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Tra i tanti minacciosi segnali che ormai quotidianamente giungono all’attenzione di una società istupidita da sciocchezze, falsità e terrore, una vicenda non è stata pubblicizzata ed è rimasta conosciuta esclusivamente dalla cerchia degli “addetti ai lavori”.
Il “Comitato di Basilea” è un organismo creato nel 1974 dai Governatori delle Banche Centrali del “Gruppo dei 10”, operante in seno alla Banca dei Regolamenti Internazionali, le cui delibere sono accettate come vincolanti in oltre 100 paesi. Nel 1988 il “Comitato” stabilì un criterio di misurazione del “rischio patrimoniale” che, pur non avendo valore di prescrizione, definiva un impegno “che non poteva essere ignorato”, considerata la forza morale e politica dell’organismo internazionale che lo proponeva: le cosiddette “proposte” del “Comitato di Basilea”. Queste “proposte” intendevano rendere più efficace la vigilanza bancaria ed estesa a tutte le istituzioni bancarie del maggior numero di paesi.
Si “proponeva”, in parole semplici, che il patrimonio della banca erogante il credito doveva avere una consistenza congrua, secondo certi parametri, al “rischio” che la banca assumeva finanziando delle attività non coperte totalmente da garanzie.
Allora, quando ancora si ignoravano gli sconquassi finanziari dei decenni a seguire, la preoccupazione di porre un freno normativo alla “liberalità” del credito, ovvero di dare una nuova regola all’anarchia del capitalismo, ebbe la sorte che meritava, malgrado il peso del “Comitato”: rimase lettera morta.
Ma i cervelli del “Comitato” non avevano antivisto male, perché il decennio seguente fu segnato da una lunga serie di crisi finanziarie, quella delle Casse di risparmio americane, la crisi messicana, la crisi dei paesi asiatici, quella russa, quella del Brasile. Crisi che paradossalmente, ma solo in apparenza, per la loro “soluzione” costrinsero ad immettere nel sistema creditizio masse immani di liquidità (dissero che “c’erano più soldi che lavoro”) una notevole parte delle quale andò ad ingrassare in modo abnorme i mercati borsistici del mondo. Ee eravamo intorno agli anni ‘95-’96.
Nella fase iniziale dell’attuale crisi, con lo sgonfiarsi repentino dei profitti di borsa, anno 1999, il “Comitato di Basilea”, risvegliato dalle burrasche che si addensavano sulle banche d’affari, in piena situazione di bancarotta, ha ripreso la proposizione del 1988, deciso a stringere ulteriormente i criteri di rischio patrimoniale, ed ha emesso una seconda “proposta normativa” ancor più rigida. Questa si basa su un nuovo e più articolato sistema di rilevamento del rischio, quanto a categorie e sua misura, impone criteri più rigidi di vigilanza da parte delle Banche Centrali, infine obbliga gli enti erogatori del credito a fornire indicazioni precise sulle “aree di rischio” e sulle modalità messe in atto per “controllarlo”. Il risultato è da ottenersi, in termini sostanziali, con un immobilizzo di capitale a garanzia del rischio sostenuto.
Questo patetico tentativo non ha ridotto la pulsione speculativa che ha portato ai clamorosi crack degli anni passati, che ha gonfiato a dismisura i listini di borsa, che ha illuso e rischia di portare alla rovina ampi strati del corpo sociale, quelli stessi su cui si fonda il consenso e il veicolo più potente dell’ideologia capitalistica.
Ma un altro gravissimo “effetto secondario” si palesa nell’attuazione della proposta: la evidente difficoltà ad attingere al credito da parte di un tessuto di piccole e medie aziende che non troverebbero più nessuno disposto ad assumersi il rischio del loro finanziamento. Insomma una cura tanto pericolosa, mortifera in tempi di recessione, che l’esecuzione della raccomandazione è stato posposto dal 2004 al 2005, nell’attesa di un nuovo “documento” da parte del Comitato.
La lezione dell’episodio è chiara: l’intelligenza del mondo capitalistico è spinta al massimo a cercare i rimedi alla crisi che, fiacca e paludosa per oltre un decennio, sta imprevedibilmente accelerando, ma rimane impotente a razionalizzare e disciplinare le convulsioni del sistema che pretende governare. La “velleitaria” e “pericolosa” iniziativa dell’Ente sovranazionale testimonia la difficoltà estrema di questa fase forse più delle catene di fallimenti, crisi borsistiche, tagli drastici al costo del denaro.
Ma se questa crisi sovranazionale non cessa, anzi si allarga in termini geografici e si approfondisce quanto a gravità, deve allora porsi la domanda se ci troviamo in presenza, finalmente, della “nostra” crisi, quella descritta ed attesa dalla nostra scuola?
La domanda può suonare inutile: troppe volte abbiamo intravisto lo sciogliersi infine del mostruoso cappio del sistema del profitto, per poi ritrovare l’avversario di nuovo in frenetica attività, ed ancora ci è fin troppo chiaro che l’aprirsi, pur a suo tempo previsto possibile, dei mercati d’oriente ha ridato fiato per oltre un ventennio all’agonia capitalistica, per azzardare vaticini sulla sua fine. E soprattutto continua a gravare la distruzione della compagine organizzata del partito di classe, l’assenza del movimento internazionale, mentre tanta parte dell’umanità è triturata, senza speranza alcuna se non quella falsa dei miti piccolo borghesi, dalla macina del capitalismo e dell’imperialismo.
Perché, se quella condizione di ripresa internazionale non si verifica, ogni crisi del capitalismo e dei suoi stati, per quanto profonda, devastante, “definitiva”, non porta allo scioglimento della fase storica del capitalismo, ma ad un nuovo, mortale ciclo di distruzione-accumulazione. Se questa che nel “nuovo millennio” il mondo intero sta vivendo è veramente la crisi ciclica generale, allora la prospettiva del terzo macello imperialista è ben più vicina di quanto si possa credere, una volta che il capitalismo sia uscito dalla sua crisi sistemica, e la ripresa – quella vera – sia ricominciata. Allora i fronti di guerra, oggi nebulosi, si dovranno chiarire e determinare. Se il proletariato internazionale, col suo Partito, non impediranno il deflagrare dello scontro, non ci sarà, per questa generazione ancora, speranza.
Chiudemmo il dicembre scorso la presentazione del lavoro teorico del
partito con l’usata alternativa, che caratterizza la nostra visione del
mondo; o guerra o rivoluzione. Quasi uno “slogan” che martelliamo con
la cocciutaggine che ci ha sempre contraddistinto. E questo perché l’inquietudine,
la paura che serpeggia nel corpo sociale dei paesi cosiddetti “ricchi”,
la disperazione che attanaglia le folle reiette del resto dell’umanità
continua a produrre gli usati miti contro i quali ha sempre combattuto
il Comunismo: pacifismo, irrazionalismo religioso spinto fino alla guerra
santa, ribellismo impotente contro la forza degli apparati statali, terrorismo,
tutte pretese soluzioni alla tragedia che incombe, se non veri e propri
espedienti messi in atto dagli Stati o dalle potenze imperialistiche per
le loro strategie mondiali.
Rapporto esposto alla riunione di settembre 2002.
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Presso il Pentagono è stato aperto un ufficio apposito il cui compito è quello di «diffondere notizie, anche false, ai media stranieri nel quadro di un rinnovato sforzo per influenzare l’opinione pubblica e i politici sia nei paesi amici sia in quelli ostili» (New York Times, 19. febbraio). Questi efficienti funzionari statali - ben contrastati dagli avversi di Europa, il compito dei quali, essendo oggi “pacifisti”, è oggettivamente più facile e “popolare” - hanno partorito una serie di macroscopiche balle: una afferma che l’11 Settembre 2001 avrebbe cambiato il mondo e costretto a modificare le scelte strategiche degli U.S.A. rispetto al resto del pianeta. Un’altra che i crolli dei trust Enron, WorldCom e delle altre massime aziende americane fossero dovuti a contabili corrotti e dotati di scarsa etica professionale. Una terza balla a diffusione planetaria che collegava Saddam Hussein e Al-Qaeda è stata poi corretta: è vero che Saddam Hussein non ha collaborato con l’organizzazione terrorista, però possiede tali quantitativi di armi chimiche, biologiche e domani anche nucleari che potrebbe rappresentare una minaccia per il mondo intero!
Sull’altro versante appare puntuale sugli schermi un cattivissimo ma compunto Bin Laden, che nessuno sa dov’è e nemmeno se c’è, ridotto a puro cyber virtuale, ascetica immagine prodotta dal computer, con tanto di mitra, turbante e barba di rito. Ma su chi muove il mouse si possono fare solo ipotesi...
Tutto questo affanno mediatico per nascondere che le cause che
determinano l’evoluzione della politica degli imperialismi sono, soprattutto,
di tipo economico. E lo nascondono 1°) perché sarebbe un’ammissione
che l’economia capitalista segue effettivamente delle leggi coercitive,
secondo le quali al ciclo di espansione economica segue una crisi che improvvisamente
assume forme acute e alla quale il Capitale non può porre rimedio se non
ricorrendo ad un keynesiano e militare macello mondiale; 2°) perché
sarebbe un’ammissione che gli economisti borghesi non sanno cosa stia
succedendo realmente e non azzeccano più una minima previsione anche a
breve scadenza.
Una non nuova dottrina imperiale: la “guerra preventiva”
L’azione diplomatica e militare degli Stati Uniti sta rendendo palese che le relazioni tra gli Stati si svolgono sul piano della forza, militare, economica, politica, della forza bruta, dell’aperta violenza. Lo Stato più forte si arroga diritti dai quali altri Stati, più deboli, non si possono difendere: diritto a dotarsi di forze nucleari; diritto a godere di un enorme debito estero senza che a nessuno degli Stati creditori venga in mente di pretenderne la restituzione; diritto di controllo quasi esclusivo su materie prime essenziali all’industria capitalistica; diritto di intervento, anche militare, in altri Stati giudicati “potenziali minacce” per la propria egemonia mondiale...
Nulla di nuovo per il marxismo, non si fa che confermare la nostra analisi dei rapporti tra gli Stati, ripudiata dai “democratici” stalinisti fin dagli anni Trenta del Novecento.
Già nelle settimane seguenti gli attentati dell’11 Settembre i massimi rappresentanti di Washington rinunciarono alle solite mascherate ipocrite di guerra umanitaria, in difesa della pace e della civiltà, e parlarono apertamente della volontà di Washington di andare alla guerra, alla guerra tout court.
Si “stupisce” l’autorevole voce de La civiltà cattolica che così scrive: «È una teoria questa, della “guerra preventiva”, che non può essere accettata, perché terrebbe l’intero pianeta in uno stato di guerra permanente (...) La “guerra preventiva” non serve alla pace, ma a porre l’umanità in uno stato di guerra permanente, oltre al fatto gravissimo che la teoria della “guerra preventiva” si pone al di sopra delle regole più eticamente sicure e più universalmente accettate dal diritto internazionale».
Ancora più indignato si mostra un editoriale dei tromboni euro-sciovinisti di Le Monde Diplomatique (ottobre 2002) intitolato “Vassallaggio” che scrive, riferendosi al documento americano, «questa dottrina ristabilisce il diritto alla guerra preventiva che Hitler applicò nel 1941 contro l’Unione Sovietica, e il Giappone, lo stesso anno, a Pearl Harbor contro gli Stati Uniti... Essa cancella egualmente un principio fondamentale del diritto internazionale, adottato in occasione del trattato di Vestfalia, nel 1648, che stabiliva che uno Stato non interviene, e soprattutto non militarmente, negli affari interni di un altro Stato sovrano» (principio già sbeffeggiato nel 1999, quando la NATO, Europa compresa, intervenne in Kossovo...).
La pretesa “nuova” dottrina enunciata apertamente col documento “Strategia per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America”, reso noto alcuni giorni fa, preoccupa anche i grandi vecchi della sinistra italiana. Pietro Ingrao, su Il Manifesto del 24 settembre constata come le aperte dichiarazioni di guerra di Bush («Non esiteremo ad agire soli se necessario, per esercitare il nostro diritto di autodifesa agendo preventivamente») non abbiano scandalizzato nessuno, che nessuno dei nostri politici abbia osato anche solo ricordare che la “Carta italiana ammetteva solo la guerra di difesa”. Il fatto è che anche i “giovani sinistri” hanno capito che opporre “diritti” a “forza” è impresa da deficienti, o da imbonitori disonesti, come Ingrao e compari bertinottici. O come la Rossanda, per la quale il documento «è in senso stretto eversivo dell’epoca seguita alla seconda guerra mondiale, che faceva delle Nazioni Unite e della loro Carta il solo luogo di decisione e fonte di legittimazione delle relazioni tra gli Stati. Non solo cancella l’interdizione di ogni guerra che non sia di difesa, ma anche il principio, che pareva ovvio dopo la carneficina, che le nazioni avrebbero concertato assieme gli obbiettivi planetari e le regole dei conflitti che in essi sorgono» (Il Manifesto, 6 ottobre). Era ovvio per genia simile, staliniana o anti, dei PCI, PSI e codazzo sinistro che si son dati per mezzo secolo ad imbrogliare e illudere la classe operaia che il Capitale mondiale avesse altra legge che la sua forza bruta in difesa dei suoi egoismi imperiali.
Per i comunisti rivoluzionari non c’è nulla di nuovo nella dottrina della “guerra preventiva”. Si tratta della politica già adottata dall’Inghilterra un secolo fa, come abbiamo sintetizzato, per esempio, in un articolo “Politica Europea degli USA”, pubblicato su Battaglia comunista n. 4 del 1949: «Ostentando una organizzazione interna modello ipocrita di libertà e di prassi democratica, non tenendo esercito permanente, sforzandosi intanto attraverso lo sfruttamento imperiale del mondo di realizzare la collaborazione di classe col proletariato della madrepatria traverso concezioni riformiste, la Gran Bretagna teneva in armi la prima flotta del mondo e aveva a volta a volta debellato gli imperi di oltremare degli Spagnoli, Portoghesi, Olandesi, saccheggiando il pianeta. Vigile nei conflitti europei interveniva a tempo per abbattere le temute egemonie politiche e militari che avrebbero potuto concorrere troppo nello sfruttamento del mondo».
In altro articolo, apparso su Prometeo del 13 agosto 1949 “Aggressione all’Europa”, facevamo queste considerazioni: «Gli Stati borghesi e i partiti di governo coniarono la teoria degli spazi vitali, della invasione preventiva, della guerra preventiva [ci stiamo qui riferendo alla Prima Guerra mondiale! ndr] motivandola con argomenti di salute nazionale. Motivi tutti non privi di reale consistenza storica, ma che non devono smuovere i rivoluzionari, come non devono smuoverli i motivi di difesa e di libertà del più candido e innocentino - se ci fosse - dei governi capitalisti. La stessa guerra del 1914, strombazzata aggressione teutonica, fu una guerra preventiva inglese. Ogni governo vede dove vuole i suoi interessi e spazi vitali (...) Le guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento rivoluzionario di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati Maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari».
Già negli anni Venti, Lenin aveva definito la Società delle Nazioni come un “covo di ladroni”; il nuovo organismo costituito alla fine della II guerra mondiale, l’ONU, non è mai stato altro che una foglia di fico che ha coperto i peggiori misfatti dell’imperialismo. E in questo modo fu giudicato dal nostro Partito, con estrema lucidità, fin dalla sua costituzione; in una breve nota pubblicata sul nostro giornale Battaglia Comunista, n. 2 del luglio 1945, scrivevamo: «La carta di San Francisco [dove si svolse l’assemblea costitutiva delle Nazioni Unite] non offre un metodo per prevenire la guerra, giacché questa si può prevenire soltanto eliminandone le ragioni sociali ed economiche, ma una nuova edizione del vecchio e consumatissimo metodo di curare la guerra con la guerra (...) E infatti se c’è qualcosa di solido nei risultati della Conferenza non sono le magniloquenti dichiarazioni dei partecipanti, i più volte ripetuti impegni di collaborare su un piede di parità e di giustizia per difendere i “diritti dell’uomo” o per regolare sulla base di trattati la vita politica e commerciale del mondo, ma è la sanzione di un’alleanza a cinque che forma il nocciolo del Consiglio di Sicurezza e a cui tutto il resto (l’Assemblea, la coreografia delle dichiarazioni, le Corti di Giustizia ecc.) serve solo da scenario, da giustificazione morale e giuridica, da spettacolare contorno. La verità è che i cinque Grandi saranno i supremi tutori dell’ordine mondiale, e poiché la Carta conferisce praticamente ad essi il diritto d’intervenire nella vita interna di altri paesi ogni qual volta s’impongono “provvedimenti intesi al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”, questa formula classica giustificherà il più regolare controllo politico e militare nelle forze politiche operanti nell’orbita di questo mondo sotto tutela. Non per difendere la “pace” ma per difendere l’ “ordine”. Dietro i ramoscelli d’olivo c’è fior di carri armati. La pace borghese si è motorizzata: solo in questo San Francisco registra un progresso su Versailles».
È responsabilità dello stalinismo e dei Partiti nazional-comunisti legati a Mosca, l’aver spacciato tra i proletari primo che occorresse allearsi con l’imperialismo anglo-americano nella Seconda Guerra, secondo che la fine di quella guerra avrebbe aperto una nuova era di collaborazione pacifica tra gli Stati, presto denominata teoria della “coesistenza pacifica”, basata sull’equilibrio del terrore imposto dal possesso da parte dei due blocchi borghesi di un imponente apparato di missili nucleari. I comunisti rivoluzionari anche in quegli anni hanno sempre ribadito che nulla era cambiato nei rapporti tra gli Stati capitalistici, che l’analisi di Lenin sull’imperialismo come fase necessaria ed ultima del regime capitalistico restava valida e che non ci si poteva illudere con le chimere di diritto internazionale, di pace e di sviluppo perpetuo propagandate dalle sirene del potere borghese.
La dottrina della guerra preventiva non cambia né aggiunge nulla nella minaccia che tutti gli apparato militari borghesi rappresentano per il proletariato mondiale; gli Stati Uniti costituiscono oggi solo la maggiore fra le tante forze controrivoluzionarie del pianeta. Il fatto che essi abbiano deciso di proclamare al mondo la loro volontà, il loro bisogno di guerra, non fa che confermare le classiche tesi del marxismo rivoluzionario.
Abbiamo scritto nelle nostre ultime Tesi sulle guerre imperialiste:
«Da quando si è formato il mercato mondiale, da quando sfere di vita
e cerchie di influenza ristrette, proprie del precapitalismo, si sono dissolte
nel magma economico unico della produzione e vendita dei prodotti, da quando
sono saturati i mercati di tutto il mondo e gli ultimi arrivati stanno
stretti nella loro area di smercio, da quando si è entrati nell’epoca
dell’imperialismo guerre di usurpazione, di rapina, di brigantaggio da
ambo le parti, per la spartizione dei mercati, per una suddivisione e nuova
ripartizione delle sfere di influenza del capitale finanziario e conseguente
sottomissione di Stati e nazioni alle grandi potenze, sono inevitabili.
Potrebbero i governi borghesi e i loro capi impedire la guerra? Essi non
hanno la possibilità né di provocarla né di impedirla. Anche ammesso
che personalmente non vogliano che la guerra scoppi o che non trovino opportuno
affrettarla, le loro intenzioni hanno scarso effetto: la oligarchia dell’alto
capitalismo che essi rappresentano e da cui dipendono è costretta ad operare
nella produzione, nell’industria, nel commercio, nella finanza secondo
inesorabili leggi economiche che conducono alla guerra. La guerra non è
una
politica di un certo strato o partito borghese, è una necessità
economica».
Una guerra per l’Asia Centrale
Il geografo Halford Mackinder alla fine dell’Ottocento definì l’Asia Centrale il “cuore del mondo” (heartland) proprio perché, secondo la sua analisi, chi la possiede controlla l’Eurasia: Cina, Russia, India, Pakistan e Medio Oriente sono geograficamente inscritte nella circonferenza che ha come centro l’Asia Centrale. Certamente questa regione ha mantenuto la sua importanza strategica che, anzi, si è accresciuta con la scoperta del petrolio e del gas naturale.
Da metà anni ‘90 le imprese energetiche statunitensi si stavano installando nell’Asia Centrale per estrarre e costruire oleodotti per il trasporto. La torta era però contesa fra Cina, Russia e Iran, con altri comprimari quali il Pakistan, la Turchia, il Giappone e addirittura l’Argentina.
Dopo che la Russia falliva nel suo tentativo di controllo militare dell’Afghanistan ed era costretta a ritirarsi dal paese, vero colpo di grazia all’imperialismo russo, il centro di quest’area semi-desertica ma nodale dell’Asia era rimasto senza padrone. Dapprima i mercenari Talebani avevano rappresentato la speranza per gli U.S.A. e per il Pakistan di una stabilizzazione dello Stato a loro favore, ma erano poi diventati, all’incirca dal 2000, uno dei principali motivi di contrasti petrol-narco-commercial-strategici nell’area.
Gli attentati dell’11 Settembre hanno prestato il casus belli per risolversi ad un affondo degli U.S.A. nell’area. Col pretesto della “guerra al terrorismo” gli U.S.A. si sono installati militarmente nei paesi dell’Asia Centrale, hanno posto un governo filo-americano, se non in Afghanistan almeno a Kabul, e rimesso in riga il satrapo pachistano Musharraf. Soprattutto hanno posto un veto decisivo alle influenze crescenti nella zona di Russia, Cina e Iran. «Con la guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti, affiancati dal fedele socio britannico, hanno sottratto all’influenza di Mosca quasi tutta l’Asia Centrale, un tempo sovietica. Hanno potuto così rafforzare la propria influenza anche nella regione del Caspio e, allo stesso tempo, riavviare il progetto del gasdotto che, attraverso l’Afghanistan, trasporterà il gas naturale dal Turkmenistan fino in Pakistan» (Il Manifesto, 25 settembre).
La Cina è ora controllata dagli Stati Uniti non solo attraverso le basi a Taiwan e in Corea del Sud, ma anche con una ben attrezzata base militare sul confine nord-ovest, per l’esattezza nel Kirgizistan (base installata quando la guerra con Kabul era pressoché finita). La rivista russa Argumenty i fakty scrive a questo proposito nel gennaio scorso: «Le basi aeree militari in Asia Centrale rappresentano un potente mezzo di pressione sulla Cina. Proprio a questo paese gli analisti americani legano la crescita della contrapposizione militare tra le due potenze dell’Oceano Pacifico nel Ventunesimo secolo».
