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Troppi spettri si aggirano per il mondo
– l’Europa è ormai stretta per contenerli.
Se ne sono accorti gli esegeti e i teorici
del capitalismo perbene, del libero mercato, con le regole e i vincoli
che lo rendono morale, dignitoso e benefico. Siccome da tempo il
meccanismo
internazionale di produzione e della finanza mostra vistosi segni di
cedimento,
con l’inizio del ciclo di ripresa posposto di anno in anno, questi
spiriti
forti hanno alla fine compreso che è nella sua natura il fantasma,
che ne disturba e corrompe l’armonia e la funzionalità. Ancora non sono
riusciti a capire come materialmente se ne possa arrestare il
turbinare,
ma si affannano a rammentare i pericoli che questa situazione può avere
sul futuro del Mondo, sulla pacifica convivenza e collaborazione degli
Stati.
Sia chiaro, lo spettro che vedono all’opera
non è più quello del Comunismo; questo, nel senso comune della storia
e secondo l’ideologia dei tempi correnti, appartiene ad una fase ormai
tramontata, tutta da ripudiare e dimenticare. E se tra lorsignori
qualche
demagogo ancora lo agita a mo’ di spauracchio davanti all’incurabile
e imbecille viltà delle mezze classi, è solo per ravvivare un po’
l’ambiente,
con vantaggio per destri e sinistri, non certo perché ci credano o
desti preoccupazione. No, il Comunismo non c’entra nulla in tanto
filosofeggiare.
Benché la minacciosa presenza che incombe
sul Mondo sia intuita come un prodotto del capitalismo stesso, il suo
lato
oscuro, la sua anima, in fondo, demoniaca, quel fantasma in realtà non
viene individuato, netto e preciso, nel capitalismo e nel mercato
stessi,
liberisti o statalisti che siano, né si ha l’onestà di riconoscerne
la ineluttabile e intrinseca forma regressiva. Ogni critico borghese,
per
mettersi in pace la coscienza, secondo lo specifico campo di attività
e la tinta politica che si ritrova addosso, vede solo una particolare
faccia
dello spettro, e le dà il nome che ritiene più suggestivo. Ne viene
fuori
un campionario di mali parziali, e dei corrispondenti parziali,
quanto ipocriti e illusori, rimedi.
Ecco che salta fuori l’importuno “conflitto
di interessi” che privilegiando il potente impedisce di perseguire il
Bene comune. Ecco la “bolla speculativa”, enfiata di nulla dalle
spregiudicate
mene della grande finanza e che, scoppiata, rovina le sudate risorse
dei
piccoli risparmiatori. Ecco il maneggio dell’”insider trading”, la
conoscenza dei meccanismi reconditi della finanza societaria, che
permette
a pochissimi addetti di approfittare della moltitudine di investitori.
Ecco i “bilanci truccati” delle aziende, che gabbano gli investitori.
Ecco gli Stati medesimi sull’orlo del fallimento, che emettono
obbligazioni
fondate sul nulla per finanziare il loro deficit. Ecco il collasso
della
“new economy”, il miraggio dei soldi fatti dal nulla se non dalla
promessa
di un futuro in continua espansione, che ingoia i fondi pensionistici
di
quei lavoratori che, dicevano, erano garantiti. Ecco infine la spettro
della guerra, non frutto maturo del capitalismo ma prodotto del
“militarismo”,
della “politiche aggressive”, della stupidità “dei guerrafondai”.
Ricette pratiche efficaci, nemmeno per
esorcizzare questi singoli spettri, non se ne trovano nell’armamentario
delle buone intenzioni, mentre il modo di produzione capitalistico,
unico spettro dai cento volti, continua a scardinare le certezze nelle
sorti progressive e prospere del mondo borghese.
Nei fatti la quantità, la massa, il Moloc,
la montagna di Capitale – altro che “fantasma” – fino ad
oggi prodotta monta ad altezze mostruose. Niente ormai di questo Blob
alieno,
informe e debordante è utilizzabile per il bene della specie umana,
grava
infetto sul lavoro vivo imponendo ogni mezzo per incrementare ancora e
ancora la sua pervasività ed ingombro. D’impiccio a questo suo fine
unico e implacabile il Capitale non tollera regole, vincoli, disciplina.
Questa verità definitiva, raggiunta dal
marxismo oltre un secolo e mezzo fa, è talmente dura da accettare e
gravida
di conseguenze terribili per i borghesi, che questi non possono che
ridursi
a “credere ai fantasmi”. Preoccupati per il fosco domani del
capitalismo
è giocoforza ripetano i soliti esorcismi: più “trasparenza” per le
aziende e per gli investitori; certezza nei patti sottoscritti dalle
parti
sociali “concertanti”; “più controllo” da parte degli “organismi
a ciò preposti”; istituzionale “divisione dei poteri”; responsabile
“democrazia parlamentare”; “certezza del diritto”; “cooperazione”
tra gli Stati; “soluzione pacifica” dei conflitti, ecc. ecc.
Intanto, dall’altra parte, quanti sono
preposti al governo dell’infernale sistema, col pragmatismo che la
situazione
richiede, inevitabilmente con metodi sempre più “informali” se non
“illegali” rispetto allo scema ritualità democratica, continuano
dittatorialmente
ad usare la solita ovvia unica loro ricetta di “politica economica e
monetaria”: scaricare sulle spalle delle classi più deboli il peso
della
crisi industriale e finanziaria, iniziando a distruggere, dove
esistenti,
le strutture dei cosiddetti ammortizzatori sociali. Nel frattempo
riorganizzano
alleanze e strategie per la prossima, sempre più difficile,
ripartizione
dei mercati internazionali, per il controllo delle fonti energetiche, e
cominciano a considerare l’ipotesi di attrezzare di nuovo gli Stati in
vista di un non più tanto remoto conflitto generalizzato.
Di “animi candidi”, nella sua secolare
storia, il Comunismo molti ne ha conosciuti. In altri, lontani, periodi
anche disposti a fare un pezzo di strada insieme ai partiti del
proletariato.
Ma nell’attuale fase storica di imperialismo dispiegato, tutti questi
“sinceri democratici” candidi lo sono soltanto all’apparenza; in
realtà sono e saranno schierati ferocemente contro la classe operaia e
rivoluzionaria e, senza remore, col Capitale, con la sua infame legge
economica
e con tutte le sue mostruosità.
Rapporto esposto nella riunione di Torino, settembre 2002.
(53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).
Quando Lenin ha scritto Imperialismo ha
scritto Capitalismo. Soltanto i sedicenti marxisti-leninisti
hanno
potuto pensare, nella loro interpretazione dell’Imperialismo, o
addirittura
del “leninismo”, come fase nuova, che questa formula abbia voluto
rinnegare le premesse del marxismo ottocentesco.
Il capitalismo, finita l’epoca, almeno nei
paesi di vecchia industrializzazione, delle definizioni nazionali, non
poteva che sfociare nell’imperialismo, con le sue espressioni di
oppressione
coloniale e di pressione sul proletariato metropolitano, fino alle
inevitabile
guerra tra Stati, che noi abbiamo sempre letto come guerra sociale piuttosto
che nazionale.
Quando allora, quasi inconsciamente parafrasando
i nostri testi, certi ideologi borghesi in veste di “politologi” o
di “strateghi della guerra”, ammettono che la guerra terroristica
è
l’ultima modalità della guerra tradizionale o convenzionale, non fanno
che riferirsi ad un tipo di guerra “a nemico invisibile” nella quale
i più martoriati sono i cosiddetti “civili”, più ancora dei “militari”
impegnati nelle operazioni.
Se si avesse la pazienza di quantificare statisticamente
il numero delle vittime “civili” delle diverse forme di guerra, dalle
imprese napoleoniche ad oggi, potremmo rappresentare questa quantità in
grafici in cui l’impennata dell’ultima guerra mondiale desterebbe
grande
impressione. Noi sappiamo bene per quale motivo si manifesta questo
fenomeno:
perché nel modo di produzione capitalistico la guerra non svolge più
la funzione di confronto semplicemente territoriale tra le potenze, ma
di lotta economica e commerciale legata a determinati livelli di
sviluppo delle forze produttive.
I proletari sono chiamati non solo a “produrre”
secondo il rapporto che li lega al Capitale come rapporto sociale, ma a
sostenere il peso delle azioni militari, e così subire quei salassi che
sono necessari alla guerra intesa come azzeramento dei contenziosi
aperti tra le opposte bande borghesi nel mondo.
Così per noi la guerra non comporta semplicemente
lo studio delle questioni specificamente strategico-militari, che pure
ci competono, ma soprattutto il quadro completo che lega la
produzione al fenomeno guerra, in tutte le sue possibili implicazioni.
Nella fase imperialistica sappiamo come la
guerra esploda in quanto momento necessario, nel quale le
contraddizioni
vengono al pettine. Se è vero, parafrasando l’abusato Clausewitz, che
la guerra è la continuazione della politica (e dell’economia),
si deve dire che continuazione non significa sospensione né
della
produzione, né della politica, né della diplomazia, ma invece
prevalere d’una dimensione sull’altra, fino al punto che l’una –
la guerra e la questione militare – prende chiaramente il sopravvento
sulle altre ed a sé le subordina per una serie di fattori che vanno
analizzati e spiegati.
Oggi, nel clima di quasi totale mancanza di
influenza della corrente rivoluzionaria, si è giunti a riconoscere che
il fattore militare può essere utile per la ripresa
economica minacciata
di stagnazione, in qualche modo si afferma “ben venga la guerra”. Non
ne facciamo certo una questione morale o peggio
moralistica di indignazione davanti
al fenomeno guerra, ma mai accetteremo la guerra capitalistica come una
inevitabilità
alla quale di deve soggiacere, anche se la classe operaia
a livello generale si trova largamente infeudata alle logiche nazionali
e sovranazionali.
Vedere quando, e secondo quali incidenze,
la guerra diventa argomento all’ordine del giorno, e secondo quale
coinvolgimento
di Stati e di aree, non è un’esercitazione accademica ma una necessità.
Noi abbiamo indicato secondo quali logiche
gli equilibri di Yalta cominciarono ad incrinarsi, dopo decenni di guerra
fredda nel corso dei quali ciascun blocco sacrificò sull’altare
degli equilibri usciti dalla Seconda Guerra mondiale ogni incursione
seria
nell’area di influenza altrui. Da Berlino 1953, alla rivolta ungherese,
alla invasione della Cecoslovacchia del 1968, alla crisi polacca
culminata
nel 1979, abbiamo osservato come, nonostante le polemiche e le
“condanne”,
il cosiddetto Occidente non si è mai mosso militarmente, fatta
eccezione per il caso Cuba, allorché stava per essere messa in
discussione
la dottrina Monroe enunciata nel lontano 1823, che va sotto la
formula “l’America agli Americani”... Valore e resistenza delle
dottrine,
vero “compagni” Yankee? In quella circostanza si rischiò la guerra
atomica, almeno così si è detto. Ma il bluff
sovietico si manifestò per
quello che era. Non si butta all’aria un equilibrio uscito da una
carneficina mondiale, seppure precario, solo dopo un quindicennio.
Eppure l’imperialismo mondiale, non solo
quello Usa!, non stava certo fermo. È stato dopo la sindrome Vietnam,
per quel che riguarda gli Stati Uniti, e dopo che la cintura degli
Stati
satelliti dell’URSS è entrata in fibrillazione che gli equilibri di
Yalta hanno cominciato a non tenere. Al di là di tutte le
fantasticherie
sull’aggressività russa, nessuno può mettere in discussione che la
Russia non ha e non poteva spingersi verso Occidente, tanto è vero che
la sconfitta nella competizione della cosiddetta coesistenza,
teorizzata dallo “zappaterra” Krusciov, ha spinto l’impero a implodere
e a dichiarare la sua fine senza colpo ferire. Si era insomma
ingloriosamente
svelato per quello che era il Mito Russia, come avevamo da
tempo, e da soli contro tutti, preconizzato.
Ma noi non abbiamo mai considerato la dinamica
imperialistica come immodificabile ed immobile. Abbiamo cominciato a prevedere,
negli anni 1975-80 delle linee di movimento, che definimmo nella morsa
della alternativa: o guerra o rivoluzione. Naturalmente tra le risate
degli avversari che possono averci letto. Troppo semplicistico,
improponibile,
schematico ecc.! In realtà nessuno, crediamo, ha mai voluto fare il
Nostradamus
della situazione. La nostra alternativa non è del momento, ma è storica
nella fase imperialistica. Se sono passati decenni, per certi anche di
“disillusione”, di stanca e logorante “attesa”, per noi il tempo
della storia, lungo o corto, è tempo storico, da nessuno manovrabile a
piacimento, in barba ad ogni illusione di histoire évenémentielle!
Saltati gli opposti veti militari, col crollo
dell’ex URSS, era inevitabile che si dovessero disegnare nuovi assetti
geopolitici, del resto già in embrione prima ancora che il Muro
cadesse.
Per noi l’imperialismo russo non da poco
tempo trescava col più organizzato e “articolato” imperialismo
occidentale;
ma gli assetti economici d’area possono bene essere mascherati da
sovrastrutture
politiche, come fu per oltre 60 anni. Sotto quella pressione
l’opportunismo
staliniano aveva illuso il proletariato, largamente, che le sue lotte
potessero
trovar protezione sotto lo scudo russo. Noi lo abbiamo sempre
contestato.
E così, allorché nel decennio scorso 1990-2000 il prevalente
imperialismo
USA (ed accoliti) ha pensato di gestire da gendarme unico l’apparato
politico mondiale, non solo non ci siamo sorpresi, ma abbiamo saputo
vedere
come la situazione si sarebbe messa in movimento, non in previsione
della
“pace perpetua”, ma di nuovi, non del tutto prevedibili assetti
mondiali.
Che gli USA abbiano “umiliato” la Russia
in panne al suo interno durante la guerra con l’Irak, e dimostrato la
superiorità netta degli strumenti di distruzione a disposizione; nel
decennio
il tentativo costante di erodere l’influenza russa, fino ad attrarre
nella sua orbita gli ex Stati satelliti, ha portato alla situazione
attuale,
allorché, in virtù di tre guerre balcaniche e dell’ultima guerra
arghana,
l’accerchiamento strategico sta portando ad una cintura di Stati che
vanno dal Mar Caspio all’India. La vecchia potenza russa si trova, nel
suo gioco a scacchi, secondo la tattica a lei nota da Kotuzov a Stalin,
a giocare di riserva, facendo inevitabilmente le finte di non volersi
opporre alla Nato. Del resto, come lo potrebbe?
Ecco allora il nemico comune islamico, che
forse permetterà al vecchio orso polare di farsi togliere qualche
castagna
dal fuoco dal potente ex nemico. Ma il nuovo assetto è in fase di
assestamento,
ed ha bisogno di risorse e grande dispiegamento di forze.
Per questo c’è bisogno del petrolio, delle
fonti di energia (altro che fonti alternative credibili!) che giacciono
nel Mar Caspio, e interessano tutta l’area che dalla Balcania porta
all’Oceano
Indiano. In questo scenario, che non si è certo prodotto d’amblais,
così per caso, l’episodio da film a effetti speciali dell’atto
terroristico
dell’11 settembre s’iscrive in un copione che se non noto nella pur
agghiacciante realtà, non era estraneo a timori da tempo coltivati
dalla
superpotenza USA. Infatti episodi già molto significativi, come quelli
del Kenia, e un precedente attentato alle torri perpetrato da un ultrà
americano
che non è stato forse indagato a fondo per carità di Patria, la dicono
lunga sulla “guerra terroristica” che viene annunciata per lungo, anzi
lunghissimo periodo.
Il processo di “militarizzazione” di larghe
aree del globo, in particolare quella indicata che parte dell’Adriatico
inferiore e porta all’Oceano Indiano, significa controllo anche
territoriale
dei giacimenti e delle risorse petrolifere che si stimano interessanti
per i paesi industrializzati per almeno altri 20 anni.
La storia fa di questi scherzi: se allarghiamo
l’evento e lo leghiamo ad altri, e cerchiamo una logica che li leghi
in qualche misura, ciò che sembrava “singolare” o irripetibile, assume
invece contorni d’una realtà di lungo periodo, in un certo senso d’una
continuità esemplare. Come si fa allora a farneticare, solo perché è
di moda parlare di “guerre virtuali”, come fa il filosofo Cacciari,
noto federalista di sinistra, a sostenere che «l’epoca delle volontà
egemoniche contrapposte, degli “Stati combattenti” si è conclusa»,
per riconoscere subito dopo che «nessuno Stato, per propria intrinseca
natura, può esercitare un effettivo governo mondiale» (“Corriere
Economia” 12-10-2001).
Certo, l’imperialismo non è un Superstato,
non è da identificare con una sola per quanto devastante potenza. È
ancora
peggio: è scontro inevitabile di necessità ed appetiti che non possono
in nessun modo essere mascherati, anche quando si indossa la maschera
delle
vittime. Se soltanto si richiama alla mente la macchina da guerra messa
a punto in lunghi decenni dagli Stati imperialisti, ci si domanda come
era ed è possibile illudersi che la polveriera non prenda fuoco, che lo
si voglia o no!
La “guerra” viene definita “operazione
di polizia internazionale”, come l’inconscio opportunista suggerisce,
perché non si tenga a mente la lezione secolare di due macelli
imperialistici
e oltre 169 guerre “per procura”, come furono chiamate quelle che hanno
devastato per decenni Africa, Asia, ed America Latina. È il succedaneo
momentaneo della “guerra dispiegata”. Certo, “polizia internazionale”
allude a misure di “sicurezza” contro il “nemico invisibile”, protetto
dagli “Stati canaglia” che al momento opportuno si sono dichiarati
sorpresi dalle malefatte dei fondamentalisti. Non fanno
eccezione
i preti barbuti di Kabul, del paese apparentemente più povero, popolato
da tribù vessate da una schiera di fanatici già allevati e utilizzati
dallo stesso imperialismo tecnologico per i propri fini. Si veda la
cartina
che segna il passaggio reale e progettato degli oleodotti, e si capirà
qualcosa!
Del trucco e dell’ambiguità delle parole ne
sappiamo qualcosa: se volessimo essere sottili ogni fase della guerra
tra
opposte frazioni del Capitale è stata accomodata con un nome speciale.
Dopo la discinta belle époque del primo Novecento, la “Grande
Guerra”, un nome maestoso che incuteva rispetto e terrore; poi la
“Guerra
Democratica” contro la “Barbarie nazi fascista”, guerra nobile per
eccellenza, che aveva il compito di debellare il “pazzo furioso
invasato
dal demonio” (recente definizione dell’esperto Ratzinger); poi la
“Guerra
Fredda”, servita naturalmente ghiacciata ai più sfortunati, lasciati
nelle mani del proprio blocco di appartenenza. Quindi l’interregno
1990-2000,
segnato dalla guerra peggiore, detta “Umanitaria” che, in nome del
nuovo ordine mondiale, ha provveduto a fare dell’America il “Gendarme
Unico”, che in nome del “Pensiero Unico”, avrebbe dovuto segnare
la fine d’ogni guerra guerreggiata, inaugurando la “Globalizzazione”,
il regno del mercato, d’una nuova belle époque danzata al
ritmo
del rock e della sfrenata società dei consumi, del sesso e
della
carne a buon mercato, cruda e cotta... È durata poco, e come allora
risvegliata
alla realtà in modo oscuro e minaccioso. Ma in tutti questi nomi era ed
è presente il seme che gli aveva dato la vita: il capitalismo
imperialistico.
C’è chi, inevitabilmente, la mette in “metafisica”,
con la solita considerazione che “la guerra” c’è sempre stata, e
sempre ci sarà; a meno d’una “rivoluzione interiore” dell’Uomo!
Poiché è urgente attenersi ad una analisi
circoscritta, concreta della situazione concreta, si tratta di
stabilire
fino a che punto è il caso di dilatare il tempo e lo spazio da prendere
in esame: noi l’abbiamo detto fin dalla nostra nascita: il Novecento,
finite le guerre per la definizione dei confini nazionali, almeno in
Europa, è il secolo lungo (altro che breve
alla Hobsbawm) delle
guerre antiproletarie di cui non si vede la fine, anche una volta che è
finito.
L’obiezione, più che seria, che ormai l’Europa
non è il mondo, e che noi stessi dovremmo riprendere in mano il nostro
testo Fattori di razza e nazione, non è certo da sottovalutare.
Certo non possiamo cadere nella formula etnico-razziale secondo la
quale
l’Europa ha sempre peccato di “eurocentrismo”, non riuscendo a valutare
appieno l’apporto e la specificità di altre aree geografiche e
culturali.
Lo stesso Marx è stato spesso tacciato di
razzismo tedesco, per aver privilegiato la dialettica moderna nata in
questo
paese con Hegel, per non aver avuto buona considerazione della cultura
asiatica, ecc. Dovremmo dire meglio, proprio a chi in nome del
relativismo
non riesce a capire la “relatività” non solo applicata al mondo fisico
e naturale, ma anche a quello storico e sociale, che è inutile far
finta
di non vedere che nell’epoca della industrializzazione, la cultura del
vecchio continente ha avuto la prevalenza, ha irradiato potere e
potenza
economica e culturale! Che cosa dovremmo fare: far finta di non vedere,
e magari non comprendere perché Marx parla di coniugare l’economia
politica
inglese, con la politica francese e la filosofia tedesca? Almeno si
dimostrò
(non si rivolti nella tomba!) europeo molto prima di lorsignori.
Ma la questione non è questa. È invece che
lo sviluppo delle forze produttive, irradiandosi dalla favorita, anche
dal clima, civiltà anglosassone, ha plasmato di sé il mondo intero. Non
ce ne doliamo, sarebbe tempo perso, e forse anche ingiustamente.
Il tanto citato ed abusato Huntigton (The
crash of the civilisations), che si muove sull’onda delle
“sovrastrutture”,
come tutti quelli che vogliono nascondere il tanto odiato economicismo
(che noi stessi consideriamo insufficiente e fuorviante), comunque
tenta
di decifrare le tensioni del nuovo millennio. È fuori discussione che
il primato della tecnologia prodotta dall’Occidente costringe
determinate
culture già in auge nel passato a fare i conti con l’imperialismo
preminente
dell’area anglosassone, sia quelle dell’area mediorientale (che
comprende
e il trapiantato ebraismo e l’Islam), sia quelle dell’area indiana
induista, sia il confucianesimo travestito da “comunismo”, sia lo
scintoismo
giapponese. Ma se in nome delle diversificate aree culturali non
vedessimo
più la sottostruttura economica e sociale, allora sì che avremmo
venduto
la teoria ed ogni chiave di lettura dell’attuale crisi di guerra!
Dovremmo invece chiederci con serietà la
ragione dell’operazione malamente mascherata, che tende a vedere in
certe culture,
malate di integrismo, la causa del conflitto. Noi abbiamo
sempre
sostenuto che quando il Capitale si è rivestito dei connotati odiosi
del
nazionalismo estremo, dal fascismo al nazismo, ed oggi del terrorismo a
sfondo religioso, aveva ed ha da mascherare interessi inconciliabili,
che
solo con la guerra si possono se non azzerare, almeno mettere in pari
il loro contenzioso accumulato storicamente.
Chi non vede che le nazioni islamiche, molto
diverse e variegate nel loro sviluppo, si sono illuse di vivere di
“rendita
petrolifera” per lungo tempo, dalla crisi del 1973, allorché il
“petrodollaro”
sembrava dover mettere in ginocchio l’economia occidentale ed in specie
statunitense. Eppure, nonostante che l’Arabia Saudita sia tutt’ora
governata dai “wahabiti” (dottrinariamente il nucleo più integrista
e conservatore dell’Islam), si è assistito allo allineamento di questo
paese, massimo produttore di petrolio, con la superpotenza USA. Come si
spiega, stando al “fondamentalismo” islamico, questo fenomeno? Non
cadiamo nella trappola: l’Islam, apparentemente impermeabile al
Capitale
inteso in senso anglosassone, cadrà, come già ha fatto il cristianesimo
più arretrato, sotto la pressione non della neutrale “Tecnica” (vedi
Severino) ma del micidiale Capitale! Non che, ai nostri occhi, questa
potenza
sia un dato insuperabile e demoniaco, ma perché la superiorità delle
forze produttive moderne, come ha vinto il feudalesimo, così vincerà
la ummah.
Sarà travolto solo dalla coalizione del lavoro
estorto, dai proletari di tutto il mondo uniti. Ma dove sono? si chiede
l’infedele.
Non vedete come sono sottomessi, lì ad Allah, qui alla fabbrica, al
padrone
ormai sempre più anonimo? Non vi disperate. Negli svolti che la storia
sa creare, che si determinano, non per il motore dell’amore
reciproco,
ma per necessità sociale (che creerà anche empatia effettiva, piuttosto
che misera e squallida competizione per delle briciole), quella
coalizione rinascerà dalle sue ceneri, come l’araba fenice.
Nessuno sembra “crederci”. E stando ai
fatti, ai “merdosi fatti”, pare aver ragione. Ma noi stiamo al verdetto
della storia. Anche alla fine dell’Ottocento i più abili dei sofisti
si erano vantati di aver costretto il marxismo in “soffitta”, pena
vederselo vivo e vegeto solo 15 anni dopo, ed in che modo!
Forti di questa convinzione, di questi dati
inoppugnabili, dobbiamo anche curarci dell’imperialismo, dei
suoi
assetti strategici e militari. Lo studio serio e sistematico di Marx ed
Engels delle condizioni storiche del loro tempo, degli schieramenti
reali
e possibili, non intendeva essere accademico; come pure non si illudeva
di manometterli a piacimento. Ma nell’epoca della “doppia rivoluzione”
possibile in determinate aree, comportava delle alleanze inevitabili e
necessarie, poiché lo schieramento del proletariato a favore momentaneo
delle borghesie progressiste era vitale.
Ed oggi? Non è sufficiente dire che ormai,
nella suprema fase del capitalismo, non si pongono assolutamente questi
problemi. Certo non nelle aree metropolitane. Ma in aree arretrate, in
cui si dibattono problemi di tribalismo, di uso cinico delle
contrapposizioni
tra “gruppi dirigenti” corrotti con altri velleitari o impotenti, non
è detto. L’analisi concreta della situazione concreta è ancora utile
e necessaria. Di questo il Partito dovrà farsi carico. E di fatto, nei
limiti dei suoi mezzi, lo ha fatto. Ci riferiamo ai lavori sul Sud
Africa,
sull’Etiopia, e quelli molto elaborati sulla Cina. Certo, il mondo
globalizzato di
oggi non è quello dell’Europa dell’Ottocento, e paradossalmente
soltanto
per conoscerlo sarebbe necessaria una forza di Partito 10 volte più
potente
di quella del tempo. Ma è anche vero che in dottrina il
problema fondamentale è la
bussola, la capacità di orientarsi. E soprattutto
la forza, che è stata storicamente decimata dal tradimento!
Concludendo velocemente sul nostro tema, per
contrasto, abbiamo la “fortuna” di assistere a crepe interne
dell’imperialismo
che non ci faranno mai dire frasi del tipo “tigre di carta”, oppure
le solite fregnacce d’un Negri, nel suo ultimo “Empire” (non a caso
pubblicato da Harvard: quando si dice l’America universitaria!) che
sostiene
che «la globalizzazione in sé non è un male perché ha finalmente
spazzato via gli Stati nazionali»!.
L’imperialismo sa che sta attraversando
un’epoca difficile. Se fosse per i mezzi militari, avrebbe da mettere
sul campo forze distruttive, ma, a spese sue, sta imparando che la
“distruzione”
dovrebbe essere “creativa”, e non semplicemente “distruttiva”!
Sappiamo della ingenuità d’un Einstein che, sommo in fisica, era
ingenuo
in politica al punto di dire «la IV guerra mondiale si combatterà con
le pietre»! La dialettica materialistica non riduce tutto a forza:
sa riconoscere il valore della politica, perché conosce bene la natura
dell’economia che la sorregge, gli interessi che la animano. Ma
in ultima istanza sa che l’economia è prodotto di lungo periodo, di
modi di produzione di forme che per modellarsi hanno
metabolizzato uomini e cose!
Allora, sappiamo che la guerra imperialistica,
al di là dei nomi che possiamo darle per comodità, è il frutto di modi
di produrre e di pensare antagonistici. Certo, né gli USA né gli altri
contendenti lasceranno il campo al socialismo senza lacrime e sangue.
Ma
dovranno cedere alla potenza delle forze produttive che hanno evocato.
A noi non perdere di vista le condizioni reali
effettive, né gonfiandole con l’illusione, né sottovalutandone le
crepe.
L’intreccio Stato-guerra
In questi ultimi tempi certi “strateghi”,
a livello mondiale, hanno fatto notare che in particolari aree del
pianeta
l’esclusiva dell’uso della violenza, che per “contratto sociale”
dovrebbe essere dello Stato, è in mano a gruppi non meglio
identificati,
dalla mafie ed ambienti criminali di grande spessore a terroristi collegati
tra di loro, anche se secondo clausole e modi da comprendere meglio. La
questione è quanto mai importante, poiché Lenin, in Stato e
Rivoluzione riconosce
agli «Stati sovrani capitalisti» di essere i «comitati d’affari»
della borghesia.
