposta al Quarto Congresso, alla fine del 1922.
La Sinistra Italiana fu decisa nella critica a questa politica, e nel "Progetto di Tesi" presentato al Terzo Congresso del Partito Comunista di Italia, tenuto nell’emigrazione a Lione nel 1926, il suo oratore avrebbe affermato quanto segue nel capitolo: «Questioni di tattica fino al V Congresso».
«Nella soluzione dei problemi di tattica presentatisi nelle situazioni prima accennate nel campo internazionale, si sono commessi errori analoghi in generale a quelli organizzativi e dipendenti dalla pretesa di dedurre tutto dai problemi presentatisi nel passato al Partito Comunista Russo.
«La tattica del fronte unico non va intesa come una coalizione politica con altri partiti cosiddetti operai, ma come una utilizzazione delle rivendicazioni immediate sollevate dalle situazioni allo scopo di estendere l’influenza del partito comunista sulle masse senza compromettere la sua autonomia di posizione.
«Vanno dunque scelti a base del fronte unico quegli organismi proletari in cui i lavoratori entrano per la loro posizione sociale ed indipendentemente dalla loro fede politica e dal loro inquadramento al seguito di un partito organizzato. Ciò al doppio scopo di non escludere affatto tanto la critica dei comunisti contro gli altri partiti, quando la progressiva organizzazione dei nuovi elementi prima dipendenti da questi ultimi negli inquadramenti propri del partito comunista e nelle sue stesse file; e di assicurare la comprensione da parte delle masse della successiva parola diretta del partito per mobilitarle sul suo programma e sotto la esclusiva sua direzione.
«L’esperienza ha dimostrato molte volte come il solo modo di assicurare l’applicazione rivoluzionaria del fronte unico stia nel respingere il metodo delle coalizioni politiche permanenti o transitorie e dei comitati di direzione della lotta che comprendono rappresentanti inviati dai vari partiti politici ed anche quella dei negoziati, proposte e lettere aperte agli altri partiti da parte del partito comunista. La pratica ha dimostrato sterile questo metodo e ne ha sfatato ogni effetto anche iniziale dopo l’abuso che se ne è fatto.
«Il fronte unico politico che prende a base una rivendicazione centrale posta nei confronti del problema dello Stato diviene la tattica del governo operaio. Qui non abbiamo solo una tattica erronea, ma una stridente contraddizione coi principi del comunismo. Se il partito lancia una parola che significhi l’assunzione del potere da parte del proletariato attraverso organismi rappresentativi propri dell’apparato statale borghese, o anche solo che non escluda esplicitamente una tale eventualità, viene abbandonato e smentito il programma comunista, non solo nei cattivi riflessi inevitabili sulla ideologia proletaria, ma nella stessa formazione ideologica che il partito enuncia ed accredita. La revisione cui il V congresso ha sottoposto questa tattica, dopo la disfatta tedesca, non è stata soddisfacente, e gli sviluppi posteriori delle esperienze tattiche giustificano le richieste che si abbandoni anche la semplice parola del governo operaio.
«In ordine al problema centrale dello Stato il partito può solo dare la parola di dittatura del proletariato, non essendovi altro "governo operaio". Da questa posizione si passa soltanto all’opportunismo; ossia al favorire e addirittura partecipare a governi sedicenti filo-operai della classe borghese.
«Tutto questo non contraddice affatto alla parola "tutto il potere ai Soviet" e ad organismi a tipo Soviet (rappresentanze elette solo da lavoratori), anche quando prevalgono in tali organismi partiti opportunisti. Tali partiti sono contro l’assunzione del potere da parte degli organi proletari, essendo questa la dittatura proletaria stessa (esclusione dei non lavoratori dagli organi elettivi e dal potere che solo il partito comunista potrà gestire). Non è necessario né viene qui proposto il formulare la parola dittatura proletaria con il solo dei suoi sinonimi, cioè «governo del partito comunista».
In realtà anche prima che il Quarto Congresso sanzionasse ufficialmente la politica del Governo Operaio, il primo Plenum del 4 marzo 1922 aveva pubblicato la sua "Risoluzione sulla Questione Inglese" e deliberato che: «L’Esecutivo Allargato invita il CPGB a richiedere l’affiliazione al Labour Party in modo da tenere un atteggiamento che contribuisca all’unità politica della classe operaia, lavorando specialmente in vista delle prossime elezioni per opporre alla coalizione della borghesia un governo operaio. Mentre richiederà l’affiliazione al Labour Party, il CPGB manterrà cionondimeno completa libertà di propaganda. Nello stesso intento, benché mantenendo quest’ultima riserva, il CPGB è invitato ad appoggiare il Labour Party alle elezioni generali».
La "unità politica", citata come il fine di questa tattica, avrebbe presto provato d’essere fortemente sbilanciata verso un’unione riformista piuttosto che verso un’unione comunista; e la "propaganda separata" dei comunisti sarebbe apparsa ai lavoratori solo come espressione di posizioni di sinistra all’interno di una variegata alleanza riformista. Ora, qualunque giustificazione dapprima si portasse alla affiliazione, questa finì per identificarsi nel tentativo di imporre delle alleanze con i laburisti e nell’appoggio ai loro governi.
Nel 1924 Gallacher, divenuto fervente esecutore delle direttive moscovite, avrebbe rassicurato: «Il Partito Comunista non attacca il Labour Party; il Partito Comunista si batte ancora per fare del Labour Party un organo utile ai lavoratori nella lotta contro il capitale». R.Hallinor, in "The Original of British Bolshevism", annota: «Alle elezioni generali del 1922, quando Gallacher si presentò senza successo a Dundee, fu grato di ricevere l’appoggio di eminenti politicanti riformisti di sinistra e sindacalisti. Il tenente-colonnello (!) L’Estrange Malone, membro del parlamento, portò il processo di avvicinamento un passo avanti. “Vi sono ancora piccole differenze fra il Partito Comunista e Labour Party – dichiarò – Sono felice di riconoscere, però, che queste saranno presto risolte con l’affiliazione”».
Il mancato ottenimento dell’affiliazione avrebbe portato il CPGB a scelte ancora più rovinose, cercando di influenzare la politica del Labour Party individualmente, attraverso i singoli militanti del partito: infatti, finché non furono introdotte le modifiche allo statuto, nulla ancora impediva ai membri del CPGB di iscriversi individualmente al Labour Party. Così: «Alla Conferenza del 1923 del Labour Party erano presenti 430 delegati comunisti. Alle elezioni generali del dicembre 1923 il PC presentò 9 candidati, 7 dei quali sotto le bandiere del Labour Party. Infatti il partito riuscì perfino ad avere 2 deputati al parlamento, Sallatvada e J.T.Walton Newbold, eletti come laburisti» (Challinor).
È difficile sovrastimare il danno subito dal neonato Partito Comunista dal seguire tale politica. Murphy, benché difensore del "parlamentarismo rivoluzionario" avrebbe espresso energica condanna, nel 1920, di coloro che difendevano l’affiliazione col motivo che avrebbe potuto fornire l’occasione per fare eleggere a deputati dei comunisti con la tessera laburista: «questo è puro opportunismo acchiappa-voti ed un rinnegamento dell’azione politica indipendente. Significa anche confondere le masse». Se le masse erano verosimilmente confuse da un Partito Comunista formalmente affiliato al Labour Party e che indulgeva in tali pratiche, come molto più frastornate devono essersi trovate a vedere dei singoli comunisti mascherarsi da laburisti!
Nel frattempo i comunisti cercavano di reclutare laburisti al comunismo nelle sedi delle sezioni del Labour Party, che in generale erano circoli ristretti, indaffarati con le elezioni e non centri di lotta di massa coinvolgenti gran numero di lavoratori. Challinor così commenta questa tattica: «Entrare nei tetri locali di riunione dei comitati e farsi trascinare nella routine degli imbrogli elettorali significava soltanto disperdere tempo ed energie di validi rivoluzionari che avrebbero potuto essere meglio impiegati altrove».
La Sinistra italiana si troverà presto sola nel rigettare la tattica del Fronte Unito e con essa la politica di affiliazione. Trotski, nonostante allineasse una serie di schiaccianti critiche contro le direttive del Comintern durante lo Sciopero Generale, rimase incerto circa la tattica dell’affiliazione e non comprese la parte che aveva avuto nell’indebolire lo sviluppo di un risoluto ed indipendente partito comunista. Così nella "Risoluzione sullo Sciopero Generale" presentata alla Commissione Centrale di Controllo allegata al Plenum del luglio 1926 Trotski scrisse: «La tattica del Comintern, che fu elaborata in tutti i punti essenziali sotto la direzione di Vladimir Ilyich, dovrebbe rimanere ferma e costante». Proseguiva elencando i 3 principali assi di questa politica, dei quali il secondo sarebbe stato: «la necessità per i comunisti inglesi di entrare nel Labour Party e di combattere contro l’espulsione da quell’organizzazione poiché l’esperienza dei trascorsi cinque anni pienamente conferma ciò che Lenin disse sulla questione al Secondo Congresso del Comintern e in "Estremismo: una malattia d’infanzia"». Alla luce di quanto sopra ci troviamo nell’impossibilità di convenire.
Il CPGB avrebbe continuato a perseguire la politica dell’affiliazione e ad umiliarsi in una serie di incontri con il Labour Party nei quali quest’ultimo insistentemente puntualizzava che aderire al Labour Party significava accettare lo statuto del Labour Party e che era richiesta la fedeltà dei comunisti ad esso, uno statuto diametralmente opposto al programma comunista, la sua negazione. La politica della delegazione comunista al secondo incontro per l’affiliazione nel dicembre 1921 finì per imboccare una sola strada che aggirasse quell’ingombrante ostacolo: cercò di convertire la delegazione del Labour Party al comunismo nelle poche ore di durata dell’incontro!
Nel 1925, comunque, alle Trade Unions fu proibito di eleggere membri del Partito Comunista come delegati alle riunioni del Labour Party. Infine uno stizzito Labour Party, stanco delle indesiderate attenzioni del CPGB, nel 1933 sbrigativamente proibì senz’altro alle sue organizzazioni di accettare dei comunisti.
Ma nemmeno questo mise fine alla tattica per l’affiliazione che continuò ad avere notevole seguito fra i gruppi "sinistri", i quali ancora oggi, citando Trotski e Lenin, ancora grandemente esaltato il peso e il prestigio del Labour Party agli occhi dei lavoratori nostri contemporanei, mitizzando quell’organizzazione e ricorrendo ai più miseri e ridicoli voltafaccia pur di penetrarvi. Le critiche della Workers’ Socialist Federation e del suo rappresentante Sylvia Pankhurst, che energicamente si opponeva ad entrambe le politiche parlamentari e dell’affiliazione, sono di solito relegate nelle note a piè pagina quando si affronta la storia di questo periodo. La parola finale è immancabilmente lasciata al Lenin. Noi, certo non per sminuire la immensa figura del grandissimo Lenin rivoluzionario e marxista, cercheremo, per una volta, di ristabilire la proporzione e lasceremo alla Pankhurst di concludere questo esposto con alcuni passi da un articolo scritto prima della formazione del CPGB, nel giornale della WSF, il Workers’ Dreadnough del 21 febbraio 1920 intitolato "Verso un partito comunista".
«I partiti socialpatrioti riformisti, come il Labour Party inglese, ovunque aiutano i capitalisti a conservare il sistema capitalistico, per preservarlo dal crollo sotto il trauma che la Grande Guerra gli ha inferto, e dalla crescente influenza della Rivoluzione Russa. I partiti socialpatriottici borghesi, anche se si chiamano Laburisti o Socialisti, stanno ovunque lavorando contro la rivoluzione comunista, e sono più pericolosi per essa dei più feroci capitalisti perché le riforme che essi chiedono di introdurre possono far sopravvivere il regime capitalista ancora del tempo. Quando i riformisti socialpatriottici arrivano al potere, essi combattono per allontanare la rivoluzione operaia con determinazione tanto forte quanto quella dei capitalisti; in realtà, anzi, maggiore, poiché essi comprendono i metodi e la tattica e qualcosa dei sentimenti della classe operaia.
«Il Labour Party inglese, come le organizzazioni del socialpatriottismo degli altri paesi, nello sviluppo naturale della società, inevitabilmente arriverà al potere. È compito dei comunisti costruire le forze che rovesceranno i socialpatrioti, e in questo paese non possiamo ritardare o esitare in questo compito.
«Non dobbiamo disperdere le nostri energie accrescendo la forze del Labour Party; il suo avvento al potere è inevitabile. Noi dobbiamo concentrarci nel costruire un movimento comunista che lo vincerà.
«Il Labour Party presto formerà il governo, l’opposizione rivoluzionaria
deve essere pronta ad attaccarlo».
Riunione generale di Firenze - settembre 1995
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3.- Il Triennio Liberale
Dopo il ritorno al trono di Ferdinando VII sono continui i tentativi di rivolte militari, che riescono a proclamare la Costituzione nel 1812; anche dopo Ferdinando VII per buona parte del secolo si susseguono pronunciamientos costituzionalisti scaturiti dall’esercito.
«Nel 1814, Mina tentò un’insurrezione nella Navarra, diede il primo segnale per la resistenza con una chiamata alle armi e prese la fortezza di Pamplona. Non fidandosi, però, dei suoi propri seguaci, fuggì in Francia. Nel 1815, il generale Porlier, uno dei più famosi guerrilleros della guerra per l’indipendenza, proclamò la costituzione a La Coruna. Venne decapitato. Nel 1817 il giurista Navarro e quattro dei suoi seguaci morirono sul patibolo per aver proclamato la costituzione del 1812 a Valenza. Lo stesso anno fu fucilato a Maiorca l’intrepido generale Lacy per lo stesso delitto. Nel 1818 il colonnello Vidal, il capitano Sola e altri che avevano proclamato la costituzione del 1812 a Valenza, furono sconfitti e passati alle armi. La cospirazione dell’Isola di Leòn fu, quindi, l’ultimo anello della catena formata con le teste insanguinate di tanti validi uomini del 1808 al 1814».
Questa fase di sollevazione culmina con quella di Rafael del Riego, che, insieme ad altri capi militari fuggiti dal carcere, proclamava la costituzione nel gennaio 1820. Fra questi i comandanti Quiroga e San Miguel che erano in carcere per aver tentato un altro pronunciamiento sei mesi prima, nel quale si videro traditi da Josè Enrico O’Donnell, comandante delle truppe che dovevano ammutinarsi, concentrate nei dintorni di Calice in attesa di partire per la riconquista delle insorte colonie americane. Costui, invece di dare l’ordine della ribellione, ne ordinò il disarmo e incarcerò i capi del movimento. Al momento della sollevazione, il primo gennaio 1820, Riego raggiungeva il suo battaglione a Cabezas de San Yuan, nei pressi di Siviglia, mentre Quiroga e San Miguel stavano nell’Isola di León; il 7 gennaio Riego arriva all’Isola dopo aver proclamato la costituzione nelle località che veniva a conquistare sul suo cammino.
«Le province sembravano immerse in un sonno letargico. Alla fine del mese di gennaio, Riego, temendo che la fiamma della rivoluzione si spegnesse nell’Isola di Leòn, formò, contro i consigli dei Quiroga e degli altri capi, una colonna leggera di 1.500 uomini e attraversò una parte dell’Andalusia in presenza di forze dieci volte superiori alle sue e inseguito da esse. Proclamò la costituzione di Algesiras, Ronda, Màlaga, Cordova, in altre località. Fu ricevuto amichevolmente ovunque senza riuscire però a provocare qualche serio "pronunciamento" (...) La marcia della colonna di Riego era tornata a risvegliare la sensibilità del paese: le province seguivano ogni suo movimento con ansiosa attesa. L’immaginazione popolare, impressionata dall’audace azione di Riego, dalla velocità delle sue marce e dall’energico modo di tenere il nemico a bada, immaginò trionfi mai ottenuti e adesioni e rinforzi che Riego non ebbe mai.Marx smentisce l’opinione riduttiva di alcuni storici inglesi della metà del secolo secondo la quale, da una parte, la rivolta del 1820 non fosse niente di più che un complotto militare, dall’altra, che tutto fosse da ricondursi ad intrighi russi. «Entrambe le affermazioni sono ridicole. Per quanto riguarda l’insurrezione militare abbiamo visto il trionfo della rivoluzione malgrado l’insuccesso di quella. D’altronde, il problema da risolvere non è la cospirazione da parte di 5.000 soldati, bensì l’accettazione di questa cospirazione da parte di un esercito di 35.000 soldati e di una nazione di 12 milioni di abitanti, ipoteticamente fedele al governo. Che la rivoluzione sia iniziata in seno all’esercito si spiega facilmente col fatto che, tra tutte le istituzioni della vecchia monarchia, l’esercito fu l’unica a essere profondamente trasformata e rivoluzionata dalla guerra per l’indipendenza» (NYDT, 2 dicembre 1854).