L’Afghanistan ha un’importanza fondamentale anche per il Pakistan; è considerato necessario come “profondità strategica” nell’eventualità, non tanto remota, dell’inasprirsi del conflitto con l’India sulla questione del Kashmir. Di conseguenza la stabilizzazione dell’Afghanistan è una spina nel fianco anche alle mire imperialistiche dell’India. D’altronde se la Russia, con l’aiuto della Cina, stava cercando di riconquistare un ruolo egemone nella regione, ora trova invece dinanzi a sé l’esercito statunitense e un crescente avvicinamento politico ed economico dei governi di questi paesi agli U.S.A., richiamati dal mafioso profumo del Dollaro, col quale si compra tutto e tutti. Gli Stati dell’Asia Centrale (Turkmenistan, Uzbekistan, Tadzikistan, Kirgizistan e Kazakhistan) sono ora non più soltanto contesi dalle potenze asiatiche ma anche, e in modo ben più deciso, da Washington. Così dal punto di vista economico-petrolifero lo Stato del Turkmenistan, ad esempio, non dovrà più firmare contratti energetici con il vicino Iran o con la mamma Russia: gli U.S.A. spingeranno lo Stato turkmeno verso i propri interessi, con un collegamento all’oleodotto Baku-Ceyhan oppure ad uno, molto meno affidabile, che arrivi in Pakistan per via afghana.
Nel Caucaso il gioco degli U.S.A. è molto simile a quello condotto in Asia Centrale, in funzione antirussa, antiraniana e antieuropea. Azerbaigian e Georgia hanno aperto le porte non solo ai progetti di oleodotti (che un domani all’occorrenza, trasportando petrolio e gas dal Caspio alla Turchia, toglierebbero alla Russia ogni controllo sul greggio del Caspio), ma anche ad istruttori dell’esercito statunitense in Georgia per addestrare l’esercito locale e forse gruppi guerriglieri ceceni. Proprio il 18 settembre scorso il segretario U.S.A. all’energia ha partecipato all’inaugurazione dell’oleodotto che porterà il petrolio del Caspio da Baku a Ceyhan, in Cilicia, sul Mediterraneo, in Turchia venendo ad aggiungersi a quello che dal 1999 collega Baku al porto georgiano di Supsa sul Mar Nero. «L’oleodotto segue un tracciato che aggira a sud la Russia sottraendole il controllo sull’esportazione della maggior parte del petrolio del Mar Caspio» (Il Manifesto).
L’esercito statunitense, acquisendo queste posizioni, si è portato
a ridosso del confine russo meridionale: penisola coreana, Asia Centrale,
Caucaso, Turchia. L’Unione Europea è invece compresa fra la Gran Bretagna
a nord-ovest e la Turchia a sud-est. Ora gli U.S.A. stanno puntando anche
ad un rafforzamento militare in Romania, Bulgaria, Macedonia, Ungheria
che chiuderebbe ulteriormente l’accerchiamento.
Una guerra per il petrolio
I motivi strategici della guerra contro Baghdad risiedono nel controllo del petrolio e, insieme, di una delle regioni chiave del globo. Alberto Negri sul Sole 24 Ore del 3 agosto considerava che scopo del conflitto sarebbe il «controllo dello spazio euro-asiatico, oltre che dei flussi di approvvigionamento e di pipeline. Se agli Stati Uniti riuscirà a Baghdad quello che già hanno fatto a Kabul, sostituire un regime ostile con uno amico, faranno del Medio Oriente e dell’Asia centrale un’area geostrategica unica, una vasta zona sotto la loro influenza diretta, una morsa a cui non si sottrarrà tra i Paesi petroliferi neppure l’Iran degli ayatollah».
Dopo la guerra in Afghanistan sarebbe questa la seconda fase non della “guerra al terrorismo”, ma per il controllo delle regioni più ricche di petrolio. «Dopo la guerra del Golfo, al contrario di quanto promesso agli alleati, gli Stati Uniti hanno mantenuto forti basi in Arabia Saudita e in Kuwait e il diritto alla presenza negli altri Stati del Golfo; inoltre è cresciuta l’importanza delle basi aeree in Turchia. La guerra ha completato il dominio statunitense nella regione, da cui tuttavia gli Stati Uniti importano solo il 5% del petrolio, esportato principalmente in Europa e Giappone. Come ha correttamente osservato Chirac, il ruolo degli Stati Uniti nel Golfo è di assicurarsi il controllo delle sorgenti di petrolio delle potenze europee e dell’Est asiatico. Gli Stati Uniti hanno deciso di disporre basi permanenti nella regione del Golfo dopo il 1991 anche per reprimere il potenziale dissenso all’interno delle monarchie petrolifere» (Grossman).
Il Dipartimento dell’Energia statunitense sta riportando la riserva strategica di carburanti alla piena capacità di 700 milioni di barili, sufficiente a 80 giorni di fabbisogno del paese, come misura precauzionale contro un blocco totale delle importazioni.
Uno dei fattori più importanti per gli Stati Uniti d’America è quella del controllo della produzione energetica nel mondo per escludere il ricatto di qualsivoglia Stato fondiario poco fedele (ad esempio l’Arabia Saudita, “fucina di terroristi”). Inoltre, in molti paesi mediorientali vi sono crescenti masse di sottoproletari e proletari alla disperazione che richiedono un controllo militare e poliziesco efficiente. Controllando le fonti di energia gli U.S.A. controllerebbero l’intero pianeta e in particolare gli avversari economici, Unione Europea, Giappone e Cina in testa.
Gli Stati Uniti hanno eufemisticamente definito la loro azione di accaparramento come “bisogno vitale” di diversificare le fonti di approvvigionamento; il segretario statunitense all’energia inaugurando l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan ha dichiarato che «La politica energetica stabilita dal presidente Bush esige che gli Stati Uniti sostengano l’aumento della produzione energetica nel mondo intero. È fondamentale per l’America».
Naturalmente il controllo delle fonti della materia prima permetterebbe a Washington di influire sul prezzo del petrolio. L’aumento del prezzo conseguente alla guerra potrebbe rallentare tutte le economie occidentali che già sono in crisi quando non in aperta recessione, ma colpirebbe soprattutto l’economia di quei Paesi che sono più dipendenti dalle importazioni, l’Europa, il Giappone, la Cina. Dichiara Domingo Solans, uno dei dirigenti della Banca Centrale Europea: «I rischi riguardo al livello dei prezzi sono per il momento contenuti, ma la situazione è molto incerta, ogni sviluppo negativo in Medio Oriente, col conseguente aumento del prezzo del petrolio, cambierebbe i dati».
Alcuni analisti in Occidente vedono l’abbattimento del regime iracheno e il passaggio del petrolio nelle mani degli Stati Uniti come un fatto positivo che metterebbe l’Occidente in grado di rispondere al ricatto dell’OPEC che, recentemente, il 19 settembre scorso a Osaka in Giappone, ha deciso di non aumentare la produzione nonostante il prezzo del greggio abbia superato il tetto dei 30 dollari al barile. Forse non hanno letto il Washington Post del 15 settembre: «Lo spodestamento, diretto dagli Stati Uniti, del presidente iracheno Saddam Hussein potrebbe aprire un filone d’oro per le compagnie petrolifere americane a lungo bandite dall’Iraq, facendo naufragare gli accordi petroliferi conclusi con Baghdad da Russia, Francia e altri paesi e provocando un rimescolamento dei mercati petroliferi mondiali». Gli Stati Uniti dunque potrebbero rivelarsi padroni più esosi della stessa OPEC e con le capacità militari per far rispettare i loro diktat.
Sfruttare l’oro nero iracheno - commenta Le Monde - è un obbiettivo che perseguono i petrolieri del mondo intero da molto tempo. Il nuovo Eldorado descritto in Asia centrale non cambia nulla per una ragione molto semplice, il costo di produzione di un barile del mar Caspio oscilla tra i 7 e gli 8 dollari, il greggio iracheno costa 70 cent. al barile. L’interesse delle compagnie petrolifere per il sottosuolo iracheno non ha alcuna ragione di indebolirsi.
L’Iraq possiede riserve accertate per 115 miliardi di barili di petrolio, seconde solo a quelle dell’Arabia Saudita. Attualmente sono le compagnie russe ad essere molto attive in Iraq, ma anche la Cina, importatrice di petrolio e terzo più grande consumatore del mondo dopo Usa e Giappone. Anche l’Occidente compra il petrolio iracheno e pare che ogni giorno da 200 a 300 mila barili siano venduti di contrabbando alla Turchia, alla Giordania, alla Siria, all’Iran con introiti “al nero” calcolati tra i 600 milioni e i due miliardi di dollari che verrebbero incassati direttamente dalla famiglia di Saddam Hussein. Anche gli Stati Uniti comprano petrolio iracheno, ufficialmente in piccole quantità (167.000 barili al giorno) ma, secondo altre fonti, la quantità di petrolio che arriverebbe ogni giorno al “nemico” statunitense sarebbe addirittura di 1,2 milioni di barili!
Il petrolio è una fonte energetica che sembra destinata a restare ancora fondamentale per l’economia capitalistica, almeno per alcuni decenni. Il rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, un organismo dell’OCSE, ha infatti previsto che per i prossimi trent’anni saranno ancora i combustibili fossili a fornire il 90% dell’energia e sarà il petrolio del Medio Oriente a coprire una parte sempre più consistente del fabbisogno energetico mondiale.
Intanto uno dei bastioni classici degli U.S.A. nella regione, l’Arabia Saudita, primo produttore mondiale di petrolio, si sta via via allontanando da quello stretto legame. Non solo la crisi economica interna sta portando i sauditi ad un’insofferenza crescente verso la presenza U.S.A. nella regione, ma soprattutto la strategia energetica americana, di indebolire e controllare i produttori, lede gli interessi della Patria del Profeta. La supremazia produttiva e commerciale dell’Arabia Saudita è minacciata da un futuro risolversi del problema iracheno (che permetterebbe almeno la triplicazione della sua produzione di greggio) e dall’ambizione russa di divenire il primo produttore mondiale. In questo senso sono visti contro l’Arabia Saudita gli ultimi contratti di collaborazione energetica stipulati fra Mosca e Washington e la Seconda Guerra dell’Irak.
Tarek Aziz, vice primo ministro iracheno, ha dichiarato il 18 settembre a Baghdad: «L’amministrazione americana, avanzando pretesti per lanciare un’aggressione contro l’Iraq, cerca di controllare la regione per rubarne le ricchezze» (Le Monde, 19 settembre). Saddam Hussein è stato anche più esplicito (ormai ha poco da perdere): «L’animosità americana contro di noi si spiega con il fatto che se distruggeranno l’Irak controlleranno il petrolio di tutto il Medio Oriente, che rappresenta il 65% delle riserve mondiali, e quindi saranno in grado di governare la crescita economica di ogni nazione del mondo intero» (La Stampa, 3 settembre) e «Bush vuole controllare il petrolio del Medio Oriente, le politiche economiche e petrolifere del mondo intero, stabilire di quanto petrolio ogni paese ha bisogno per il proprio sviluppo, quanto ne può comprare e a che prezzo» (L’Unità, 24 settembre).
Crisi economica, controllo strategico del mondo, controllo delle principali
fonti di petrolio, controllo del proletariato arabo sono dunque le principali
cause del conflitto.
L’Iraq
L’Iraq è un paese di 23 milioni di abitanti sottoposto da più di undici anni, dalla fine della prima guerra del Golfo, ad un blocco economico oltre che ad una feroce dittatura militare borghese.
Nonostante che sia uno dei Paesi potenzialmente più ricchi del Medio Oriente, poiché dispone di enormi risorse petrolifere ma anche di vaste zone di terre fertili e in parte irrigue, le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione sono miserevoli. Secondo dati riportati dal mensile Mani tese il prodotto interno lordo medio per abitante si è ridotto dal 1989 al 1999 da 2.800 a 247 dollari al giorno; la produzione elettrica da 9.552 a 4.350 MW, l’accesso all’acqua potabile è passato dal 93 al 47%; le calorie giornaliere disponibili sono diminuite da 3.089 a 2.100. Questo avrebbe portato ad un forte aumento delle malattie, dei tumori, dicono causati anche dalle bombe all’uranio impoverito, eccetera. Naturalmente sono i proletari e le masse povere a pagare il prezzo maggiore. «Denis Halliday, l’assistente segretario generale dell’ONU responsabile degli aiuti umanitari ha dato le dimissioni dichiarando l’embargo all’Iraq un “genocidio”. Anche il suo successore, Hans von Sponeck, ha rassegnato le dimissioni. Lo scorso novembre i due scrissero che “la morte di 5-6 mila bambini al mese è principalmente dovuta ad acqua contaminata, malnutrizione e mancanza di medicine. Gli U.S.A. e il Regno Unito, con i loro ritardi nelle autorizzazioni, sono responsabili di questa tragedia, non Baghdad”» (Limes).
Questo stato di cose ha finora rafforzato il regime anziché indebolirlo perché può scaricare facilmente le cause della povertà e dell’oppressione sui paesi occidentali.
Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non hanno fornito alcuna prova sostanziale del preteso riarmo iracheno e dei legami tra il regime e i terroristi di Al-Qaeda. Al contrario molti tra gli stessi ispettori dell’ONU hanno confermato che le potenzialità belliche irachene erano state ridotte del 95% durante la guerra. Inoltre, negli anni successivi, l’embargo e il continuo controllo del territorio con aerei e satelliti porta ad escludere che l’Iraq abbia potuto dotarsi di un nuovo dispositivo bellico. Bisogna a questo proposito ricordare che «L’Iraq è un paese amputato dei due terzi del suo spazio aereo e di tre quarti della sua regione curda che costituisce una “zona di sicurezza” separata, escluse Mossul e Kirkuk, cuore della regione petrolifera» (Le Monde).
Ugualmente indimostrabili si sono rivelati i pretesi legami tra Saddam Hussein e l’organizzazione Al-Qaeda, indicata come responsabile degli attentati di New York. Alcuni commentatori hanno a questo riguardo affermato che Saddam, dittatore laico, ha combattuto accanitamente queste organizzazioni islamiste che, fino a pochi anni fa, erano invece finanziate e foraggiate dagli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti stanno preparando ormai da mesi l’attacco. Anzi la guerra è già iniziata visto che l’aviazione inglese e statunitense sistematicamente bombarda «i centri, fissi o mobili, di comando, di controllo, di comunicazioni che contribuiscono alla difesa irachena» (Le Monde, 24 settembre). Le ultime notizie parlano del bombardamento dell’aeroporto civile di Bassora e di quotidiani attacchi su obbiettivi militari e civili. «Per la guerra all’Irak - scrive il generale Fabio Mini su Limes - è quasi tutto predisposto. Gli USA hanno già pronti i piani di attacco e fino a 200 mila soldati impiegabili nel medio termine. Gli inglesi possono schierare fino a 25 mila uomini in breve tempo e altri 25 mila in quattro o cinque mesi» (Aspettando Saddam, quaderno speciale di Limes, n.1, 2002).
L’enorme macchina bellica è ormai in pieno movimento per preparare l’attacco all’Iraq. Il cervello che dirigerà la prossima guerra si trova presso la base militare di Al-Udeid, presso Doha, in Qatar, dove si sta trasferendo una parte del quartier generale che normalmente staziona a Tampa, in California (costo valutato per le nuove infrastrutture 1,5 miliardi di dollari); la base dovrebbe essere approntata per ospitare 3.000 uomini, apparecchi da combattimento e aerei spia Global Hawk o Predator. Altre truppe sono dislocate in Kuwait, in Arabia Saudita, in Bahrein, nell’Oman, nella base aerea di Incirlik in Turchia e sull’isola di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano dove sono dislocati sei (o forse più) bombardieri americani B2. Si calcola che a metà ottobre saranno dispiegati nella zona circa 60.000 uomini senza contare quelli (aerei, elicotteri e commando) imbarcati su una squadra di sei portaerei che dovrà arrivare nel Golfo Persico prima della fine dell’anno. Il territorio dell’Iraq è inoltre controllato da sei satelliti spia (ciascuno dei quali è costato un miliardo di dollari).
Ma il problema, per Washington e alleati, non è riuscire a distruggere le forze armate irachene e cacciare Saddam: l’esercito iracheno, costituito da proletari in miseria e che non hanno alcun interesse a morire per difendere i loro oppressori, privo di artiglieria, missili, aviazione, non ha alcuna possibilità di opporre resistenza all’attacco. Il problema per i “liberatori”, che appaiono “democratici” ma “occidentali” e “infedeli”, è quello dell’occupazione del territorio, quello di costituire un nuovo governo in grado di assicurare la stabilità sociale e politica, restando legato a doppio filo agli Stati Uniti. Decine di migliaia di soldati americani dovrebbero stazionare a lungo nel Paese, così come succede nel “liberato” Afghanistan dove il governo filoamericano a Kabul non durerebbe un sol giorno se non avesse a difenderlo migliaia di soldati d’occupazione (tra cui i reparti militari italiani), i cannoni e gli aerei occidentali. Lo stesso problema si era posto a Washington alla fine della prima guerra del Golfo, quando la infuocata situazione sociale nel sud del paese e l’irrequietezza dei curdi a nord convinse i guru del Pentagono a lasciare al suo posto proprio il demonizzato Saddam, che come macellaio non aveva e non ha niente da imparare, e ne diede subito prova spedendo i battaglioni della Guardia presidenziale a schiacciare, indisturbati, la rivolta proletaria nel sud del Paese.
Questa volta l’Amministrazione americana non vuole ripetere l’errore; il Segretario di Stato Colin Powell pensa di rifarsi addirittura alle modalità seguite in Giappone o in Germania alla fine della Seconda guerra mondiale: trasformare l’Iraq in un protettorato amministrato direttamente dall’Esercito statunitense. Un’alternativa sarebbe rappresentata dall’imposizione di un nuovo dittatore (forse addirittura di sangue blu) devoto a Washington.
Gli U.S.A. stanno già vendendo la pelle dell’orso iracheno: il vecchio direttore della CIA James Woosley ha dichiarato apertamente che i paesi che faranno parte della coalizione antiirachena saranno privilegiati al momento della spartizione del bottino petrolifero e Washington ha promesso a Mosca che qualunque sia il governo che andrà al potere a Baghdad, pagherà il debito di 10 miliardi di dollari che l’attuale regime ha contratto con Mosca (garantiscono gli americani!).
Ma c’è chi sostiene che per mettere le mani sull’oro nero ci vorrà
del tempo anche dopo una guerra vittoriosa che cacciasse Saddam e imponesse
un burattino al suo posto. L’Iraq produce infatti circa 1,5 milioni di
barili al giorno. Ha una capacità di produzioni attuale tra i 3 e i 3,5
milioni ma, anche se la guerra non provocasse la distruzione dei pozzi,
sarebbero necessari almeno due anni di investimenti per arrivarci. Per
raddoppiare la capacità estrattiva invece, per passare cioè da 3 a 6
milioni, sarebbero necessari da 4 a 5 anni e, secondo Le Monde del
28 settembre, un investimento di 20-30 miliardi di dollari. Oltre a questo
«la condizione fondamentale per queste prospettive è ovviamente la stabilità
e la condiscendenza nei confronti delle compagnie occidentali del regime
che succederà a Saddam. Le compagnie internazionali dovrebbero investire
tre miliardi di dollari per sviluppare il campo di Magnun e non si investe
quella somma senza garanzia di stabilità e di condizioni favorevoli»
(Limes).
Dalla crisi economica al rompersi degli equilibri mondiali
Il sistema capitalistico è oggi entrato in crisi a livello mondiale, probabilmente la più profonda dopo quella del 1929 che poté essere risolta solo con la Seconda Guerra. Sono i paesi maggiormente industrializzati, Giappone, Europa e Stati Uniti, che dalla crisi hanno da perdere di più.
La produzione industriale U.S.A., secondo la Federal Reserve, dall’indice 146,8 del settembre 2000, ha cominciato gradualmente a scendere: ad agosto 2001 l’indice era già a 140,0 e nel novembre successivo a 137,1. Molti i settori colpiti: quello tecnologico su base annua da un +4,63% nel giugno 2000 ha presentato un -15,6% nel novembre 2001; la produzione di motoveicoli nello stesso arco di tempo è scesa del 12%; dal 2000 all’inizio del 2002 la produzione di acciaio è scesa addirittura del 19%. La produzione industriale in generale è scesa nel 2001 del 3,7% contro una discesa di appena lo 0,1% dell’area Euro.
In termini di Prodotto Interno Lordo si può notare che l’economia statunitense in realtà si riprende proprio dopo l’11 Settembre 2001: nel primo trimestre 2001 il P.I.L. era sceso dello 0,6% e nel secondo trimestre addirittura dell’1,6%, nel terzo trimestre era ancora in discesa di un modesto 0,3%, nel quarto trimestre (quello dopo l’11 Settembre) il P.I.L. è tornato a salire con un sostanzioso +2,7% a cui è seguito un ancor più sostanzioso +5% nel primo trimestre 2002. Nel secondo trimestre di quest’anno il P.I.L. è salito dell’1,1%.
I crolli in Borsa, come si sa, sono stati ben grossi con l’indice Dow Jones sceso del 33% fra il gennaio 2000 e settembre 2002 e l’indice Nasdaq che dal marzo 2000 al settembre 2002 è addirittura caduto del 75%, dimostrando tra l’altro quello che abbiamo sempre scritto riguardo al carattere fallace della New Economy.
Il governo repubblicano, come previsto, ha presto fugato i dubbi sulle sue inclinazioni liberiste – che invece vengono imposte a paesi come l’Argentina! – ed è intervenuto massicciamente per sostenere e proteggere la produzione nazionale, industriale ed agricola, tanto da passare da un surplus di 250 miliardi di dollari nel 2000 ad un deficit di 147 miliardi di dollari nel giugno 2002.
Il debito accumulato degli Stati Uniti ha raggiunto l’enorme cifra di 18.000 miliardi di dollari; il deficit commerciale annuo corre sui 400 miliardi e quello della bilancia dei pagamenti raggiunge ormai i 450 miliardi di dollari. Il debito della massima potenza capitalistica è dunque diventato il più alto del mondo e ci sorge un comunistico sorriso al pensare che se quella è la più forte... È nei destini di una società avviata alla sua fine uno Stato ultraindebitato: dall’Impero di Roma alla Monarchia francese del 1789.
Fin dai primi anni del dopoguerra il nostro partito considerò come il potere degli U.S.A. sul mondo era saldo proprio per il fatto che essi erano i principali creditori mondiali, in quella fase di ricostruzione e Piani Marshall.
Le cause della attuale crisi non stanno nelle scelte sbagliate del capo-banchiere o del governo di turno, ma nella natura stessa del Capitalismo il quale è costretto a produrre sempre di più, senza potersi fermare: la sua dannazione sta nel fatto che questa vulcanica produzione deve fare i conti con un mercato che non è in grado di seguirne i ritmi folli. In pratica si produce troppo e non se ne può fare a meno, pena il crollo di tutta l’economia. Si producono così anche troppi mezzi di lavoro cosicché i borghesi “investimenti produttivi” si inceppano davanti ad una valorizzazione che diventa sempre più difficile realizzare. La crescita annuale degli investimenti produttivi in U.S.A. ammontava a +15,8% nel primo trimestre del 2000, nel secondo trimestre del 2001 (prima che Mohamed Atta e i suoi passassero i check-in) gli investimenti erano già crollati del 14,6%.
