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Ci corre l’obbligo, aprendo questo numero della Rivista, piuttosto che presentare come al solito gli argomenti in sommario, spendere qualche riga per «chiudere» l’esposizione del quotidiano lavoro del Partito, come è presentata alle sue periodiche Riunioni Generali, con qualche nota che ci suggerisce il grande evento del fine anno; una nota artistica di colore nel perturbato campo dell’economia, carta moneta non ancora concretizzata in segno di valore di scambio, ma quasi pronta alla bisogna, forma già definita, almeno nei disegni, delle Autorità monetarie dell’unificanda Europa.
Ecco dunque che questa Rivista, la quarantunesima della serie, con la sua struttura di sempre, ben conosciuta da compagni e lettori che la seguono, va in macchina nel suo solito e laborioso silenzio, mentre «all’esterno» squillano a tutta voce le fanfare della stampa e della televisione. L’immagine della futura «moneta europea» è ormai sotto gli occhi dello spettabile pubblico; da argomento controverso, da meta di arduo raggiungimento, capace di suscitare discussioni feroci, appassionati peana e dubbi amletici tra gli addetti ai lavori, è diventata oggetto di spettacolo, giustificazione pubblicitaria degli ennesimi, duri sacrifici che si prospettano per la piccola borghesia sempre più compressa e proletari senza più certezza di lavoro, se mai una ne avessero avuta.
Ne prendiamo atto, e più la grancassa del rispetto dei «parametri» di Maastricht suona forte, e ammonitrice per quanti credono alla loro necessità, più ci confermiamo nelle nostre convinzioni sulle sorti del capitalismo. Diamo all’evento il peso che oggettivamente merita; le forme, le coloriture fallaci del mondo borghese e del suo marketing non ci hanno mai turbato, né ingannato; perciò, sotto queste nuove immagini, il cui materiale raggiungimento dovrebbe portare una nuova era di sviluppo, benessere e buoni affari per i soci della costituenda associazione, leggiamo il fatto emblematico di un episodio della lotta tra Stati borghesi, la volontà di superare i limiti ormai angusti dei confini nazionali per presentarsi almeno con un fronte unito contro il capitalismo politicamente, militarmente e produttivamente più forte, per mantenere le proprie quote su mercati sempre più ingolfati di merci, e d’altra parte assicurarsene più ampie sui nuovi all’estremo est.
In questa fase della crisi che travaglia l’intero orbe capitalistico, l’epicentro, il punto focale pare di nuovo localizzarsi sulla vecchia Europa, passato in secondo ordine ma non scomparso lo scontro imperialistico che la smembrata URSS, e ancora confuso e non precipitato verso un esito definito quello con il gigante giapponese. E mai come in questi momenti di accumulo di energia potenziale, le componenti politiche, militari, economiche che si individuano nella trama degli eventi, appaiono concorrere, tutte, al medesimo esito.
Non pretendono queste righe un’analisi precisa dei complessi fenomeni descritti; valga a dar forza alle parole qualche esempio del sanguinoso oggi.
Le immani tragedie delle guerre «alle porte di casa» mascherate dalla sovrastruttura dei nazionalismi, fomentate in realtà dai capitalismi più aggressivi, si correlano alla crisi che la NATO, organizzazione militare a totale egemonia USA, sta subendo; e non perché sia scomparso il tradizionale avversario d’oltrecortina, ma perché stanno mutando i rapporti di forza tra «alleati» europei e padrone d’oltre oceano. Parimenti, fatti oggettivamente secondari ed in altri momenti assolutamente trascurabili – valga per tutti l’elezione recentissima dell’imbelle segretario delle Nazioni Unite – portano alla luce le tensioni politiche tra gli Stati. Dello stesso segno la volontà di intervenire comunque, anche da parte di Stati tradizionalmente alieni da simili avventure, a tutte le missioni «pacificatrici» compiute nelle aree di frizioni del mondo, un tempo appannaggio esclusivo della sola forza militare americana, che si caricava di ogni onere logistico, organizzativo e di comando.
Le flotte a giro per i mari e le basi militari disseminate in tutto il mondo, in primis nell’Europa cosiddetta libera, non si giustificano più come strumenti di difesa dalla pressione del «comunismo», ma rivelano il loro scopo di presenza militare sugli ambiti territoriali alleati a fine di controllo «locale»: funzione che molti Stati europei ed asiatici cominciano a trovare non più tollerabile.
Questa è la dinamica materiale che da marxisti leggiamo nel tormentatissimo processo – i cui esiti, per altro, sono ancora da decidere – della tentata unificazione economica degli Stati europei, che innalza quel simulacro di cartamoneta a mo’ di bandiera (e mai simbolo fu capitalisticamente scelto meglio!), nel fantasioso tentativo, magari, di trovare prima o poi anche l’unificazione politica, Obbiettivo questo, che comunque conosciamo assolutamente irrealizzabile.
Gli aspetti, ameni se non fossero tragici per gli effetti che stanno avendo sulle sorti dei proletari, del tira e molla tra Francia e Germania, ora definitivamente riunita, per l’effettivo controllo ed egemonia sulla nuova struttura economica sovranazionale, ed il risibile arrancare dell’Italia, pure uno degli Stati fondatori della Comunità europea, non deporrebbe certo per una conclusione felice di questo processo; nella guerra politico-commerciale con il maxi predone americano, gli Stati d’Europa con il loro codazzo di satelliti, combattono un’altra guerricola sorda e astiosa tra loro, anch’essa di incerte vicende. Nell’ansia di fortificarsi, ciascuno contro l’altro e tutti contro il principale avversario, erigono barriere normative ferree – salvo a proporne o discuterne ogni tanto qualche indebolimento – e a misurare col bilancino degli indicatori economici chi sia degno «di stare dentro» e chi no; talvolta giungendo allo sconvolgente risultato che neppure le economie più forti potrebbero riuscire a stare negli intervalli delle norme!
Ma l’apparato di divieti e parametri obbligati ha ovviamente anche uno scopo «interno», costringere cioè le disorganizzate classi operaie nazionali a piegarsi totalmente agli interessi dell’economia, dando una giustificazione «teorica» e sovranazionale alle più spietate manovre di contenimento di salari e spesa pubblica, insieme ad un forsennato aumento dei carichi di lavoro per quei «fortunati» che rimarranno alla produzione: e lo sforzo di tutti i governi europei, in primis quello della disgraziatissima e dissestata Italietta a guida «di sinistra»(!) è teso a questo scopo. Anche se questo significa, per lo strutture economiche più colpite dalla crisi strisciante, un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro che per la prima volta arriva a colpire direttamente il grande serbatoio di «consenso» sociale rappresentato dalla piccola borghesia, che rischia di essere lentamente ricacciata nelle file dei senza riserve.
La partita si viene quindi a giocare, oltre che sul tavolo della politica estera, anche su quello, altrettanto delicato, della politica interna, col rischio di indebolire la cerniera fondamentale del consenso di classe, realizzata col tramite dell’ideologia nazionalistica e del bene comune e veicolata nel seno del proletariato da partiti «di sinistra», interpreti dell’ideologia borghese. Partiti di governo e di opposizione, sindacati, stampa d’ogni tendenza e televisione sono tutti mobilitati per questo santo scopo, per evitare il minaccioso e nefasto evento; ma d’ogni lato, la dinamica economica interna e quella politico-economica esterna spingono in questa direzione. A paradigma della cosa si può portare ad esempio il caso italiano, quello che per specifiche ragioni è più eclatante e ci è più vicino, ma questo fenomeno è generalizzato per gli Stati europei. La stessa poderosissima Germania, uno dei poli dell’unificazione, soffre, nelle componenti più deboli dopo l’unificazione, la parte est, degli stessi problemi sociali ed economici.
Nei sommovimenti che agitano il mondo capitalistico, si chiude allora
il secolo con la dura questione: quali saranno i prossimi fronti su cui
gli Stati imperialistici si schiereranno per il controllo e lo sfruttamento
dei mercati mondiali, ed i conseguenti futuri schieramenti di guerra. Ove
la guerra di classe non soccorra.
(continua)
- Il "dissidio interiore"
e la responsabilità dell’azione
- Adesione personale
alla milizia nel partito comunista
- Il nostro Comandamento
- Salute e Degenerazione
- Il "Corpo Mistico"
del partito di classe
- Comunismo sentimento
primario
- "Realismo metafisico"
- L’Essere... è
- Forme della mistica
buddista
Riunione generale a Genova, maggio 1966
IL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO AL 1914
Con la fine del primo decennio del secolo il Partito Socialista Italiano comincia a sottrarsi all’egemonia dei riformisti. Bissolati, della destra arriva a parlare di difesa della patria in caso di aggressione straniera, anche se la maggioranza dei riformisti non lo segue su quella strada. È interessante la dichiarazione di Turati al congresso di Milano del 1910 contro il «bloccardismo», giustificato solo in caso di offensiva della reazione. Questo ci dice che le politiche di alleanze elettorali con i partiti borghesi erano sempre meno tollerate nel partito, anche da settori riformisti, e ci dice che la politica del blocco antifascista degli anni trenta è figlia legittima del riformismo.
I rivoluzionari sostennero con vigore, anche se non sempre con chiarezza teorica, le proprie posizioni. L’allora compagno Mussolini condannò giustamente la tregua tra socialisti e repubblicani in Romagna, là dove c’era una aspra lotta di classe tra i braccianti socialisti e i mezzadri repubblicani. Disse inoltre che il suffragio universale tanto osannato non portava di per sé al socialismo né vi portava la legislazione sociale, e che se il proletariato italiano non avesse vantato più alcun deputato in parlamento non ne avrebbe ricavato gran danno.
Disse inoltre: «l’affare della patria, questo vecchio cliché della patria in pericolo, è il cliché ideologico di tutte le democrazie borghesi, col quale da 30 anni a questa parte si pompa il sangue della miseria del proletariato». Se col senno di poi può far sorridere il fatto che tali parole uscissero da tale bocca, noi comunisti che ai grandi nomi non diamo eccessiva importanza nel bene come nel male, non abbiamo alcuna difficoltà ad ammettere che il suddetto in quegli anni era tra i migliori esponenti della sinistra rivoluzionaria insieme a Lazzari e Serrati.
Nel 1911 usciva il settimanale «La Soffitta», diretto da Lerda e Lazzari, che insieme all’«Avanguardia», organo della federazione giovanile diretto da Vella, era il portavoce delle posizioni di classe, dato che «L’Avanti» era sempre in mano ai riformisti.
La guerra di Libia del 1911 fu osteggiata anche dai riformisti, che al congresso del partito tenutosi a Modena nello stesso anno ne rimasero alla direzione, ma l’ordine del giorno Lerda per gli intransigenti ottenne circa il 40% dei voti, mentre la federazione di Forlì non era presente dato che Mussolini ne aveva proclamata l’autonomia pochi mesi prima. I rivoluzionari forlivesi in questo caso si erano avvalsi di un’arma teorica propria dei riformisti e dei sindacalisti rivoluzionari, e cioè quella dell’autonomia del partito.
Al congresso di Reggio Emilia del 1912 i rivoluzionari prendono in mano il partito, guidati da Mussolini che nel frattempo vi era rientrato assieme alla federazione di Forlì. Questi dopo aver giustamente attaccato l’autonomia del gruppo parlamentare chiede ed ottiene a nome della frazione rivoluzionaria l’espulsione degli ultra-riformisti Bonomi, Bissolati, Cabrini e Podrecca, espulsione accettata anche se malvolentieri dai riformisti di Turati e Modigliani. Possiamo ipotizzare che un uso maggiore del bisturi nel partito, con l’esclusione della totalità dei riformisti, avrebbe potuto anticipare al 1912 ciò che avverrà nel 1921, ma lasciando perdere i se, che poco servono, dobbiamo riconoscere nel congresso di Reggio Emilia uno dei momenti fondamentali nella costruzione del partito di classe. In questo congresso la direzione del partito venne composta tutta di rivoluzionari e venne eletto segretario Lazzari, ed alla fine di quell’anno Mussolini venne chiamato alla direzione dell’«Avanti».
Egli disse anche a Reggio Emilia, «il partito non è una vetrina per gli uomini illustri!». Siamo perfettamente d’accordo, ma non possiamo fare a meno di notare che la coerenza teorica e la memoria non sono certo il forte dei nostri avversari.
Con la nuova direzione dell’«Avanti», composta tutta da rivoluzionari e quindi con l’estromissione dei riformisti, ci aspetteremmo di vedere nel giornale il vero organo del partito di classe, invece ci troviamo di fronte ad una tribuna aperta all’esterno del partito, in cui scrivono anche Salvemini, uscito dal partito e direttore de «L’Unità», collaboratori de «La Voce» di Prezzolini, e sindacalisti rivoluzionari. C’è quindi il tentativo, più o meno consapevole, di fare del giornale il perno di un «fascio» di tutte le forze rivoluzionarie, concezione quest’ultima sicuramente estranea al partito, e affine al bloccardismo già condannato da Turati, nonché a quelli che saranno poi gli «Arditi del popolo», e poi ancora ai blocchi partigiani.
L’allora compagno Mussolini è un esempio di ciò che intendiamo per opportunismo, che non è una categoria morale come pensano i borghesi, né una caratteristica propria dei soli riformisti, ma la tentazione a trovare una via più breve e più facile, tentazione che può nascere anche tra i rivoluzionari e con le migliori intenzioni. Nel nostro dizionario il termine «opportunismo» ha un sinonimo che non è «tradimento» né «riformismo», anche se finisce spesso nel secondo e sempre nel primo, ma è «scorciatoia».
Al congresso di Ancona del 1914 furono finalmente espulsi anche i massoni, mentre Lerda, massone ed esponente della frazione intransigente, se ne era già andato nel 1912. Ad onor del vero dobbiamo dire che i turatiani puri avevano sempre condannato la massoneria. La sinistra ribadì poi che non c’era nessuna tattica speciale da adottare al Sud, ma al contrario era necessaria una sola tattica poiché uno era il nemico da abbattere: lo Stato centrale unitario. Tale corretta posizione del partito è stata poi considerata una bestemmia da Salvemini come da Gramsci.
Molto lucida fu la posizione della sinistra anche sulla famosa questione morale: «Invertiremmo la nostra propaganda tuonando solo contro i borghesi ladri o disonesti e facendo dimenticare al proletariato che esso è quotidianamente vittima di un altro furto ben maggiore che non sia quello che si può compiere nelle amministrazioni locali, cioè il continuo furto che la borghesia esercita su di lui sfruttandone il lavoro nei campi e nelle officine (...) Quando si fa la questione morale, essa assorbe tutte le altre; essa diventa pregiudiziale; essa ci conduce alla solidarietà degli onesti di tutti i partiti e di tutte le classi (...) Il nostro non è un processo paziente di ricostituzione dell’organismo in disfacimento della società attuale, è un processo di demolizione di tutta l’organizzazione sociale presente». Importante fu anche l’opposizione di Serrati al riformista di sinistra Modigliani che sosteneva la possibilità di liste di accordo tra partito e sindacato, ribattendogli che il partito sarebbe stato quindi controllato dagli incontrollabili, cioè da coloro che sono al di fuori del partito stesso.
Con la fine dei blocchi amministrativi finiva anche il congresso, mentre
la questione incombente della guerra venne rinviata. Lo stesso per quella
della Confederazione del Lavoro, dominata dai riformisti e in contrasto
con l’indirizzo del partito, ignorata dalla direzione in nome della abusata
«unità», nonostante le posizioni dure e chiare della sinistra della
frazione intransigente.
Riunione di partito del maggio 1996
[ È qui ]
Riunioni del settembre 1994 e del gennaio 1955
5. - Impotenza del proletariato spagnolo a costituirsi in Partito all’epoca della Prima Internazionale
Questo capitolo descrive come nacquero e si svilupparono in Spagna le sezioni della Prima Internazionale, o Associazione Internazionale dei Lavoratori. Engels ebbe da seguire da vicino queste vicende anche perché nominato, per un certo periodo, segretario per la Spagna nell’organizzazione.
La storia dell’Internazionale in Spagna all’origine coincide con quella della bakuninista Alleanza della Democrazia Socialista dato che nel 1869, quando le prime Sezioni spagnole aderirono all’Associazione, vi veniva introdotta anche l’Alleanza. Fanelli, le cui convinzioni anarchiche non gli saranno di impedimento per accettare di esser membro del parlamento italiano, in quell’anno arrivò a Madrid portando raccomandazioni di Bakunin. Fu così che praticamente tutti i dirigenti operai dell’Internazionale in Spagna all’inizio appartenevano allo stesso tempo all’Alleanza della Democrazia Socialista, cosa non permessa dai Regolamenti e condannata dal Consiglio Generale dell’Internazionale, del quale facevano parte Marx ed Engels. Così che l’anarchismo inizia a gettare le radici in Spagna, con una organizzazione gerarchica e disciplinata, che influirà sul proletariato spagnolo facendolo disorganizzato e indifeso nella battaglia per il potere politico contro la borghesia, specialmente durante la Prima e la Seconda Repubblica. In nome della libertà dell’individuo, dell’autonomia, dell’astensionismo politico, ecc., si rinunciava all’autonomia dell’azione della classe operaia alla quale la storia ha assegnato il compito non di affermare principi estetici ma di farla finita con i concreti rapporti economici e con il potere politico borghese, instaurando la sua transitoria dittatura per sottomettere le classi che a quello, per un certo periodo, inevitabilmente si oppongono, come ha fatto ogni classe che ha tenuto il potere politico nella storia.
In mancanza di propri partiti gli operai in Spagna avevano appoggiato in diverse occasioni il partito repubblicano, soprattutto la sua ala più radicale, che nelle molteplici sollevazioni repubblicane del 1869 poté contare sull’alleanza dei proletari. Questi videro poi tradito poi l’appoggio che avevano offerto ai movimenti politici liberali: anche quando col soccorso proletario la frazione borghese, in alcuna delle insurrezioni in corso, riuscì ad assicurarsi una quota del potere, gli operai vennero poi regolarmente privati di ogni vantaggio della vittoria. È anche prendendo a pretesto queste sconfitte che l’anarchismo, predicante il rifiuto di ogni potere politico, si poté aprire un varco fra i proletari spagnoli.
L’Alleanza della Democrazia Socialista, fondata dalla minoranza di un Congresso della borghese Lega della Pace e della Libertà, già nel 1868 si era data un programma e uno statuto.