«Quando la notizia delle imprese di Riego arrivò nelle province più lontane, quelle imprese erano state già notevolmente ingigantite, e furono proprio queste regioni lontane dal teatro degli avvenimenti a dichiararsi per prime a favore della costituzione del 1812. Il motivo è che la Spagna era così matura per la rivoluzione che bastarono poche notizie false a provocarla. Del resto erano false anche le notizie che scatenarono la tempesta del 1848.
«Altre insurrezioni scoppiarono nella Galizia, a Valenza, a Saragozza, Barcellona e Pamplona. Enrico O’Donnel, Conte di La Bisbal, venne chiamato dal re per far fronte alla spedizione di Riego. La Bisbal si dichiarò disposto non soltanto a prendere le armi contro Riego, ma anche ad annientare il piccolo esercito di questi e a farlo prigioniero (...) Ma appena arrivato a Ocana, La Bisbal si mise a capo delle truppe e proclamò la costituzione del 1812. La notizia della sua defezione rincuorò l’opinione pubblica di Madrid, dove la rivoluzione scoppiò subito dopo. Il governo incominciò a negoziare con la rivoluzione. In un decreto del 6 marzo il re propose di convocare la antiche Cortes per classi (estamentos), proposta che si manteneva neutrale tra i partigiani della vecchia monarchia e quelli della rivoluzione. Del resto, il re aveva già fatto questa promessa al suo ritorno dalla Francia e l’aveva lasciata insoddisfatta. Durante la notte del 7 marzo ebbero luogo a Madrid manifestazioni rivoluzionarie, ragion per cui la Gaceta dell’8 pubblicò un decreto secondo il quale Ferdinando VII prometteva di giurare sulla costituzione del 1812. In questo decreto egli diceva: "Marceremo in modo sicuro, io in testa, sulla strada tracciata dalla costituzione".
«Il popolo prese d’assalto il palazzo reale il giorno 9 e il re riuscì a salvarsi a stento ristabilendo l’ajuntamiento di Madrid del 1814, giurando davanti ad esso la costituzione. Il re, a dire il vero, non si preoccupava di giurare il falso poiché aveva sempre sotto mano un confessore disposto a garantirgli la piena remissione di tutti i suoi peccati. Contemporaneamente si stabilì una giunta consultiva, il cui primo decreto mise in libertà i prigionieri politici e richiamò gli esiliati per le stesse ragioni. L’apertura delle prigioni diede al palazzo reale il primo ministero costituzionale: Castro, Herrero e A. Argùelles, che formavano questo ministero, erano vittime del 1814 e deputati del 1812».
In quanto agli intrighi russi di Marx non nega che dietro agli affari della rivoluzione spagnola ci fosse anche la mano russa, però osserva come dal 1812 la Russia avesse alternativamente riconosciuto o denunciato la costituzione secondo come la cosa favorisse i suoi interessi diretti con la Spagna e con altri Stati.
La conclusione che si può trarre, quindi, del cosiddetto Triennio Liberale 1820-1823, ancora una volta, è la mancata confluenza delle energie rivoluzionarie popolari delle città e una centralizzazione in senso rivoluzionario liberale e borghese. I liberali in Spagna meritarono questo nome perché richiedevano le riforme borghesi riconosciute dalla Costituzione del 1812, contro il regime ecclesiastico e assolutista; però lo chiedevano "dall’alto", gradualmente e tramite compromessi con le superiori istituzioni della società, rinunciando più e più volte a mobilitare le masse povere per imporre con la forza i provvedimenti rivoluzionari, alleandosi invece con i settori più reazionari per frenare le masse quando si misero in movimento, istintivamente dato che mancavano di capi ben individuabili.
Nonostante questo, furono le ribellioni delle città (La Coruna, Madrid, Saragozza, ecc,) in appoggio a Riego e alla costituzione quelle che riuscirono ad imporre il Governo liberale e far giurare la costituzione al Re. Sebbene Riego fosse la scintilla che incendiò il fuoco, la sua sollevazione militare si esaurì per mancarle l’appoggio civile armato nei territori andalusi che conquistava.
Nelle Cortes, aperte il 26 giugno 1820, delle quali Riego arrivò ad essere deputato e presidente, i liberales si dividevano in exaltados e moderados, con prevalenza di questi ultimi. Ma nemmeno gli exaltados seppero essere all’altezza di una rivoluzione conseguente.
Tanto le Cortes come il Governo vedevano con inquietudine il popolo che si appropriava dei mezzi rivoluzionari (libertà di stampa ecc.) e le masse che per quella via avrebbero finito per rivendicare sempre di più. C’è da dire che le manifestazioni e scontri di strada furono costanti durante il Triennio, sopratutto a Madrid. Davanti a questo timore le Cortes e il Governo dovettero far marcia indietro e mostrarsi apertamente reazionari, e il vuoto aperto da questa ritirata permise che gli assolutisti guadagnassero terreno. Nel luglio del 1822 si ebbe una insurrezione militare di parte reazionaria, nella quale si dimostrarono implicati il Re e il Governo; però la Milizia Nazionale e la guerriglia urbana riuscirono a Madrid a prevalere sul colpo di mano.
Il contadiname, strato maggioritario della popolazione, nel Triennio
restò in disparte per mancanza di proprie motivazioni. La situazione dimostrava
la necessità della Repubblica, contro la quale fu richiesto l’intervento
dello straniero. Fu così che l’intervento legittimista francese, con i
"centomila figli di San Luigi", mise fine al Triennio Liberale rimettendo
Ferdinando VII sul trono assolutista.
4. - La rivoluzione in Spagna
«I risultati positivi della rivoluzione del 1820-1823 non si circoscrivono solo al gran processo di effervescenza che esaltava le aspirazioni di capi considerevoli del popolo e imprimeva loro nuovi tratti caratteristici. Fu anche prodotto della rivoluzione la seconda restaurazione, nella quale gli elementi caduchi della società assunsero forme che erano già insopportabili e incompatibili con la esistenza della Spagna come nazione. La sua opera fondamentale fu quella di esacerbare gli antagonismi fino al punto al quale non erano più possibili i compromessi e si rese inevitabile una guerra senza quartiere (...) Per tutte le tradizioni spagnole, era poco probabile che un partito rivoluzionario trionfasse con il rovesciamento della monarchia. Fra gli spagnoli, per vincere, la loro rivoluzione dovette presentarsi come pretendente al trono. La lotta fra i due regimi sociali dovette prendere la forma di scontro di interessi dinastici opposti. La Spagna del secolo XIX ha fatto la sua rivoluzione con leggerezza, quando avrebbe potuto darle la forma delle guerre civili del secolo XIX. Fu appunto Ferdinando VII che fornì al partito rivoluzionario e alla rivoluzione un tema monarchico, il nome di Isabella, mentre legava la controrivoluzione a suo fratello Don Carlos, il Don Chisciotte degli Auto da Fe» (Frammento inedito della serie di articoli "La Spagna Rivoluzionaria", pubblicato dalle Edizioni Progress).Durante questa prima guerra carlista il Governo della nazione rimase nelle mani dei liberali, e fu in questo periodo che si introdussero la leggi più radicali in senso borghese, soprattuto per iniziativa di Mendizabal, che fra i liberali apparteneva alla frazione degli exaltados, o progresistas.
Espartero, il generale che aveva diretto la lotta finita con la sconfitta dei carlisti, divenne un idolo nazionale, all’inizio acclamato e rispettato da entrambi i settori dello schieramento liberale. Dopo una serie di governi di segno moderato e di scarsa reputazione, nei due ultimi anni di guerra la reggenza di Maria Cristina, madre dell’infante Isabella, cercò di frenare il nuovo ordine che avanzava ineluttabilmente. Espartero, contando soprattuto sull’appoggio del partito progressista, ottene finalmente nel 1840 di farsi nominare Capo del Governo da Maria Cristina, che, conosciutone il programma, rinunciò alla sua funzione e abbandono il paese. Con Espartero a capo della nazione, e dal maggio del 1841 nominato anche Reggente, continuò il processo di smantellamento dell’Antico Regime, che vedeva gli interessi e le proprietà della Chiesa, importante bastione dei carlisti, seriamente compromessi, il che provocò un irrigidimento col Vaticano.
Ma le dissonanze fra progresistas e moderatos andavano aumentando; a questo si aggiungeva l’atmosfera di scontento che regnava nell’esercito che, con l’arrivo della pace, si trovava con i problemi della smobilitazione. Si arrivò così alla rivolta contro Espartero, innescata dal golpe di Leopoldo O’Donnell nel settembre 1841, tendente a ristabilire la reggenza di Maria Cristina, ma che fallì nello scopo. Della delusione generale finirono per essere contagiati anche i progressisti, tanto che Espartero nel gennaio 1843 decretava lo scioglimento delle Cortes, conferma questa che il potere assumeva sempre più un carattere personale. O’Donnell, a Parigi, insieme a Narvaez ed altri militari continuavano a cospirare e nel 1843 riuscirono a cacciare con le armi Espartero, che emigrò in Inghilterra. Inizia qui il Decennio Moderato, nel quale, dopo i quattro anni di Narvaez alla presidenza del consiglio dei ministri, arriviamo al biennio 1854-1856 che Marx tratta più a fondo nei suoi articoli sul giornale newyorkese.
Nel 1854 ha luogo a Madrid una rivolta armata dei generali Dulce e O’Donnell, con fini esclusivamente di palazzo, cioè rappresentanti gli interessi di alcune frazioni delle classi dominanti. Lo stesso O’Donnell, che nel 1843 aveva contribuito al domino dei moderados nel Governo ed al ritorno in Ispagna di Maria Cristina, messo fine al processo di profondi cambiamenti apertosi nel 1853, si levava ora a proclamare la costituzione del 1837. Stavolta l’obiettivo personificato della ribellione fu il favorito della Regina Isabella, Conte di San Luis, che si voleva allontanare dalla vita politica del paese. Dopo tre settimane di combattimenti fra le truppe leali ed i ribelli, nella misura in cui la sollevazione si andava estendendo al resto della Spagna, le truppe lealiste ripiegavano e le prospettive andavano migliorando per gli insorti, che senza alcun imbarazzo si videro obbligati ad utilizzare il popolo perché collaborasse a far pressione per il cambio del Governo.
«L’esercito risultò l’unico luogo in cui potevano concentrarsi le forze vitali della nazione spagnola. Così poté accadere che le uniche manifestazioni nazionali (quelle del 1812 e del 1822) avessero origine proprio dall’esercito. Con tutto ciò i settori più aperti della nazione si sono abituati a vedere nell’esercito lo strumento naturale di ogni movimento nazionale. Durante il difficile periodo 1830-1854 le città spagnole compresero tuttavia che l’esercito, invece di continuare ad essere un sostegno della causa della nazione, si era trasformato in uno strumento delle rivalità degli ambiziosi pretendenti alla tutela militare della corte. Quindi il movimento del 1854 è molto diverso da quello del 1843.Dal prevalere dei militari insorti si forma quel che fu chiamato Governo di coalizione Espartero-O’Donnell. Ricordiamo che O’Donnell fu uno dei generali che nel 1843 era in prima fila nella sollevazione armata contro l’allora Reggente Espartero ed ora entrambi, alla testa del nuovo Governo formato il 31 luglio 1854, procedevano spediti a misure di repressione contro una situazione rivoluzionaria, della quale approfittarono per cacciare dal potere la camarilla della regina.
«L’èmeute del generale O’Donnell fu considerato dalla popolazione come una semplice cospirazione contro le persone influenti della corte, specialmente da quando si vide che il movimento contava sull’appoggio dell’ex favorito Serrano.
«Le città e la campagna si guardarono bene, pertanto dal rispondere alla chiamata della cavalleria di Madrid. Così, il generale O’Donnell si vide costretto a cambiare del tutto la natura dal suo operato, allo scopo di non vedersi isolato ed esposto all’insuccesso (...) L’insurrezione militare non ha ottenuto l’aiuto di un movimento popolare se non accettando le condizioni di quest’ultimo. Resta tuttavia da vedere se sarà obbligato ad aderire ad esse ed a mantenere le promesse fatte (...)
«I militari sono stati alieni dal prendere l’iniziativa dovunque e in molte zone non hanno fatto altro che cedere alle schiaccianti pressioni della popolazione (...)
«Il Conte di San Luis, che sembra aver capito bene qual’è la situazione a Madrid, annunciò ai lavoratori che il generale O’Donnell e gli anarchici avrebbero tolto loro il lavoro; mentre, al contrario, se il governo avesse trionfato, esso avrebbe impiegato tutti gli operai in lavori pubblici con una paga di sei reali al giorno. Con questo stratagemma il Conte di San Luis sperava di porre sotto la propria bandiera il settore più impressionabile dei madrileni. Ma il suo successo fu simile a quello raggiunto dal partito del National a Parigi nel 1848. Gli alleati così procurati si convertirono presto nei suoi più pericolosi nemici, poiché i soldi per pagarli al sesto giorno erano finiti.
«Fino a qual punto il governo temesse un pronunciamento a Madrid, risulta chiaro del proclama del generale Lara, governatore della Piazza, in cui si proibiva la pubblicazione di qualsiasi notizia riguardante l’andamento dell’insurrezione. Risulta inoltre chiaro che la tattica del generale Blàser si riduce a evitare accuratamente qualsiasi contatto con gli insorti, per evitare che le sue truppe contraggano la medesima infezione» (NYDT, 4 agosto 1854).
«Una delle caratteristica delle rivoluzioni consiste nel fatto che, nel momento stesso in cui il popolo sembra trovarsi sul punto di compiere un grande passo ed inaugurare una nuova era, esso soccombe di fronte alle illusioni del passato e mette tutto il potere e l’influenza, così faticosamente conquistata, a disposizione degli uomini che rappresentano, o ci si immagina che lo facciano, il movimento popolare di un periodo già trascorso. Espartero è uno di questi uomini tradizionali che il popolo è abituato a portarsi sulle spalle nei momenti di crisi sociali e che poi (...) sono molto difficili da disarcionare (...)La coalizione Espartero-O’Donnel durò fino all’inverno 1856. La instabilità sociale che non si mitigava obbligò O’Donnel a porre fine ai dissensi con gli esparteristi e alla situazione caotica con un colpo di Stato. Tenendo già preparata una formazione ministeriale, di cui era capo, O’Donnel, presenta le dimissioni dal Governo di coalizione e cerca di imporre il nuovo gabinetto con la forza delle armi. Alla notizia scoppiarono sanguinose rivolte di resistenza a Barcellona e a Madrid, nelle quali le misure repressive, in entrambe le città, furono violentissime e sanguinose. La frazione O’Donnel contava, come nel 1843, nell’appoggio della Francia, ora con Napoleone III in luogo di Luigi Filippo.
«Verso la fine del 1847 un’amnistia richiamò in patria gli spagnoli espatriati e mediante un decreto della regina Isabella Espartero venne nominato senatore» (NYDT, 19 agosto 1854).«Erano appena state ritirate le barricate a Madrid – su richiesta di Espartero – che già era iniziata la controrivoluzione. Il primo passo controrivoluzionario fu l’immunità accordata alla regina Cristina, a Sartorius e associati. A questo passo seguì quello della formazione del ministero con il moderato O’Donnell alla guerra e, di conseguenza, tutto l’esercito messo a disposizione di questo vecchio amico di Narvàez (...)