L’egemonia americana è incalzata dai concorrenti. L’Unione Europea (escludendo dal calcolo Danimarca, Svezia, Regno Unito e Grecia) rappresenta oggi il 16,6% delle esportazioni mondiali (la Germania da sola ben l’8,8%!), contro il 15,2% degli U.S.A. e l’8,0% del Giappone. L’esportazione di manufatti da parte delle sole Germania e Francia risulta di 759 miliardi di dollari contro i 577 degli U.S.A. Se la produzione industriale degli U.S.A. vale 2.613 miliardi di dollari, l’Unione Europea dei 15 li segue con 2.143 e il Giappone con 1.582.
Scrivevamo nel 1991 nel nostro studio sul Corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx 1750-1990 (p. 89): «È vitale per la stabilità dell’economia capitalistica l’esistenza di un formidabile centro mondiale di potere economico e politico. Questa funzione fu svolta inizialmente e per un lungo periodo dall’Inghilterra. Successivamente, in conseguenza del declino di Albione, non più in grado di assolvere quel compito, al punto che si vide l’insorgere di un periodo estremamente pericoloso di destabilizzazione per l’equilibrio generale, detta funzione fu trasferita agli Stati Uniti che si presentavano ormai con un apparato di forza tale da garantire con un’incidenza più marcata un’altra lunga fase di condizioni favorevoli al Capitale per incrementare ulteriormente spoliazioni, razzie, e saccheggi ai danni del pianeta e degli esseri viventi che lo popolano. Leggi economiche proprie del sistema capitalistico ci stanno facendo assistere al progressivo affievolirsi per gli Stati Uniti della loro funzione di centro mondiale in grado, da una posizione di forza preponderante, di assicurare stabilità, di garantire fiducia ed equilibrio al sistema imperante». Lo studio proseguiva osservando che «Un nuovo centro di potere, adeguato ai tempi, che surroghi quello che lentamente ma inesorabilmente va logorandosi, oggi come oggi non esiste». Dieci anni dopo la crisi si è approfondita, un nuovo centro di potere effettivamente alternativo agli U.S.A. non esiste ancora e la lotta e tuttora aperta.
Ovviamente il passaggio della staffetta storica dell’egemonia mondiale non avverrà a colpi di scontri verbali e diatribe diplomatiche né da decisioni di pretesi organismi internazionali super partes, che non possono esistere; avverrà, se avverrà, attraverso lo scontro fra potenze in un nuovo macello mondiale, proprio come l’egemonia dell’economia del Dollaro su quella della Sterlina si è consolidata attraverso ben due guerre planetarie.L’alternativa, l’unica, è che il proletariato internazionale riprenda l’iniziativa nelle sue mani, riportando la rivoluzione all’ordine del giorno e mandando a gambe all’aria tutti i contendenti.
Danno invece dimostrazione di nessuna consistenza le innumeri interpretazioni sulla nuova natura del potere negli Stati Uniti, sull’Impero unico futuro dominatore e incontrastato, teorie che ignorano ogni necessità e dialettica dell’economica capitalistico-imperialista. Gli invincibili U.S.A. non navigano in buone acque. La loro vulnerabilità è riconosciuta dai capitalisti e speculatori internazionali i quali sempre più evitano di investire negli Stati Uniti. Questa crescente fuga di capitali esteri è decisamente grave che avvenga proprio ora in quanto quei soldi servono allo Stato americano per finanziare il debito. Se è vero che gli U.S.A. rimangono la “locomotiva” dell’economia mondiale, figuriamoci cosa abbiamo da attenderci dai... trainati vagoni!
Si rileva che: 1) l’economia U.S.A. sta perdendo terreno rispetto
all’economia di molti paesi di nuova industrializzazione e, contingentemente,
perfino rispetto ai Paesi europei; 2) le prospettive di profitto negli
U.S.A. sono minori che altrove: dal 1997 al 2001 i margini di profitto
negli U.S.A. sono drasticamente diminuiti; 3) i fallimenti con relativi
scandali Enron, WorldCom e delle altre multinazionali, quantificabili in
centinaia di miliardi di dollari, hanno intaccato la fiducia degli investitori.
Guerra ed economia
Resta però il fatto che, se gli Stati Uniti sono oggi incalzati da vicino sul campo economico nei mercati mondiali, sono però di gran lunga, per ora, incontrastati sul piano politico e militare; non esiste oggi un singolo Stato o anche un fronte di Stati che possa confrontarsi ad essi per potenza militare. È su questo piano dunque che Washington può muoversi per difendere la sua supremazia.
Il bilancio militare degli Stati Uniti da alcuni anni ha ripreso a salire e si è impennato dopo il fatidico 11 Settembre 2001. «I dividendi della guerra al terrorismo – si legge su Il Manifesto dello scorso 11 settembre – si preannunciano enormi dato che i contratti si situano sullo sfondo di un budget della difesa che per l’anno fiscale 2002 (1 ottobre 2001-30 settembre 2002) alloca per le sole voci “Acquisizioni” (sistemi d’arma, munizionamento, servizi di vario tipo e di trasporto), “Ricerca e Sviluppo” (finanziamento dello sviluppo di nuovi sistemi) e “Costruzioni” (basi, aeroporti, ecc.) rispettivamente 61, 48 e 6,5 miliardi di dollari su un totale di circa 330 miliardi in budget e 353 miliardi di allocazioni totali. Non sfuggirà al proposito che l’Iran ha oggi un prodotto nazionale lordo pari a circa 120 miliardi, l’Egitto raggiunge a malapena i 90 (poco meno di Israele) e l’Iraq ne aveva uno di circa 12 nel 1996 (...) Il bilancio del Pentagono, secondo la richiesta dell’amministrazione Bush, aumenterà di 45,5 miliardi di dollari (+13%) salendo nell’anno fiscale 2003 a 379,3 miliardi di dollari, cui se ne aggiungeranno 16,8 stanziati dal dipartimento dell’energia per il mantenimento dell’arsenale nucleare; in totale oltre 396 miliardi di dollari, circa la metà della spesa militare mondiale. Secondo la stima ufficiale aggiornata al giugno 2002 la spesa complessiva per i 70 sistemi d’arma in corso di acquisizione è di circa 1.119 miliardi di dollari (...) Si prevede di aumentare le spese di 48 miliardi di dollari l’anno prossimo (da 331 a 379 miliardi, il 14% in più) e di oltre un terzo, fino a 451 miliardi di dollari, entro il 2007. Sono gli incrementi più forti da vent’anni in qua».
Ma, a fronte di questa ripresa del mercato interno, l’industria bellica americana, la prima nel mondo naturalmente, sta ridimensionando il suo predominio nel settore delle esportazioni. Secondo il Sipri, l’Istituto di ricerche “sul disarmo” (sic!) con sede a Stoccolma, mentre nel quinquennio 1997-2001 gli Stati Uniti sono di gran lunga i principali venditori di armi (per un valore di 44,8 miliardi di dollari contro i 17,3 della Russia), nel 2001 la Russia ha superato gli USA vendendo armi per 5 miliardi di dollari contro i 4,5 degli USA; anche la Cina ha avuto un esploit arrivando a 600 milioni di dollari.
L’incertezza della guerra fa vacillare le borse ma una guerra breve, di impatto limitato sarebbe ben accetta dagli economisti e dai mercati. «Un’azione militare di corta durata, circoscritta all’Iraq, avrebbe probabilmente un impatto limitato sul tasso di crescita» e potrebbe anzi produrre «effetti positivi», dichiara il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale Horst Kohler, perché porterebbe ad un «chiarimento della situazione». Ecco la morale del “pacifismo” borghese: la guerra è un male, ma se serve a “chiarire la situazione”, il che consente di far quattrini, venga pure! Al contrario «La minaccia diffusa, la situazione poco chiara rende gli investitori esitanti» e una guerra lunga e incerta negli esiti potrebbe creare una situazione imprevedibile con effetti negativi sull’economia.
Se infatti a Washington riuscisse il “colpaccio” di un’operazione veloce in Irak e l’instaurazione di un Governo filo-americano, si darebbe anche una decisa spallata alla sfiducia mondiale verso Washington: la sua economia in panne potrebbe giovarsi di un nuovo clima in cui aziende e merci “made in USA”, dollaro compreso, verrebbero preferite in quanto ben protette da una politica forte. Il fatto che saranno poi fondamentalmente gli U.S.A. a stabilire i prezzi del petrolio e del gas naturale nel mondo renderebbe ricattabili le economie dipendenti dalle importazioni di greggio.
«Conclusasi la guerra fredda – considera Zoltan Grossman su Guerre & Pace settembre 2002 – gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare la concorrenza di due blocchi emergenti: Europa e Asia orientale. Benché fossero l’unica superpotenza militare rimasta vivevano il declino del loro potenziale economico e, nella nuova realtà geopolitica, si trovavano nella prospettiva di essere esclusi economicamente da gran parte del continente eurasiatico. Ma anche in questo campo l’egemonia statunitense è insidiata: la Cina è già da un decennio avviata sulla strada della concorrenza economica con gli USA; l’Euro sostituisce il Dollaro nelle casseforti dell’OPEC; la Russia rinsalda i propri legami col Medio oriente».
Dunque una guerra breve solleverebbe dalla contingenza sfavorevole,
ma è di una guerra lunga e distruttiva che ha bisogno il regime capitalistico
per superare la generale crisi di sovrapproduzione che soffoca l’economia
mondiale. A farne le spese sarebbe il proletariato mondiale, sempre più
povero ma sempre più numeroso.
Effimeri schieramenti
L’iniziativa statunitense per una nuova guerra all’Iraq non trova questa volta l’accordo degli altri Stati membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con esclusione della sola Gran Bretagna, né dei Paesi più importanti della Regione. Il cambiamento del “clima” politico e dei rapporti tra le principali potenze è condizionato soprattutto dall’atteggiamento degli Stati Uniti che hanno più volte ribadito di essere disposti ad andare avanti “da soli”. Questo cambiamento di atteggiamento politico di Washington rispetto ad alleati ed avversari è determinato dal cambiamento nei rapporti di forza a livello mondiale.
Gli Stati Uniti uscirono dalla prova titanica della Seconda Guerra imperialista come lo Stato di gran lunga più potente al mondo. Scrive il Mammarella in Storia d’Europa dal 1945 ad oggi: «Come conseguenza dello sforzo bellico la produzione industriale veniva raddoppiata in pochi anni. Alla fine del 1945, gli Stati Uniti, con il 7% della popolazione mondiale, producevano il 50% dell’energia elettrica, il 50% del carbone e il 75% del petrolio. In altri settori produttivi le percentuali erano ancora più schiaccianti e, nel complesso, due terzi del potenziale industriale esistente nel mondo era concentrato negli Stati Uniti (...) Questa posizione predominante portava la classe dirigente statunitense ad abbracciare i principi wilsoniani basati sulla collaborazione tra le nazioni garantita dal diritto internazionale, la creazione di un sistema commerciale mondiale fondato sul libero scambio e sulla libertà di accesso alle materie prime (...) Il nuovo ordine internazionale non era visto soltanto come un fatto di fede in un mondo migliore, ma anche come un fatto di necessità. Tra gli esponenti dell’establishment roosveltiano si stava diffondendo la convinzione che di quell’internazionalismo gli Stati Uniti avessero bisogno per risolvere i problemi economici che si sarebbero presentati con urgenza indilazionabile a guerra finita. Erano principalmente i problemi della ricerca di nuovi sbocchi e di nuovi mercati verso cui incanalare le enormi capacità produttive dell’America, che il mercato interno, si pensava, non avrebbe potuto interamente assorbire, ma anche quelli che nascevano dal graduale esaurimento delle fonti nazionali di materie prime che, utilizzate a ritmi sempre più intensi, inducevano gli esperti a ipotizzare per il futuro un’economia sempre più dipendente dall’estero».
La situazione nell’ultimo mezzo secolo è cambiata, l’enorme sviluppo della produzione industriale, la rinascita sorprendente dei paesi usciti sconfitti e distrutti dallo scontro bellico, la Germania ed il Giappone ed anche l’Italia, le ricorrenti crisi di sovrapproduzione, spingono verso una ripresa dell’antagonismo tra gli Stati. Queste trasformazioni economiche cominciano ad essere considerate pericolose da parte dalla borghesia americana più avveduta ed oggi diviene una necessità per essa non solo difendere le proprie merci nel mondo, ma soprattutto posizionarsi nei diversi punti nodali del pianeta per prevenire e cercare eventualmente di anticipare la possibile nascita di una futura potenza politica che possa contrastare il dominio statunitense. Sono a tal proposito diversi gli studiosi americani che temono appunto l’effettivo sorgere di Stati un domani nemici, che sarebbero non tanto gli “Stati canaglia” (Corea del Nord, Irak, Iran, Libia), ma colossi economici quali la Cina, il Giappone, la Russia o l’Unione Europea e, in essa, della Germania. La C.I.A. ha di recente pubblicato uno studio che prevede un futuro conflitto mondiale fra nemmeno quindici anni principalmente fra potenze quali Cina, Unione Europea e ovviamente Stati Uniti.
Gli U.S.A. hanno ancora la piena, e per ora incontrastata, iniziativa sulla scacchiera del mondo, ma gli altri blocchi imperiali non stanno a guardare. Le classi dominanti di questi paesi sono consapevoli che Washington sta lavorando per i suoi esclusivi interessi, ma l’enorme apparato repressivo statunitense rappresenta l’unica vera difesa contro lo spettro che ormai terrorizza il mondo intero: non è il terrorismo islamico ma quello del gigante proletario che da un momento all’altro potrebbe risvegliarsi. Centinaia di milioni di proletari sono coinvolti, ed ogni giorno di più, nel ciclo infernale della produzione e del mercato capitalistico, ogni giorno, sotto i colpi della crisi economica, cresce l’insicurezza del domani e l’oppio democratico, pacifista, militarista, razzista o religioso, cosparso a piene mani, basta sempre meno a far sopportare l’oppressione e lo sfruttamento.
Questo terrore del risveglio proletario ha trattenuto finora i maggiori Paesi imperialisti dal denunciare apertamente la protervia mondiale di Washington, ma l’arroganza delle ultime mosse americane fa pensare a molti che il prezzo della “protezione” sia troppo alto...
L’Europa è consapevole che la guerra all’Irak sarà a suo svantaggio, ma è ancora incapace di una posizione unitaria: la Gran Bretagna si è immediatamente schierata con gli U.S.A., seguita di poco dai governi di Spagna e Italia (ma il loro colore non c’entra: contro la Serbia c’era D’Alema!). La Germania ha espresso le sue decise obbiezioni alla guerra, la Francia ha ribadito la centralità dell’ONU (anche perché è uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza). Il presidente Prodi lancia segnali di irrigidimento verso gli U.S.A. e richiama alla difesa dei “sacri confini”. Giuliano Amato giustamente scrive sul Sole 24 Ore del 15 settembre riguardo la sua Unione Europea: «È ben possibile che ci separiamo in due tronconi davanti ad un intervento militare dei soli Stati Uniti (...) Non vorrei che il verificarsi degli scenari peggiori nell’evoluzione della vicenda irachena uccidesse prima ancora che nasca il bambino che sta concependo la Convenzione di Bruxelles». Se con la guerra in Irak e la sua lenta e meditata preparazione agli U.S.A. riuscisse il colpo di dividere l’Unione Europea, per loro sarebbe forse la maggiore delle vittorie.
Scrive a questo proposito uno dei sempre indignati editoriali di Le Monde Diplomatique, donchisciottesco paladino di chimeriche indipendenza nazionale, sovranità, democrazia: «Nell’atmosfera di intimidazione di questa vigilia di guerra contro l’Iraq, molti dirigenti europei (dalla Gran Bretagna, all’Italia, alla Spagna, ai Paesi Bassi, al Portogallo, alla Danimarca, alla Svezia...) magari senza neppure aver preso coscienza del cambiamento strutturale in corso, reagiscono con un riflesso canino adottando nei confronti dell’Impero americano l’atteggiamento di servile sottomissione che spetta ai fedeli vassalli. E giacché ci sono, svendono in blocco indipendenza nazionale, sovranità e democrazia. Mentalmente essi hanno superato la linea che separa l’alleato dal feudatario, il partner dalla marionetta. Per le loro forze armate, nella battaglia che si preannuncia, implorano un’ingloriosa funzione suppletiva. E se possibile, dopo la vittoria americana, una goccia di petrolio iracheno».
La Russia si è mostrata avversaria alla guerra, ponendosi come capofila dell’asse Parigi-Berlino-Mosca, e il ministro degli Affari Esteri, Igor Ivanov, ha ribadito, ancora il 26 settembre che «Solo gli specialisti possono giudicare se ci sono armi di distruzioni di massa in Irak» e ha ricordato che Mosca cerca di ottenere un immediato ritorno degli ispettori in Iraq e che si dovrà attendere le loro conclusioni per decidere cosa fare.
Ma la Russia oggi economicamente vale un quarto della Cina, il suo P.I.L. rappresenta il 5% circa del P.I.L. statunitense o europeo. La Russia attraversa una fase nella quale, dalla preponderanza della produzione industriale è tornata ad un’economia basata sull’estrazione e l’esportazione delle materie prime. La sua economia necessita di investimenti stranieri per modernizzare almeno una parte di quel 60% dell’industria che è basata su macchinari superati se non addirittura non più funzionanti, necessita di investimenti per estrarre a prezzi competitivi i minerali, necessita di un compratore di petrolio e gas di tutto rispetto quali appunto gli U.S.A. e ha bisogno di tirarsi fuori decentemente dalla crisi cecena e dalle insidie provenienti dalla Georgia, uno Stato della cui indipendenza Washington si è fatta garante ma che è accusata da Mosca di proteggere ed ospitare basi di terroristi ceceni. Recentemente Putin ha minacciato un intervento militare diretto in Georgia proprio per eliminare quelle basi.
Washington potrebbe inoltre promettere ai petrolieri russi, che hanno grande influenza sul presidente, di spartire con loro il petrolio iracheno. Dunque Washington ha molte carte da giocare per ammorbidire l’atteggiamento russo. Venderà Mosca l’alleato iracheno per un assegno a moltissimo zeri?
Anche la Cina, con prudenza orientale, esterna la sua contrarietà alla guerra richiedendo di far intervenire l’ONU.
Altro paese poco entusiasta è la Turchia che però è legata a doppio filo agli Stati Uniti. L’ex premier Bulent Ecevit prima delle ultime elezioni aveva fatto alcune dichiarazioni contrarie all’intervento. La borghesia turca teme che la guerra e l’abbattimento del regime di Saddam potrebbero provocare una ripresa dell’indipendentismo curdo; i curdi rivendicano infatti la regione che comprende le province di Kirkuk, Mossul ed Erbil in Iraq e pare che i due maggiori partiti curdi iracheni, il Partito Democratico del Kurdistan di Massud Barzani e l’Unione Patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani, dopo essersi fraternamente sbudellati e denunciati al nemico per dieci anni, abbiano raggiunto un accordo per appoggiare la costituzione di uno Stato federale in una regione autonoma a maggioranza curda. Nonostante questi timori, anche dopo la vittoria elettorale del Partito islamico Akp, Ankara non ha potuto che riaffermare la sua presenza a fianco degli Stati Uniti se ci sarà la guerra. In cambio Washington sarebbe disposta a azzerare i debiti contratti per forniture militari, concedere nuovi prestiti alla malandata economia turca, fare pressione sull’Europa per l’ammissione della Turchia nella Unione Europea. L’esercito turco si prepara quindi ad inviare truppe nel nord dell’Irak sia per impedire l’accesso alla Turchia alle centinaia di migliaia di disgraziatissimi profughi in fuga dalle città irachene bombardate, sia per prendere il controllo della regione.
Il presidente iraniano Mohammed Khatami ha ribadito, durante i lavori del settimo vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica svoltosi proprio a Istanbul, che il suo Paese, potenza regionale di importanza fondamentale nell’area, «è contrario ad ogni azione unilaterale contro l’Iraq. L’ONU deve giocare un ruolo decisivo (...) occorre proteggere l’integrità territoriale dell’Iraq e la sovranità del popolo iracheno». Il ministro degli esteri Kamal Kharazi pochi giorni prima aveva dichiarato che l’Iran «non resterà indifferente perché ci sarà una minaccia per la sicurezza, la stabilità e la pace nella regione, ma anche nel mondo. Noi siamo fortemente contrari ad un attacco contro l’Iraq e speriamo che gli USA collaboreranno con la comunità internazionale». In effetti a Teheran, che deve fare i conti con un proletariato moderno ed una piccola borghesia che sempre più difficilmente tiene a bada con le Sure del Corano e con la repressione, è sgradita qualsiasi destabilizzazione nell’area, sia essa la caduta di Saddam Hussein, compare-nemico nella decennale guerra passata, sia una presenza troppo forte degli Stati Uniti. Da parte sua Washington ha graziosamente messo anche l’Iran nella lista degli “Stati canaglia”.
Gli Stati arabi “moderati”, l’Egitto e l’Arabia Saudita, hanno più volte espresso la loro contrarietà ad una nuova guerra che potrebbe rimettere in gioco l’intero assetto regionale; l’Arabia Saudita soprattutto ha da temere un suo ridimensionamento politico ed economico.
Naturalmente si tratta di una partita tra ladroni, prevalentemente per la spartizione del malloppo, ed è difficile prevedere quali saranno gli schieramenti una volta che la guerra sarà iniziata, nonostante le dichiarazioni pubbliche.
I comunisti, pur non essendo indifferenti verso i fronti che si vanno formando, al fine di comprendere quale esito dello scontro potrebbe essere meno sfavorevole alla rivoluzione proletaria, indicano ai proletari che tutti gli Stati sono alleati nel mantenimento dell’ordine capitalistico e tutti nemici del proletariato. Per i proletari il nemico è nella loro patria: essi nel futuro scontro imperialistico non hanno un fronte da scegliere ma rivendicare e organizzare la loro guerra, la guerra rivoluzionaria per la difesa dei loro interessi di classe contro la guerra tra Stati imperialisti. Questo è valido negli U.S.A. e in Europa, ma anche in Iraq, in Iran ecc.
Chi pensa che il fatto che gli Stati borghesi si lancino armati contro, o in difesa, degli “Stati canaglia” sia prova e tripudio di potenza, si sbaglia di grosso. Il tripudio è forzato, e lo sfoggio di potenza storicamente difensivo e obbligato.
Non vi è inattesa fine della storia con l’affermarsi definitivo dell’Impero Americano, né tantomeno la scomparsa degli Stati-nazione in un unico impero senza confini e senza centro, come delira qualche nanerottolo. Anzi, si è alla vigilia di processi che il marxismo da tempo attende. La voce grossa dell’America è espressione del declino della sua egemonia sul mondo. Botoli statali capitalisticamente di minore taglia quali l’Iran, il Pakistan, l’Arabia Saudita e altri pretendono i loro ossi, puntano ad un’influenza nelle proprie regioni, e a denti stretti ringhiano attorno al mastino Yankee. Washington vorrebbe unificare il mondo borghese sotto i suoi interessi, ma quel mondo è già unificato, nel traboccare delle sue troppo stridenti e incontrollabili contraddizioni.