(Federico Engels, «Rapporto sull’Alleanza della Democrazia Socialista, presentato al Congresso dell’Aia a nome del Consiglio Generale») «L’Alleanza della Democrazia Socialista è stata fondata verso la fine del 1868 da M. Bakunin. Si trattava di una società internazionale che pretendeva di operare contemporaneamente all’interno e all’esterno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Pur essendo composta da membri di quest’ultima che chiedevano di partecipare a tutte le riunioni dell’Internazionale, essa intendeva preservare il diritto di avere i suoi gruppi locali, le sue Federazioni nazionali e si suoi Congressi particolari accanto a quelli dell’Internazionale. L’Alleanza pretese dunque fin da principio di rappresentare una sorta di aristocrazia nel mezzo della nostra Associazione, di essere una sorta di corpo di élite con un programma a sé e con privilegi particolari.Il tentativo di fare dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori il partito mondiale del proletariato va visto inserito nella fase in cui nel movimento convivono ancora tendenze eterogenee, con la necessità storica di mettere alla prova l’efficacia delle rispettive dottrine e metodi. Il modo di funzionamento corrispondente di questo partito fu trovato nel meccanismo del centralismo democratico. Ma, nonostante la coesistenza di diversi gradi di affinazione della coscienza di classe, Marx ed Engels sempre pretesero che l’Internazionale funzionasse con il maggior centralismo possibile, condizione indispensabile per la solidarietà nella lotta e l’efficacia rivoluzionaria.
«Il Consiglio Generale rifiutò di ammettere l’Alleanza finché continuava a mantenere il suo carattere internazionale separato; promise soltanto che l’avrebbe ammessa a condizione che dissolvesse la sua organizzazione internazionale particolare, trasformasse le sue sezioni in semplici sezioni della nostra Associazione e informasse il Consiglio del luogo e della forza numerica di ogni nuova sezione...
«La sezione di Ginevra è stata l’unica a chiedere l’ammissione. Delle altre sedicenti sezioni dell’Alleanza non si è più sentito nulla. Si doveva però ritenere che, nonostante i continui intrighi dei membri dell’Alleanza che si sforzavano di imporre il loro programma particolare all’intera Internazionale e di impadronirsi della direzione della nostra Associazione, l’Alleanza avesse mantenuto la sua parola e si fosse sciolta. Ma poi il Consiglio Generale ricevette informazioni piuttosto precise, dalle quali dovette dedurre che l’Alleanza non si era mai dissolta, che nonostante l’impegno solennemente assunto aveva sempre continuato a esistere ed esisteva tutt’ora nella forma di una società segreta e che si serviva di quest’organizzazione occulta per perseguire ulteriormente il suo originario obiettivo di dominio. In particolare in Spagna la sua esistenza divenne sempre più evidente in seguito a scissioni prodottesi nell’Alleanza stessa (...) La fiducia del Consiglio Generale e della intera Internazionale alla quale era stato presentato il carteggio, venne bassamente tradita. Dopo aver incominciato con una simile menzogna, questi uomini non avevano più motivo di provare imbarazzo nelle loro macchinazioni volte a sottomettere l’Internazionale o, se ciò si fosse rivelato impossibile, a disorganizzarla (...)
«È chiaro che nessuno potrebbe rimproverare ai membri dell’Alleanza di avere propagandato il loro programma. L’Internazionale si compone di socialisti di differenti sfumature. Il suo programma è piuttosto largo, proprio al fine di comprenderle tutte; la setta bakuninista è stata ammessa nell’Internazionale alle stesse condizioni di tutti gli altri. Ciò che le si rimprovera, è proprio di aver violato queste condizioni».
«L’organizzazione di una simile società segreta è una violazione flagrante non soltanto dell’impegno assunto di fronte all’Internazionale, ma anche della lettera e dello spirito dei nostri Statuti Generali. I nostri Statuti conoscono solo un tipo di membro dell’Internazionale con uguali diritti e doveri; l’Alleanza li divide in due caste, in iniziati e profani, a mezzo di un’organizzazione di cui non conoscono neppure l’esistenza (...) I fondatori dell’Alleanza sapevano perfettamente che la gran massa dei profani tra i membri dell’Internazionale non si sarebbe mai scientemente assoggettata a un’organizzazione come la loro, non appena ne avesse appreso l’esistenza. Proprio per questo la crearono «rigorosamente segreta» (...) Si tratta di una vera e propria cospirazione contro l’Internazionale. Per la prima volta nella storia delle lotte della classe operaia ci imbattiamo in una cospirazione segreta ordita in seno a questa stessa classe e mirante non già a minare il regime di sfruttamento esistente, bensì proprio l’associazione che lo combatte nel modo più energico».Quanto segue scriveva Engels nel 1872, come «Rapporto del Consiglio Generale circa la situazione in Spagna, Portogallo e Italia», una volta che fu scoperta la trama alleanzista e dopo che si era avuta la scissione in Spagna fra i difensori dell’Alleanza e i partigiani dell’Internazionale.
«In Spagna, fondata all’inizio come semplice appendice della società segreta di Bakunin, l’Alleanza doveva servire come una specie di base di reclutamento e, a sua volta, di leva per manovrare tutto il movimento proletario. Oggi è evidente come l’Alleanza cerchi ancora apertamente di mantenere l’Internazionale in Spagna nella stessa posizione subordinata nella quale la teneva allora.Quindi solo alla Conferenza di Londra alcuni membri dell’Internazionale come Anselmo Lorenzo seppero ciò che realmente era l’Alleanza, alla quale partecipavano ingannati fin dalla fine del 1869.
«A causa di questa dipendenza, le dottrine particolari dell’Alleanza: l’abolizione immediata dello Stato, l’anarchia, l’antiautoritarismo, l’astensione da ogni atto politico, ecc., si predicavano in Spagna come dottrine dell’Internazionale. Allo stesso tempo, ogni singolo membro dell’Internazionale era iscritto automaticamente nella organizzazione segreta e imbevuto della credenza che questo sistema di direzione dell’Associazione pubblica da parte della società segreta esistesse dappertutto e ne fosse una norma (...)
«Nel giugno 1870 si celebrò il primo Congresso dell’Internazionale spagnola a Barcellona, dove si adottò quel piano organizzativo che poi si dispiegò appieno alla Conferenza di Valenza (settembre 1871), che è attualmente in vigore e che ha già prodotto i maggiori effetti.
«Come in tutte le località, la partecipazione che la nostra Associazione ebbe (o di cui si accusò) nella rivoluzione della Comune di Parigi, dette anche in Spagna prestigio all’Internazionale. Questo prevalere e le prime persecuzioni governative, che seguirono immediatamente dopo, accrebbero moltissimo le nostre file in Spagna. Senz’altro, al momento della convocazione della Conferenza di Valenza non esistevano nel paese più di tredici Federazioni locali, oltre ad alcune sezioni isolate in diversi luoghi (...)
«Immediatamente dopo la Conferenza di Valenza, nel settembre 1871, si celebrò quella di Londra [questa era di livello internazionale, mentre quella nazionale spagnola]. Gli spagnoli inviarono un delegato, Anselmo Lorenzo, che fu il primo a portare in Spagna la notizia che l’Alleanza segreta era inconcepibile nella nostra Associazione e che, giusto al contrario, il Consiglio Generale e la maggioranza delle Federazioni erano decisamente contro l’Alleanza».
(Da Marx-Engels, «L’Alleanza della Democrazia Socialista e l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, Rapporti e documenti di congresso internazionale dell’Aia». Dopo il congresso della Lega della Pace svoltosi a Berna nel settembre 1869, Fanelli, uno dei fondatori dell’Alleanza e membro del Parlamento italiano, si recò a Madrid. Era munito di raccomandazioni di Bakunin per Garrido, deputato alle Cortes, che lo mise in contatto con i singoli repubblicani, sia borghesi sia operai. Poco tempo dopo, nel novembre dello stesso anno, da Ginevra vennero inviate tessere di affiliazione all’Alleanza a Morago (Morago diventerà il demiurgo dell’Alleanza in Spagna, suo fedele servitore e abile ad ordirne gli intrighi) a Cordova y Lòpez (repubblicano che aspirava a diventare deputato, redattore di "Combatte", giornale borghese) e a Rubau Dondeu (candidato sconfitto di Barcellona, fondatore di un partito pseudo-socialista). La notizia dell’invio di queste tessere gettò lo scompiglio nella giovane sezione internazionale di Madrid; il suo presidente, Jalvo, si ritirò perché non voleva far parte di un’associazione che tollerava nel proprio seno una società segreta composta da borghesi e che si lasciava dirigere da essa (...) Dopo il congresso dell’Internazionale a Barcellona (luglio 1870), l’Alleanza si stabilì a Palma, Valencia, Màlaga e Cadice. Nel 1871 vennero fondate delle sezioni a Siviglia e a Cordova. Agli inizi del 1871 Morago e Vinas, delegati dell’Alleanza di Barcellona, proposero ai membri del Consiglio Federale (Francisco Mora, Ángel Mora, Anselmo Lorenzo, Borell ecc.) di fondare una sezione dell’Alleanza a Madrid; ma costoro si opposero sostenendo che l’Alleanza era una società pericolosa se segreta e inutile se pubblica. Per la seconda volta, la sola menzione di questo nome bastò per gettare il seme della discordia in seno al Consiglio Federale, al punto che Borell pronunciò queste parole profetiche: Sin d’ora ogni fiducia tra noi è morta.In vista del Congresso dell’Aia, l’Alleanza, tramite le sue tipiche manovre e intrighi, pretendeva che i componenti della delegazione spagnola fossero membri alleanzisti di sua fiducia (le spese dei quali fossero però a carico dell’Internazionale). A questo fine il Consiglio Federale spagnolo, già in mano ai cospiratori alleanzisti, inviò una circolare segreta che nascose alla Nuova Federazione di Madrid e al Consiglio Generale.
«Ma poiché le persecuzioni del governo avevano costretto i membri del Consiglio Federale a emigrare in Portogallo, Morago laggiù riuscì a convincerli dell’utilità di questa associazione segreta, e su loro iniziativa nacque la sezione dell’Alleanza di Madrid. A Lisbona alcuni portoghesi membri dell’Internazionale vennero affiliati all’Alleanza grazie a Morago. Tuttavia, poiché questi nuovi venuti non gli offrivano garanzie sufficienti, egli fondò a loro insaputa un altro gruppo dell’Alleanza composto dai peggiori elementi borghesi e operai reclutati tra i massoni. Il nuovo gruppo, del quale faceva parte anche un prete spretato di nome Bonanca, tentò di organizzare l’Internazionale in sezioni di dieci membri che, sotto la sua direzione, avrebbero dovuto servire a realizzare i piani del conte Peniche; questo intrigante riuscì a trascinare le sezioni in un’insurrezione simulata il cui unico fine era quello di portarlo al potere. Di fronte agli intrighi dei membri dell’Alleanza in Portogallo e in Spagna, gli internazionali portoghesi si ritirarono dalla società segreta e al congresso dell’Aia ne chiesero, come misura di salute pubblica, l’espulsione dall’Internazionale.
«Alla conferenza dell’Internazionale spagnola a Valencia (settembre 1871), i delegati dell’Alleanza, come sempre anche delegati dell’Internazionale, diedero alla loro società segreta un’organizzazione completa per la penisola iberica. In maggioranza essi erano convinti che il programma dell’Alleanza fosse identico a quello dell’Internazionale, che l’organizzazione segreta esistesse ovunque, che fosse un dovere entrarvi e che l’Alleanza tendesse a sviluppare e non a dominare l’Internazionale; decisero quindi che tutti i membri del Consiglio Federale dovevano venire accolti nell’Alleanza. Morago che fino a quel momento non aveva osato rientrare in Spagna, non appena fu informato della cosa, si recò in tutta fretta a Madrid e accusò Mora di "voler subordinare l’Alleanza all’Internazionale", il che era esattamente il contrario del fine che si proponeva di raggiungere l’Alleanza. E per dare autorità a quest’opinione, nel gennaio successivo fece leggere a Mesa una lettera di Bakunin in cui questi sviluppava un piano machiavellico per dominare la classe operaia.
«Il piano era il seguente: "Apparentemente l’Alleanza deve esistere all’interno dell’Internazionale, ma in realtà deve tenersi a una certa distanza da essa per poterla meglio osservare e dirigere. Per questa ragione i membri che appartengono ai Consigli e ai Comitati delle sezioni internazionali, nelle sezioni dell’Alleanza devono essere sempre in minoranza" (dichiarazione di Josè Mesa, in data 1° settembre 1872, inviata al congresso dell’Aia).
«Nel corso di una riunione dell’Alleanza, Morago accusò Mesa di aver tradito la società dei Bakunin con l’iniziazione di tutti i membri del Consiglio Federale, i quali si trovavano quindi ad avere la maggioranza nella sezione dell’Alleanza. Proprio per impedire che ciò avvenisse, le istruzioni segrete stabilivano che soltanto uno o due membri dell’Alleanza dovessero infiltrarsi nel Consiglio e nei Comitati dell’Internazionale per poi dominarli sotto la direzione e con l’appoggio della sezione dell’Alleanza, nella quale si prendevano in anticipo tutte le decisioni che doveva poi adottare l’Internazionale. Da quel momento Morago dichiarò la guerra al Consiglio Federale e, come già aveva fatto in Portogallo, fondò una nuova sezione dell’Alleanza che rimase ignota ai sospetti. Gli iniziati delle differenti località spagnole lo assecondarono e incominciarono ad accusare il Consiglio Federale di trascurare i propri doveri nei confronti dell’Alleanza (...)
«La risoluzione della Conferenza di Londra sulla politica della classe operaia costrinse l’Alleanza ad assumere un atteggiamento apertamente ostile nei confronti dell’Internazionale e diede al Consiglio Federale l’occasione di constatare la sua perfetta armonia con la grande maggioranza degli internazionali. Essa gli suggerì inoltre l’idea di costituire in Spagna un grande partito operaio. Per realizzare questo fine era innanzitutto necessario liberare completamente la classe operaia da tutti i partiti borghesi, soprattutto dal partito repubblicano che reclutava tra gli operai la massa dei suoi elettori e dei suoi militanti. Il Consiglio Federale consigliò l’astensione in tutte le elezioni di deputati sia monarchici sia repubblicani; per distruggere nel popolo ogni illusione sulla fraseologia pseudo-socialista dei repubblicani, i redattori della Emancipaciòn, che erano in pari tempo membri del Consiglio Federale, inviarono ai rappresentanti del partito repubblicano federalista, riuniti in congresso a Madrid, una lettera in cui chiedevano misure pratiche e ingiungevano loro di pronunciarsi sul programma dell’Internazionale. Ciò significa infliggere un colpo terribile al partito repubblicano; l’Alleanza si incaricò di renderlo più leggero poiché essa era invece alleata con i repubblicani. A Madrid essa fondò un giornale El Condenado, che aveva per programma le tre virtù cardinali dell’Alleanza: Ateismo, Anarchia, Collettivismo, ma predicava agli operai di non chiedere una riduzione dell’orario di lavoro. Accanto al "fratello" Morago, vi scriveva Estévanez, uno dei tre membri del comitato direttivo del partito repubblicano, ex governatore di Madrid ed ex ministro della Guerra (...) E per avere anch’essa il suo Fanelli alle Cortes spagnole, l’Alleanza decise di presentare la candidatura di Morago (...) Dopo l’atteggiamento assunto dal Consiglio nei confronti del partito repubblicano, che minacciava di compromettere tutti i piani dell’Alleanza, essa decise di perderlo. Il Congresso accolse le lettere che gli erano state indirizzate come una dichiarazione di guerra. La Igualdad, organo più influente del partito repubblicano, attaccò violentemente i redattori della Emancipaciòn e li accusò si essersi venduti a Sagasta (più volte ministro e capo del governo). El Condenado incoraggiò quest’infamia osservando un silenzio ostinato. L’Alleanza fece ancora di più un favore del partito repubblicano. A causa di questa lettera, fece espellere dalla Federazione internazionale di Madrid, in cui predominava, i redattori della Emancipaciòn.
«Malgrado le persecuzioni governative il Consiglio Federale, durante una gestione di sei mesi iniziata dopo la Conferenza di Valencia, aveva portato il numero delle Federazioni locali da tredici a settanta; in altre cento località aveva preparato la costituzione di Federazioni locali e organizzato otto mestieri in società di resistenza nazionali; inoltre sotto i suoi auspici si stava formando la grande associazione degli operai manifatturieri catalani. L’aver reso tali servigi assicurava ai membri del consiglio un’influenza morale tale che Bakunin sentì il bisogno di ricondurli sulla via della salvezza con una lunga ammonizione paterna, inviata a Mora, segretario generale del consiglio in data 5 aprile 1872. Il Congresso di Saragozza (4-11 aprile 1872), a dispetto degli sforzi messi in atto dall’Alleanza rappresentata da almeno dodici delegati, annullò l’espulsione e nominò nel nuovo Consiglio Federale due degli espulsi, malgrado il loro ripetuto rifiuto di accettare una qualunque candidatura.
«Durante il Congresso di Saragozza si svolsero come sempre anche i conciliaboli segreti dell’Alleanza. I membri del Consiglio Federale proposero la dissoluzione dell’Alleanza. Per non respingerla, schivarono la proposta. Due mesi dopo, il 2 giugno, gli stessi cittadini, in qualità di direttori dell’alleanza spagnola e a nome della sezione dell’Alleanza di Madrid, inviarono alle altre sezioni una circolare in cui rappresentavano la loro proposta e ne fornivano la giustificazione (...)
«Di tutte le sezioni dell’Alleanza spagnola, soltanto quella di Cadice rispose annunciando la propria dissoluzione. L’indomani stesso, l’Alleanza fece espellere nuovamente dalla Federazione internazionale di Madrid i firmatari della circolare del 2 giugno. Essa addusse come pretesto un articolo apparso sulla Emancipaciòn del 1° giugno in cui si chiedeva un’inchiesta: "Sulla fonte del patrimonio dei ministri, dei generali, dei magistrati, dei pubblici funzionari, dei sindaci, ecc... e di tutti gli uomini politici che, pur non esercitando alcuna funzione pubblica, hanno vissuto all’ombra dei governi, prestando loro appoggio nelle Cortes e coprendo le loro iniquità sotto la maschera di una falsa opposizione (...) la confisca dei cui beni dovrebbe essere la prima misura da prendere all’indomani di una rivoluzione".
«L’Alleanza, che in ciò vide un attacco diretto contro i suoi amici del partito repubblicano, accusò i redattori della Emancipaciòn di aver tradito la causa del proletariato con il pretesto che, chiedendo la confisca dei beni dei ladri di Stato, essi avevano riconosciuto implicitamente la proprietà individuale. Nulla rivela meglio lo spirito reazionario che si cela sotto le ciarlatanerie rivoluzionarie dell’Alleanza e che essa vorrebbe inoculare nella classe operaia. E nulla prova la perfidia dell’Alleanza meglio dell’espulsione in quanto difensori della proprietà individuale degli stessi uomini che essi coprivano di anatemi a causa delle loro idee comuniste (...)
«In seguito delle manovre dell’Alleanza, il Consiglio era stato trasferito a Valencia. Dei due membri del vecchio Consiglio Federale rieletti al Congresso di Saragozza, Mora non era stato accettato e, dopo poco, Lorenzo aveva presentato le dimissioni. Da quel momento il Consiglio Federale fu votato anima e corpo all’Alleanza. Perciò esso rispose al ricorso degli espulsi con una dichiarazione d’incompetenza, benché l’articolo 7 dei regolamenti della Federazione spagnola gli imponesse di sospendere, salvo rinvio al prossimo Congresso, ogni Federazione locale che avesse violato gli statuti. Gli espulsi si costituirono allora in «nuova federazione» e chiesero di venir riconosciuti dal Consiglio che, in virtù dell’autonomia delle sezioni, rifiutò formalmente. La Nuova Federazione Madrilena si rivolse allora al Consiglio Generale che la riconobbe in conformità con gli articoli II, 7 e IV, 4 dei regolamenti generali. Il Congresso generale dell’Aia approvò questo atto e ammise all’unanimità il delegato della Nuova Federazione Madrilena».