Ciò non significa che gli Stati del mondo,
ieri ed oggi, siano stati in grado di realizzare l’effettiva riserva
dell’uso della forza. Ciò è imputabile a quella anarchia
propria
del modo di produzione capitalistico, che non si limita ai rapporti
produttivi,
alla concorrenza solo nelle belle intenzioni “leali”, ma invade anche
il terreno della cosiddetta “sovranità”. Questa osservazione ci serve
per rimarcare che il presunto “ordine” è incompatibile con l’anarchia
del mercato e dei rapporti tra le opposte frazioni del Capitale.
Quando determinati Stati hanno introdotto
la “dittatura”, come nel caso del fascismo e del nazismo, per non
parlare
della degenerazione staliniana in Russia, non con questo hanno saputo
mettere
effettivamente ordine nel loro ambito, per la semplice ragione che ordine
senza giustizia è “ladrocinio” (Agostino docet!, senza scomodare
la nostra dottrina che lo ha affermato da sempre).
Allora, dovendo capire bene quali sono i poteri,
le forze agli ordini degli Stati imperialisti oggi, dobbiamo capire
quanto
e fino a che punto la borghesia dei diversi paesi si affida al suo
“comitato
d’affari” centralizzato nei rispettivi Stati-nazione, e quando invece
tresca con gruppi irregolari, in modo da essere più efficiente o più
favorita, se del caso. Tutti gli studiosi hanno dovuto sottolineare che
alle origini gli Stati autoritari, anzi “totalitari”, si sono visti
spianata la strada da “bande di irregolari” scontenti della scarsa
efficienza dell’apparato statale vigente. Si pensi ai “fasci di
combattimento”
del 1919 in Italia, al nascente nazionalsocialismo che in corso d’opera
vide regolamenti di conti sanguinosi, come l’eliminazione delle S.A.
di Röhm da parte delle emergenti S.S. di Himmler. Insomma, gli
“irregolari”,
nella nostra ottica, non furono gli “antistato”, come i democratici
hanno in più occasioni lamentato (peraltro fautori oggi, e sempre più,
della “continuità dello Stato!”). Ma, al contrario, hanno rappresentato
le forze di appoggio del “comitato d’affari” permanente del Capitale.
Dunque la grande campagna attuale contro il
terrorismo internazionale
andrebbe letta come la continuazione d’una funzione: l’imperialismo
nella sua interna inestinguibile tendenza al fagocitamento del
proletariato,
ove questo non si decida alla riorganizzazione alla scala generale, ha
bisogno di indicare bersagli, di scegliersi nemici. Questo sul
pianoideologico: sul piano pratico gli eserciti irregolari
in ogni parte
del mondo sono il termometro del disagio profondo in cui vengono a
trovarsi
gli Stati nazionali, premuti da nuove esigenze, nella necessità
costante di tenere alta la tensione.
Naturalmente il fenomeno è quanto mai
antiproletario,
poiché impedisce l’organizzazione disciplinata, la difesa economica
e la possibilità di permettere un’influenza adeguata al partito di
classe. Come è già stato sperimentato nel corso dei cosiddetti
anni di piombo in
Italia (ma anche in paesi interessati al fenomeno per altre ragioni,
come
la Spagna, l’Irlanda del Nord, l’ambiente mediorientale dal conflitto
palestinese ed israeliano), quando gli irregolari hanno cominciato a
sparare,
la classe operaia è stata stretta d’assedio dagli apparati regolari,
che hanno così potuto stringere la morsa su ogni tentativo di effettiva
riorganizzazione di classe. Nella nostra interpretazione dunque il
terrorismo alla
scala sia nazionale sia transnazionale non è affatto estranea alla
logica
degli Stati-nazione o degli apparati sovranazionali in via di
formazione.
Senza pretendere di conoscere nel dettaglio le loro confuse strategie,
sappiamo per esperienza secolare che sono sempre inevitabilmente
antiproletarie.
La nascente storiografia sulla loro funzione ormai non può negare più
come sono stati utilizzati dagli apparati “legali”, secondo la
cosiddetta
tattica dei “servizi deviati” pescati una infinità di volte a
“depistare”,
indirizzare, inquinare, suggerire... Insomma, anche all’interno
dell’apparato
“legale” e “legittimo” dello Stato ufficiale, il confine tra “legalità”
ed “illegalità” è un problema sempre aperto.
Se allora è vero, come certi strateghi sostengono,
che forze come non mai complesse collaborano, si intrecciano, fino al
punto
di avere dato corpo ad apparati militari extrastatali, ci si domanda
quale
sia lo stato complessivo delle forze militari in campo nell’attuale
realtà
imperialistica. Se vogliamo parlarne, non per ragioni polemiche ma
“conoscitive”,
come è necessario se si vuole rappresentare uno o più scenari
credibili,
allora dovremmo scremare gli epifenomeni di propaganda ufficiale la cui
funzione è quella di influenzare, tener sotto controllo la cosiddetta
opinione pubblica. Gli stessi addetti dell’ambiente borghese, allorché
parlano tra di loro, sono costretti a mettere da parte la grancassa, e
riconoscere il rapporto di forze.
La copertura democratica non può negare che,
specie nei momenti cruciali, le decisioni devono essere “segrete”,
le garanzie legali “sospese” in gran parte; si ha un bel dire che in
“democrazia” ci sarà a suo tempo il controllo del voto. Ma intanto,
secondo recenti pubblicazioni di carattere storiografico, si viene a
sapere
che il democratico Roosevelt, pur al corrente dell’attacco giapponese
a Pearl Harbour, agì in modo da costringere l’isolazionismo americano
ad uscire dal suo guscio. Ci si domanda: e se, come successe al “duce”,
avesse perso la partita?
Secondo la nostra critica la sostanza degli
apparati militari rappresenta il nucleo duro che al momento opportuno
fa
sentire il suo peso. Lo Stato imperialista, che si presenti sotto la
veste
democratica, o sotto quella “autoritaria”, rimane “Stato”. Questo
viene riconosciuto proprio di questi tempi, allorché lo spirito liberal
ha
preteso di demolire o ridimensionare la funzione dello Stato, fino alle
teorizzazioni dello “anarcocapitalismo”, proprio in USA. Fa un certo
effetto, di punto in bianco, subito dopo l’attacco alle due torri,
sentire un liberal di sé tanto compreso come il politologo Panebianco,
titolare per il
Corriere della Sera “Il ritorno dello Stato, in
guerra e in pace”, e fare ammissione che questa entità data per
superata,
messa in disparte dal mercato globale, si sta riportando al centro
della scena.
Non sorprende certo noi, che mai abbiamo trascurato
di sostenere come lo Stato borghese e le sue moderne
ramificazioni
in organismi sovranazionali sono il tema politico da sempre centrale.
La sbornia della “globalizzazione”, senza mai citare il suo vero nome,
l’imperialismo, sta passando? «Tanto la politica “anti” quanto
la politica “pro” globalizzazione sembravano ormai sul punto di
“de-territorializzarsi”
(altra parola magica!) di riorganizzarsi in forme tali da scavalcare
gli Stati, accelerandone l’obsolescenza (...) poi è arrivato l’11
settembre,
è scoppiata una guerra certamente “sui generis”, che tuttavia non
è illecito, credo, definire “terza guerra mondiale”. E tutto ciò
che sembrava acquisito è rimesso in discussione. Non è più sicuro che
la globalizzazione continuerà, o, per lo meno, che continuerà con i
ritmi
tumultuosi dell’ultimo decennio». Per fortuna che non ha usato, lui
pure, il termine “fine della bell’èpoque”... ma insomma il
riconoscimento
che la “III guerra mondiale è in atto” è venuto fuori. Sappiamo bene
quanto si è litigato e si litigherà sulla questione “dell’inizio”
delle guerre. Per noi, che abbiamo sempre sostenuto che in ultima
analisi
la guerra capitalistica contro il proletariato è “permanente”, sentire
certe cose, certi riconoscimenti è d’un certo interesse.
Seguono poi delle considerazioni “comparative”
con altre calamità del passato: «Lo scoppio della prima guerra mondiale
determinò la fine di globalizzazione dei mercati che aveva interessato
il mondo occidentale nel cinquantenni precedenti. Solo alla fine degli
anni Settanta del XX secolo, ad esempio, l’interscambio commerciale
ritornò
al livello che aveva raggiunto nel 1914. Oggi l’intensificarsi dei
controlli
sugli spostamenti d’uomini e cose è dovuto alla necessità di prevenire
nuovi attentati, i nuovi controlli statali (destinati presumibilmente a
diventare sempre più pervasivi) sugli spostamenti bancari al fine di
colpire
la “finanza terroristica”, le più che probabili contrazioni di certe
libertà personali a fronte delle esigenze della lotta contro le reti
terroristiche
dislocate nei paesi occidentali...». Quando abbiamo sostenuto, senza
deflettere
di una virgola, che liberismo e protezionismo sono due facce della
stessa
medaglia, siamo stati scambiati per incalliti “statalisti”, fautori
della centralizzazione in un’epoca in cui tutti si sono convertiti alle
trappole federalistiche o modelli similari. Ci si dovrebbe spiegare ora
quale sarà il nesso tra le prospettive federalistiche e le necessità
militari che riesumano ed esaltano la funzione dello Stato centrale,
anzi,
dei programmi intestatali di tipo militare, logistico e strategico.
La spiegazione è questa: «Se la globalizzazione
arretra o ristagna, allora lo Stato torna a svolgere un ruolo politico
di primo piano. La causa di ciò “è proprio la guerra”. Cinquanta
e passa anni di pace (?) hanno fatto credere a molti, in Europa, che lo
Stato sia, essenzialmente, un erogatore di servizi, si tratti di
pensioni,
scuole o sicurezza, interna. Non è così. Lo Stato, nella sua
vera
essenza, è una macchina da guerra. Lo Stato nasce, sulle ceneri
dell’anarchia feudale, dalla guerra. Ed è la guerra che lo fa
diventare,
nei secoli, una grande organizzazione burocratica. In Europa, terra che
gli dà i natali, lo Stato sbaraglia, in una lunga competizione, armata,
di tipo darwiniano, ogni altro genere di organizzazione politica,
proprio perché si rivela la “macchina da guerra più efficiente”».
D’un tratto, dunque, si riscopre la natura,
l’essenza dello Stato. Anzi, con l’immagine della “macchina da guerra”,
che non ci è estranea, si finisce con esagerare; ma neanche un
riferimento,
per ora, alle classi. Un po’ alla Dühring, ad un tratto tutto
viene messo in atto dalla violenza. È la guerra che dà
origine allo Stato, è la violenza che lo alleva e lo fa
crescere.
Ciò è in parte vero: ma noi non siamo tanto drastici ed unilaterali.
Il “comitato d’affari della borghesia” non svolge, alla nostra scuola,
un’esclusiva funzione militare, anche se questa è centrale ed
ineliminabile.
Lo Stato cura tutti gli affari del Capitale, che una ragione
che
l’ha: quella di massimizzare il profitto. Se per ottenere
questo
scopo, in determinate condizioni, il protezionismo è più efficace e
funzionale
del “liberismo”, non avrà problemi a determinare le condizioni che
lo favoriscono. Il “comitato d’affari” ha questo fine da perseguire,
per cui, che oggi, dopo l’attacco alle torri, si venga a scoprire che
lo Stato è innanzi tutto “macchina da guerra” poco significa; ma se
questa già nota “macchina da guerra”, in clima di “recessione
economica”
(iniziata prima dell’attacco alle torri), richiede la sospensione delle
libertà personali o la loro limitazione, e la fine dello sbracato
“liberismo”, allora niente può ostacolarla.
Ciò spiega perché il principiante Bush ha
subito imparato la lezione: la guerra dovrà essere lunga... di anni!
Per
sconfiggere il nemico invisibile? Purché frutti profitto al Capitale di
cui è commissario d’affari principe! E lo sanno bene gli industriali
americani (e del mondo intero, che subito hanno promesso la loro totale
collaborazione!). Il fatto è che costituzionalmente le emozioni, anche
forti e sincere durano poco, secondo la loro natura; mentre le “ragioni
del Capitale” come forza storica, durano e travalicano non solo i
momenti, ma gli anni, i decenni, i secoli!
La strategia militare, allora, non è da confondere
con la “logistica”, perché la sua “logica” complessiva è qualcosa
di più complesso e serio. Per questo motivo – e lo diciamo da sempre
– la guerra non è questione “militare” o da affidare ai militari,
ma è questione politica che rispecchia le determinazioni
economiche,
e non può essere affidata che alla logica di classe, lo
sappiano o no gli attori in scena in un determinato svolto storico.
Dopo l’emozione del momento, infatti, si
riconosce senza mezzi termini che lo scenario attuale della “guerra
terroristica”
è stato da tempo preparato dalle mene del Capitale legato alle scorte
di petrolio, alla politica ambigua dell’Arabia Saudita, alle riserve
degli Usa che devono decidere se mettere mano ai giacimenti
dell’Alaska,
del Messico, o continuare a far conto sul grande produttore, ai prezzi
più favorevoli del mercato mediorientale in generale.
Inevitabilmente quando la guerra “scoppia”
tutta l’attenzione tende ad essere catturata dalle “operazioni
militari”,
e non c’è chi non si atteggi in qualche modo a “stratega”: è quello
che sta avvenendo ancora una volta sotto i nostri occhi.
Il solito tiro alla fune tra i “militari”
d’accademia, che premono per avere mano libera, e impostare la loro
guerra
tecnologica, possibilmente sempre in nome del taglio chirurgico, o del
blitz krieg risolutore, e gli altri apparati dello Stato, secondo il
gioco delle parti tra diplomazia e economia.
Nel caso della guerra “terroristica” c’è
chi ha fatto notare come l’insidioso e invisibile nemico non possa
essere
sconfitto che tramite una campagna di “intelligence” mirata e segreta.
Ma siamo sicuri che la cosa stia veramente e completamente in questi
termini?
Se i nemici, tra quelli diretti e potenziali, raggiungono il
bel
numero di 60 Stati, ci si domanda come possa finire in breve termine e
secondo piani improntati alla razionalità.
La nostra tesi è molto diversa: è da tempo
che il Capitale nella sua fase imperialistica, con tassi di profitto in
inevitabile tendenza alla contrazione, non può contentarsi più di
guerricciole
regionali, sia pure strategicamente importanti: ha bisogno di ripulire
l’ambiente per creare condizioni di distruzione in grado di
ripristinare
tassi di profitto elevati, che solo una guerra molto dura e lunga può
garantire. In secondo luogo, poiché il casus belli questa
volta
è eclatante, si tratta di non farsi sfuggire l’occasione per mettere
alla frusta amici e nemici, tiepidi e incerti. Lo schieramento che si
va
profilando è quanto mai variegato. L’ex URSS, dopo un decennio di
anarchia
interna, ha bisogno di riorganizzarsi; se gli Usa saranno pronti a
cavargli
qualche castagna dal fuoco, sarà ben appoggiata. La Cina, definita col
suo “comunismo capitalistico!” grande potenza che dovrebbe occupare
la scena in modo sempre più evidente (si dice con conseguenze
preoccupanti,
ma solo dal 2015!) ha tutto l’interesse di dare l’impressione della
moderazione e dell’equilibrio.
Dunque, certi “giganti” in campo, non
vanno presi alla lettera, attenendosi alle dichiarazioni ufficiali. Ciò
che interessa e che va sottolineato è comunque che la funzione dello
Stato,
ancora una volta è insostituibile, anche se la guerra viene definita
anomala,
antiterroristica. «L’intervento armato contro l’Afghanistan dei
talebani, dimostra che anche il “nemico” viene costretto a
“ri-territorializzarsi”, a farsi, suo malgrado, Stato».
Dunque anche l’utopia, oppure l’accusa
che viene rivolta al movimento fondamentalista islamico di Bin Laden,
di
essere una forza senza base territoriale, estremista e nichilista, è
senza
un fondamento valido. In realtà, come già il terrorismo alla scala
nazionale
tendeva a farsi “Stato”, così il terrorismo alla scala internazionale
tende a far leva su determinati complessi statali. Come noi sosteniamo
la tesi secondo la quale è utopistica e fuorviante l’Idea borghese
d’una
comunità mondiale superstatale, che amministri equamente il capitale,
si chiami “nuovo ordine mondiale” o con qualsiasi altra sigla, così
rimaniamo della convinzione che la presa del potere del comunismo non
sarà
genericamente “internazionale”, perché la conquista dello Stato si
dovrà realizzare in determinati ambiti geo-politici, che non
escludono
gli attuali Stati “nazionali”. Tutto il chiasso insomma che si è fatto
sull’epoca “post-statale”, “transnazionale”, è destinato a fare
i conti con la realtà degli Stati, che sono vivi e vegeti e la cui
funzione
è duplice: quella classica di repressione interna e di aggressione -
difesa
in rapporto agli Stati stranieri. Lo stesso autore infatti riconosce
che
«la teoria della sovranità statale distingue tra sovranità esterna e
interna (...) Ma sovranità esterna ed interna sono connesse. A un
recupero
di sovranità esterna per effetto della guerra fa riscontro una ripresa
del ruolo della sovranità interna, nel senso di maggior peso dello
Stato».
È facile capire in che senso: la guerra portata all’esterno comporta
la pressione sulle classi subalterne all’interno, nel timore di
disfattismo
e di attacco allo Stato stesso impegnato contro il “nemico”.
Ciò che preme rilevare è che le fughe in
avanti non sono consentite: ecco perché non abbiamo mai rinunciato ad
una nostra specifica “teoria dello stato”. Non siamo certo sul terreno
di Panebianco, ma la sua ammissione che lo Stato, “per effetto della
guerra”, sta riprendendo la sua funzione evidente, dopo slogans del
tipo
“meno Stato, più mercato”, fa un certo effetto. È solo da immaginare,
nelle circostanze che si stanno profilando, che figura ci faranno
quelli
che, di fronte alle limitazioni della “libertà personale”, al fermo
preventivo a tempo indeterminato, come proposto da ministro della
giustizia
Ashcroft, protesteranno in nome dello Stato di diritto. Noi sappiamo da
sempre in che consiste, per il proletariato lo “Stato di diritto”:
lavorare, stare attenti al regolamento, prendere aria quel tanto che
serve per ricreare la forza lavoro.
E dal punto di vista militare? Per ora, in
nome della guerra contro il nemico invisibile, saranno usati “reparti
ad alta professionalità”... Ma basteranno? Non è un caso che negli
ultimi decenni si sono un po’ tutti, a destra ed a sinistra,
pronunciati
per “l’esercito di nuova concezione”, rinunciando così all’esercito
di leva in senso tradizionale. Ci si obietterà: come potrete ora
gridare
contro la coscrizione obbligatoria che falcidia operai e contadini,
proletari
in generale? La guerra la fanno gli “specialisti”, con rischi
inversamente
proporzionali alla professionalità raggiunta. Ed infatti sono
i
cosiddetti “civili” a pagare... come se la cosa fosse più accattivante
e meno grave. Al punto che di fronte alle esecrazioni levate contro
questi
massacri, certuni si sono indignati nel sostenere che “militari o
civili,
tutti sono sullo stesso piano davanti al dovere della guerra!”. Almeno
Federico II riservava all’esercito la funzione esclusiva della guerra!
Il fatto è, assolutamente non controvertibile, che la guerra si è
evoluta
secondo le esigenze d’un modo di produzione che della mobilitazione
permanente, della competizione more militari
ha fatto il suo segreto preferito per ottenere i risultati voluti.
Ancora una volta, come si vede, l’alternativa
sarà netta: non semplicemente contro la guerra, perché è sempre sporca
e cattiva, ma, come noi abbiamo sempre detto: Guerra alla guerra
per
la guerra rivoluzionaria. In caso diverso proletari e mezze classi
più scoperte pagheranno il solito tributo, che non sappiamo ancora
quanto potrà essere alto.
Ma poiché gli esperti in “polemologia”,
non ultimo “l’emerito” Sartori, stanno disputando se si può
ufficialmente
dire che la III guerra mondiale è scoppiata oppure no, è utile
ricordare
che l’evento “guerra” in senso stretto sta assumendo, nella fase
putrida dello imperialismo, tempi e modi di fatto peculiari. Siamo
certamente
stati gli unici a sostenere che le 160 e passa guerre per procura, nel
bel mezzo della guerra “fredda”, sono stati una vera e propria
carneficina
di “ultimi” del mondo, schiacciati e dimenticati, provocando, specie
nell’ultimo decennio, dei veri e propri genocidi. Per la borghesia e
l’opportunismo ancora in combutta erano episodi spiacevoli che potevano
turbare la “pace”, anche se sull’orlo costante della minaccia atomica.
C’è chi ha anche vantato che mai si erano
verificati oltre 50 anni di sviluppo crescente; da noi contraddetto in
nome della tesi, che continuiamo a sostenere, della miseria
crescente (relativa)
del proletariato come classe alla scala mondiale! Bestemmia,
naturalmente,
per chi ha misurato fetidamente alla scala degli Stati più
industrializzati,
parlando di secondo e terzo mondo, formule vomitevoli che hanno dato
alla
classe operaia metropolitana l’illusione di far parte dei “fortunati”!
Allora, al di là dello “scoppio”, la
terza guerra mondiale è stata combattuta e si sta combattendo da tempo.
Come il pennino del sismografo impazzisce nella misura del tasso di
profitto,
così, sia pure non meccanicamente, il Capitale ha dovuto dosare
“guerra”
e pace, illusioni di pace perpetua con crisi a ripetizioni, capaci di
mandare
tutto a gambe all’aria, dal lontano, ormai, 1962 (Crisi di Cuba), alle
invasioni di Ungheria, Cecoslovacchia e per poco Polonia, fino al
Vietnam,
all’Afghanistan, che ha segnato l’implosione della Russia, all’Iraq.
Ma poiché tutti i nodi vengono prima o poi al pettine, sarebbe stato
troppo
che il Capitale potesse continuare a barare; ora non manda a dire che
“la
guerra sarà lunga, sarà dolorosa”, ed i corifei dell’imperialismo
non fanno altro che sostenere che l’11 settembre ha cambiato la vita
a tutti.
La vita della classe operaia deve invece
veramente cambiare.
Rapporto esposto alla riunione di Genova, maggio 2003.
– I giovani Marx ed Engels, gli operai, gli scioperi, i sindacati (I)
1. Un “giovane hegeliano” - 2. La Rheinische Zeitung - 3. Proletariato scoperta
classe rivoluzionaria
- 4. I Manoscritti parigini - 5. Il lavoro in una società post-capitalista - 6. Prime
conclusioni
– I giovani Marx ed Engels, gli operai, gli scioperi, i sindacati ( II )
7. Origini borghesi - 8. Sbarco in Inghilterra - 9. «La condizione della classe operaia» -
10. L’esercito industriale - 11. I sindacati - 12. Sindacati e Partito di classe - 13. Fermandoci qui.
Il movimento sindacale si presenta come una
complessa rete di organizzazioni che nascono, si sovrappongono, si
associano,
talvolta si fondano, si estinguono o riappaiono con altre
caratteristiche,
con corrispondenti apparati di iscritti, militanti, funzionari e
strutture
burocratiche, dalla minima scala locale e della singola fabbrica e
reparto,
alla massima delle grandi confederazioni nazionali e internazionali. I
sindacati di questa molteplicità si ispirano a più tradizioni del
movimento
operaio, o i minori a nessuna, e si strutturano secondo moduli
organizzativi
diversi.
Benché molti sindacati di oggi vantino caratteri
che gli provengono dal corso della loro anche lungo storia, è ormai
tratto
dominante il crescente legame degli apparati dirigenti con le
istituzioni
ufficiali degli Stati, alle quali diventano sempre più sottomessi, sia
accettando la carota del riconoscimento ufficiale, di vantaggi
finanziari
e di accettazione nel mondo borghese, sia subendo il bastone delle
costrizioni
legali sulle loro attività, della minaccia di denunce penali e della
confisca
dei fondi, fino all’incarcerazione e all’assassinio di loro dirigenti
ed
attivisti da parte dell’apparato repressivo statale o di bande
prezzolate.
In Gran Bretagna i capi delle Trade Unions
hanno opposto un sonoro silenzio alla crescente stretta borghese, che
sicuramente
andrà chiudendosi sempre più intorno alla classe operaia, aggiungendosi
alla camicia di forza degli stessi statuti delle Unions che a tutto
sono
dedicati tranne che alla lotta di classe. Nelle sempre più rare
occasioni
nelle quali i sindacati indicono uno sciopero, il confronto tende oggi
a mantenersi per lo più isolato all’interno di una particolare
categoria
o mestiere, e questo sia per il loro atteggiamento angustamente
corporativo,
sia per la recente legislazione che proibisce le azioni operaie di
solidarietà.
Per contro diventa sempre più difficile per i lavoratori strappare
qualche
concessione al capitale, o difendere quel che hanno, senza rompere con
la legge. I sindacati di regime, di fronte alla difficoltà di lanciare
una vigorosa battaglia che esca dalla legalità per difendere gli
interessi
operai, ripongono le loro speranze nelle vaghe promesse dei “partiti
operai borghesi” di ammorbidire le norme di legge una volta arrivati
al governo, promesse immancabilmente poi non mantenute. Così la classe
dei lavoratori è abbandonata alla “sovranità parlamentare”, cioè
borghese, mentre i capi sindacali si riducono sempre più ad attività
di consulenza per le tasse o le pensioni, o a farsi mediatori per la
misera
corruzione assistenziale e, infine, a trasformarsi in società per il
piccolo
prestito ipotecario!
Fatto è che gli attuali sindacali di regime,
mentre escludono per principio di opporsi al capitalismo in
quanto
tale, convincono i lavoratori che oggi, all’interno del capitalismo,
è pretesa assurda un’esistenza sicura e decentemente pagata. È un sogno
però, che nello stesso tempo i dirigenti si danno ad alimentare poiché
la loro funzione di inganno si basa solo su quella disonesta utopia di
“benessere” e di “progresso”. È un Paradiso terreno, paragonabile,
anche se peggiore, a quello che i preti e santoni che si accalcano
intorno
agli oppressi almeno fanno apparire “in Cielo”.
Ovunque, reagendo alla cinica accondiscendenza
dei dirigenti sindacali alle direttive borghesi, il movimento sindacale
si divide. Alcuni lavoratori talvolta abbandonano le vecchie
organizzazioni
per aderire a comitati o ad altre organizzazioni economiche difensive
che
sorgono come effetto dello svuotamento dei vecchi sindacati. In queste
organizzazioni è talvolta possibile di nuovo per i comunisti formare
frazioni
e far sentire la loro voce. Nell’attuale crisi economica che peggiora
la condizione operaia e nella crescente illegalità imposta a ogni
lotta,
queste nuove organizzazioni saranno del massimo interesse per i
lavoratori,
anche per coloro che sono ancora imprigionati nelle vecchie sclerotiche
confederazioni: sempre più sono costretti a chiedersi se non sia giunto
il momento di dedicarsi alla riorganizzazione della propria classe.
Quando avverrà? perché non adesso? Per rispondere
a una simile domanda dovremmo tracciare un confronto sulla storia dei
movimenti
sindacali dei principali paesi, lavoro nel quale il partito si è sempre
impegnato, nel quadro della storia generale del capitalismo.
Intanto, nella situazione di oggi, val la
pena di rinfrescarci la memoria sui fondamenti della nostra dottrina
circa
la
questione sindacale, rintracciando qui l’approccio alle lotte
operaie dei nostri grandi maestri, Carlo Marx e Federico Engels. La
loro
storia “biografica”, così intrecciata e spesso coincidente con la
storia del nostro partito, comprova come essi, personalmente
intellettuali
e di estrazione borghese, abbiano sempre considerato essenziale e
motore
della storia la lotta delle classi, fatto da scientificamente
studiare
come
un
fenomeno naturale con la sua oggettività, forza, regolarità e
necessità, e come subito abbiano ben impostato le basi della
strategia
comunista nei sindacati, ribadita poi in testi e tesi di congressi, che
disegnano il dialettico rapportarsi del moto spontaneo difensivo della
classe con la coscienza completa ed offensiva del programma comunista.
Marx affrontò la questione del conflitto sociale
in generale quando era ancora studente all’Università di Berlino.