Starà al proletariato internazionale approfittare di quelle debolezze e di quelle contraddizioni per fare la sua guerra alla borghesia mondiale.
Rapporto esposto alla riunione di Torino nel settembre 2002
Per poter decifrare l’attuale realtà, che sembra veder spuntare all’orizzonte una nuova divisione del mondo non più tra “Est ed Ovest”, ma tra “Nord e Sud”, ci incombe la necessità di richiamarci a tutti i nostri lavori sulla questione guerra, per non cader né in semplificazioni, né in impotenza, a causa della “complessità” del problema.
Nella nostra visione la realtà sociale e storica, per quanto difficile da interpretarsi, ha un suo filo, un suo bandolo che è necessario saper trovare, per indicare al proletariato quali sono i suoi interessi, i suoi compiti, le sue possibilità nel momento in cui la guerra guerreggiata sembra ripresentarsi sulla scena.
Poiché l’azione per l’azione sembra voler coprire ogni esigenza di giustificazione storica, ben venga ogni sforzo teso al dominio della realtà. Nel caso delle secolari vicende dell’imperialismo, in quanto categoria nella quale racchiudere un lungo periodo di storia, vediamo di capirne e delineare l’arco del percorso, la sua parabola.
Ormai, anche i più ottusi che videro lo scontro Est-Ovest come una sorta di lotta tra opposti poli di Bene e Male, collocati invertiti da una parte ovvero dall’altra, vanno confessando malinconicamente che fino in fondo non vi avevano mai creduto, nonostante la lotta politica, bieca e minacciosa nei confronti di chi l’aveva fino dal 1924 sostenuto, non dall’esterno del movimento comunista, ma combattendo una battaglia mortale, che costò la vita di generazioni di comunisti rivoluzionari. Oggi, qualche “filosofo”, non dei meno dotati e peggiori per facoltà d’uso delle energie mentali, pretende d’averlo scoperto da par suo “più di vent’anni fa”...
Se pensiamo che il crollo dell’ex URSS data al 1991, due anni dopo l’abbattimento del simbolo Muro di Berlino, è come dire ieri.
Severino, sul Corriere della Sera, si lascia andare anche ad altra esibizione di “preveggenza”, che può interessarci per ragioni di “potenza della teoria”. «È insensato non tener conto della “struttura concettuale” che oggi, con l’integralismo islamico in azione, consente di prevedere dove l’Islam nel suo insieme stia andando. In breve: è inevitabile che il “piano inclinato”, che sta facendo cadere tutte le forme della nostra civiltà, faccia scivolare e cadere anche l’Islam, conducendolo alla sua fine. Ciò che inclina quel piano è da un lato il cuore della modernità, ossia il pensiero filosofico degli ultimi duecento anni, che mostra l’inevitabilità e irrefutabilità della “morte di Dio”; dall’altro lato è la “tecnica” guidata dalla scienza moderna».
In termini più semplici noi diremmo: lo sviluppo delle forze produttive (che l’autore si guarda dal chiamare il Capitale) condurrà inevitabilmente al declino dello stesso Islam, che appare la religione più chiusa ed ottusa; come già il Cristianesimo medievale ha dovuto cedere allo spirito del profitto col Protestantesimo, così anche l’Islam più fondamentalista sta cedendo sotto i colpi della penetrazione capitalistica. Una scoperta, come si vede, che noi abbiamo fatto con Marx ben un secolo e mezzo fa, ma che, a quanto pare, deve essere “detta” in formule meno “spettrali”, tanto per non turbare eccessivamente i sonni della borghesia di tutti i paesi. Ci interessa solo sottolineare che, ove si eserciti lo spirito critico, anche se timido e attento a eludere i passaggi cruciali, si deve addivenire alla considerazione che il comunismo è necessario.
Eppure è una certa intellettualità vissuta negli ultimi dieci anni genuflessa alla sacra pantofola di Wojtyla, dopo aver riscoperto il misticismo, la magia, ed un’infinità di altre forme di incenso.
Si, anche l’Islam, che nel suo complesso approfitta delle rendite petrolifere, non può illudersi di rimanere estraneo allo sviluppo sempre più accentuato dei rapporti di classe nel suo interno. Così si spiegano i soprassalti integristici, che intendono essere una sveglia contro i regimi moderati che convivono comodamente coll’imperialismo guidato dagli USA. Si pensi alla posizione dell’Arabia Saudita, che sembra scossa dall’attuale crisi internazionale. Ma intanto il proletariato palestinese, e degli altri paesi musulmani, subisce l’onda d’urto del terrorismo, incapace di individuare una via maestra della lotta di classe, in mancanza d’una guida metropolitana seria e credibile.
Il “piano inclinato” di cui parla il filosofo sarebbe di una natura tale da fagocitare ogni forza che intendesse servirsi della tecnica. Come a suo tempo il capitalismo (secondo lui) non è stato capace di “governarla”, così succederà a qualsiasi altra “ideologia o religione”, sia essa il cristianesimo, l’islamismo o il... socialismo. «È inevitabile che la potenza della tecnica divenga il loro scopo ed esse divengano il mezzo perché cresca tale potenza».
A che cosa è dovuta questa potenzialità indomabile? È forse essa una forza demoniaca non meglio qualificabile? L’analisi che fa Marx del Capitale allude spesso a questa natura delle forze produttive, che modellate da determinati rapporti di produzione, prima o poi si ribelleranno al loro tentativo di assoggettarle; senonché l’analisi che fa Marx non approda mai ai lidi della metafisica, nel senso che lo studio delle forme di produzione non si limita mai a quella terminologia astratta, indifferente alla dinamica fisica delle forze stesse.
L’inevitabilità di cui parla il filosofo non ha niente a che vedere con la nostra “inevitabilità”: come si vede ci sono dei “deterministi-fatalisti” ben più estremi di noi! Ma, se il dominio e l’assoggettamento delle forze produttive alla “razionalità” del socialismo non sarà certo un pranzo di gala, è anche vero che ciò sarà possibile tolte le contraddizioni interne alla “tecnica”. Nella fase imperialistica più d’uno ha tentato di dire che ormai il groviglio della complessità del processo è inarrestabile, ingovernabile, e così... da prendere per quello che è, tanto ogni intervento soggettivo (nel senso di storico) umano urta con un’eterogenesi dei fini che non si potrà rovesciare.
L’imperialismo, in questa lettura, è il “trionfo della tecnica” che ha come fine la sua affermazione, nella sua estrema “volontà di potenza”. Addirittura saremmo in un’epoca nella quale la “tecnica” non serve più a realizzare il profitto, perché, invertito soggetto e predicato, il profitto serve per aumentare la potenza della “tecnica” in un circolo vizioso che non può essere sciolto, e che si autoalimenta.
Come si vede la polemica antitalebana finisce per assomigliare tanto alla dottrina talebana: è fatale che l’Islam vinca, dicono loro... è inevitabile che la tecnica abbia la meglio, gli si risponde! Alfa ed Omega... è la vecchia solfa. Tanto il giorno che la notte, tanto l’origine che la fine. E la dialettica, che fine ha fatto? “Logico” ed “inevitabile”, nella notte in cui tutti i gatti sono bigi.
A che serve vedere cadere le religioni, vedere la morte di Dio, poi della filosofia, poi la della Storia? Non è forse questo il “cupio dissolvi” d’ogni inevitabile nichilismo, si mascheri esso di esaltazione o di cupa depressione? Certo che l’Islam combatte il suo Satana, come del resto il cosiddetto Occidente. Certo che il Capitale è un Satana, ma nel senso d’un nemico che deve essere combattuto, e che non prevarrà! Ma questo Satana non può essere sconfitto “demonizzandolo”, non riuscendo a comprendere che ha una storia, che genera nel suo affermarsi gli anticorpi da cui sarà debellato.
Se l’Islam, come a suo tempo il Cristianesimo, dovesse scoprire il “libero pensiero” per liberarsi dalle sovrastrutture del fondamentalismo, e poi dovesse cadere nelle grinfie del profitto, o della tecnica che tutto sottomette, che lo farebbe a fare, e chi glielo farebbe fare? «Se Dio è morto, non può esistere alcun limite alla volontà di trasformare il mondo» commenta disperato Severino. Certo. Ma la trasformazione conosce, al suo interno e nella sua logica, i tempi dello sviluppo e dell’obsolescenza, nasce, cresce e muore, come ogni cosa naturale o artificiale.
La “tecnica” non è al di sopra delle classi, come non lo è l’imperialismo: anzi, essendo l’imperialismo la fase suprema del capitalismo, ciò non significa pace perpetua o guerra senza fine, ma intensificazione di contraddizioni (impreviste dai suoi sostenitori) che portano e porteranno sempre più allo scontro di classe. Già, proprio ora che le classi non ci sono! ci si sente rispondere dai recenti “vincitori”. E non avevano forse in più d’uno gridato che la “Storia era finita”? Ed invece sembra proprio “più viva che pria”.
Così, a proposito del “dominio concettuale” degli eventi e della realtà, il lupo perde il pelo, ma non il vizio: perché se Dio è morto (ammesso che lo sia veramente), e la storia non sta certo bene, la “tecnica” (leggi il Capitale) dovrebbe essere “eterna”? Un mistero.
Perché la “volontà di potenza” dovrebbe non avere limiti, non volendo e non potendo essere governata da nessuno? Il “pensiero” metafisico, anche se rovesciato, non è in grado di giustificare tale evidente paradosso. «La tecnica rispecchia la “morte di Dio” ed è quindi il cavallo di Troia contro chi vuole servirsene affinché sia fatta la volontà di Dio» (Severino).
Ma da dove è uscito questo “se Dio è morto, tutto è possibile”? compresa la vittoria inevitabile della “volontà di potenza”? Se non ci sbagliamo da Sartre, lo ricordiamo bene, che citava a sua volta Dostoyevskj. Da un esplicito “ateo” piccolo borghese, o borghese che si voglia. Dio insomma inteso come il limite alle sciagure ed alle nefandezze.
Ma se “Allah akbar”, come la mettiamo? Chi conosce i limiti della divinità? Come ebbe a scrivere nel Dizionario un altro gran borghese come Voltaire, se è vero che Dio creò l’Uomo a sua immagine e somiglianza, poi l’uomo non gli fu da meno, creandosi dio e dei a sua immagine e somiglianza... Gli escamotages concettuali sì che non solo non hanno limiti, ma servono sempre per suscitare emozioni non controllabili.
Dire che Dio è morto allora tutto è possibile, e soprattutto che l’uomo non potrà porre un termine alla sua arroganza, significa vietarsi di individuare le motivazioni concrete e determinate a causa delle quali spazza via i limiti già imposti da precedenti traguardi culturali raggiunti, e per quale ragione ciò sarebbe deleterio. Il cristianesimo occidentale, particolarmente il dominante protestantesimo puritano, si vanta d’aver superato tutte le paure del Medioevo in cui ancora sono impaniate le culture dell’area mediterranea, compreso in parte il cattolicesimo.
I talebani vorrebbero poter utilizzare le tecniche senza che l’assetto
sociale ne risenta e l’Islam rimanga intatto? Chi non ricorda che Gregorio
XVI, ancora nella prima metà dell’Ottocento sosteneva che il treno fosse
figlio del demonio; e dieci anni dopo Pio IX si fece costruire la
carrozza ad personam?
Rapporto esporto alla riunione di Torino 22-23 settembre 2001.
Bourgeois e Citoyen “globali”
La riflessione borghese nel campo delle sovrastrutture politico/ideologiche non è mai venuta meno. Oggi si aggira sulla nozione/convinzione che gli Stati-Nazione, tipici dell’Ottocento, non sarebbero più in grado di assolvere al loro compito in epoca “ultra-imperialistica”. In generale ci si contenta di dire che “nuovi assetti sovranazionali” potranno e dovranno convivere con i vecchi apparati, che anzi dovranno trovare il modo di soddisfare le aspettative di “autonomia” e di “identità” delle aree regionali omogeneizzate dallo sviluppo più accelerato delle “nuove tecnologie”.
Un po’ poco, per la verità, in rapporto ad esigenze sempre più urgenti, che facendo leva sulle “tecnocrazie” nascoste o palesi, muovono i fili all’interno degli organismi da tempo collaudati.
Rimane ferma comunque la loro necessità, quella di impedire ogni tipo di reazione e di ripresa della combattività operaia, che, nonostante i presunti ridimensionamenti subiti sia a livello politico sia statistico, non può non manifestarsi di fronte ad una disoccupazione sempre maggiore e all’aumento dei carichi di lavoro.
Il sociologo tedesco Ulrich Beck ha scritto per la rivista trimestrale “Lettera internazionale” un saggio che vorrebbe fare il punto sulla sistemazione “politica” della “economia globale”, proponendo suggerimenti sulla base dell’analisi dei limiti e delle insufficienze dell’attuale assetto mondiale tra le potenze. Come realizzare «il passaggio dallo Stato-Nazione a una democrazia transnazionale e cosmopolita? (...) l’idea d’una democrazia transnazionale che conquisti una configurazione e un potere reale (...) abbisogna d’un nuovo soggetto politico, un Partito a cui i cittadini globali possano dare la propria adesione».
Contentiamoci per il momento di valutare questa utopia. Mentre rivendichiamo che soltanto il proletariato internazionale è stato in grado di dare vita non puramente utopistica ad un partito unico, neghiamo da sempre, a livello teorico, che i “cittadini” del mondo possano mai farlo. Eppure non è da ora che la borghesia lo sogna: combattuta tra i suoi angusti limiti nazionali e la sua espansione globale, vorrebbe far quadrare il circolo tra l’esigenza di comuni regole, economiche e giuridiche, e la necessità di “proteggere” gli interessi di ciascuna porzione di capitale, con le proprie peculiarità, i propri pregi. Oggi la contraddizione tra bourgeois e citoyen, tipica della rivoluzione francese, si è estesa a livello mondiale. Mentre da una parte ciascuna frazione di capitale, in nome della libera concorrenza, cerca spazio e collocazione senza limiti di frontiere, in un clima politico che non ha nulla a che fare col nostro concetto di internazionalismo, nello stesso tempo esigerebbe un governo politico e militare che dovrebbe intervenire ogni volta che turbative e tensioni agitino questo ambiente pacifico “fondato sugli affari”. La “democrazia transnazionale” esigerebbe un governo mondiale capace di comporre senza scontri gli interessi tra gli Stati-Nazione, o aggregazioni di aree, desiderose di imporre la propria egemonia.
La teorica borghese dimentica che la dottrina marxista ha da tempo visto e condannata l’ipotesi ultraimperialistica, che attribuisce alla degenerazione socialdemocratica: essa consiste nella convinzione che le contraddizioni interimperialistiche non portano necessariamente alla guerra tra Stati o alleanze di Stati, ma ad un governo mondiale dell’economia, secondo regole democratiche. Una concezione, come si vede, che oscilla tra l’essere ed il “dover essere”; né più né meno quello che si spera oggi quando si afferma, da parte delle correnti democratico-liberali, ex-opportunistiche e chiesastiche, la “gestibilità” della “globalizzazione”, per mezzo di elemosine ai paesi poveri e buone intenzioni.
Non ci meravigliamo che la teoria borghese, in tutte le sue varie sfaccettature, non sia in grado di partorire una sola idea nuova, tenuto conto che si vanta di innovare in tutti i campi. Per noi è una conferma del fatto che anche la borghesia si trova costretta e bloccata nella sua invarianza di classe, che meglio sarebbe dire “decrepitezza”.
Ma Beck un qualche merito critico ce l’ha, perché non teme di mettere in risalto che, nonostante il gran parlare che si fa di Democrazia e di Partecipazione al governo mondiale o transnazionale dell’economia e della politica, in realtà le istituzioni e gli organismi che si sono stabiliti nel corso del tempo non corrispondono affatto ai criteri di “libertà” e di decisioni “popolari”: «se, per ipotesi paradossale, l’Unione europea chiedesse di aderire a se stessa, il rigetto sarebbe scontato; e ciò perché l’Unione europea non ha i requisiti democratici necessari per esservi ammessa». Più avanti denuncia una verità che è sotto gli occhi di tutti: determinate decisioni di tipo “tecnocratico” vengono prese al di sopra delle sovranità dei singoli Stati: «L’Unione prende autonomamente un numero sempre maggiore di decisioni che gli Stati aderenti sono chiamati ad attuare senza aver contribuito democraticamente alla loro formulazione».
Se lo diciamo noi, siamo dei “sovversivi” – come è vero – ma le affermazioni di Beck, da sociologo, sono “oggettive” e corrispondono alla nostra tesi, che possiamo formulare in questa maniera: 1) è l’economia che detta le regole della politica; 2) gli Stati nazionali non possono più contenere il volume in continua espansione delle merci, il Capitale; questo, mentre nella sua fase di prima accumulazione ha bisogno di limiti e frontiere nazionali per farsi le ossa ed aprirsi un mercato nazionale nel quale realizzare profitto, nella sua fase espansiva non tollera “lacci” di questo tipo che tende a infrangere, prima con le minacce (vedi guerre commerciali), poi con la guerra guerreggiata, che rompe le resistenze economiche, politiche e militari dei concorrenti.
Oggi, in piena e suprema fase imperialistica del capitale, mentre ci si illude di “regolare” queste contraddizioni attraverso un “governo mondiale”, si fa finta di non capire che nel corso d’un secolo, già passato, si sono create istanze di governo mondiale in più circostanze, dalla Società delle Nazioni, che si dimostrò incapace di impedire il Secondo conflitto imperialistico, all’Onu, formata dai vincitori quando ancora non era finita la guerra mondiale; per non parlare delle aggregazioni economiche d’area, alle alleanze militari più o meno simmetriche. In una parola, una serie di tentativi di governo delle tensioni che hanno continuato a convivere con Stati-Nazione gelosi delle loro prerogative.
Beck giustamente, a questo punto, pone interrogativi ovvi: «a chi spetta stabilire norme vincolanti che non tengano conto dei processi politici interni degli Stati-Nazione?» E ancora: «quale che fosse l’autorità investita, sarebbe il suo operato legittimo?» Nell’attesa, crediamo vana, che trovi risposte definitive, noi rispondiamo che le sue preoccupazioni sono state visitate, da tempo ormai remoto, ma sempre attuale, dalla nostra teoria. Ci permettiamo così di ricordargli che innanzi tutto questa “autorità legittima” è l’egemonia degli imperialismi momentaneamente vincenti, i quali, prima e durante le guerre, senza neanche dichiararle, specie dal Viet-nam in poi, si prendono la briga di “dittare” con le loro decisioni, anche militari, sui riottosi, che al massimo possono protestare, ma devono subire le decisioni sovrane delle ragioni del Capitale.
Beck procede nelle sue considerazioni/protesta nei confronti delle Istituzioni inadeguate, sia in campo europeo sia più generale, rimarcando la divaricazione oggi esistente tra un’economia “globalizzata” ed una politica istituzionale “arretrata” in rapporto ai bisogni complessivi di questo dominio.
Ma non da oggi la contraddizione è stridente: mentre da una parte si ha la pretesa che la politica prevenga le difficoltà e i disastri creati dalla struttura economica, nella realtà si registra il ritardo nella capacità di guidare i processi, senza che questi divengano esplosivi, fino al punto di provocare tensioni militari e guerre aperte. Vecchia solfa, dobbiamo dire, mascherata da una nozione di Politica che attualmente viene sempre più ridotta a tecnica amministrativa, dietro cui nascondere le contraddizioni ed i conflitti di interessi. Noi abbiamo sempre sostenuto che l’amministrazione delle cose, come la chiama Engels, è possibile solo in regime socialista; nel pieno dei rapporti borghesi inevitabilmente la Politica o arriva troppo tardi, o troppo presto, ma mai sarà in grado di guidare la presunta e pura amministrazione.
Questo è uno dei cardini della nostra visione delle cose, mentre invece costituisce l’occasione per una delle più fetide ipocrisie dello Stato, anzi, degli Stati e Superstati che sorreggono e rappresentano gli interessi della borghesia.
Ma sentiamo Beck: «Introdurre l’Euro, e quindi suonare la ritirata per il vecchio Stato-Nazione, nel modo in cui lo stanno attualmente facendo molti europei, significa mettere a rischio l’intero esperimento. E d’altra parte riportare le lancette dell’orologio sulla democrazia nazionale è pura illusione». Come dire: l’economia è andata troppo in là perché possa esser contenuta e gestita dai singoli Stati nazionali. La materia è “mista”, e si crede di poterla gestire con una cessione di “sovranità” in determinate materie che esigono interventi efficaci e perfino dittatoriali (perché l’economia e le sue ragioni non possono aspettare), e con il mantenimento, anzi, l’aumento di “autonomie”, di libertà locali che dovrebbero funzionare come contraltare ai processi di omologazione culturale che appiattirebbero la vita civile e culturale. La litania è cantata in mille salse.
Si dovrebbe però rispondere alle nostre storiche obbiezioni: 1) è possibile che i monopoli possano essere combattuti con le “leggi antitrust”, di cui sappiamo tutti l’inadeguatezza? 2) ci si illude davvero che la piccola e media imprenditoria siano l’alternativa ai mastodonti economici e finanziari che, stando anche alle statistiche ufficiali, non solo non sono diminuiti ma rappresentano in pochi una percentuale schiacciante dell’economia mondiale?
Non si creda che i soloni borghesi non conoscano i teoremi fondamentali del marxismo: per loro lo “spettro” del comunismo non s’aggira più soltanto per l’Europa, ma per l’intero pianeta. Le potenti determinazioni non si lasciano né piegare né nascondere tanto facilmente: e così la loro “teoria sociale” riesce solo a biascicare giaculatorie che già sapevano, e meglio, i vari Proudhon, a base di “federalismo”, “libertà economica”, “sussidiarietà”, “dislocazione” delle decisioni bancarie alla periferia, “devoluzione”!
Noi sappiamo che i grandi processi sociali non possono essere azzerati, che lo scontro interimperialistico non può che procedere fino ai limiti della tensione militare.
Si provi Beck, o chi per lui, a smentire quanto passa sotto gli occhi di tutti. Gli esperimenti da laboratorio sociale non reggono più e la scienza della società di costoro riesce al massimo a compilare liste di problemi insopportabili e irrisolvibili: «crisi ecologiche, emigrazione e xenofobia, criminalità, flussi finanziari, evasione fiscale, perdita di posti di lavoro, miseria, giustizia, futuro dello Stato assistenziale e pensioni di anzianità – sono tutti problemi globali e non solo nel senso che si sono dilatati in misura tale da renderne impossibile la gestione a livello nazionale», con una coda critica quanto mai generica: «oggi dobbiamo fare i conti con una nuova dialettica tra ciò che è globale e ciò che è locale, una dialettica che non è facile collocare nell’ambito della politica nazionale, ma può essere adeguatamente utilizzata e risolta solo in un contesto “transnazionale”». Come «È necessario disporre di partiti cosmopolitici che rappresentino le questioni transnazionali in un’ottica transnazionale (ancora!), ma operanti nell’ambito dell’arena politica degli Stati-Nazione».