«Tuttavia questa circolare giunse nelle mani della Nuova Federazione Madrilena e venne inviata la Consiglio Generale, il quale, sapendo dell’asservimento del Consiglio Federale all’Alleanza, pensò che fosse giunto il momento di agire e rivolse al Consiglio Federale spagnolo una lettera in cui si legge: Cittadini! Abbiamo le prove che all’interno dell’Internazionale, e in particolare in Spagna, esiste una società segreta denominata Alleanza della Democrazia Socialista. Questa società, il cui centro si trova in Svizzera, ha il compito specifico di dirigere la nostra grande Associazione in accordo con le sue tendenze particolari e di condurla verso fini ignoti all’immensa maggioranza degli internazionali. Sappiamo inoltre attraverso La Razòn di Siviglia che almeno tre membri del vostro consiglio generale fanno parte dell’Alleanza... Se il carattere e l’organizzazione di questa società erano già contrari allo spirito e alla lettera dei nostri statuti quand’essa era ancora pubblica e riconosciuta, il suo segreto sussistere in seno all’Internazionale, malgrado la parola data, costituisce un vero e proprio tradimento nei confronti della nostra associazione (...) Il Consiglio Generale chiedeva loro inoltre certi materiali per condurre un’inchiesta sull’Alleanza di cui avrebbe poi presentato i risultati al congresso dell’Aia, e inoltre una spiegazione sul modo in cui riuscivano a conciliare i loro doveri nei confronti dell’Internazionale con la presenza di almeno tre membri noti dell’Alleanza nel Consiglio Generale. Il Consiglio Federale rispose con una lettera evasiva, in cui tuttavia riconosceva l’esistenza dell’Alleanza».Al Congresso dell’Aia l’Alleanza pretendeva portare, con gioco sporco e segreto, quanti più delegati possibile che le fossero fedeli in rappresentanza di diversi paesi, e così avere sufficiente forza per dominare il Congresso e assicurarsi la direzione dell’Internazionale. I rappresentanti della Federazione spagnola esibirono un «mandato imperativo», che ordinava loro di chiedere al Congresso una modifica al regolamento per le votazioni, in modo che le proposte alleanziste trovassero maggior possibilità di prevalere; se non soddisfatti minacciavano di partecipare alle discussioni ma di astenersi dal voto.
Però il mandato che meglio esprimeva lo spirito dell’Alleanza era quello portato dai delegati della Federazione svizzera del Giura, quartier generale dell’Alleanza, nel quale si affermava: (da: Engels, «I mandati imperativi al Congresso dell’Aia).
«Poiché il principio federativo – si dice – è la base dell’organizzazione dell’Internazionale, le sezioni si confederano liberamente tra loro e anche le federazioni si confederano liberamente, nel pieno possesso della loro autonomia, e in accordo con i loro bisogni costituiscono tutti gli organi di corrispondenza, gli uffici statistici ecc. che considerano opportuni.Sebbene il Congresso rigettasse una per una tutte le proposte che i rappresentanti delle Federazioni dominate dall’Alleanza portavano nei loro mandati imperativi, questi delegati stimarono opportuno non ritirarsi ed assistettero senza replicare uno dopo l’altro a tutti i rifiuti. Nemmeno i delegati del Giura se ne andarono quando il Congresso, non solo rifiutò le loro proposte ma addirittura risolse di rafforzare l’organizzazione, per essi l’«autorità»; solo di limitarono ad astenersi del votare.
«Partendo dai principi menzionati sopra, la federazione del Giura si pronuncia per la soppressione del Consiglio Generale e per l’abolizione di ogni autorità nell’Internazionale.
«Il Consiglio Generale, i Consigli Federali, i Consigli locali e tutti gli statuti e i regolamenti che hanno «autorità» vengono quindi soppressi. Ognuno agirà come, "nel pieno possesso della sua autonomia", più gli piace.
«I delegati del Giura devono operare in piena solidarietà con i delegati spagnoli, italiani, francesi e con tutti coloro che protestano sinceramente contro il principio autoritario. Il rifiuto di ammettere un delegato di queste Federazioni comporterà quindi il ritiro immediato dei delegati del Giura. Allo stesso modo i delegati dovranno ritirarsi assieme ai delegati delle Federazioni antiautoritarie, se il congresso non accetta i principi sopra esposti per l’organizzazione dell’Internazionale».
«(Engels: I mandati imperativi...) «Come si vede, gli uomini della Alleanza agiscono sempre obbedendo a ordini segreti e dello stesso tenore. A questi stessi ordini segreti ha indubbiamente obbedito La Federaciòn di Barcellona quando si è messa improvvisamente a predicare la disorganizzazione dell’Internazionale, poiché la forte organizzazione della nostra Associazione in Spagna incominciava a rappresentare un pericolo per i dirigenti segreti dell’Alleanza. Questa organizzazione rafforza troppo la classe operaia e di conseguenza crea delle difficoltà al governo segreto dei signori alleanzisti, i quali sanno perfettamente che nell’acqua torbida si pesca meglio.Questo non significa che il resto delle Federazioni locali spagnole tenessero dalla parte dell’Internazionale e avrebbero rispettato le risoluzioni dell’Aia, come fece la Nuova Federazione di Madrid, i cui membri erano usciti dall’Alleanza già prima del Congresso dell’Aia. Dopo la scissione che ebbe luogo al Congresso si aprì in Spagna un confuso travaglio fra le diverse Federazioni dell’Internazionale; sebbene non fosse il solo paese dove si soffrisse una spaccatura, in Spagna fu abbastanza sofferta da far fallire l’intento di coagulare il movimento intorno alla teoria del socialismo scientifico. L’anarchismo vi costituì un vero sbarramento alla penetrazione del marxismo, nonostante che alcuni membri della Nuova Federazione di Madrid potessero vantare la fiducia di Engels, come Josè Mesa, che tradusse la «Miseria della filosofia» e la pubblicò nel 1891, e nonostante i commenti di Engels che qui riportiamo, in Spagna non di giunse alla costituzione di un partito politico pienamente marxista e fallì perfino il tentativo dell’Internazionale di formarvi un vero partito operaio.
«Distruggere l’organizzazione e le acque si intorbidiranno come lo desiderate. Distruggete soprattutto le società operaie, dichiarate guerra agli scioperi, riducete la solidarietà operaia a una frase senza contenuto e avrete libero il campo per le vostre frasi pompose, vuote e dottrinarie. A patto che gli operai del nostro paese vi permettano di distruggere l’opera che è costata loro quattro anni di fatiche: l’organizzazione che è indubbiamente la migliore dell’intera Internazionale.
«Se a questo punto torniamo alla questione dei mandati imperativi, ci rimane ancora un problema da risolvere: per quale motivo gli alleanzisti, questi nemici inveterati di ogni principio di autorità, insistono con tanta tenacia sul problema dell’autorità del mandato imperativo? Perché per una società segreta come la loro, che sussiste in seno a una società pubblica come l’Internazionale, non esiste nulla di più comodo del mandato imperativo. I mandati degli alleati saranno tutti identici; quelli delle sezioni non soggette all’influsso dell’Alleanza o che si ribellano a essa saranno in contrasto gli uni con gli altri, sicché la società segreta avrà spesso la maggioranza assoluta e sempre la maggioranza relativa».
(Marx-Engels: L’Alleanza della Democrazia Socialista...) «Dopo essersi accordati a Bruxelles con i belgi sulle basi di una azione comune contro il nuovo Consiglio Generale, i giurassiani e gli spagnoli partirono per Saint-Imier in Svizzera, per tenervi il Congresso antiautoritario che l’Alleanza aveva fatto convocare dai suoi accoliti di Rimini.
«Tornati in Spagna, i quattro figli di Aimone dell’Alleanza spagnola pubblicarono un manifesto pieno di calunnie contro il Congresso dell’Aia e di lodi per quello di Saint-Imier. Il Consiglio Federale si assunse il patrocinio di questo libello e per ordine del centro svizzero convocò a Cordova per il 25 dicembre 1872 il Congresso regionale che avrebbe dovuto svolgersi soltanto nell’aprile 1873. Inoltre, il centro svizzero si affrettò ad affermare pubblicamente la posizione subalterna che questo Consiglio occupava nei suoi confronti: ignorando il Consiglio spagnolo, il Comitato del Giura inviò a tutte le Federazioni locali spagnole le risoluzioni di Saint-Imer.
«Al congresso di Cordova, su 10 Federazioni (cifra ufficiale fornita dal Consiglio Federale), ne erano rappresentate soltanto 36; si trattò perciò di un Congresso di minoranza».
«L’organo della Nuova Federazione Madrilena, L’Emancipaciòn, forse il miglior periodico che l’Internazionale possegga ovunque, denuncia l’Alleanza tutte le settimane, e, attraverso i numeri che ha inviato il cittadino Sorge, il Consiglio Generale può convincersi dell’energia, il senso comune e il discernimento teorico dei principi della nostra Associazione che pone nella lotta» (Rapporto del Consiglio Generale sulla situazione in Spagna, Portogallo e Italia)».
Continuano Marx e Engels riferendosi al Congresso di Cordoba: «Sicura della maggioranza che si era prefabbricata, l’Alleanza di sbizzarrì come voleva. Gli statuti della Federazione regionale elaborati a Valencia e approvati a Saragoza vennero messi sottosopra. La Federazione spagnola fu decapitata e il suo Consiglio Federale sostituito con una semplice Commissione di corrispondenza e di statistica cui non si lasciò neppure il compito di versare al Consiglio Generale le quote spagnole; in parole povere si ruppe con L’Internazionale respingendo le risoluzioni dell’Aia e adottando il patto di Sant-Imer (...) In Spagna esistono solo due Federazioni locali, la Nuova Federazione Madrilena e la Federazione di Alcalà di Henares, che riconoscono apertamente e totalmente le risoluzioni del Congresso dell’Aia e il nuovo Consiglio Generale. A meno che queste Federazioni riescano ad attrarre dalla loro parte il grosso dell’Internazionale in Spagna, formeranno il nucleo di una nuova Federazione spagnola» (Rapporto del Consiglio Generale sulla situazione in Spagna, Portogallo e Italia).
«L’Alleanza è riuscita a suscitare in seno all’Internazionale una lotta sorda che per due anni ha ostacolato l’azione della nostra Associazione e poi è sfociata nella secessione di una parte delle Sezioni e delle Federazioni. Le risoluzioni votate dal congresso dell’Aia contro l’Alleanza erano quindi assolutamente necessarie; il Congresso non poteva permettere che l’Internazionale, questa grande creatura del proletariato, cadesse nelle trappole preparate dai rifiuti delle classi sfruttatrici. Quanto a coloro che si propongono di privare il Consiglio Generale delle funzioni senza le quali l’Internazionale sarebbe soltanto una massa confusa, sparpagliata e – per usare il linguaggio dell’Alleanza – «amorfa», possiamo soltanto considerarli dei traditori o degli illusi».
6. - 1873: I bakuninisti in azione
Nel febbraio 1873 fu proclamata la Prima Repubblica dopo l’abdicazione di Amadeo Primo; nel giugno la Repubblica Federale. Si incaricò una commissione, dalla quale furono esclusi i repubblicani estremisti, chiamati intransigentes, per la redazione di un progetto di nuova Costituzione. Quando nel luglio la nuova Costituzione fu adottata si vide che non si spingeva così avanti come pretendevano gli intransigenti nel senso dello smembramento della Spagna in «cantoni indipendenti». Gli intransigenti organizzarono subito sollevazioni nelle province: dal 5 all’11 luglio trionfarono a Siviglia, Cordoba, Granada, Malaga, Cadice, Alcoy, Murcia, Cartagena, Valenza, ecc., e instaurarono in ciascuna di queste città un governo cantonale indipendente. Ma entro lo stesso mese le insurrezioni furono vinte in tutte le località con solo Valenza che lottò con un poco di energia. Cartagena potè resistere in quanto maggior porto militare di Spagna: essendo con esso caduta in potere degli insorti la Marina da Guerra, il governo si guardò bene da distruggere la propria base navale, che inoltre era ben difesa. Il «Cantone sovrano di Cartagena» visse fino all’11 gennaio del 1874, quando capitolò perché, di fatto, non aveva più alcun motivo per resistere.
In queste vili azioni risaltano le prodezze ancora più vili, degli anarchici di Bakunin, come descrive Engels, negli articoli del 1873 intitolati «I bakuninisti al lavoro».
«Oltre ai resoconti giornalistici sugli avvenimenti spagnoli disponiamo anche di un rapporto che la Nuova Federazione Madrilena dell’Internazionale ha inviato al Congresso di Ginevra.Il marxismo già allora faceva distinzione fra astensionismo politico da un lato e astensionismo elettorale dall’altro, benché Engels critichi gli anarchici per entrambi. Per il marxismo il parlamentarismo rivoluzionario ebbe senso nella misura in cui il parlamentare borghese non era dominato, monopolizzato, da una sola frazione della borghesia, il che, come visto, non era ancora in Spagna. In queste condizioni i deputati comunisti potevano influire nelle decisioni del parlamento a favore di una frazione della borghesia o di un’altra, secondo quali fossero gli interessi del proletariato, in un paese arretrato come era la Spagna. Sappiamo che questa partecipazione al parlamento è stata difesa fino ai nostri giorni dai falsificatori del marxismo, ignorando che oggi non c’è che una borghesia, imperialista finanziaria, che domina tutti i parlamenti e ha fascistizzato le democrazie. Inoltre, si noti, che il marxismo, anche quando non era astensionista, mai vide nella partecipazione alle elezioni il mezzo attraverso il quale gli operai avrebbero potuto conquistare il potere, il quale mezzo è solo la rivoluzione armata.
«Come è noto, all’atto della scissione dell’Internazionale in Spagna i membri dell’Alleanza segreta mantennero la supremazia; la grande maggioranza degli operai spagnoli parteggiava per essi. Quando nel febbraio 1873 venne proclamata la repubblica, gli alleanzisti spagnoli vennero a trovarsi in una situazione estremamente difficile. La Spagna è talmente arretrata sul piano dello sviluppo industriale, che per quel paese non si può neppure ancora parlare di un’emancipazione immediata e totale della classe operaia. Prima di pervenirvi, la Spagna deve ancora attraversare diverse fasi preliminari di sviluppo e sgomberare la strada da tutta una serie di ostacoli. Comprimere il decorso di queste fasi preliminari nel minor tempo possibile, eliminare rapidamente questi ostacoli questa era l’occasione che la Repubblica offriva. Ma tale occasione poteva venir colta soltanto con un intervento politico attivo della classe operaia spagnola. La gran massa degli operai se ne rendeva conto; essa premeva ovunque perché si partecipasse agli avvenimenti, perché si cogliesse l’occasione di agire invece di lasciar campo libero, come si era sempre fatto in passato, all’azione e agli intrighi delle classi dirigenti. Il governo indisse le elezioni per le Cortes costituenti: quale atteggiamento doveva assumere l’Internazionale? I capi dei bakuninisti si trovavano nel più profondo imbarazzo. Il protrarsi dell’inattività politica appariva di giorno in giorno più ridicolo e impossibile; gli operai volevano «fatti». D’altro canto gli alleanzisti avevano predicato per anni che non si sarebbe dovuto partecipare a una rivoluzione che non avesse come obiettivo l’emancipazione immediata e completa della classe operaia, che l’intraprendere una qualsiasi azione politica avrebbe implicato il riconoscimento dello Stato, questo principio del male, e che quindi in particolare la partecipazione a una qualunque elezione costituiva un crimine degno di esser punito con la morte. Come essi si siano sottratti a questa difficile situazione, ce lo spiega il citato rapporto madrileno:
«Le stesse persone che avevano respinto la risoluzione dell’Aia sull’atteggiamento politico della classe operaia e che avevano calpestato gli statuti dell’Associazione introducendo in tal modo la divisione, la lotta e il disordine nell’Internazionale spagnola; le stesse persone che avevano avuto la spudoratezza di descriverci agli operai come ambiziosi carrieristi i quali, con il pretesto di condurre al potere la classe operaia, miravano ad assicurare il potere a se stessi; quelle stesse persone che si definiscono rivoluzionari autonomi, anarchici ecc., in quest’occasione si sono gettate con fervore nel far politica, ma la politica della peggior specie: la politica borghese. Essi non hanno operato per assicurare il potere politico alla classe operaia – questa idea, al contrario, essi la aborrono – bensì per aiutare una frazione della borghesia, composta da avventurieri, da ambiziosi e da carrieristi, che si definiscono «repubblicani intransigenti», ad assumere la guida del paese.
«Già alla vigilia delle elezioni generali per la Costituente gli operai di Barcellona, Alcoy e di altre località chiedevano di saper qual politica essi dovessero seguire, sia nelle lotte parlamentari di in tutte le altre. Proprio a questo fine furono tenute due grandi assemblee, una a Barcellona e l’altra a Alcoy; nel corso di entrambe gli alleanzisti si opposero con tutte le forze alla definizione dell’atteggiamento politico che avrebbe dovuto assumere l’Internazionale (la loro si badi bene). Si decise quindi che in quanto associazione l’Internazionale non doveva svolgere alcuna attività politica, ma che individualmente gli internazionali potevano agire come meglio credevano, associandosi a loro piacimento a qualunque partito, e tutto ciò in forza della loro autonomia! E quale fu la conseguenza dell’applicazione di una così insulsa dottrina? che la gran massa degli internazionali, inclusi gli anarchici, partecipò alle elezioni, senza un programma, senza una bandiera, senza propri candidati, contribuendo in tal modo a far eleggere quasi esclusivamente dei repubblicani borghesi (...)".
«Questo è il risultato della "astensione dalla politica" predicata da Bakunin».
«Non appena gli avvenimenti stessi spingono il proletariato in primo piano, l’astensione diviene un’assurdità concreta, l’intervento attivo della classe operaia una necessità ineluttabile. E proprio questo è accaduto in Spagna (...) Visto lo straordinario fascino che il nome dell’Internazionale allora esercitava ancora sugli operai spagnoli e data l’eccellente organizzazione della sua branca spagnola – almeno nei fatti – a quel tempo sussisteva ancora, era certo che nei distretti industriali catalani, a Valencia, nelle città andaluse ecc., ogni candidatura posta e sostenuta dall’Internazionale sarebbe passata brillantemente, e che senza alcun dubbio nelle Cortes sarebbe entrata una minoranza sufficientemente forte per svolgere un ruolo decisivo tra le due ali dei repubblicani in occasione di ogni votazione. Gli operai questo lo sentivano, sentivano che era giunto il momento di mettere in moto la loro organizzazione che a quel tempo era ancora potente. Ma i signori dirigenti della scuola bakuninista avevano predicato tanto a lungo il vangelo dell’astensione incondizionata da non potere fare una svolta improvvisa; fu così che inventarono la penosa scappatoia consistente nel far astenere l’Internazionale come totalità, ma nello stesso tempo nel far votare i suoi singoli membri come meglio credevano. La conseguenza di questa dichiarazione di bancarotta politica fu che gli operai, come accade sempre nei casi del genere, votarono per coloro che avevano assunto l’atteggiamento più radicale, per gli intransigenti, e in tal modo si sentirono più o meno corresponsabili dei passi successivi di coloro che avevano eletto, venendovi coinvolti.