«In premio ai sanguinosi sacrifici del popolo sulle barricate e nelle strade, è caduto un diluvio di decorazioni sui generali di Espartero da una parte e sugli amici moderati di O’Donnell dall’altra. Per preparare l’assoluto silenzio della stampa è stata ristabilita la legge del 1837. Invece di convocare le Cortes costituenti, Espartero desidera, a quanto si dice, convocare soltanto le camere secondo la costituzione del 1837, rispettando inoltre, stando a certe informazioni, le modifiche apportate dello stesso Narvàez. Sono state concentrate molte forze militari vicino a Madrid per assicurare nel miglior modo possibile il successo di queste misure e di quelle che seguiranno. Se c’è qualcosa che possa richiamare la nostra attenzione in questa vicenda è la celerità con cui ha cominciato ad agire la reazione» (NYDT, 21 agosto 1854).«Giorni fa il Charivari pubblicava una caricatura nella quale il popolo spagnolo appare invischiato in una battaglia, mentre i due capi guerrieri – Espartero e O’Donnell – si abbracciavano al di sopra delle loro teste (...) Il Charivari interpreta come chiusura della rivoluzione ciò che è soltanto l’inizio di essa.
«O’Donnell desidera che le Cortes siano elette in accordo con la legge del 1845, Espartero secondo la costituzione del 1837 ed il popolo mediante suffragio universale. Il popolo, inoltre, rifiuta di deporre le armi finché il governo non avrà pubblicato un nuovo programma dato che quello di Manzanares non lo soddisfa più. Il popolo chiede inoltre l’annullamento del concordato del 1851 [Il Programma di Manzanares, lanciato da O’Donnell, conteneva alcune rivendicazioni popolari. Con il Concordato la Corona spagnola si impegnava con la Santa Sede a stipendiare il clero a spese del Tesoro, a cessare la confisca delle terre della Chiesa e a devolvere ai conventi le terre ipotecate durante il 1834-43 che non erano ancora assegnate, ndr], la confisca dei beni dei controrivoluzionari, una relazione pubblica sulla situazione finanziaria, l’annullamento di tutte le concessioni per le ferrovie e gli altri contratti per la realizzazione di opere pubbliche stipulati in modo fraudolento e, infine, la comparizione di Cristina davanti ad un tribunale speciale. Due tentativi di fuga di quest’ultima sono falliti grazie alla resistenza armata del popolo. El Tribuno fornisce l’elenco delle somme che la regina Cristina deve restituire al Tesoro Nazionale» (NYDT, 25 agosto 1854).«È stato ormai ampiamente dimostrato che fu l’ambasciatore britannico a nascondere O’Donnell nella sua residenza e a convincere il banchiere Collado, attuale ministro delle finanze, perché anticipasse il denaro necessario a O’Donnell e a Dulce per il loro pronunciamento» (...)
«Anche la Russia intriga nella penisola tramite l’Inghilterra, non per questo fa a meno di denunciarla pure di fronte alla Francia. Infatti leggiamo nella Neue Preussiche Zeitung che l’Inghilterra ha provocato la rivoluzione spagnola alle spalle della Francia. Quale interesse ha la Russia nel creare sommosse in Spagna? Quello di creare una divisione nell’Ovest, provocare dissensi tra la Francia e l’Inghilterra e costringere la Francia all’intervento. La stampa anglo-russa ci dice infatti che alcuni rivoluzionari francesi del giugno hanno innalzato le barricate a Madrid (...) Si deve quindi concludere che la rivoluzione spagnola è stata portata a termine dagli anglo-russi? In nessun modo. La Russia non fa altro che appoggiare i movimenti ribelli quando capisce la prossimità di crisi rivoluzionarie. Inoltre, appena inizia il movimento popolare, questo si manifesta subito contrario agli intrighi della Russia, quanto lo è all’oppressione del governo. Così avvenne nel 1848 in Valacchia e così sta avvenendo nel 1854 in Spagna (...)
«Non ci fu mai una rivoluzione che abbia offerto uno spettacolo così scandaloso nella condotta dei suoi uomini quanto questa rivoluzione iniziata nell’interesse della "moralità". La coalizione dei vecchi partiti che formano il governo attuale (amici di Espartero e amici di Narvez), si è preoccupata soprattuto di dividersi il bottino delle cariche, impieghi, stipendi, titoli e decorazioni (...)
«In contrasto con questa infamia che macchia il movimento spagnolo, è una consolazione sapere che questo popolo è riuscito finalmente a costringere questi signori a mettere Cristina a disposizione delle Cortes e a indire la convocazione di una Assemblea Nazionale Costituente, che non includa però il senato, e perciò su basi diverse da quelle previste dalle leggi elettorali del 1837 e 1845. Il governo non aveva avuto il coraggio di creare una legge elettorale, dato che il popolo era unanime a favore del suffragio universale (...).
«A Barcellona le forze militari si sono scontrate fra di loro e con gli operai. Questo stato anarchico delle province è di grande utilità alla causa della rivoluzione dato che impedisce che questa venga spenta nella capitale» (NYDT, 1 settembre 1854).
«In vista della situazione il Times ha veramente delle buone ragioni per lamentarsi della mancanza di un centralismo di tipo francese in Spagna e del fatto che una vittoria sulla rivoluzione nella capitale non possa decidere niente rispetto alla situazione delle province, finché in queste continui a durare questo stati di "anarchia" senza il quale non può trionfare nessuna rivoluzione (...)
«La pressione esercitata dal popolo sul governo è resa evidente dal fatto che i ministri della guerra, degli interni e dei lavori pubblici hanno realizzato vaste riforme e snellimento di procedure nei loro diversi dicasteri, avvenimento sconosciuto fino ad ora nella storia spagnola (...)
«La ragione fondamentale della rivoluzione spagnola possiamo trovarla nella situazione finanziaria e, in particolare modo, nel decreto di Sartorius che ordinava il pagamento anticipato dell’imposta di ben sei mesi. Tutte le casse pubbliche erano vuote al momento del conflitto rivoluzionario, nonostante non ci fosse stato un ramo dei servizi pubblici che avesse ricevuto lo stipendio. Inoltre, da mesi non erano neanche state stanziate le somme destinate alla varie necessità»(NYDT, 4 settembre 1854).«L’ingresso dell’esercito di Vicàlvaro in Madrid ha spinto il governo ad iniziare una più intensa attività controrivoluzionaria. Il ristabilento della legge restrittiva del 1837 sulla stampa, perfezionata con tutta la durezza delle legge supplementare del 1842, ha troncato tutto il settore "incendiario" della stampa, che non è in grado di versare la cauzione richiesta. Il giorno 24 è apparso l’ultimo numero del Clamor de las Barricadas con il titolo Ultimas Barricadas. I suoi due direttori sono stati arrestati (...) La soppressione della libertà di stampa è stata seguita subito dopo da quella della libertà di associazione, stabilita anche questa da un decreto reale. A Madrid sono stati sciolti i club e nelle province le Juntas e i comitati di salute pubblica, con l’eccezione di quelli riconosciuti dal governo come deputazioni (...)
«Espartero ha ottenuto 2.500.000 dollari dai banchieri di Madrid in cambio della promessa di realizzare una politica strettamente moderata. Le sue ultime misure provano con quanto piacere egli sia disposto a mantenere la promessa.
«Non si deve credere che tutte queste misure reazionarie siano state accolte senza alcuna resistenza da parte del popolo. Dopo che si venne a conoscenza della partenza di Cristina, il 28 agosto, furono innalzate nuovamente le barricate, ma, se si deve prestare fede ad un dispaccio di Bayonne pubblicato su Moniteur francese, "le truppe, unite alla guardia nazionale distrussero la barricate e schiacciarono il movimento"».
«Questo purtroppo è il cercle vicieux a cui sono condannati tutti i movimenti rivoluzionari ancora immaturi. Riconoscono come obblighi nazionali i debiti contratti dai loro predecessori controrivoluzionari. Per poterli pagare devono continuare a riscuotere le vecchie tasse e a contrarre nuovi debiti. Per potersi procurare nuovi prestiti devono garantire "l’ordine", vale a dire, devono prendere essi stessi misure controrivoluzionarie. E così il nuovo governo popolare si trasforma, in ultima istanza, in servitore dei grandi capitalisti e in oppressore del popolo. Esattamente nello stesso modo il governo francese fu costretto nel 1848 a prendere il celebre provvedimento dei 45 centesimi ed a confiscare il fondo Casse di Risparmio per poter pagare gli interessi ai capitalisti (...)
«D’altronde, a Madrid ci sono poche truppe, al massimo 20.000 guardie nazionali; ma soltanto la metà di queste è armata in modo adeguato, mentre si sa che il popolo non ha ubbidito all’ordine di consegnare le armi» (NYDT, 16 settembre 1854).
«L’impressione che la stampa reazionaria ha in genere degli affari spagnoli può essere chiarita con alcuni estratti (...) “il futuro della monarchia spagnola – scrive L’Indèpendance – è esposto a gravi pericoli. Tutti i veri patrioti spagnoli sono d’accordo sulla necessità di schiacciare le orge rivoluzionarie. La rabbia dei libellisti e dei costruttori di barricate si scaglia ora contro Espartero ed il suo governo con la stessa veemenza con cui prima attaccava San Luis e il banchiere Salamanca”» (...)
«Se le province si mostrano continuamente agitate da movimenti incerti ed indecisi, quale altra causa può avere questo fatto se non la mancanza di un centro dell’azione rivoluzionaria? Non un solo decreto in favore delle province è stato emesso da quando il cosiddetto governo rivoluzionario cadde nelle mani di Espartero» (NYDT, 30 settembre 1854).
«Nel 1856 non abbiamo semplicemente la corte e l’esercito da un lato ed il popolo dall’altro, ma abbiamo nelle file del popolo le stesse divisioni che si verificano nel resto dell’Europa occidentale. Il 13 giugno il ministero Espartero presentò le sue forzate dimissioni; nella notte tra il 13 ed il 14 si costituì il ministero O’Donnel.
«Nella mattina del 14 cominciò a circolare la voce che O’Donnel, incaricato della formazione del gabinetto, aveva invitato Rios y Rosas, il malfamato ministro dei sanguinosi giorni del luglio 1854, a unirsi a lui (...) L’ordine di innalzare le barricate fu dato alle sette di sera dalle Cortes, sciolte subito dopo dalle truppe di O’Donnel. La lotta ebbe inizio nella notte stessa, e soltanto un battaglione della milizia nazionale si unì alle truppe reali. Non può sussistere alcun dubbio che la residenza al coup d’Ètat provenga dagli esparteristi, dai cittadini e dai liberali in genere. Mentre questi prendevano posizioni lungo una linea che divide Madrid da est a ovest, gli operai, guidati da Pucheta, occuparono le zone sud e nord della città.
«Nella mattina del 15 O’Donnel prese l’iniziativa. Anche secondo la testimonianza di parte del Debats non riuscì ad ottenere notevoli successi durante la prima parte della giornata. All’improvviso verso l’una e senza alcuna ragione apparente, si spezzarono le file della milizia nazionale, alle due erano ancora più deboli e alle sei erano completamente sparite dal teatro dell’azione lasciando tutto il peso della battaglia agli operai; questi lottarono dalle 4 fino alle notte del 16. Ci furono quindi due battaglie diverse in questi tre giorni di carneficina, l’una fu sostenuta dalle milizia liberale delle classi medie, appoggiata dagli operai, l’altra fu sostenuta dall’esercito contro gli operai messi da parte dalla milizia (...) Espartero abbandona le Cortes, le Cortes abbandonano i capi della Guardia Nazionale, i capi abbandonano i loro uomini e questi abbandonano il popolo (...)
«Un altro informatore ci fornisce una nuova ragione per spiegare questo improvviso atto di sottomissione alla cospirazione, cioè che si pensò che il trionfo della Guardia Nazionale non avrebbe fatto altro che provocare la rovina del trono ed il predominio assoluto della democrazia repubblicana. La Presse di Parigi ci fa pure capire che il generale Espartero, vedendo la piega che prendevano le cose nel congresso a opera dei democratici, non volle sacrificare il trono e neanche lanciarsi nella guerra civile a rischio dell’anarchia e fece tutto quello che poté per ottenere la sottomissione di O’Donnell (...) Tutti sono d’accordo nel punto principale: che Espartero abbandonò le Cortes, le Cortes i capi, i capi la borghesia e questa il popolo.
«Ciò ci fornisce una nuova semplificazione del carattere nella maggior parte delle rivoluzioni europee del 1848-1849 e di quelle che avranno luogo in futuro nella parte occidentale del continente. Esistono da una parte l’industria moderna ed il commercio, il cui capo naturale, la borghesia, è contraria al dispotismo militare; d’altra parte, quando inizia la sua battaglia contro il dispotismo di questo tipo, trascina con essa gli operai, prodotto della moderna organizzazione del lavoro, i quali reclamano la parte che spetta loro del risultato della vittoria. Spaventata per le conseguenze di una tale alleanza, posta involontariamente sulle proprie spalle, la borghesia retrocede fino a mettersi sotto la protezione delle batterie dell’odiato dispotismo. Questo è il segreto degli eserciti permanenti in Europa, altrimenti incomprensibili per lo storico del futuro. Le classi medie in Europa hanno così dovuto comprendere che devono arrendersi di fronte ad un potere politico che detestano e rinunciare ai vantaggi dell’industria e del commercio moderni e delle relazioni sociali basate su di essi, e rinunciare ai privilegi che l’organizzazione moderna delle forza produttive della società ha riversato nella sua prima fase soltanto su di loro. Che questa lezione abbia potuto attuarsi anche in Spagna è qualcosa di impressionante e di inaspettato» (NYDT, 8 agosto 1856).«Un caratteristico aspetto dell’insurrezione a Madrid è che le barricate furono usate con parsimonia e soltanto negli incroci importanti, mentre le case furono convertite in centri di resistenza. D’altra parte, fatto sconosciuto nelle lotte all’interno delle città, le colonne dell’esercito che assalivano le varie posizioni furono ricevute a loro volta con attacchi di baionette. Ma se gli insorti approfittavano dell’esperienza acquisita dalle insurrezione di Parigi e di Dresda, i militari avevano imparato altrettanto bene la lezione. Le pareti delle case vennero abbattute una ad una e gli insorti furono presi di fianco e alle spalle, mentre le uscite alle strade erano spazzate dai tiri di cannoni. (...) Gli insorti così dispersi continuarono a resistere sotto ogni arco di chiesa, in qualsiasi vicolo o tromba delle scale, difendendosi fino alla morte.
«A Barcellona la lotta fu molto meno intensa perché mancarono del tutto i capi. Come tutte le altre precedenti sollevazioni di Barcellona, questa insurrezione fallì dal punto di vista militare per il fatto che la cittadella, il forte di Montjuich, rimase in mano all’esercito. La violenza della battaglia è messa in risalto dal rogo di 150 soldati nelle loro caserme a Gracia, un quartiere che gli insorti hanno difeso energicamente dopo essere stati sloggiati da Barcellona. Merita di essere citato il fatto che mentre a Madrid, come abbiamo letto, in un articolo precedente, i proletari furono traditi ed abbandonati dalla borghesia, i tessitori di Barcellona dichiararono fin dal principio che non volevano saperne di un movimento organizzato da esparteristi, e insisterono nella proclamazione della repubblica. Essendo stata loro rifiutata questa richiesta, rimasero spettatori passivi della battaglia, salvo qualcuno che non poté resistere all’odore della polvere da sparo. Per questo la battaglia fu persa: perché ogni insurrezione a Barcellona viene decisa dai suoi 20.000 tessitori.
«La rivoluzione spagnola del 1856 si distingue da tutte le altre che l’hanno preceduta per l’assenza di qualsiasi motivo dinastico. È noto che il movimento dal 1808 al 1814 fu nazionaldinastico. Sebbene le Cortes dell’anno 1812 avessero proclamato una costituzione quasi repubblicana lo fecero in nome di Ferdinando VII. Il movimento del 1820-1823, timidamente repubblicano, era troppo prematuro e aveva contro le masse alle quali si rivolgeva, poiché queste erano ancora legate alla Chiesa e alla Corona. Tanto profondamente era radicata la monarchia in Spagna che la lotta tra la vecchia società e la moderna dovette ricorrere, per riuscire ad essere seria, ad un testamento di Ferdinando VII e all’incarnazione dei principi antagonisti in due rami dinastici: quello dei carlisti e quello dei cristini. Anche per lottare per un nuovo principio furono necessari agli spagnoli degli stendardi consacrati dal tempo: sotto queste bandiere ebbero luogo le lotte dal 1833 a 1854. Nella rivoluzione del 1854 c’era quindi, implicitamente, un attacco alla monarchia; però l’innocente Isabella restò protetta perché l’odio si concentrò contro sua madre, ed il popolo insorse non solo per la propria emancipazione, ma anche per emancipare Isabella da sua madre e dalla sua camarilla.