Immatricolato
nella facoltà di Legge nell’ottobre 1836, avrebbe presto abbandonato
il suo infantile romanticismo e, nel tentativo di risolvere un problema
che aveva incontrato nei suoi studi di legge, dello iato fra “ciò che
è e ciò che dovrebbe essere”, si sarebbe convertito alla scuola di
Hegel in modo improvviso quanto intenso. Non passò molto prima che Marx
entrasse nel fuoco delle controversie che dividevano i “vecchi
hegeliani”,
che rimanevano fedeli al sistema e ne conservavano gli ideali, e i
“giovani”,
che intendevano dar forza agli elementi rivoluzionari di quel metodo,
il
significato del quale risiede in che «per la prima volta la totalità
della natura, gli aspetti storici e spirituali del mondo erano
concepiti
e rappresentati come un processo di costante trasformazione e sviluppo
e fu fatto uno sforzo per mostrare il carattere organico del processo»
(Engels, Il Socialismo dell’Utopia alla scienza).
Marx sarebbe presto stato riconosciuto come
uno dei maggiori collaboratori al Doktorklub, punto di
riferimento
del movimento dei giovani hegeliani, e vi avrebbe assunto una posizione
di estrema sinistra. Le discussioni iniziarono intorno alla questione
della
religione, ma presto, in un’atmosfera nella quale la nascente borghesia
iniziava ad avere occasionali scaramucce con lo Stato assolutista
prussiano,
il Doktorklub si sarebbe sempre più compromesso in questioni
politiche
schierandosi con i sostenitori di una monarchia costituzionale. Questi,
quando Federico Guglielmo IV salì al trono nel luglio 1840, erano
impazienti
di sapere se avrebbe mandato in essere le molte riforme che aveva
promesso
da principe incoronato, compresa la libertà di parola. Furono presto
bruscamente
disillusi: su di loro si abbatterà la prima repressione insieme a un
attacco
bruscamente concertato per allontanare gli hegeliani dagli incarichi
governativi
ed accademici. Nell’inverno 1840-41 il circolo si rinominò Gli
Amici
del popolo con posizioni teoriche che si collocavano all’estrema
ala sinistra del repubblicanesimo rivoluzionario.
Il risultato sulla persona di Marx fu che
dovette abbandonare le speranze di diventare lettore universitario e si
orientasse al giornalismo.
Nel corso del 1841 un gruppo variamente assortito
di industriali (fra cui Camphausen, il re delle ferrovie e futuro primo
ministro prussiano), commercianti, scrittori e filosofi si trovava a
Colonia,
epicentro della regione più industrializzata del paese, la Renania.
Verso
la metà dell’anno il gruppo progettò di darsi un proprio giornale
quotidiano,
il che fu attuato rilevando un foglio esistente, benché in difficoltà,
il Giornale di Colonia, con denaro fornito per lo più dagli
industriali
della città. L’1 gennaio 1842 uscì il primo numero.
Marx era associato al gruppo fin dal suo sorgere,
e dopo il successo della sua prima collaborazione, un articolo sulla
libertà
di stampa (il suo primo articolo pubblicato) fu invitato a redigere
quanti
più articoli potesse. Nell’ottobre Marx ne assunse la direzione
editoriale.
Commentando questo periodo Marx avrebbe più
tardi scritto: «Negli anni 1842-43, come direttore della Rheinische
Zeitung, feci per la prima volta l’imbarazzante esperienza di
prender
parte a discussioni sui cosiddetti interessi materiali. Gli atti del
Parlamento
renano sui furti forestali e simili mi dettero la prima occasione di
occuparmi
di questioni economiche» (da Una Prefazione alla Critica
dell’Economia
Politica). Engels lo avrebbe confermato scrivendo a R. Fischer che
«aveva sempre sentito dire da Marx che era proprio concentrandosi sulle
leggi circa i furti di legname e sulla situazione dei viticoltori della
Mosella che fu portato a spostarsi dalla politica pura alle relazioni
economiche
e così al socialismo».
Il crescente interesse per il socialismo era
stato alimentato dai movimenti comunisti di Francia e dal Cartismo
inglese,
le attività dei quali erano regolarmente riferite dalla Gazzetta
Renana
e
dalla stampa tedesca in generale. Contagiato da questi slanci fu Moses
Hess, che nell’agosto del 1842 fondò un circolo di studio per la
discussione
dei problemi sociali, che di fatto diventò il comitato editoriale del
giornale. Hess fu il primo dei giovani hegeliani a volgere l’attenzione
al comunismo ed Engels riferisce che fu il primo dei tre ad farlo suo.
Per dialettica, anche nella “biografia”,
il primo articolo di Marx scritto da direttore fu per respingere le
accuse
di comunismo mosse alla Gazzetta Renana da un altro giornale (Il
Comunismo e la Augsburger Allgemeine Zeitung), ma l’articolo
consisteva
più in una critica di come il giornale rivale si rifiutava di
considerare
il comunismo con serietà e Marx ebbe cura di aggiungere che «La
Gazzetta
Renana non riconosce validità teorica alla idee comuniste», ma «la loro
forza attuale».
Durante questo periodo, però, Marx si collocava
ancora essenzialmente all’estrema sinistra della borghesia democratica.
La mancata verifica dell’ipotesi che potesse esser possibile convincere
il potere della necessità di cambiamenti lo fece approdare alla
conclusione
che, in assenza di intervento divino, la storia dell’Inghilterra
indicava
un diverso percorso: «Carlo I salì sul patibolo per una ispirazione
divina
proveniente dal basso».
Il crescente coinvolgimento di Marx nella
questione sociale, unito alle continue persecuzioni dei censori
prussiani,
lo spinse ad una sempre maggiore convinzione che la semplice “critica”
dello status quo non era sufficiente. Questo avrebbe portato
ad
una scissione del movimento dei giovani hegeliani fra i “critici
critici”,
capeggiati da Bruno Bauer, e il gruppo dei “pratici” intorno a Marx.
Nicolaievsky e Maenchen-Helfen scrivono nel loro Karl Marx, Man and
Fighter: «Quanto più Marx si immergeva nella realtà tanto più i
suoi amici di Berlino si perdevano nelle astrattezze. Il loro
criticismo
diventava sempre più “assoluto”, ed era destinato a finire in una
vuota negazione. Divenne “nichilista”. La parola “nichilismo”,
che data da quei tempi, fu coniata da loro e non dallo scrittore russo
Turgheniev, che si ritiene dalla generalità esserne l’inventore: lo
aveva appreso in quel periodo a Berlino, incontrando i membri del
circolo
Bauer, e lo consegnerà ai rivoluzionari russi venti anni dopo (...)
Trassero
una nuova teoria dalla loro propria impotenza, fecero un feticcio della
coscienza individuale, che consideravano l’unico campo di battaglia sul
quale si poteva combattere e vincere, finendo in un anarchismo
individuale
che raggiunse il suo zenit nell’ultra-radicale e ultra-inoffensivo Einzigen,
l’Unicità, di Max Stirner».
Il crescente disinganno di Marx nei confronti
del gruppo Freien, ciò che restava del vecchio Doktorklub,
con la sua indulgenza verso vuoti filosofemi, rifletteva i dubbi dello
stesso Marx che i potenti potessero essere indotti alla necessità di
cambiamenti
con i metodi della filosofia. Alla fine la questione si sarebbe
risolta,
allora e per sempre, con la risposta assai poco filosofica delle
istituzioni
alle critiche ad esse indirizzate. Il giornale fu chiuso d’autorità,
insieme a tutta la stampa liberale di Prussia. L’ultimo numero uscì
il 31 marzo 1843 con i seguenti versi a mo’ di epigrafe: «Osiamo alzare
la libera bandiera. Ciascuno della ciurma ha fatto il suo dovere. Pur
non
raggiunto lo scopo, giusto era il cammino e non lo rinneghiamo. Dagli
dèi
adirati, benché fallito il fine, mai fummo intimiditi. Anche Colombo,
disprezzato pria, scorse infine il Mondo Nuovo. Con gli amici che ci
hanno
applaudito e con gli avversari che ci hanno combattuto ci ritroveremo
sulla
nuova sponda. Se tutto rovina, il coraggio resta intatto». La “nuova
sponda” sarà Parigi.
3. Proletariato scoperta classe rivoluzionaria
Prima di partire per Parigi Marx poté per
un breve periodo «ritirarsi dalle attività pubbliche e dedicarsi alla
studio per risolvere i dubbi che stava maturando (...) Nel marzo 1843
si
trasferì nella casa della suocera a Kreuznach dove risiedette per sei
mesi, sposando Jenny in giugno. Fu durante questo soggiorno che decise
di farsi padrone della filosofia politica di Hegel, un progetto che
aveva
in animo da più di un anno (...) Una critica della Filosofia del
Diritto
di Hegel fu scritto mentre le idee di Marx erano in una fase di
definizione:
ha adottato l’umanesimo fondamentale di Feuerbach e, con esso, il suo
capovolgimento fra il soggetto e il predicato della dialettica
hegeliana.
Gli apparve evidente che l’obbiettivo successivo dell’uomo sarebbe
stato il recupero della dimensione sociale della sua natura, andata
perduta
anche se la Rivoluzione francese aveva livellato tutti i cittadini
nello
Stato politico e così accentuato l’individualismo della società
borghese»
(Karl Marx, Selected Writings, D. McLellan, OUP). È qui che Marx
anche individua esplicitamente la «classe del lavoro immediato, del
lavoro
concreto», che non costituisce «una classe della società civile in
quanto
provvede al fondamento sul quale muovono i cerchi della società civile
e traggono la loro essenza».
Marx avrebbe successivamente scritto nella
prefazione alla Critica dell’Economia Politica: «La mia ricerca
arrivò alla conclusione che, primo, i rapporti giuridici quanto le
forme
dello Stato non possono spiegarsi né da se stessi né con il cosiddetto
sviluppo dello spirito umano, ma hanno le loro radici, invece, nelle
condizioni
materiali di vita (...) Secondo, che l’anatomia della società civile
deve essere cercata nell’economia politica».
Nell’ottobre 1843 Marx si trasferì a Parigi
per assumere la codirezione di un nuovo giornale, il Deutsche-Franzosische
Jahrbucher, Annali Franco-Tedeschi, che si ponevano l’intento di
portare ad una “alleanza intellettuale” fra i tedeschi, che erano più
progrediti nella teoria, e i francesi, più ferrati nella pratica.
A Parigi Marx avrebbe scoperto e descritto
come il compito della “classe del lavoro immediato” fosse di attuare
nella pratica quella rivoluzione che già egli aveva compiuto nella
filosofia.
In Per una Critica della Filosofia di Diritto di Hegel, con
introduzione
scritta all’inizio del 1844, Marx, ponendosi la domanda: «Dunque dov’è
la reale possibilità della emancipazione tedesca?» rispondeva: «Nella
formazione di una classe con catene radicali, una classe nella società
civile che non è una classe della società civile, un gruppo sociale che
è la dissoluzione di tutti i gruppi sociali, una sfera che ha un
carattere
universale per le sue sofferenze universali e non avanza rivendicazioni
di diritti particolari perché non è oggetto di nessuna ingiustizia
particolare
ma della ingiustizia in generale. Questa classe non può più pretendere
uno status storico ma solo direttamente umano. Non è in una
particolare
opposizione agli effetti del regime politico tedesco, ma in totale
opposizione
ai suoi presupposti. È, infine, una sfera che non può emancipare se
stessa
senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società e quindi
emancipare
queste stesse altre sfere. In una parola, è la perdizione totale
dell’umanità
e quindi può solo recuperare se stessa con una redenzione completa
dell’umanità.
Questa dissoluzione della società, intesa come una classe particolare,
è il proletariato».
Più avanti Marx abbatte gli argomenti sulla
presunta natura utopistica della società comunista in quanto senza
proprietà
privata, rilevando il fatto che ciò è già il caso per il proletariato:
«Quando il proletariato annunzia
la dissoluzione dell’ordine mondiale
finora esistente, non fa che esprimere
il segreto della sua stessa
esistenza, giacché esso è
di fatto la dissoluzione di quest’ordinamento
del mondo. Quando il proletariato chiede la negazione della
proprietà
privata, solo stabilisce
un principio per la società che la
società ha già stabilito come principio per esso, che è già
stato assimilato a sé stesso senza il suo consenso come riflesso in
negativo
della società». Il rapporto fra la filosofia tedesca e il socialismo
francese corrisponde a quello fra le idee comuniste e il vivente
proletariato:
«Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi
materiali,
così il proletariato trova nella filosofia le sue armi intellettuali,
e appena il lampo del pensiero sarà penetrato a fondo nel suolo ingenuo
del popolo, la emancipazione dei tedeschi
in uomini sarà
completata».
Nel 1844 Marx era stabilmente insediato a Parigi,
dove fu subito impressionato e stimolato dalle numerose associazioni di
operai, alle riunioni dei quali cercava di partecipare il più
possibile:
«Agli incontri degli operai comunisti la fratellanza non è una frase
ma una realtà, ed un vero spirito nobile si riflette in quei visi di
uomini
induriti dal lavoro».
Parigi ospitava allora circa centomila immigrati
tedeschi, il che contribuiva a deprimere le paghe degli artigiani
francesi,
con i quali si erano anche avuti alcuni scontri di strada. La tensione
non diminuì finché diversi gruppi rivoluzionari non iniziarono ad
intervenire
fra gli operai: presto nessuna società segreta francese mancava di
membri
tedeschi mentre i blanquisti avevano addirittura speciali sezioni
tedesche.
Contatti fra Marx e la Lega dei Giusti – composta quasi totalmente di
artigiani e che si proponeva di attuare una “repubblica sociale” in
Germania – furono così stretti che Karl e Jenny provarono perfino un
effimero tentativo di coabitazione in un “falansterio”, del quale
faceva
parte anche Maurer, uno di capi della Lega.
In questa sovraccarica atmosfera parigina
Marx avrebbe scritto i suoi famosi Manoscritti. Il linguaggio è
qui già più semplice e concreto, meno avvolto nelle astrattezze della
terminologia hegeliana. Marx è ora meno occupato con le contraddizioni
filosofiche e più con quelle materiali della società moderna,
ovviamente
sotto la grande influenza degli scritti di Feuerbach ai quali nella
prefazione
si riferisce come agli unici che «contengono una vera rivoluzione
teorica
da Hegel in poi». Benché il piglio radicale del materialismo di
Feuerbach
avesse già con successo “capovolto” la filosofia di Hegel, col derivare
lo Spirito dalla Materia piuttosto che la Materia dalla “Idea
Assoluta”,
Marx avrebbe progredito oltre le astrattezza del concetto di Natura e
di
Specie Vivente di Feuerbach per precisarli in Società Capitalista e
Società
Vivente, rispettivamente. Per scoprire le contraddizioni materiali
della
società occorreva uno studio della società di fatto, piuttosto che del
riflesso di queste contraddizioni nella mente dei filosofi.
I Manoscritti parigini sono divenuti oggetto
di molti dibattiti accademici, nei quali si pretende si aver scoperto
un
Marx “umanista”, che deporrebbe contro il Marx “rivoluzionario”.
Questo è possibile impostarlo sul piano, appunto, accademico, cioè
ignorando
le implicazioni rivoluzionarie della prime profonde analisi di Marx sul
salario e sulla classe lavoratrice dei senza riserve.
Nelle primissime righe del manoscritto, nel
capitolo intitolato “Il Compenso del Lavoro”, leggiamo: «I salari
sono determinati attraverso la lotta fra gli opposti capitalista e
operai.
La vittoria va necessariamente al capitalista. Il capitalista può
vivere
più a lungo senza l’operaio piuttosto che l’operaio senza il
capitalista.
Associazioni fra capitalisti sono frequenti ed efficaci: la
associazione
di operai è proibita e di gravose conseguenze per essi (...) L’operaio
non può aggiungere alle sue entrate alcun reddito né di industria né
terriero né di interesse da capitale. È questa la ragione della
concorrenza
fra gli operai». Qui troviamo il primissimo Marx che esclude la
possibilità
di un esito stabilmente favorevole delle lotte immediate, e, di
conseguenza,
di tutti i tentativi riformisti di modificare contrattualmente il
sistema
salariale piuttosto che rovesciarlo. Oggi, 150 anni dopo, possiamo dire
che queste parole sono state confermate: nonostante le associazioni di
operai siano oggi legali, il capitalista può ancora resistere più a
lungo,
e anche quando costretto ad arrivare ad un compromesso con le richieste
dei lavoratori, le vittorie operaie che ne derivano sono di ben breve
durata.
Il lavoro non entra nei calcoli del capitalista
che come un costo di produzione fra gli altri. Ma il salario non è
determinato
solo dal rapporto di forza delle classi: la media intorno alla quale
oscilla
il livello delle paghe è il costo necessario alla produzione
dell’operaio
stesso, cioè la somma del valore dei mezzi per la sua sussistenza. «Per
i salari il grado minimo e necessario è quello richiesto dalla
sopravvivenza
dell’operaio durante il lavoro, oltre ad un di più per sostenerne la
famiglia ed impedire che la razza dei lavoratori si estingua. Secondo
Smith
il salario normale è il minimo che è compatibile per la comune umanità,
cioè con la esistenza animale. La domanda di uomini necessariamente
regola
la produzione di uomini come quella di ogni altra merce. Se l’offerta
eccede di troppo la domanda una parte dei lavoratori precipita nella
mendicità
e nella fame. L’esistenza dell’operaio è quindi ridotta alla stessa
condizione di esistenza di ogni altra merce. L’operaio è diventato una
merce, e deve esser felice se riesce a trovare un compratore».
Così è utopica la rivendicazione degli operai
di un sostanziale e stabile miglioramento delle loro condizioni, specie
quando il capitalismo si trova nel ciclo depresso, in quanto verrebbe a
collidere con in fondamenti stessi del sistema capitalistico. Questa
verità
di antagonismo storico di classe viene negata e tenuta nascosta dai
dirigenti
riformisti dei sindacati, con lo sbandierare costantemente davanti agli
operai la seducente prospettiva di un cambiamento della loro sorte
sotto
il capitalismo.
Come anticipata risposta a questa illusione
Marx afferma: «Prendiamo le tre principali condizioni in cui la società
si può trovare e consideriamo la corrispondente situazione degli
operai:
1) Se la ricchezza della società sta decrescendo sono gli operai a
soffrirne
di più, perché, sebbene la classe operaia non possa guadagnare tanto
quanto i proprietari quando la classe è prospera, nessuno soffre più
crudelmente per il suo declinare quanto la classe operaia. 2)
Consideriamo
una società di crescente benessere. Questa è la sola favorevole al
lavoratore.
Qui interviene la concorrenza fra capitalisti: la domanda di operai
eccede
la loro offerta. Ma: in primo luogo l’aumento dei salari porta con sé
il sopralavoro fra gli operai. Più che guadagnano più devono
sacrificare
il loro tempo e libertà e lavorare come schiavi al servizio
dell’avarizia.
Nel far questo abbreviano le loro vite (...) Questa classe deve sempre
sacrificare una parte di se stessa se vuole evitare la totale
distruzione».
Ma anche questa più favorevole condizione
per i lavoratori implica la propria negazione. Marx puntualizza che «la
società si trova in progressivo arricchimento come risultato della
accumulazione
di una grande quantità di lavoro, il capitale essendo lavoro accumulato
e la maggior parte del prodotto degli operai essendo loro portato via».
Questa crescente accumulazione di capitale
risulta in una crescente divisione del lavoro che produce «un tipo di
lavoratore molto unilaterale, mentalmente e fisicamente abbassato a
macchina»,
che lo fa «sempre più dipendente da ogni fluttuazione dei prezzi di
mercato,
dell’investimento di capitale e dei capricci dei benestanti».
Altro fattore che minaccia i supposti vantaggi
per gli operai nel “boom” capitalistico è la concorrenza che cresce
fra i capitalisti, e quindi la crescente concentrazione dei capitali,
che
getta una moltitudine di piccoli affaristi nella classe operaia,
accrescendo
così la concorrenza per i posti di lavoro e ancora una volta causando
un abbassamento delle paghe. «Una parte della classe operaia è ridotta
a mendicare o alla fame per lo stesso motivo che ha precipitato gran
parte
dei capitalisti medi nella classe operaia».
I capi riformisti dei sindacati, per i quali
esisteva il “buon capitalismo” fatto di latte e miele, dovrebbero oggi
essere costretti ad ammettere che questa non è proprio la condizione
generale
dei lavoratori. Hanno ammannito filmetti sulla virtuosità del duro
lavoro
e degli eroismi stakanovisti, assicurando che sarebbe stato un
“diritto”
dei lavoratori “sacrificarsi” per “qualificarsi”, sugli altri
lavoratori,
cioè, a sgomitare per farsi posto a spese dei vicini compagni, ovvero
diventare dei capitalisti anch’essi. Marx osserva: «Un aumento delle
paghe fa nascere nel lavoratore lo stesso desiderio di arricchirsi del
capitalista, ma esso può solo soddisfare questo desiderio immolandogli
la mente e il corpo. Un aumento delle paghe presuppone, e determina,
l’accumulazione
del capitale, e così oppone il prodotto del lavoro al lavoratore come
qualcosa che gli diventa sempre più alieno. Ugualmente, la divisione
del
lavoro lo rende sempre più unilaterale e dipendente, introduce la
concorrenza
fra le macchine così come fra gli uomini. Da quando l’uomo è stato
ridotto simile ad una macchina, da allora la macchina gli si può
opporre
come un concorrente». La canzone ha immortalato la leggenda di John
Henry,
gran lavoratore e campione di forza, che muore nel tentativo di
dimostrarsi
superiore sulla macchina. «Infine, appena l’accumulazione del capitale
ha accresciuto la quantità delle fabbriche e quindi il numero degli
operai,
ciò permette alla stessa quantità di fabbriche di produrre una maggiore
quantità di prodotti. Questo porta alla sovrapproduzione e finisce o
per
mettere un gran numero di operai fuori del lavoro o col ridurre i loro
salari ad una miseria».
La terza condizione che si presenta nella
società è quando questo stato di crescita raggiunge il culmine. Detto
crudamente, «la sovrappopolazione deve allora morire».
Riassumendo. «Nella fase del declino della
società abbiamo una miseria crescente dei lavoratori; nella fase del
progresso,
una miseria difforme; nella fase terminale, una miseria costante».
Se esiste un Marx umanista nei Manoscritti
parigini è solo nel senso che riesce a dar voce al vaneggiare
dell’operaio
di fabbrica, legato ad un lavoro penoso e ripetitivo; vaneggiare che
però
esprime la prima evasione, l’iniziale capovolgimento dalla società
capitalistica
nella coscienza rivoluzionaria. Così nel capitolo “Il Lavoro
Estraniato”
si puntualizza che: «un accelerato aumento dei salari (ignorando qui
tutte
le altre difficoltà, compreso il fatto che tale anomale situazione
potrebbe
prolungarsi solo con la forza) non sarebbe niente altro che una
migliore
paga per degli schiavi e non implicherebbe un accrescimento del rilievo
umano né in dignità per entrambi l’operaio e il lavoro».Si noti come
Marx, nonostante consideri un sostanziale aumento dei salari come
anormale,
tuttavia affermi come possa mantenersi con la forza.
A quel vagheggiare operaio, a quel sogno
fantastico non di maggior salario ma di una reale riappropriazione
e piacere dalla attività lavorativa umana, Marx si inspirò, ma spese
il resto della vita a provare che erano le condizioni
effettive
storiche a provocare quel sogno, perché i sogni
sorgono
solo quando esistono le possibilità materiali per realizzarli.
«Anche la eguaglianza dei salari, prefigurata
da Proudhon, significherebbe solo trasformare la relazione fra
l’operaio
di oggi davanti al suo lavoro con la relazione di tutti gli operai
davanti
al lavoro. La società sarebbe concepita come un capitalista in
astratto».
Già nel 1844 Marx aveva quindi previsto questo grave equivoco per il
corso
rivoluzionario, di rivendicare la nazionalizzazione delle industrie e
le
future “economie pianificate”, poi attuate dal cosiddetto “blocco
socialista”; schemi di capitalismo collettivo che avrebbero
mantenuto
tutte le caratteristiche del lavoro estraniato, benché si siano fatte
passare come vantaggiose per i lavoratori già al tempo di Marx e
sconciamente
dopo. Troppo spesso sarebbero caduti i lavoratori nella trappola di
partiti
pseudo operai e di sindacati da essi diretti che vantavano le industrie
nazionalizzate come la soluzione ai mali sociali solo perché non vi
apparirebbe
la figura odiata del padrone individuo.
Questi assunti di base rivelano anche le falle
nel perenne sogno del sindacalismo: “Una giusta giornata di lavoro per
un giusto salario”. Invece di rifarsi a concetti morali astratti di
giustizia,
Marx ha mostrato come la forza lavoro obbedisce alle leggi delle altre
merci; una merce il cui “giusto” prezzo non è nient’altro che il
suo equivalente in massa di beni di consumo richiesti per mantenere
l’operaio
al lavoro e perché possa riprodursi. Forse, anche più notevole, in quei
giorni lontani Marx aveva già anticipato, e condannato, la più
pericolosa
e seducente delle visioni opportuniste: uno Stato comunista dove i
lavoratori
ancora esistono come salariati e vendono il loro lavoro allo Stato.
5. Il lavoro in una società post-capitalista
In Estratti dagli Elementi di Economia Politica
di James Mill, scritto allo stesso tempo dei Manoscritti,
Marx
ci fornisce una esplicita prefigurazione della futura società
comunista,
alla quale non è uso indulgere, un “sogno” che mette a contrasto con
la condizione del lavoro allineato sotto il capitalismo.
Marx, con la sua analisi del lavoro salariato
in organica connessione al capitale, esclude ogni possibilità di
stabile
progresso per i lavoratori sotto il capitalismo, nemmeno durante i suoi
periodi di “benessere”, e gli oppone una futura società nella quale
il lavoro sarà davvero soddisfacente ed umano, perché l’uomo sarà
capace di tornare ad agire come un essere di una comunità sociale.
Non c’è dubbio che le osservazioni di Marx
sono valide oggi come quando furono scritte e in senso generale: benché
le condizioni del proletariato sono apparse migliorare con l’affermarsi
del capitalismo, se misurate come massa di beni consumati,
relativamente
agli accresciuti bisogni che il moderno capitalismo suscita ed impone
il
miglioramento è del tutto insignificante, mentre come condizione di
salute
complessiva e di infelicità sono senz’altro peggiorate. Inoltre, sia
nelle fasi di accumulazione primitiva sia di tardo declino del
capitalismo,
la condizione del proletariato è così orrenda, se non peggiore, di
quella
che dominava nel diciannovesimo secolo in Europa: carestie, aumento
della
mortalità infantile, riduzione della vita media delle classi inferiori,
mentre le guerre devastano le menti e i corpi e del proletariato dei
paesi
“poveri” e di quelli “ricchi”, e sono cessate le avvelenate briciole
del “benessere” sociale che cadevano dalle tavole del banchetto
imperialistico.
Questi i primi decisi e definitivi passi verso
l’impostazione della “questione sindacale”, che vogliamo ripercorrere
ancora una volta con la mano in quella ben ferma e robusta del nostro
grande
Carlo. Intanto abbiamo respinto alcune delle illusioni propagate dai
dirigenti
operai passati al nemico.
Nostro scopo è approfittare dell’esperienza
di lotta dei lavoratori per convincerli della bontà del metodo
comunista per la difesa della loro classe anche nella contingenza, e
della
rovina che li aspetterebbe seguendo i metodi ai nostri opposti.
Non prevediamo che la rivoluzione verrà quando
la maggioranza degli operai sarà comunista: appunto il nocciolo della
questione sindacale risiede nel problema di come riuscire ad
indirizzare
il movimento delle masse di lavoratori non comunisti, esterni
ai
sentimenti, alla organizzazione e alla disciplina del partito.
Inquadrati
in organizzazioni economiche spesso dominate da controrivoluzionari o
senz’altro
da spie della borghesia, cionondimeno sappiamo che, nel momento
cruciale,
il loro muoversi contingente e difensivo li porterà nella direzione che
avrà da sempre indicato loro il partito rivoluzionario, quella dello
scontro
diretto e della guerra civile, e politica, fra le classi.
Marx fin dai suoi primi studi ha identificato
alcuni principi che rimangono pietre miliari per l’atteggiamento del
Partito nell’avvicinarsi alle organizzazioni dei lavoratori. Li
elenchiamo:
1. Il minimo possibile livello dei salari
è quello necessario per la sopravvivenza del lavoratore come tale ed al
più sufficiente per sostenere la sua famiglia ed impedire che la razza
dei lavoratori perisca.
2. Offerta e domanda di lavoro, cioè la concorrenza
fra i capitalisti alla ricerca di operai e fra gli operai alla ricerca
di un capitalista, causano delle fluttuazioni intorno a questo livello
medio.
3. L’illusione sindacalista di un forte
aumento nelle paghe si potrebbe socialmente mantenere solo con
l’esercizio
permanente della forza operaia.
4. L’aumento dei salari si risolverebbe
solo in un compenso migliore per degli schiavi, non significherebbe una
diversa né migliore dipendenza del lavoratore dal capitale.
L’eguaglianza
delle paghe, rivendicata da Proudhon, solo trasformerebbe l’attuale
rapportarsi
dell’operaio con il suo lavoro nel rapporto di tutti gli uomini con il
lavoro. La società sarebbe concepita come un capitalista in astratto.