Ora, a livello, ad esempio, europeo, non è nuovo che esistano varie “Internazionali”: quella socialista, quella popolare già democristiana, quella liberale. Di che cosa si sta parlando? Noi, che abbiamo sempre sostenuto la necessità del Partito Internazionale (lo preferiamo ancora così, perché non sottovalutiamo per niente la questione peculiare delle realtà “nazionali”), ne usciamo confermati, con una piccola differenza: il nostro non è un discorso “cosmopolitico” e magari filantropico! ma una realtà che intendiamo dotare di programma storico, che travalica le contingenze, valido per un’intera epoca di transizione dal capitalismo al socialismo inferiore e poi superiore. E lor signori? L’abbiamo decretato un’infinità di volte: tutti i tentativi borghesi di produrre un partito unico sono affondati nella melma delle contraddizioni insanabili della realtà mercantile. Ci provò il fascismo e poi il nazismo, in nome d’una reazione “sana” alla pressione del comunismo sovietico. Sappiamo come è andata: come l’Internazionale di marca staliniana finita in un informe “Cominform”, così i sogni di una società organica del Lavoro di tipo fascista si sono dovuti sgonfiare, per far posto alla ripresa, anche peggiore di quello, del pluralismo, della democrazia multicolore post-fascista. Le Internazionali dei partiti borghesi non sono che “buche per le lettere” o tutt’al più tirapiedi dei grandi complessi comitati d’affari che hanno bisogno di referenti politici manovrabili, ma incapaci di programma organico di lungo periodo.
Per Beck «saranno i partiti cosmopolitici i protagonisti della politica, capaci di imitare le strategie aziendali che scavalcano ormai da un pezzo la trappola territoriale dello Stato-Nazione. Saranno loro ad operare a entrambi i livelli mettendo gli Stati-Nazione gli uni contro gli altri». Come dice uno slogan di partito più che collaudato: impariamo dall’economia la strategia vincente. Se la politica intende prendere lezioni dalla “economia vincente”, la sua vittoria sarà di Pirro!
Fine, insomma, della retorica romantica e post-romantica dello Stato Etico, incarnazione dello Spirito, in nome dell’Azienda; confessione non estorta, ma esplicitamente resa del primato della volgare economia... tanto rinfacciato al presunto “economicismo” del materialismo dialettico. E i “sogni di bellezza”? Niente. E la Poesia? Anche meno di niente. Segno che, come scrive Marx nei “Manoscritti economico-filosofici”, soltanto il comunismo sarà in grado di realizzarli, in una integrazione organica di economia ed estetica, di bello e di buono.
I partiti cosmopoliti, nel frattempo, si scambiano le parti con i sottopartiti localistici, reazionari e piccolo borghesi, che in determinate aree si presentano come l’unico presidio delle tradizioni locali, dei prodotti tipici, della pulizia etnica, contro la degradazione capitalistica, il lavoro a basso costo, la disoccupazione e lo squallore efficientista. Non c’è da dare un minimo di credibilità ai niet da dottrina brezneviana della “sovranità limitata” con i quali Commissione europea e grandi marpioni imperialisti fingono di opporre divieti e condizioni ai vari Haider e Bossi occasionali: sono queste formazioni politiche quelle che il Capitale merita e vuole, espressione di impotenza di fronte agli enormi problemi umani sollevati dalla decrepitezza del suo modo di produzione, ormai “carnefice sanguinario”, come il Vate dello Stato-Nazione italiano, D’Annunzio, definì il vecchio barbogio, oggi tanto rivalutato dalla canea borghesuccia, Francesco Giuseppe.
Che dire, allora, della proposta e modello di tipo “reticolare” di cui si sta cianciando da parte degli “ingegneri della politica” che vanno per la maggiore? Stando al loro discorso, mentre si inseguono le fusioni di Imprese, specie tra Istituti bancari e Aziende transnazionali “ad altissimo valore aggiunto” (come ipocritamente chiamano il plusvalore), la politica potrebbe dar vita a legami di Partiti e Stati di tipo “orizzontale”, senza prevaricazioni reciproche, in una sorta di “collaborazione inevitabile”. «Esistono soluzioni alternative come quelle praticate dalle aziende, che fanno piazza pulita delle vecchie gerarchie burocratiche, e optano per un regime flessibile il cui coordinamento non ha solo carattere verticale, ma anche orizzontale e transnazionale».
Ma che, ci permettiamo di osservare, non sono in grado di smuovere d’un millimetro i colossi militari, la loro incessante centralizzazione, fino al potere tecnologico dei sistemi più avanzati, che, come nel caso della guerra in Kosovo, minacciano gli stessi partner europei e mondiali di non «poter più partecipare ad un’eventuale pianificazione militare» (generale Clark) per incompetenza ed inefficacia. Più o meno allo stesso modo in cui il presidente Truman, dopo la bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, ebbe a sostenere che era nato lo strumento definitivo per la pace ed il suo eterno mantenimento!
La nostra concezione ci vieta di analizzare con i “desideri”: il modello a rete, proposto dai nuovi strateghi non è che la brutta copia dell’utopia cooperativistica di tipo proudhoniano, una vera “miseria” di pianificazione, un’ulteriore illusione di pace perpetua puntualmente smentita dalle necessità sia storiche sia politiche e militari. Non siamo disposti a lasciarci ingannare e a lasciare ingannare il proletariato da queste belle parole, con le quali si vuol dare l’impressione di poter smontare una struttura e modo di produzione che per definizione marcia nel senso della concentrazione e del dominio.
Ma, piano piano, viene fuori il progetto del signor Beck: finora si è limitato a sottolineare insufficienze di Partiti e di Stati-Nazione nell’era della globalizzazione, ha fatto intendere che l’economia libera sta plasmando una nuova politica, l’esigenza di nuovi partiti cosmopolitici... ha fatto balenare l’idea di rapporti democratici dal basso secondo le esigenze delle nuove imprese... finché, davanti alla prospettiva politica cruciale, che farsene dello Stato, non balbetta più, e da buon sociologo la spara: «ciò di cui abbiamo bisogno è l’esatto contrario dello smantellamento neoliberale: Stati forti in grado di far rispettare la normativa a livello nazionale e internazionale. La necessità di inventare e negoziare nuove regole fa della globalizzazione un focolaio di conflitti non solo in politica ma anche nella vita quotidiana dei cittadini del mondo».
E, giunto a questo punto, snocciola vari scenari per far fronte alla bisogna: 1) un approccio cosmopolitico, con una politica transnazionale come strumento per perseguire interessi nazionali, oppure, 2) regimi internazionali, autorità normative dotate di poteri forti, e quindi autonome rispetto ai governi democratici nazionali, 3) partiti cosmopolitici ancorati a livello nazionale in grado di mobilitare l’opinione pubblica, tuttora ampiamente segmentata, su questioni di carattere transnazionale». Insomma, una “Santa alleanza” di Stati transnazionali contro turbative e conflitti che non si nominano, ma si intuiscono.
Che cosa turba il sonno dell’Europa degli interessi e della borghesia? Il solito spettro che, nonostante la presunta sconfitta ideale e pratica, non le fa dormire sonni tranquilli: la possibile ripresa della lotta di classe. Il proletariato, per quanto stordito e decimato, cesserà di sopportare gli interessi e la pressione del Capitale. Ed allora si correrà ai ripari: l’appello alla Stato forte (un Superstato, sorretto da Superpartiti) rimane il vecchio, tradizionale baluardo contro la tendenza storica che per noi significa invece presa del potere, distruzione degli Stati e Superstati borghesi, esercizio del potere proletario a livello mondiale.
Come si vede, poco di nuovo sotto il sole: si confrontano ancora vecchie soluzioni a vecchie questioni. La borghesia tende a “federare” i sui poteri; il proletariato dei vari paesi non può far diversamente, anche se la tragedia della degenerazione della sua Internazionale ha seminato nelle file proletarie disinganno e crisi.
Le nuove “politiche” che si ergono sui “nuovi” interessi non sono che l’antica inevitabile contraddizione tra le due classi antagonistiche dell’epoca moderna. Si può in un intero saggio nascondere la mano, ma il sasso che il signor Beck ha tirato è ancora quello classico: rafforzare il potere politico e militare della borghesia, tenere a bada i conflitti ormai sempre più transnazionali, avere a disposizione un gendarme federato efficiente e capace di intervenire dovunque la “pace” venga “turbata”. Come si può credere al nuovo, se non c’è analisi che non si ripeta?
Noi non ci meravigliamo: il nostro partito, infinitesimo, non ha rinunciato al suo programma storico, nonostante tutte le contingenze che sembrano aver cancellato nel proletariato la necessità d’un ordine unico, cosciente, disciplinato.
Gli Stati-Nazione convivono con gli assetti sovranazionali, sono disposti
ad integrarsi, a coalizzarsi, come hanno fatto nel ‘48 (1800!), nel 1871
(Comune di Parigi), nel 1917, in funzione antiproletaria. Perché dovrebbero
rinunciare ora alla santa alleanza, quando l’economia integrata, come
loro la chiamano, sempre più si dimostra esplosiva, rósa al suo interno
da tensioni che soltanto la guerra sembra poter scaricare. Il Capitale
non cambia perché cambia millennio. La Rivoluzione non è una questione
di date!
E ci risiamo: di tanto in tanto, accanto ad articoli che celebrano l’ingloriosa caduta del “comunismo”, appaiono altri che parlano del “ritorno di Marx”, con toni cinematografici, come del grande saggio inascoltato o del giustiziere. Si tratta però sempre di concessioni verso quella parte di analisi dell’economia capitalista che ne descrive le smagliature più macroscopiche. L’articolista di turno isola un frammento della nostra dottrina a proprio uso evitando accuratamente le necessarie conclusioni e prospettive sulla caduta del capitalismo che sono originali, proprie, caratteristiche e determinanti di tutta l’opera di Marx: il superamento violento tramite una rivoluzione sociale di questo modo di produzione basato sulla divisione di classe e la proprietà privata per giungere ad una società senza classi organizzata secondo piani di specie.
Questa volta ci occupiamo di tal Patrick Artus, direttore nientemeno che del Centro studi e ricerche economiche della Cassa depositi francese, il cui articolo: “Carlo Marx è tornato” è stato riprodotto sul numero 2756, aprile 2002 della rivista “Problèmes économiques”.
Il redazionale di presentazione cautamente così ci anticipa l’argomento: «La sensibile caduta del profitto del capitale registrata negli Usa a partire dal 1997 sembra ridare una certa attualità alla teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto di Marx. La forte crescita che ha contraddistinto gli anni 90 avrebbe anche, facendo sparire l’esercito di riserva dei disoccupati, tolto il paravento alle contraddizioni fondamentali del capitalismo sollevati dalla teoria marxista». In effetti il breve articolo, corredato da calcoli finanziari e una nutrita serie di grafici, cerca di trovare la soluzione per un equilibrio dinamico fra tassi di crescita dei profitti e tassi di disoccupazione programmata, tirando in ballo qua e là le tesi di Marx.
Il nostro studioso così incomincia: «L’accumulazione del capitale produttivo negli Usa fra il 1992 e il 2000 ha determinato a partire dal 1997 una forte caduta del profitto da capitale, dovuto senza dubbio a rendimenti decrescenti. Quella non poteva essere evitata che con il mantenimento di un’elevata disoccupazione, permettendo di ridurre la crescita dei salari, conforme alla teoria di Marx».
Detta così sembra che sia Marx il primo istigatore dei bassi salari per la salvaguardia dei profitti dei capitali! Ma, visto che si accenna ad una sua teoria senza oltre specificare, ci sentiamo incuriositi e in dovere di precisare meglio. Facendo finta di non aver frainteso l’odierno sapientone, pensiamo alla Terza sezione del Terzo Libro del Capitale titolata “Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto” dove, nel capitolo tredicesimo, “La legge in quanto tale”, qui ricordato in estrema sintesi, si descrive come il progressivo aumento del capitale costante nei confronti di quello variabile porta con sé la progressiva diminuzione del saggio generale del profitto, pur restando immutato il saggio del plusvalore o grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale. Viene precisato poi che al continuo incremento di valore di capitale costante corrisponde una crescente diminuzione di prezzo del prodotto poiché contiene meno lavoro e che la tendenza progressiva alla diminuzione del saggio del profitto è l’espressione tipica del modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro.
Per quanto riguarda l’impiego della forza lavoro preferiamo citare direttamente, a scanso di equivoci: «La possibilità di una sovrabbondanza relativa di popolazione operaia si sviluppa nella medesima proporzione in cui si sviluppa la produzione capitalistica: e questo non in quanto la forza produttiva del lavoro sociale diminuisce, ma in quanto aumenta; non in seguito a una sproporzione assoluta tra il lavoro e i mezzi di sostentamento o i mezzi di produzione di essi, bensì a una sproporzione propria dello sfruttamento capitalistico del lavoro, ossia in seguito alla sproporzione tra il crescente aumento del capitale e le sue necessità, relativamente minori, di una crescente popolazione operaia (...) In altri termini, perché la parte variabile del capitale totale resti non solo la medesima in via assoluta, ma aumenti anche in via assoluta, malgrado la diminuzione della sua espressione percentuale come proporzione del capitale complessivo, quest’ultimo deve aumentare in proporzione più alta della diminuzione della parte percentuale del capitale variabile (...) Il capitale totale non solo deve aumentare in proporzione alla composizione più alta, ma anche in maniera più celere; si ha quindi che, quanto più elevato è lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, tanto maggiore è la quantità di capitale necessaria per impegnare la medesima forza lavorativa, o ancor più una forza lavorativa in aumento».
Sempre come legge in quanto tale Marx così continua: «Il saggio del profitto calerà nonostante aumenti il saggio del plusvalore: 1. in quanto, essendo diminuita la somma complessiva di lavoro aggiunto ex novo, la parte non retribuita di esso, malgrado ne rappresenti una porzione maggiore, è egualmente più piccola di quanto non fosse prima la più piccola frazione di lavoro non retribuito nei confronti della più grande somma complessiva, e 2. in quanto la più alta composizione del capitale porta alla diminuzione in ogni singolo prodotto della parte di lavoro che rappresenta il lavoro aggiunto ex novo nei confronti dell’altra parte, che rappresenta materie prime ausiliarie e logoramento di capitale fisso. Tale modificazione nel rapporto tra i vari elementi che costituiscono il prezzo della singola merce – ed esattamente la diminuzione di quella parte del prezzo che rappresenta il lavoro vivo aggiunto ex novo e l’aumento, per contro, di quella parte che rappresenta lavoro già oggettivato – costituisce la forma in cui nel prezzo di ogni singola merce appare la diminuzione del capitale variabile nei confronti di quello costante (...) In pratica la diminuzione di prezzo delle merci e l’aumento della massa del profitto racchiuso nella massa più grande di queste merci calate di prezzo, non esprimono se non in forma differente la legge della diminuzione del saggio del profitto corrispondente all’aumento della massa del profitto (...) Il capitalista che ricorra a metodi di produzione perfezionati, ma non ancora resi universali, vende al di sotto del prezzo di mercato, ma al di sopra del proprio prezzo individuale di produzione; per lui il saggio del profitto aumenta fino a che la concorrenza non lo riporta all’equilibrio; in questo periodo di livellamento del profitto si manifesta il secondo fenomeno, l’aumento del capitale utilizzato, e proprio dalla grandezza di tale aumento dipende se il capitalista potrà nelle nuove condizioni utilizzare un numero più basso, uguale o anche più grande di operai nei confronti del periodo precedente, e quindi produrre una massa di profitto uguale o più alta».
Le lunghe citazioni sono necessarie in quanto l’argomento non è dei più agevoli, anche se ben si sa che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Nel capitolo successivo “Cause antagonistiche” così Marx: «Debbono intervenire qui influenze antagonistiche, che ostacolano o annullano l’attuazione della legge generale, conferendole il carattere di una semplice tendenza; ed è per questa ragione che la caduta del saggio generale del profitto noi l’abbiamo chiamata caduta tendenziale. Le più generali di dette cause sono le seguenti», e qui ne riportiamo l’elenco: 1° Aumento del grado di sfruttamento del lavoro (...) 2° Riduzione del salario al di sotto del suo valore (...) 3° Diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante (...) 4° La sovrappopolazione relativa (...) 5° Il commercio estero (...) 6° L’aumento del capitale azionario(...)
Di questo centrale capitolo rileggiamo un passo che fornisce la chiave di lettura principale dell’argomento: «Ma è specialmente il prolungamento della giornata lavorativa, invenzione questa della moderna industria, che aumenta la quantità del pluslavoro appropriato, senza modificare in sostanza il rapporto tra la forza lavorativa utilizzata e il capitale costante che essa attiva, diminuendo anzi in pratica il valore relativo di quest’ultimo. Già è stato dimostrato – e qui sta il vero segreto della caduta tendenziale del saggio del profitto – che tutti i processi volti alla creazione di un plusvalore relativo, mirano in definitiva a questo: da un lato a trasformare in plusvalore quanto più è possibile di una certa massa di lavoro, dall’altro ad utilizzare quanto meno lavoro in rapporto al capitale anticipato; in tal maniera le stesse circostanze che consentono di accrescere il grado di sfruttamento del lavoro impediscono che, utilizzando il medesimo capitale complessivo, venga sfruttata la stessa quantità di lavoro di prima. Queste sono le tendenze antagonistiche che, mentre portano a un aumento del saggio del plusvalore, spingono contemporaneamente alla diminuzione della massa del plusvalore prodotto da un certo capitale e quindi alla diminuzione del saggio del profitto. E ancora, è bene rammentare qui l’uso massiccio del lavoro di donne e bambini, dato che tutta la famiglia si vede nella necessità di fornire al capitale una quantità di pluslavoro maggiore di prima, anche se aumenta la somma totale di salario che ottiene, il che tuttavia in generale non si verifica per niente».
Nel capitolo quindicesimo, “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge”, così si amplia l’analisi: «Caduta del saggio del profitto e accelerazione della accumulazione sono solo espressioni diverse di un medesimo processo, in quanto entrambi stanno ad indicare lo sviluppo della forza produttiva. L’accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, giacché causa la concentrazione del lavoro su vasta scala e quindi una composizione superiore del capitale (...) Tale processo porterebbe in breve tempo la produzione capitalistica alla rovina, se non vi fossero altre tendenze contrarie che sviluppano costantemente un’azione centrifuga insieme a quella centripeta». Più avanti, nel secondo paragrafo, “Conflitto tra l’estensione della produzione e la valorizzazione”: «Quanto alla forza lavorativa utilizzata, lo sviluppo della forza produttiva si manifesta di nuovo in due modi: in primo luogo nell’incremento del plusvalore, ovvero nella diminuzione del tempo necessario occorrente per riprodurre la forza lavorativa; poi nella riduzione della quantità della forza lavorativa (numero degli operai) adoperata per attivare un certo capitale (...) Da una parte uno di questi fattori, il saggio del plusvalore, aumenta; dall’altra il secondo, il numero degli operai, diminuisce in via relativa o assoluta (...) Da questo punto di vista la possibilità di compensare la diminuzione del numero degli operai con l’aumentare il grado di sfruttamento del lavoro, incontra dei limiti insuperabili; la caduta del saggio del profitto può essere ostacolata, ma non soppressa».
Fin qui l’economia, dicono. Siamo invece solo noi comunisti rivoluzionari a far nostre anche queste necessarie conclusioni di Marx, che rivendichiamo e difendiamo: «Tendenza costante della produzione capitalistica è quella di superare tali limiti immanenti, ma essi possono essere superati unicamente tramite mezzi che impongono gli stessi limiti su scala nuova e più vasta. Il vero limite della produzione capitalistica è proprio il capitale, cioè che il capitale e la sua autovalorizzazione si presentano come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e fine della produzione; che la produzione è soltanto produzione per il capitale, e non invece che i mezzi di produzione sono semplici mezzi di produzione per un costante allargamento del processo vitale per la società dei produttori (...) Se dunque il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è allo stesso tempo la costante contraddizione tra questo suo scopo dato dalla storia e i rapporti di produzione sociali ad esso corrispondenti».
Ricordate quali sono le tesi Marx in merito, leggiamo il professorale articolo, che continua affermando che le imprese, accumulando capitali, accrescono l’intesità capitalistica (rapporto stock di capitale / produzione, per noi, semmai, rapporto fra capitale fisso e capitale totale); per mantenere il profitto del capitale (doveva dire saggio del profitto), occorre che la parte dei profitti all’interno del reddito nazionale (che non è altro che plusvalore più monte dei salari) cresca allo stesso ritmo dell’intensità capitalistica (termine che richiama la nostra composizione organica) e se ciò non avviene c’è la caduta tendenziale del tasso del profitto; la crescita della quota dei profitti implica che i salari reali crescano meno velocemente della produttività del lavoro, quindi che i salari siano in una situazione di debolezza nella contrattazione e questo implica in condizioni normali un tasso di disoccupazione elevato (esercito di riserva dei lavoratori).
Qui già si intravede la soluzione del nostro direttore del centro studi, ovvero far ricadere sui lavoratori il progressivo insterilirsi della valorizzazione del capitale tramite disoccupazione e salari di fame, cioè la solita ricetta. Ma, sul piano teorico, questo impoverimento della classe operaia può solo contrastare, rallentare la caduta del saggio del profitto, non invertirla, in quanto, mentre la composizione organica del capitale, storicamente, mai cessa di accrescersi, ed enormemente, e con essa la produttività del lavoro, non è possibile intensificare il lavoro ed immiserire oltre certi, seppure elastici, limiti, fisiologici e sociali, i lavoratori salariati. Insomma la nostra legge della caduta del saggio del profitto non è che la formulazione matematica della ribellione ognor crescente, oggettiva e biologica, dell’umanità lavoratrice al Capitale.
Ma continuiamo e passiamo ai grafici, che per niente ci spaventano.
Come quasi sempre in questi studi borghesi, interessati solo all’oggi, il periodo preso in considerazione è troppo breve, influenzato dall’andamento del ciclo economico, per trarne valutazioni generali.
Il primo, “Stock del capitale produttivo negli Usa in percentuale sul Pil”, (che per noi sarebbe rapporto del Capitale fisso sul Capitale totale) mostra che dal 1985 al 1996 l’intensità capitalistica è cresciuta in quel paese in volume ma non in valore in ragione della caduta dei prezzi relativi dei mezzi di produzione. I due tracciati di questo grafico: “valore” che parte da una quota 45,8% nel 1985 e “volume” 41,5% si incrociano nel 1996 a quota 43% e dopo questa data il “volume” si impenna a quota 51% nel 2001. Si mantiene anche il “valore”, però, che, dopo alterne oscillazioni, giunge a quota 43,7%. È una costante nel capitalismo che il valore, e il prezzo, dei beni di consumo e degli alimenti si riduca più lentamente di quello dei mezzi di produzione.