«Nel 1856 è suonata la sua ora, e la stessa Isabella si scontra con il popolo a causa del coup dètat che ha provocato la rivoluzione. Freddamente crudele e vilmente ipocrita, ha dimostrato di essere degna figlia di Ferdinando VII (...) La stessa carneficina operata da Murat fra i madrilenos nell’anno 1840 sfigura, riducendosi alla categoria di semplice sommossa, di fronte alla carneficina del 14-16 luglio presieduta dal sorriso della innocente Isabella. In questi giorni sono suonati i rintocchi a morte per la monarchia di Spagna.
«Soltanto gli imbecilli legittimisti europei possono sognare che con la caduta di Isabella possa salire al trono Don Carlos. In effetti essi pensano che quando muore l’ultima manifestazione di un principio, ciò avviene soltanto perché si è aperta una nuova vita alla sua prima manifestazione.
«Nel 1856 la rivoluzione spagnola non soltanto ha perso il suo carattere dinastico ma anche il suo carattere militare (...) Fino al 1854 la rivoluzione ebbe sempre origine nell’esercito, e le sue manifestazioni fino a questo momento non offrivano altro segno esteriore che la differenza del grado militare da cui partivano.
«Anche nel 1854 partì dall’esercito il primo impulso, ma il manifesto di Manzanares scritto da O’Donnell mostrò quanto ridotta era ormai diventata la base del predominio militare nella rivoluzione spagnola (...) Se la rivoluzione del 1854 si limitò a esprimere in questo modo la fiducia, appena due anni dopo si è vista attaccata in modo aperto e diretto da questo esercito che è passato ormai a ingrossare, in modo molto degno, l’elenco formato dai croati di Radetzky, gli africani di Bonaparte e i pomerani di Wrangel. Sino a qual punto l’esercito spagnolo apprezzi le glorie della sua tradizione è chiaro dalla ribellione di un reggimento madrileno il 29 luglio che, non contento dei semplici sigari di Isabella, ha reclamato i cinque franchi e le salsicce di Bonaparte e di certo li avrà.
«È per questo che questa volta l’esercito spagnolo è rimasto completamente solo contro il popolo o più esattamente ha lottato soltanto contro il popolo e la Guardia Nazionale; in altre parole, è finita la missione rivoluzionaria dell’esercito spagnolo. L’uomo in cui si sono accentrate le caratteristiche militari, dinastiche e liberal-borghesi della rivoluzione spagnola – Espartero – si è sprofondato ancora più di quando la legge comune del destino avrebbe potuto far pensare ai suoi intimi connoisseurs. Se, come si dice ovunque, ed è molto probabile, gli esparteristi si metteranno a disposizione di O’Donnell, avranno confermato il loro suicidio con un atto ufficiale e spontaneo. Infatti, non si salveranno.
«La prossima rivoluzione europea troverà la Spagna matura per collaborare con essa. Gli anni 1854 e 1856 sono stati un periodo di transizione attraverso cui bisogna passare per arrivare a questa maturità» (NYDT, 18 agosto 1856).
2. La Nato
Caparbiamente fedeli non solo alla teoria e alla tattica del nostro partito ma anche ai metodi di lavoro, enunceremo anzitutto il fine e lo scopo di questa trattazione, per dimostrare, pur nel breve arco storico che ci interessa, che Ieri, nella Seconda Guerra mondiale di sovraproduzione del capitalismo imperialista, sono state poste le basi economiche, politiche e giuridiche dell’Oggi, in cui il capitale, esteso al mondo intero, non può più approfondire il suo processo di centralizzazione, svuotando di ogni significato le sue proprie basi, le nazioni, accelerando in tal modo il passaggio all’unico possibile modo di produzione mondiale quello comunista. Attendiamo dunque il radioso Domani della vera umanità, che sta per affrontare il lungo e doloroso travaglio del parto e svolgiamo il nostro lavoro di umili formiche fidando nel ruolo di levatrice della Rivoluzione.
Ci occupiamo di un argomento inerente alla questione militare: il Patto
dell’Atlantico del Nord. La nostra tesi è che la Nato è sin dall’origine
nient’altro che l’occupazione militare della vinta Europa, necessaria per
il suo sfruttamento economico, e si avvia a svolgere il suo ruolo di gendarme
della conservazione in tutta l’area europea e mediterranea.
Piccole differenze
I "politologi" odierni sono giunti a conclusioni molto interessanti. Leggiamo dal testo L’Italia e la Nato a cura di S. Minolfi: «È un fatto che il sistema internazionale contemporaneo debba le sue radici al periodo successivo alla seconda guerra mondiale; è un’ipotesi che quelle radici affondino nella natura dei rapporti politici istituitesi tra gli Stati belligeranti sul campo di battaglia (...) L’unica giustificazione delle guerre è quella che assegna loro, con la vittoria, il compito di organizzare la struttura della vita di relazioni tra gli Stati successivi a ciascuna guerra costituente: così l’importanza di aver vinto una guerra non starà tanto, o punto, nelle conquiste fatte, quanto nel diritto (non legale, ma di fatto) di determinare le regole a cui tutti gli Stati si dovranno da quel momento in poi uniformare». E ancora: «Qualsiasi assetto del sistema internazionale è per definizione conservatore, tende cioè a perpetuarsi (e a dotarsi conseguentemente degli strumenti per riuscirvi), così come i suoi costituenti (gli Stati vincitori e quindi dominanti) lo hanno voluto, proprio in ragione dell’immenso prezzo che ha imposto a tutte le parti in causa». Anche noi la vediamo così, pressapoco. Ma siccome non siamo degli "intellettuali", ma dei comunisti, ci teniamo a smascherare i rapporti di sfruttamento che stanno sotto all’immenso prezzo pagato da tutte le parti in causa.
Leggiamo ancora: «Proprio in un quadro di generale consolidamento dei blocchi contrapposti – dunque in una forma di conservazione – va vista anche la creazione del Patto Atlantico». Ed ecco le modalità di realizzazione di questa conservazione: «Tutto quel che un esercito conquistò appartenne poi a quello stesso paese (o ai suoi alleati) (...) È sul campo di battaglia che si decidono le condizioni costituzionali del regime politico interno dei paesi sconfitti (...) Questi Stati mostrano di non essere liberi di darsi quell’assetto interno che discenderebbe dallo spontaneo gioco tra le parti politiche, le quali invece possono trovarsi costrette a obbedire alla volontà dello Stato vincitore».
Guardate come i democratici illuminati smascherano la democrazia, e lo fanno in modo tanto garbato da far parere il tutto un delicato palleggio, inevitabile perché scritto nell’ordine delle cose, quasi per volontà divina. Sfruttamento, sudore, sangue, violenza sono termini troppo volgari, potrebbero ferire le delicate orecchie dei borghesi che, moralisticamente, le brutte cose le fanno ma non lo dicono, se non in confessione: la coscienza è lavata, si può ricominciare.
Il nostro prosegue con logica stringente: «Stati Uniti e Unione Sovietica sono i soli e unici vincitori della guerra; tocca quindi loro il potere di decidere – insieme per quanto in contrapposizione – la sistemazione dell’assetto del sistema internazionale pacifico». Per noi questo concetto si esprime così, e con ben altre prospettive: "Contro i macellai di Occidente e di Oriente la via della riscossa proletaria" titolava il nostro quindicinale Battaglia Comunista n. 2 del 1951: «Va individuato il momento "costituente" del sistema internazionale che ha governato le sorti della guerra e della pace da allora in poi: una fase storica di straordinaria importanza, la cui peculiare caratteristica è di lasciarsi "decifrare" con incomparabile chiarezza. Il gioco delle parti assume un nitore e un’evidenza quali mai si erano visti prima nella storia». Questo nitore e questa evidenza sono il segno della fase finale del capitalismo: le sue contraddizioni si sono talmente esasperate da aver assottigliato il margine delle sue mistificazioni, ormai camuffate soltanto dai titoli che danno loro i grandi manipolatori dell’opinione pubblica, ma che si traducono immediatamente nella sgradita realtà: "riportare la speranza" uguale morte della popolazione locale e controllo territoriale delle zone petrolifere, "contratti di solidarietà" uguale impoverimento generalizzato dei lavoratori occupati e disoccupazione massiccia.
«Il testo stesso di un altro passo di grande importanza – la creazione dell’ONU – non sancisce addirittura la status particolare che da allora in poi avrebbe dovuto inerire alle potenze vincitrici. Ne risulta che le regole dell’ordinata convivenza internazionale sono state stabilite autoritariamente e che la loro violazione implicherebbe l’immediata e inevitabile azione restauratrice della pace da parte dei tutori del nuovo ordine!».
Un po’ diversa la nostra valutazione: a proposito di ONU scrivevamo in Il programma comunista n. 4 del 1952: «L’ONU sin dal nascere era una finzione, necessaria per mantenere di fronte all’opinione mondiale la fascia della "liberazione dai mostri imperiali dell’asse". Che cos’era quella famiglia di nazioni unite se non la troupe di marionette dei due Grandi? E quando questi si spartivano la torta del mondo post-bellico preoccupati di fregarsi a vicenda nella divisione delle rispettive aree di dominazione». E per quel che concerne il ruolo della socialdemocrazia: «L’Internazionale socialdemocratica, pur nell’imbarazzo di trovare una linea internazionale comune difendendo interessi nazionali divergenti, ha trovato il punto comune nel fungere da sottosezione dell’ONU, portando a questa tipica organizzazione mondiale borghese una pennellata di "finalità". Questo suo ruolo la rende indispensabile al funzionamento dell’ONU, quale agenzia di propaganda tra le masse popolari: altrimenti, chi crederebbe alla "difesa della civiltà?"».
I borghesi hanno scoperto l’acqua calda; K. Von Clausewitz nel suo Trattato
della guerra affermava sinteticamente, senza bisogno di indorare la
pillola: «La guerra non è che una parte del lavoro politico, e non è
perciò affatto una cosa a se stante». E noi abbiamo sempre affermato
che la pace e la guerra imperialiste non sono nient’altro che un diverso
aspetto della sua intrinseca violenza: pace = violenza virtuale, guerra
= violenza in atto, e quella virtuale non è migliore per il proletariato.
La Nato. Genesi storica
Il condominio russo-americano è stato ratificato dall’accordo di Yalta del 1945, in cui la Russia di Stalin, su ordinazione americana, si assume il compito di aprire un nuovo fronte in Manciuria per tenere impegnate le truppe giapponesi lontano dalla madrepatria, facilitandone l’occupazione da parte delle armate statunitensi. La conferenza di Yalta costituì, a detta di Roosevelt, una svolta nelle storia del mondo, la negazione della tradizionale diplomazia europea dei blocchi con la conseguente suddivisione del globo in sfere di influenza, l’avvio di una nuova era di pace.
Ogni classe ha la sua lettura della storia. Per noi: «Il corso sanguinoso della Seconda Guerra mondiale passò attraverso tappe ben determinate, rappresentate da intese, patti e accordi tra gli Stati belligeranti. L’accordo di Yalta fu una tappa del massacro. In forza di esso, migliaia e migliaia di esseri umani di tutte le età dovevano atrocemente perire (...) Ma né l’America poté fare a meno dall’ordinare la guerra antinipponica alla Russia, né la Russia poté rifiutarsi di farsi strumento della conquista americana del Giappone e della egemonia americana nel Pacifico. All’una mancava l’arma atomica, all’altra mancava la possibilità di sottrarsi alle conseguenze derivanti dalla sua alleanza militare e politica con il blocco imperialista anglo-americano. Un solo interesse li univa inestricabilmente: condurre la guerra imperialista fino in fondo e arrivare insieme alla spartizione del mondo» ("Guerre su ordinazione", Battaglia Comunista n. 14 del 1951).
La politica estera di Roosevelt nel periodo della Seconda Guerra mondiale si basava proprio sul presupposto di una stretta collaborazione post-bellica tra Usa e Urss. Ma, cessate le ostilità, riprese la concorrenza tra gli Stati capitalisti, iniziarono le difficoltà nel raggiungere compromessi sugli innumerevoli punti posti dalla nuova situazione, e le convinzioni Usa, che presupponevano «una comunità di nazioni moderate, accomunate da terribili sofferenze e da perdite impressionati (...) tutte dedite al compito di una pacifica ricostruzione» (Truman, discorso nel settembre 1947) vacillarono, portando alla conclusione dell’inutilità di compromessi con Mosca, e alla convinzione che era giunto il momento di creare un ambiente mondiale destinato a contenere i tentativi sovietici di trarre vantaggio dalle debolezze politiche ed economiche dell’Occidente, con conseguente propensione alla formazione di blocchi economico-politici come risposta alla guerra fredda.
Qui sta la genesi dal Patto Atlantico, che segna il concludersi di una fase della guerra fredda, o meglio il suo spostamento verso l’Asia orientale, e il suggello di un processo di ristrutturazione dell’Occidente, divenute evidenti la sua debolezza e, di contro, la capacità dell’Urss di superare le difficoltà del dopoguerra in termini di sfida.
Infatti il primo periodo di pace (fino a tutti il ’46) vide in Russia il rafforzamento del potere di Stalin (sappiamo bene con quali mezzi) all’interno e la costruzione all’esterno della cortina di ferro, consolidamento di una zona di influenza sovietica circoscritta, legittimata dalle vittorie militari dell’Armata rossa. La cortina di ferro fu vissuta come un’usurpazione da parte dell’Occidente, combattuta con un’offensiva ideologica e propagandistica e con lo spauracchio dell’arma atomica, il cui possesso sembrava assicurare un sorta di imbattibilità quasi simbolica, mentre veniva trascurato l’armamento tradizionale, anche per ragioni elettorali interne americane.
In "Bomba H contro rivoluzione" su Il programma comunista n. 6 del 1952 scrivevamo: «La potenza dell’ultimo ritrovato scientifico in tema di distruzione viene esaltata di mass-media, ma altri sono i segreti propositi dalla Casa Bianca, svelati dal New York Times: “Noi andiamo verso la crisi suprema della nostra generazione e forse di tutte le generazioni dal tempo che l’uomo apparve sulla Terra. Questo vale per noi americani, quanto per i russi”. Il ricatto è chiaro: lo Stato Maggiore della controrivoluzione si illude che la rivoluzione proletaria si possa arrestate con mezzucci da gangster; la minaccia a mano armata si rivolge non certo alla Russia, con cui l’imperialismo americano si alleò fin dal ’41 (con Stalin, contro Hitler), ma alle masse, prima di tutto quelle americane, sulla cui acquiescenza si erge il mostruoso potere di Washington. Ma noi sappiamo bene che ogni classe dominante ha posseduto invano la propria terrificante manaccia di distruzione come alternativa dell’insorgere dei propri nemici di classe (la Bastiglia, nel bel mezzo della Parigi imprendibile e superarmata, crolla all’interno: i mezzi di combattimento dell’epoca sono superati e resi inutili d’un sol balzo). Lo stesso avverrà per le tremendi armi del capitalismo, in quanto rivoluzione significa smembramento della vecchia società borghese dall’interno, in quanto soltanto la sottomissione del proletariato alla borghesia, permette a quest’ultima di trovare chi è disposto a portare, magari contro il proprio interesse, le "sue" armi».
Dopo la conclusione dei trattati di pace con l’Italia e le potenze minori dell’Asse e all’indomani delle elezioni americane con la sconfitta dei democratici, gli Usa si accorsero che l’Europa occidentale non era riuscita a superare la crisi dell’immediato dopoguerra ed era esposta al pericolo di un collasso economico. Con l’esasperazione degli effetti sociali della crisi, le sinistre europee acquistavano forza, sopratutto i partiti nazional-comunisti legati all’Unione Sovietica, che cercavano di contrastare le reintegrazione dell’Europa nel ruolo di colonna del sistema capitalistico dominato dagli Usa. Per la borghesia occidentale era necessario un processo di riorganizzazione, che ristabilisse l’assetto politico-economico del mondo atlantico e predisponesse i mezzi per attuare una svolta radicale, con il cambiamento della politica estera statunitense. La dottrina di Truman (12 marzo 1947) e il piano Marshall (5 giugno) segnarono questa svolta con lo scopo di restituire all’Europa occidentale la perduta solidità, congiuntamente ad un chiarimento di fondo delle alleanze politiche a ad un cambiamento nelle politiche interne: dai fronti unici del periodo della guerra a coalizioni omogenee nel rifiuto della partecipazione dei nazional-comunisti ai governi e nella volontà di restare nell’orbita americana.