Questi concetti si sarebbero ulteriormente
affinati ed elaborati nel corso degli anni mentre il marxismo, come scuola
di comunismo, prendeva forma. Alle future indagini di Marx, e alle
circostanze sotto le quali si producevano, si aggiungerà il grande
contributo
di Federico Engels che si dedicherà anch’esso alla formulazione della
materiale dialettica del sindacalismo operaio.
Rapporto espoto alle riunioni di Firenze gennaio 2002, Firenze
gennaio
2003, Genova maggio 2003.
Carlo Liebknecht iniziava la sua opera Militarismo
e Antimilitarismo con queste parole: «Militarismo! Poche parole
nella
nostra epoca vengono adoperate con tanta frequenza e nessun altro
termine
definisce qualcosa di così complesso, multiforme, variegato, un
fenomeno
nella sua origine e nella sua sostanza, nei suoi mezzi e nelle sue
ripercussioni
così interessante, così importante, un fenomeno che affonda le sue
radici
così profondamente nella natura degli ordinamenti della società
classista
e che tuttavia può assumere forme così molteplici anche all’interno
del medesimo ordinamento sociale, a seconda delle particolari
condizioni
naturali, politiche, sociali ed economiche dei singoli Stati e
territori
(...) Una storia del militarismo condotta nel senso più profondo mette
a nudo la natura più intima della storia dell’evoluzione dell’umanità,
le sue molle, e sezionare il militarismo capitalista significa mettere
allo scoperto le radici più nascoste e più sottili del capitalismo. La
storia del militarismo è al tempo stesso la storia delle tensioni
politiche,
sociali, economiche e in linea generale di civiltà tra gli Stati e le
nazioni, nonché la storia delle lotte di classe all’interno delle
singole
unità statali e nazionali. Naturalmente qui non è possibile osare di
compiere anche soltanto il tentativo di una storia del genere».
Noi qui nemmeno ci assumeremo la presunzione
di portare a termine un’opera del genere, ma l’opinione di Liebknecht
ci conforta almeno nel tentativo di abbozzare una traccia di ricerca in
tal senso.
Coscrizione e renitenza nello Stato unitario
Al momento dell’unificazione, in gran parte
delle regioni d’Italia, la coscrizione obbligatoria rappresentò una
novità fino ad allora sconosciuta, ed in particolar modo nelle Romagne,
nelle Marche e nell’Umbria. La Sicilia, per antico privilegio, era
esentata
dal servizio di leva, dal quale affrancava i suoi abitanti con un
tributo
in denaro. Dal servizio militare erano dispensati pure gli abitanti
delle
isole di Capri, Lampedusa, Linosa. Nelle province napoletane la leva
era
regolata da una legge del 1834 per la quale concorrevano sette classi,
dal 19° al 25° di età, ma, salvo esigenze straordinarie, venivano
arruolati
solo i giovani che compivano il 21° nell’anno della chiamata.
Anche se nei tempi moderni forme di coscrizione
obbligatoria erano già state sperimentate, possiamo affermare che il
fenomeno
della leva obbligatoria abbia assunto rilievo europeo solo con la levée
en masse giacobina del 1793 e che venne definitivamente sancita
dalla
legge Jourdan del 1798. Napoleone la impose su tutto il continente e,
nel
corso del XIX secolo, con modalità diverse, venne adottata da tutti i
paesi europei, fatta eccezione dell’Inghilterra.
Nel Regno di Sardegna l’obbligo del servizio
di leva era regolato dalla legge Lamarmora del 1854, che venne via via
estesa a tutti i territori annessi al neonato Regno d’Italia fino a
che,
come ebbe a dichiarare l’allora ministro della guerra Petitti-Baglioni,
nel 1862 era ormai possibile «esigere finalmente il tributo di militare
servizio con le norme di una sola legge e sopra gli individui di una
stessa
età indistintamente dalle Alpi al Lilibeo». Il nuovo Stato aveva
necessità
di rendere omogeneo il reclutamento su tutto il territorio nazionale;
occorreva
poter disporre di un contingente armato di oltre 200 mila giovani tra i
quali reclutare secondo le necessità, garantirsi un sistema di
selezione
uniforme ed efficace, fissare scadenze periodiche, preparare il
personale
necessario alle operazioni: tali erano le condizioni indispensabili per
la costituzione di un esercito robusto ed efficiente. Il 10 luglio
1864,
con 66 voti favorevoli su 68 votanti, il senato approvava l’estensione
a tutto il Regno della legge Lamarmora.
Con la legge sulla leva il Parlamento italiano
vedeva risolto un problema essenzialmente tecnico-politico, reso
urgente
dalla necessità di dotarsi di uno strumento di repressione efficace per
fronteggiare le ribellioni popolari, soprattutto del Mezzogiorno.
Naturalmente
la giustificazione ufficiale puntava sulla necessità della costituzione
di un esercito che garantisse la difesa dei raggiunti confini nazionali
e fosse in grado di completare l’unificazione attraverso la liberazione
delle terre irredente. Era soprattutto la sinistra
liberal-democratica
a fare pressioni per il riarmo. Dai banchi della sinistra parlamentare
si gridava: «Primo di tutti i nostri bisogni è quello di armare, e che
c’importa delle strade ferrate, tanto più che queste strade non si
possono
avere in poco tempo? A che vale cercare la popolarità, mentre prima
condizione
si è di esistere? (...) Armiamo! Armiamo! Se l’Italia si porrà in una
attitudine armata proporzionata ai suoi mezzi e alla sua popolazione,
la
nostra grande questione sarà risolta anche per Roma e Venezia» (On.
Benedetto
Musolino, 25.6.1862).
In Parlamento la volontà di approvare la
legge, abbiamo visto i risultati, era stata generale. Solo il Ricciardi
aveva accennato alle conseguenze sociali che il provvedimento avrebbe
causato
e, chiedendo l’esonero dal servizio militare per i figli unici,
«benignità
che usava anche il gran divoratore di uomini che aveva nome Napoleone
I»,
ricordava come vi fossero «molte famiglie di poveri contadini, le quali
sarebbero ridotte alla fame se voi toglieste loro l’unico sostegno dei
vecchi parenti». A Ricciardi rispondeva Nino Bixio che se modifiche
dovevano
essere apportate alla legge sul reclutamento, queste modifiche andavano
fatte «nel senso che si prenda un numero maggiore di coscritti».
L’obbligo del servizio militare quinquennale
aveva suscitato opposizione già nelle province centrali e la leva sui
nati del 1840 aveva registrato 4.800 renitenti su un contingente di
45.000
unità. Parallelamente si era diffuso il fenomeno della diserzione che
il governo attribuiva «all’opera iniqua di subornatori contro i quali
non è abbastanza armato il rigore della legge» (Petitti-Baglioni,
3.6.1862).
La prima leva nazionale si ebbe nel 1863:
secondo i dati ufficiali i renitenti furono 25.749, ossia l’11,5% con
punte altissime a Napoli (57,2%), Catania (45,6%), Palermo (44,4%),
Trapani
(41,3%), Urbino (40,5%). Nel complesso si ha l’immagine di una nazione
divisa sull’atteggiamento nei confronti dell’obbligo militare, con
un’area di assuefazione localizzata nella pianura padana e parte di
Toscana
e Sardegna ed un’area di rifiuto comprendente gli ex territori
pontifici
e l’ex Regno delle due Sicilie.
I figli dei benestanti «potevano esimersi
dal servizio militare grazie agli istituti previsti dalla normativa (la
liberazione completa, per i più agiati, dietro versamento di L.3.000,
pari allo stipendio medio annuale di un docente universitario; la
surrogazione,
cioè la possibilità di farsi sostituire da qualcuno dietro compenso;
lo scambio dei numeri, tra chi, avendo sorteggiato nelle operazioni di
leva un numero basso, era assegnato alla prima categoria con ferma
quinquennale
e chi, avendo estratto un numero alto, era assegnato alla seconda
categoria
con un periodo di addestramento non superiore ai quaranta giorni)»
(Gianni
Oliva, Esercito, Paese e Movimento Operaio).
La pratica dell’estrazione del numero risaliva
ad una vecchia tradizione francese del ‘600 quando, su iniziativa del
ministro della guerra di Luigi XIV, venne stabilito di integrare i
reparti
mercenari con aliquote di giovani celibi estratti a sorte in ogni
provincia.
Per la verità nel Regno d’Italia la motivazione era opposta: poiché
vi era esuberanza di uomini delle singole classi di leva rispetto alle
esigenze dell’esercito (e alle finanze dello Stato), le autorità
militari
stabilivano di anno in anno la percentuale dei coscritti che avrebbero
dovuto fare il servizio militare per intero (cinque anni), gli altri
avrebbero
ricevuto un addestramento di soli quaranta giorni (questo fino al 1870,
in seguito la ferma sarebbe stata di 3 anni quella intera e di 2 quella
ridotta).
A differenza dei borghesi, i figli del popolo
avevano un solo modo per scansare la leva, quello di rendersi
irreperibili:
cosicché la legge sulla coscrizione obbligatoria nel Sud divenne
concausa
della situazione insurrezionale poiché i renitenti potevano trovare uno
sbocco alla latitanza solo entrando nelle bande dei ribelli.
Nel 1864 il numero dei renitenti venne drasticamente
ridimensionato: 13.476 su 232.154 iscritti, pari al 5,8%; l’anno
successivo
il tasso scendeva ancora: 4,8% (10.708 su 223.548 iscritti)
attestandosi
poi, all’incirca, su questa percentuale.
Chiaramente questi dati ufficiali non sono
veritieri e forse un criterio più valido sarebbe «con tutta probabilità
quello di raddoppiare, perlomeno per il periodo che va dall’Unità ai
primi anni ‘70, gli indici ufficiali offerti dalle statistiche
ministeriali»
(Piero del Negro, La Leva Militare), però è indubbio che vi sia
stata una brusca contrazione del fenomeno e ciò anche grazie agli ampi
poteri discrezionali concessi dalla Legge Pica secondo la quale
potevano
essere arrestati «tutti quanti s’incontrano per la campagna con l’età
apparente del renitente e col viso dell’assassino». Rastrellamenti
militari
su vastissima scala erano sistematici con blocco totale dei paesi, con
il taglio degli acquedotti, il divieto assoluto di entrata o di uscita.
I paesi venivano ridotti alla fame ed alla sete fino a che tutti i
renitenti
non fossero stati consegnati alle autorità. Fu grazie a questi sistemi,
continuati per anni, che il numero dei renitenti alla leva diminuì
drasticamente.
Dopo il 1866 l’andamento degli indici di
renitenza rimase sostanzialmente costante attorno al 4%.
Possiamo quindi concludere che l’imposizione
della leva obbligatoria si scontrò con un forte rifiuto iniziale, ma la
repressione brutale del nuovo Stato unitario, nel giro di pochi anni
riuscì
a circoscrivere il fenomeno all’interno di percentuali accettabili.
La volontà di sfuggire all’arruolamento
forzato è fenomeno antichissimo; la mitologia ci narra come i due
massimi
eroi dell’antichità greca, Achille ed Ulisse, tentassero di sottrarsi
alla guerra di Troia l’uno mascherandosi da donna e l’altro fingendosi
pazzo. Nella lingua latina murcidus era l’appellativo
derisorio
che veniva dato a quanti si procuravano delle infermità per risultare
inabili alle armi. Nella prima metà dell’ 800 il fenomeno aveva vasta
diffusione in tutti gli eserciti europei ed i finti inabili venivano
puniti
con un anno di reclusione in Prussica, con detenzione da sei mesi a due
anni nel Granducato di Toscana, con un’ammenda da 200 a 1.000 franchi
od il carcere fino a due anni in Francia, mentre in Austria una patente
del 1820 stabiliva che dovessero «essere chiamati per primi al servizio
militare quei coscritti i quali dolosamente avessero allegata una
malattia,
un difetto fisico o altra imperfezione da cui non fossero affetti»
(Federico
Cortese, Malattie ed Imperfezioni...). In Italia, secondo la
legge
del 1863 i simulatori erano soggetti a reclusione da sei mesi ad un
anno
se coscritti, da 3 a 5 anni se già arruolati.
La minaccia delle pene non rappresentava però
un deterrente capace di eliminare il fenomeno tant’è vero che il
tenente
medico Tomellini, in un testo dal titolo Delle Malattie più
Frequentemente
Simulate o Provocate dagli Inscritti, pubblicato nel 1875,
ammetteva:
«Inante ai consigli di leva sono ben pochi gl’inscritti atti al
servizio
che si presentano lieti e giulivi, e che deposti prontamente gli abiti
si pongono già in attitudine militare dichiarando di non avere alcun
difetto.
I più (...) cercano con ogni via di ottenere la riforma. Se trovansi
affetti
da leggere infermità ne esagerano i sintomi, se occorre se ne procurano
ad arte (...) Alcuni finalmente fingono vere e proprie malattie
appoggiando
l’asserzione dell’origine a documenti che uomini spudorati e senza
onore rilasciano senza alcuna difficoltà».
La casistica delle simulazioni era vastissima
spaziando da esempi di astuzia a casi di autolesionismo. Un espediente,
a cui si ricorreva nelle campagne già all’epoca di Napoleone, e che
fu ripreso dopo l’unità d’Italia, era quello di porre dei nomi
femminili
ai figli maschi. Sennonché i preti, che erano tenuti a mostrare i
registri
di battesimo ai funzionari governativi, o per collaborazionismo o per
timore,
all’atto del battesimo controllavano il sesso del neonato.
Da parte sua l’esercito si dimostrava estremamente
deciso e determinato a scoprire i simulatori ed allo scopo riteneva
lecito
l’utilizzo di qualsiasi mezzo: «Nei casi in cui l’individuo si ostina,
e ricusa di capitolare, e s’hanno grandi indizi di simulazione si può
senza dubbio ricorrere all’applicazione di vescicanti, di ventose
secche
e a taglio, all’elettricità e alla doccia fredda, mezzi tutti che
stancano
maledettamente i simulatori» (Tomellini).
Per alcuni il rifiuto dell’obbligo di leva
era così profondo da portare perfino all’automutilazione: «V’hanno
giovani che hanno tanta freddezza da porre il dito sul tronco di un
albero
e reciderlo con un colpo di falce, e quindi chiamare al soccorso per
potere
all’occorrenza avere testimoni che depongano in favore dell’accidente
avvenuto loro».
Il terrore che la vita di caserma ispirava
ai giovani coscritti non era affatto ingiustificato. In caserma alla
durezza
delle esercitazioni ed ai maltrattamenti morali e fisici si univano
l’isolamento
dei soldati verso la società esterna e le divisioni all’interno tra
le diverse provenienze regionali. Nel 1880 apparve a Genova un opuscolo
dal titolo Autopsia della Vita Militare ed era firmato “R. S.,
ex-sottufficiale dell’esercito italiano”. Il Ministero dell’Interno
vietò la sua diffusione in quanto «recante grave offesa alla dignità
dell’esercito». In tale opuscolo l’atmosfera di caserma era descritta
come quella di un regime disciplinare repressivo dove il comandante
poteva
stabilire a proprio arbitrio le pene più severe: «Prigione semplice,
prigione di rigore (pane e acqua e tavolato a vece del letto), persino
progressione ferri (cioè giornalmente sei ore di ferri corti e sei di
ferri lunghi): e tantissime volte i comandanti si prendono la libertà
di infliggere punizioni che non sono considerate dal regolamento di
disciplina,
come un colonnello che nel 1877 aveva inventato la ‘passeggiata di
salute’,
inflitta a coloro che, dichiaratisi ammalati durante la settimana,
venivano
invece dal medico riconosciuti di buona salute e ai quali la domenica
mattina,
riuniti in armi e bagagli, si facevano eseguire ottanta, novanta, cento
giri intorno a una piazza ove era fabbricata la caserma».
Per le colpe più gravi vi erano le compagnie
di disciplina dove il soldato poteva essere inviato con semplice
provvedimento
amministrativo. A partire dal 1870 vennero anche introdotte le
cosiddette
classi di punizione che mantenevano il soldato al proprio reparto,
consegnato
per un periodo di sei mesi che spesso si allungava e poteva anche
triplicare,
costretto a portare un particolare distintivo, veniva severamente
punito
ad ogni lieve mancanza. Praticamente era sottoposto ad un domicilio
coatto
all’interno della caserma. Non di rado il sottoposto alle classi di
punizione
finiva nelle compagnie di disciplina. Le cause per le quali i soldati
potevano
essere inviati alle compagnie di disciplina erano molto vaghe e
discrezionali:
innanzi tutto vi erano quei militari ritenuti colpevoli di infrazioni
disciplinari
non punibili dal codice militare perché lievi o non dimostrabili, gli
omosessuali ed i sospetti di omosessualità, i militari rei di aver
preso
moglie senza il permesso del ministero della guerra, gli
antimilitaristi
socialisti ed anarchici. Senza dilungarsi sul trattamento dei militari
sottoposti alle compagnie di disciplina ci limitiamo a riportare quanto
scrisse Sylva Viviani basandosi su di una statistica diffusa nel maggio
1908 dal ministero della guerra, dalla quale risultava che in un anno
su
726 puniti, 183 erano stati riformati, ossia «stroncati» per malattia;
altri 10 erano stati congedati anticipatamente, sempre per ragioni di
salute;
19 inviati in licenza di convalescenza di un anno dopo lunga malattia.
«In totale 212 malattie gravissime nel corso i soli dodici mesi sulla
piccola forza di 726 soldati» (La Pace, 16.7.1908). «Viviani
aggiungeva
che le malattie che più avevano infierito nel passato nelle compagnie
di disciplina e nei reclusori riguardavano “l’asse cerebro-spinale”,
e che erano diffuse enormemente, più che in tutti gli altri corpi, “le
malattie del sistema nervoso”; c’erano fondate ragioni, dunque, per
dubitare dell’esistenza di veri e propri sistemi di tortura» (Ruggero
Giacobini, Antimilitarismo e Pacifismo nel Primo Novecento).
«Nel primo decennio post-unitario la giustizia
militare celebra una media di otto-novemila processi all’anno, con una
punto di 10.549 nel 1864. Nel 1865 i tribunali militari emanarono 146
condanne
a morte, 3.912 condanne in contraddittorio, 2.180 condanne in
contumacia,
1.975 assoluzioni, per un totale di oltre 8.000 processi, pari
all’incirca
al 3% della forza in armi: nello stesso anno i detenuti nelle carceri
militari
oscillano intorno ai 2.200/2.300» (Gianni Oliva, Esercito, Paese e
Movimento Operaio). Nei decenni successivi il fenomeno si ridusse
pur
rimanendo molto alta la proporzione dei reati: Uno ogni 50 uomini in
armi,
il doppio di ciò che nello stesso tempo avveniva nell’esercito
francese.
Nella maggior parte dei casi si trattava di reati contro la disciplina
e all’interno di questi predominavano quelli per diserzione: una media
di circa 1.400 l’anno. Non mancavano neppure gli ammutinamenti: 34 nel
1880.
Accanto alle manifestazioni di indisciplina
e di insubordinazione si sviluppava il fenomeno del suicidio. Nel
decennio
1874/1883, secondo i dati ufficiali, si verificarono 777 suicidi, con
una
punta di 86 nel 1880. Non erano rarissimi nemmeno casi di soldati che,
in preda a raptus di follia, sparavano ed uccidevano commilitoni o
superiori.
Tra questi l’innodia popolare ci ha tramandato le canzoni che narrano
di Misdea, Costanzo, Scarnari, Marino, ecc., tutti quanti condannati
alla
fucilazione tra il 1884 ed il 1885. Misdea, nella primavera del 1884,
in
un raptus di follia esplodeva cinquanta colpi di fucile uccidendo
cinque
commilitoni e ferendone gravemente altri sette; Costanzo l’anno
successivo
sparava ed uccideva il proprio caporale ed altri due commilitoni. In
un’epoca
in cui il dibattito sull’abolizione della pena di morte era di piena
attualità, il caso Misdea fu occasione per la stampa reazionaria di
svolgere
una calorosa campagna antiabolizionista. Commentava Luigi Lucchini:
«Gli
apostoli del patibolo non si chetarono, fecero balenare agli occhi la
ragion
militare, la disciplina dell’esercito, le esigenze di una giustizia che
deve essere soprattutto l’espressione della forza e del rigore» (L.
Lucchini,
Soldati Delinquenti: Giudici e Carnefici). Da parte sua
L’Illustrazione
Italiana, riferendosi al caso Costanzo, invocava le guerre
coloniali:
«Benedetta l’Africa che ci dà l’occasione di far uscire il nostro
esercito dal torpore delle guarnigioni!» (22.2.1885).
Carlo Cattaneo aveva scritto: «Dio toglie
all’uomo mezza anima quel dì che lo fa schiavo, e gli toglie tutta
l’anima
quel dì che lo fa soldato; perché al soldato non è nemmen lecito
lagnarsi
delle infamie che gli fanno commettere. Lo schiavo può avere la ragione
e la coscienza; può avere anche i lamenti e le maledizioni; il soldato
non ha che l’onore e l’ordine del giorno» (C. Cattaneo, Dell’Insurrezione
di Milano del 1848).
In Italia la visione dell’esercito inteso
come strumento della politica reazionaria e repressiva attingeva ad una
tradizione tipicamente risorgimentale. Erano stati gli eserciti
permanenti
al servizio dell’impero asburgico e delle varie monarchie che avevano
represso i moti, imposto la censura, soffocato il dibattito politico,
costretto
alla clandestinità od all’esilio gli intellettuali rappresentativi
della
coscienza nazionale. Non ci potevano essere dubbi, ad impedire l’unità
nazionale era stata «la soldatesca di 400.000 gladiatori, messa ad
arbitrio
dell’uno o di pochi, serva sempre dell’altrui volere» (C. Cattaneo,
Considerazioni).
D’altro canto la scarsa efficacia, dimostrata
nel corso del Risorgimento dagli eserciti permanenti a confronto delle
brillanti operazioni condotte dalle truppe volontarie ed irregolari si
traduceva nella convinzione che la difesa nazionale non sarebbe dovuta
dipendere da eserciti regolari, ma garantita dal concorso di tutto il
popolo
in armi. Lo stesso Garibaldi non nutriva dubbi in merito: «La classe
dei
contadini forma il nerbo dell’esercito dando ad esso la maggior parte
della forza bassa (...) e gli uomini del ventre sanno modellarla
talmente
a loro modo che ne fanno ciò che vogliono. Questi poveri contadini, una
volta vestita l’assisa del soldato, servono ciecamente, e colle vuote
parole d’onore del soldato, d’onor militare, d’onor della bandiera,
colla paura dei castighi e della fucilazione si portano a combattere
indifferentemente
amici e nemici» (G. Garibaldi, Scritti e Discorsi Politici e
Militari).
L’eroe dei Due Mondi considerava questi eserciti «un’istituzione
perniciosa
– poiché – chi governa con tale terribile strumento nelle mani vuol
essere ubbidito governando bene o governando male. Quindi l’esercito
non servirà solo a combattere i nemici esterni, ma combatterà pure il
proprio popolo quando ne abbia ordine dall’imperante». In altra
occasione,
in seguito ad un eccidio compiuto a Brescia nel maggio 1862, Garibaldi
scriverà: «Io non conosco ancora il numero esatto dei morti e dei
feriti
della strage di Brescia. So che vi sono ragazzi morti e ragazzi e donne
ferite (...) Soldato italiano, io non voglio credere che soldati
italiani
possano aver ammazzato e ferito donne inermi e fanciulli. Gli uccisori
dovevano essere sgherri mascherati da soldati! E chi comandò la
strage...
Oh, io lo proporrei per il boia... E proporrei ai bresciani di
innalzare
un monumento a Popoff, ufficiale russo, che ruppe la sciabola quando
gli
domandarono di caricare il popolo inerme di Varsavia». (Il Diritto,
20.5.1862).
Negli ultimi anni dell’800, quando in Italia
si affermano le prime organizzazioni del movimento proletario, il
rapporto
fra esercito e paese appare quindi già ben delineato: da un lato il
tentativo
di rifiuto alla coscrizione obbligatoria si può dire che sia stato già
debellato attraverso una sistematica repressione e sostituito, nella
coscienza
collettiva, da una rassegnata accettazione di tale tappa necessaria
della
vita maschile; dall’altro lato la stragrande maggioranza della
popolazione,
anche se con motivazioni diverse, si dimostra estranea ed ostile ai
miti
del militarismo. Non può quindi stupire se nei primi documenti
ufficiali
del movimento operaio si ritrovino tematiche comuni a tutte le correnti
del pensiero democratico: denuncia degli eserciti permanenti, rovinosi
per la pubblica finanza e pericolosi per la libertà, anche se la
denuncia
del militarismo assume un connotato di classe e di accusa del suo uso
come
strumento di repressione antiproletaria; per quanto la democrazia
radicale,
per alcuni aspetti, lo avesse già anticipato.
Nella primavera del 1885 i dibattiti parlamentari
sulla spedizione di Massaua e sulla politica coloniale del governo
coinvolgono
i gruppi dirigenti del movimento proletario per una prima riflessione
sul
problema del militarismo. Non ci saranno inviti alla mobilitazione ed
indicazioni
di lotte rivolte al proletariato, la battaglia antimilitarista si
svolgerà
tutta all’interno delle istituzioni. Ma a merito del movimento
socialista
dobbiamo dire che sarà l’unico ad opporsi all’avventura africana,
mentre democratici e radicali aderirono alla teoria della “missione
civilizzatrice”.
È Andrea Costa che, seppure con argomentazioni
non rivoluzionarie, chiede il ritiro immediato dei soldati dall’Africa:
«L’Italia che lavora è assetata di giustizia, è assetata di libertà,
è assetata di cultura, e come base di ogni suo miglioramento
intellettuale,
politico e morale vuole il miglioramento delle sue condizioni
economiche:
perciò vede con orrore sprecato il patrimonio pubblico nelle facili
conquiste
delle sabbie africane, vede con orrore mandati colà i suoi figli più
forti (...) Richiamiamo di conseguenza le nostre truppe dall’Africa,
dove le abbiamo mandate con tanta leggerezza; e prima di pensare di
portare
la civiltà in casa d’altri, sbarazziamoci noi di ciò che ci resta di
un tristissimo passato e rivolgiamo tutta la nostra forza, tutta la
nostra
energia alla soluzione di quello che è il tormento e l’orrore del
nostro
secolo: la questione sociale» (7.5.1885).
Dalla disfatta di Dogali, dove i 500 della
colonna De Cristoforis vennero annientati, la maggioranza parlamentare
traeva spunto per chiedere crediti straordinari al fine di preparare
una
massiccia reazione. Mentre un altro tradizionale antigovernativo, il
radicale
Felice Cavallotti, si allineava docilmente al potere: «I paesi non
vivono
soltanto di pane e benefici materiali. I paesi vivono anche di onore»
(3.2.1887), ancora una volta Andrea Costa presentava un ordine del
giorno
di netta opposizione. L’impresa africana «incostituzionale nei suoi
primordi, è diventata oggidì disastrosa e per le vite che è costata
e per l’erario (...) e ciò in momenti in cui l’Italia ha bisogno di
convergere tutte le sue forze al suo sviluppo economico e morale e al
miglioramento
delle classi lavoratrici (...) il prestigio militare e l’onore della
bandiera sono i soliti pretesti con cui tutti i governi cercano di far
passare le loro imprese avventurose; deplorando i poveri fanti
d’Italia,
caduti lontano dalla patria per una causa che non è loro, come non è
quella della vera civiltà, invita il Governo a richiamare dall’Africa
nel più breve tempo e nel migliore modo possibile le truppe italiane
colà
rimaste». Andrea Costa concludeva poi il suo discorso con quella netta
affermazione di rifiuto di ogni tipo di avventura militarista: «Noi non
vi daremo né un uomo né un soldo».
Alle prese di posizioni ufficiali da parte
del socialismo seguirono poi mobilitazioni e manifestazioni di piazza
nelle
maggiori città italiane per iniziativa di organizzazioni socialiste,
anarchiche
ed anche repubblicane. Ma il dato di fatto importante è determinato dal
netto rifiuto, espresso dal movimento socialista, della guerra di
espansione
e dei crediti militari.
Al congresso di Milano del 1891, l’anno
precedente alla nascita ufficiale del Partito Socialista, venne redatto
il primo documento ufficiale antimilitarista. Il documento si ispirava
a quanto era stato approvato al congresso internazionale di Parigi del
1889: gli eserciti permanenti erano stigmatizzati come «negazione di
ogni
regime democratico e repubblicano (...) espressione militare del regime
monarchico e oligarchico-capitalistico (...) strumento per colpi di
Stato
reazionari e per l’oppressione sociale». Nel documento veniva affermato
che la pace rappresenta «la condizione prima e indispensabile di ogni
emancipazione operaia», richiedeva l’eliminazione degli eserciti
permanenti
e l’introduzione dell’armata «formata da tutti i cittadini validi
organizzati per regioni», mentre considerava la guerra stessa come
conseguenza
inevitabile del capitalismo.