Passiamo ora al secondo grafico “Profitti delle imprese non finanziarie negli Usa, in percentuale sul Pil corrente” che mostra mediante due tracciati, quello dei “Profitti finanziari” e quello dei “Profitti economici”, l’evoluzione della redditività del capitale negli Usa. I “profitti economici”, qui non meglio precisati, sono calcolati come profitti meno tasse sul Pil; quelli “finanziari” come profitti meno tasse meno interessi per il debito e sarebbe il nostro profitto dell’industriale. I due tracciati compresi sempre tra il 1985 e il 2001 seguono un andamento pressoché parallelo: quelli “finanziari” oscillano dal 2,5% ad un picco del 4% nel 1997-98 per finire a 2,4% nel 2001; quelli “economici”, che comprendono gli interessi, ovviamente sono più alti, partono da un 4,6% per salire al picco superiore del 6% nel 1988 e scendere al 4% del 2001. Per differenza avremmo per gli interessi i saggi del 2,1%, del 2,0%, dell’1,6%. In sostanza i profitti crescono in percentuale dal 1992 al 1997 e scendono dal 1997 al 2001, come già descritto in precedenti lavori di partito, quando ancora Bin Laden lavorava al soldo della Cia. Nel primo semestre 2001 si ritrova allo stesso valore del 1992. La crescita dei profitti industriali è più forte grazie alla diminuzione degli interessi. La recessione, terrore di tutti gli economisti, è qui indicata come la causa che ha poi fatto precipitare i due tracciati dal secondo trimestre 2000.
Un terzo grafico mostra che lo scarto tra profitto da capitali (economici e finanziari) e il tasso dei prestiti a lungo termine reale, sempre negli Usa, si accresce considerevolmente dal 1992-97 per poi diminuire dal 1997 al 2001. Maggiore è questo scarto tra profitti e tasso dell’interesse, maggiore è la speranza di profitti, quindi si ha una spinta agli investimenti.
È proprio questa la manovra delle banche centrali per dare un po’ di vigore all’economia. Negli Usa la Fed ritocca all’ingiù il tasso di sconto con cui presta il denaro, anche al 2% e c’è chi chiede ancor meno; in Giappone c’è stato uno 0,5%, nell’Unione europea è di questi giorni un ribasso al 2,75%. Eppure il capitalismo non esce dalla sua crisi interna, ovvero dalla sovraproduzione generalizzata. I metodi “pacifici” sembrano non bastare e presto rimarrà l’unica soluzione valida sempre: la guerra generalizzata.
Dopo la presentazione di questi primi tre grafici, il nostro autore “scopre” che «a partire da un certo punto del processo di accumulazione del capitale scende la resa ed il profitto del capitale». E, in grassetto, conclude: «La sola maniera di evitare questa evoluzione è quella di frenare il costo del lavoro». Scoperta da premio Nobel! «Il quarto grafico – continua – ci mostra che il costo orario totale (inclusi gli oneri e i benefici sociali) cresce meno rapidamente della produttività oraria dal 1993 alla fine del 1997, più veloce, però, della produttività dopo la fine del 1997. Questo corrisponde perfettamente all’evoluzione dei profitti, in crescita fino al 1997 e in diminuzione successivamente».
Questo grafico presenta quattro tracciati come variazione annuale percentuale dal 1985-2001: Produttività oraria, sempre superiore allo zero, che presenta tre massimi crescenti nel 1986 con +3,9%, 1992-93 con +4,5% e 2000 con +4%; come tendenza la produttività oraria oscilla intorno al +3% dal 1996 al 2000, il che è molto. Il secondo tracciato, il valore del Pil, ha un massimo intorno al +4% nel 1991 e poi rallenta al +2,2% nel 2001. Il terzo, quello dei salari nominali, compresi i benefici, è quello più alto con una serie di massimi intorno al +6% nel periodo 1986-92, cresce meno poi nel 1994 al +2% per poi accelerare fino al picco del +8% nel secondo semestre del 2000 e al +5,8% nel 2001. Questo grafico è fuorviante perché non tiene conto dell’inflazione ed esclude le tasse e i costi assicurativi a carico del lavoratore; infatti il quarto tracciato, quello del salario reale, ci rivela che esso, sempre come incremento percentuale annuale, è sempre al disotto dell’incremento della produttività oraria, cioè si produce di più ma aumenta in proporzione il lavoro non retribuito. Solo dopo il 1997, come anticipato per altri versi dai precedenti grafici, presenta due punti al disopra della produttività oraria di circa +1,5%.
Il quinto grafico “Disoccupazione ed impiego negli Usa” è così presentato: «Il cambio di direzione sull’evoluzione dei salari si produce nel momento in cui il tasso di disoccupazione scende dal 5%, con la forte creazione di impiego dal 1993. A partire dal 1997 “l’esercito di riserva dei lavoratori” scompare». Questo tracciato mostra la riduzione del tasso di disoccupazione dal 1997 fino al 2001. Occorre però precisare che negli Usa si considerano occupati anche i lavoratori saltuari, anche di pochi giorni, per cui la situazione è meno rosea di quanto indicato dalle statistiche.
L’autore poi da una serie di calcoli deduce che: «dei guadagni di produttività beneficiano maggiormente i salariati americani poiché l’incremento di 1 punto di crescita annuale di produttività produce la crescita dei salari di 1,4 punti. Ci sarebbe quindi una spontanea crescita della parte dei salari nel Pil. Per evitarla è necessaria una elevata disoccupazione». L’Artus si concentra quindi nel calcolo della quota di disoccupazione necessaria a garantire profitti crescenti per i capitalisti e così argomenta. «Tra il 1998 ed il 2000 il costo dei salari reali è aumentato di 1,5 punti annui più della produttività a fronte di un tasso medio di disoccupazione del 4,25%. Per riallineare la crescita del salario reale a quello della produttività, bisognerà quindi aumentare il tasso di disoccupazione di 2,5 punti portandola al 6,75% ossia sicuramente al disopra di una disoccupazione che si può realizzare in una fase di crescita negli Usa». Continua così in grassetto beandosi dei suoi calcoli: «Tutto mostra quindi che il vantaggio dei profitti non può essere stabilizzato negli Usa che al prezzo di un tasso di disoccupazione che si avvicina al 7%, il livello del 1993 dopo la recessione».
Il paragrafo conclusivo dello studio ha un bel titolo: “Niente soluzioni a lungo termine” dove constata che «dover ricorrere periodicamente a una recessione per far crescere la disoccupazione e raddrizzare la resa dei profitti non è una soluzione efficace a lungo termine».
Qui il professore ritiene che si possano controllare le leggi generali dell’accumulazione capitalistica con apposite manovre, dimostrando di non aver compreso, o non aver voluto comprendere il nostro Marx e le leggi immanenti della produzione capitalistica, della valorizzazione del capitale e della sua accumulazione. Il capitalismo ciclicamente necessita per la sua sopravvivenza di una massiccia distruzione di capitali e forza lavoro in una certa misura proporzionale al grado di accumulazione raggiunto, cioè di guerre mondiali di adeguate dimensioni.
La soluzione dell’Artus invece la possiamo collocare nel mondo delle utopie: «La sola uscita dal conflitto di ripartizione è che l’accumulazione del capitale generi sufficienti esternalità positive: crescita della produttività globale dei fattori, accumulazione di capitale umano. Queste esternalità fanno scomparire il decremento del profitto del capitale. E questo non è stato il caso degli Usa nella fase di espansione del 1992-2000 dove l’accumulazione del capitale produttivo non è stato abbastanza efficace».
Vuol forse dire che un nuovo capitalismo con la collaborazione fra le
classi può curare il vecchio capitalismo putrescente? Glielo lasciamo
credere e sperare. Lui e i suoi soci continuino a pensare che si possa
curare il capitalismo dalle sue internalità e renderlo eterno,
ma lascino stare Marx. La soluzione, o meglio l’ineluttabile conseguenza
che Marx descrisse, non come augurio di utopista ma come inevitabile sbocco
storico, è la distruzione del capitalismo da parte della rivoluzione proletaria!
La mondiale classe lavoratrice ha bisogno sì di una
esternalità positiva,
esterna al capitalismo, la risoluta e diseconomica espropriazione degli
espropriatori!
La recente notizia del piano di razionamento dell’acqua a Pechino, elaborato per far fronte alla penuria d’acqua potabile nella capitale cinese dovuta alla siccità, ha dato spunto alla stampa borghese per tornare a trattare uno dei temi che periodicamente trattano in tono scandalistico: quello della smisurata crescita della popolazione urbana, dell’affollamento mostruoso delle grandi metropoli e dei problemi ambientali, sociali e igienici ad esso connessi. Si citano eloquenti dati sul numero degli inurbati estrapolati da una pubblicazione del World Watch Institute sull’argomento. Da tale menzione si apprende che il 50% della popolazione mondiale vive nelle città e che nel 2030 questa percentuale salirà al 60%. Se si considerano invece soltanto i paesi del cosiddetto Nord del mondo, quelli di vecchia industrializzazione, la quota degli uomini viventi in città sale al 70%.
Sempre si lamentano i pericoli che comporta tale tendenza in materia di inquinamento atmosferico. Ai borghesi sta a cuore, evidentemente, soprattutto l’aria che, volenti o nolenti, sono costretti a respirare anch’essi, essendo invece al riparo dai problemi relativi agli alloggi, alla miseria, ecc. Anche se, a dirla tutta, neanche l’aria è veramente democratica, maggiormente densa com’è di sostanze nocive nei pressi dei quartieri proletari situati spesso a ridosso degli stabilimenti industriali. I giornalacci poi si soffermano sulla situazione più critica del Sud del mondo, dove si concentra la maggior parte della crescita demografica mondiale (90%). È in quelle terre che il problema rischierebbe di esplodere, dove nel 2015 saranno collocate 22 delle 26 megalopoli del mondo intero. Fin qui il dato bruto.
Nei riquadri ormai d’obbligo (scomodissimi ma imposti ai lettori per abituarli ad una vita inconcludente e frastornata da zapping, talk gridati e trilli di telefonini) la solita intervista al solito esperto, che può essere un architetto alla moda, un onorevole ex sessantottino oppure una più o meno bella, più o meno spogliata donnina, i quali, alla domanda se è ipotizzabile una inversione di tendenza, nei pochissimi secondi o righe stampate concessi prima che gli taglino lo spazio o tolgano il microfono, si precipitano a rispondere che No! La tendenza allo spopolamento delle campagne in favore delle città è il trionfo del modello occidentale. Le città sono il luogo dell’accumulazione di idee, scambi, relazioni. Non c’è nulla da fare né bisogna provare a farlo! In altro spot ti illustrano sul campo (oibò, siamo concreti e sperimentali, noi!) quanto sta accadendo a Tokio, dove «i giovani manager lavorano di giorno nei grattacieli e la sera scendono per le strade, tornate ad animarsi di piccoli sushi bar, botteghe, piccoli locali, attività minime che sembravano spazzate via dal trionfo della grande distribuzione. E si divertono moltissimo» (e ti credo, con quello che guadagnano!), perché «la civiltà si esprime molto di più nel tempo libero che non in quello occupato». Potremmo continuare con la disamina della scienza borghese in merito ma, si capisce, è meglio lasciar perdere: come si dice “a lavare il porco si perde l’acqua e il sapone”.
Miserie borghesi a parte, il tema è buono perché noi, piano-piano,
ribattiamo alcuni chiodi di quella che è la visione marxista del
problema dell’allogamento degli esseri umani sulla crosta terrestre.
Nascita della città moderna
Prima del sorgere della civiltà, cioè prima che nascesse nelle società umane la proprietà privata, nel pieno di quell’epoca che definiamo comunismo primitivo allorquando si viveva ancora prevalentemente di caccia e di raccolta, poi di prime rudimentali forme di pastorizia e agricoltura, i gruppi di uomini già vivevano raccolti in gruppi, essendo questo l’unico modo di fronteggiare uniti le molteplici insidie esterne. Tale comunità nasceva dall’esigenza di sopravvivere nella natura avversa. Affinché una organizzazione separata di forza emerga dal vivere associato degli uomini bisogna attendere che la trama organica delle società primitive, per effetto di moventi economici, si dissolva per far posto alla proprietà privata degli armenti e alla conseguente divisione degli uomini in classi sociali distinte.
Lo Stato, l’organizzazione accentrata della forza armata della classe dei proprietari di schiavi, di terre e di denaro, ha sede nelle prime città. Le capitali del mondo antico come le città-stato greche e fino all’esempio massimo di Roma erano centri politici, commerciali e finanziari, in taluni casi di grande importanza, ma la spazio del lavoro e del pluslavoro, per le caratteristiche proprie dei modi di produzione antichi, restavano le campagne. Nel feudalesimo i villaggi dei servi legati alle terre del signore, che abita il castello, erano sparsi spesso a grande distanza fra di loro. Declinano le città, isole in un mare di economia rurale estremamente compartimentata e chiusa.
Nel processo travagliato che conduce al capitalismo è fatto storicamente progressivo il concentrarsi dei poteri nelle mani delle grandi monarchie nazionali in Francia, Inghilterra e Spagna, che comportò il crescere delle funzioni dello Stato centrale a discapito del federalismo tipicamente feudale. «Insieme a tale macchina dello Stato delle monarchie assolute, la borghesia trovò per conseguenza accentrata già molta popolazione non rurale nelle capitali storiche. Ma non era che una concentrazione iniziale rispetto a quella che seguì alla trasformazione industriale, specie quando le grandi fabbriche si affollarono alla periferia delle città per evidenti ragioni di “basso costo dei prodotti”, per risparmio di trasporti da e per i mercati» (“Pubblica utilità, cuccagna privata”, il Programma Comunista n. 5/1952).
Fu la rivoluzione borghese a rompere gli ultimi vincoli rappresentati dai rapporti di proprietà feudali. Con l’irrompere della borghesia come nuova classe dominante e con essa del capitalismo come modo generale di produrre e distribuire, una sempre più accentuata e progressiva centralizzazione investe tutti i settori della organizzazione sociale. Nella produzione masse crescenti di operai vengono concentrate in fabbriche sempre più estese, in politica l’enfiamento esponenziale delle necessarie funzioni di tutela e di difesa dei rapporti di produzione vigenti crea il sorgere di accentrate e mostruose macchine statali e come corollario a questi due fenomeni sorge la grande città modernamente intesa. In essa collassano a densità mostruosa sia la crescente produzione industriale capitalistica, e le masse di salariati che sole la rendono possibile, sia tutti gli svariati organi statali (amministrativi, esecutivi, giudiziari, militari, legislativi) che ne proteggono le fondamenta basate sulla illimitata estorsione di plusvalore.
«Storicamente di nuovo e di esclusivo del capitalismo vi è l’immensità delle metropoli che mai prima dell’era borghese ammassarono gli uomini a milioni nella loro cerchia, nemmeno nelle versioni leggendarie su Tebe o Babilonia». E solo perché è nelle grande concentrazione spaziale che possono ridursi al massimo i costi di produzione aziendali. «Per risparmiare false spese, per questo solito e criminale motivo con sussiego avanzato dal capitale, e riecheggiato dalla cretineria di oppositori di cartapesta pagati per suonare lo stesso disco, presso le grandi città, nelle grandi città, tra le abitazioni ad accelerata densità e gli stabilimenti spesso ad esse incollati e da esse circondati nello sviluppo demografico e di inurbamento incessante, si intasano depositi di materie nocive, esplosivi e mezzi bellici, soprattutto per l’accavallarsi di stazioni di smistamento e deposito, di porti, aeroporti e altri servizi» (“Spazio contro cemento”, il Programma comunista, n. 1/1953).
Mostri imprevedibili, inconoscibili ed ingestibili, nel quale brulicano
milioni di formiche indaffarate.
Come alloggiare gli operai industriali
Col progressivo spopolarsi delle campagne e il costante afflusso di senza riserve nelle città nasce subito il problema degli alloggi per le famiglie operaie. I proletari sono costretti a far fronte ad una carenza cronica di abitazioni alla portata dei loro salari e pertanto a sistemarsi nei palazzi fatiscenti delle zone degradate delle città. I proletari, dopo essere stati spremuti nelle fabbriche, vengono taglieggiati del loro salario dai padroni di casa, che chiedono fitti esosi per delle stamberghe.
La miseria accompagna ogni aspetto della vita delle classi lavoratrici urbane, come documenta ampiamente Federico Engels in “La situazione della classe operaia in Inghilterra”. Saggiamone un vigoroso passo: «Le poche centinaia di case che appartenevano alla vecchia Manchester erano sono state abbandonate da tempo dai loro primitivi abitanti; soltanto l’industria poteva stipare in esse schiere di operai; soltanto l’industria poteva coprire di costruzioni ogni spazio libero tra queste vecchie case, per ricavarci un tetto per le masse che si fanno arrivare dalle regioni agricole e dall’Irlanda; soltanto l’industria poteva consentire ai proprietari di queste stalle di affittarle ad esseri umani esigendo fitti elevati, di sfruttare la miseria degli operai, di minare la salute di migliaia di persone, affinché essi soltanto, i proprietari, si arricchissero; soltanto l’industria ha reso possibile che il lavoratore, appena liberato dalla servitù della gleba, potesse nuovamente essere adoperato come puro e semplice materiale, come cosa che potesse lasciarsi rinchiudere in un’abitazione troppo misera per chiunque altro, che egli, data la mancanza di denaro, ha ora il diritto di lasciar andare completamente in rovina. Tutto ciò è opera soltanto dell’industria, che senza questi operai, senza la miseria e la schiavitù di questi operai, non avrebbe potuto vivere».
Tale situazione è riscontrabile a tutte le latitudini, in tutti i luoghi dove il capitale, prima o dopo, stabilisce il suo imperio sul lavoro vivo, senza pietà. Lo stesso accadeva, ad esempio, in Italia qualche decennio dopo. Scrive Nicola Lisanti in “Il movimento operaio in Italia”: «La città, dunque, trasforma da un giorno all’altro contadini e braccianti in operai dell’industria, ma non offre loro condizioni di vita adeguate. La borghesia industriale, soprattutto nelle città di forte immigrazione, quali appunto Milano e Torino, non fa nulla per ovviare alla spaventosa carenza di abitazioni operaie. Si pone in termini soltanto speculativi il problema dell’urbanesimo e preferisce impiegare in altro modo i propri capitali. Tutto ciò determina lo squilibrio tra domanda e offerta di case operaie, l’aumento dei fitti e il relativo sovraffollamento. Gli esempi non mancano. Dai compilatori del censimento del 1881 si apprende che a Milano si hanno casi in cui dieci o più lavoratori vivono in una o due stanze, e formano un accolta di individui riuniti non da vincoli di parentela ma dalla identità del mestiere che esercitano; e inoltre muratori che in una sola stanza si accampano a 12-14 e perfino 16 per volta su mucchi di paglia come le bestie da soma nelle stalle».
Il fenomeno si ripete in tutte le fasi espansive del capitalismo. Scriveva “La Stampa” del 2 giugno 1963 in un articolo, citato dall’allora nostro periodico, sugli alloggi nei quali dormivano gli emigranti meridionali a Torino negli anni del tanto decantato dalla borghesia boom economico. «Vi dormono ogni notte almeno 150 uomini, quasi tutti immigrati, gente venuta a Torino spinta dalla miseria, e qui sta lottando per conquistare un posto di lavoro e un pezzo di pane per i figli rimasti al paese. Ma quanta fatica e quanti sacrifici. Certi manovali non prendono più di 230 lire all’ora. A sera, stanchi, sudati, sporchi, rientrano in questa specie di abituro dove pagano, per una notte 210 lire. Le stanze più piccole contengono tre letti, le più grandi quindici o venti. In un locale può starci, oltre i letti, al massimo un comò o un armadio, tutti mobili di 30-40 anni fa, sgangherati, sfondati, inservibili. Se uno dovesse descrivere con accuratezza e verismo le condizioni igieniche di questi locali, turberebbe troppo il lettore».
Sono le stesse condizioni in cui versano oggi non solo gli strati proletari e semiproletari delle bidonvilles delle varie Calcutta, Lagos, Città del Messico ecc. ma gli stessi strati inferiori del proletariato occidentale e anche dei paesi più ricchi. Negli Stati Uniti gran parte della classe operaia vive nei condomini fatiscenti dei ghetti urbani ove le condizioni di vita sono al limite della sopportabilità. In Europa milioni di immigrati africani, asiatici e dall’Est ripercorrono, in peggio, la strada dolorosa dei meridionali italiani trasferiti al Nord.
Quella condizione, si vedano le periferie inglesi di oggi, non rappresenta
il passato per la classe operaia “ricca” e “accasata” d’occidente,
ma il suo futuro!
L’edilizia popolare
Come accennato da Federico Engels nel passo citato, nella prima fase della rivoluzione industriale, quando la richiesta di manodopera salariata proveniente dalle campagne era massima e la crescita demografica dei capoluoghi dei distretti industriali vorticosa, le moltitudini operaie trovavano rifugio nei quartieri più luridi e nelle fatiscenti zone vecchie delle città, spesso ubicate al centro di esse. Ma – come spiega Engels in “La Questione delle abitazioni” – con l’ulteriore crescita nei grandi centri urbani delle attività finanziarie e commerciali oltre che di quelle industriali, e con l’aumentare del peso specifico delle città all’interno della economia, venne a generarsi una rendita differenziale particolarmente elevata dai terreni posti nelle zone centrali. I proprietari degli immobili di quelle zone, spesso fatiscenti, adibiti ad alloggi operai, avrebbero potuto esigere ben di più mutandone la destinazione. Si diede inizio quindi allo sventramento e alla demolizione dei vecchi quartieri per costruire nuovi edifici, da riservare non più ai proletari, ma alle abitazioni dei ricchi borghesi, alle banche, agli uffici ecc., che fruttavano lauti guadagni ai gruppi di affaristi che compivano queste manovre speculative, fondiari e capitalisti.
Tutte queste operazioni in campo edilizio ed urbanistico venivano presentate come risanatrici delle città e di utilità sociale, ma erano invece mosse dagli esclusivi ed egoistici interessi privati di speculatori capitalistici, ed attuate a detrimento e danno delle già misere condizioni di vita e di esistenza delle classi lavoratrici. Questo vero e proprio fenomeno di espulsione degli operai dai centri delle città peggiorò infatti ulteriormente la situazione degli strati proletari, dal momento che il numero di case perse al centro non veniva compensato da nuove costruzioni da destinarsi ad abitazioni per gli operai, preferendo il capitale impiegarsi in opere più remunerative. I proletari nel loro centrifugo migrare trovarono per viverci soltanto case altrettanto squallide di quelle che avevano abbandonato, ma con accresciuti problemi di sovraffollamento e di caro fitti in ragione della aggravata carenza di alloggi, nonché venne ad aggiungersi al tempo di lavoro quello per recarsi nelle fabbriche.