La rottura definitiva tra la Russia e America avvenne che corso del
1947, sul piano politico con l’insuccesso della conferenza di Mosca sulla
Germania e su quello economico con la conferenza di Parigi per l’utilizzazione
degli aiuti americani, abbandonata da Molotov, che li leggeva come un tentativo
di ingerenza interna.
Il Piano Marshall e la creazione dell’alleanza
I principali strumenti della politica di consolidamento della zona d’influenza americana furono la dottrina Truman e il piano Marshall. La prima era di valore strategico: diretta a Grecia e Turchia, dimostrava l’assunzione della famosa «responsabilità globale degli Usa nei confronti dell’Unione Sovietica». Il secondo, con la creazione dell’Oece, riguardava la base della società industriale occidentale e mirava a ripristinare e potenziare il sistema di scambi tra Europa e Usa. L’America pensava che una piena ed efficace integrazione tra i due pilastri del sistema capitalistico fosse l’unico mezzo atto a rimediare all’instabilità politica europea, che aveva la sua origine nella crisi economica, e a parare le minacce provenienti dall’esterno dell’Europa. Per raggiungere questo obiettivo doveva riuscire ad ipotecare il libero arbitrio degli europei: qui entrò in azione il piano Marshall, che offriva sì aiuti a condizioni molto vantaggiose, ma imponeva ai loro beneficiari di orientarsi verso una «comunità economica», inizio di un’alienazione di autonomia, per ora interna all’Europa. Paradossalmente l’Europa, impegnandosi nella costruzione preconizzata dal piano Marshall, pose un problema imprevisto trasformandosi in un pericoloso concorrente e in un ostacolo alle mire egemoniche di Washington: con un prodotto nazionale comparabile a quello degli Usa essa disponeva di un maggior numero di abitanti.
Se l’alleanza si fosse limitata alla difesa contro i Sovietici, sarebbe stato logico spingere l’Europa ad un’unione politica interna che favorisse una difesa autonoma, ma in tal modo lo sviluppo europeo sarebbe sfuggito al controllo Usa. Il trattato di Roma del 1950 vide gli Usa, ormai consci del pericolo europeo, battere in velocità l’Europa ponendo, con la Nato, le premesse di una struttura che fosse in grado di controllare le Cee, essendone a capo per tentare di sviare questa questione appena nascente, ma già fastidiosa. La necessità di avviare negoziati per il Patto Atlantico era partita dal servo europeo dell’America, l’Inghilterra, sin dal dicembre 1947, e solo verso la metà del ’48 Washington si degnò di aderirvi.
Il 17 marzo del ’48 fu concluso un primo negoziato, che istituiva l’Unione Occidentale, tra Gran Bretagna, Francia e Benelux; era un’alleanza difensiva diretta soprattutto contro il pericolo di una rinascita della Germania, ma tale da offrire un punto d’aggancio per l’intervento degli Stati Uniti, preso al volo da Truman. La questione tedesca fu un punto dominante dei colloqui preparatori alla firma del Patto Atlantico: gli Usa ritenevano essenziale, sia militarmente sia economicamente, l’integrazione della Germania nell’unità europea, mentre la Francia, sua secolare antagonista, vi si opponeva.
Sin dalle origine nella Nato prevalsero due concezioni contrapposte: una come sistema organizzato basato principalmente sulla collaborazione militare; l’altra che mirava ad un nuovo ordinamento internazionale in grado di "salvaguardare la pace". Il lato militare divenne il fulcro dell’alleanza dopo il 1950 (guerra di Corea), con la costituzione di un esercito permanente, ma, nonostante ciò, la priorità era assegnata alle motivazioni politiche: la reazione dell’Occidente era invocata non tanto contro il pericolo di natura militare, quanto per il timore di un’infiltrazione continua e inarrestabile, politica e ideologica, da parte del blocco sovietico. Nonostante tutte le analisi politiche concordino nell’escludere una volontà sovietica di una politica militarmente aggressiva (vedi George Kennan, saggio del 1974 su Foregn Affairs), il pericolo veniva individuato nell’ideologia comunista, in una quinta colonna interna ai vari paesi occidentali, in alcuni ancora latente in altri già in conflitto con i governi. «I leaders del Cremlino mirano alla massima estensione del loro potere e della loro influenza. Il comunismo internazionale serve loro come poderoso strumento per il conseguimento di questa fine» (David Calleo).
Ciò che destava allarme era la debolezza interna dell’Occidente. Ma
la minaccia all’imperialismo è come un serpente che si morde la coda:
ciclicamente le sue contrapposizioni, che parevano sopite, riemergono con
violenza ricordandogli la sua inevitabile fine. È di oggi l’intervista
di monsignor Casaroli, che afferma: «Nel futuro il problema economico-sociale
può diventare pericoloso, per l’umanità intera, più dell’arma atomica»
(L’Unità del 27 gennaio 1994).
Presupposti economici
«Il commercio segue la bandiera, e la bandiera è issata sulla bocca dei cannoni (...) Si fa credere che l’emulazione del commercio è la via per assicurare la pace, ma la storia del commercio è la storia della lotta al coltello, una forma di guerra. E la guerra stessa non è nient’altro che una “necessità di mercato” (...) Che cos’è la storia del pacifico commercio, se non quella dello schiacciamento del piccolo ad opera del grande? Volete i commerci? Armatevi» ("Asse Mosca-Nato", su Il programma comunista n. 24 del 1957). La guerra non è dunque che la legittimazione dello sfruttamento economico. Le leve della politica vanno cercate nell’economia. La dittatura economica mondiale degli Usa è in questo dopoguerra un fatto, ma noi sappiamo che non c’è dittatura economica che non tende a tradursi in egemonia politica: è questo il senso della politica di Truman, la politica del dollaro.
Gli Usa si erano preparati da tempo a rimpiazzare l’Inghilterra nell’egemonia mondiale: i piani di Young e Dawes per la Germania del primo dopoguerra furono la prova generale del piano Marshall. Durante la Prima e la Seconda Guerra mondiale essi hanno potuto conservare intatto e sviluppare al massimo il loro potenziale economico, fornendo di armi, viveri ed equipaggiamento le potenze che si dilaniavano a vicenda. In tal modo hanno gettato le basi del loro sbarco in Europa: «I conquistatori della Germania, che erano in realtà i conquistatori dell’Europa, si sono ben guardato dal proclamare il V Day, il giorno della vittoria, prima di avere percorso tutto il territorio del vinto, già straziato dai bombardamenti, tanto per controllarne la residua consistenza di impianti produttivi che per impedire le convulsioni rivoluzionarie nelle masse sacrificate. Ma non è solo capitale costante tedesco quello che è stato spianato. Il rapporto di forze economiche e quindi di dominazione politica sorge nello stesso modo per i paesi che hanno bruciata la loro attrezzatura tecnica nel combattere contro la Germania, come l’Inghilterra e la Russia. Le masse di questi paesi dovranno lavorare follemente per ricolmare il vuoto prodotto in ciò che i borghesi chiamano ricchezza nazionale. In questo investimento grandioso di capitale variabile si genereranno per il capitale ricostruttore profitti giganteschi. Ma il ciclo non si può avviare senza anticipi e per ora non abbiamo uno spettacolo di intenso lavoro, ma di disoccupazione e di fame. Chi con la forza del proprio attrezzamento intatto può anticipare i dollari e le scatolette diventa padrone e lo sfruttatore delle masse europee schiavizzate» ("Ancora America" su Prometeo n. 8 del 1947).
Ecco spiegata la grande generosità americana; che basa il suo dominio sulle leggi capitalistiche più pure. Resasi conto che l’Europa devastata dalla guerra è, in realtà, vittima della crisi economica, da buon uomo d’affari si offre di acquistarla per un tozzo di pane, così come una grande impresa si impadronisce di una più piccola in difficoltà. Il capitalismo, invecchiando, diventa finanziario; è così che il dominio americano si fonda sul credito internazionale, il debito pubblico e il sistema bancario, grazie a cui l’accumulazione e l’estorsione dei profitti può estendersi a nuovi paesi dotati sì manodopera disponibile, ma mancati di capitale per acquistare materie prime e mezzi di sussistenza per gli operai. Il credito rende possibili le peggiori mistificazioni, facendo passare per atti filantropici (come i piani dell’Unrra, che distribuiva "gratuitamente" viveri) quella che è in realtà la base delle più feroci speculazioni; esso infittisce sempre più le maglie del totalitarismo capitalista, fino a intrappolarvi l’individuo.
Leggiamo in Marx, in "Appunti su James Mill" ora in Scritti inediti di economia politica: «È in realtà un’autoestranazione, una disumanizzazione tanto più totale e tanto più infame, in quanto il suo elemento non è più merce, metallo, carta, ma l’esistenza morale, l’esistenza sociale, l’interno del petto umano stesso, in quanto esso, sotto l’apparenza della fiducia dell’uomo verso l’uomo è la più alta sfiducia e la più perfetta alienazione (...) Il credito è il giudizio dell’economia sulla moralità di un uomo (...) La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio, un materiale per l’esistenza del denaro. Non più moneta e carta, ma la propria personale esistenza, la mia carne e sangue, le mie virtù socievoli, il mio valore, sono la materia, il corpo dello spirito del denaro. Il credito distingue il valore del denaro non più in denaro, ma in carne umana e in cuore umano (...) Il sistema di credito ha infine il suo compimento nella banca. La corporazione dei banchieri, il dominio dello Stato da parte della banca, la concentrazione del potere in queste mani, questo Areopago economico della nazione, è il degno perfezionamento del denaro. Nel sistema di credito il riconoscimento morale di un uomo, come la fiducia nello Stato, ecc., assume la forma del credito; si svela così il segreto e si mostra per quello che realmente è, la menzogna del riconoscimento morale, la infamia immorale di questa moralità, l’ipocrisia e l’egoismo che c’è in quella fiducia dello Stato».
Il credito implica il controllo fisico e ideologico da parte di chi presta, che non sgancia il denaro se non ha fiducia nel potenziale debitore se cioè questi non è spinto dal bisogno ad accettare le condizioni del finanziatore che lo sfrutterà. Così si incatena la volontà e la coscienza di classe dei proletari.
Il processo economico è ben spiegato in "Ancora America": «Le stragi belliche non hanno disaffollato gli stomaci nella parte del pianeta di popolazione più addensata e più antica; la vecchia Europa ha fame, non ha abbastanza da mangiare, non produce più viveri a sufficienza, non ha più la forza di una volta per andare a predare nelle altre quattro parti del mondo. Ed ecco che la ricca America anticipa, e pianifica l’ulteriore anticipazione. Si tratta di oro, di valuta, di titoli di credito, di tutte le altre stregonerie geniali ed idiote del mercantilismo. Si tratta in sostanza di sussistenza, nel senso più lato, non essendo sussistenza solo ciò che entra per la bocca.
Queste sovvenzioni in viveri rappresenterebbero l’apice di generosità di cui è capace il capitalismo. Si partì da regime del cash and carry, paga e porta via, o se vuoi mangiare, paga il conto prima di essere servito. Poi si passò alle legge di affitto e prestito, ossia, con un senso di larga fiducia, si consegnarono le merci facendo credito al compratore. L’oste di oltre Atlantico ci faceva un abbonamento ai pasti. Infine è venuta l’Unrra, ossia si regala senza nemmeno annotare il debito, il ricco trattore fa pranzare l’affamato per amor di Dio.
Chi conosce appena gli elementi della visione marxista dell’economia sa da tempo che la graduazione di merito va fatta alla rovescia. I tre metodi presentano successivamente un grado maggiore di sopraffazione e di sfruttamento che il ricco esercita sul povero.
L’Europa nella devastazione dei suoi impianti produttivi conserva crescente una sola delle forze della produzione, la massa lavoratrice. L’America non ha subìto distruzioni, le industrie ed ogni altro impianto sono intatti, tutto il suo capitale costante è integro. Il capitale costante rappresenta l’eredità che le generazioni passate col cumulo secolare dei loro sforzi di lavoro tramandano alle successive. Sulla strada di questa successione si accampa il privilegio di classe, poiché i miliardi di giornate lavoro lasciate dai morti non appartengono a tutti i vivi, ma ad una piccola minoranza.
Tale rapporto giuridico servirebbe poco ai satrapi del capitale ove essi disponessero del solo capitale costante: ben potrebbero contemplare le foreste di macchine immote e spente ciminiere, non sfuggirebbero essi stessi alla morte per fame. Il capitale costante deve integrarsi, perché si generi il profitto e si continui l’accumulazione della ricchezza, con il capitale variabile, ossia con lavoro umano, in quanto l’ingranaggio economico consente ai monopolizzatori degli impianti di anticipare le sussistenze dei lavoratori rimanendo beneficiari di tutto il prodotto della combinazione tra impianti e lavoro (...) La guerra attuale ha in certo modo allontanati tra loro i due generatori del profitto capitalistico e per riavvicinarli, sola condizione che permetterà di riportare al massimo di giri le ruote della macchina dello sfruttamento, occorrono imprecisabili intervalli di attesa.
Per superarli senza che la massa delle braccia produttrici si assottigli e si disperda, il capitalismo costruisce un apparato che anticipa sussistenze alle popolazioni affamate. Tale anticipo presentato come un dono, appunto perché la parte che veramente produce profitto è il capitale sussistenze, verrà ritirato a condizione dieci volte più strozzinesche di quelle che corrispondevano al caso di pagamento per contanti, e a quello successivo dell’accensione di un regolare conto a debito del vacillante capitale europeo.
La letteratura del nascente tempo borghese inorridiva di Shyloch che convertiva il suo effetto di credito contro il nullatenente nel diritto di tagliarli dalla persona un pezzo di carne, ma oggi l’intelligente capitalismo lo tiene invece in piedi con una scatoletta di meat and vegetable».
Sin dall’immediato dopoguerra in nostro partito, sulle tracce di Marx, aveva spiegato il senso del movimento di tutto il successivo periodo storico: «La beneficenza pura, la erogazione a fondo perduto, sono l’ultima e sopraffina forma di piazzamento del capitale. Anche qui le direttive dell’Unrra secondo la dottrina Truman sono chiare: paese per paese, gli stanziamenti dipendono dal colore del governo locale o dalla sua soggezione alla politica d’oltre atlantico; nei casi dubbi si manda lo stanziamento a zero. Non è guerra, ma è sempre far leva sulla morte» ("America" in Prometeo n. 7 del 1947).
Gli "aiuti" all’Europa sono stati dunque un affare, non solo economico,
ma anche sociale, politico e militare. Ma perché gli alleati possano rastrellare
senza pericolo gli utili, la vecchia Europa deve abbandonare la tradizionale
visione nazionalista e fornire un panorama stabile e il più possibile
omogeneo: è da quel momento che gli Usa perseguono il fine dell’unità
europea, varie volte fallita, ma sempre risorta, con l’integrazione della
Germania, di cui la questione basilare è la costituzione di un esercizio
a comando supernazionale (leggi americano), ottenuto centralizzando il
comando degli eserciti nazionali e collegando tale organismo allo Stato
Maggiore dell’Alleanza Atlantica, dominato dai generali americani.
Riunione generale di Firenze - gennaio 1995
IL DECENNIO DI PREPARAZIONE DELLA SECONDA GUERRA IMPERIALISTA
La vera nostra sconfitta nella Saar
Il 16 agosto 1934 il giornale inglese “Daily Mail” riportava una intervista a Hitler nella quale, tra le altre cose, si leggeva: «Non vi sarà più guerra». E tanto meno sarà la Germania ad iniziarne una nuova poiché «più di ogni altro paese aveva riportato l’impressione profonda dei mali derivanti dalla guerra (...) I problemi della Germania non si possono risolvere con la guerra». È evidente che nessuno prestava fede a queste pretesche dichiarazioni, tanto più che erano passati appena dieci giorni dall’assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss, su chiaro progetto tedesco per accelerare l’Anschullus.