Basandosi su questi concetti il documento
di Milano stabiliva:
«1 – Fare una continua ed attiva propaganda
contro i dannosi effetti del militarismo e contro i sentimenti
patriottici
e nazionali che ne formano il pretesto, nonché contro l’insegnamento
morale della gloria e dell’onor militare;
«2 – Rifiutarsi di partecipare a qualunque
manifestazione che possa giovare a mantenere nella popolazione i
pregiudizi
e le influenze militari;
«3 – Educare la gioventù operaia ai sentimenti
della fratellanza e della solidarietà, affinché sotto le armi i giovani
possano resistere all’influenza demoralizzatrice dello spirito militare
e non siano più un cieco strumento della disciplina e della tirannia;
«4 – Transitoriamente, finché durano le
presenti condizioni sociali, il Congresso riconosce il dovere di
agitarsi
per la riduzione e l’abolizione degli eserciti permanenti, accettando
il principio della nazione armata e dell’arbitrato internazionale».
Dopo il congresso di Genova la questione militarista
venne affrontata soprattutto in merito all’atteggiamento che il neo
Partito
Socialista avrebbe dovuto assumere nei confronti delle organizzazioni
pacifiste
di emanazione democratico-borghese. Al dibattito che si svolge
all’interno
della rivista Critica Sociale presero parte i più autorevoli
rappresentanti
del socialismo italiano: Treves, Lerda, Turati...
Per una parte del socialismo, che trovava
il suo interprete in Treves, il militarismo rappresentava un residuo
della vecchia società feudale, un peso economico che gravava
soprattutto
sulle classi lavoratrici, ma anche sulla borghesia ostacolando lo
sviluppo
industriale. Scriveva Treves: «Questi enormi eserciti permanenti
costano
alla borghesia in linea di danno emergente – per dirla coi giuristi –
tanti miliardi strappati ai lavori pubblici, ai commerci, alle
industrie,
alle cartelle di rendita, e in linea di lucro cessante tanti miliardi
per
mancato sfruttamento di milioni di lavoratori attivi, forti ed
intelligenti»
(30.12.1892). Di conseguenza, continuava Treves, «La borghesia è, per
le sue origini e per la sua costituzione, antimilitarista (...) La grande
industria, che rappresenta l’apice, la sublimazione del sistema
capitalistico,
è quella che ha il maggior interesse a rimandare a casa parecchi
milioni
di soldati che rappresentano per lei un continuo lucro cessante e danno
emergente» (15.2.1893). Da tali premesse veniva prospettata l’alleanza
delle organizzazioni operaie con i settori più illuminati della
borghesia
nella loro battaglia contro gli eserciti permanenti e la guerra,
fattori
che avrebbero impedito di portare a compimento la rivoluzione
democratico-borghese.
Opposta era la concezione di Lerda, questi
dichiarava che l’esercito rappresenta «la forza stessa del potere della
borghesia» (30.1.1893). Turati, infine, sosteneva che «una verità
appare
a noi evidente: i socialisti possono bensì fare la loro propaganda pel
disarmo, ma essa, all’ora che corre, non può avere nulla di comune –
né la parola, né il significato, né il corpo, né lo spirito – con
la propaganda pel disarmo fatta dai non socialisti» (1.2.1893). Anche
la richiesta dell’abolizione dell’esercito e la sua sostituzione con
la nazione armata veniva guardata da Turati con scetticismo; la cosa
avrebbe
potuto avere un valore solo «in quanto strappato al privilegio e
mantenuto
vivo e attivo da una forte ed intelligente organizzazione popolare
militante»
(30.9.1891).
All’approfondimento teorico, da parte della
stampa socialista corrispondeva un impegno attivo nella propaganda,
nell’agitazione,
nelle denunce degli aspetti più degradanti della vita delle caserme,
delle
compagnie di disciplina e dei tribunali militari, ma soprattutto nelle
prese di posizione riguardo all’intervento dell’esercito nell’ordine
pubblico, della denuncia degli eccidi proletari compiuti dalle forze
dell’ordine.
Riguardo agli eccidi proletari conviene, a
questo punto, riportare una pagina della citata opera di Carlo
Liebknecht:
«Dappertutto e da sempre le autorità militari sono pervase dalla verità
capitalistica secondo la quale dietro ogni sciopero sta in agguato
l’idra
della rivoluzione. Di conseguenza l’esercito è sempre pronto a
sbaragliare
gli indisciplinati schiavi dei capitalisti con i fendenti delle sue
sciabole
e i tiri dei suoi fucili dove non siano immediatamente sufficienti il
pugno,
la sciabola e il revolver della polizia nei confronti dei cosiddetti
eccessi
degli scioperanti. E ciò vale naturalmente per tutti i paesi
capitalistici;
e nella misura più sfrenata anche per la Russia, che non essendo ancora
interamente capitalistica nel suo complesso (...) non può essere
considerata
un caso tipico. Seppure sotto questo profilo si trovino in testa
l’Italia
e l’Austria, è tuttavia della massima importanza ai fini della
valutazione
storica della forma attuale repubblicana in presenza del modo di
produzione
capitalistico sottolineare costantemente che, se si prescinde
dall’Inghilterra,
in nessun altro paese la soldataglia si è dimostrata così volonterosa
ed ha infierito in modo altrettanto cruento e spietato per schiacciare
gli scioperi nell’interesse dei capitalisti come negli Stati semi o
interamente
repubblicani, come in Belgio e in Francia, con i quali possono ben
reggere
il paragone gli Stati più liberi del mondo, la Svizzera e l’America».
Nonostante un aspetto del tutto tralasciato
dal Partito Socialista fosse quello della penetrazione all’interno
dell’esercito
attraverso l’organizzazione dei proletari in divisa, il governo si
preoccupava
dell’«attività di propaganda contro l’esercito» che minacciava di
minare «le più salde fondamenta dello Stato». Così il Ministro di
Grazia
e Giustizia, il 4 giugno 1894, inviava a tutti i procuratori generali
presso
le corti di appello la seguente circolare riservata: «Non dubito che
l’autorità
giudiziaria, d’accordo colle autorità militari e politiche, saprà in
ogni evenienza adempiere scrupolosamente e con energia l’ufficio che
le compete, di valersi dell’azione penale per rendere vano, coi mezzi
legali, sia di procedimento che di punizione, qualunque criminoso mezzo
di propaganda fatta a voce o per iscritto, o per mezzo della stampa, la
quale tenda ad indurre i militari alla violazione dei loro doveri di
fedeltà
e di disciplina».
La magistratura però, per quanta buona volontà
mettesse nell’adoperarsi a reprimere ogni forma di indisciplina
proletaria,
aveva le mani legate proprio dalla legge borghese. La Corte di
Cassazione,
già l’anno precedente, nella sua sentenza del 13.11.1893, aveva
espresso
questa sua impotenza nei seguenti termini: «Perché sussista il delitto
preveduto dall’art. 126 codice penale (vilipendio delle istituzioni
costituzionali
– n.d.r.) in confronto dell’esercito, non basta il solo biasimo della
sua organizzazione, ma vuolsi l’attacco contro di esso come
istituzione;
i biasimi alla rigorosa disciplina, che non è che una manifestazione
organica
militare, non possono risalire all’ente esercito come istituzione
costituzionale».
Ma la lacuna non tardò ad essere colmata e con la legge 315 del 1894
venne
stabilito che: «Chiunque per mezzo della stampa, o di qualunque altro
segno figurativo indicato dall’art. 1 della legge 26 marzo 1848, istiga
i militari a disubbidire alle leggi, od a violare il giuramento dato o
i doveri della disciplina, od espone l’esercito o l’armata all’odio
o al disprezzo della cittadinanza, è punito con la detenzione da tre a
trenta mesi e con la multa da lire trecento a tremila» (Art. 2).
Rapporto esposto alla riunione di Genova, maggio 2003
Il Brasile fu scoperto, ovvero, entrò nella
sfera economica degli Stati europei sulla scia dei viaggi che
impegnavano
sul finire del 15° secolo le due grandi potenze marinare dell’epoca,
Spagna e Portogallo, nella ricerca di una via diretta per grandi
traffici
marittimi verso l’India, la Cina, il Giappone. Queste cercavano
un’alternativa
a quella praticata dai veneziani per mare fino alle coste libanesi e da
lì via terra attraverso deserti, imperi mongoli e persiani
inaffidabili:
era un un viaggio molto rischioso, lungo, costoso e quindi poco adatto
a commerci su grande scala. Il grande sviluppo della cantieristica
navale,
di bussole via via sempre più affidabili, dei primi ottanti,
perfezionati
poi in sestanti per il calcolo della latitudine, ovvero l’altezza sul
meridiano di un punto della superficie terrestre rispetto l’equatore,
e non per ultimo delle armi da fuoco furono le basi tecniche che
spinsero
il capitalismo mercantile a finanziare viaggi di esplorazione sempre
più
lontani. Per l’invenzione dell’orologio da marina, necessario per
calcolare
con esattezza le coordinate del punto nave, bisognerà aspettare gli
Inglesi
un secolo più tardi.
In particolare i portoghesi cercavano di raggiungere
l’India e l’Oriente costeggiando l’Africa; nel 1488 Bartholomeu Dias
completò l’esplorazione delle coste atlantiche dell’Africa raggiungendo
quello che fu poi chiamato Capo di Buona Speranza e nove anni dopo
Vasco
da Gama giunse in India passando a sud dell’Africa, ponendo così le
basi dell’impero coloniale e commerciale dei Portoghesi nell’oceano
Indiano. Viaggio lungo ma relativamente sicuro considerando gli scali
dove
far rifornimenti e commerci di ogni genere, compreso quello degli
schiavi
che iniziò ben presto.
Ma un’altra ipotesi per giungere ai mercati
indorientali in modo più rapido era quella verso ovest, via mare oltre
lo stretto di Gibilterra ed era sostenuta dal medico cartografo
fiorentino
Paolo Dal Pozzo Toscanelli. Questi tramite suoi studi, che però
erroneamente
consideravano un diametro terrestre molto inferiore, ed un’estensione
dell’Asia di molto superiore al reale, disegnò una carta navale secondo
la quale un viaggio diretto via mare senza scali intermedi era
fattibile
con le conoscenze ed i mezzi a disposizione in quel tempo. In sostanza
aveva collocato il Zippangu (Giappone), conoscendone la latitudine,
nell’attuale
America settentrionale, a ridosso della catena degli Appalachi negli
attuali
Alabama e Tennessee.
Cristoforo Colombo fece sua questa ipotesi
e chiese finanziamenti per realizzare una esplorazione in questa
direzione
sia al Portogallo sia alla Spagna; il primo era già impegnato verso le
rotte sudafricane e diffidava dell’esattezza della misura della sfera
terrestre del Toscanelli, e rifiutò l’invito, mentre la seconda
accettò,
come noto, dopo mille esitazione e la garanzia che i capitali li
avrebbero
messi i banchieri genovesi e fiorentini rappresentati in Spagna da
Giannetto
Berardi.
La città di Palos, come tributo dovuto alla
corona spagnola, avrebbe sostenuto i costi tecnico-organizzativi: in
sostanza
per Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona fu un appoggio a
costo
zero, con tante generosissime promesse in caso di successo, segno anche
questo di quanto poco credito godessero queste ipotesi di esplorazione.
La spinta decisiva fu forse data dal tentativo
di recuperare terreno rispetto al Portogallo dopo il ritorno di Dias ed
il successivo allestimento della flotta per Vasco de Gama.
C’è da dire che quello che fu definito
“il fortunato errore” del Toscanelli ci permette una breve
considerazione
a margine delle scoperte scientifiche che si possono “smarrire” perché
non trovano un’applicazione pratica continua nel tempo. Partendo dalla
considerazione che la terra è sferica l’esatto diametro terrestre fu
calcolato da Eratostene di Cirene intorno al 250 a.C. con un errore di
soli 300 Km rispetto alle moderne misurazioni, un niente, dati i tempi.
In quella Alessandria d’Egitto che era il centro delle scienze dei
paesi
mediterranei aveva lavorato anche Archimede di Siracusa, coetaneo di
Eratostene.
Il modo con cui impostò i suoi semplici ragionamenti e misurazioni è
anche la soluzione per il calcolo della latitudine.
Questa, come tante altre scoperte, rimase
vincolata alle esigenze pratiche del sistema di produzione esistente.
Affidata
alla ristretta cerchia dei sacerdoti-custodi delle scienze, si perse
principalmente
perché non trovava diffusa applicazione e non fu trasferita nel tempo
nella memoria sociale. Concorsero anche sfortunati incendi e
distruzioni
di ogni genere. Al momento del bisogno si dovette ricominciare da zero.
Occorre precisare che il continente Nordamericano
era già stato scoperto in precedenza da navigatori Vichinghi nell’anno
1000, guidati da Leif Erikson, “Figlio di Erik il Rosso”, scopritore
nel 984 della Groenlandia, i quali, percorrendo una rotta molto a nord,
passando dall’Islanda e dalla Groenlandia, giunsero a Vinland sulle
coste
canadesi dove ora c’è Quebec nella baia di San Lorenzo, ma non vi si
insediarono stabilmente.
È accertato che anche il navigatore veneziano
Antonio Zeno alla guida di un convoglio di 12 navi, armate da Henry St.
Clair signore delle Orcadi e Cavaliere del Tempio, arrivò nel 1398
partendo
dalle Orcadi fino ai banchi di Terranova e nella Nuova Scozia.
Effettivamente
si trovarono queste rotte ma erano praticabili per la loro latitudine
solo
in determinati e ristretti periodi dell’anno a causa del clima troppo
freddo e del pericolo degli iceberg: il modernissimo Titanic nel 1912
affondò
per un urto contro uno di questi navigando su di una rotta molto più a
sud. Questa spedizione però non determinò, come le precedenti,
insediamenti
stabili e continue relazioni con le terre d’origine; un conto era
scoprire
nuove terre per completare il quadro geografico terrestre, un altro era
la definizione di agevoli rotte commerciali verso l’oriente
Colombo salpò da Palos il 3 agosto 1492 e
vi ritornò portando la notizia della scoperta, avvenuta in modo molto
fortunoso, di nuove terre, peraltro prive delle tanto attese ricchezze,
il 15 marzo 1493.
Pochi mesi dopo ripartì con 17 navi per il
secondo viaggio che non era più soltanto di esplorazione ma di vera e
propria conquista in nome e per conto dei re di Spagna. A questo punto
i Portoghesi, pur continuando sul progetto verso sud-est, trovarono
anche
i capitali per rivolgersi verso ovest.
Allo scopo di evitare conflitti con la Spagna,
già subito nel 1493, si definì la “linea alessandrina”, così chiamata
perché stabilita da papa Alessandro VI sul principio “A Dio le anime,
la terra al Re”, che fissava una linea di demarcazione in quella parte
dell’Atlantico fra gli imperi coloniali portoghese e spagnolo: le nuove
terre scoperte entro le 100 miglia ad ovest delle Azzorre, già
avamposto
portoghese nell’oceano, ai portoghesi, oltre agli spagnoli. (È
quell’Alessandro
VI, al secolo lo spagnolo Rodrigo Borgia, eletto papa nel 1492, che si
rese ben presto noto per le dissolutezze e il nepotismo che sollevarono
lo sdegno e le proteste del Savonarola).
Secondo questo principio il papato si assicurava
la protezione dei due eserciti per i suoi agenti, i missionari, e la
possibilità
di costituire in sicurezza delle missioni che erano e sono vere e
proprie
unità produttive, oltre che di evangelizzazione, che, tutt’ora
funzionanti,
in una misura non esigua versano anche loro un obolo al soglio di
Pietro.
L’anno successivo, 1494, su pressione portoghese,
il trattato di Tordesillas sposta questa linea a 370 miglia oltre le
Azzorre,
grosso modo sul meridiano dove ora c’è la città brasiliana di Belem
sulla foce del Rio delle Amazzoni presso il confine a nord dell’attuale
Brasile. In questo modo la Spagna, presumendo allora che verso sud non
ci fosse nulla, si riservava il controllo, per lei ben più importante,
delle rotte e degli eventuali passaggi verso ovest per l’Oriente.
In base a questo trattato il portoghese Pedro
Alvares Cabral nel 1500, navigando con rotta a sud-ovest, scopre il
Brasile
e lo assegna a Giovanni II re del Portogallo, nonostante l’anno
precedente
Pinzon, il delegato spagnolo nelle esplorazioni di Colombo, giungesse
all’estrema
punta est del Sudamerica sull’Atlantico presso l’attuale Natal e da
lì risalì, costeggiando verso nord il continente fino a Santo Domingo,
dove fu poi insediata la base principale per la conquista spagnola
delle
Americhe. Ed è per questo trattato che il Brasile è l’unico paese del
Sudamerica dove si è diffusa e conservata la lingua portoghese.
In questo contesto Francia ed Olanda, altre
potenze marinare ma inferiori, giocano un ruolo minoritario in queste
prime
esplorazioni, anche perché ancora impegnate in assetti statali incerti,
e cercheranno in seguito di occupare zone residue mentre gli inglesi in
quel periodo erano ferocemente impegnati in lotte dinastiche; appena
terminate,
con il consolidamento della dinastia dei Tudor, si rivolsero verso le
coste
dell’America settentrionale, dovendo però prima battere lo strapotere
della flotta spagnola.
Il flusso delle ricchezze che dalle colonie
spagnole si riversavano verso Madrid determinò ben presto sia la rapina
“indipendente” sui mari dei pirati sia quella legalizzata, con tanto
di “patente” di sua maestà britannica, per la “guerra di corsa”,
appunto, dei corsari, inglesi e non. Un secolo più tardi si aggiunsero
i “bucanieri”, in origine allevatori e piantatori europei delle Antille
che, rovinati dalla dominazione spagnola, si misero “al servizio”
dell’Inghilterra
contro la Spagna. Buona parte del capitale originario del nascente
capitalismo
arriva d’oltre oceano come catena di rapine.
La dominazione portoghese, basata sullo sfruttamento
delle enormi risorse naturali di quell’immenso territorio, durò fino
all’epoca napoleonica quando la casa reale si rifugiò in Brasile nel
1807 per sfuggire agli eserciti francesi. Dopo la caduta di Napoleone,
Pedro, l’erede al trono del Portogallo che era cresciuto in Sudamerica,
non rientrò con il resto della famiglia reale nella madrepatria e
convocò
un’assemblea nazionale che nel 1821 dichiarò il Brasile impero
indipendente
sotto di lui, Pedro I. In questo modo il Brasile è l’unico Stato che
si stacca pacificamente dalla madrepatria; più che una lotta per
l’indipendenza
fu una apparente pacifica spartizione in famiglia tra padre e figlio.
Giovanni
VI in Portogallo e Pedro I in Brasile avevano un regno a testa separati
da un oceano, segno questo più della debolezza e decadenza del
Portogallo
che della vitalità e forza del Brasile.
Nel periodo del lungo regno di Pedro II (1831-1889)
si consolida l’economia basata sulla colonizzazione interna con un
forte
aumento della popolazione dovuta alla massiccia immigrazione europea –
mentre la tratta degli schiavi che durava da secoli fu abolita nel 1850
– ed alle esportazioni di prodotti alimentari e materie prime.
La forma monarchica resistette fino alla rivoluzione
del 1889, ottenuta anche con l’appoggio degli ex-schiavi che erano
stati
completamente affrancati l’anno prima; fu sostituita con quella
repubblicana,
guidata però da liberali e dalla borghesia terriera, che si era opposta
all’abolizione della schiavitù.
Al tempo della grande crisi economica mondiale
nel 1930 il capo dei liberali Vargas si impadronì del potere, attuò
modifiche
in senso autoritario alla Costituzione, mise fuori legge gli estremisti
di sinistra e i fascisti, soppresse ogni forma di “libertà democratica”
inaugurando il lungo periodo di continue successioni fra dittature
civili,
colpi di Stato e governi militari che hanno segnato profondamente,
anche
nel senso della lotta di classe, la storia del moderno Brasile.
Nel 1985 viene eletto il primo “civile”
alla direzione del governo federale (il Brasile è una Federazione fra
26 Stati ed un Distretto molto indipendenti fra loro) e nel 1988 viene
adottata una nuova Costituzione in sostituzione di quella imposta dai
precedenti
governi militari.
Prime incursioni nella sconfinata foresta
Il Brasile, privo dei grandi tesori immaginati
da Colombo e soci, nasce come potenza agroalimentare e di prima
trasformazione
e nel tempo ha vissuto una serie di “cicli economici” di vari prodotti
agricoli e di materie prime, destinati sempre all’esportazione. Il suo
territorio è stato di conseguenza modellato nei secoli secondo una
struttura
per zone agricole e di trasformazione indipendenti, una sorta di
arcipelago
agroalimentare e solo recentemente è diventato un’economia a valenza
industriale, ponendosi al decimo posto nella graduatoria dei paesi più
industrializzati.
“Senza zucchero, niente Brasile” recitava
un vecchio adagio dei colonizzatori portoghesi, che veniva meglio
precisato
aggiungendo: “Senza schiavi, niente zucchero”. Il Brasile in effetti
nasce con lo sviluppo estensivo delle piantagioni di canna da zucchero,
destinata ovviamente al mercato europeo, cui si dovevano subito
affiancare
gli impianti di prima trasformazione e raffinazione della canna per
ottenere
i pani di zucchero, prodotto alimentare finito, compattato e
immediatamente
destinato al commercio per il consumo, oltre che ai distillati alcolici
della fermentazione della canna, il rhum.
Questa caratteristica economica di produzione
e trasformazione, dovuta essenzialmente alla grande distanza, al lungo
viaggio via mare ed alla sua fattibilità secondo le stagioni, darà
un’impronta
all’economia brasiliana che si riverbererà nei tempi successivi
considerando
che il grande vantaggio dell’agricoltura brasiliana risiede nella
enorme
disponibilità di spazio agricolo.
A tutt’oggi degli otto milioni e mezzo di
chilometri quadri del paese, soltanto 550 mila chilometri quadri sono
messi
a coltura, corrispondenti a solo il 7% dell’intero territorio, con un
disboscamento medio, a scapito della foresta pluviale amazzonica, di
“solo”
22.264 chilometri quadri all’anno. Il paese, grande quasi quanto
l’Europa,
è abitato, da circa 170 milioni di persone.
Dal punto di vista morfologico il Brasile
consiste essenzialmente di un vasto altopiano costiero che degrada
lentamente
verso le pianure interne e verso nord. È compreso tra l’equatore e ben
oltre il tropico australe, con un clima che va da quello equatoriale,
al
sub-equatoriale caldo-umido a quello temperato.
Ovviamente, essendo zone collinari scarsamente
abitate da popolazioni di cacciatori-raccoglitori e poco propense al
duro
lavoro delle piantagioni, si “dovette” far ricorso all’introduzione
massiccia di schiavi, principalmente dalla sponda opposta dell’Oceano,
dall’Africa. La razza mandinga del Senegal fu considerata la migliore,
la
più idonea al trasferimento e al lavoro coatto perché più forte,
resistente
e più facilmente adattabile viste le similari condizioni ambientali
degli
opposti siti geografici. Ma alla bisogna, purché forti, robusti e
sensibili
alla frusta, andavano bene quasi tutti.
Il commercio degli schiavi africani era già
presente da tempo. Una serie di bolle papali tra il 1442 e il 1456, in
epoca di papi ed antipapi, diedero al portoghese Enrico il Navigatore
il
nullaosta per la sottomissione dei popoli africani in cambio di una
“sicura”
loro conversione al cristianesimo, secondo il succitato principio delle
anime a Dio e la terra ai re.
Dopo la scoperta delle Americhe il commercio
degli schiavi si espanse seguendo la rotta del cosidetto “Triangolo”.
Le navi partivano dall’Europa con carichi di ferro, acquavite, tessuti
sgargianti, monili di poco conto, armi da taglio e raramente cavalli e
facevano scalo nel tratto della costa africana fra i porti di St. Louis
in Mauritania e Gorée-Dakar in Senegal e più a sud ad Accra nel Ghana,
Luanda e Benguela in Angola. Le merci portate servivano per scambi con
oro, avorio e naturalmente schiavi. Da lì ripartivano attraversando
l’Atlantico
in 17 giorni per giungere a Pernambuco, l’attuale Recife, in Brasile,
dove rifocillati, reidratati e sommariamente curati venivano venduti
sul
mercato locale. Gli schiavi diretti verso le isole caraibiche e poi
negli
Stati dell’Unione dell’America del Nord non facevano scalo in Brasile
ma compivano una traversata diretta verso il “mercato” finale. Il
triangolo
si chiudeva quando, venduti gli schiavi, le navi ripartivano per
l’Europa
carichi di zucchero, rhum e caffè.
Tutto efficiente e regolare dal punto vista
del capitalismo mercantile, da quello religioso perché gli schiavi
venivano
anche convertiti e per la sicurezza dei viaggi in quanto appositi
regolamenti
stabilivano il numero massimo degli schiavi che ciascun tipo di nave
poteva
trasportare. Se qualche comandante viaggiava in sovracarico ed era
fermato
per un controllo veniva pesantemente multato e gli schiavi sequestrati,
ma sovente i poveracci finivano in mare incatenati con grossi pesi a
gruppi
di tre o quattro perché non fossero “presi in carico” dalle navi
militari
a ciò preposte.
Un’agenzia dell’Onu per lo studio su razzismo
e schiavitù, in una conferenza internazionale tenuta a Durban
(Sudafrica)
nel settembre 2001, ha stimato in oltre 14 milioni di individui ridotti
in schiavitù tra il 1500 ed il 1850; di questi il 25%, cioè 3,5
milioni,
perì durante il trasporto per malattie, naufragio, punizioni, fughe
suicide
e alleggerimenti del carico. Si stima che in quell’arco di tempo in
Brasile
siano arrivati da 3,5 a 5 milioni di africani, un terzo del totale
degli
schiavi “trattati”.
Al ciclo dello zucchero è successo quello
dell’oro e dei legnami pregiati, poi il cotone, il caffè, il cacao ed
il caucciù ed un’altra decina di prodotti. Ad eccezione dell’oro sono
tutti prodotti agricoli che richiedono una trasformazione e
compattazione
prima del trasporto, fatto che rafforzava il carattere agroalimentare
con
varie fasi di trasformazione meccanica.
Vista la continua forte richiesta dei prodotti
alimentari di base le classi dirigenti brasiliane che si sono succedute
hanno provveduto ad una minima industrializzazione dell’economia,
principalmente
come appoggio al settore agricolo, puntando invece sull’importazione
dall’estero dei prodotti necessari a tutti i livelli basandosi su un
favorevole prezzo del mercato delle sue merci.
Con la successione dei cicli agroalimentari
si è consolidato nella pratica uno speciale regime di monocoltura, o di
coltura privilegiata, poiché nei vari periodi ci fu sempre un prodotto
particolarmente richiesto che deteneva la schiacciante maggioranza
rispetto
gli altri, mentre i precedenti, pur riducendosi di importanza,
continuavano
con livelli di produzione ridotti. Questo retaggio durò secoli: basti
pensare che nel 1959 il caffè rappresentava il 57% di tutte le
esportazioni;
le gelate della Florida del 1963 determinarono la coltura delle arance
sia per frutto sia per succo concentrato e surgelato, mentre ora si
punta
sul grano e la soia di cui il Brasile è il secondo esportatore
mondiale.
Questa situazione ha segnato profondamente
il territorio brasiliano: i diversi cicli si sono svolti in aree
differenti
di nuovo dissodamento; gli “innovatori”, vista la grande disponibilità
di terreno utilizzabile e puntando sulla fertilità naturale delle terre
vergini, non si sono mai preoccupati di riconvertire lande già
agricole,
eccetto per lo Stato di San Paolo che è la regione economica più
dinamica
di tutta la Federazione, e si sono messe a coltura sempre nuove aree a
detrimento delle foreste vergini, il cui legname sovente veniva
bruciato
per la sua sovrabbondanza o perché inadatto all’esportazione.
L’incendio
della foresta è un metodo sbrigativo per ottenere aree coltivabili
utilizzando
anche il povero potere fertilizzante delle ceneri.
Questa impostazione, ritenuta la più efficace,
economica e redditizia – ovviamente dalle classi dei proprietari
fondiari
e dai capitalisti agrari – fu anche adottata nella colonizzazione degli
Stati del Nord America, dove venivano messe a coltura nuove terre
quando
quelle in uso avevano esaurito la loro fertilità accumulata nei
millenni.
Si spostava quindi la frontiera del “mondo civile” sempre più ad Ovest
a scapito delle popolazioni indigene che, volenti o, quasi sempre,
nolenti,
di fronte ad incomprensibili, perché mai visti, decreti governativi o
alle più comprensibili fucilate, dovettero retrocedere. Questo sistema
è ancora oggi molto ben in uso anche nel Brasile
dell’antiglobalpresidente
Luis Ignacio da Silva, ex sindacalista, “Lula”, per gli amici.