«Gli alleanzisti non potevano permanere più a lungo nella situazione ridicola in cui li aveva posti la loro furba politica elettorale; nel caso contrario il loro dominio sull’Internazionale spagnola sarebbe presto finito. Dovevano agire, non foss’altro che per salvare le apparenze. Ciò che avrebbe dovuto salvarli era lo sciopero generale.
«Nel programma bakuninista lo sciopero generale è la leva che si aziona per avviare la rivoluzione sociale. Un bel mattino tutti gli operai di tutti i mestieri di un paese o addirittura del mondo intero interrompono il lavoro e in tal modo, entro non più di due settimane, costringono le classi possidenti a sottomettersi strisciando, oppure ad aggredire gli operai, di modo che ora a questi ultimi è dato il diritto di difendersi e, in questa occasione, la possibilità di rovesciare l’intera vecchia società (...) Lo sciopero generale da tutti veniva ammesso che per attuarlo erano necessari un’organizzazione perfetta e una cassa ben fornita. E proprio qui sta il vizio di tale proposta. Da un lato i governi, in particolare quando li si incoraggia con l’astensione politica, non lasceranno mai che l’organizzazione e la cassa raggiungano il livello necessario; dall’altro gli avvenimenti politici e gli arbitrii delle classi dominanti condurranno alla liberazione degli operai molto prima che il proletariato riesca a realizzare questa organizzazione ideale e questo colossale fondo di riserva. Ma se ne disponesse, non avrebbe alcun bisogno della via indiretta dello sciopero generale per raggiungere il suo obiettivo (...)
«Nel frattempo la situazione politica evolveva sempre più nel senso di una crisi (...) Le trattative di Pi con gli intransigenti andavano per le lunghe; gli intransigenti si spazientirono; i più impetuosi tra essi incominciarono a mettere in opera l’insurrezione cantonale in Andalusia. A questo punto, se non volevano rimanere a rimorchio dei borghesi intransigenti, dovevano muoversi anche i capi dell’Alleanza. Fu quindi proclamato lo sciopero generale.
«A Barcellona venne allora tra l’altro affisso il seguente manifesto: "Operai! Facciamo uno sciopero generale per mostrare il profondo orrore che proviamo quando vediamo come il governo impiega l’esercito per combattere i nostri fratelli lavoratori, mentre in pari tempo trascura la guerra contro i carlisti ecc".
«Gli operai di Barcellona, la più grande città industriale di Spagna, la cui storia conta più lotte di barricata di qualunque altra città del mondo, furono quindi incitati non già ad affrontare il potere governativo con le armi, di cui erano in possesso, bensì con una generale sospensione del lavoro, con un provvedimento che tocca direttamente solo i singoli borghesi, ma non il loro rappresentante generale, il potere statale! Nel periodo della pace inattiva gli operai barcellonesi avevano avuto occasione di ascoltare le frasi violente di gente mansueta come Alerini, Farga Pellicer e Vinas; quando fu venuto il momento di agire e Alerini, Farga Pellicer e Vinas pubblicarono prima il loro straordinario programma elettorale, poi fecero incessantemente il possibile per placare gli animi esacerbati e infine, invece di chiamare alle armi, proclamarono lo sciopero generale, essi si resero addirittura spregevoli agli occhi degli operai. Il più debole tra gli intransigenti si dimostrò comunque sempre più energico del più vigoroso tra gli alleanzisti. L’Alleanza e l’Internazionale da essa menata per il naso perdettero ogni influenza, e quando questi signori proclamarono lo sciopero generale con il pretesto di paralizzare, ciò facendo, il governo, gli operai si limitarono a deriderli. Ma una cosa almeno la falsa Internazionale era riuscita a ottenere: che Barcellona non partecipasse all’insurrezione cantonale; e Barcellona era la sola città la cui adesione al movimento avrebbe potuto assicurare un saldo appoggio all’elemento operaio che in esso era ovunque fortemente rappresentato, e con ciò la prospettiva di assumere infine la direzione del movimento nella sua totalità. Per di più, con l’entrata in campo di Barcellona la vittoria sarebbe stata praticamente assicurata. Ma Barcellona non mosse un dito; gli operai di Barcellona, che ben conoscevano gli intransigenti e ingannati dagli alleanzisti, restarono inattivi e in tal modo assicurarono la vittoria finale del governo madrileno (...)
«Lo sciopero generale era stato posto contemporaneamente all’ordine del giorno anche ad Alcoy. Alcoy è una città industriale di data più recente, che attualmente conta forse trentamila abitanti, nella quale l’Internazionale, in forma bakuninista, è penetrata e ha trovato rapidissima diffusione non più di un anno fa (...) Proprio per questo Alcoy era stata scelta come sede della commissione federale bakuninista per la Spagna, e qui vedremo al lavoro proprio questa commissione federale.
«Il 7 luglio un’assemblea operaia decide lo sciopero generale e il giorno seguente invia una delegazione all’alcalde (sindaco) con l’ingiunzione di convocare i fabbricanti nel giro di ventiquattr’ore e presentar loro le rivendicazioni operaie. L’alcalde Albors, un repubblicano borghese, intrattiene con belle parole gli operai e in pari tempo chiede truppe ad Alicante e consiglia i fabbricanti di non cedere e di barricarsi invece nelle loro case. Lui stesso sarebbe rimasto al suo posto. Dopo aver avuto un incontro con i fabbricanti – ci atteniamo qui al rapporto ufficiale della commissione federale alleanzista data 14 luglio 1873 – egli, che in precedenza aveva promesso la neutralità agli operai, lancia un proclama nel quale «offende e diffama gli operai, prende partito per i fabbricanti e in tal modo distrugge il diritto e la libertà degli scioperanti e li sfida alla lotta». Non è affatto chiaro come i pii desideri di un sindaco possano annullare il diritto e la libertà degli operai. In ogni caso gli operai guidati dall’Alleanza dichiararono al consiglio comunale, per tramite di una commissione, che, se non aveva l’intenzione di mantenere la promessa neutralità nello sciopero, al fine di evitare un conflitto era più opportuno che si dimettesse. La commissione fu rimandata indietro, e quando abbandonò il municipio la polizia sparò sulla folla che, pacifica e disarmata, se ne stava sulla piazza. Questo, secondo il rapporto alleanzista, fu l’inizio della lotta. Il popolo prese le armi e incominciarono i combattimenti che si dice siano durati «venti ore» (...) Questa fa la prima battaglia dell’Alleanza. Per venti ore di fila ci si batté, forti di cinquemila uomini, contro trentadue gendarmi e alcuni borghesi armati, li si sconfisse dopo che ebbero esaurito le munizioni, e si persero complessivamente dieci uomini. L’Alleanza ha tutto il diritto di inculcare ai suoi iniziati il motto di Falstaff che "la prudenza è la parte migliore del coraggio".
«È ovvio che tutte le notizie raccapriccianti fornite dalla stampa borghese su fabbriche bruciate senza scopo, sulla fucilazione in massa di gendarmi, sulle persone cosparse di petrolio e date alle fiamme sono pure invenzioni. Gli operai vittoriosi, anche quando vengono guidati dagli alleanzisti il cui motto è: "Si deve mettere tutto sottosopra", sono sempre troppo magnanimi con i loro avversari vinti, e costoro attribuiscono poi loro sempre tutti i misfatti che, in caso di vittoria, essi non trascurano mai di commettere nei confronti degli operai.
«Dunque la vittoria era stata raggiunta. "Ad Alcoy – giubila la «Solidarité Révolutionnaire» (periodico alleanzista) – i nostri amici, cinquemila di numero, sono diventati padroni della situazione".
«E che ne fecero i "padroni" della loro situazione? Su questo punto il rapporto e il giornale alleanzista non ci dicono nulla; siamo costretti a ricorrere ai comuni resoconti della stampa. Da questi apprendiamo che da Alcoy si costituì un «comitato di salute pubblica», cioè un governo rivoluzionario. Al loro congresso di Saint-Imier, in Svizzera, il 15 settembre 1872, gli alleanzisti avevano effettivamente deciso «che ogni organizzazione di un potere politico cosiddetto provvisorio o rivoluzionario non può essere che un nuovo inganno, e per il proletariato sarebbe altrettanto pericoloso quanto tutti i governi attualmente esistenti». I membri della commissione federale spagnola con sede ad Alcoy avevano anche fatto del loro meglio per indurre il congresso dell’Internazionale spagnola a far sua questa posizione. Nonostante tutto questo, troviamo che Severino Albarracìn, membro di tale commissione, e secondo alcuni resoconti anche Francisco Tomàs che ne era il segretario, facevano parte del potere governativo provvisorio e rivoluzionario, del Comitato di salute pubblica di Alcoy!
«E che fece questo Comitato di salute pubblica? Quali furono le misure che prese per "attuare l’immediata e piena emancipazione degli operai"? Vietò a tutti gli uomini di lasciare la città, mentre ciò rimase permesso alle donne, purché avessero un passaporto! I nemici dell’autorità riadottano il passaporto! Quanto al resto, assoluta perplessità, inazione, incapacità di prendere decisioni.
«Nel frattempo il generale Velarde stava sopraggiungendo da Alicante con le sue truppe. Il governo aveva le sue buone ragioni per liquidare le insurrezioni locali delle province senza clamore. E i «padroni della situazione» di Alcoy avevano le loro buone ragioni per trarsi da una situazione nella quale non sapevano che fare. Il deputato Cervera, che svolgeva il ruolo di mediatore, ebbe quindi buon gioco. Il Comitato di salute pubblica rassegnò le dimissioni, il 12 luglio le truppe entrarono in città senza incontrare resistenza, e il loro impegno preso nei confronti del Comitato di salute pubblica fu... l’amnistia generale. I «padroni della situazione» dell’Alleanza erano riusciti ancora una volta a trarsi felicemente d’imbarazzo. E con ciò si concluse l’avventura di Alcoy (...)
«Immediatamente dopo le lotte di strada di Alcoy, gli intransigenti si sollevarono in Andalusia (...) I signori intransigenti miravano innanzitutto all’instaurazione, nel più breve tempo possibile, della repubblica federale, la quale li avrebbe portati al potere e avrebbe assicurato loro un gran numero delle nuove cariche governative create ex novo nei singoli cantoni (...) A ciò si aggiungeva che i bakuninisti andavano predicando da anni che ogni azione rivoluzionaria dall’alto verso il basso era funesta, e che tutto doveva venir organizzato e attuato dal basso verso l’alto. Ora si presentava l’occasione di attuare, dal basso, il famoso principio della sovranità, almeno in talune singole città! Non poteva finire altrimenti: gli operai bakuninisti caddero in trappola e trassero le castagne dal fuoco per gli intransigenti, per poi venir ricompensati, come sempre, a calci e a fucilate dai loro alleati.
«Quale fu dunque la posizione degli internazionali bakuninisti in tutto questo movimento? Essi avevano contribuito a dargli il carattere della frantumazione federalista e, nella misura del possibile, avevano realizzato il loro ideale dell’Anarchia. Gli stessi bakuninisti che pochi mesi prima, a Cordova, avevano dichiarato la costituzione di governi rivoluzionari rappresentava un tradimento e un inganno degli operai, ora sedevano in tutti i governi cittadini rivoluzionari dell’Andalusia, ma ovunque in minoranza, di modo che gli intransigenti potevano fare ciò che volevano. Mentre questi ultimi conservavano la direzione politica e militare, gli operai vennero liquidati con frasi pompose o con sedicenti decreti di riforme sociali delle più grossolane e insensate, che per di più esistevano soltanto sulla carta (...) Accadde quindi che in pochi giorni l’Andalusia intera venne a trovarsi nelle mani degli intransigenti armati. Siviglia, Malaga, Granada, Cadice ecc. caddero nelle loro mani senza quasi opporre resistenza. Ogni città si dichiarò cantone sovrano e istituì un proprio comitato governativo rivoluzionario (junta). Murcia, Cartagena, Valencia seguirono l’esempio.
«Nonostante tutto, pur essendo stata avviata in modo insensato, l’insurrezione continuava ad avere ancora molte possibilità di successo, se soltanto fosse stata guidata con un minimo di intelligenza, sia pure limitandosi a seguire lo schema delle rivolte militari spagnole, in cui una guarnigione di una città si solleva, muove verso la città più vicina, trascina con sé la guarnigione di questa città che è già stata sobillata in precedenza, e con uno sviluppo a valanga si muove contro la capitale, finché una battaglia coronata di successo o il passaggio agli insorti delle truppe inviate a combatterli determina la vittoria (...) Nulla di tutto questo accadde. Il federalismo degli intransigenti e della loro propaggine bakuninista consisteva proprio nel fatto che ogni città agiva per proprio conto, che dichiarava essenziale non già la collaborazione con le altre città, bensì la separazione da esse, precludendo in tal modo ogni possibilità di un’offensiva generalizzata.
«Nel frattempo questa insurrezione avviata all’improvviso, senza alcun pretesto, aveva impedito a Pì y Margall di continuare le trattative con gli intransigenti. Dovette dimettersi e al potere lo sostituirono i repubblicani puri del genere Castelar, borghesi senza maschera, il cui primo obiettivo era di far piazza pulita del movimento operaio di cui fino allora si erano serviti, ma che a questo punto si era trasformato in un ostacolo. Si raccolsero due divisioni, di cui la prima, sotto il generale Pavìa, venne inviata contro l’Andalusia, la seconda, sotto Campos, contro Valencia e Cartagena.
«Il generale Pavìa si mise in movimento il 20 luglio. Il 24 Cordova venne occupata da un reparto composto da gendarmi e da soldati di linea al comando di Ripoli. Il 29 Pavìa attaccò Siviglia difesa da barricate, e il 30 o il 31 – i telegrammi lasciano spesso sussistere dei dubbi circa queste date – la città cadde nelle sue mani. Si lasciò alle spalle una colonna volante per assoggettare i dintorni e mosse contro Cadice, i cui difensori si erano arroccati soltanto attorno all’accesso alla città, che peraltro venne difeso debolmente per poi, il 4 agosto, lasciarsi disarmare senza opporre resistenza. Nei giorni seguenti egli disarmò, ancora una volta senza incontrare resistenza, Sanlùcar de Berrameda, San Roque, Tarifa, Algeciras e un gran numero di altre cittadine, ognuna delle quali si era costituita in cantone sovrano. In pari tempo inviò delle colonne contro Malaga, che capitolò il 3, e Granada, che capitolò l’8 agosto senza opporre resistenza, di modo che il 10 agosto, dopo neppure 14 giorni e quasi senza combattere, tutta l’Andalusia era sottomessa.
«Il 16 luglio Martìnez Campos scatenò l’offensiva contro Valencia. Qui l’insurrezione era stata iniziata dagli operai. Al momento della scissione dell’Internazionale spagnola, a Valencia i veri internazionali avevano mantenuto la maggioranza, e il nuovo consiglio federale spagnolo venne trasferito in questa città. Poco dopo la proclamazione della repubblica, quando le lotte rivoluzionarie apparivano imminenti, gli operai valenciani di orientamento bakuninista, diffidando dell’opera di pacificazione dei dirigenti barcellonesi mascherata dalle loro frasi ultrarivoluzionarie, proposero ai veri rivoluzionari di collaborare in tutti i movimenti locali. Quando scoppiò il movimento cantonale, entrambi, servendosi degli intransigenti, attaccarono immediatamente e scacciarono le truppe. Non si sa come fosse composta la Junta di Valencia; dai resoconti dei corrispondenti della stampa inglese risulta però che in essa come pure nelle brigate dei volontari valenciani predominavano nettamente gli operai. Gli stessi corrispondenti parlarono degli insorti valenciani con un rispetto che sono ben lungi dall’accordare agli altri insorti tra cui predominavano gli intransigenti; lodarono la loro disciplina, l’ordine che regnava in città e profetizzarono una lunga resistenza e una dura lotta. Non si sbagliarono. Valencia, una città aperta, resse gli attacchi della divisione di Campos del 26 luglio fino all’8 agosto, quindi più a lungo dell’Andalusia nel suo insieme (...)
«Qual’è ora il risultato di tutta la nostra indagine?
«1. Non appena si sono trovati di fronte una seria situazione rivoluzionaria, i bakuninisti sono stati costretti a sbarazzarsi di tutto il loro programma tradizionale. Dapprima sacrificarono la dottrina dell’obbligo dell’astensione politica e in particolare dell’astensione elettorale. Poi seguì l’anarchia, l’abolizione dello Stato; invece di abolire lo Stato, tentarono piuttosto di creare un gran numero d piccoli, nuovi Stati. Poi rinunciarono al principio che gli operai non debbono partecipare ad alcuna rivoluzione la quale non abbia come fine l’immediata e completa emancipazione del proletariato, e parteciparono a un movimento puramente borghese e dichiaratamente tale. Infine violarono un principio che avevano appena enunciato: che la costituzione di un governo rivoluzionario non è altro che un nuovo inganno e un nuovo tradimento della classe operaia, figurando tranquillamente nei comitati governativi delle singole città, e per di più quasi ovunque nella veste di una minoranza importante, dominata numericamente e sfruttata politicamente dai borghesi.
«2. Questo rinnegamento dei principi predicati fino ad allora ha però avuto luogo nel modo più vile e menzognero, sotto la pressione della cattiva coscienza, di modo che né i bakuninisti stessi, né le masse da essi guidate entrarono nel movimento con un qualsiasi programma né sapevano più in generale quello che volevano. Quale ne fu la conseguenza naturale? Che i bakuninisti o impedirono ogni movimento come nel caso di Barcellona; o vennero spinti in insurrezioni isolate, prive di un piano e stupide, come ad Alcoy e a Sanlùcar de Berrameda; o anche, che la direzione dell’insurrezione cadde nelle mani degli intransigenti, come è avvenuto nel caso della stragrande maggioranza delle insurrezioni. Le proclamazioni ultrarivoluzionarie dei bakuninisti, non appena si venne all’azione si trasformarono quindi o in insurrezioni prive a priori di ogni prospettiva, e nell’accodamento a un partito borghese che sul piano politico sfruttava ignominiosamente gli operai e per di più li trattava a calci.
«3. Dei cosiddetti principi dell’anarchia, della libera federazione di gruppi indipendenti ecc. non rimane altro che una smisurata e insensata frantumazione dei mezzi di lotta rivoluzionaria, la quale ha permesso al governo di impadronirsi con pochissime truppe, senza quasi incontrare resistenza, di una città dopo l’altra.