Ma a noi non interessa certo mettere in evidenza la cattiva fede di Hitler che, parlando di pace, si preparava ad affrontare la guerra. La politica "pacifista" della Germania non differiva per nulla dal "pacifismo" delle potenze democratiche Francia ed Inghilterra e nemmeno da quella della patria del "socialismo in un solo paese".
Giunto al potere, il nazismo, non fece altro che sviluppare in maniera accelerata quel programma che era già stato intrapreso dai governi della Repubblica di Weimar. A questo proposito può essere significativo quanto, nel 1942, Krupp ebbe a dire: «I principi fondamentali dell’armamento ed il disegno della torretta dei tanks erano stati elaborati nel 1926 (...), delle armi in uso nel 1939/41 le più importanti erano già pronte nel 1933». I primi passi del riarmo tedesco vennero compiuti con la massima cautela e segretezza. Per esempio fu proibito alla stampa di usare il termine "Stato Maggiore Generale"; dal 1932 non venne più pubblicata la lista degli ufficiali. Le navi da 25.000 tonnellate venivano definite "navi da 10.000 tonnellate migliorate". Vi era la massima segretezza sulla costruzione dei sommergibili. L’addestramento dei piloti veniva effettuato presso il Club della cosiddetta "Lega degli Sport Aerei". È evidente che questa segretezza era soltanto una commedia, alla quale tutti prendevano parte, Lega delle Nazioni compresa. Come era possibile non sapere che la Finlandia, l’Olanda e la Spagna costruivano sottomarini per la Repubblica di Weimar?
All’inizio del 1934 il Consiglio di Difesa del Reich approvò il piano di militarizzazione di circa 240 mila impianti destinati alla produzione bellica e alla fine dell’anno la Germania riceveva, di fatto, il riconoscimento al diritto di riarmo. Frattanto ci si avvicinava al primo scontro aperto tra Francia e Germania: un confronto diplomatico e incruento, ma pur sempre uno scontro tra imperialismi per rivendicazioni territoriali.
In base al trattato di Versailles il bacino carbonifero della Saar era stato ceduto, per 15 anni, alla Francia. Al termine di questo periodo un plebiscito popolare avrebbe dovuto decidere sul destino futuro di questo territorio: in definitiva l’alternativa era o l’annessione allo Stato francese oppure il ritorno sotto la bandiera tedesca. La Renania, occupata militarmente anch’essa per 15 anni dalle potenze vincitrici, avrebbe dovuto rimanere in perpetuo smilitarizzata.
Se l’imperialismo tedesco suonava il ritornello del riscatto germanico dai soprusi del trattato capestro di Versailles, quello francese (spalleggiato da Società delle Nazioni, socialdemocrazia e stalinismo) invocava la mobilitazione schedaiola del proletariato per «battere il fascismo». Quello che più fu tragico non era tanto il vedere i partiti nazional-comunisti schierarsi dalla parte dell’imperialismo francese, quanto il dover constatare che a questa macabra danza di traditori prendevano parte perfino i gruppi "rivoluzionari" di opposizione, che indicavano al proletariato di optare per il "male minore".
Anche in questa occasione la Frazione si distinse da tutta la nebulosa degenerata e degenerante. Riferendosi al plebiscito della Saar, Prometeo, nell’agosto 1934, scriveva: «Siamo convinti che se questo plebiscito ci sarà, Hitler otterrà un trionfo, anzi un trionfo strepitoso. Per il proletariato, del resto, la vittoria di Hitler o quella dello status quo, cioè dell’imperialismo francese, significano, l’una come l’altra, la sua sconfitta classista». La Frazione indicava, con lucida analisi, che non sarebbe stato possibile risolvere il problema della Saar con un semplice plebiscito locale, bensì doveva essere considerato come un episodio dello scontro internazionale tra gli imperialismi.
In polemica con coloro che accusavano il nostro atteggiamento di mancare di "realismo rivoluzionario", Prometeo ritornava in argomento nel numero di settembre chiarendo il perché gli operai della Saar, se davvero avessero avuto la possibilità e la forza di esprimersi, avrebbero dovuto rifiutare tutte le soluzioni previste dall’articolo 49 del trattato di Versailles. Il dato di fatto incontestabile era che il proletariato era stato battuto non nella minuscola Saar ma nel mondo intero. Che la distruzione dell’organo rivoluzionario fosse stata effettuata dalla brutalità fascista, dell’infezione democratica o del tradimento stalinista contava ben poco. «Per questo il compito dei gruppi rivoluzionari non è quello di incorporarsi in questa realtà, ma invece di mantenere la loro intransigenza di principio, di preparare gli elementi del suo intervento (...) in vista di una evoluzione degli avvenimenti che spezzi l’ambiente totalitario del capitalismo e permetta la ripresa del corso rivoluzionario (...) Del resto è stupido credere che il proletariato possa scegliere “liberamente” la “migliore” forma di dominazione. Se avesse tale facoltà perché non scegliere la via rivoluzionaria? Lungi dall’essere astratta la nostra posizione tende a non sacrificare gli interessi storici del proletariato alla contingenza immediata che, invece di portare un soccorso alle masse operaie, rappresenta una tappa della marcia del capitalismo verso la guerra. Rifiutare di scegliere una delle tre soluzioni del plebiscito del gennaio ’35 significa dunque opporvi l’affermazione che la sola soluzione del proletariato della Saar consiste nella sua lotta rivoluzionaria, significa impedire i diversivi sciovinisti, la divisione del proletariato incorporato nei due campi dell’imperialismo francese e tedesco, ma una marcia verso la costituzione di un fronte di lotta contro il capitalismo, per la difesa degli interessi immediati dei lavoratori, cammino che potrà condurre verso la lotta rivoluzionaria, che potrà contribuire a sgretolare la pressione del capitalismo nel mondo intero».
Così come la Frazione di Sinistra aveva previsto fin dall’agosto dell’anno precedente, il plebiscito della Saar (13 gennaio 1935) si concluse con una vittoria schiacciante dell’imperialismo tedesco: 477 mila voti a favore del ritorno alla Germania contro 48 mila per il mantenimento dello status quo; oltre il 90% dei voti a favore di Hitler. Non solo i cattolici, sulla cui opposizione ai nazisti il "Fronte Comune" aveva tanto contato, votarono in massa a favore della soluzione tedesca, ma lo stesso "Fronte Comune", composto da socialisti e stalinisti, raccolse 1/3 dei voti che i due partiti avevano ottenuto alle elezioni del 1932, un numero di voti inferiore agli iscritti alle organizzazioni sindacali ed «inferiore, altresì, al numero dei partecipanti al comizio che si era tenuto la domenica precedente le votazioni» (Prometeo n. 114, febbraio 1935).
Si doveva considerare questo risultato come una sconfitta proletaria? Il proletariato non fu sconfitto dai risultati plebiscitari; la sua sconfitta, al momento del torneo schedaiolo, era già avvenuta e l’autore di questa sconfitta era stato il "Fronte Comune", che invece di indirizzare le battaglie su posizioni di classe aveva aderito agli interessi imperialistici francesi. L’indirizzo che i social-stalinisti della Saar impressero alla "lotta contro il fascismo" non fu quello della salvaguardia degli interessi immediati e finali del proletariato, ma fu la riedizione di quella prassi che, in Germania, aveva portato alla vittoria Hitler: la tattica delle elezioni, dell’ammassare schede per ottenere la vittoria "morale". Nella Saar vi fu l’aggravante che non si trattava di indirizzare il torneo elettoralistico in vista di un programma di partito, ma semplicemente di mettersi al servizio dell’imperialismo francese. Gli operai, privi di un indirizzo di classe, di fronte all’alternativa di scegliersi un dominatore, optarono per gli oppressori che parlavano la loro stessa lingua.
Concludeva Prometeo: «Questa è la lezione della Sarre. La battaglia
era perduta d’avanzo, il proletariato essendo già stato sconfitto. Vittoriosi
sono, con l’imperialismo tedesco e francese, i traditori socialisti e centristi
che hanno ottenuto un nuovo successo nella loro opera di preparazione delle
condizioni politiche per la guerra di domani».
Per uno dei due fronti imperialisti
Proprio in quei giorni, infatti, alla Camera francese il relatore della Commissione della Guerra affermava che la Russia aveva offerto alla Francia il suo esercito per la difesa ed il rispetto delle clausole del trattato di Versailles.
L’attività diplomatica russa era, in quel tempo, intenta a stringere rapporti sempre più solidi con la "pacifista" Francia. Il partito comunista francese si metteva immediatamente al servizio e al soldo della patria e pubblicava un manifesto dove si affermava: «Il governo francese è sul punto di firmare un patto di reciproca assistenza franco-russo. Se dunque la Russia viene attaccata dalla Germania, la Francia dovrà portarle il soccorso delle sue forze militari. Per assicurare la vittoria della Russia sovietica, il partito operaio di Francia, lungi dallo schierarsi contro l’entrata in guerra del suo paese, deve al contrario spingervelo, perché la patria dei lavoratori si troverebbe in pericolo». Ecco dunque compiuto il primo passo per la realizzazione della Union Sacrè che farà ricongiungere i destini dei traditori stalinisti con quelli socialdemocratici sotto la bandiera della pace, dell’antifascismo, della nazione aggredita, della difesa della patria del socialismo.
Non era però sempre indispensabile formulare così nettamente la vocazione guerrafondaia e filoimperialista del centrismo traditore, bastava, il più delle volte, mobilitare il proletariato sotto la maschera ipocrita della pace e dell’antifascismo per predisporlo ad essere l’indomani mandato a scannarsi nella futura carneficina. In linea con questa posizione Azione popolare nel suo numero 21 scriveva: «Dobbiamo scatenare ovunque, una vasta corrente pacifista affinché questa volontà dei popoli si imponga e trionfi, perché vigili contro le forti correnti di guerrafondai che cercano di trascinare l’umanità in un nuovo macello; perché controlli anche quei governi che si dicono d’accordo con la politica di pace dell’Urss, perché essi possono ad ogni istante cambiare e precipitare la guerra».
Per il centrismo si trattava di mobilitare il proletariato in una crociata contro la guerra; il controllo sui governi che si dichiaravano amici della politica pacifista dell’Urss significava invece fare pressione su Laval per la firma del trattato di alleanza con la Russia. Il viaggio di Laval a Mosca se non altro servì a togliere gli ultimi veli agli imbrogli pacifisti. In quella occasione Voroscilov, mentre con Laval assisteva alla rivista delle moderne squadriglie dall’aviazione militare (tenute fino ad allora segrete anche agli occhi degli accreditati militari delle differenti potenze), dichiarò: «Quando avremo 5 mila di questi piccoli apparecchi, per non parlare degli apparecchi medi e dei più grossi, allora noi potremo essere dei pacifisti integrali». Nel comunicato congiunto franco-russo si diceva: «Stalin comprende ed approva pienamente la politica di difesa nazionale della Francia per mantenere la sua forza al livello della sua sicurezza».
L’Umanitè per giustificare la dichiarazioni del "saggio" Stalin era costretta a mille contorsioni fino a dovere confessare che «la salvezza della patria socialista comporta anche penose obbligazioni», cioè a sottoscrivere fino da allora l’adesione alla guerra di rapina che l’imperialismo si apprestava a scatenare.
La Frazione della Sinistra italiana commentava: «Allo stesso modo che
la vittoria di Hitler ha consacrato lo schiacciamento del proletariato
mondiale, il comunicato Laval-Stalin consacra il trionfo definitivo delle
competizioni inter-capitaliste, l’ineluttabilità prossima della guerra
e l’ultima tappa della degenerazione dello Stato sovietico. Così ha fine
la fase detta dello “sfruttamento” dei contrasti interimperialistici
da parte dello Stato sovietico, fase in cui la solidarietà del capitalismo
mondiale si era espressa attorno allo schiacciamento di ogni minaccia rivoluzionaria,
mentre l’Urss diveniva lo strumento più sicuro per realizzare questo obiettivo.
Al posto di una crociata universale contro la Russia, c’è stata una crociata
universale contro il proletariato mondiale di cui l’accerchiamento prima,
incorporazione dopo dello Stato proletario ne è stato un punto fondamentale.
È così e non altrimenti che bisogna interpretare il comunicato di Mosca
e le dichiarazioni di Stalin, rappresentante del centrismo» (Prometeo
n. 118, 26 maggio 1935).
Il riarmo
Se l’Urss, in nome della difesa della pace portava il coefficiente dell’esercito a 900 mila uomini e si dotava di macchine belliche moderne, era sempre in nome della pace che nell’Italia fascista si mobilitava, nella Germania veniva ripristinato il servizio militare obbligatorio e, dopo avere ricostituito la flotta aerea si annunciava il programma di riarmo della marina militare; nella Francia si portava a 2 anni la ferma, in Inghilterra e Stati Uniti si raddoppiavano il numero degli aerei da guerra, dei carri armati...
Il 10 marzo 1935 Hitler aveva dichiarato ufficialmente quello che tutti ormai sapevano, ma che fingevano di non sapere, e cioè che la Germania possedeva la sua aviazione militare. Il 16 il governo tedesco stabilì il ripristino della coscrizione obbligatoria e fu decretata la costituzione di un esercito, per il tempo di pace, composto di dodici corpi di armata e 36 divisioni. Ciò significava infrangere unilateralmente Versailles. Francia e Inghilterra protestarono, ma si limitarono alle proteste. D’altro canto, a cosa sarebbe potuto servire un esercito se non alla difesa della nazione e quindi della pace stessa?
Già nel gennaio Hitler aveva pubblicamente dichiarato che la Germania non aveva ulteriori rivendicazioni territoriali da avanzare nei confronti della Francia, rinunciando ad ogni pretesa sull’Alsazia e Lorena. Ma fu il 21 marzo che il Fuherer enunciò al Reichstag il suo programma di pace: «Il sangue versato sul continente europeo durante gli ultimi 300 anni è sproporzionato a quel che ne è derivato per ogni nazione (...) Se questi Stati avessero dedicato anche una piccola parte dei loro sacrifici a scopi più sensati, i risultati sarebbero stati certamente maggiori e più duraturi (...) La Germania ha solennemente riconosciuto e garantito le frontiere francesi (...) Abbiamo rinunciato ad ogni pretesa sull’Alsazia Lorena (...) Senza tener conto del passato, la Germania ha concluso un patto di non aggressione con la Polonia (...) La Germania non intende né desidera interferire negli affari interni dell’Austria; ma non vuole annettersi l’Austria né addivenire ad un Anchluss». Hitler si impegnò a mantenere la Renania smilitarizzata: «Il governo tedesco – proseguiva il Fuehrer – è disposto ad accettare ogni limitazione che conduca alla abolizione delle armi (...) artiglieria, navi da guerra (...) Il governo tedesco è anche disposto ad accettare una restrizione del tonnellaggio dei sottomarini o ad abolirli del tutto».
Mentre il capo del governo tedesco pronunciava queste parole, l’esercito aveva già ricevuto precise direttive perché si tenesse pronto a rioccupare la Renania smilitarizzata, in attesa dell’occasione propizia per sferrare il colpo. La motivazione venne data dalla ratifica del parlamento francese dell’accordo franco-russo e il 7 marzo 1936 l’esercito tedesco prendeva possesso della Renania. «La Germania – proclamò Hitler – non si ritiene più vincolata al trattato di Locarno. In nome del diritto elementare del suo popolo alla sicurezza delle frontiere, per la tutela della sua difesa, il governo tedesco ristabilisce da oggi l’illimitata sovranità del Reich sulla zona smilitarizzata».
Al di là delle indignazioni ufficiali e formali, la situazione evolveva nel modo migliore per la politica bellicista dei vari imperialismi. Alla Germania serviva il patto franco-russo per poter occupare militarmente la Renania; alla Francia, al Belgio, all’Inghilterra, la mossa tedesca serviva per poter procedere, senza opposizioni interne, alla realizzazione del gigantesco apparato da guerra. Con la partecipazione attiva dei partiti social-comunisti nazionali, tutte le molle del sentimento patriottico scattavano al momento e nella direzione voluta.