La terra di molte regioni brasiliane è così
rimasta come un relitto dei precedenti cicli agro-economici, non più
redditizia
per l’economia.
Il paese quindi per secoli e fino alla prima
metà del XX secolo è formato da un aggregato di cellule
agroesportatrici
giustapposte, un mosaico di regioni quasi autonome, formate a
l’occasione
secondo le esigenze di uno dei cicli e più direttamente dalle esigenze
dello sviluppo del capitalismo europeo e nordamericano.
La grande disponibilità di territori vergini
scarsamente popolati è stata la causa della relativa tranquillità e
stabilità
delle classi terriere e mercantili del Brasile che hanno potuto
arricchirsi
e sonnecchiare senza tanti problemi, ma è anche stata la sua zavorra
storica
nel ritardato sviluppo della grande industrializzazione capitalistica.
A scala regionale la geografia di questa produzione,
per cicli in aree diverse e non sempre contigue, si legge ancora nella
struttura dei trasporti interni realizzata per unire ciascuna regione
produttrice
ai mercati esterni tramite strade, ferrovie e propri scali marittimi e
solo in misura minore, visto le grandi distanze, per collegare fra loro
direttamente i vari bacini economici interni. Un’utilizzazione
territoriale
di questo tipo è chiamata “per corridoi di esportazione” che sfociano
dai bacini produttivi nei più importanti porti di Santos, Paranaguà e
Vitòria/Tubarao; lo schema è più semplice per il ciclo del cacao la
cui regione di produzione è immediatamente a ridosso del porto di
Ilheus.
Il legame diretto delle regioni agroalimentari
con i mercati esterni rendeva ininfluente una rigida ed articolata
organizzazione
nazionale e le giustapposizioni delle varie entità regionali, che
risolvere
in loco tutte le questioni pratiche, hanno fatto del territorio
brasiliano
un arcipelago di entità a se stanti senza alcuna logica comune
coerente.
Il Brasile è il quinto paese mondiale per
superficie, grande quasi l’Europa intera, 2,5 volte l’India o 28 volte
l’Italia. È anche quinto per popolazione che è stimata attualmente
a oltre 170 milioni con un indice di urbanizzazione molto alto: dal 62%
degli Stati che compongono il raggruppamento Nord all’89% del Sudest.
Il ritmo dell’incremento demografico è raffrontabile a quello degli
Usa per i caratteri comuni avuti in passato.
All’epoca della sua indipendenza, nel 1822, la popolazione brasiliana era di 3 milioni contro i 10 degli Usa; nel 1850 (fine della tratta degli schiavi) passa a 7 e a 18 milioni nel 1900, mentre negli Usa nello stesso anno sono già in 76 milioni. Nel 1950 è di 54 e di 147 milioni nel 1991 (negli Usa nel 1990 sono 249 milioni) e nel 1998 sono 162 milioni. La linea di tendenza è stata finora di
triplicare la popolazione ogni 50 anni!
L’incremento della popolazione tra la fine del ventesimo secolo e i primi 20 di quello successivo è prodotto da una massiccia immigrazione europea. Foreman-Peck, in “Storia dell’economia internazionale dal 1850 ad oggi” così riferisce in merito: «In Brasile ed Argentina, le oligarchie dei proprietari terrieri si convinsero che i sussidi alla manodopera erano in grado di espandere l’offerta di
lavoro in modo permanente attraverso il versamento di un tantum di sovvenzione
per il viaggio (...) Tra il 1885 ed il 1913 il governo di San Paolo e quelli federali destinarono 11 milioni di Sterline per le sovvenzioni all’immigrazione».
Immigrazione lorda (cioè che non conta quelli che sono ripartiti)
Unità
1870-1880 194.000
1880-1890 449.000
1890-1900 1.198.000
1900-1910 662.000
1910-1920 815.000
Il totale lordo fra il periodo 1870-1920
(50 anni) è di 3.318.000 unità. Di questi il 30% sono italiani, il 29%
portoghesi, 14% spagnoli e 5% tedeschi. Dalla stessa tabella leggiamo
che
nello stesso periodo negli Usa il saldo migratorio è di 17.775.000
uomini,
ovvero 5 volte più intenso.
L’immigrazione intercontinentale si riduce
fortemente, causa la seconda guerra mondiale, tra il 1940-1950, ma
riprende
subito portando il tasso di incremento annuo della popolazione al 3%,
causa
anche un migliorato tasso netto di natalità e una forte riduzione di
quello
della mortalità, mentre il tasso di fecondità negli ultimi trent’anni,
dal 1965-96, è sceso da 5,7 a 2,3 figli per femmina. Il tasso di
incremento
della popolazione nel periodo 1990-95 è sceso allo 1,7%.
Secondo i gruppi etnici la popolazione brasiliana
è composta dal 55% di bianchi; 35% di creoli e mulatti, 11% di negri
africani,
altri 2%, mentre gli amerindi sono stimati in 350 mila. Dal punto di
vista
puramente statistico, per la componente afro-brasiliana, negri più
mulatti
africani, il Brasile è il secondo paese negro al mondo, dopo la
Nigeria.
Zumbi è il suo eroe, il suo Spartaco. Zumbi, schiavo negro fuggitivo,
assassinato dalle autorità coloniali nel 1695, fu strenuo difensore del
celebre quilombo di Palmares, prima repubblica libera e
indipendente
dell’America del Sud. I quilombos, territori autogestiti dagli
schiavi in fuga, sono stati molto numerosi ed ora al centro di un
problema
circa la spartizione delle terre richiesta da alcune organizzazioni per
la difesa dei diritti dei negri come risarcimento al lavoro di tre
secoli
non pagato agli schiavi. In alternativa ogni afro-brasiliano che ha
avuto
schiavi tra i suoi antenati avrebbe diritto, secondo queste, ad un
risarcimento
pari a 102 mila dollari (“Le Monde Dipl.”, novembre 1996).
Occorre precisare che le cinque macroregioni
in cui si divide il paese sono in effetti degli Stati molto differenti
che coesistono avendo caratteristiche economiche e sociali assai
diverse:
se il prodotto per abitante del Sud e del Sudest è superiore a quello
del Messico, dell’Argentina o del Cile, quello del Nord-Est è simile
a quello della Colombia o del Paraguay.
L’eterogeneità di questo paese-continente
si può così esprimere numericamente: la regione del Nord occupa il 45%
del territorio con solo il 7% della popolazione e il suo reddito
pro-capite
è di 1.919 dollari; il Nord-Est, fanalino di coda, si estende per il
18%
del territorio, la sua popolazione è il 28% del totale ed il reddito
pro-capite
annuale è di appena 1.363 dollari (pari a 3,7 dollari al giorno). Il
Centrovest
ha il 19% del territorio, il 7% della popolazione ed il reddito
pro-capite
è di 2.911 dollari. Il Sud col 7% del territorio, il 15% della
popolazione
raggiunge un reddito pro-capite di 3.255 dollari mentre il Sud-Est
sull’11%
del territorio, il 43% della popolazione raggiunge un reddito
pro-capite
di 3.833 dollari. Il reddito pro-capite medio per il Brasile è di 2.839
dollari, ma il reddito pro-capite degli Stati del Sud-Est è di 3 volte
circa quello del vicino Nord-Est, rapporto che non si è mai
sostanzialmente
modificato e conferma la forte eteorogeneità del paese (dati “Datasus”
del 1993, riferibili ovviamente ad anni precedenti, in P.É.
n°2654/2000).
In questo senso i “sociologi” parlano per quel periodo di “tre
Brasili”,
ciascuno grosso modo di 50 milioni di persone.
Questa statistica ci dà una vaga indicazione
della divisione per classi: la prima “nazione”, costituita dalle classi
più ricche, ha un tenore di vita paragonabile a quello di un paese
europeo
con reddito medio di 6.000 dollari l’anno. La seconda, della piccola
borghesia e dell’aristocrazia operaia, ha un reddito medio più basso,
di solo 3.000 dollari. La terza è allo sbando e la sua sopravvivenza
fuori
dalle riserve e dalla foresta è affidata a quello che,
eufemisticamente,
è chiamato “settore informale dell’economia”, ovvero a tutte le
forme di precariato compreso il lavoro minorile e le attività
criminali.
Nel capitalismo questo è un importantissimo settore, il suo necessario
esercito industriale di riserva, funzione che si dimostra bene col
procedere
della generalizzata crisi capitalistica: «Se nel 1991 il 53,7% dei
lavoratori
era entrato nell’economia ufficiale e aveva accesso ai diritti
conferiti
da un contratto di lavoro, nel 2000 questa percentuale era scesa al
45%,
mentre il restante 55% rimane attivo nell’economia sommersa (“Le
Monde.Dipl.”,
ottobre 2002).
Il regime agrario risente ancora fortemente
dell’originaria attribuzione della proprietà e delle cause storiche
che l’hanno determinato. La conquista ispano-portoghese di tutto il
Nuovo
Continente è stata intesa e gestita come prolungamento della
“Riconquista”
della penisola iberica contro la dominazione araba. Al tempo della
spedizione
di Colombo gli Arabi erano ancora insediati nell’attuale regione
spagnola
dell’Andalusia, da cui furono definitivamente espulsi proprio nel 1492.
Anche in Brasile sono state assegnate con
gli stessi mezzi e criteri di ricompensa grande estensioni di terra ai
nobili e ai capitani di ventura che avevano partecipato alle varie
imprese
militari di qua e di là dell’oceano. Secondo imprecisati titoli e
prerogative
storiche i latifondisti “eredi” degli antichi colonizzatori hanno
continuato
ad occupare territori indigeni e demaniali e, come già scrivemmo per il
vicino Venezuela, non essendoci un catasto certo e storicamente
documentato,
la pretesa del più forte ha sempre vinto nonostante violente rivolte
degli
espulsi.
Nessuna riforma agraria è mai intervenuta
in Brasile a sanare né correggere questo stato di cose. Nel 1963 un
timido
progetto di riforma è stato subito bloccato l’anno successivo dal golpe
militare del 1964. Dal ritorno alla “democrazia” nel 1985 c’è stato
un gran fiorire di progetti ma nessun fatto concreto.
È continuato, consolidato e sopravvissuto
nel tempo, accanto ad uno più moderno, un regime arretrato di
capitalismo
agrario. Questo comprende un gran numero di minifundios, ovvero
piccole proprietà a carattere quasi orticolo, non sufficienti come
estensione
a nutrire le famiglie che ci lavorano, dai numerosi componenti. Questa
è la primaria causa dell’esodo verso le città. Nei
latifundios,
invece, proprietà oltre i 1.000 ettari, si sprecano le terre incolte
che
molto spesso sono anche le migliori.
In cifre abbiamo che il 53% delle aziende
hanno estensione inferiore a 10 ettari, occupano il 3% dei terreni ed
impiegano
il 65% dei lavoratori agricoli; all’altro estremo, l’1% delle aziende
più grandi detengono il 29% delle terre ed impiegano l’1% dei
lavoratori
agricoli. Questa disparità ha provocato a più riprese nel tempo e
provoca
ancor oggi conflitti e rivolte violente di contadini senza terra, i
quali,
se non altro, han capito che in democrazia o sotto dittatura sono
sempre
condannati alla miseria.
La contrapposizione tra minifundios orticoli
e latifundios per allevamenti bovini in regime di soccida,
cioè
con contratti collettivi, ha determinato la classica e capitalistica
situazione
di vedere il Brasile al terzo posto mondiale come patrimonio bovino ma
dover contemporaneamente importare, nel 1989, 70 mila tonnellate di
latte
in polvere e da alcuni anni anche fagioli rossi, dal Messico, base
dell’alimentazione
brasiliana.
Volta ai mercati esteri e spinta dalle imposizioni
del Fmi per saldare i suoi conti non più così smaglianti come una
decina
d’anni fa, l’agricoltura brasiliana si è separata su due direzioni:
una basata su grandi aziende modernizzate e ben sostenute che, dirette
dagli interessi delle multinazionali alimentari, fanno grande impiego
di
lavoratori precari, l’altra, quella relegata nei piccoli appezzamenti,
sia in regime di proprietà privata sia di concessioni governative nei
nuovi territori, priva di protezioni e finanziamenti, stagna al livello
di sottosviluppo.
Una tabella (P.É. n° 2169/1990) “Agricoltura
e spazio: 1920-1985” ci illustra l’evoluzione del comparto agricolo
brasiliano a cadenza ventennale.
1920 1940 1960 1980 1985
Superficie totale
delle aree sfruttate, milioni di ha 175 197 249 369 376
Percentuale del territorio 20 23 28 43 44
Superfici coltivate, milioni di ha 6 18 28 49 52
Percentuale del territorio 1 2 3 6 6
Numero delle aziende, migliaia 648 1.904 3.337 5.167 5.834
Superficie media, ettari 270 104 75 72 65
In sintesi abbiamo che la superficie messa
in vario modo a frutto passa dal 20% al 44% del totale del territorio e
la superficie coltivata passa da 6 a 52 milioni di ettari cioè dal 1%
al 6% sul totale. In tutto questo ampliamento abbiamo anche che il
numero
di aziende, in tabella non meglio definite e che quindi possiamo
pensare
che contempli congiuntamente la misera schiappa del povero indio con
l’avanzatissima
azienda meccanizzata, balza dall’iniziale 648.000 a 5.834.000. Analoga
considerazione va fatta per l’estensione media delle aziende che scende
dall’originario valore medio di 270 ettari ai finali 65.
Questa diminuzione potrebbe far esultare i
finti socialisti e i populisti di ogni tempo e latitudine sempre pronti
a battaglie contro il latifondo, soprattutto se di origine
nobiliar-feudale,
ma ben altre considerazioni sorgerebbero dall’analisi dei dati
specificati
per classi di valori come estensione che separino le varie realtà
produttive.
Da altra fonte, infatti, abbiamo, solo come
punti estremi della forbice: ad un estremo 500 mila grandi imprese che
assicurano la maggior parte delle esportazioni, dall’altro 5 milioni
di aziende che in vario modo garantirebbero il fabbisogno interno. Le
20
maggiori proprietà da sole riuniscono la stessa quantità di terra che
occupano 3,3 milioni di piccoli produttori.
Secondo i «dati della Banca mondiale del
1996, lo 0,83% dei proprietari detiene da solo il 43% delle terre
coltivabili,
mentre 23 milioni di braccianti agricoli e di piccoli contadini vivono
al di sotto della soglia della povertà. Sempre per quell’anno il
raccolto
del Brasile avrebbe permesso di sfamare 300 milioni di persone, ma 32
milioni
di brasiliani non mangiano abbastanza e in quell’anno il governo ha
speso
più di 3 miliardi di dollari per importare derrate agricole» (“Le Monde
Diplom.”, settembre 1997).
La crudele realtà va nel senso dell’allargamento
della forbice. Ovviamente in un contesto che presenta questi estremi, i
conflitti fondiari, spesso accompagnati da fatti di sangue, sono sempre
stati presenti nella storia del Brasile. Ma dal 1985, con la nascita
del
Movimento dei lavoratori rurali senza terra, MST, da una catena di
fatti
episodici, spontanei ed isolati, si passa ad un vere e proprio
programma
per il riutilizzo dei latifondi lasciati incolti in favore di
cooperative
di agricoltori organizzati. Il punto di forza legale, in ambito del
tutto
borghese, del MST sta in un articolo della Costituzione del paese che
autorizza
l’esproprio delle terre agricole incolte, che secondo l’Incra, Istituto
nazionale della colonizzazione e della riforma agraria, sono 153
milioni
di ettari, equivalenti ai territori di Francia, Germania, Spagna,
Svizzera
e Austria messi insieme.
Questi latifundios improduttivi sono
lasciati nell’abbandono o con un allevamento molto estensivo; spesso
servono come copertura per redditizie operazioni illecite o per grandi
speculazioni immobiliari, custoditi da bande di “pistoleiros”, vere
e proprie organizzazioni paramilitari che collaborano con le forze
dell’ordine
legali per il rispetto della proprietà privata dei grandi fazendeiros,
il cui forte partito detiene un terzo dei seggi in parlamento. Questo
la
dice lunga sulla possibilità di una radicale riforma agraria in ambito
borghese.
Il MST denuncia che negli ultimi 15 anni sono
state assassinate 1.654 persone fra contadini, militanti
dell’organizzazione,
dirigenti sindacali, religiosi, avvocati e deputati a causa del loro
impegno
nelle lotte per la terra, mentre la Commissione Pastorale della Terra
parla
dell’assassinio di 1.237 piccoli agricoltori e conferma la durezza
dello
scontro.
Il MST è organizzato in 21 dei 27 Stati e
dichiara, nel 1996, di aver sistemato 54.218 famiglie di agricoltori su
176 fazendas incolte. Il governo centrale dichiara da parte sua di aver
sensibilmente aumentato le imposte sulle terre improduttive,
espropriati
latifondi abbandonati, con forti indennizzi ai proprietari, e di aver
così
distribuito appezzamenti di terre vergini e incolte a 60 mila famiglie.
Queste però, oltre a versare un contributo allo Stato, devono
provvedere
senza particolari finanziamenti a tutte le opere necessarie, compresa
la
deforestazione che spesso è incontrollata e praticata tramite incendi.
Lo sviluppo agroalimentare, poi quello
industriale,
non si è distribuito in egual intensità in tutto il paese, anche per
le diverse condizioni climatiche ed abitative. Tendenzialmente il sud è
più ricco e sviluppato del nord. Oggi in Brasile si evidenziano 5
grandi
regioni economiche: il Sud-Est; il Sud il Nord-Est; la regione
Centrorientale
ed il Nord. Negli Stati del Sud e Sud-Est l’agricoltura è ottimamente
sostenuta da complessi agroalimentari che comprendono tutti i processi
produttivi conferendo un carattere di completezza a tutta l’economia.
In assoluto è lo Stato meridionale di San Paolo quello più sviluppato
e ricco di tutti.
Solo recentemente, dopo le tremende gelate
degli anni ‘80 che hanno praticamente distrutto le piantagioni di caffè
degli Stati del Sud e del Sud-Est, è partito un programma di
rilocazione
delle colture agricole conforme alle condizioni climatiche e delle
caratteristiche
chimico-fisiche del terreno, tenendo anche conto dell’andamento delle
quotazioni internazionali dei prezzi dei prodotti agricoli, e quello
per
l’irrigazione di vasti territori destinati alla canna da zucchero.
Questa è stata anche una condizione per lanciare,
sostenuto da forti finanziamenti statali, il programma “Proalcol”,
un piano agro-industriale completo per la produzione di l’alcol etilico
da utilizzare come riserva di energia per il trasporto, derivato dalla
distillazione della canna da zucchero. Inizialmente lo scopo era
ridurre
l’importazione di petrolio, ma successivamente il programma è stato
modificato ed ha assunto altre connotazioni.
La partizione economica del paese per isole
autonome durò fino alla prima grande crisi mondiale. Nel 1930 il
Brasile,
sotto la direzione paulista di Vargas, iniziava ad emanciparsi
dalla
logica dei cicli agroalimentari i cui prezzi, misura del grado di
dipendenza
dai mercati e dall’economia mondiale, erano fissati dalle borsa merci
di Londra e New York. Da questa data, e dal crollo di prezzi delle
materie
prime e dei prodotti agroalimentari, si apriva il periodo
dell’industrializzazione
ed urbanizzazione accelerata del paese, che tendeva a relegare in
secondo
piano il mondo rurale, il settore agroalimentare e la potente classe
dei
proprietari fondiari. Questo processo, puntando sull’esplosione del
mercato
interno, prende il via dall’ampliamento, la diversificazione e il
completamento
del settore di trasformazione agroalimentare e della produzione di
semilavorati
e di prodotti finiti destinati al consumo finale e dall’avvio della
produzione
manufatturiera e industriale vera e propria, sostenuta dai capitali
interni
e dai forti finanziamenti internazionali.
Nel tempo però, da grande paese esportatore
di prodotti alimentari, è diventato, come altri che hanno avuto lo
stesso
percorso, paese importatore di alimenti di base per masse diseredate ed
affamate.
Nell’arco di una generazione il Brasile
diventa un paese fortemente urbanizzato. Se nel 1950 il 65% della
popolazione
viveva ancora nelle campagne, nel 1980 il 75% dei brasiliani vive nelle
città. È chiaro che questo processo, uno dei più rapidi al mondo,
gestito
da un capitalismo giovane ed irruente, non può che avvenire se non a
scapito
della cosidetta “qualità della vita”, che in questo vampiresco sistema
può al massimo riguardare la media e grande borghesia e non di certo
gli
indios urbanizzati per miseria, i proletari e i contadini espulsi dalle
terre.
Le città che si formano o si ampliano a dismisura
apparentemente sono belle “cartoline” con bianchi grattacieli sul mare,
poiché la maggior parte di esse sono sulla fascia costiera. In effetti
mantengono la medesima struttura: schiere di grattacieli e quartieri
residenziali
ben urbanizzati e protetti in poche fasce parallele subito a ridosso
della
spiaggia per le classi medioalte, i vecchi quartieri coloniali in
decadenza
per la piccola borghesia ed enormi periferie e baraccopoli, le favelas,
sulle colline retrostanti per tutti i disperati delle classi inferiori
dove, come tutti ben conoscono dalle informazioni generosamente
elargite
dei media, la “qualità della vita” è simile a quella di un girone
dell’inferno dantesco.
Il processo di urbanizzazione continua in
tutte le regioni, la popolazione rurale decresce prima in termini
relativi
e dal 1970 anche in termini assoluti, altro segno dell’avvenuta
trasformazione
dell’economia brasiliana che è balzata, tramite lo sfrenato
sfruttamento
proletario, ai primi posti dei paesi più industrializzati del mondo.
Da un’economia basata sull’esportazione
agricola e mineraria, durante il periodo intorno al 1990, diventa
l’ottava
potenza industriale dove il mercato interno, stimolato da un facile
accesso
al credito per i consumi, diventa il motore del suo stesso sviluppo. Le
esportazioni in questo periodo non rappresentano che il 10% del Pil e
quelle
dei prodotti industriali sono più importanti di quelle tradizionali.
Per esemplificare, in pratica è accaduto
un fenomeno analogo, ma di proporzioni ben più grandi per massa ed
accelerazione,
di quanto è successo in Italia col boom economico negli anni 60, dove
però in Brasile, anche per altre cause che analizzeremo, si è generata
un’iperinflazione che ha scardinato subito tutto questo sfrenato prendi
oggi e paga domani.
Nel 1974 il caffè rappresentava ancora l’11%
delle esportazioni, ma scendeva al 6,5% nel 1981 e, nonostante il
Brasile
sia ancora il primo produttore mondiale, le statistiche economiche, per
sottolinearne la ridotta importanza, ora spesso inglobano nella stessa
rubrica: caffè, the e spezie. La produzione del caffè si è ora
spostata,
come conseguenza della concorrenza al ribasso dei prezzi, verso il
Sudest
asiatico ed in particolare nel Vietnam.
La bilancia commerciale brasiliana dall’inizio
del secolo è così indicata nella tabella riportata da “Problèmes Éc.”
n° 2169/1990, evidenziando la forbice dei valori tra il 1907 e il 1986.
ESPORTAZIONI IMPORTAZIONI
1907 1986 1907 1986
Agricoltura 88% 37% 27% 9%
Minerario... 14%
Industria 12% 48% 73% 41%
Mat.prime 20%
prodotti 53%
Petrolio 47%
Totale 100% 99% 100% 97%
Benché la partizione non sia la medesima,
si nota come nel 1907 si aveva, in percentuale: Esportazioni agricole
88%,
di cui 53% di caffè e 20% di caucciù, ed esportazioni industriali 12%,
non meglio definite. Sempre per lo stesso anno si hanno Importazione
agricole
27% e importazioni industriali 73%, di cui 20% come materie prime e 53%
di prodotti manufatturieri.
Le percentuali cambiano radicalmente 80 anni
dopo: nel 1986 si vede che le Esportazioni agricole scendono al 37%, di
cui 16% come prodotto grezzo e 21% come uscito dall’industria
agroalimentare;
i minerali sono al 14% (prima non conteggiati in tabella) e i prodotti
manufatturieri esportati sono al 48% del totale. Sempre nello stesso
anno
abbiamo che le Importazioni di prodotti agricoli si riducono al 9%
mentre
l’importazione di petrolio (che nel 1907 non c’era) sale al 47% e i
prodotti manufatturieri al 41%.
In sostanza: metà delle importazioni sono
spese in energia per alimentare l’inferno della produzione
capitalistica.
Il saldo commerciale sia dei prodotti agricoli
sia dei manufatturieri sono entrambi in attivo.
Sembra il paese di Ben Godi, samba e sole
dei tropici. Ma allora, perché i proletari e semi- e sotto-proletari
brasiliani
sono così furiosi?
Il processo di industrializzazione vero e
proprio inizia dopo la crisi economica mondiale del 1929, in
coincidenza
con la presidenza Vargas, rappresentante della classe industriale
brasiliana,
la più dinamica di tutta la Federazione.
Ricordiamo anche la lunga serie di colpi di
Stato militari, dittature civili e militari che, sostanzialmente, più
che scontri fra frazioni diametralmente opposte sul piano politico,
furono
il
misurarsi e l’accordarsi tra la classi al potere, fra i quali partiti
quello dei proprietari terrieri ha sempre detenuto un ruolo egemone,
condizionando
a favore dei propri interessi l’economia brasiliana.
Sul piano economico generale questi eventi
hanno rappresentato una sorta di alternanza e successione di piani e
cicli
di espansione capitalista, in cui la dittatura borghese assumeva tratti
più o meno marcati, senza mai abbassare la guardia, anzi giocando
d’anticipo
sul fronte dell’inevitabile e mai soppresso scontro di classe. Oltre
che un fatto di politica interna, inteso come rapporti di forza fra le
classi, un governo autoritario o militarizzato era anche una garanzia
per
l’ingresso di masse di capitali esteri necessari allo sviluppo
industriale
del Brasile, che andavano a sommarsi a quelli della borghesia locale.
Questo l’andamento, assai alternato, dell’indice
della Produzione Industriale, secondo il Bollettino statistico della
Banca
Centrale (base 100 nel 1991):
Si nota la partenza veloce fino al massimo del 1980. Calcolando gli incrementi medi annui fra i massimi crescenti abbiamo:Anno Indice Increm.% Anno Indice Increm.%
1972 54,67 1988 109,51 -3,24
1973 63,90 16,8 1989 112,71 2,93
1974 68,16 6,7 1990 102,68 -8,90
1975 72,10 4,2 1991 100,00 -2,61
1976 80,69 11,90 1992 96,27 -3,73
1977 82,42 2,14 1993 103,50 7,51
1978 87,48 6,14 1994 111,37 7,60
1979 93,57 6,97 1995 113,41 1,83
1980 102,17 9,19 1996 115,37 1,73
1981 91,77 -10,18 1997 119,85 3,89
1982 91,80 0,03 1998 117,42 -2,03
1983 87,05 -5,18 1999 116,66 -0,65
1984 93,23 7,10 2000 124,41 6,64
1985 101,14 8,49 2001 126,37 1,58
1986 112,20 10,94 2002 129,34 2,35
1987 113,18 0,87
1972-1980 8,1% - 1980-1987 1,5% - 1987-1997 0,6% - 1997-2002 1,5%.
Il paese sembra precipitato prematuramente,
dopo il 1980, nella zona di “maturità” capitalistica a bassi saggi
di incremento, dimostrando anche la sua vulnerabilità alla crisi
mondiale.
1930-1964: Industrializzare per il mercato interno
Lenin ci ricorda che la politica non è che
un concentrato di economia. Così leggiamo anche il “periodo Vargas”
in Brasile. Il governatore “liberale” dello Stato di Rio Grande nel
1930 si pone alla guida della rivolta militare ivi scoppiata, accentra
il potere di tutta la Federazione e instaura una dittatura civile.
Mette
fuori legge tutti i partiti estremi di destra, di sinistra e di difesa
dei negri; sopprime ogni forma di libertà ma attua notevoli riforme
sociali
nella sanità e nell’istruzione. L’esempio di Mussolini in Italia
certamente
gli fu d’aiuto.
Da un punto di vista capitalistico l’industrializzazione
del paese inizia sotto i buoni auspici in quanto, con libertà sindacali
e democratiche fortemente ridotte e una continua richiesta mondiale di
materie prime e manufatti, il giovane capitalismo brasiliano può
bruciare
le tappe fabbricando dapprima beni di consumo semplici, destinati al
mercato
interno, passando poi all’industria pesante e all’impiantistica con
un programma di industrializzazione che tende a sostituire le
importazioni.
Ciò marcherà fortemente l’economia brasiliana, che in breve passerà
da importatrice ad esportatrice di prodotti industriali.