Il disagio delle famiglie operaie causato dall’ingigantirsi del problema delle abitazioni veniva a costituire un elemento destabilizzante per il capitalismo arcimaturo e senescente dei paesi occidentali. È nel vano tentativo di smorzare (non eliminare, l’anarchia produttiva non lo può) questa contraddizione prodotta dal funzionamento dell’economia capitalistica, ma soprattutto per keynesianamente dare uno sbocco alla incipiente crisi economica, che si finanziò con i mezzi dell’erario la realizzazione delle cosiddette “opere pubbliche”. Fin dall’interguerra gli Stati, “democratici” o “fascisti” che fossero, si fecero carico della edificazione delle “case popolari”, con somma gioia di riformisti di ogni categoria e genere pronti, nelle più squallide versioni, finanche a decantare la cosa come una anticipazione di socialismo.
Ecco di nuovo come avvoltoi spuntare le varie bande borghesi dell’affarismo edilizio privato, pronte ad avidamente ingozzarsi alla ricca greppia statale materializzatasi in questo caso nella forma di appalti per la realizzazione delle suddette opere, perché il profitto è lì sicuro e garantito, poiché «nel caso delle opere ed imprese che recano le sacre stimmate del pubblico bene è molto più agevole ottenere a buone condizioni la finanza da anticipare, è quasi matematicamente escluso che vi sia rischio di benefizio, non diciamo negativo, ma limitato. Interessi passivi ed eventuali aumenti della spesa prevista vi è infatti, in tali casi, mezzo di riversarli sul bilancio del non meno classico Pantalone» (“Specie umana e crosta terrestre”, il Programma Comunista, n.6/1952).
La fine che ha fatto la cosiddetta “edilizia popolare” lo sanno tutti. È un significativo esempio della soluzione grande-borghese al riparo delle famiglie operaie, cioè al minor costo. Si determinarono con metodo scientifico le dimensioni minime cui si poteva restringere un corridoio, abbassare un soffitto, incastrare due letti. Si disse che tutto questo era “razionale”, ove, evidentemente, la parola va storicizzata: razionale per chi?. Nelle “cinture” delle metropoli europee sono stati edificati interi nuovi quartieri formati di grandi edifici. Tutto ciò che produce il mondo borghese è destinato a portarsi fuori misura: quello che poteva essere un utile superamento del modello abitativo della famiglia nucleare, d’origine pre-borghese, viene esasperato con indici di abitabilità intollerabilmente bassi che, invece di spingere a socializzare, suscitano disagio oggettivo, e senso di miseria, di promiscuità, di prigione. Per di più i metodi costruttivi capitalistici, l’uso di materiali eccessivamente poveri e la mancanza di manutenzione determinarono un veloce decadimento degli immobili, talvolta anche strutturale. Quasi sempre è venuto a mancare nelle città satelliti ogni necessario completamento urbano, grandi spazi intorno, trasporti, parchi, luoghi pubblici, ecc.
Solo chi non vi ha abitato può avere nostalgia dei tuguri urbani, dei “bassi”, degli scantinati, ed è evidente che questo tipo di edilizia ha, all’inizio ed in alcuni casi, migliorato lo stato di taluni settori della classe operaia. Ma nello stesso tempo ha creato guasti ben più gravi dei problemi che intendeva risolvere, generando una massa di proletari e sottoproletari emarginata, chiusa in gabbie troppo anguste e ammassate, destinate ad accogliere la più nera miseria materiale e spirituale. Emblematici sono i casi di Roma, Palermo, Firenze. L’esempio a Napoli delle “Vele” nel quartiere di Scampia, è documentato in un articolo comparso su La Stampa: Si vive «dentro la degradazione assoluta e puzzolente delle case popolari che dovevano emancipare il sottoproletariato di Napoli che soffriva una povertà patriarcale nei vicoli, e poi si è trovato scaraventato in una magnifica struttura di vetro e cemento che è diventata un rottame schifoso con quattro ascensori subito rubati e le scale a X come gambe di gazzella d’acciaio fattesi subito scheletro».
Falliti i correttivi tentati dal capitalismo, la odierna pestilenziale
società ingigantisce ancora il problema, che assume ormai entità planetarie,
del sovraffollamento e dell’invivibilità dei grandi agglomerati urbani,
divenuti mostri tentacolari che soffocano, come il sistema che li ha generati,
il genere umano in una morsa opprimente. In essi la persona umana,
tanto adulata dai cantori dell’ideologia dominante, è di fatto ridotta
ad insignificante particella del perverso e anonimo meccanismo della produzione
di profitto, che utilizza gli uomini a suo piacimento, condizionandone
forzatamente ogni attimo della vita, rendendoli schiavi involontari di
un cieco ingranaggio che può stritolarli in ogni momento.
Il contrasto città e campagna e la sua soluzione
Non è che contrapponiamo al degrado della città un modello, attuale o antico, di vita nelle campagne, oggi altrettanto guasto essendo entrambi amaro frutto del folle e irrazionale modo di produzione capitalistico.«Non si tratta qui di fare l’apologia dell’attuale situazione delle masse nelle campagne, rari essendo gli esempi di un vero proletariato agricolo che sia bene alloggiato in abitazioni moderne sparse sul territorio e non a sua volta agglomerato in centri grossi, di oltre 50 mila abitanti» (“Specie umana...”). O ammassato, aggiungiamo oggi, in bestiali baracche a ridosso dei campi come avviene ad esempio in Capitanata o a Villa Literno per gli stagionali immigrati.
Scrive Carlo Marx: «Nell’agricoltura come nella manifattura la trasformazione capitalistica del processo di produzione si presenta insieme come martirologio dei produttori, il mezzo di lavoro si presenta come mezzo di soggiogamento, mezzo di sfruttamento e mezzo di impoverimento dell’operaio, la combinazione sociale dei processi lavorativi si presenta come soffocamento organizzato della sua vivacità, libertà e autonomia individuali (...) Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità (...) La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio».
Questo incisivo passo del Capitale, estrapolato dal 1° Libro, ci conduce diritti al nocciolo fondamentale della ben più generale questione della gestione e della amministrazione del suolo, del sottosuolo e del soprasuolo e delle loro ricchezze, minerali e organiche, viventi e non viventi, naturali o manufatte, all’interno della quale si colloca quella che stiamo qui affrontando della distribuzione degli esseri umani e di tutto l’attrezzamento in impianti, infrastrutture ed edifici.
Come abbiamo già visto il disporsi di questi elementi nell’era borghese è stato improntato sul principio della “economicità”, principio che muove ogni azione del capitalismo e altro non vuol dire che aderenza ai canoni di “ottimizzazione” della produzione finalizzata alla spietata appropriazione del sopralavoro operaio da parte della classe dominante. Sotto l’anonima spinta della legge del profitto si è determinata, in meno di due secoli, la situazione di una disposizione estremamente disarmonica e irrazionale dell’uomo e delle sue attività sulla superficie del pianeta.
Il risparmio nei costi di trasporto delle aziende è infinitamente minore ai costi generali dell’urbanesimo capitalistico. Una volta abbattuti i vincoli economici mercantili ed infrante le capsule che rinchiudono le odierne unità produttive, gli insediamenti umani potranno liberamente distribuirsi sulle adatte e varie conformazioni geografiche del pianeta. Questa l’attualità, la necessità, la bruciante urgenza della attuazione del programma comunista post-rivoluzionario, mirante, come esplicitamente già indicato nel “Manifesto del Partito Comunista” alla graduale eliminazione dell’antagonismo tra città e campagna, tendente a creare una «rete uniforme di attrezzatura della crosta terrestre, nei cui nodi l’uomo non sarà né villano né cittadino» (“Specie umana...”) e «una distribuzione il più possibile uniforme della popolazione su tutto il territorio (...) un intimo coordinamento della produzione industriale e di quella agricola, accompagnati dall’estensione della rete di comunicazioni che così si rende necessaria» (“Questione delle abitazioni”). Tale opera secolare, che spetterà alle generazioni che vedranno la luce in un mondo liberato dal tormento salariale, tenderà a ristabilire l’equilibrio – o nuovi sani equilibri – di ogni ciclo organico tra terra, acque, animali ed uomo, oggi insapientemente alterati e infranti.
Tale visione si fonda sulla scientifica diagnosi e sui principi del marxismo intransigente ed ortodosso. In proposito sentiamo ancora Marx, qui nel primo passo, ed Engels, nel secondo:
«La preponderanza sempre crescente della popolazione urbana, che la produzione capitalistica accumula in grandi centri (...) turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’originaria condizione naturale di una durevole fertilità del suolo (...) Ma nello stesso tempo essa costringe, mediante la distruzione delle circostanze di quel ricambio organico, sorte per semplice spontaneità naturale, a produrre tale ricambio in via sistematica, come legge regolatrice della produzione sociale, in una forma adeguata al pieno sviluppo dell’uomo» (“Il Capitale”, Libro 1°).
«L’abolizione dell’antitesi tra città e campagna non è un’utopia,
né più né meno di quanto lo sia l’abolizione della antitesi tra capitalisti
e salariati. Essa diventa ogni giorno di più una esigenza pratica della
produzione agricola e industriale. Nessuno l’ha sollecitata più di Liebig
nei suoi scritti sulla chimica applicata all’agricoltura, nei quali affaccia
continuamente l’esigenza che l’uomo restituisca alla terra ciò che
le prende, e nei quali dimostra che l’unico ostacolo a far ciò è dato
dall’esistenza delle città, e specialmente delle grandi città» (“Questione
delle abitazioni”).
Smembrare le città
L’elevatissimo grado raggiunto di combinazione sociale del lavoro, che si infittisce sempre più sotto la spinta dei continui rivoluzionamenti della tecnica produttiva che il Capitale introduce senza posa, aumentando enormemente la produttività del lavoro ed elevandolo sempre più al rango di potenza sociale globale, rende il postulato programmatico dell’eliminazione del divario tra città e campagna e del diradamento produttivo ed abitativo, oltre che necessario, possibile, non trattandosi, da parte delle forze dello Stato proletario, che di organizzare in un piano razionale le immense forze esistenti. Del resto già oggi è visibile come, per via dell’introduzione di attrezzature sempre più efficienti, sia possibile che gruppi di manovratori sempre meno numerosi riescano a controllare, stando in postazioni sempre meno ravvicinate ma sempre più interconnesse, porzioni di produzione vaste e complesse. Moltiplichiamo la grandezza di tali potenzialità di sinapsi per mille e più ed avremo una vaga idea di quel che potrà l’uomo futuro, in tutti i campi, dopo che avrà liberato la potenza della combinazione sociale del lavoro dal giogo cui la tiene avvinta il sistema capitalistico.
«L’agglomerazione urbana e produttiva permane non per ragioni dipendenti dall’optimum della produzione, ma per il durare dell’economia del profitto e della dittatura sociale del capitale. Quando sarà possibile, dopo aver schiacciata con la forza tale dittatura ogni giorno più oscena, subordinare ogni soluzione e ogni piano al miglioramento delle condizioni del vivente lavoro, foggiando a tale scopo quello che è il lavoro morto, il capitale costante, l’arredamento che la specie uomo ha dato nei secoli e seguita a dare alla crosta della terra, allora il verticalismo bruto dei mostri di cemento sarà deriso e soppresso, e per le orizzontali distese immense di spazio, sfollate le città gigantesche, la forza e l’intelligenza dell’animale uomo progressivamente tenderanno a rendere uniforme sulle terre abitabili la densità della vita e la densità del lavoro, resi ormai forze concordi e non, come nella deforme civiltà odierna, fieramente nemiche, e tenute solo insieme dallo spettro della servitù e della fame» (“Spazio contro cemento”).
Affinché ciò sia, le masse proletarie della città e della campagna,
unite, saranno chiamate dal loro Partito comunista mondiale ad ingaggiare
la cruenta e sanguinosa battaglia risolutiva per affossare la borghesia
e le spietate leggi del Capitale, che tanto dolore hanno arrecato nel loro
plurisecolare dominio alla domani ribelle classe dei nullatenenti.
Rapporto esposto nella riunione di Torino, settembre 2002.
La previsione di Marx
Il fenomeno di moda negli ultimi decenni, negli ambienti economici manageriali, prende il nome di terziarizzazione, che va di pari passo con quello chiamato globalizzazione, negli ambienti politici. Questi fenomeni, che a detta dei guru della sociologia moderna sarebbero nuovi segni della maturità del Capitalismo contemporaneo, solo segnano la fine di precedenti false dicotomie e bugiardi opposti, come, ad esempio, tra economia di piano, identificata col comunismo, e quella di mercato, e la smentita delle loro sballate ideologie, nonché, a saper vedere, lo stramaturare delle premesse alla fine stessa del Capitalismo.
Ad aumentare, e tutti non possono fare a meno di notarlo, è invece la dicotomia tra Nord e Sud del pianeta. Ma l’incremento di questa differenza, vi è da dire, non riguarda la popolazione, men che meno quella proletaria, la quale, anzi, s’immiserisce a Nord invece di arricchirsi a Sud, bensì, i grossi soggetti economici internazionali, multinazionali e centri finanziari!
Al’interno di questi processi evolutivi del capitalismo si iscrive quello della cosiddetta terziarizzazione o esternalizzazione.
È tesi classica nel marxismo, ribadita sempre da noi come da Lenin, quella che l’economia moderna tende alla concentrazione, alla formazione di grossi trust, sempre più compenetrati nei governi, in giganteschi monopoli che dispongono a loro bisogna degli Stati, delle loro polizie interne e delle loro diplomazie ed eserciti all’esterno. Questo non è invertito, nonostante le apparenze, con la terziarizzazione, che smembra le grosse aziende, gli immensi capannoni industriali, i magazzini e i monumentali palazzoni contabili di rappresentanza in una miriade di piccole aziende che producono su commessa, in tanti padroncini e borghesucci, spesso goffi e ignoranti che si accingono a gestire le loro imprese, di fatto, come reparti esterni di una grossa multinazionale.
La domanda che si può porre è: se la concentrazione nasce dall’esigenza di risparmio, per produrre a prezzi più competitivi, perché mai il Capitale manterrebbe decentralizzata parte della sua produzione?
Nel “Capitale” la questione della concentrazione tramite l’accumulazione e della centralizzazione fra capitali è trattata nella sezione sul Processo di accumulazione del capitale del Libro Primo, capitolo 23.2: “Diminuzione relativa della parte variabile del capitale durante il processo dell’accumulazione e della concentrazione ad essa concomitante”. In quelle dense pagine si accenna alla “cooperazione si vasta scala” che rende possibile la “divisione e combinazione del lavoro”, alla “concentrazione in massa dei mezzi di produzione”, i quali, giunti ad una certa dimensione, “possono essere adoperati solo in comune”. Ma vi si rileva anche che i capitalisti sono “contrapposti l’un l’altro in quanto produttori di merci indipendenti e in concorrenza fra loro”, al fenomeno della “formazione di nuovi capitali e della scissione di capitali esistenti” e alla “ripulsione reciproca di molti capitali individuali”. Contro questa “dispersione” del capitale complessivo sociale agisce la “concentrazione”, la “espropriazione del capitalista da parte del capitalista”. Torna Marx, nelle stupende pagine sull’accumulazione originaria che chiudono il Primo Libro, a concludere che “ogni capitalista ne uccide molti altri” (sollevando così la rivoluzione comunista dalla cruda incombenza)!
La questione è approfondita ampiamente per gli aspetti del lavoro
a cottimo e del lavoro a domicilio e vi si torna nel Secondo
e Terzo Libro in passaggi che spesso oppongono alla presente società capitalistica
il suo necessario capovolgimento nel comunismo.
Perché il gigantismo industriale
L’adozione di impianti di dimensioni maggiori rappresenta per le imprese una riduzione dei costi, ovviamente per unità di prodotto. Con l’aumento del volume di produzione e della capacità produttiva degli impianti si conseguono delle economie di scala dovute ai seguenti fattori.
1) Diverso rapporto capitale fisso/capitale variabile: impianti di dimensioni maggiori consentono un livello maggiore di meccanizzazione, ma il loro costo cresce in proporzione minore rispetto alla quantità del prodotto: ad un aumento del 100% della capacità produttiva di un impianto corrisponde un aumento del costo per investimenti che va dal 52% all’84%; in ogni unità di prodotto si trasferisce una quota minore di logorio del capitale fisso;
2) Differenti rendimenti tecnico-economici: impianti di dimensioni via via maggiori, e quindi dotati di tecniche più evolute, presentano un grado superiore della produttività del lavoro;
3) Diversi gradi di divisione e specializzazione del lavoro: combinazioni produttive di maggiori capacità consentono di realizzare una più spinta divisione e specializzazione del lavoro, con un conseguente ulteriore aumento della produttività;
4) Adozione di diversi criteri di organizzazione e gestione della produzione: combinazioni produttive di capacità maggiori possono consentire di aumentare i livelli di efficienza grazie all’impiego di sistemi organizzativi e di gestione della produzione il cui costo non sarebbe economicamente giustificabile in presenza di impianti di minori dimensioni.
Altre determinazioni minori sono elencate da Marx, come quella della diminuzione e del riuso degli scarti di lavorazione.
Le cosiddette economie di scala riguardano tutti i campi dell’impresa, come la funzione logistica, contabile, commerciale e dirigenziale. A titolo di esempio, è sufficiente pensare alla riduzione dei costi unitari medi di logistica che è possibile ottenere saturando la capacità dei mezzi di trasporto.
Accanto ai vantaggi di cui le imprese di grandi dimensioni possono godere nella gestione delle attività logistiche e di ricerca notevole importanza assumono quelli inerenti la funzione finanziaria e gli approvvigionamenti. I primi derivano principalmente dalle possibilità di accedere con maggiore facilità e a condizioni migliori ad una molteplicità di fonti di finanziamento, alcune delle quali – come il prestito obbligazionario e l’emissione di azioni – precluse alle aziende minori. Le seconde sono generate dalle migliori condizioni di acquisto che, in virtù del maggiore potere contrattuale che i più elevati volumi di acquisto consentono di esercitare nei confronti dei fornitori, le grandi imprese sono in grado di spuntare; ma soprattutto dalla possibilità che le stesse hanno di dotarsi di una più efficiente organizzazione degli approvvigionamenti.
Queste tipologie di economie di scala, in aggiunta a quelle tecniche, sono definite di gestione.
Bisogna osservare, però, che la storia dello sviluppo tecnico ha consentito economie di scala via via con più piccole dimensioni degli impianti e, quindi, una maggiore elasticità operativa. Esempio classico quello delle vecchie macchine a vapore per la generazione di energia meccanica, che richiedevano, per la loro massima economicità, capannoni industriali ciclopici, e il più recenti motori utilizzanti l’energia elettrica che consentono il movimento anche di una sola macchina operatrice. Grande e crescente concentrazione sussiste sempre, però, sul piano economico e sociale, per la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica.
Altro elemento che favorisce la concentrazione della produzione è, per così dire, culturale: riguarda cioè l’apprendimento a fare: quanto più elevato è il numero delle volte in cui un compito è svolto, tanto maggiore è l’apprendimento e la specializzazione, pertanto l’operaio diventerà più abile e veloce. L’aumento del volume di produzione determina una maggiore specializzazione e divisione del lavoro: ciò agevola la standardizzazione dei compiti con un conseguente aumento della produttività ed efficienza del lavoro.
L’aumento dei volumi di produzione, nel tempo può consentire alle imprese di introdurre una serie di innovazioni nelle tecniche di processo, come i cambiamenti nella disposizione interna degli stabilimenti o la messa a punto di nuove procedure per lo svolgimento di specifiche operazioni di trasformazione e di assemblaggio, oppure l’introduzione di piani di manutenzione più efficienti. Allo stesso modo l’esperienza acquisita, unitamente alle informazioni di ritorno provenienti dal mercato, può suggerire modifiche e innovazioni da apporre ai prodotti. Per contro, l’introduzione di modifiche alle tecniche sono talvolta rese più difficili dalla grande dimensione degli impianti.
L’aumento del volume di produzione può favorire l’utilizzo di risorse meno costose come la sostituzione di manodopera specializzata con manodopera non specializzata dovuta alla standardizzazione delle attività che richiede meno competenze tecniche specifiche.
Quando all’aumento della produzione corrisponde l’aumento delle varietà dei prodotti, si può ottenere una unificazione delle componenti degli stessi che vengono utilizzate su scala più ampia.
Man mano che aumenta l’esperienza risultano più evidenti quali sono
le caratteristiche funzionali, fisiche, estetiche e di qualità tecnica
dei prodotti che il mercato richiede. Ciò è anche favorito dalle maggiori
informazioni di ritorno che provengono dai mercati di sbocco.
L’effetto della congestione
Quindi le spinte a centralizzare del Capitale sono parecchie e ben fondate, ma ci si pone a questo punto una domanda: questa centralizzazione è illimitata oppure incontra un limite oltre il quale inizia la convenienza a decentralizzare?
Un singolo e dato impianto, raggiunta la scala di produzione per la quale è stato progettato, inizia, se vi è un ulteriore aumento della produzione, a rendere di meno perché alcuni costi aumentano a causa di evidente sproporzioni interne. Ma anche considerando la possibilità di ampliare l’impianto produttivo o di costruirne uno nuovo, all’aumentare della sua dimensione sorgono dei costi di congestione, che aumentano con essa a fronte del calo dei costi logistici e della ripartizione dei costi fissi su più prodotti. Tra i principali costi di congestione vi sono quelli di coordinazione dovuti alla difficoltà di gestire tanti fattori economici, che vanno dal personale agli edifici, dalle materie prime ai magazzini, eccetera, che aumentano, ovviamente, aumentando il volume di produzione cumulata.
Questo discorso vale sia da un punto di vista strettamente dell’azienda sia per i riflessi su di essa di costi sociali: con l’aumento della densità della popolazione su una delimitata area, per esempio, c’è un calo dei costi logistici dovuto al risparmio sui trasporti, sulla movimentazione in generale e sulle forniture di servizi; ma, a fronte di questo risparmio, notiamo un aumento dei costi di congestione dovuti alla maggiore difficoltà di gestione e di coordinamento, ma anche dalle cosiddette esternalità negative, cioè inquinamento, traffico, salute pubblica, eccetera. Così, il punto in cui conviene dimensionare le unità produttive è il risultato del compromesso tra i due tipi di fenomeni, oltre il quale non conviene più accentrare perché aumenterebbero i costi di congestione.
La densità abitativa media della società moderna è la più alta mai
raggiunta nella storia, questo perché il passaggio alla forma produttiva
capitalistica non solo permette, ma ha richiesto sia un aumento demografico
imponente sia più densità. Il congestione e l’incapacità di gestione
degli spazi nell’attuale società sono spinti ai limiti della tollerabilità
e l’addensamento di uomini è portato agli estremi limiti perché la
convenienza economica, cioè il punto di incontro tra costi di dispersione
e di congestione, oltrepassa la capacità di gestione capitalistica
degli spazi vitali. Il passaggio dal capitalismo al comunismo consentirà
una redistribuzione degli umani su aree più ampie e lo smembramento delle
megalopoli. Il futuro progettare comunista ragionerà in termini non di
tollerabilità, né di produttività in senso stretto, ma
di soddisfazione dei bisogni umani. A questo fine può darsi che
ci vorremo dare aree a diversa densità abitativa, secondo il clima per
esempio, o diversamente abitate secondo l’uso. Il troppo o il
poco accentrato sarà considerato rispetto ad una società capace
di amministrare razionalmente sé e il mondo, facoltà che è del tutto
preclusa all’attuale civiltà proprietaria e capitalistica.