Prima della denuncia da parte tedesca del trattato di Locarno, alle masse lavoratrici veniva presentata come posizione proletaria l’appoggio alla politica della Società delle Nazioni, e se il proletariato si trovava ad affiancare l’imperialismo inglese e francese era da considerarsi come una coincidenza puramente casuale ed occasionale. Ora, invece, dopo la denuncia del trattato di Locarno, la situazione era divenuta più chiara, e più terribile: secondo le direttive degli stalinisti non si sarebbe più dovuto parlare di Stati fascisti guerrafondai, ma di Francia, Germania, Italia, Russia, Inghilterra e il criterio non sarebbe più la forma politica degli Stati (fascista, democratica, sovietica) ma la nazione che reclama il suo onere, che si difende dall’aggressore, la "nazione proletaria" che esige giustizia. Il capitalismo di tutti i paesi poteva essere tranquillo perché ormai tutto era pronto perché gli sfruttati benedicessero il loro massacro per mezzo della guerra.
«In questa terribile orchestrazione il proletariato resta muto, tragicamente
muto. Quelli che in Inghilterra hanno votato per Baldwin o per Attlee;
in Germania per Hitler; in Francia per De Kerillis o per Herriot, Blum
e Cachin; in Belgio per Degrelle o per Vanderwelde, non sono che resti
inanimati di quella che fu al grande armata mondiale della rivoluzione.
Nello stato di estrema decomposizione in cui si trovano, le masse non parlano
più con il loro specifico linguaggio ma con il linguaggio dei traditori
che hanno assicurato la vittoria del capitalismo quando la situazione rivoluzionaria
aveva fatto tremare il suo regime» (Bilan n. 29, aprile 1936).
Italia e Germania
Nel marzo 1938 Hitler portò a compimento l’Anchluss, progetto già elaborato e caldeggiato all’epoca della Repubblica di Weimar.
L’Italia fascista che si era autoeletta a paladino della indipendenza austriaca dovette subire il fatto compiuto, ormai impotente a contrastare il giganteggiare della potenza tedesca. Nel 1934, a seguito dell’assassinio di Dolfuss, Roma aveva mobilitato quattro divisioni per fare la «guardia al Brennero».
Nel 1935, a Stresa, Francia, Inghilterra ed Italia avevano firmato una dichiarazione in cui si diceva: «I tre governi hanno riconosciuto che la necessità di mantenere l’indipendenza e l’integrità dell’Austria continuerà ad ispirare la loro politica comune (...) Hanno confermato la decisione di consultarsi circa le misure da prendere in caso in cui l’Austria fosse minacciata». Nel 1936 venne riconfermato l’accordo italo-austro-ungherese del 1934 e nel gennaio ’38 era stata tenuta una ulteriore conferenza di questa piccola «Triplice». Il 1° novembre 1936 a Milano Mussolini dichiarava che avrebbe difeso l’indipendenza dell’Austria, consacrata dal sangue del suo amico personale, il cancelliere Dolfuss.
Dopo l’arrivo di Hitler a Vienna, Mussolini disse: «Che impegni avevamo non con l’Austria? Nessuno!». Il 12 marzo 1938, a tarda sera, nel momento in cui si stava dando l’avvio all’operazione Anchluss, il principe d’Assia comunicava telefonicamente ad Hitler l’atteggiamento ufficiale del governo italiano: «Il Duce ha accolto tutta la faccenda in modo amichevole». Per conto suo il Fuehrer rispondeva: «Vi prego di dire a Mussolini che questo non lo dimenticherà mai (...) Non mi dimenticherò mai di lui. Qualunque cosa accada. Se avesse un giorno bisogno di aiuto o se fosse in pericolo, può essere certo che gli resterò fedele».
Ma le dichiarazioni del cancelliere tedesco non tranquillizzavano per nulla il governo di Roma che aveva accolto "tutta la faccenda" in modo tutt’altro che amichevole. L’Italia non era intervenuta, non per onorare i suoi impegni inerenti alla politica dell’Asse ma, semplicemente, perché si era resa conto della sua impotenza a contrastare gli avvenimenti. Tanto più che l’Anschluss oltre a quelli di politica estera comportava gravi problemi all’interno del paese.
Alla data del 3 aprile, nel diario di Ciano si legge: «Se i tedeschi faranno gesti imprudenti in Alto Adige, l’Asse può saltare da un momento all’altro. Converrà fare cenno ai tedeschi circa l’opportunità di riassorbire i loro uomini». Continuando la lettura del diario di Ciano troviamo: «17 aprile - Proprio con i tedeschi le cose non vanno bene in Alto Adige. Gli allogeni, dopo l’Ancschluss hanno alzato troppo la testa e si intensificano manifestazioni irredentistiche che noi non possiamo più oltre tollerare (...) Ieri intanto è successo a Lesa un incidente più grave e si sono anche usate le armi da fuoco. Tutto ciò alla vigilia del viaggio del Fuehrer è grave». «18 aprile - Nuovi incidenti si sono verificati e molti elementi in nostro possesso lasciano ritenere che le autorità, magari quelle di second’ordine, siano al corrente della cosa». «20 aprile - La situazione in Alto Adige si fa sempre più sgradevole». «21 aprile - Il Duce intende rendere ermetiche la frontiere verso la Germania. Semi ermetiche quelle verso la Jugoslavia, perché crede possibile un’alleanza slavo-tedesca sulla base dei due irredentismi». «24 aprile - Col Duce abbiamo ancora lungamente parlato della questione Alto Adige».
Segue una spacconata mussoliniana: «Se pensano di spostare di un solo
metro il palo di frontiera, sappiano che ciò non avverrà senza la più
dura guerra, nella quale coalizzerò contro il germanesimo tutto il mondo».
Il governo italiano, in effetti compiva i suoi giri di valzer con le potenze
ufficialmente nemiche. Sempre Ciano, il 1° maggio scriveva: «Presentato
al Capo lo schema dell’eventuale trattato con la Germania. Lo sottoporrò
a Ribbentrop, facendogli presente che (...) abbiamo fatto un patto con
Londra, tra poco ne faremo uno con i francesi...».
Pirateria antebellica
Nel settembre 1937 Litvinov aveva apertamente accusato l’Italia di essere responsabile degli atti di pirateria compiuti nel Mediterraneo da "ignoti" sottomarini ed anche aerei. Una simile accusa, che in tempi normali avrebbe portato a gravi complicazioni internazionali, non ebbe nessun seguito. Il governo di Mosca mandava a Roma note di protesta per l’affondamento delle navi russe e Roma rispondeva che non avrebbe preso in considerazione tali note. Che Litvinov avesse pienamente ragione sulla nazionalità dei sottomarini "ignoti" è confermato ancora una volta da Ciano: «Colazione con i pirati: Il Duce ha riunito intorno a sé, a tavola, lo Stato Maggiore delle navi che fecero la pirateria contro i russi. Parla brevemente loro esaltando l’opera della Marina nella guerra di Spagna» (Diario, 13 marzo 1938).
Poco tempo dopo tra Italia e Russia sorsero dei contrasti per il pagamento, o meglio, per il non pagamento del masut che la "patria del socialismo" forniva agli aggressori fascisti. Ma che cos’è il masut? È il residuo risultante dalla distillazione della benzina e del kerosene dei petroli russi. E a cosa serviva? Veniva impiegato come carburante per i sottomarini. In definitiva la Russia forniva all’Italia l’indispensabile per poter compiere quegli atti di pirateria così aspramente condannati di fronte alla pubblica opinione mondiale.
Ma i sottomarini "pirati" non si limitavano ad impedire gli approvvigionamenti ai repubblicani spagnoli; minacciavano perfino le comunicazioni di Francia ed Inghilterra con il loro imperi coloniali. Ai primi del 1938, in seguito al bombardamento di due vapori inglesi (l’Endymion, e l’Aleira), il primo da parte di un sottomarino ed il secondo ad opera di un aereo, Eden, rispondendo ad una interrogazione dalla Camera dei Comuni, affermava senza mezzi termini che si trattava di azioni belliche condotte da parte dell’Italia. Eden affermava poi che provvedimenti erano stati presi: si sarebbero stabilite delle strade marittime e qualsiasi sottomarino o aereo sconosciuto sorpreso nella prossimità di queste strade sarebbe stato fatto oggetto di bombardamento da parte di una costituenda "polizia internazionale". Le nazioni adibite a queste azioni di polizia marittima erano l’Inghilterra, la Francia e... l’Italia. «Come è possibile – scriveva Prometeo – che un accordo sia potuto intervenire tra l’Inghilterra che dichiara apertamente che l’Italia è la responsabile degli atti di "pirateria" e questa stessa Italia “pirata”? Ma perché fra pirati c’è modo di intendersi sempre» (n. 152, febbraio 1938). E poiché fra pirati c’è sempre modo di intendersi, in quei giorni veniva stipulato l’accordo Chamberlain-Mussolini e messo in gestazione un accordo franco-italiano.
La democratica Inghilterra per dare prova di buona volontà nei confronti
dell’Italia, fascista e pirata, proponeva alla discussione della Società
delle Nazioni il punto: «Conseguenze derivanti dall’attuale situazione
in Etiopia». Non era altro che un riconoscimento de facto dell’impero
italiano. Del resto numerosi Stati, di cui cinque membri del Consiglio
della Lega delle Nazioni, avevano già dato il loro riconoscimento. Tra
questi vi era di democraticissimo Belgio e la democratica Cecoslovacchia
che si trovava sotto la minaccia di assorbimento da parte della Germania.
La decisione della Società delle Nazioni fu di lasciare liberi i suoi
membri di riconoscere l’impero italiano.
Da l’Anschluss a Monaco
Intanto, il 10 aprile 1938, c’era stato il plebiscito per sanzionare l’Anschluss e le elezioni al Reich per la Grande Germania: «Approvi tu il ritorno della Austria al Reich tedesco e voti tu la lista del nostro Fuehrer Hitler?». Questa era stata la formula. Unica scheda, unico voto. Solo 10 mila su quattro milioni e mezzo di austriaci e 500 mila su 48 milioni di tedeschi si espressero contro l’Anschluss. Esattamente come aveva previsto la nostra Frazione quando aveva scritto: «Possiamo prevedere il risultato: 98 o 100% dei votanti risponderanno SI ed i guardiani della legalità saranno soddisfatti» (Octobre n. 3, aprile 1938).
Dopo il crollo dell’Austria era lo Stato democratico di Cecoslovacchia la prossima vittima designata della Germania. «Che oggi la regione danubiana – si legge su “Prometeo” – rappresenti uno dei punti più deboli della stabilità, o meglio instabilità, internazionale è ovvio. Ma ciò non tanto per le mene del “blocco degli aggressori” dei paesi “fascisti”, quanto conseguenza di quella pace di rapina imposta dai vincitori della guerra 1914/18, che sono proprio i paesi “democratici”. Mentre i trattati di Saint-Germain del 1919, del Triamon del 1920 – sanzionanti lo smembramento dell’impero asburgico – degradavano Austria e Ungheria a livello di Stati “residui” incapaci di vita autonoma, si creava una Ceco-Slovacchia che su 14 milioni di abitanti comprendeva 3 e 1/2 milioni di tedeschi e 700 mila ungheresi ed attribuiva alla Rumenia 1 milione e mezzo di ungheresi, 800 mila ucraini, 700 mila tedeschi. È fuori dubbio che la realizzazione della “Grande Germania” – di cui l’annessione dell’Austria rappresenterebbe la prima tappa – deve urtarsi con la Cecoslovacchia. Non solo per il fatto dei 3 milioni e mezzo di tedeschi dei Sudeti, ma anche per ragioni strategiche. La Ceco-Slovacchia rappresenta un formidabile bastione avanzato in territorio tedesco – lo storico quadrilatero boemo» (n. 153, 14 aprile 1938). Oltre a ciò vi era anche un altro motivo di principale importanza: in base ai trattati di pace sopra citati la Cecoslovacchia aveva beneficiato della quasi totalità delle risorse economiche dell’Austria degli Asburgo: l’85% delle miniere di carbone; i 2/3 della produzione di ferro ed acciaio; il 60% di quella meccanica; il 75% dell’industria tessile e praticamente il 100% dell’industria zuccheriera.
Di fronte a questa nuova minaccia tedesca, il primo atto del nuovo governo francese di Fronte Popolare, edizione Blum-Boncour, fu quello di confermare gli impegni presi nei confronti della Cecoslovacchia, anche a costo, si disse, di una guerra. L’Urss si affrettò a tenere bordone alla Francia dichiarandosi pronta anch’essa all’intervento militare. La Pravda scrisse: «Per avere l’egemonia del Sud-Est europeo il fascismo tedesco ha conquistato l’Austria. Per lo stesso scopo prepara l’aggressione alla Cecoslovacchia. La repubblica cecoslovacca si presenta come la prima linea della difesa della Democrazia [la D maiuscola era della Pravda] contro l’aggressione fascista».
In quanto alla natura democratica della Cecoslovacchia basti ricordare la legge del 1933 che prevedeva l’interdizione, per semplice decreto, di qualsiasi organizzazione considerata ostile allo Stato, l’annullamento delle elezioni e la istituzione di campi di concentramento per i "delinquenti" politici. Era la messa in opera della formula coniata da Masarik: «difendere la Democrazia attraverso la Dittatura».
Sulla crisi cecoslovacca fu invece l’Inghilterra a parlare chiaro e, lasciando da parte ogni tipo di retorica, affermò che nell’interesse della conservazione borghese il massimo imperialismo mondiale era disposto ad avallare ogni tipo di fatto compiuto pur di ritardare il generalizzarsi della guerra imperialistica in atto. Hitler aveva l’assicurazione inglese che da oltre Manica non si sarebbe messa in pericolo la pace mondiale per correre a salvare la Cecoslovacchia dalla rovina. Questa tesi pacifista venne accettata anche dalla Francia.
Però, per dimostrare di non essere disposti ad accettare passivamente le iniziative tedesche, gli inglesi invitarono il governo italiano a proporsi come mediatore fra la Germania e le potenze alleate della Cecoslovacchia. Si ebbe quindi la storica Conferenza di Monaco (del 29-30 settembre 1938) nella quale, secondo la storiografia accreditata, Mussolini fece sfoggio della sua saggezza e diplomazia riuscendo a conciliare le posizioni dei due campi avversi: il democratico ed il fascista. In realtà il progetto che Mussolini espose a Monaco era stato redatto nella notte precedente al Ministero degli Esteri a Berlino, tradotto frettolosamente in francese, consegnato all’ambasciatore italiano Attolico, il quale ne telefonò il resto a Roma poco prima che Mussolini prendesse il treno per Berlino. Hitler andò incontro a Mussolini per compiere un tratto di strada assieme e fare ripassare la lezioncina al "Grande Mediatore". Scriveva Ciano: «A Kufstein [al confine austro-tedesco] incontro col Fuehrer. Saliamo nel suo vagone ove, spiegate su un tavolo, sono tutte le carte geografiche (...) Egli illustra la situazione» (Diario, 29-30 settembre 1938).
Alla conferenza, con le relative delegazioni, oltre ad Hitler e Mussolini, partecipavano Daladier, per la Francia, e Chamberlain per l’Inghilterra. Secondo i verbali tedeschi Daladier «accolse favorevolmente le proposte del “Duce”, informate ad uno spirito oggettivo e realistico». Anche Chamberlain «si dimostrò ben disposto nei confronti delle proposte del “duce” dichiarando che lui pure aveva concepito la soluzione del problema proprio nei termini di tali proposte».
Un altro aspetto "democratico" della Conferenza di Monaco fu quello di non voler fare apparire che le decisioni venissero prese al di fuori e all’insaputa della Cecoslovacchia. Fu quindi deciso che i rappresentanti di Praga, pur non partecipando ai lavori, fossero tenuti "a disposizione". Furono chiusi in una stanza vicina in attesa di essere informati della sorte toccata al loro paese. Masarik scrisse nel suo rapporto: «All’una e mezzo di notte fummo introdotti nella sala in cui aveva avuto luogo la conferenza (...) Mr. Chamberlain sbadigliava di continuo, senza sforzarsi nemmeno di nascondere gli sbadigli. Chiesi a Deladier (...) se dal nostro governo si aspettavano una dichiarazione o una risposta all’accordo (...) M. Leger rispose (...) con indifferente superficialità che da noi non si richiedeva risposta alcuna, che essi consideravano come già accettato il piano». Ai Cechi venne consegnata una carta della zona dei Sudeti che immediatamente, da quel giorno stesso, doveva essere sgomberata e lasciata a disposizione della Germania. Ciano racconta che, firmato il patto, Francois Poncet avrebbe commentato: «Voilà comme la France traite les seuls alliés qui lui étainent restés fideles!».