La sua corsa prosegue sostenuta anche dal
secondo conflitto mondiale poiché il Brasile, come fece il Sudafrica,
si colloca a fianco dell’alleanza anglo-americana fornendo in tutta
tranquillità,
perché lontano dai fronti di guerra, materiali e rifornimenti di ogni
tipo.
Il periodo termina però con il suicidio di
Vargas nel 1954, a seguito della ribellione dell’esercito che non lo
sostiene più ma appoggia Kubiscek (1955-60). Prosegue però lo sviluppo
dei piani industriali. È in questo periodo però che, a causa di spese
pubbliche eccessive, inizia il processo di inflazione galoppante che
segnerà
poi tutta la storia economica brasiliana.
I successivi presidenti dovettero gestire
il delicato equilibrio tra il forte ruolo e peso dell’esercito, che
garantiva
il controllo interno, la classe dei proprietari fondiari, quella
industriale,
la complessa e corrotta burocrazia che rivendicava una fetta del
reddito
nazionale e la necessità di riforme, sovente radicali, necessarie allo
sviluppo industriale. Fra queste era compresa la plurisecolare
questione
della riforma agraria che ai primi accenni di una qualche revisione
provocò
nel 1964, a seguito di crescenti movimenti sociali, il colpo di Stato
militare
diretto del generale Castelo Branco, che restrinse le libertà
costituzionali
che erano state via via introdotte e tornò a congelare la questione
della
riforma agraria.
1964-1973-1985: Miracolo sotto la dittatura militare
L’arrivo dei militari al potere, che nominano
ovviamente ministri a loro fedeli, quando non alleati o ispiratori,
determina
l’avvio di profonde riforme economico-sociali basate però sul principio
della concentrazione del reddito, tipica del capitalismo, fatto questo
che sul tempo porterà alla strutturazione dei “tre Brasili”.
In questo contesto economico i negri e gli
afro-brasiliani sono emarginati ed esclusi dai vantaggi prodotti
dall’industrializzazione.
Di fatto la segregazione razziale nei confronti degli ex-schiavi si era
perpetuata anche abolita la schiavitù: una serie di leggi ne limitavano
la completa integrazione sociale, soprattutto per quanto concerneva la
proprietà terriera.
Sul piano economico viene oltremodo rafforzata
la centralizzazione con la nazionalizzazione o il controllo statale
delle
grandi imprese minerarie e produttive, mentre sul piano finanziario
sono
prese due importanti misure, oltre alla costante preoccupazione di
mantenere
forti riserve valutarie.
La prima riguarda il principio della “correzione
monetaria” allo scopo di lottare contro l’erosione dei salari e del
potere di acquisto della moneta legata ad un’inflazione galoppante.
L’indicizzazione
si applica a tutti i livelli dell’economia: fisco, tariffe, mercato dei
capitali, tassi e salari. Si arriverà al calcolo giorno per giorno del
tasso di inflazione e del prestito di denaro.
La seconda riguarda l’inizio della raccolta
su vasta scala del risparmio nazionale volto a finanziare il debito
pubblico
con un meccanismo di calcolo degli interessi legato a sostanziali
correzioni
automatiche del tasso a causa dell’inflazione. In questo modo il
deficit
pubblico è finanziato con l’emissione monetaria in un circolo
vizioso
di
autoalimentazione: il Brasile è anche in questo a tutti gli effetti una
potenza capitalista, pur di secondo livello.
Il piano di sviluppo industriale prosegue
fino alla grande crisi “petrolifera” del 1974. Anche in Brasile
l’esaurirsi
della spinta del ciclo di ricostruzione post-bellica fa sentire i suoi
effetti e rallenta il ciclo produttivo: il “miracolo economico del
periodo
1968-73” è definitamente alle spalle, anche se la congiuntura rimane
favorevole fino al 1977.
Nel periodo 1974-80 i grandi lavori legati
al II Piano nazionale di sviluppo, con ristrutturazione dell’apparato
produttivo e l’avvio delle opere dei progetti monumentali, sono
finanziati
con i prestiti delle banche straniere. In questi sei anni il debito
estero
triplica e passa da 17,2 a 53,8 miliardi di dollari, i tassi
d’interesse
interno salgono notevolmente, l’inflazione si attesta al 40% annuo, il
governo obbliga le imprese esposte verso l’estero a rimborsare il loro
debito tramite la banca centrale e inizia così la statalizzazione del
debito privato estero; tutto ciò sbocca poi nella maxi-svalutazione
monetaria
nel 1979.
Di quel periodo abbiamo la seguente sintesi
numerica (da “L’état du monde 1981”, ed. Maspero):
Una crescita molto forte così segmentata: crescita annua media di 5,4% per il periodo 1960-70; per il periodo 1970-77 la media annua sale al 9,8% mentre per il solo 1979 scende al 6,4% annuo.1965 1975 1979
Pnl, miliardi di dollari 17,8 110,1 207,3
Pil pro capite, dollari 220 1.030 1.690
Totali = Nuovi + Reinvestimenti
1978 2.512 1.368 1.154
1980 1.512 1.399 118
1984 541 792 -251
1985 846 478 368
La crisi finanziaria internazionale che
scoppia nel 1982 provoca il blocco del flusso dei capitali esteri. La
banca
centrale confisca allora capitali privati per un totale di circa 30
miliardi
di dollari, che sono utilizzati dal Tesoro per il rimborso del debito
estero.
Paradossalmente in questo contesto si inverte
la direzione del movimento dei capitali e il Brasile da importatore
diventa
esportatore di capitale finanziario nei confronti dei paesi
sottosviluppati
ed inizia un forte contrasto, mai sopito, con il Fmi per quanto
riguarda
il controllo dell’economia brasiliana e la forte spesa del settore
pubblico,
che normalmente assorbe il 30-40% del Pil. Segue un’altra
maxi-svalutazione
nel 1983 e, sempre in quell’anno, solo l’adozione di un nuovo programma
di risanamento economico consente la ripresa degli aiuti del Fondo
Monetario
Internazionale.
1985: Arriva la democrazia, continua il capitalismo
Il partito di governo, quello dei militari,
deve farsi da parte in favore del neo Partito del Movimento Democratico
(PMDB) che dovrà gestire le crisi successive; precedentemente c’era
un sistema bipartitico basato sull’alternanza elettorale al governo con
la presenza di un piccolo partito d’opposizione.
Nel 1985 il PMDB è alla guida del Brasile;
l’anno successivo adotta un piano radicale di riforme economiche, in
particolare il congelamento dei prezzi e dei salari poiché l’inflazione
è arrivata al 234% annuo e introduce una nuova unità monetaria il
Cruzado,
che ha un rapporto di cambio fisso col Dollaro, mentre il debito estero
è arrivato a 102 miliardi di dollari e deve essere rinegoziato. Il
governo
brasiliano rifiuta la tutela del Fmi ed inizialmente dichiara di non
voler
onorare il prestito di 450 milioni di dollari concessi da creditori
stranieri
alle banche in fallimento Comind, Auxiliar e Maisonnave.
Nel 1988 viene promulgata una nuova Costituzione,
più liberale di quella imposta dai precedenti governi militari. L’anno
successivo il nuovo presidente Collor de Mello deve introdurre nuove
misure
economiche, cioè far tirar ancor più la cinghia ai proletari, tra le
quali ancora il blocco dei prezzi e dei salari per frenare l’inflazione
arrivata intorno al 2.000% annuo ed introdurre una nuova moneta, il
Novo
Cruzado, che vale un migliaio di volte la moneta introdotta appena tre
anni prima, con un nuovo tasso fisso di cambio col Dollaro.Nel 1990 nel
tentativo di bloccare la fuga dei capitali all’estero si congelano
tutti
i conti bancari.
I programmi per smorzare l’inflazione
e ridurre la povertà introdotti nel 1985 ottengono solo minimi
risultati
mentre crisi e corruzione devastano il paese a tutti i livelli, prova
ne
sia che nel 1992 il Presidente Collor de Mello viene destituito per
corruzione
dopo lunghe e complesse inchieste.
L’andamento dell’inflazione nel periodo
1977-89 è descritto nella seguente tabella di fonte brasiliana
riportata
da “La Documentation Française” n° 4916-1990:
Il Fmi preme e teme per i suoi investimenti, soprattutto per le continue forti opposizioni brasiliane al controllo della sua economia e al contenimento della spesa del settore pubblico, ma alla fine, nel 1993, il nuovo presidente, Itamar Franco, non può far altro che introdurre una nuova riforma fiscale che determina un gettito del +30% rispetto l’anno precedente. Il Fmi riscagliona il debito brasiliano ottenendo come garanzia e contropartita la privatizzazione, il controllo e la vendita di importanti settori economici nei trasporti, energia, petrolio, telefonia fissa e mobile, officine ferroviarie, miniere, banche e assicurazioni che i precedenti governi militari avevano statalizzato o posto sotto il controllo governativo.1977 38,8% 1982 99,7% 1986 65,0%
1978 40,8% 1983 211,0% 1987 415,8%
1979 77,2% 1984 233,8% 1988 1.037,6%
1980 110,2% 1985 235,1% 1989 1.782,9%
1981 95,2%
Investimenti: 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994
Diretti 1267 177 1087 2794 744 236 -42 1443 -292 931
Di portafogl. -237 -450 -428 -498 -421 575 3808 7366 12872 11575
Finanz. l.t. -2421 -4135 -7471 -7272 -3670 -232 -1077 -2435 -1035 -2367
Da questi si legge il basso livello di
fiducia degli investitori esteri che non ritengono di impegnare i loro
capitali per finanziamenti di progetti a lungo termine ma privilegiano
gli investimenti diretti e, dopo un’iniziale sfiducia, si rivolgono al
settore del capitale finanziario speculativo che predilige le
operazioni
“mordi e fuggi”, cosiddette “di portafoglio”; il plusvalore del
proletariato brasiliano pagherà tutte le cedole.
Nel 1994 entra in vigore un nuovo piano economico
che garantisce alle fasce più povere un aumento del potere d’acquisto
del 30% dovuto anche dall’aumento del salario minimo, l’accesso al
credito e una nuova moneta, il Real, a parità fissa col Dollaro. In un
arco di otto anni dal 1986 al 1994 sono state adottate in Brasile sei
differenti
monete. Per dare un contentino di pura facciata alle masse, si
reintroducono
le elezioni presidenziali dirette in sostituzione di quelle
parlamentari.
Nello stesso anno parte il Mercosur, mercato
comune sudamericano tra Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay che,
nelle
intenzioni, dovrebbe favorire gli scambi e le economie di quei paesi
contro
le penetrazioni degli Usa e del Nafta. In questo mercato l’85% delle
merci circola già liberamente senza dazi doganali e gli economisti di
quei paesi puntano su di un mercato di 300 milioni di persone con un
reddito
superiore ai 10 mila dollari annui.
Seguono due mandati consecutivi di Cardoso
che, da “sociologo” si trasforma in economista borghese, gestisce
abilmente
i contraccolpi della crisi russa ed asiatica, primi segnali di quella
generale
che si sta avvicinando minacciosa a scala mondiale. Durante la sua
presidenza
l’economia brasiliana si assesta, i piani per contrastare l’inflazione,
basata anche sulla parità di cambio col Dollaro la cui stabilità doveva
fare da freno alla nuova moneta, hanno un grande successo immediato: si
passa dall’1% al giorno del 1993 al 4% al mese, cioè al 60% su base
annua, il livello più basso dal 1957.
Ne segue grande fiducia internazionale verso
il Brasile, le cui riserve monetarie hanno battuto il loro record
storico
di 50 miliardi di dollari. Questo fa sì che l’ammontare degli
investimenti
esteri sia di 28 miliardi di dollari, il 70% del totale degli
investimenti
stranieri in tutta l’America latina. Ma si calcola anche che occorre
un incremento annuo della produzione del 6% solo per assorbire la forza
lavoro delle nuove generazioni che ogni anno si presentano sul mercato
del lavoro brasiliano.
Contestualmente però sono richiesti come
obbiettivi prioritari la riforma del sistema fiscale e la riforma
pensionistica
del settore pubblico. Sul piano della riforma agraria ci sono solo
timide
discussioni ed in via del tutto eccezionale si “tollerano” alcune
sporadiche
espropriazioni di terre incolte richieste dagli oltre due milioni di
contadini
senza terra.
Ma in Brasile tutto è rapido ed effimero.
Vista la stabilità dei prezzi e l’iniziale sopravvalutazione del Real
rispetto il Dollaro, la massa della popolazione, bloccata nei consumi
da
decenni di incredibile inflazione che obbligava i lavoratori a
concentrare
la maggior parte degli acquisti appena ricevuto la stipendio, si è
riversata
sul consumo a credito, soprattutto su prodotti medio-alti di
importazione,
reinnescando il processo inflazionistico contrastato solo con l’aumento
delle tasse doganali e con l’aumento del tasso d’interesse della banca
centrale. Il boom delle importazioni in termini numerici significa che
esse raddoppiarono tra il luglio 1994 e l’aprile 1997. I prestiti per
le merci straniere, soprattutto americane, furono però erogati in
dollari.
Vista una situazione così mutevole e complessa
i quadri statistici sui “cicli lunghi” sono inesistenti o molto
generici,
soprattutto per i periodi pre e post bellici, mentre per quelli più
recenti
abbiamo dati più significativi che qui esponiamo (Fonti: “Stato del
mondo 1997”).
1975 1985 1995
Pil (miliardi di $) 126,5 213,7 536,3
Crescita annua % 9,0 2,7 4,0
Pil pro capite ($) 1801 3860 5630
Debito estero (miliardi $) 27 106 145
Servizio debito/esport. % 43,2 38,6 29,1
Tasso d’inflazione % 29,0 326,9 28,0
Struttura del Pil in %:
Agricoltura 12,1 11,5 10,8
Industria 40,2 45,3 37,3
Servizi 47,7 43,1 51,9
Contemporaneamente scoppia la crisi messicana.
La situazione precipita di nuovo e riprende
la fuga dei capitali. La Banca centrale per contrastarla eleva i tassi
di interesse che, se da una parte penalizzano gli investimenti
produttivi
interni, richiamano però forti capitali speculativi esteri.
Nel 1998, come primo atto da rieletto presidente,
Cardoso annuncia un programma di austerità per 23,5 miliardi di
dollari;
subito dopo il Fmi sblocca un piano d’aiuti per il Brasile pari a 41,5
miliardi di dollari. Ma due settimane più tardi il Congresso respinge
la proposta di un aumento delle quote assicurative versate dai
lavoratori
sul fondo pensioni del settore pubblico, richiesto come contropartita
dal
Fmi. Questo pretende la riforma del sistema previdenziale e
pensionistico
dei funzionari pubblici che, a suo avviso, hanno sempre goduto di un
“eccesso
di generosità”. Le misure recentemente riproposte ma più volte
rifiutate
dal Congresso riguardano anche l’aumento dell’età pensionabile ed
il pagamento diretto da parte dei lavoratori delle quote previdenziali.
Inoltre è richiesto lo sviluppo dei fondi pensione privati per
“alleggerire”
l’attuale sistema per ripartizione: a quella data solo il 17% dei
salariati
con alto reddito si rivolgevano ad un fondo pensione complementare.
Ancora una volta il non meglio precisato settore
pubblico, che da solo partecipa come visto alla formazione della metà
del Pil nazionale, rappresenta l’ago della bilancia nell’economia
brasiliana;
questo nel 1995 aveva già ottenuto un consistente aumento dei salari in
netto contrasto con i piani di rigore economico imposti dal Fmi tramite
il presidente Cardoso.
La situazione, in perfetta sintonia con quella
mondiale, non può che proseguire in rapida discesa e nel 1999 il
governatore
dello Stato di Minas Gerais, uno dei più sviluppati, dichiara una
moratoria
unilaterale di tre mesi del suo debito, premessa per evitare una
dichiarazione
di insolvenza e fallimento. Dal canto suo il governatore della Banca
centrale
brasiliana si dimette dopo vari tentativi di contrastare la crisi
federale.
Ovviamente la Borsa di San Paolo subisce una forte perdita, il Real si
svaluta immediatamente del 9% e in breve tempo del 40%, si sgancia dal
Dollaro, fluttua sui mercati; si reintroduce il Selic ovvero il tasso
d’interesse
calcolato giorno per giorno imposto dalla Banca centrale su ordine del
Fmi e riprende la fuga dei capitali all’estero.
Il deficit pubblico esplode. Circa l’80-90%
del bilancio federale e degli Stati è destinato agli stipendi dei
funzionari
e dei dipendenti. Per finanziare i progetti interni le autorità locali
attingono dalle riserve della Banca centrale con tassi sui prestiti che
dal 1998 sono saliti al 49,75%.
I piani del Fmi già dal 1998-99, cioè alcuni
mesi prima dello sganciamento del Real dal Dollaro, prevedevano una
manovra
di austerità per 28 miliardi di dollari del bilancio federale ottenuti
con la riduzione dei salari nel settore pubblico, lo sganciamento dei
salari
dal costo della vita, il licenziamento di funzionari, minimi incentivi
per le dimissioni dei dipendenti pubblici, aumento della disoccupazione
intesa come male necessario, lo smantellamento dei programmi di
intervento
sociale, la riforma del sistema previdenziale, la vendita di beni
pubblici,
il congelamento dei trasferimenti finanziari agli Stati federali e
l’utilizzo
prioritario delle entrate dello Stato, incrementate dall’aumento delle
tasse, per il servizio del debito estero (da una conferenza stampa di
M.
Camdessus, direttore generale del Fmi del 13-11-1998).
In numeri e soldoni la “road map” dei
tagli presentata dal governo brasiliano ma studiata dal Fmi per il
periodo
1999-2001 era così formulata, in miliardi di Reals (“Problèmes Éc.”,
n° 2601/1999): Tagli nelle spese pubbliche discrezionali: nel 1999 di
8,7; nel 2000 di 8,8 e nel 2001 di 9,0 – Riforma strutturale (riduzione
dei salari nella funzione pubblica, ecc.): nel 1999 di 3,5; nel 2000 di
9,2 e nel 2001 di 12,6 – Riforma del Sistema di Sicurezza sociale
(pensioni)
nel 1999 di 2,6; nel 2000 di 4,3; nel 2001 di 4,4 – Aumento delle
imposte:
nel 1999 di 13,3; nel 2000 di 11,4 e nel 2001 di 12,0.
Il totale è di 28 miliardi di Reals nel 1999,
equivalenti al 2,8% del Pil del 1998; di 34 miliardi nel 2000, ovvero
3,5%
del Pil e di 38 miliardi di reals nel 2001, 4,5% del Pil del 1998. Tra
riduzione dei salari tagli alle spese e aumento delle tasse la ricetta
è veramente dimagrante!
Le autorità americane, con l’obiettivo
strategico di indebolire il Mercosur a favore del Nafta e del prossimo
Alca, zona di libero scambio delle Americhe, che dovrebbe attivarsi dal
2005, puntano a scardinare la base industriale del Brasile, ad
assicurarsi
il controllo del suo mercato interno e ad accelerare il programma di
privatizzazioni
in corso. Il Selic raggiungeva nel febbraio 1999 quota 39% mentre i
prestiti
delle banche commerciali arrivavano a tassi dal 50 al 90% producendo
fallimenti
a catena di numerose imprese nell’impossibilità di rimborsare i crediti
ottenuti mentre i prestiti alle famiglie erano concessi dal 150 al
200%.
La conseguenza fu che molte multinazionali, specialmente nel campo
automobilistico
(il Brasile, con una produzione annua nel 1996 di 1,8 milioni di
vetture,
era il decimo costruttore mondiale), annunciarono drastiche riduzioni
di
attività e licenziamenti di massa. Per un non breve periodo l’indice
di disoccupazione si attestò al 20%. Nel 2000 solo il 45% della forza
lavoro è utilizzata nell’economia ufficiale mentre il restante 55% è
attivo nell’economia sommersa.
La svalutazione del Real ha anche significato
la riduzione del valore contabile delle imprese locali che ora si
possono
acquistare effettivamente a “prezzi stracciati”.
La situazione però non migliora e, allo scopo
di evitare il peggio sul piano economico internazionale e di quello
sociale
interno, intervengono le autorità finanziarie mondiali con un primo
prestito
urgente di 15,2 miliardi di dollari per il periodo settembre 2001 e
dicembre
2002 ed un secondo aiuto di 30 miliardi di dollari, di cui 6 miliardi
entro
l’ottobre 2002 e i restanti 24 miliardi di dollari a partire dal
gennaio
2003.
Occorre precisare che il Brasile, essendo
una valenza industriale non trascurabile, è dotato anche di un adeguato
e considerevole sistema finanziario dove il totale dei crediti bancari
depositati dal settore privato rappresenta una cifra pari al 28% del
Pil;
questi però preferiscono rivolgersi ad investimenti finanziari,
soprattutto
sostenendo il debito statale, piuttosto che soddisfare le esigenze
delle
imprese locali, come invece richiesto più volte dal Fmi, o nei momenti
di crisi acuta spostarsi sui mercati esteri.
Nel 1995 il debito estero era il 26% del Pil,
pari al totale dei crediti bancari privati stimati in 95 miliardi di
dollari,
ma sale al 42% nel 2001. L’indebitamento estero delle banche
commerciali
nel 2001 è di circa 40 miliardi di dollari mentre l’indebitamento
estero
del settore non finanziario privato è raddoppiato dal 1995 salendo a
100
miliardi di dollari sempre nel 2001.
Il reddito per abitante indicato in Real a
valore costante del 2001 (prima cifra) e il tasso della crescita del
Pil
reale in percentuale (seconda cifra) è così espressa in forma numerica
da una tabella redatta dalla Banca centrale brasiliana per il periodo
1990-2001
(in “Problèmes Éc.”, n. 2780/2002):
Nonostante questo continuo e frequente altalenare tra crisi e riprese, le imprese brasiliane hanno sempre goduto di un buon trattamento dai creditori i quali fanno anche affidamento come ottime garanzie dei loro investimenti sulle enormi ricchezze minerarie e naturali e alle forti riserve valutarie della Banca centrale.1990 6100 - 4% 1996 6650 + 2,8%
1991 6050 + 1% 1997 6750 + 3,2%
1992 5900 - 0,8% 1998 6700 + 0,2%
1993 6150 + 5% 1999 6650 + 1%
1994 6400 + 6% 2000 6850 + 4%
1995 6550 + 4,2% 2001 6870 + 1,5%
Piccola nota in appendice:
Alcol o Petrolio per dissetare il Capitale?
Nato nel 1975, come risposta “autarchica”
all’aumento del prezzo del greggio, questo programma tiene conto
dell’esperienza
fatta durante la crisi negli anni ‘30 quando già si miscelava alcol
alla benzina in rapporto di 1 a 4, con la costruzione di motori
appositamente
progettati, distillerie e stazioni di rifornimento e forti incentivi
agli
acquirenti di vetture così attrezzate.
Il costo di produzione dell’alcol è un
terzo rispetto quello del petrolio (ogni tonnellata di vegetale ha un
potenziale
energetico equivalente a 1,2 barili di petrolio), è una fonte
“rinnovabile”
(così dicono...), rilascia pochissimi residui da combustione
nell’atmosfera
a fronte di quelli della benzina. Inoltre le piantagioni di canna,
attraverso
la fotosintesi, assorbono oltre un quinto di tutto il carbonio
rilasciato
nell’atmosfera dal petrolio consumato nel paese, equivalente oggi ad
una riduzione di 39 milioni di tonnellate di CO2.
Tutto faceva pensare ad un affare miracoloso
considerando anche i benefici collaterali poiché dalla lavorazione di
una tonnellata di canna, oltre allo zucchero, ai liquori alcolici ed
altre
sostanze alimentari, si ricavano fino a 60 litri di alcol, dai 300 ai
500
chilogrammi di scorze combustibili per alimentare le caldaie delle
distillerie,
fertilizzanti ed altri derivati.
La prima vettura ad alcol prodotta in Brasile
è stata la “Fiat 147” nel 1979 (prima erano motori adattati).
Inizialmente
è andata a sostituire il parco auto governativo ma si espanse, grazie
agli incentivi economici, al grande pubblico raggiungendo fino al 66%
di
tutto il circolante automobilistico del paese. In seguito alla
riduzione
del prezzo del petrolio, alle inferiori prestazioni dei motori ad alcol
e alla riduzione degli incentivi la produzione di vetture crollò: il
94%
delle nuove immatricolazioni nel 1984 erano di vetture ad alcol,
scesero
al 63% nel 1988, al 10% nel 1990 e solo all’1% nel 2000. Di conseguenza
tutta la catena produttiva connessa si inceppò determinando fallimenti
a cascata e forti perdite economiche che si andarono ad aggiungere alle
altre di tutta l’economia brasiliana. Gli “automobilisti” alla fine
si trovarono con automobili inutilizzabili ed invendibili.
Il Proalcol sembrava un programma da dimenticare
senza rimpianti, ma è stato recentemente ripescato e modificato,
secondo
la intermittente ipocrisia “ecologica” capitalista, ed ora lo si
rilancia
pensando di estendere le piantagioni e gli impianti correlati per
arrivare,
dalla produzione attuale annuale di 16 miliardi di litri di alcol,
equivalenti
a 84 milioni di barili di petrolio, a produrre a pieno regime
combustibile
equivalente a 600.000 barili di greggio al giorno.
Nel “Vertice mondiale sullo Sviluppo sostenibile”
di Johannesburg nel 2002, in cui si discusse di “capitalismo possibile
e dal volto umano”, tra i tanti argomenti in agenda si ripresero i
precedenti
di Kyoto sul clima, meglio noti come “il commercio delle emissioni di
CO2”. In sintesi si tratta della possibilità di finanziare “tecnologie
pulite” nei paesi in via di sviluppo in cambio per il paese donatore
di conteggiare l’investimento fatto all’estero in riduzione delle
emissioni
di inquinanti in patria. Una specie di scambio: con i miei soldi riduco
le emissioni all’estero ma è come se fossero fatte in casa mia.
Secondo questo principio la Germania finanzia
il nuovo progetto Proalcol in Brasile con 32 milioni di dollari e come
contropartita acquisisce un “credito” per l’imissione nell’atmosfera
sopra casa sua di ben 710 mila tonnellate di CO2 all’anno. Certamente
la cifra risparmiata per gli adeguamenti dei suoi impianti o per il
sostegno
sociale per la riduzione della produzione è compatibile con quella
stanziata
per il Proalcol. Inoltre in questo modo i “verdi” tedeschi, puntello
dell’attuale governo, si sentono appagati per la grande vittoria
ambientalista
conseguita e possono ancora ricevere sussidi per “migliorare il mondo
da affidare ai nostri figli”.
Ma, poiché gli affari son sempre affari,
l’industria automobilistica tedesca si è ritagliata una cospicua fetta
del nuovo mercato brasiliano puntando con i nuovi brevetti al mercato
giapponese,
che prevede già ora la miscelazione al 5% della benzina con alcol, a
quello
indiano e a quello cinese. Questo in particolare dichiara di tendere,
in
un prossimo futuro, ad utilizzare l’alcol per tutti i veicoli
circolanti.
In questo gigantesco mercato, concorrente
a quello dei petrolieri e di chi sta attualmente occupando militarmente
il Medioriente, il Brasile nel 2002 ha già esportato 600 milioni di
litri
di alcol e la previsione per il 2003 è il raddoppio per giungere nel
giro
di pochi anni a quota 70 miliardi (dati tratti da “Volontari per lo
sviluppo”,
dicembre 2002).
Chi legga oggi i tre interventi che Carlo
Liebknecht pronunciò al Reichstag, il parlamento tedesco, il 18, 19 e
26 aprile del 1913, novanta anni fa, non può non restare impressionato
dall’attualità della spietata critica al militarismo borghese.
In quell’anno lo Stato tedesco aveva
deciso di aumentare ulteriormente le spese militari. L’ala sinistra del
Partito Socialdemocratico Tedesco, di cui Liebknecht era uno degli
esponenti
più attivi, era arrivata ad elaborare, in collaborazione con le
frazioni
di sinistra degli altri partiti socialisti d’Europa, delle posizioni
ben precise sull’opposizione alla guerra. Si era convinti che solo il
proletariato, guidato dal suo Partito, avrebbe potuto impedire la
guerra
facendo pesare sui governi borghesi la minaccia della sua opposizione
organizzata.
Liebknecht parla di fronte ai rappresentanti
delle classi dominanti, per affermare dalla tribuna del loro
Parlamento
la capacità e il diritto del partito della classe
operaia
ad intervenire nel dibattito politico e per denegare e svergognare, sul
piano della denuncia e della elaborazione di dottrina, le menzogne e le
truffe borghesi. Liebknecht dimostra così, davanti a tutte le classi,
la fallacia del patriottismo borghese, la corruzione che regna tra i
maggiori
esponenti della borghesia, la bramosia di profitto dei capitalisti che
non conosce frontiere e porta le industrie tedesche a rifornire di armi
il tradizionale nemico francese e la Russia dello Zar. Dimostra
all’evidenza
che non è solo il proletariato classe di “senza patria”, ma lo è
pure il capitale, che usa la demagogia patriottica solanto per
ingannare
i diseredati, con tutto il corteggio di xenofobia, razzismo ecc. Come
non
pensare oggi all’Iraq di Saddam Hussein, foraggiato e armato dagli
Stati
Uniti, poi, dagli stessi Stati Uniti combattuto e “liberato” e, domani,
probabilmente, di nuovo armato...