Decentralizzare !
Nell’attuale mondo capitalistico, quanto più sono elevate le tecniche di trasporto e di comunicazione tanto più diventa conveniente gestire e dislocare le unità produttive ad uso e piacimento delle esigenze del momento.
L’attuale crisi di sovrapproduzione ha esasperato l’esigenza di attuare metodi di gestione snella al fine solito di frenare la caduta del saggio di profitto. I nuovi metodi di gestione snella o, dal nome dell’azienda nipponica che per prima li ha sperimentati, toyotismo, comportano l’eliminazione degli ipertrofici apparati burocratici aziendali e una gestione migliore delle scorte di magazzino al fine praticamente di azzerarle.
Questo sistema organizzativo prevede l’esistenza di un tessuto di piccole aziende, formalmente indipendenti ma di fatto legate commercialmente e spesso finanziariamente alle grosse multinazionali, sulle quali vengono scaricate tutte le difficoltà sorgenti dall’accrescersi dello sfruttamento della manodopera e dalle periodiche crisi che regolarmente assestano duri colpi all’economia capitalista. Queste piccole aziende sono un vero e proprio cuscinetto sociale dell’economia, esse hanno maggiori opportunità di smaltire manodopera in eccesso dovute sia ad una legislazione più morbida sia alla più ampia possibilità di eludere le normative del lavoro con le famigerate assunzioni in nero. Così sempre più economie locali conservano o si dotano, laddove ne sono prive, di piccole e medie imprese su cui far affluire manodopera più ricattabile e meno combattiva, da gestire ad uso e consumo delle esigenze del momento, il tutto affiancato dal sorgere di contratti atipici che ammorbidiscono i contratti collettivi e le legislazioni sul lavoro.
È in questo contesto che si collocano le ristrutturazioni aziendali degli ultimi venti anni a questa parte. Intrecciato con questa, apparente, dispersione produttiva è la tendenza alle cosiddette privatizzazioni, cioè la cessione di aziende gestite dagli Stati nazionali a colossi multinazionali macroregionali e mondiali. Queste, nei paesi dell’est Europa, hanno coinciso col crollo dei regimi politici di tipo monopartitico postbellici.
In Italia è interessante notare il passaggio del polo attrattivo dell’investimento dei risparmiatori che dai titoli di Stato, che servivano a coprire l’enorme massa di attività del governo nazionale, ai fondi di investimento, una miscellanea di titoli azionari ed obbligazionari gestiti da apposite società che meglio si prestano alle esigenze del capitale finanziario mondiale.
Per quanto riguarda, invece, la nascita di nuove piccole imprese con tanto di piccoli imprenditori intestati, è da rilevare che il grado della loro reale indipendenza dalle grandi imprese committenti è spesso talmente esiguo da ridursi, in pratica, a lavoratori a domicilio, ma inquadrati giuridicamente, economicamente e fiscalmente (e purtroppo psicologicamente) come imprese a sé, sollevando così le imprese committenti da ogni responsabilità civile ed economica. Queste possono in qualsiasi momento sospendere o spostare altrove i loro ordinativi senza alcun costo. Ma essenzialmente queste terziarizzazioni offrono lo strumento per abbattere la combattività delle maestranze di cui è sparpagliata la forza in tanti piccoli gruppi con forza rivendicativa esigua.
Molto spesso una stessa e medesima azienda viene scomposta in un numero di aziende non grandi che operativamente e materialmente costituiscono lo stesso corpo di produzione, consentendo così al padronato di usufruire sia dei vantaggi di scala dei grossi impianti, sia di quelli delle piccole imprese con manodopera priva di elevato potere rivendicativo, sia dei vantaggi fiscali e contrattuali concessi alle “piccole aziende”. Il che dimostra, ed è ciò che più ci interessa, l’esigenza di una organizzazione sindacale territoriale e non aziendale al fine di superare queste micidiali divisioni!
Un altro caso di decentralizzazione più radicale ci è dato dallo smembramento
di apparati industriali nei paesi industrializzati per impiantarli in paesi
meno sviluppati. Si tratta spesso di produzioni nocive ed inquinanti o
che necessitano di lavori estenuanti e di manodopera a basso costo. Queste
produzioni vengono localizzate laddove vi è sia manodopera a basso costo
e ricattabile, sia regimi che ancora non hanno proibito, o non hanno la
forza o l’interesse per farlo, le emissioni inquinanti. Si è verificata
così, a seguito della crisi di sovrapproduzione dopo la fase di ricostruzione
postbellica, la deindustrializzazione di intere aree come la Lorena
o il bacino della Rhur in Germania, per industrializzare aree di paesi
sottosviluppati sotto il controllo di colossi multinazionali. Spesso vengono
smantellati singoli reparti che vengono rimontati nell’altro emisfero
dando luogo a stabilimenti monoreparto che costituiscono un’ulteriore
divisione e specializzazione del lavoro. Altro che ritorno alla piccola
produzione medievale di cui molti economisti volgarissimi vanno ciarlando!
Divide et impera
I processi di terziarizzazione, insomma, danno un colpo al modello di integrazione verticale tipico dell’impresa fordista.
Già nel pieno della fase fordista, a dire il vero, si erano sviluppati processi di dis-integrazione verticale dell’impresa: già negli anni’60, ad esempio, un 50% delle auto veniva prodotto fuori dalle aziende-madri. Ma questi processi sembrano ora segnare un salto di qualità, sia in intensità sia in estensione e investono non solo le imprese industriali ma quelle del terziario e la stessa Pubblica Amministrazione, che nella fase del Welfare State aveva visto ampliare i propri compiti (e i propri dipendenti), e ora appalta quei compiti (quando non li dismette) a imprese del settore privato o del terzo settore.
Per usare una formula sintetica, potremmo dire che il dilemma di fondo tra make or buy (fare o comprare) si sta sempre più spostando a favore della seconda alternativa.
Si tratta di una tendenza sempre più diffusa, ma diffusa non equivale però ad egemone: queste tendenze, almeno per ora, non sembrano configurare un nuovo modello organizzativo assestato. Esse rientrano nelle sperimentazioni variegate, e talvolta contraddittorie, di modelli organizzativi di impresa che superano i limiti del fordismo. Ma resta vero che esse rimettono ulteriormente in questione gli stessi nuovi modelli (produzione snella, fabbrica integrata, ecc.) nati dalla crisi del modello fordista-taylorista “classico”.
Si parla di crescente de-verticalizzazione dell’impresa. Il primo salto di qualità si collocherebbe alla fine degli anni Settanta, con il decentramento dell’accessoristica. All’inizio degli anni Novanta si avrebbe un mutamento qualitativo del rapporto fornitore-cliente, con lo sviluppo della fornitura just in time. Oggi saremmo nel pieno fermento di una fase ulteriore, definita di terziarizzazione avanzata, che interesserebbe l’area dei servizi: amministrazione, sistemi informatici, logistica, ricambi, manutenzioni, pulizie, ecc.
La fabbrica modulare sarebbe lo sbocco di questo processo: esempi compiuti di realizzazione di questo modello si ritroverebbero nel nuovo stabilimento Fiat di Pune in India e in quello della Volkswagen a Resende, in Brasile. In questo nuovo modello, all’impresa-madre restano come responsabilità dirette: l’esecuzione del montaggio finale; il governo del processo globale di fabbricazione; la garanzia degli standard di costi e qualità e del rispetto dei tempi; l’identità e l’immagine di marchio; tutto il resto è affidato a imprese esterne.
Sottostà a questi processi un uso più intenso della forza lavoro: l’obiettivo non è solo un costo del lavoro più basso, quanto quello di esasperare la flessibilità della prestazione lavorativa e dei livelli occupazionali. In secondo luogo, si punta ad aumenti di efficienza e produttività derivanti dalla specializzazione di alcune delle imprese esterne (ad esempio nella logistica o nella manutenzione).
Infine, v’è una questione generale, che attiene alla crescente propensione per il buy rispetto al make e che può essere riformulata in termini di alternativa tra mercato o gerarchie, ovviamente con il triviale trionfo, dialetticamente sconvolgente e rivoluzionario, del primo sulle seconde. Nelle più grandi imprese, sia private sia pubbliche, come nelle Ferrovie per esempio, è maturata una profonda sfiducia nella “razionalità interna” dei propri quadri, sia amministrativi sia tecnici, al fine della realizzazione dell’efficienza e degli obiettivi aziendali, che è da misurarsi, di fatto, solo nel rapporto col mercato, mezzo ben più efficace di controllo e di orientamento. Si pensa cioè che un’impresa esterna, legata da mercantile rapporto di fornitura, sia più affidabile di un tecnico intermedio, dalla mentalità non abbastanza flessibile, nella realizzazione degli obiettivi aziendali. Questa continua autodistruzione è un effetto della crisi economica che rende ogni piano, anche capitalistico-aziendale, del tutto impossibile e l’unica prospettiva e possibilità di sopravvivenza è non affondare sotto la prossima onda della tempesta globale. Insomma, la snellezza e la flessibilità come anticamere del classico, prosaico e inevitabile, fallimento.
Per contro, nell’utilizzo della forza lavoro, della quale le terziarizzazioni dovrebbero permettere una maggiore flessibilità, si creano nuovi elementi di rigidità: ad esempio in passato erano possibili forme di mobilità tra lavoro di carrellista e lavoro sulla linea, che ora non lo sono più perché si tratta di lavoratori di imprese diverse. Più in generale, si ricrea in forme nuove un tessuto di rapporti informali, talvolta leciti talvolta meno, che a volte riescono a risollevare il tasso del profitto, altre volte creano problemi e intoppi alla produzione.
Evidente che il capitale è ben lontano da quel presidio globale
dei processi che doveva essere un tratto distintivo del nuovo modello organizzativo,
semmai ne è sempre più lontano.
La fabbrica modulare e il terzo settore
I rappresentanti sindacali unitari delle lavorazioni terziarizzate sono “terziarizzati” insieme ai “loro” lavoratori e hanno mantenuto il ruolo di RSU. Talvolta c’è già stata una nuova elezione delle RSU. Ma le imprese più piccole non hanno RSU, o per lo meno non hanno un delegato in loco, e quindi esiste una porzione di lavoratori privi di loro rappresentanti diretti.
Soprattutto spesso non c’è un’istanza riconosciuta che raggruppi, da un lato, le diverse RSU del sito e, dall’altro, le diverse controparti. Teoricamente, dunque, le relazioni industriali sono compartimentate per azienda anche se, come vedremo, nella pratica non è sempre così. Capita, dunque, che un rappresentante non possa intervenire su cose che avvengono a due passi da lui, perché “di competenza” di un’altra RSU, che però magari non è fisicamente presente in quel luogo. Abbiamo, dunque, un tessuto debole o inesistente di “relazioni industriali” “trasversali” riconosciute, a cui spesso si sopperisce con rappresentanze di fatto, più o meno informali.
Capita che l’iniziativa dei lavoratori venga a colmare questi vuoti costringendo il sindacato a denunce, agitazioni, e lotte sui temi comuni ai dipendenti delle diverse aziende: problemi di organici e di carichi di lavoro, problemi di sicurezza, ecc. E, a partire da queste iniziative, le direzioni sono spesso state costrette a momenti negoziali (formali o informali) in cui almeno una parte dei problemi denunciati sono stati affrontati e risolti. (Qui riassumendo da La Rivista del Manifesto n° 5 di 04/2000).
Il fenomeno delle aziende no profit, così discusso negli ultimi decenni, rappresenta un’altra strategia nuova, ma non troppo, di rincoglionimento, oltre che di utilità economica, che il Capitale ci propina. Qui alcuni accapi di articoli apparsi su La Rivista del Manifesto numero 0, novembre 1999, illustrano delle considerazioni al riguardo.
«In primo luogo lo sviluppo del cosiddetto “Terzo settore” è un portato dello sviluppo capitalistico (...) Da un lato abbiamo infatti assistito, almeno a partire dagli anni ‘80, ad una forte crescita del “volontariato sociale” (...) dall’altra l’azione del capitale tesa a sussumere questo positivo fermento sociale nel processo di sostituzione del welfare con forme di “carità sociale” meno costose ed intrecciate ad una generale precarizzazione dei rapporti di lavoro (...)
Lo sviluppo del Terzo settore è pienamente inserito nella concertazione, in funzione della precarizzazione del lavoro e della trasformazione del welfare in workfare, con annesso mercato dei servizi.
L’episodio di malaffare politico-amministrativo emerso nell’estate del 1998 a carico del Comune di Palermo e di oltre 250 cooperative sociali (...) aiuta a comprendere l’irresistibile ascesa del Terzo settore nel nostro paese. A beneficio dei distratti conviene rievocarne i tratti essenziali. Tra la primavera del ‘93 e l’autunno del ‘97 l’amministrazione comunale del capoluogo siciliano procede all’affidamento di servizi di pubblica utilità a 269 cooperative e ai loro 6.400 soci lavoratori (...) Nel marzo del ‘98, un socio estromesso dalla propria cooperativa senza uno straccio di motivazione invia un esposto alla magistratura e alla Guardia di finanza. Le indagini mettono rapidamente a nudo una realtà a dir poco sconcertante, fatta di stipendi corrisposti a persone da tempo decedute; di portatori di handicap, ex-tossicodipendenti ed ex-detenuti arruolati al solo scopo di raggiungere la quota prescritta di “soci svantaggiati”; di un ben collaudato sistema di caporalato, con tanto di lettere di dimissioni prefirmate e di trattenute irregolari sulla busta paga (...)
A chi sognava un impiego nella pubblica amministrazione si è concesso qualche mese di lavoro precario, iperflessibile e sottopagato, nel rispetto del più classico schema clientelare (...) Numerosi casi di supersfruttamento del lavoro sono emersi sullo sfondo del sistema delle gare al ribasso, complice una normativa che impedisce ai soci lavoratori qualsiasi tutela dei propri diritti».
Ecco la convenienza delle piccole e medie imprese e delle cooperative!
Un altro articolo della stessa rivista ci descrive la realtà del precariato facilmente utilizzato dalle piccole imprese industriali.
«Esemplare è la storia della Cima, un’industria che occupa 128 dipendenti, e che fabbrica molle e fascette per altre aziende, principalmente per la Fiat. L’anno scorso sono stati trovati 30 cingalesi perfettamente inseriti nel ciclo produttivo, pur essendo soci dipendenti di una cooperativa prendevano circa 7 mila lire l’ora e non conoscevano i propri diritti. Spesso il presidente della cooperativa li svegliava di notte per chiamarli a lavorare, erano sottoposti a uno sfruttamento assurdo, oltre a venire discriminati da quasi tutti gli altri operai che non li volevano neppure a mensa». «L’85% dei nuovi ingressi avviene ormai con contratti atipici e molti restano precari per anni: prima c’erano soltanto le cooperative, oggi c’è anche l’interinale, con le agenzie di lavoro temporaneo che provvedono pure a trovarti un alloggio, spesso a prezzi esosi. In alcuni casi, vengono addebitati in busta paga canoni di locazione fino a 360 mila lire mensili, per un posto letto in alloggi con altre 5-7 persone. L’uso dei lavoratori precari, inoltre, permette di abbassare il numero dei dipendenti: molte aziende, così, possono mantenersi in modo fittizio sotto la soglia dei 15 dipendenti, senza dover quindi applicare lo Statuto dei lavoratori. [Nel milanese] il 70% delle imprese metalmeccaniche sono di piccole e medie dimensioni (...) Gli imprenditori aprono a volte delle cooperative parallele dove decentrano la produzione, tenendo nello stesso circuito produttivo lavoratori pagati in modo differente. In alcuni casi le buste paga in nero sono più basse rispetto al contratto nazionale, in altri raggiungono anche i 3 milioni al mese». «L’uso delle cooperative irregolari è ancora molto diffuso anche se oggi le aziende per abbassare il costo del lavoro e non correre rischi ricorrono alle assunzioni di lavoratori atipici. Alla Elco di Inzago, che produce motori per i frigoriferi, oltre 150 extracomunitari lavoravano nascosti in cantine e magazzini. Alla Dropsa di Vimodrone, che produce pompe oleodinamiche, 13 lavoratori da 5 anni erano precari, sballottati dalle false cooperative al lavoro interinale».
Tutto ciò dimostra come le cooperative e la divisione e discriminazione tra lavoratori siano ottimi espedienti di difesa e attacco del Capitale che usa a proprio uso e consumo.
* * *
A questo punto sorgono alcune domande: qual è la probabile tendenza per il futuro? Si continuerà nello smembramento delle grandi fabbriche oppure si tornerà a centralizzare dopo questa fase transitoria di decentralizzazione? E che dire poi del comunismo, quale sarà la struttura industriale comunista? Si preferirà la piccola o la grande fabbrica?
Le risposte a queste domande non possono permettersi il lusso di essere certe ed univoche, ma devono articolarsi secondo le varie concause che hanno determinato i fenomeni capitalistici fin qui esposti.
In linea del tutto generale, possiamo affermare che il Capitale, nella sua lotta di auto-conservazione, generando sangue e miseria, è costretto a ristrutturare continuamente la propria conformazione ed organizzazione e, ristruttura ristruttura, si ritrova con una struttura fondamentale, materiale ed economica, sempre più simile a quella del sistema che è prossimo a soppiantarlo. Questo perché le esigenze materiali che portano al succedersi dei sistemi produttivi si fanno sentire forte ed il sistema vetusto deve continuamente mutilarsi e dare sempre più concessioni, avvicinarsi al nuovo. Solo così può, paradossalmente, ritardare la sua morte, il suo superamento. Il capitalismo è una forma di produzione dinamica che, rimanendo e confermandosi per quello che è, riesce a riformularsi in infinite metamorfosi, ovviamente sempre sulla pelle dei poveri fessi di sempre: i lavoratori!
Quindi il processo di decentralizzazione tecnica può avere diversi futuri a seconda delle spinte che lo determinano. Bisogna qui tenere distinte due categorie di concause che determinano il fenomeno della terziarizzazione:
1. Strategie di ristrutturazione per adattamento alle esigenze tecnico-economiche
reali, come localizzazione in punti strategici migliori, in nuove aree
industriali, per usufruire di nuove metodi, eccetera. Laddove prevalgono
queste concause è molto probabile che il processo di terziarizzazione
non solo non regredirà nell’immediato futuro capitalistico, ma anzi
si svilupperà e si allargherà sempre più.
2. Strategie di abbattimento del costo del lavoro. Sono tutte quelle
strategie atte ad abbattere il potenziale di lotta dei lavoratori per preparare
la strada ad una riduzione generalizzata dei salari. Laddove le concause
prevalenti al processo di terziarizzazione in atto siano queste, è probabile
che il Capitale, una volta raggiunti i suoi obiettivi, possa poi ricentralizzare
gli apparati smembrati.
Struttura industriale comunista
Viene infine da chiederci come sarà la struttura industriale comunista, se più orientata ai grossi capannoni o alle piccole unità.
Da un punto di vista tecnico il problema dà da sé le sue risposte, che mai sono assolute. Esempio dall’informatica: quando, alcuni decenni fa, prima della scoperta dei materiali semiconduttori e dell’invenzione dei circuiti integrati, gli elaboratori erano ancora macchine costosissime, delicatissime e mastodontiche, si prevedeva la tendenza ad una estrema concentrazione di questi apparati, addirittura, si pensava, uno solo, gigante, per nazione o per continente, custodito in apposito bunker e collegato per telefono a milioni di terminali cosiddetti stupidi. Era il modello detto ad intelligenza concentrata adottato, di fatto, se non a quegli estremi, in tutte le aziende, banche, ministeri, ecc. Il microprocessore, che oggi costa pochi dollari, ha capovolto quelle attese tanto che dal tavolino dell’hobbista agli uffici di ogni dimensione troviamo lo stesso identico personal computer, il modello ad intelligenza distribuita avendo soppiantato, volenti o nolenti il precedente, o almeno, nella pratica, si adotta una soluzione intermedia fra i due estremi. La concentrazione si è spostata sul piano della progettazione e della produzione dei chip, possibile oggi, a scala mondiale, solo in pochissimi super-laboratori.
La risposta invece alla nostra domanda su cosa attenderci dal comunismo, che è problema umano e sociale e non strettamente tecnico, e, diremmo, nemmeno economico, ci sembra non possa limitarsi ad una preferenza per il grande e concentrato ovvero per il piccolo e distribuito (mentre del capitalismo preferiamo senz’altro il primo!).
Lo spazio vitale del comunismo, rispetto al capitalismo, ha una dimensione in più, quella che si libera sopprimendo, o riducendo a poca cosa, il vincolo dei costi minimi; quel vincolo sociale schiaccia e inchioda l’agire e il pensare della società borghese sul piano che minimizza i costi. È evidente che anche il comunismo, a parità di tutto il resto, non ignorerà la strada più breve, ma quello sarà solo uno degli innumeri parametri, anche non quantificabili matematicamente, di soddisfazione umana messi nel conto per la scelta.
L’uomo, come in una sua nuova fanciullezza, tornerà allo studio-lavoro-gioco, quello che oggi è consentito solo a pochi privilegiati. Potendosi di molto ridurre quantitativamente il tempo di lavoro rispetto al capitalismo, per la soppressione dei falsi bisogni e l’obbligo all’impegno produttivo di tutti gli adatti, assume un senso del tutto diverso la sua forma, la sua durata e l’impegno intellettuale e muscolare che richiede.
Come prefigura la stessa evoluzione capitalista, si verrà a formare una rete fortemente connessa di relazioni abbracciante tutto il pianeta, con nodi di varia importanza, funzione e dimensione, collegati da un piano unitario ma pulsanti anche secondo ritmi diversi. Uno dei compiti della rete sarà la produzione in senso stretto, cioè la soddisfazione dei bisogni materiali, alimentazione, alloggio, ecc. Forse, specialmente per le lavorazioni pesanti, con più necessità di lavoro accumulato, si richiederanno ancora grossi stabilimenti, probabilmente prossimi alle fonti di materie prime e di energia e alle vie di accesso. Saranno gli uomini a muoversi, a ruotare, spostandosi, nell’arco delle stagioni e del ciclo della vita individuale, da un’attività all’altra, immediatamente produttive o no. Per altro, se piacerà, il Piano Generale potrà prevedere il ramificarsi di reti capillari sul territorio nei cui nodi, usufruendo di tecniche produttive che rendono agevole anche la piccola produzione, si articoleranno minori e a tutti accessibili unità industriali onnipresenti.
La struttura tecnica del comunismo, libera dai vincoli capitalistici, certo per prima cosa abbatterà le mostruose e diseconomiche iper e ipotrofie della società presente, convogliando la forza lavoro di tutte le aree abitate e rifornendola di tutto ciò che davvero occorre alla vita.