Il 14 marzo successivo, per ordine della Germania, la Slovacchia si dichiarò indipendente e si mise sotto la protezione del Reich. A Monaco, Inghilterra e Francia avevano solennemente assicurato che si sarebbero fatti garanti delle incolumità delle nuove frontiere cecoslovacche. Ma, poiché la Cecoslovacchia non esisteva più, anche il patto fu considerato decaduto.
Il giorno stesso il presidente ceco Hacha si recò a Berlino nel tentativo di salvare il salvabile. «Il protocollo tedesco fu ineccepibile. Al presidente ceco furono resi tutti gli oneri formali dovuti a un capo di uno Stato. Alla stazione lo accolse una guardia d’onore dell’esercito e lo stesso ministro degli esteri salutò il distinto ospite porgendo alla figlia di Hacha un bel mazzo di fiori. Nell’elegante Hotel Adler, dove al gruppo dei cechi fu assegnato il migliore appartamento, alla figlia di Hacha furono offerte scatole di cioccolatini, dono personale di Hitler» (W. L. Schirer, Storia del Terzo Reich). In quel momento le truppe tedesche erano già penetrate all’interno del territorio ceco. Alle 4 del mattino del 15 marzo 1939 il vecchio Hacha, in seguito a pressioni fisiche e minacce, si decise a firmare il documento nel quale si diceva: «Il presidente della Cecoslovacchia (...) ha fiduciosamente riposto il destino del paese e del suo popolo nelle mani del Fuehrer del Reich tedesco. Il Fuehrer [ha espresso] la sua intenzione di mettere il popolo ceco sotto la protezione del Reich tedesco».
Se la mossa di Hitler lasciò indifferenti Francia ed Inghilterra che, come abbiamo detto, si sentirono sciolte dagli impegni di Monaco, al contrario, questa mossa innervosì e preoccupò non poco il fedele alleato Mussolini. Non tanto perché l’Italia ancora una volta era stata tenuta completamente all’oscuro della faccenda fino alla realizzazione del fatto, ma perché, ancora una volta, i tedeschi dell’Alto Adige ripresero a manifestare sentimenti separatisti e, più che altro, si temeva una penetrazione germanica in Croazia. Il 17 marzo, riferendosi a Mussolini, Ciano scriveva: «Lo preoccupa il problema croato: teme che Macek proclami l’indipendenza e si metta sotto la protezione tedesca: “in tal caso non ci sono alternative – egli dice – tranne queste: o sparare i primo colpo di fucile contro la Germania o essere spazzati da una rivoluzione che faranno gli stessi fascisti: nessuno tollererebbe di vedere la croce uncinata in Adriatico"». Infatti non solo Balbo accusava il duce di «lustrare le scarpe alla Germania», ma in Italia arrivavano voci ufficiali che, a Monaco, Mussolini veniva chiamato il «Gauleiter per l’Italia».
Il governo fascista, che temeva di dovere arrivare ad uno scontro, forse anche armato, con la Germania, si ripropose di distanziarsi dalla politica dell’Asse e rendere più solidi i legami, mai interrotti, con Francia ed Inghilterra. Ma a respingere l’Italia fra le braccia della Germania furono proprio le potenze imperialistiche vincitrici. Il 21 marzo Ciano annotava: «Le potenze occidentali hanno perso molti punti oggi e li ha segnati la Germania. La notizia dei tentativi di costituire un blocco “democratico” ha irritato il Duce in senso germanofilo. La denominazione stessa identifica le nostre sorti con quelle della Germania».
L’Italia, minacciata della dilagante Germania e respinta da Francia ed Inghilterra, aveva necessità di dimostrare, più che altro alla sua borghesia sconcertata, di non essere una potenza di seconda classe. Immediatamente mise in atto, in aprile, senza la minima preparazione, il piano di invasione dell’Albania. Ma solo la fuga precipitosa di re Zog e la fragilissima situazione interna albanese permisero agli italiani di emulare, apparentemente, la Germania. Il 4 aprile Ciano annotava: «A Bologna un battaglione di bersaglieri mobilitato per l’Albania andava cantando, “vogliamo la pace e non la guerra”. E gli ufficiali presenti non sono intervenuti».
A parte il sentimento dei proletari in divisa che è sempre avverso
alla guerra imperialista, era proprio l’organizzazione militare italiana
ad essere tragica. Alla data del 29 aprile Ciano scrive: «Alcune impressioni
riportate in occasione della mobilitazione dell’impresa albanese – piccola
mobilitazione, del resto – hanno accentuato il mio scetticismo. Si fa
una inflazione di nomi. Si moltiplica in numero delle divisioni, ma in
realtà queste sono così esigue da avere poco più della forza di un reggimento.
I magazzini sono sprovvisti. Le artiglierie sono vecchie. Le armi antiaeree
ed anticarro mancano del tutto. Si è fatto molto bluff, nel settore militare,
e si è ingannato lo stesso Duce, ma è un tragico bluff. Non parliamo
dell’aviazione. Valle denuncia 3.005 apparecchi efficienti, mentre i servizi
informazione della marina dicono che questi sono soltanto 982. Un bello
scarto!»
La guerra non interrompe la solidarietà capitalistica
Dal punto di vista apparente e "legale" il mondo era ancora in pace. In Cina la penetrazione giapponese procedeva con regolarità inesorabile ed anche senza voler prendere sul serio i fantasiosi comunicati giapponesi (che parlavano di centinaia di aerei abbattuti, carri armati catturati, ecc...) ormai da più di due anni gli scontri sanguinosi, specialmente sul fronte mongolo-manciù, erano all’ordine del giorno. Ma di guerra non si poteva parlare perché non vi era stata dichiarazione.
Passando dall’Asia all’Europa, la guerra di Spagna, dove gli imperialismi si erano scontrati sotto la maschera della guerra civile e del conflitto fra democrazia e fascismo, nel 1939 cessò. In Europa, quindi, non si sparava più, ma era evidente che la guerra europea era, al contrario, in pieno svolgimento. Si trattava per ora di una guerra "bianca", di una guerra senza battaglie!. Era attraverso questa guerra senza battaglie che Hitler aveva potuto impadronirsi dell’Austria, della Cecoslovacchia, di Memel, mentre l’Italia doveva accontentarsi dell’Albania.
La dimostrazione della guerra già in atto erano:
1) la febbrile attività diplomatica delle due costellazioni
imperialistiche (da una parte i paesi fascisti, dall’altra i democratici)
che cercavano di attirare nella loro orbita gli Stati satelliti necessari
da un punto di vista economico e strategico;
2) la corsa agli armamenti che in quei mesi assumeva proporzioni
inaudite, corsa nella quale i paesi democratici avevano già riguadagnato
lo scarto esistente prima di Monaco;
3) la Union Sacrèe, ovunque realizzata, attraverso
l’adesione del proletariato all’economia di guerra.
Nella attività diplomatica internazionale era l’Inghilterra che, grazie alla sua potenza finanziaria, conduceva le danze, come, del resto, aveva fatto sempre. Ma certo non si cullava sugli allori ed ora che aveva perduto parte della sua invulnerabilità insulare, si sforzava di pareggiarla con l’istituzione della coscrizione obbligatoria e con una produzione mensile di un minimo di mille aerei.
Riproduciamo ora, qui di seguito e quasi per intero, il punto sulla situazione fatto dalla Sinistra alla data del 20 luglio 1939 ed apparso su Octobre del mese successivo
«Ecco come può disporsi la carta delle alleanze europee:Il 22 maggio era stato firmato il "Patto d’Acciaio" tra l’Italia e Germania. Il 23 agosto venne concluso il patto Molotov-Ribbentrop. Il 19 settembre le truppe tedesche vercarono il confine polacco. Il 3 settembre Francia ed Inghilterra dichiararono guerra alla Germania. Tra il 16 e il 17 settembre l’esercito russo cominciò al sua penetrazione in Polonia.
«1) L’Asse Berlino-Roma che può contare sull’appoggio: della Jugoslavia, la quale pur essendo membro dell’Intesa balcanica ha sottoscritto, nel marzo 1937 un accordo politico con l’Italia; della Slovacchia, sotto protettorato tedesco dal marzo 1939; della Ungheria che ha aderito al "Patto anti-Komintern" ed è uscita dalla S.d.N. nell’aprile 1939; ed infine, della Spagna di Franco che, anch’essa, ha aderito al "Patto anti-Komintern" nel marzo 1939 ed ha abbandonato la S.d.N. nel mese di maggio successivo.
«2) Dalla parte dei paesi “democratici”, dei trattati bilaterali garantiscono loro l’appoggio: della Polonia (legata alla Francia di un accordo politico dal marzo 1921 e dall’accordo bilaterale con la Gran Bretagna in aprile 1939 che ha annullato il trattato di non aggressione concluso con il Reich); della Turchia, con l’accordo firmato poco tempo fa. Inoltre la Grecia e la Turchia sono garantite “unilateralmente” dai paesi “democratici”.
«3) Infine vengono i paesi “neutrali”: Belgio, Svizzera, Olanda, Paesi Scandinavi e Baltici, Bulgaria e Portogallo. Ma la Lituania, nel marzo 1939, dopo la cessione di Memel alla Germania, ha firmato con quest’ultima un trattato di non aggressione. La Danimarca ha fatto, nel maggio, la stessa cosa; l’Estonia e la Lettonia, nel giugno. Per quando riguarda la Bulgaria che, nel 1934, aveva rifiutato di aderire all’Intesa balcanica a causa delle sue mire revisionistiche e che si era recentemente riavvicinata a questa stessa “intesa” con un patto di non aggressione (luglio 1938), essa sembra oggi orientarsi verso la Germania. Il Portogallo, a governo di forma fascista, per quanto sia vassallo dell’impero britannico, ha appoggiato con tutti i suoi mezzi la rivolta di Franco.
«4) Resta infine l’Urss sulla quale torneremo più avanti.
«È evidente che questo breve sommario delle probabili alleanze europee non ha che un valore relativo in un’epoca in cui i trattati perdono il loro valore appena l’inchiostro si asciuga e dove gli impegni più solenni si spengono nel tempo stesso in cui vengono pronunciati. Qualcuno potrebbe dire che questa instabilità è garanzia di pace, poiché nessuno è sicuro dei suoi momentanei alleati. È così che vediamo la Germania imporre alla sua “alleata” Italia un patto senza possibili scappatoie, come era stato nella vecchia Triplice, e per il quale l’entrata in guerra è immediata e automatica. Essa inoltre prende le sue garanzie mettendo le mani su tutte le leve dei comandi economici e militari italiani. Così come l’Italia “del passato” gettava sui campi internazionali del lavoro la più povera, la meno retribuita, il sudore della sua eccedenza demografica... mentre ora è il sangue di questa stessa eccedenza che l’Italia di Mussolini utilizza come carne da cannone!...
«Il mondo è in perpetuo stato di allerta; oggi: allentamento, domani: tensione. Ciò fa il gioco dell’imperialismo, sia esso fascista o democratico e facilita l’instaurazione di una situazione di guerra che permette, all’interno, di domare tutta la possibile reazione. È un fatto che oggi la situazione sia tanto grave come lo fu nel settembre 1938; solo che l’emozione provocata dalle giornate di Monaco si è assottigliata e ciò perché ci si abitua a tutto, anche allo spettro della guerra. In più, il fatto che nel settembre 1938 il capitalismo mondiale fece ricorso ad un compromesso piuttosto che fare appello alle armi, può fare ammettere la tesi che anche nella tensione attuale una soluzione magari provvisoria finirà per essere trovata in una seconda Monaco... Ciò che d’altronde sembra confermarsi nel fatto che, malgrado le parole forti, Hitler ha potuto militarizzare Danzica e la Polonia sia stata consigliata a non protestare ufficialmente contro questa violazione dello status di “Città Libera” (...)
«Restano infine le trattative che la Russia che si tengono a livello internazionale. Certo, i conservatori inglesi sono molto riservati su questo "patto contro l’aggressore" con l’Urss, anche se accompagnato all’interno da uno "sbarramento" contro ogni agitazione sociale. È infatti sintomatico che questo riavvicinamento anglo-russo abbia come contropartita uno sviluppo sedicente anticomunista ma, in realtà, antioperaio. La Russia, in cambio dei propri impegni che, a causa della sua posizione, sono i più pesanti, chiede all’Inghilterra di inglobare nelle sue garanzie anche i paesi baltici. Altrimenti alla Germania rimarrebbero la mani libere verso l’Est. In ogni caso, se la guerra dovesse scoppiare, l’accordo anglo-franco-russo sarebbe concluso soprattuto perché da quest’ultimo dipende anche l’accordo anglo-franco-turco che la Gran Bretagna ha acquistato a suon di sterline e la Francia ha pagato che la cessione di Alessandretta. A meno che... Gli stabilimenti Skoda hanno ripreso le loro forniture di armi all’Urss ed una delegazione “commerciale” germano-italiana è in viaggio per Mosca!...
«Il crollo dei regimi fascisti a seguito di una crisi economica è stato sempre il cavallo di battaglia dell’"antifascismo". Ora, soprattuto in questo campo, noi vediamo manifestarsi, in tutta la sua ampiezza, la “solidarietà” capitalista. La Gran Bretagna consegna alla Germania l’oro ceco depositato nella banca d’Inghilterra (10 milioni di sterline) e la Francia dà a Franco i due miliardi che gli erano stati affidati dal governo repubblicano. In Estremo Oriente dove la situazione si è aggravata (...) sono gli Stati Uniti e l’Inghilterra che forniscono al Giappone i mezzi per condurre la sua politica di aggressione. L’Inghilterra, che dei suoi 250 milioni di sterline investite in Cina ne ha già perduti 80, si occupa della rimessa in banche giapponesi, e non in altre, dei ricavati di dogana nei porti occupati dal Giappone... La Francia si accontenta di firmare dei trattati commerciali con questo stesso Giappone.
«È un fatto scontato che il Giappone debba procurarsi all’estero la maggior parte delle materie prime necessarie alla continuazione della guerra e che soltanto i paesi “democratici ” sono in grado di fornirgliele.
«Se la pigrizia mentale impedisce al pubblico di comprendere questa semplicissima cosa, la stampa si incarica di portare alla sua conoscenza che gli Stati Uniti hanno fornito al Giappone il 57%; l’Impero Britannico il 20,5%; i Paesi Bassi l’8,5% di queste materie prime; ossia per un totale, da parte di questi tre paesi “democratici”, dell’86%!
«Quando si leggono i giornali, si ascoltano le dichiarazioni, si ha sempre l’impressione di essere alla vigilia di una presa delle armi... Quando si vedono i diversi imperialismi armati fino ai denti e alle prese con l’unica economia di guerra, che non può lavorare a vuoto all’infinito, e quando, d’altra parte, si constata questa commovente solidarietà imperialistica, ci sarebbe da restare sbalorditi se non avessimo chiaro che democrazia e fascismo hanno un nemico comune – e unico – il proletariato che ritrovi la sua strada di classe. Per impedire questo risveglio della coscienza di classe del proletariato internazionale, il capitalismo mondiale ha come principale [alleata] la Russia centrista. Questi nuovi traditori che, uniti a quelli del 1914 hanno permesso alla borghesia di costruire l’economia di una guerra mondiale, proprio come in Francia, permetteranno al capitalismo di realizzare una seconda economia: quella di togliere con la violenza la concessione che nel 1935/36, esso aveva dovuto fare al proletariato per legarlo all’economia di guerra» (October n. 5, agosto 1939).
La fase di "guerra senza battaglie" era terminata per lasciare il passo
a quella combattuta. Per il proletariato mondiale, battuto dal fronte del
suo nemico di classe (fascista-democratico) e tradito da quella Internazionale
che già era stata di Lenin, si prospettavano sei lunghi anni di martirio.
Lo spettro di Noske domina la gloriosa resistenza del proletariato austriaco
L’epica lotta - Nell’interesse
del proletariato mondiale ("Prometeo", 4 marzo 1934)