«4. La fine della canzone fu non soltanto che la bene organizzata e numerosa Internazionale spagnola – la falsa come la vera – venne coinvolta nel crollo degli intransigenti ed è oggi di fatto dissolta, ma anche che le vengono attribuiti gli innumerevoli, immaginari eccessi senza i quali il filisteo di tutti i paesi non riesce a concepire un’insurrezione operaia, e che a causa di ciò la riorganizzazione internazionale del proletariato spagnolo è resa impossibile, forse per anni.
«5. In sintesi, in Spagna i bakuninisti ci hanno offerto un insuperabile esempio di come non si deve fare una rivoluzione».
* * *
Abbiamo visto come le idee anarchiche fossero diffuse dall’Alleanza
in nome dell’Internazionale dato che per gli operai spagnoli organizzazioni
tanto antitetiche erano presentate come coincidenti. Leggere oggi gli insegnamenti
di Engels ci fa inevitabilmente pensare alla grande menzogna stalinista
e alle sue nefaste conseguenze nell’atteggiarsi a comunista e a marxista,
stavolta non a scala spagnola ma internazionale.
Del fondamentalismo islamico in Algeria, e negli altri paesi magrebini in generale, da un po’ di tempo non se ne parla più salvo in occasioni di gravi fatti delittuosi come se il problema si fosse esaurito da sé, lasciando intendere che la situazione stia tornando lentamente sotto controllo, rimuovendo così le cause che lo hanno generato. Tutt’al più l’attenzione è concentrata sull’eterno ed insolubile calvario della questione palestinese, che rappresenta un capitolo a parte. La stampa borghese si stanca facilmente di un argomento ed è sempre a caccia di novità sanguinolente da prima pagina. Per questa sete vampiresca in questo scorcio di fine millennio non c’è che l’imbarazzo della scelta; tutto il pianeta sottomesso al dominio del capitalismo offre occasioni sensazionali.
Il nostro Partito ha costantemente seguito tutti gli avvenimenti con il metodo che lo contraddistingue: niente sensazionalismi o fretta di pubblicare saggi per primi a tutti i costi, mente fredda e correttezza rispetto il nostro metodo materialistico per la lettura di ogni avvenimento politico ed economico. A noi, al di là di ogni tragico aspetto che i conflitti sociali provocano, preme innanzi tutto conoscere quale ruolo e compito storico svolge il proletariato locale per la sua difesa, come si organizza, quale alleanze tattiche è costretto a subire se le sue forze non sono sufficienti per lo scontro ed infine quali prospettive e possibilità di vittoria ha.
Abbiamo letto l’esperienza algerina di questi anni con questi criteri ammettendo fin dall’inizio che il fenomeno generato dalla pesante crisi economica in corso nasceva abbagliato da ricorrenti putride istanze religiose, come avvenne in Iran vent’anni orsono. La nostra attesa era che il movimento si liberasse dalla pesante zavorra coranica per percorrere, pur fra mille difficoltà, la genuina strada della lotta di classe; proletariato e classi in via di divenirlo contro capitalisti e fondiari locali o stranieri che fossero. Così, al momento, non è stato anche perché il proletariato europeo, suo fratello maggiore, più forte ed esperto, è stato bloccato in casa dalla medesima crisi nel tentativo di difendere i pochi privilegi rimasti; tutti i suoi nemici di destra e di sinistra inoltre hanno saputo organizzare sapientemente una campagna di «informazione» incentrata prevalentemente sugli eccidi allo scopo, come fu per la spartizione dell’ex Iugoslavia, di creare un diffuso senso di paura ed incertezza, occultare la varie cause del conflitto che avrebbero potuto accomunare i lavoratori delle opposte sponde del Mediterraneo. In questo senso il terrorismo politico qui come altrove, con le sue vittime e le conseguenti catene di vendette e ritorsioni, si è riconfermato strumento ben collaudato per contrapporre e confondere il proletariato.
Il fondamentalismo islamico è stato temporaneamente arginato nel Maghreb, ma quella stessa crisi che lo aveva generato si è ulteriormente aggravata, continua la sua opera di devastazione e tutto ciò fa prevedere un ulteriore sovvertimento ben più ampio di quello appena trascorso: si prepari per tempo tutto il proletariato sotto la guida del suo Partito Comunista.
Tutte le notizie che giungono dai paesi islamici ci sono sempre presentate come conflitti etnico-religiosi. Così fu per l’attentato del febbraio 1994 al presidente iraniano, lo sciita Rafsanjani, da parte di un sunnita e frettolosamente un nostrano telegiornale in assenza di ulteriori notizie mostrava una scarna scheda sulle condizioni economiche: disoccupazione = 30%; inflazione = 100%; prezzo del greggio = -25% rispetto l’anno precedente. Fame o fede quindi?
Anche i fatti di Algeria dopo la vittoria elettorale del FIS (Fronte di salvezza islamico), il successivo colpo di Stato del gennaio 1992 che ne ha impedito la «democratica» gestione del potere, le uccisioni di europei non di fede islamica, i continui attentati contro i turisti stranieri in Egitto e le impiccagioni quasi quotidiane dei fondamentalisti che ne conseguono, ci impongono alcune considerazioni di natura materialistica al di là dei «pruriti» di tipo etnico-religioso -culturale con cui si cerca di motivarli. Di ogni fermento religioso la nostra teoria si preoccupa di studiare le origini materiali in termini di sfruttamento del lavoro e scontro tra le classi esistenti; anche l’islamismo con i suoi «feroci Saladini» o di moderni integralisti è da noi considerato come parte integrante di un sistema economico-produttivo fondato sulla divisione e lo sfruttamento fra le classi sociali che per questo in determinati periodi di crisi acuta esplode in forme violente che sovente assumono connotati esteriori religiosi.
Tutte le religioni appartengono alla sfera della sovrastruttura ideologica di controllo e sono un riflesso e un complemento in ogni forma produttiva fino ad ora succeduta delle strutture economiche della società; struttura e sovrastruttura sono dialetticamente correlate tra loro; da un lato la base economica genera la sovrastruttura di costrizione pratica e di coscienza, dall’altro lato la sovrastruttura agisce in funzione di conservazione del sistema.
A questo riguardo è indispensabile riprendere un brano con la relativa nota di Engels da «Sulle origini del cristianesimo». «(...) Queste sollevazioni, come tutti i movimenti di massa del medioevo, portavano necessariamente una maschera religiosa, apparivano come restaurazione del cristianesimo primitivo degenerato da secoli; ma di regola dietro l’esaltazione religiosa si nascondevano interessi mondani molto forti. Con esse contrastano singolarmente le rivolte religiose del mondo maomettano, specie in Africa. L’Islam è una religione fatta per orientali, specialmente per arabi; quindi, da una parte, per città che esercitano commercio e industria, e dall’altra per beduini nomadi. Ma qui sta il germe di un urto che si ripete quotidianamente. Le città diventano ricche, sfarzose, rilassate nell’osservanza della "legge". I beduini, poveri e, per povertà, austeri di costumi, guardano con invidia e desiderio a queste ricchezze e a questi piaceri. Allora si raccolgono sotto un profeta, un Mahdi, per gastigare i peccatori, per restaurare il rispetto per la legge rituale e per la vera fede, e per intascare come ricompensa i tesori degli infedeli. Dopo cent’anni, essi naturalmente si trovano proprio a quel punto dove stavano quegli infedeli; una nuova purificazione della fede è necessaria, sorge un nuovo Mahdi, e il gioco ricomincia. Così è accaduto dalle conquiste degli Almoravidi e Almohadi africani in Spagna fino all’ultimo Mahdi di Khartoum, che affrontò con tanto successo gli inglesi. Così, o in modo simile, andavano le cose nelle rivolte in Persia e in altri paesi maomettani. Sono tutti movimenti scaturiti da cause economiche e che hanno un travestimento religioso; ma, anche se vittoriosi, lasciano sopravvivere intatte le vecchie condizioni economiche. Tutto resta quindi come prima e l’urto diventa periodico. Nelle sollevazioni popolari dell’occidente cristiano, al contrario, il travestimento religioso serve solo come bandiera e come maschera per l’assalto a un ordinamento economico antiquato; questo alla fine viene rovesciato, ne sorge uno nuovo, il mondo va avanti».
La risposta alla obiezione che questa citazione poteva valere per movimenti dei secoli passati la facciamo dare a quei proletari, a quegli sfruttati ed oppressi che si sono raccolti, per fame e miseria, sotto la guida dell’imam Khomeini per distruggere la sfarzosa corte dello scià e che ora per gli stessi motivi di ieri, dopo appena 15 anni, sparano al suo successore Rafsanjani pur essendo anch’egli una «grande guida» politico-religiosa.
La significativa differenza risiede nel fatto che in tempi passati si trattava del dominio del capitale mercantile e, nonostante i precisi divieti religiosi, anche di quello usuraio. Oggi invece è il senile capitalismo industriale e finanziario che con i suoi inesorabili processi di espropriazione produce nelle concentrazioni urbane e nelle campagne masse di proletari nonché contadini e artigiani poveri, il che rompe la circolarità delle rivoluzioni nei paesi islamici di cui parlava Engels.
Secondo l’antico e radicato diritto alla vita islamico «hanbalita» un uomo che muore di fame è giustificato quando si procura un minimo di cibo se necessario con l’uso della forza; se muore è considerato un martire, se uccide chi gli si oppone in armi è sollevato da ogni responsabilità penale. Per gli sciiti il rifiuto di dare da mangiare a un affamato è considerato complicità nell’assassinio di un musulmano (Rondison, Islam e capitalismo). Quindi la rivolta contro la smaccata opulenza del trono del pavone fu perfettamente giustificata e diretta dal clero fondamentalista. Nella sostanza non molto di diverso dalla teologia della liberazione sviluppatasi in Centro America.
A noi però non interessano le dispute teologiche in sé tra sciiti, sunniti, wahabiti, o fondamentalisti, queste sette per noi sono solo uno degli strumenti per dividere l’unità di classe dei proletari dei paesi musulmani, per confonderli e distoglierne le energie dal loro vero destino: la rivoluzione proletaria mondiale. Per gli stessi motivi non cercheremo di trovare qualche relazione tra la lotta di classe in Italia, Germania ed Inghilterra e la suddivisione della chiesa cristiana in cattolica, protestante, anglicana.
* * *
Il rapporto è composto di una breve sintesi storica in cui forniamo
il significato di alcuni termini specifici onde evitare incomprensioni
e di seguito i capitoli riguardanti specificatamente l’Algeria, Tunisia,
Tripolitania-Libia, Mauritania, Egitto e Sudan.
Origini del fondamentalismo
All’interno dei movimenti islamici che facevano derivare i principi politici dai testi e dalla tradizione religiosa, si sono identificati tre differenti gruppi: Risveglio, Riformismo e Fondamentalismo.
Col termine Risveglio si indicano quei movimenti islamici che sono emersi nel diciottesimo e diciannovesimo secolo sovente confinati in aree periferiche, al di fuori della portata dell’autorità centrale. Fondati prevalentemente su base tribale tentavano di opporsi all’inesorabile crollo economico e commerciale del grande impero costituito da quattro Stati dinastici principali: Egitto mamelucco, Turchia ottomana, Persia safavide e India mogul attaccati militarmente dall’Europa e dalla Russia. La prima e forse più famosa manifestazione del movimento di Risveglio si ebbe in Arabia Centrale nel 1749 sotto la guida di un esponente religioso e di un capo locale anche allo scopo di riportare al comando il gruppo arabo da tempo emarginato.
Al contrario, il Riformismo islamico è stato un movimento urbano nato nel diciannovesimo secolo e durato fino al ventesimo. I suoi capi erano funzionari statali, intellettuali e ulema (sapienti in materia coranica) tenacemente contrari alle interpretazioni tradizionali della religione e in aperto dialogo con la cultura e le filosofie europee nel tentativo di confrontarsi con ciò che veniva considerato l’intollerabile condizione di declino dell’Islam. Studiando le fasi della civiltà europea i suoi esponenti speravano di scoprire i presupposti per la costruzione di utili strutture politiche e di una sana economia. Così riassumiamo in breve Youssef M. Choueiri da Il fondamentalismo islamico. Continuiamo noi.
Il Fondamentalismo è il gruppo più recente. Nel 1918 del grande impero islamico, che i califfi nei primi 130 anni dell’era musulmana avevano esteso dalla Spagna all’Afganistan, non era rimasta che una minima parte come impero ottomano, il quale pagò con il suo smembramento l’alleanza con gli Imperi Centrali nella 1° guerra mondiale. Sotto il controllo anglo-francese si formarono diversi Stati e protettorati di impostazione laica, democratica ed europea, indipendenti solamente sulla carta. Questi nuovi governanti fecero atto di obbedienza formale all’Islam, che divenne ovunque religione di Stato, e, per ragioni di opportunità politica, al suo clero fu riconosciuta all’occorrenza anche una formale supremazia come fonte legislativa.
Occorre precisare che l’Islam come fede è una sovrastruttura molto semplice e non necessita di un clero specializzato nell’interpretazione e nell’intercessione; nonostante questa semplicità si è formata nel tempo una casta di religiosi risoluti nel controllo dei fedeli e contrari a qualsiasi cambiamento quanto nessun clero medievale è mai stato.
In queste costruzioni geopolitiche artificiali, ad uso dell’espansione e del controllo del capitalismo europeo, si trova un punto di partenza e di forza della parte più integralista del clero, a differenza dei riformatori modernisti i quali cercavano di conciliare i rigorosi precetti coranici con quelli della rendita e dello sfruttamento capitalistico. Si rivela un puro bizantinismo di difficile comprensione lo sforzo degli attuali riformatori religiosi circa i regolamenti finanziari su interessi, mutui, ipoteche, leasing ed altri strumenti dell’economia capitalistica che dovranno adottare le banche islamiche che premono per l’ingresso dei loro capitali sulle piazze finanziarie.
Nella nostra visione si tratta di differenti velocità di passaggio da una forma produttiva ad un’altra e dell’insieme della sovrastruttura ideologica conseguente e della capacità di riciclarsi per il nuovo compito, il tutto esaltato dal fatto che il sorgere dell’industria e del capitalismo è sopraggiunto in pochi decenni e introdotto prepotentemente dall’esterno.
Le differenze tra le due sette maggiori, la sunnita, che riconosce la separazione e la relativa autonomia tra affari politici e religione, e la sciita, che invece reclama la sottomissione della politica al predominio della religione, non intervengono in modo particolare sulla questione del fondamentalismo. Di fatto si tratta dello scontro tra gruppi di potere per il controllo dello Stato basato comunque sulla proprietà privata, sulla progressiva abolizione degli antichi beni collettivi, acqua, erba e terra, sulla divisione fra le classi e su un giusto salario.
Come organizzazione attiva i fondamentalisti attuali hanno un passato relativamente recente che segue le vicende della formazione degli Stati arabi moderni nello scontro immediato contro i gruppi di potere individuati dall’imperialismo europeo prima, russo e americano poi, per governare sotto tutela le nuove entità statali.
Riportiamo gli avvenimenti più significativi da Islam: Stati senza nazioni di P. Vatikiotis. Nel periodo tra gli anni ’30 e ’50 la confraternita dei Fratelli Musulmani, fondata nel 1928 in Egitto da un sufi, maestro elementare, Hasan al-Banna come società filantropico-religiosa divenne in poco tempo il più vasto movimento di massa a sfondo politico-religioso mai visto in tempi moderni. La solidarietà solo tra i musulmani, non importa di quale paese siano, e l’elemosina pari al 10% del grano, del 2,5% degli animali utili e successivamente dell’oro e dell’argento, che in origine volontaria divenne una regolare imposta a favore dei poveri, era uno dei cardini che permettevano l’unione di tutti i credenti nell’umma, cioè quella grande comunità per eccellenza di tutti i musulmani che non riconosce i confini politici fra Stati ma solo quelli religiosi.
A differenza dei vecchi riformatori musulmani modernisti dei primi decenni del secolo, i Fratelli Musulmani avevano un programma radicale non per la riforma dell’Islam che potesse spiegare e comprendere le necessarie modifiche funzionali al nascente capitalismo, bensì per un ritorno agli antichi insegnamenti dei patriarchi per farne gli unici fondamenti dell’ordinamento politico e sociale, ricorrendo se necessario alla violenza. Per questo opporsi agli immensi interessi economici in gioco, la repressione che ne seguì dal 1954 al ’66 fu violentissima: corda e catena non fu risparmiata per le migliaia di fondamentalisti arrestati e culminò col l’esecuzione di Sayyd Qutb, il primo grande ideologo dell’integralismo islamico, che nel frattempo si era esteso in Siria e in Libano.
Il risultato immediato ottenuto fu che il movimento si spaccò in due parti: una venne a patti col sistema e non costituì più un problema, l’altro divenne ancor più radicale ed intransigente definendo i governi non islamici infedeli, che per questo dovevano essere distrutti.
La sconfitta egiziana nel 1967 nella guerra con Israele fornì ai fondamentalisti un ulteriore vantaggio; dal ’74 all’’81 i nuovi gruppi che si erano riorganizzati si espressero in una consistente serie di attività violente tra cui il sanguinoso attacco al Collegio Tecnico Militare del Cairo, il rapimento e l’uccisione di un ministro del Waqf (era stato istituito un apposito ministero per la gestione delle ricche fondazioni pie e dei lasciti a scopo di beneficenza), scontri con l’esercito e la polizia nel Medio e Alto Egitto fino all’assassinio di Sadat.
Negli anni ’70 - ’80 il movimento dalle moschee si estese alle università, anche ad opera di militanti provenienti da partiti di vaga ispirazione comunista. Il frasario religioso coranico fu ibridato con nuovi termini allo scopo di dare alla protesta che parte dalla miseria una forma di programma politico. È opportuno osservare che l’adesione al fondamentalismo di parte del proletariato e delle mezze classi in via di proletarizzazione non deriva certo dal richiamo religioso o dall’efficacia della predicazione coranica ma dall’enorme spinta della crisi capitalistica che però non trova nella genuina lotta di classe il suo naturale sbocco, né nel sindacato rosso e nel partito comunista i suoi organi dirigenti. Inoltre in assenza di un forte movimento di trascinamento e di sostegno da parte del proletariato europeo le enormi energie della masse arabe vengono, per ora, dirottate verso falsi obbiettivi religiosi.
Un ulteriore punto di forza per i musulmani di stretta osservanza nonché per gli integralisti riguarda la difesa dell’umma, la comunità dei credenti a carattere sovranazionale. Da un punto di vista quantitativo questa umma supera i 420 milioni di individui nei 29 paesi con oltre il 90% di musulmani. È opportuno però costruire un elenco dei 10 paesi più abitati e fare alcune considerazioni: 1) Pakistan 86,2 milioni; 2) Turchia 56,7; (3 Iran 49,3; (4 Egitto 49,2; (5 Algeria 25,9; (6 Marocco 24,9; (7 Uzbekistan 20,7; (8 Kazakhistan 16,8; (9 Yemen 11,5; (10 Tunisia 7,6. Seguono: Mali, Arabia Saudita e Azerbaigian di poco superiori a quota 7 milioni dopo di che l’ordine di grandezza crolla ancora.
Nessuno di questi paesi supera 100 milioni di abitanti o più precisamente di consumatori che, per gli economisti dell’International Management (ottobre 1990), è il minimo indispensabile per realizzare un’economia globalmente indipendente ed aggressiva sul mercato mondiale. Ovviamente occorrono altre concause tra cui le più evidenti sono un’adeguata massa di capitali, una consistente densità di popolazione ed un livello tecnico ben consolidato. Giappone e Germania unificata si trovano in questa situazione, mente USA e CSI (ex Urss) hanno una massa di consumatori maggiore ma con una bassa densità.
Nella fascia dei 50/100 milioni (Francia, Italia e Inghilterra pressoché a quota 57 per intenderci), soglia perché possa realizzarsi uno sviluppo capitalistico nazionale adeguato con la formazione di una consistente forza proletaria, troviamo a mala pena 4 Stati; altri due sono appena alla metà e i restanti ancor più in basso, relegati al ruolo di province coloniali delle economie più forti.
Ne deriva che attualmente nessun paese è economicamente in grado di costituire, come invece erano state in passato le diverse dinastie, un reale punto di aggregazione di questa comunità sovranazionale; assistiamo invece al fenomeno opposto. I moderni Stati arabi, con le loro frontiere ed eserciti pronti a difenderle, di fatto si oppongono a questa concezione e ne operano la frantumazione in più parti, come hanno agito in modo palese le guerre tra Iran e Irak ovvero il maggior conflitto tra paesi musulmani da oltre un millennio.
Non deve essere stato per niente difficile trasformare e camuffare un contrasto territoriale in un conflitto etnico-religioso: persiani sciiti usurpatori contro arabi sunniti infedeli e con le buone e soprattutto con le cattive mandare la massacro intere generazioni sul confine dello Shatt el Arab per sua santità il Petrolio.
Il fondamentalismo è diffuso prevalentemente fra gli strati più poveri e sfruttati della società e comprende salariati, contadini espropriati ed inurbati, lavoratori e piccola borghesia, che ruota attorno all’economia dei bazar, e parte del clero islamico.
La teoria di questo movimento interclassista si può riassumere in tre punti fondamentali: 1) La modernità laica è il male per antonomasia; infedeli, e quindi da combattere fino alla distruzione, sono i religiosi e i politici che governano secondo schemi laici e moderni; 2) il solo rimedio al male è la ribellione condotta dall’avanguardia dei veri credenti; 3) ad un certo punto la ribellione diviene guerra santa (gihad) che comporta il sacrificio ed il martirio per amore della comunità.
Per ora il proletariato musulmano è neutralizzato dalla borghesia e dal pretume islamico ma quando apparirà chiaramente che nessuna religione può contrastare le devastazioni della crisi capitalista i nostri fratelli di classe individueranno il vero nemico da abbattere fino alla distruzione; il modo di produzione capitalistico.
Riassumendo: con Engels abbiamo visto la circolarità delle rivoluzioni nei paesi islamici tra città opulente e villaggi in miseria, tipica del passato. Lo scontro si presenta oggi modificato dalla crisi capitalistica che oppone tra loro classi economicamente e socialmente diverse: capitalisti e fondiari da un lato, e masse lavoratrici espropriate di tutto, piccoli contadini e miseri artigiani dall’altra.
Il Fondamentalismo è un movimento radicale, che segue, contrapponendosi, a quelli precedenti del Risveglio e del recente Riformismo, che tentava di conciliare le leggi coraniche con le esigenze di sviluppo del capitalismo.
Diffuso tra gli strati più poveri della società il fondamentalismo è un movimento interclassista che, anche mediante azioni violente e di terrorismo diffuso, si oppone alla «modernità laica» ritenuta, in luogo dello sfruttamento capitalistico, la causa delle attuali sofferenze delle masse oppresse.
Ribellione e guerra santa fino al martirio sono i mezzi per abbattere i regimi inquinati e corrotti, di qualsiasi tipo e setta musulmana siano, per giungere infine all’umma, ovvero la comunità di tutti i credenti islamici che non conosce frontiere.
Nessun paese musulmano oggi ha le caratteristiche economiche e produttive,
in senso capitalistico, per essere il potente motore dell’unità dei paesi
o meglio delle forze produttive arabe.
Umma religiosa e pan-arabismo, due miti dell’unità araba
Potenzialmente il mondo arabo tramite il richiamo religioso dell’umma islamica e del pan arabismo ha due punti chiave per iniziare un movimento centripeto per giungere ad una certa forma stabile di unificazione che produrrebbe, fatto per noi ben importante, anche l’unificazione dell’intero proletariato dei paesi islamici.
Attorno a chi non è chiaramente definito, anche se l’Islam fondamentalista svolge comunque un’azione trainante rispetto ad alcuni paesi islamici, pur non avendo completamente quelle caratteristiche economiche e produttive necessarie allo scopo.
Mentre il pan arabismo, come vedremo mediante la rilettura dei nostri testi in merito, ha fallito un primo tentativo, il richiamo religioso che offusca un movimento di masse sfruttate ed affamate, al momento non sembra seguire una strategia derivante da un unico centro dirigente, ma le varie organizzazioni paiono muoversi indipendentemente le une dalle altre concentrandosi prevalentemente sullo scontro diretto di ciascuno contro i propri governi nazionali.
Questa situazione risiede anche nelle secolari e consolidate divisioni religiose; i sunniti non riconoscono un’autorità superiore ma seguono gli indirizzi di diversi capi religiosi; al contrario gli sciiti, come nel caso di Khomeini, eleggono una figura guida a carattere sovranazionale. Secondo l’antica tradizione religiosa l’Islam respinge lo Stato nazionale in favore della comunità dei credenti ovunque si trovino, precetto certamente valido per popolazioni semi nomadi ai margini di vaste aree desertiche ma che per essere applicato attualmente richiederebbe cancellare le frontiere economiche tracciate dall’imperialismo europeo ed americano.
Come non poteva essere diversamente, anche la solidarietà alla comunità musulmana della Bosnia in guerra, tenuto conto dei vincoli e degli impicci diplomatici, non pare sia stata così conseguente nei richiami coranici alla grande umma, al di là di alcuni minimi aiuti simbolici e l’assassinio come ritorsione di alcuni tecnici iugoslavi non musulmani da parte del FIS in Algeria.
Il compito di un vero musulmano oggi, per il fondamentalismo, non è di cercare la verità ma di appropriarsi del potere mediante una guerra santa ed i grandi centri economici, soprattutto quelli europei che controllano i flussi petroliferi, considerano come pericolo reale questi movimenti, che se vittoriosi ed uniti intaccherebbero i loro progetti imposti in quelle aree da oltre mezzo secolo. Per questo l’appoggio da parte dei centri imperialistici ai governi in carica è forte e la sospensione dei turni elettorali in Algeria è stato presentato come fatto stabilizzante contro gli eccessi di una massa di fanatici assassini.
Poco o nulla è detto sull’indebolimento economico, specialmente alimentare, e sulla caduta forzata della rendita petrolifera, rendita che torna solo per una parte insignificante sulla massa della popolazione.
I paesi musulmani, specialmente quelli mediterranei, per i buoni affari di tutti devono rimanere fonte di braccia e materie prime a basso costo e meta di un tranquillo ed economico turismo esotico-culturale che, dopo il primo di una serie di attacchi armati ad una nave crociera sul Nilo nell’ottobre del 1992, è stato dirottato verso zone più sicure, mentre i pulman dei turisti, dopo i ripetuti assalti, sono dotati di scorte armate.
A ben altra guerra santa si rivolgeva il compagno Zinoviev nella prima seduta del Congresso dei Popoli d’Oriente a Baku nel 1920: «Compagni, Fratelli! È arrivato il giorno in cui potete incominciare l’organizzazione della vera guerra santa contro i vostri oppressori. L’Internazionale Comunista oggi si rivolge ai popoli d’Oriente e grida loro; Fratelli! Noi vi chiamiamo alla guerra santa, alla guerra santa in primo luogo contro l’imperialismo inglese!»
Anche il richiamo a quella comunità e solidarietà che non conosce frontiere si esprime in quel documento in modo diverso a quello religioso seguendo l’invito già rivolto nel Manifesto del Partito Comunista del 1848: Proletari di tutto il mondo unitevi!
«Afferrate bene queste parole: Ciascun capitalista inglese non fa lavorare solamente dozzine e centinaia di operai inglesi, ma centinaia e migliaia di contadini in Persia, Turchia, nell’India e negli altri paesi sottomessi al capitalismo britannico. La conclusione quindi che s’impone è che questo miliardo e un quarto di popolazioni oppresse devono unirsi; e che se queste legioni di schiavi si uniscono non ci sarà nessuna forza al mondo che possa soggiogarli a quei briganti che si chiamano «capitalisti inglesi». Inoltre, i rappresentanti dei lavoratori comunisti di tutto il mondo vi rivolgono questo invito e vi offrono il loro aiuto fraterno in questa lotta, così dolorosa, così dura, ma inevitabile».
Inutile ricordare che invito ed offerta sono sempre validi, anzi il perdurare e l’aggravarsi della crisi capitalistica ci unisce ancor più!
La seconda opportunità per l’unificazione degli Stati arabi, cioè il pan arabismo degli anni ’60, rivelò ben presto con il suo fallimento la sua costruzione artificiale. Rileggiamo in Comunismo n. 12/1983 la nostra analisi e valutazione nel capitolo 9: Il mito dell’unità araba. «È la salita la potere di Nasser il fatto importante: tutta la politica di nazionalizzazione della repubblica egiziana riprende la bandiera del panarabismo, della grande patria unita, cerca di ridare vigore alla lega araba costituitasi fin dal 1945, fra Egitto, Arabia Saudita, Yemen, Transgiordania, Irak, Libano e Siria, una lega che aveva mostrato tutta la sua impotenza, tutta la sua inefficacia, tutti i limiti del federalismo nella guerra del 1948 contro Israele. Il primo colpo al rinato panarabismo lo diede l’Irak quando nel 1954 si alleò alla Turchia, entrata due anni prima nella Nato, per poi aderire, nel 1955, al patto di Bagdad che estendeva il patto turco-irakeno all’Iran, al Pakistan e alla Gran Bretagna, e che trovava approvazione e sostegno soprattutto negli Stati Uniti».
Il periodo che segue, di tensioni politiche con continui cambi di alleanze, vede crescere fortemente l’influenza militare russo-americana in progressiva sostituzione di quella franco-britannica fino allo sbarco in Libano nel 1958.
«Commentavamo così questi avvenimenti sul nostro giornale. Il bersaglio del vile atto di forza degli Stati Uniti non è tanto la salvezza del fradicio regime di Chamoun, quanto l’unificazione araba. Non a caso l’intervento armato americano è stato deciso a poche ore dalla rivoluzione antimonarchica dell’Irak che ha fatto giustizia della monarchia filobritannica e dei suoi servi sanguinari. Ai gangster del dollaro preme soprattutto impedire la formazione del grande Stato unitario che è nelle aspirazioni del movimento pan-arabista e quindi salvare le alleanze militari che sono il maggior ostacolo alla unificazione politica dei popoli del M.O. (Programma, n. 14/1958). Ma le fiacche borghesie arabe, giunte troppo tardi sull’arena della storia, espressione di economie deboli totalmente dipendenti dal mercato mondiale temevano assai di più le masse sfruttate e affamate di proletari e contadini poveri che con i loro sommovimenti ne avevano favorito l’andata la potere, delle vecchie classi tribali di cui esse avevano preso il posto e dell’imperialismo internazionale così sovente condannato a parole. La conclusione fu che in tutti i paesi i nuovi governi borghesi immediatamente repressero ogni spontaneo movimento di massa e si accordarono sia con le vecchie classi spodestate che con l’imperialismo dell’Ovest e dell’Est, a seconda dei loro contingenti interessi statali».
Il capitolo si chiude con una precisa analisi della parabola effettuata dagli eventi che hanno segnato il progressivo immiserimento delle masse arabe, ridotte a semplici ostaggi umani ad uso, tramite le borghesie locali, dei progetti economici dei grandi centri del potere capitalistico: «Il fatto tragico, che peserà terribilmente negli avvenimenti futuri, era che il panarabismo non si poteva in nessuna maniera resuscitare, né dal basso – cioè poggiando sui profughi arabi della Palestina, sparsi un po’ in tutto il Medio-Oriente – né tantomeno dall’alto come aveva cercato di fare Nasser. Panarabismo is over, gli appuntamenti storici avuti li aveva clamorosamente mancati e l’irredentismo palestinese non poteva ormai resuscitarlo. Le migliaia di profughi palestinesi ammassati in campi e bidonvilles riflettevano pertanto tutta la tragedia del Medio Oriente, mosaico non di nazioni (che non esistono né in formato minore, né come i fatti storici hanno mostrato, in un solo formato maggiore di unica nazione araba) ma di Stati pidocchiosamente attaccati ai loro interessi particolari, ciascuno legato mani e piedi a questa o quella potenza, ciascuno farneticante una indipendenza economica e politica negata dalla loro reale dipendenza dal mercato mondiale del petrolio o del cotone o dalle forniture di armi dell’una come dell’altra potenza mondiale, ciascuno orgoglioso e superbo quanto prono servitore dei grandi big internazionali, ciascuno retto da pseudo-borghesie avide e succhione o anche da relitti di un passato millenario neppure feudale ma appena tribale».
Su questo scenario si inserisce il movimento fondamentalista scatenato dall’acuirsi della crisi capitalistica che partendo dall’Iran, pur rimanendo nell’ambito di un semplice mutamento di regimi comunque democratico-borghesi, coinvolge violentemente il Sudan, l’Egitto e l’Algeria.
Precetti coranici e generici richiami all’umma, abbandonato il frusto
panarabismo, per ora coprono ancora la dimensione e profondità della crisi
economica che riassumiamo in dati statistici aggiornando le serie precedentemente
pubblicate nel n. 198/1992 del nostro giornale.
"Che cos’è e che cosa vuole il Partito Comunista Internazionalista". Questo è il titolo di un opuscolo diffuso dai nostri compagni nel marzo 1945.
Tra sinistri bagliori di rovina e di morte la seconda guerra imperialista volgeva al suo termine. Alla classe operaia che aveva sopportato sei lunghi anni di guerra si profilava all’orizzonte una fase di "pace" borghese, ossia una pace di sangue, di miseria, di sfruttamento. E, anche se studiosi raffinati del tipo di Franco Livorsi lo considerano "repellente", i compagni del partito della Sinistra avevano ben chiaro che la vittoria degli alleati, per il proletariato, avrebbe rappresentato l’alternativa peggiore perché ciò avrebbe significato "non soltanto una guerra vinta, ma una pace vittoriosa, un consolidamento cioè del capitalismo (...) La vittoria schiacciante delle potenze dell’Intesa (alleate - n.d.r.), rafforzerà potentemente il fronte di resistenza del capitalismo mondiale e restringerà le possibilità obiettive della rivoluzione proletaria. Si ha la riprova della giustezza di questa analisi nella constatazione che una parte del proletariato "sente" la guerra democratica e guarda ad essa ed alla sua vittoriosa conclusione come se si trattasse della "sua" guerra e della "sua" vittoria" (dallo Schema di Programma - settembre 1944).
Gli Stati non entrano in conflitto per imporre al mondo regimi sociali o politici simili a quelli vigenti al loro interno, le ragioni della guerra imperialistica sono ben altre, come è dimostrato da tutte le analisi elaborate da Marx, Lenin e dalla Sinistra comunista. Gli Stati fascisti, lo abbiamo più volte scritto e dimostrato, furono battuti sul campo di battaglia, ma il metodo fascista ha vinto imponendosi a scala mondiale ed i vincitori imperialismi democratici ne sono divenuti gli esecutori testamentari. In altre parole ciò significa che le esigenze di difesa degli istituti capitalistici, che imposero alle borghesie di impiantare Stati dittatoriali, sarebbero state alla base di ogni regime borghese e le misure fasciste sarebbero state adottate da tutti gli Stati democratici, con in più l’ipocrisia e l’inganno della libertà.
L’onore e l’onere di drogare il proletariato mondiale attraverso questa ipocrisia e quest’inganno è toccato ai partiti nazional-comunisti ed alla Russia stalinista.
La Sinistra, che era stata la sola che aveva condotto una coerente lotta contro tutte le forme della guerra imperialista, fu anche la sola a combattere contro la pace altrettanto imperialista e controrivoluzionaria.
Si poneva quindi la necessità di distinguere il partito da ogni altra formazione politica, tanto più se si richiamava, a parole, al comunismo e a Lenin, e di indicare alla classe operaia le invarianti linee rivoluzionarie di classe. Questo è quanto martella lo scritto che qui ripubblichiamo. Innanzi tutto il partito esibisce la propria identità politica rivendicando il continuo programmatico e dottrinale che, da Marx, passa attraverso tappe fondamentali quali: le Tesi del II Congresso dell’Internazionale Comunista, la scissione di Livorno, le Tesi di Roma (1922), l’estremo tentativo, nel periodo della Frazione all’estero, di ricondurre il Partito e l’Internazionale sulla via tracciata da Lenin.
Rispondendo a coloro che polemicamente affibbiavano etichette quali "sinistri", "bordighisti", "trotskisti", veniva chiarito che il partito era composto esclusivamente da "comunisti", non essendo esso vincolato a nomi di personaggi illustri, ma solo al programma. Per quanto riguarda poi i trotskisti venivano prese le distanze da queste formazioni la cui tattica aveva dimostrato di andare ben fuori dal tracciato del comunismo rivoluzionario. Ribadiva la propria ostilità nei confronti di qualsiasi fronte di guerra ed enunciava la necessità di un partito rivoluzionario capace di prendere la guida dei movimenti di classe. Veniva quindi riaffermata la totale avversione al parlamentarismo elettoralesco e si poneva il problema dell’inquadramento dei lavoratori dentro un sindacato unitario e libero, che avrebbe dovuto rinascere attraverso l’organizzazione nei posti di lavoro di strutture esterne ai sindacali ufficiali ed ai CLN aziendali, infeudati allo Stato e ritenuti non più conquistabili.
Altro punto era l’impegno di intensificare la propaganda tra la massa dei contadini per attrarre alla influenza del partito, oltre ai braccianti, anche i piccoli proprietari ed i coloni.
Contro l’illusione che la classe operaia potesse ottenere dei benefici
attraverso interventi di statizzazione (come già il fascismo repubblichino
aveva fatto con le "socializzazioni"), si ribadiva la necessità della
presa violenta del potere. Da ciò scaturiva la necessità della ricostituzione
dell’organismo politico internazionale che avrebbe dovuto poggiare sulle
basi già poste dalla III Internazionale, ma "completato" dalle successive
elaborazioni della Sinistra e dall’esperienza di un ventennio di lotte.
(Opuscolo in deposito presso l’Archivio Storico della Resistenza in Toscana, Firenze)
CHE COS’È E CHE COSA VUOLE
IL PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALISTA
CHI SIAMO ?
Il nostro partito non è uno dei tanti partiti nati artificialmente dalla fungaia dell’antifascismo generico, ma è il continuatore diretto del Partito Comunista d’Italia, così come si formò dalla scissione di Livorno sulle basi fondamentali delle Tesi del II Congresso dell’ Internazionale Comunista (1920) ed agì e operò nei suoi primi anni di vita. Le basi ideologiche che allora furono gettate rappresentano per noi una realtà permanente, la necessaria linea di demarcazione di ogni partito comunista degno di questo nome. Esse si riassumono nel taglio netto col riformismo, col centrismo e con la tattica della collaborazione, nel principio che l’emancipazione del proletariato può essere ottenuta solo attraverso la presa violenta del potere e l’esercizio della dittatura proletaria contro la classe sfruttatrice, e che la vittoria della rivoluzione comunista è possibile solo su scala internazionale, così come internazionali sono i problemi che agitano la classe operaia di tutti i paesi.
Questi principi, che hanno presieduto alla rivoluzione russa, ma che
hanno trovato la loro più lucida espressione nella piattaforma politica
del Partito Comunista d’Italia (tesi di Roma, 1922), sono stati difesi
dagli uomini della Sinistra quando ancora reggevano il timone del partito
da essi creato e quando, nel 1923, furono arbitrariamente allontanati dalla
direzione del partito; lo furono più tardi quando la Sinistra si organizzò
in frazione (1927) nell’estremo tentativo di ricondurre il partito stesso
e l’Internazionale sulla via maestra tracciata da Lenin; lo sono oggi,
da quando l’impossibilità di condividere la politica di compromesso e
di adesione alla guerra di tutti i partiti comunisti degeneri consigliò,
in pieno conflitto mondiate, il definitivo distacco dal centrismo e la
creazione di un partito di classe che, appunto per reazione al bellicismo
e opportunismo nazionali del vecchio partito, si chiamò "Comunista Internazionalista".
SINISTRI O, SEMPLICEMENTE, COMUNISTI ?
Noi siamo la Sinistra italiana nella sua continuità ideologica e organizzativa; e lo riaffermiamo. E’ stata la Sinistra italiana la prima, fra tutti i partiti dell’Internazionale, a gettare il grido di allarme sugli smarrimenti e sulla successiva degenerazione della III Internazionale; è stata essa, nel lavorio ideologico della Frazione all’estero, a trarre le logiche conseguenze dall’esperienza delle lotte del proletariato nel ventennio dell’altro dopoguerra.
Ma, a chi ci accusa di essere "scissionisti", noi rispondiamo che oggi
non esiste più una questione di "sinistra" o di "centro", poiché si tratta,
semplicemente, di rimanere sul piano di classe o di abbandonarlo, di essere
o non essere comunisti, in altre parole di scegliere fra democrazia progressiva
e rivoluzione proletaria. Non diversamente ventiquattro anni fa, si trattava
di scegliere fra il riformismo, il massimalismo e la tattica anticollaborazionista,
antipatriottarda e francamente rivoluzionaria di Lenin. Non noi abbiamo
scisso e scindiamo le forze rivoluzionarie del proletariato, ma coloro
che, in piena guerra mondiale, sono stati per "l’unità nazionale" e per
la "difesa della patria" e oggi, all’aprirsi della crisi più profonda
del regime capitalista, orientano il proletariato verso la legalità borghese
e il compromesso politico, anziché verso la rivoluzione.
trotskISTI ?
L’etichetta che ci è spesso affibbiata di "trotskisti" è soltanto polemica e quindi falsa: non solo perché non siamo vincolati a nessun nome e a nessuna personalità fisica, per grande che sia, ma perché dal "trotskismo" ci hanno diviso e ci dividono profonde divergenze. Non saremo noi a negare i meriti storici di Trotski nella realizzazione dell’Ottobre russo e nelle prime e gloriose battaglie dello Stato operaio. Ma siamo stati e siamo noi i primi a riconoscere quanto nel "trotskismo" porta la responsabilità del fallimento dello Stato operaio e dell’Internazionale, e a condannare sia una concezione della tattica e del compromesso che doveva costantemente porlo sullo stesso piano del centrismo internazionale, sia quel concetto della "difesa della patria", anche se proletaria, che rappresenta per noi una frattura ideologica ed organizzativa dell’internazionalismo operaio.
Perciò, mentre ci siamo più volte trovati accanto alla Sinistra russa
nella lotta contro le manifestazioni degenerative dell’Internazionale,
non abbiamo condiviso né il tono acremente personale della polemica trotskista,
né la sua costante tendenza al blocco, e abbiamo ritenuto prematura e
viziata nelle sue basi ideologiche la fondazione della IV Internazionale.
LA NOSTRA ANALISI DELLA SITUAZIONE PRESENTE
Nel corso del secondo conflitto mondiale, il nostro partito è stato l’unico raggruppamento operaio a levare la bandiera dell’internazionalismo e della lotta di classe al di sopra e contro l’ubriacatura patriottica e collaborazionista degli opportunisti. Ha combattuto la guerra come la più mostruosa manifestazione del capitalismo imperialistico e come un riuscito tentativo di portare decisamente a termine la lotta contro il proletariato, e ha ripugnato così dall’ideologia della "guerra fascista" come dall’ideologia della "guerra democratica". Ha perciò chiamato la classe operaia a combattere il fascismo non con le armi infami della guerra, ma con le armi politiche della lotta di classe, e l’ha messo in guardia contro le manovre di chi, per combattere il fascismo, lo buttava nelle braccia delle democrazie. Per noi la guerra o si concludeva con la sua trasformazione in guerra civile o si sarebbe conclusa con una "pace" borghese sotto etichetta democratica, allo stesso modo che il fascismo o cadeva sotto i colpi della rivoluzione proletaria o avrebbe ceduto i poteri ai rappresentanti in veste antifascista della stessa classe che l’aveva generato.
A questo modo crudamente marxista di analizzare le situazioni storiche i fatti hanno dato ragione. In Italia la lotta eroica contro il fascismo si è conclusa col pacifico trapasso di poteri dalla borghesia fascista a quella democratica, senza modificare le basi della società borghese e i rapporti fra padrone e operaio: sul piano internazionale la guerra si è conclusa, senza l’intervento di fattori rivoluzionari, con la vittoria militare, politica ed economica del capitalismo internazionalmente più saldo, il capitalismo americano.
Ma, mentre constatiamo questo, riteniamo che anche la fine della guerra
abbia aperto una fase di profonda crisi borghese, e che in questa crisi
il proletariato italiano e mondiale possa inserire la sua lotta finale
per il potere. Ad una condizione però: che abbia una guida, la guida di
un partito rivoluzionario non compromesso in ibride alleanze politiche
e in fallaci combinazioni parlamentari.
PARLAMENTO, COSTITUENTE O PRESA DEL POTERE ?
Il nostro compito è oggi appunto questo: rinsaldare i quadri di un partito che tenda con tutte le sue energie a guidare il proletariato verso la sua rivoluzione. Noi non abbiamo cessato, mentre combattevamo il fascismo, di sfatare le ricorrenti illusioni democratiche: oggi che da tutte le parti si levano inni alla democrazia, non tralasciamo dal mettere in guardia il proletariato contro l’illusione che il potere si conquisti attraverso la scheda elettorale o che al socialismo si vada per via legale, a suon di decreti legge emanati da un governo di maggioranza socialista o centrista.
Allo stesso modo, noi sottoponiamo ai colpi della critica marxista la Costituente, in cui vediamo sia un metodo di consolidamento del regime borghese, sia il tentativo di far arenare nelle secche della legalità e del parlamentarismo la marea montante della rivoluzione proletaria. E se il nostro partito deciderà di partecipare alle elezioni, questa sua decisione non sarà mai influenzata dalla preoccupazione di conquistare seggi nelle amministrazioni comunali e provinciali o in parlamento, ma da ragioni di battaglia politica e di difesa dei nostri quadri dalla dittatura della coalizione democratica.
Noi saremo per la partecipazione alle elezioni se la situazione non
porrà nei prossimi mesi in termini di concrete possibilità pratiche il
problema della rivoluzione, ma saremo per l’astensione e per il sabotaggio
della Costituente se la situazione evolverà verso un urto diretto fra
proletariato e borghesia e tutte le energie della classe operaia dovranno
allora essere tese alla conquista rivoluzionaria del potere.
SINDACATI E ORGANISMI DI MASSA
Noi siamo sempre stati, e rimaniamo, fautori del sindacato unitario e libero, che cioè comprenda tutti gli operai della stessa categoria e, fuori da ogni sudditanza dallo Stato, riconosca a tutte le correnti sindacali la piena libertà di espressione nelle assemblee ed agli iscritti la libertà di eleggersi i dirigenti. Gli stessi criteri organizzativi rivendichiamo per le commissioni interne e per tutti gli organi analoghi sorti a difesa degli interessi delle maestranze contro gli imprenditori.
Ma, edotti da una lunga esperienza, riteniamo che i sindacati non siano né possano mai essere gli organi genuini della lotta di classe, sia per il prevalere degli interessi corporativi a danno delle finalità politiche in seno ad essi, sia per i vincoli che attualmente li legano allo Stato, né ci illudiamo di poter smantellare nel loro ambito il tradizionale predominio della burocrazia confederale.
Crediamo che, nella fase di crisi economica che si sta aprendo in Italia
e nel mondo, il proletariato dovrà cercare gli strumenti della sua lotta
in organismi nati sul posto di lavoro e convoglianti senza interferenze
funzionaristiche tutta la massa degli operai. Questi organismi sono i Consigli
di fabbrica, che, eletti democraticamente, non infeudati allo Stato né
ai sindacati di categoria, rappresenteranno la più viva palestra di formazione
politica e rivoluzionaria del proletariato, la più efficace leva per la
conquista del potere e, a rivoluzione compiuta, l’organo-base della gestione
proletaria delle fabbriche. Sono questi gli organismi che noi contrapponiamo
ai CLN aziendali, organi nati di riflesso dalla politica di collaborazione
dei cinque partiti e perciò costituzionalmente legati allo Stato borghese-democratico.
LA CRISI DEL DOPOGUERRA E LA CLASSE OPERAIA E CONTADINA
I mesi prossimi saranno caratterizzati da una crisi economica che inciderà profondamente sulle condizioni di vita del proletariato e che non sarà superata neppure dal tentativo del gruppo delle potenze capitalistiche vittoriose di ossigenare l’economia italiana e di regolare le concessioni di viveri e di materie prime in funzione di un suo infeudamento alle rispettive economie. L’Italia dovrà affrontare non solo un periodo di carestia e di faticoso trapasso dall’economia di guerra all’economia di pace, ma sarà schiacciata sotto il peso dei debiti contratti dal vecchio regime e da quelli che il nuovo sarà costretto a contrarre. Di questa crisi l’operaio risentirà direttamente come salariato, come consumatore e come contribuente, e non mancherà di agitarsi per quella soluzione dei suoi problemi di vita che nessuna democrazia borghese potrà mai garantirgli.
Il partito lo sosterrà in questa lotta tanto attraverso la propaganda e l’agitazione politica quanto attraverso gli organismi sindacali e di massa, ma non si stancherà di dimostrargli che qualunque "miglioramento" parziale delle sue condizioni di vita è destinato a rimanere illusorio finché non sarà distrutto il regime di sfruttamento del lavoro caratteristico del sistema di produzione borghese.
La crisi avrà violente ripercussioni anche sulla classe contadina e farà presto svanire l’euforia dei facili guadagni realizzati da alcune categorie rurali in regime di guerra. In un paese in cui la classe contadina è composta da un largo strato di salariati e da un’enorme massa di piccoli proprietari e coloni, l’indebitamento e la fame di terra conseguenti al conflitto renderanno ancor più fragili le basi dell’economia agraria e agiteranno non soltanto gli strati contadini naturalmente inclini a combattere la stessa battaglia del proletariato industriale - i braccianti-, ma anche i piccoli proprietari e coloni che solo in un successo della rivoluzione proletaria potranno sperar di uscire dalla morsa della pressione fiscale e dei prestiti usurari. Il nostro partito asseconderà queste agitazioni non solo mobilitando il contadiname povero contro il giogo del grande capitale, ma convincendolo dei concreti vantaggi di una rivoluzione che, mentre procederà bensì alla collettivizzazione immediata delle grandi e medie proprietà capitalistiche, non può porsi come compito immediato l’abolizione della piccola proprietà terriera, ma la sua liberazione dai gravami che oggi la soffocano e la sua graduale integrazione nell’economia socialista attraverso forme cooperative, consortili e simili.
D’altra parte, attorno ai Consigli di fabbrica e di azienda saranno
portati a gravitare come forze ausiliarie della rivoluzione quegli strati
impiegatizi ed intellettuali che per condizioni economiche non si differenziano
quasi affatto dalla classe operaia, ma ne sono tenuti lontani in tempi
normali da una diversità di condizioni sociali e di abitudini di vita.
LA CONQUISTA DEL POTERE
Tuttavia, le lotte che il proletariato industriale e agricolo, fiancheggiato dall’esercito dei contadini poveri e da alcune categorie piccolo-borghesi, condurrà in questa fase della vita politica italiana e mondiale avranno importanza e significato non in sé, ma solo in quanto momenti successivi di una lotta più vasta che deve condurre il proletariato al potere per l’edificazione socialista.
Per il nostro partito le socializzazioni, statizzazioni e nazionalizzazioni di cui tanto si parla nei cosiddetti ambienti di sinistra, anche se realizzate col controllo di organismi operai, non sono che espedienti per il salvataggio del profitto capitalistico se non sono precedute dalla conquista del potere da parte della classe lavoratrice. E la via che porta a tale conquista non passa per le elezioni e la Costituente, né per i "governi del popolo", ma implica l’atto violento della rivoluzione. Premessa necessaria di quest’ultimo è l’esistenza di un partito fondato su basi di rigorosa intransigenza e intimamente legato agli organismi di classe in cui si esprimono gli interessi, le esigenze e le aspirazioni del proletariato.
Solo dopo l’atto violento della presa del potere, il proletariato, e
il partito attraverso il quale si eserciterà la sua dittatura, potranno
attuare quelle profonde trasformazioni della vita economica che devono
portare ad una organizzazione sistematica della produzione sociale per
fini sociali e alla soppressione di qualunque privilegio di classe. La
dittatura del proletariato sulla classe vinta poggerà da una parte sulla
compattezza del partito della rivoluzione e, dall’altra, sul più largo
esercizio della democrazia operaia in tutti i gangli dello Stato, negli
organismi sindacali e dentro il partito stesso.
LA NUOVA INTERNAZIONALE
Poiché riteniamo che le lotte del proletariato italiano siano legate nel loro divenire e nei loro destini alle lotte del proletariato mondiale, uno dei punti fermi della nostra concezione politica è l’urgente necessità di un organismo internazionale che quelle lotte coordini e, mantenendosi immune dalle forme di degenerazione della II e della III, reagisca pure alle inevitabili tendenze involutive dello Stato operaio.
Questa nuova internazionale non può nascere che sulle basi di partenza dell’Internazionale di Lenin, completate dalle successive elaborazioni della Sinistra e dalle esperienze di un ventennio di lotte. Essa si garantirà contro il pericolo dell’irrigidimento funzionaristico con tanto maggior efficacia quanto più solida e chiara sarà la sua piattaforma di partenza e quanto meno subordinerà la sua linea politica agli interessi mutevoli e alle esigenze contingenti dello Stato proletario.
Solo su queste basi sarà possibile al proletariato italiano, dopo tante eroiche lotte e tanti sanguinosi sacrifici, la vittoria.
Seguono due articoli apparsi, nel luglio ed agosto 1946, nel periodico "Battaglia Comunista", l’allora organo del partito.
Il 14 agosto 1941, Roosevelt e Churchill, firmarono quella dichiarazione di principi che è poi passata alla storia con il nome di Carta Atlantica. Gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra, ma per bocca del loro presidente, avevano dichiarato di voler essere "l’arsenale delle democrazie". La Carta Atlantica, nella sua ipocrita formulazione, avrebbe dovuto costituire una sorta di manifesto ideologico contrapposto al "Nuovo Ordine" bandito da Hitler, e, gli otto punti che la componevano "dopo la definitiva distruzione della tirannide nazista" avrebbero dovuto essere alla base della nuova era di pace.
Il 1° gennaio 1942 venne sottoscritta, da 26 paesi, la dichiarazione delle Nazioni Unite nella quale si leggeva che "una vittoria sui comuni nemici sia essenziale per la difesa della vita, della libertà, dell’indipendenza e della libertà di coscienza e per preservare i diritti umani e di giustizia". E tutto questo ben di dio non si sarebbe realizzato soltanto all’interno dei 26 paesi, ma in tutto il mondo. La guerra si trasformava in sacra crociata "contro le forze selvagge e brutali che tentano di soggiogare il mondo".
Non ci fu bisogno di aspettare la fine della guerra per rendersi conto di quello che valessero i principi di libertà, democrazia e giustizia sociale in nome dei quali era stata condotta la guerra santa contro il nazifascismo. In nome di questi principi circa 50 milioni di esseri umani erano stati macellati (la metà di questi tra la popolazione civile - ufficialmente viene calcolato il 48%), molte città erano state totalmente rase al suolo, intere regioni completamente devastate, la fame mieteva migliaia di vittime nel cuore stesso delle roccheforti capitaliste d’Europa. Ai deportati nei campi di concentramento e di lavoro forzato, agli stermini di massa perpetrati non al fronte, vanno aggiunte le deportazioni e le espulsioni di milioni di uomini dalle loro sedi (Alla fine della guerra furono quasi nove milioni i tedeschi cacciati dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria e dai territori incorporati dall’Urss).
Gli imperialismi vincitori si gettarono con la ferocia e l’avidità delle iene sulle spoglie delle nazioni vinte, specialmente sui loro proletariati; senza per questo tralasciare di far pesare tutti i costi dell’eccidio, della distruzione e della ricostruzione sulle classi operaie degli stessi paesi vincitori. I proletari di tutti i paesi, vincitori e vinti, furono schiacciati sotto il giogo della collaborazione di classe. «Questa collaborazione nel ricostruire l’accumulazione capitalistica incendiata nella tragedia bellica non è in realtà che il più feroce asservimento delle forze del lavoro ad una doppia estorsione; quella che genera il normale profitto del padronato, e quella che andrà a ricostituire il colossale valore del capitale distrutto. Questa fase sarà per le classi dominanti più onerosa sotto altre forme di quella sanguinosa della guerra, ed il nuovo organismo internazionale a cui si vuole assicurare la collaborazione proletaria, sotto il pretesto di garantire la sicurezza e la pace, sarà il primo esempio di una impalcatura conservatrice mondiale, diretta a perpetrare l’oppressione economica e a spezzare ogni conato rivoluzionario» (Prometeo, 1947).
Se i grandi partiti a base proletaria, venduti agli interessi nazionali ed imperialistici, avevano impegnato tutta la loro attività per attrarre nell’ottica della guerra imperialista il proletariato facendolo schierare sull’uno o sull’altro (od anche su ambedue) fronte di guerra con l’illusione che la battaglia della civiltà contro la barbarie avrebbe partorito un mando più giusto, i briganti imperialisti pensavano solo alla spartizione del bottino che la guerra, con le sue distruzioni e con i suoi nuovi equilibri internazionali, avrebbe potuto loro fruttare. Essi sapevano che la pace imperialista non è altro che un intermezzo fra due guerre e quindi si imponeva loro la necessità di acquisire le migliori posizioni possibili sia per lo sfruttamento capitalista, sia come capisaldi strategici militari.
A questo scopo i Tre Grandi si erano incontrati, e soprattutto...scontrati, a Teheran, nel novembre 1943 e a Yalta, nel febbraio 1945. Se in queste due conferenze era stato possibile, anche perché ancora la guerra era in corso, dare l’impressione di una certa unità di vedute tra Roosevelt, Churchill e Stalin, questo non accadde a Postdam, nel luglio 1945. A Postdam si ebbe la rottura della falsa collaborazione e vennero chiaramente alla luce i contrasti insanabili tra gli imperialismi vittoriosi. Non potendo trovare, durante questa sessione, accordo di sorta, la definizione dei trattati con i paesi ex alleati della Germania venne rinviata ad una successiva "Conferenza dei 21".
La conferenza di "pace" che fu tenuta a Parigi dal luglio all’ottobre 1946, in barba alla Carta Atlantica ed a tutte le solenni dichiarazioni, fece strame di ogni principio democratico, delle aspirazioni dei popoli, dei diritti alla autodecisione, etc, etc, etc.
La Sinistra comunista aveva costantemente ammonito il proletariato che la partecipazione alla guerra, sia pure partigiana, equivaleva a schierarsi per una delle due costellazioni imperialistiche. A riprova della giustezza delle nostre posizioni vogliamo riportare le affermazioni di due personaggi non sospetti di intelligenza con il comunismo: lo storico stalinista E. Ragionieri e l’ultra reazionario Vittorio Emanuele Orlando. Ragionieri: «Le speranze sollevate dalla cobelligeranza con l’alleanza antinazista, l’impegno ed i sacrifici profusi dalla generosa e larga minoranza che aveva partecipato attivamente alla liberazione del paese erano duramente frustrati dall’orientamento complessivamente punitivo che le grandi potenze, a turno, assumevano per i confronti dell’Italia per motivi legati di volta in volta ad interessi ben precisi». Orlando: «Notizie ci pervengono circa i patti e le condizioni di una pace che sarebbe orribile" e che "ci umilia con l’offesa sanguinosa ai marinai, ai soldati, agli aviatori, ai partigiani che han combattuto e sono morti a decine di migliaia, trasformandoli in mercenari, poiché si sarebbero battuti per uno straniero che ci considerava e continua a considerarci come nemici».
Ecco per che cosa sono morti i proletari, i partigiani, i volontari
della libertà. Più espliciti di così i nostri nemici non potrebbero
essere.
(Battaglia Comunista - n. 21 - luglio 1946)
LA PACE IMPERIALISTICA PREPARA IL TERZO MASSACRO MONDIALE
Queste righe saranno forse già in macchina quando i quattro ladroni avranno concluso a Parigi le laboriosissime trattative di compravendita del loro bottino, e calato il sipario sul più disgustoso spettacolo che la storia del capitalismo abbia mai regalato ai proletari.
Ma non sono i particolari tecnici dell’accordo (se di accordo si può parlare) che possono modificare le linee generali della situazione. E la situazione è che le grandi potenze liberatrici si sono riunite a Parigi soltanto per spiare i termini e le occasioni di un terzo macello imperialistico.
Anziché appianarsi, il contrasto si è acuito affiorando in ogni questione, anche in quelle che potevano sembrare protocollari: accordo c’è stato, questo sì, nella comune determinazione di trattare il mondo "liberato" come un cadavere da sezionare, e i singoli paesi come l’oggetto di un baratto nel gioco dei conflitti imperialistici. Un compenso alla Francia per i suoi servizi di mediazione; una soddisfazione alla Iugoslavia (cioè alla Russia) nella questione di Trieste, contro una soddisfazione all’Inghilterra nella questione delle colonie; tutte questioni sospese in cui l’Italia ha avuto il compito di far da "cavia" agli esperimenti di "democratizzazione" del mondo come l’atollo di Bikini a quelli dell’impiego civilizzatore della bomba atomica. E un nuovo punto interrogativo si è aperto, quello di una conferenza della pace in cui ognuno dei maggiori contendenti pensa di manovrare una congrua maggioranza di Stati minori, e si riserva in ogni caso di mandare a carte quarantotto la pomposa organizzazione delle Nazioni Unite con l’arma di riserva del veto. Sono queste le nazioni che giurarono di far la guerra per garantir la pace, le nazioni che chiamarono i proletari di tutti i paesi a lottare contro... il fascismo, per la giustizia internazionale, per la libertà - proprio quella! - dalla paura!
Altrettante soluzioni fatte apposta per lasciar viva negli anni venturi la "sacra fiamma" della guerra. Un ridicolo stato internazionalizzato in un cantuccio del golfo di Trieste, condannato a morir di morte lenta o a finir nelle grinfie voraci dell’imperialismo "comunista" di Tito, salvo a farsi rioccupare per le solite ragioni di sicurezza dall’esercito, alleato naturalmente, degli angloamericani (e c’è già chi fin da oggi lo auspica...); una sistemazione delle riparazioni o degli indennizzi per cause di guerra che preclude all’Italia una qualsiasi possibilità di rinascita che non sia quella dovuta alla sua colonizzazione da parte di uno dei reggitori del mondo: un trattamento spregiudicatamente piratesco che sembra fatto apposta per ricordare alla neonata repubblica che i tre grandi hanno fatto la guerra per ben altro che per liberarci dal re o per assicurarci la democrazia, e per ricordare a questi miserabili partiti litiganti intorno all’osso del potere, ciascuno col suo bel programma e con un bagaglio sfolgorante di demagogia, che il loro destino è soltanto quello di far da pedine al gioco dei loro padroni della fu "guerra democratica". E, in questa cornice, tutto un insieme di problemi che si accavallano: le riparazioni austriache, la divisione e l’occupazione della Germania, la sorte dei Balcani, il destino delle colonie, tutti in un modo o nell’altro aggiornati, poiché, nel linguaggio imperialistico del secondo dopoguerra mondiale, far la pace significa soltanto guadagnar tempo per rifare al momento più opportuno la guerra.
Ma non è su questi aspetti appariscenti della questione che noi vogliamo tuttavia insistere. Quello che è tragico, nella situazione che si va creando, è la deformazione di tutta la vita politica e delle battaglie del proletariato, che attraverso questo gioco si compie. La politica dei "tre grandi" non prepara soltanto le condizioni oggettive della guerra, non è soltanto essa stessa una forma mascherata di fascismo: ma prepara le condizioni soggettive della prima e i fermenti del secondo in tutti i paesi sottoposti al loro splendido lavoro di cesello. Tale è il disorientamento delle masse operaie che riprende rigore l’irredentismo; a Trieste proletari combattono contro proletari; un’atmosfera maledetta non già di rivolta alla guerra ma di accettazione della guerra si va diffondendo dovunque. Si protesta contro la Francia come se delle deliberazioni di Parigi non fossero prima di tutto imputabili i tre grandi coi loro nomi di America, Inghilterra e Russia; si giura di voler vendicare le offese; ci si addossa a vicenda le responsabilità di un a politica tanto miope; i democristiani accusano i nazionalcomunisti e questi quelli, come se in Francia Thorez non valesse Bidault; i filoinglesi se la prendono con la voracità di Molotov come se Bevin non avesse altrettanto appetito; tutta la vita politica nazionale non fa che riprodurre in uno specchio torbido le miserande contese fra Stati infinitamente più grandi di loro. Tutto falsato: la lotta di classe trasferita su un terreno di contese imperialistiche e di rivendicazioni nazionali, la lotta fra partiti ridotta ad una sapiente regia diplomatica esercitata da questa o da quella potenza, il fascismo covato dalle stesse forze che si sono dette antifasciste, i proletari chiamati ad odiare inglesi o russi, americani o francesi, come erano stati chiamati ad odiare, un anno prima, tedeschi o antitedeschi, giapponesi o antinipponici.
È questo l’aspetto più drammatico di questa "pace" venuta a sancire il trionfo della democrazia nel mondo (anzi, del socialismo, come dicevano i grandi cartelli pubblicitari invitanti i proletari a votare come aveva votato tutta la terra, cioè per... il socialismo!), ed è in questo che le potenze imperialistiche in urto fra loro sono perfettamente alleate, "nazioni unite" davvero. Alleate ed unite nel disorientare le masse operaie, nel creare con regia superba la psicologia della guerra, nel deformare il senso delle lotte politiche. Poco importa, a loro, che la nascita tanto idealizzata della repubblica – quella repubblica democratica che avrebbe dovuto riscattarci definitivamente rispetto al mondo "civile" – coincida con la più sfacciata applicazione dei metodi schiavistici; poco importa loro (al contrario!) che questo curioso metodo di terapia liberatoria fomenti un nuovo fascismo per il quale si sono, curiosa coincidenza, riaperte proprio ora le porte delle galere ai tecnici del giornalismo patriottardo e revanscista: quel che importa ai tre è di chiudere nel cerchio di ferro della loro politica il proletariato, e di non lasciarvelo uscire. La democrazia si difende così: dovremmo essere grati ai dominatori del mondo di avercelo detto con tanta franchezza!
Il proletariato deve spezzare questo cerchio magico, dire con estrema decisione che non esistono per lui "questioni nazionali" da rivendicare e bandiere patrie sotto cui combattere, non lasciarsi allettare dalle lusinghe di nessun imperialismo, orientale od occidentale, e buttare in faccia a questi maledetti partiti della guerra, di destra o di cosiddetta sinistra, nazionalisti puri o con codino socialista o comunista, qualunquisti ed antiqualunquisti, il nome che si meritano. La via della ripresa proletaria è fuori da questo sanguinoso incrocio di volontà imperialistiche: non soltanto fuori, ma contro.
Possa almeno capire il proletariato, attraverso, questo calvario senza fine, che la sua battaglia non si combatte e non si combatterà mai nelle trincee: che l’obiettivo della sua lotta non è la democrazia borghese, ma la rivoluzione comunista; che c’è una scelta definitiva da compiere, oggi, al più presto, fra l’inganno del "capitalismo che si riforma" e la realtà del "capitalismo che si distrugge", fra i partiti che fanno in ogni paese i commessi viaggiatori della guerra ed il partito che ricostituisce lentamente e faticosamente, contro tutto e contro tutti, i quadri della rivoluzione proletaria.
La storia non ammette vie intermedie: gli esperimenti di Bikini sono
stati il miglior commento borghese alla conferenza di Parigi. A quando
il commento proletario?
(Battaglia Comunista - n. 23 - agosto 1946)
QUI SI CUCINA LA PACE
Sul tavolo anatomico di Parigi non c’è solo il cadavere dei vinti: c’è quello della pace e c’è quello della democrazia. Le 17 potenze minori [1] sono state convocate per assistere a tre funerali.
Funerale della democrazia, giacché le potenze minori hanno un bel gonfiarsi, pretendere di aver voce in capitolo, ergersi a paladini della Carta Atlantica e delle quattro libertà di rooseveltiana memoria: la storia ha già deciso del loro destino. Se ha dato loro appuntamento a Parigi, è stato solo perché prendessero atto di una realtà più forte di qualunque programma, il loro compito non è di costruire la pace: pedine dei Tre Grandi, sono chiamate a far da cornice ai loro agitati colloqui. Non legiferano: "raccomandano" ai Grandi soluzioni delle quali essi faranno quel diavolo di conto che credono. E, valendosi del veto o dell’arma ad effetto sicuro della maggioranza di due terzi, il terzetto dei dominatori, o uno solo di essi, potrà impedire che perfino la semplice raccomandazione giunga in porto. Non tira aria buona, al Lussemburgo, per i parenti poveri: e la democrazia universale è, nella fase monopolistica ed accentratrice del capitalismo, il più straccione dei parenti.
Funerale della pace, giacché è in atto uno schieramento di forze che fa pensare alle grandi manovre di due nazioni sul punto di entrare in guerra fra loro. Fare il calcolo dei voti su cui l’Inghilterra, l’America e la Russia potranno contare nelle prossime sessioni della Conferenza della Pace, è come fare il calcolo dei popoli che i Tre potranno mobilitare sotto le più sgargianti bandiere ideologiche, per un altro bagno di sangue. Non per nulla le "questioni di procedura" hanno avuto il potere di infiammare gli animi pur così gelidi dei diplomatici: la procedura è tutto, quando si tratta di dar la sanzione del voto a un rapporto di forza e raccogliere intorno alla difesa di interessi imperialistici un numero adeguato di umilissimi servi. I diciassette rappresentanti delle nazioni minori sono stati convocati al Lussemburgo perché ognuno avesse il piacere (già più volte goduto dai ministri degli esteri dei quattro) di guardare bene in faccia il loro avversario.
Tragico destino di popoli che hanno fatto la guerra per conto di tre strapotenti padroni, e che si sono illusi di valere quanto loro nella pace!
* * *
Funerale dei vinti, corollario naturale degli altri due. Un anno è passato dalla liberazione e in questo anno i vincitori hanno creato nei paesi occupati uno stato di fatto che nulla, né la demagogia dei discorsi di stile societario di qualche delegato, né quella ancor più miseranda dei governi interessati, potrà modificare. Ci si meraviglia che l’Italia sia ridotta a semicolonia anglosassone e i Balcani a semicolonia russa, come se questa condizione non fosse sancita da più di un anno di occupazione e come se non si trattasse ormai di contabilizzare, semplicemente, una rapina già avvenuta. Clausole finanziarie, clausole territoriali -tutti svolazzi tecnici dietro i quali c’è una realtà sola, il pieno, completo asservimento delle economie sconfitte dalla guerra all’economia di chi ha vinto. O che credevate che la Russia rinunciasse ai suoi 100 milioni di dollari di riparazioni, che Inghilterra e America fossero tanto generose da accollarsi l’onere di ritirare i 5 miliardi di dollari emessi in amlire [2], e che Iugoslavia e Grecia, Albania ed Etiopia (cioè in altro modo, le stesse potenze di cui sopra) volessero tirarsi da parte di fronte ad un così lauto banchetto? E vano era richiamarsi ai sacrifici compiuti, al sangue versato, alla fedeltà dimostrata: tutte cose che non contano sulla bilancia dei rapporti imperialistici e non conta neppure -suprema ironia per chi ha tanto mercanteggiato con questo articolo- la famosa "lotta antitedesca", se è vero che il trattato di pace prevede l’obbligo per l’Italia di rinunciare anche ai debiti verso la Germania e i cittadini tedeschi in sospeso all’8 maggio 1945, e a far valere il lavoro prestato dai nostri prigionieri e non pagato alla stregua dei prigionieri. Proprio così: l’Italia partigiana, l’Italia della Repubblica e della democrazia progressiva, si vedrà liquidare tutte le attività che possedeva all’estero per pagare le riparazioni, annullare i crediti prebellici di origine commerciale e privata che poteva ancora vantare, ed estorcere anno per anno il frutto del lavoro dei suoi operai, dei suoi contadini, dei suoi ceti minori: Ed hanno un bel scalpitare i ministri della coalizione governativa e i capoccia di tutti i partiti rappresentati nella Costituente: i loro lamenti, le loro solenni affermazioni di intransigenza, le loro sparate irredentistiche, valgono quanto le lacrime di coccodrillo dei 17 delegati delle potenze minori a Parigi, quanto le proteste dei piccoli industriali e commercianti che l’evoluzione del capitalismo condanna a lasciarsi inghiottire dalle mastodontiche fauci di trust e cartelli.
E sono altrettanto insinceri. Giacché, al postutto, questa semicolonizzazione, questa spietata dipendenza dal capitale straniero è, per le classi dominanti dei paesi vinti e dei paesi minori usciti sfiancati dalla guerra, l’unico modo di salvarsi dalla catastrofe. Non sono loro che ripagheranno le riparazioni, i danni di guerra, le angherie di chi ha vinto: chi paga sarà Pantalone. Ed esse pomperanno ossigeno ai nuovi dominatori, vivranno entrando nell’orbita economica di questi ultimi, e avranno soltanto da perdere quella povera cosa che è l’orgoglio nazionale, qualcosa come la verginità per la donnina allegra. Non per nulla i partiti di governo o aspiranti al governo piangono, prima di tutto, su ciò che fa tirare un sospiro di sollievo ai proletari: la limitazione della forze armate, la mutilazione della flotta. È il blasone che conta per loro, il pane l’hanno assicurato.
* * *
Sono i trattati minori quelli che vanno in discussione: le questioni giapponese e tedesca sono rimandate sine die. Lo sono per due ragioni inverse: perché in Giappone gli Stati Uniti hanno potuto, quasi da soli, cucinare come volevano la pace, trasformare il paese in una dépendance diplomatica di Washington e finanziaria di Wall Street, e accaparrarsi senza concorrenti un gigantesco mercato (dal settembre 1945 alla fine di maggio 1946, gli S.U. hanno importato in Giappone per 26 milioni di dollari su un totale di 17,8 milioni [sic]) perché in Germania il cozzo degli imperialismi è diretto e immediato, e una soluzione non può avvenire che sul terreno dei rapporti di forza. Ed è lì che si va costruendo la nuova polveriera mondiale.
A Parigi si cucina la pace, la pace delle quattro libertà, la pace della libertà dalla paura e della libertà dal bisogno (quella di parola e di religione è un lusso che il capitalismo può oggi tranquillamente permettersi). Ebbene, mai lo spettro della paura è tanto pesato sul mondo e, quanto alla libertà dal bisogno, nella sola Berlino di contano 240 mila disoccupati totali, 400 mila disoccupati parziali, e altri 160 mila attendono di morir di fame se i rifornimenti di carbone e di materie prime non raggiungeranno, come non raggiungeranno, il livello previsto.
È questa la pace del capitalismo.
[1] Alla "Conferenza dei 21" di Parigi al gruppo dei Tre Grandi venne cooptata la Francia che divenne così la "quarta potenza". Le altre 17 nazioni, come spiega l’articolo, ebbero solo il compito di stare a guardare e... tacere.
[2] Le "amlire" erano banconote stampate negli USA ed introdotte in Italia nel luglio 1943, a corso legale imposto con le armi fino a tutto il 1950. Questa carta moneta di occupazione recava sul retro l’indicazione "issued in Italy", e, su entrambe le facce, la dicitura "Allied Military Currency". In poche parole, si trattava di moneta falsa, ma i falsari non potevano essere arrestati perché erano loro i padroni.