La guerra in regime capitalistico fa parte
del processo produttivo, è necessaria come mezzo di distruzione di
merci,
compresa la merce forza lavoro. Al di là di ogni valutazione di
vantaggio
militare-strategico l’economia capitalistica ricerca la guerra per
poter
superare i periodi di crisi del processo di accumulazione: per far
soldi
subito.
Nel decennio che precedette e negli anni
della Prima Guerra mondiale il comunismo rivoluzionario di sinistra
affinò
la sua critica della guerra imperialista fino a giungere alla chiarezza
cristallina delle prospettive e della azione raggiunta dai Bolscevichi
e dalla Sinistra Comunista d’Italia. Già nel 1912, al Congresso di
Chemnitz,
Carlo Liebknecht aveva dichiarato, parlando dinanzi ai suoi compagni:
«Se
vogliamo la pace dei popoli, dobbiamo preparare la guerra, la lotta di
classe, condurla ed alimentarla sempre più sul piano internazionale».
Elementi programmatici che segnano il decadere
delle illusioni della Seconda Internazionale e sui quali si fonderà la
Terza, nel 1919, dopo l’esperienza tragica della Grande Guerra, sono
i seguenti. Il militarismo non è che un aspetto, fra i tanti, della
crisi
senile del capitalismo imperialista. Il grande capitale, che fomenta il
militarismo, non può non informare di sé tutta la società borghese e
piegare ai suoi interessi le istituzioni e i governi borghesi. Il
militarismo
imperialista non può quindi esser trattenuto nei sui nefasti
svolgimenti
se non con la distruzione rivoluzionaria del capitalismo. I grandi
mezzi
a disposizione dei Konzerne facilmente volgeranno a loro vantaggio
qualsiasi
maggioranza parlamentare. Sarà sempre lo Stato borghese ad ubbidire al
capitale, al grande capitale, e mai il contrario. La statizzazione
della
industria degli armamenti, quindi, non modificherebbe in nulla delle
catastrofiche
concause, proprie ed ineliminabili, del vigente sistema di produzione,
delle quali la diffusa corruzione e la cosiddetta disonestà sono
effetto
e non causa.
Ribadire questa aspra dialettica, originaria
del marxismo autentico, e trarne tutte le conclusioni è il compito che
ci attende nei prossimi anni.
Carlo Liebknecht
Tre interventi al Reichstag
18, 19, 26 aprile 1913.
I
[...] Signori, passo all’argomento vero e
proprio del mio intervento.
In un’epoca in cui sulla “Kreuz-Zeitung”
un consigliere di governo ha potuto scrivere «Signore, dacci di nuovo
la guerra!», in cui la “Konservative Korrespondenz” ha potuto scrivere
«Una guerra ci andrebbe proprio bene!», in cui il signor von der Goltz
ha potuto dire «Se finalmente scoppiasse!», in un’epoca che con
l’incessante
incremento degli armamenti invita all’idea pericolosa della guerra
preventiva,
in un’epoca in cui il generale von der Goltz ha dichiarato a Potsdam,
in una delle celebrazioni per Yorck, «Non abbiamo bisogno di
moralisti!»,
Signori, in una simile epoca è straordinariamente interessante
illuminare
un settore che sinora non è quasi mai stato illuminato, mettendo così
a nudo una delle radici del pericolo di guerra che minacciano i popoli
europei e in modo specifico anche il popolo tedesco. Mi voglio occupare
dei maneggi e delle vie occulte dei nostri fornitori bellici.
Certo, abbiamo già avuto ripetutamente a
che fare con i fornitori di materiale bellico. È noto come il Reich
tedesco
sia stato sistematicamente gabbato da una delle principali ditte
fornitrici
di materiale bellico in merito alle piastre corazzate; è noto come sia
stata alla fine composta una violenta battaglia che infuriò un tempo
fra
due grandi ditte renane, con la spartizione del bottino.
Lo scorso lunedì il “Vorwärts” è stato
in grado di pubblicare – ad illustrazione di questa attività comune
degli interessi bellici a beneficio del popolo tedesco (naturalmente,
si
considerano essi soli il popolo tedesco) – alcuni documenti dai quali
risulta come in Germania esista un accordo di cartello tra i diversi
fornitori
di materiale per la marina, che si tengono a vicenda sotto stretto
controllo
e che in certo qual modo si garantiscono l’un l’altro il profitto.
Nel “Vorwärts” sono stati pubblicati dei formulari, le schede di
comunicazione
impiegate nel movimento d’affari di questa sana società. È prodotta
nel “Vorwärts” la prova documentaria che un vampiro vive in grembo
al popolo tedesco.
Signori, questo è un lato della questione.
Ed ora passiamo al patriottismo. Per la socialdemocrazia è un fatto
arcinoto
che il capitale non ha patria. Non abbiamo mai dubitato che il capitale
fosse senza patria, e tanto più senza patria quanto più affetta
patriottismo.
Non c’è bisogno di prove. È un fatto in genere connaturato alla stessa
unione personale del capitale sul piano internazionale. Connaturato
inoltre
all’assoluta mancanza di scrupoli che deriva dal bisogno di profitti
del capitale, che trae i profitti là dove può ottenerli.
Forse non ho molto di nuovo da dire su questa
mancanza di patria dell’industria degli armamenti, perché la cosa
peggiore
in questa mancanza di patria, in questo perfetto apatriottismo, è che
questi fornitori di materiale bellico inviano le loro forniture con
assoluta
sistematicità all’estero, ovunque, indifferentemente dove siano meglio
pagate, senza curarsi se poi le armi colà inviate verranno impiegate
contro
l’esercito tedesco.
Il mio amico Südekum ha illustrato qui recentemente
un documento particolarmente interessante sotto il profilo della
mancanza
di patria di questo capitale “patriottico”. Egli ha riferito, dal testo
del signor Martin, dei fatti sulla situazione alle Dillinger Werke che
sinora, a quanto mi risulta, nessuno ha confutato. La Dillinger è di
proprietà
degli eredi Stumm, ciò significa innanzitutto del signor tenente
generale
von Schubert, un signore della camera dei deputati prussiana. Come ora
è certo, questa fabbrica è alimentata in gran parte da capitale
francese
ed è inoltre fortemente francesizzata tanto che nelle riunioni generali
della fabbrica è largamente usata la lingua francese. Ciò è
straordinariamente
istruttivo! Si pensi: “Il nemico ereditario”! Si pensi al “grande
pericolo” che scoppi una guerra tra la Germania e la Francia: e intanto
capitalisti francesi siedono in questa società tedesca, vengono
iniziati
a tutti i segreti degli armamenti tedeschi e, insieme a tutti i
capitalisti
di nazionalità tedesca, fanno in modo che al popolo tedesco ed al Reich
tedesco venga spillato tantissimo danaro per gli armamenti. Signori,
questo
prova una commovente solidarietà internazionale del capitale. Questa
solidarietà
del capitale supera ogni barriera di nazionalità.
Ma andiamo avanti. Forse si riuscirà una
buona volta a consegnare al ministro della guerra i documenti contro un
certo signor Schöpp. Gli posso fornire il numero della pratica:
Landgericht
III, Berlino, B 5, J. 675/10. In questi documenti egli troverà
un’infinità
di materiale interessante su una delle maggiori fabbriche di armi
tedesche,
precisamente sulla Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik. Tra l’altro
nei documenti si trova copia di una lettera inviata ad un agente di
questa
società a Parigi, a Parigi!, con l’indicazione segreta 8236. La lettera
contiene quanto segue: «Vi abbiamo appena telegrafato: “Preghiamo
attendere
a Parigi nostra lettera odierna”. Motivo del dispaccio era che
desidereremmo
che comparisse in uno dei giornali francesi più letti, possibilmente
nel
“Figaro”, un articolo che dica quanto segue: “L’amministrazione
francese dell’esercito è decisa ad accelerare in modo rilevante
l’ammodernamento
dell’esercito con mitragliatrici e ad ordinarne una quantità doppia
di quella in un prima tempo prevista».
Questo è il tenore dell’articolo destinato
a comparire nel “Figaro,” in uno dei giornali francesi più letti,
dell’articolo ispirato dalla Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik. La
lettera conclude: «La preghiamo di fare il possibile perché simile
articolo
venga accolto». La lettera è firmata: “Deutsche Munitions- und
Waffenfabrik,
von Gontard, Kosengarten”. Questa lettera dimostra che gli interessati
agli armamenti in Germania, che le nostre grandi fabbriche tedesche di
armi, per lo meno questa fabbrica – essa è forse, in questa faccenda,
non posso dire una mosca bianca, dirò una colomba nera – che per lo
meno questa fabbrica non ha timore a diffondere su giornali francesi
notizie
false, che dovrebbero annunziare un programma francese di incremento
dell’esercito.
A quale scopo? Per salvare la patria? Signori, a quale scopo? Per
riuscire
così a creare in Germania la condizione di spirito per ottenere
commesse
e guadagnare bel danaro, perché il danaro risuoni nelle casse. Ciò è
oltremodo significativo! Credo che mai si sia avuta una simile prova
del
patriottismo del capitale tedesco degli armamenti.
Ma possiamo sperare che la Waffen- und Munitionsfabrik
rappresenti una pecora nera? Signori, chi di speranza vive di speranza
muore. Mi vedo purtroppo costretto a distruggere in voi queste
speranze,
prestandovi univoche prove sul fatto che la maggiore fabbrica tedesca
di
armi funziona grazie a mene che sono inconciliabili persino con quel
tipo
di morale che, forse, come pensavo di dover dedurre dalle interruzioni
di poc’anzi, potrebbe ancora incontrare l’approvazione di certi partiti
di questa camera. Signori, sono curioso di vedere se approverete quanto
sto per dirvi.
La presidenza dell’acciaieria Friedrich
Krupp, di Essen sulla Ruhr, manteneva a Berlino – ora lo posso dire –
sino a poche settimane or sono un agente di nome Brandt, ex
artificiere,
il quale aveva il compito di avvicinare i funzionari di segreteria
delle
autorità dell’esercito e della marina e di corromperli, per ottenere
per loro mezzo notizie di documenti segreti il cui contenuto
interessasse
la ditta. Ciò che loro interessa sono, in modo particolare, le
intenzioni
delle autorità in materia di armamenti, dati sui programmi delle
autorità
nonché dei concorrenti, risultati di esperimenti; soprattutto, però,
i prezzi che le altre fabbriche chiedono e che sono loro concessi.
All’uopo
sono stati posti a disposizione del signor Brandt ingenti mezzi.
La nota ditta sfrutta sistematicamente il
suo potere finanziario per indurre funzionari prussiani piccoli e
grossi
a rivelare segreti militari. Questa situazione dura da anni. I
resoconti
segreti stanno – o stavano – coscienziosamente accatastati nei segreti
scrigni di un certo signor von Dewitz, a Essen.
Quanto vi ho appena detto non si basa su una
semplice comunicazione pervenutami da una qualche parte. Vi dirò,
naturalmente,
che ho dato notizia al ministro della guerra di tutto quanto mi è stato
comunicato. Mi è stato fatto presente in modo particolare che la ditta,
grazie al suo immenso potere finanziario, avrebbe potuto essere in
grado,
qualora si fosse resa nota la notizia prematuramente, di far scomparire
tutti i documenti di prova ed anche delle persone scomode.
In questa occasione il ministro della guerra
ha fatto tutto il suo dovere. Il ministro della guerra è intervenuto e
non soltanto contro dei militari ma anche contro civili. Contro sei o
sette
persone – al momento non posso e non voglio per ora farne i nomi: è
in corso l’istruttoria preliminare, a meno che non sia già stata
conclusa.
Si è intervenuto con notevole energia. Gli interessati sono stati
rinchiusi
nel carcere preventivo. Gente altolocata! Nessun rimprovero quindi si
deve
muovere all’amministrazione militare. L’inchiesta è sostanzialmente
conclusa ed ha confermato punto per punto quanto vi ho qui esposto.
Lo scopo dell’istruttoria non può più
essere pregiudicato: conseguentemente ritengo mio dovere e compito
esporvi
qui questi fatti nell’interesse del popolo tedesco e nell’interesse
della pace europea. Perché le cose stanno così: vedendo come una
Waffen-
und Munitionsfabrik compia manovre del genere della lettera inviata in
Francia che vi ho letta, le si può sicuramente dar credito che avrebbe
il coraggio di fare quello che fa la ditta Krupp. E se la ditta Krupp
fa
quello che noi qui possiamo dare per provato, possiamo essere certi che
non si sentirà imbarazzata a fare le stesse cose che fa la Deutsche
Waffen-
und Munitionsfabrik. Questo è evidente. Tutto bisogna aspettarsi da
imprese
la cui morale e il cui scrupolo sono scesi al livello sotto zero – non
si può dire a zero – come è stato qui dimostrato, vuoi nel caso della
Waffen- und Munitionsfabrik, vuoi nel caso di Krupp.
Vorrei ora ritornare alla Dillinger. Ecco
quanto vi è da aggiungere. Dillinger significa von Schubert. Il signor
von Schubert uguale a Stumm. Stumm uguale a “Post”, questo è importante
da sapere. Il giornale “Post”! il giornale “Post” è ben noto.
Tutti conoscono i “Postesel” [asini del Post, cosiddetti i suoi
lettori].
Dunque: Dillinger uguale a “Post,” questo è importante. Non fu “Die
Post” a riprodurre nel 1911 quell’articolo, in occasione dell’affare
del Marocco, per indurre il governo tedesco ad una “politica più
attiva”?
Non fu “Die Post” a scrivere l’articolo “Guillaume le timide, le
valeureux poltron”? Fu “Die Post”, vi prego di osservare! E fu “Die
Post”, per tacere per il momento di altre cose, a far da portavoce –
come posso dire – alla cricca dello stato maggiore ai cui piedi sta
oggi
il ministro della guerra. E non fu sempre “Die Post” a scoprire
improvvisamente,
allorché la pace “minacciava” – per usare il linguaggio degli
interessati
agli armamenti – di insediarsi nei Balcani, si era alla fine di
febbraio,
in un articolo molto allusivo, che nel momento in cui ad est si
avvicinava
la pace, ad ovest si sviluppava un nuovo e più pericoloso focolaio? E
non è “Die Post” che ha sfruttato particolarmente bene gli avvenimenti
di Nancy, battendo la sua spada patriottica sul suo scudo patriottico,
alla maniera degli antichi germani! [a Nancy (e a Besançon) il 14
aprile
1913 studenti nazionalisti francesi avevano inscenato una
manifestazione
di ostilità contro una comitiva di turisti tedeschi, episodi che la
stampa
tedesca ingigantì al di là della loro obiettiva portata]. “Die Post”
ha pubblicato gli articoli provocatori sul “nuovo e pericoloso
focolaio”,
gli avvenimenti di Nancy e – come ho appena detto – ha agitato
violentemente
lo scudo con tanto fracasso come accade solo in una scena teatrale. In
verità però – quale delusione! – batteva soltanto sul portamonete
e questo risuonò come se fosse entrato in scena il patriottismo.
Chi intende contestare il nesso tra questo
strepito sulla stampa a proposito degli avvenimenti di Nancy e gli
interessi
al profitto del capitale degli armamenti, questo strepito su
avvenimenti,
verificatisi talvolta anche in passato, avvenimenti che naturalmente
sono
stati deplorati dappertutto, anche in Francia? Questi fatti vengono
sistematicamente
sfruttati da una certa stampa per inasprire sempre più il contrasto tra
Germania e Francia, per creare artificiosamente un’atmosfera
favorevole,
che minaccia di estinguersi, per i grandiosi progetti di bilancio
militare
e gli immensi guadagni che gli industriali degli armamenti – gli
interessati
agli armamenti – vogliono ottenere in occasione dell’attuale progetto
di bilancio militare. Signori, queste sono cose evidentissime. Il caso
di Nancy e di Besançon, con tutti i suoi contorni, è giunto al momento
giusto per questa stampa, allorché si profilava ancora una volta la
minaccia
di uno sviluppo pacifico, si profilava, cioè, una minaccia per il
portamonete
dei signori interessati agli armamenti.
Quanto ho detto riguarda “Die Post”. Conosciamo
però anche la stretta connessione tra altri settori del capitale degli
armamenti ed altri giornali in Germania che da tempo immemorabile sono
quelli che più gridano a favore di una soluzione bellica e contro una
soluzione pacifica delle difficoltà europee. Mi basta ricordare la
“Rheinisch-Westfälische
Zeitung”, organo che porta sulla fronte il marchio della volontà di
profitto degli interessati agli armamenti. E che cosa questo significhi
ve l’ho spiegato con alcuni esempi.
Signori, si possono trarre sì delle conclusioni.
Tutti sanno come viene fatta, ad esempio, la politica coloniale. Uno
dei
metodi più noti consiste nel creare provocazioni di carattere
politico-coloniale
per mezzo di agenti segreti e di spie di ogni specie nel paese che si
vuole
conquistare in chiave di politica coloniale. Non voglio spingermi a
tanto.
Non intendo assolutamente formulare il sospetto di una diretta
partecipazione
anche di agenti tedeschi a certi spiacevoli avvenimenti in Francia, non
giungo a tanto; vi dico soltanto questo: non si deve escludere alcun
sospetto,
la mancanza di scrupoli nello sfruttare questi avvenimenti ce ne dà
diritto.
Noi riteniamo questi superpatrioti, questi superpatriottardi – si può
ben dire – capaci di tutto, anche di questo.
Signori, riflettete soltanto su questo: si
tratta degli stessi circoli che tramutano in oro la discordia tra i
popoli.
Che siano in Germania o in Francia hanno gli stessi interessi.
L’aumento
degli armamenti in Francia non influisce sui concorrenti tedeschi nella
misura in cui è solita influire l’aumento di un’altra industria
concorrente;
questi “concorrenti” lavorano mano nella mano. I nostri Krupp, Stumm
e compagni, Waffen- und Munitionsfabrik, non possono augurarsi niente
di
meglio che un vasto riarmo in Francia, in quanto anch’essi otterranno
poi abbondante lavoro e guadagneranno tanto denaro.
Si tratta della stessa gente per la quale
seminare e aizzare la discordia tra i popoli, indifferentemente per
quale
motivo, significa guadagnare denaro. È la stessa gente sui cui profitti
non influisce affatto un conflitto tra popoli e il suo esito, per la
quale
l’ammontare del profitto è semplicemente proporzionale al grado di
discordia,
di odio tra i diversi popoli.
Signori, questo è l’essenziale per capire
la psicologia di questo tipo di capitale e questo è ciò che serve per
capire come questo capitale possa operare provocatoriamente in Francia
e in Germania, indipendentemente dal fatto che trovi impiego in Francia
o in Germania. I loro interessi comuni ne saranno sempre alimentati, si
ottengono profitti in qualsiasi circostanza.
Sono certo che le ditte francesi, poniamo
la Schneider-Creusot, non sono più ammodo delle ditte tedesche, ed è
estremamente probabile che la stampa provocatoria francese, che di
fatto
non è meno perniciosa della nostra, dipenda da questi interessi degli
armamenti al pari della nostra peggiore stampa provocatoria in
Germania.
Signori, bisognerà attenersi a tutti questi fatti, a queste
considerazioni
ai fini degli ulteriori importanti dibattiti che dovremo tenere in
questa
camera. Sino ad oggi il governo del Reich mantiene rapporti con queste
imprese. D’altro canto sino ad oggi non era al corrente di queste cose:
sicuramente – posso ben dirlo – non ne era al corrente. Ma il ministro
della guerra ci ha detto che al ministero della guerra si leggono
attentamente
i giornali. Se questo è vero, la lettera della Deutsche Waffen- und
Munitionsfabrik
non poteva sfuggire al ministro della guerra, se questi avesse fatto il
suo dovere: infatti era già stata pubblicata sul “Vorwärts” e
inspiegabilmente
ignorata, allora. Attendo chiarimenti al riguardo.
Signori, l’amministrazione militare non
si è limitata sinora a dare a questi industriali privati pingui
commesse
che consentono i giganteschi profitti di queste istituzioni, nate per
fabbricare
milioni, ma, come ha potuto stabilire lo scorso anno, è arrivata al
punto
di limitare l’attività degli stabilimenti statali, delle fabbriche
statali
dì armi, per poter dare determinate commesse all’industria privata,
in quanto la conservazione di questa è considerata indispensabile
nell’interesse
dell’amministrazione bellica. Questa è una vera e propria sovvenzione
statale, sulla quale il Reichstag non è stato consultato. Ebbi a
parlarne
una volta, ma senza fare diretti rimproveri, al ministro della guerra
in
quanto, nella misura in cui questa industria è in gran parte privata,
di fatto esiste, in un certo grado, uno stato di necessità. Non
insisterò,
in questa sede, sulla questione; una cosa è tuttavia evidente: bisogna
smetterla con questo sistema! È assolutamente necessario che le mani
del
Reich tedesco – se mi è consentita questa metafora – restino pulite.
È necessario che il governo non abbia più rapporti di nessun genere con
ditte che, come è stato provato, praticano questo genere di intrighi.
Due giorni or sono, se non sbaglio, nella
commissione del bilancio, il ministro della guerra, avendolo io
interpellato,
a causa di due poveri diavoli, sulla disonestà dei fornitori di
materiale
bellico, disonestà che egli naturalmente ha riconosciuto – in questo
senso non posso rivolgergli il minimo rimprovero – ha dichiarato che
da tempo è prassi strettamente osservata dell’amministrazione militare
di rifiutare ogni contatto con ditte delle quali cui si fosse provato
il
ricorso anche una sola volta a questi intrighi. Signori, se ne deduce
per
lo meno che la ditta Krupp e la Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik –
e chissà quante altre? – non dovranno più ottenere commesse sui futuri
bilanci militari. È dovere del Reichstag tedesco, se tiene all’onestà,
provvedere in questo senso, ed è un dovere per l’amministrazione
militare
tedesca se tiene all’onestà.
Signori, noi non facciamo pressioni per una
radicale trasformazione del sistema soltanto per motivi di correttezza
pecuniaria e di onestà. Costi quel che costi dev’essere attuata al più
presto la statizzazione dell’intera industria degli armamenti, anche
per il suo bene, perché soltanto in tal modo sarà possibile eliminare
una classe di interessati la cui esistenza rappresenta per l’intero
mondo
un costante pericolo di guerra e per estirpare così una delle radici
della
follia degli armamenti ed una delle radici delle discordie tra i
popoli.
Signori, il ministro della guerra ieri mi ha
risposto dapprima con vuote chiacchiere di economia politica, sulle
quali
non ho motivo di addentrarmi più dettagliatamente. Poi ha lasciato
intendere
che nel caso Krupp, che stiamo discutendo, non erano stati svelati
segreti
di alcun tipo.
Signori, sono stati svelati dei segreti. Ciò
dovrebbe essere noto al ministro della guerra. Egli dovrebbe anche
sapere
e distinguere se si tratta della rivelazione di segreti militari ad uno
Stato straniero o della rivelazione di segreti militari ad un privato.
Rivelazioni di quest’ultimo tipo si sono
indubbiamente avute, su istigazione e corruzione di impiegati della
Krupp.
Questo è già stato provato. La ditta Krupp ha nei suoi schedari segreti
a Essen una gran copia di rapporti segreti su cose di ogni genere, che
in parte riguardano soltanto la concorrenza, in parte, tuttavia, anche
i programmi, nuovi programmi che l’amministrazione militare e i
concorrenti
vogliono introdurre. Questi rapporti segreti in gran parte sono stati
sequestrati.
Signori, ho in mia mano un gran numero di
copie di questi rapporti segreti. Non intendo metterli a disposizione
della
camera in questa fase. Ho dimostrato al ministro della guerra la
massima
lealtà rimettendogli alcune delle carte pervenutemi, nella forma in cui
mi erano arrivate.
Il ministro della guerra dice che non sono
stati svelati segreti. La ditta Krupp, tuttavia, ha trattato l’intera
faccenda con la massima segretezza, con la massima riservatezza. La
ditta
Krupp ha consegnato questi rapporti segreti ad una persona del tutto
particolare,
che aveva il compito particolare di conservarli segretamente come
segreti.
Il ministro della guerra dice che non è provato
che funzionari superiori della Krupp abbiano avuto a che fare nella
faccenda.
Signori, siamo abituati a vedere usato il metodo di esporre i pesci
piccoli,
di impiccare i ladri piccoli e di lasciar scappare i grossi: metodo
molto
cavalleresco! Ma il signor von Dewitz di Essen appartiene ai pesci
piccoli
della ditta Krupp? Egli è stato il custode dell’intera faccenda; nel
suo armadio il giudice istruttore di Berlino ha sequestrato i rapporti
segreti. Ma è sui pesci piccoli che si vorrebbe scaricare tutto, perché
la ditta Krupp rimanga pulita, perché il Reich possa continuare a darle
commesse, perché venga salvato l’onore del Reich tedesco che sembra
singolarmente imparentato con l’onore della ditta Krupp.
Signori, naturalmente non mi aspettavo che
il ministro della guerra mi ringraziasse. Ma trovo un po’ strana che
nelle sue dichiarazioni il ministro della guerra ritenga di dover
ringraziare
ancora la ditta Krupp per le sue grandi realizzazioni patriottiche.
Forse
il ministro della guerra, che attualmente deve partecipare con una
certa
frequenza ai festeggiamenti patriottici per il centenario, vi è stato
indotto per abitudine. Senza Krupp non si possono certo cantare tutti
gli
inni patriottici in gloria della Germania, quali vengono cantati in
tutte
le associazioni combattentistiche, nella Lega della giovane Germania,
in
tutti i circoli militari ecc. Se crolla la fama di Krupp, il nostro
patentato
patriottismo subisce un fiero colpo.
Basta solo osservare come prende posizione
la stampa di oggi. La “Deutsche Tageszeitung” registra gli avvenimenti
di ieri con la nota: “Una grave offesa – non so, forse addirittura
diffamazione – per la ditta Krupp”. Questo è il modo in cui... (Il
deputato Oertel si alza dal suo posto. Grande insistente ilarità).
Se lo lasci dire almeno una volta! (Deputato Oertel: “Non è vero!”).
Glielo dimostrerò subito.
Vicepresidente dottor Paasche: La prego,
onorevole, niente discussioni private!
Liebknecht: Signori, la “Tägliche
Rundschau” reagisce, ad esempio, agli avvenimenti di ieri nel modo più
riprovevole, schernendo in un trafiletto, alquanto insolentemente,
quanto
ieri ho qui esposto, riportando invece ampiamente e vistosamente le
dichiarazioni
giustificative della Krupp. Si tratta anche qui di un organo che non sa
accontentarsi di schiamazzi patriottici, un organo manovrato – è certo
come due più due fa quattro – anche senza che gli interessati forse
lo sappiano, attraverso i canali segreti degli interessi degli
armamenti.
Signori, il ministro della guerra ha sollevato
il problema di quanto noi in Germania dobbiamo alla ditta Krupp. Io
rovescio
la domanda: “che cosa deve la ditta Krupp al popolo tedesco?” Il
ministro
della guerra si sarebbe dovuto domandare, una volta tanto, se le
prestazioni
della ditta Krupp non siano state pagate proprio bene, e se le
centinaia
di milioni, che si trovano ora nelle mani di questa ditta, non siano
state
prelevate dalle tasche dei più poveri tra i poveri del popolo tedesco.
La ditta Krupp dovrebbe ringraziare il popolo tedesco per aver lasciato
fiorire, crescere e prosperare tanto questa ditta, anche se per lo più
contro voglia.
La ditta Krupp ditta patriottica! Lei si rammenta
forse, signor ministro della guerra, come il 29 aprile 1868 il signor
Friedrich
Krupp, fabbricante d’acciaio di Essen nel circondario di Duisburg,
avesse
inviato ad un certo Napoleone III di Francia una lettera, pubblicata
nel
noto volume Lettere di patrioti-accattoni tedeschi, nella quale
si diceva: «Incoraggiato dall’interesse che la Vostra sublime Maestà
ha voluto dimostrare per un semplice industriale e per i felici
risultati
dei suoi sforzi e del suo incessante sacrificio, ardisco presentarmi
nuovamente
a Vostra Altezza con la preghiera di volersi degnare di accettare
l’allegato
album. Esso contiene una raccolta di disegni di oggetti diversi
introdotti
nelle mie fabbriche. Confido che particolarmente le ultime quattro
pagine,
che raffigurano i cannoni d’acciaio da me allestiti per diversi
illustri
governi d’Europa, possano richiamare per un attimo l’attenzione di
Vostra Maestà e giustificare il mio ardimento. Con il più profondo
rispetto,
con la massima ammirazione – si potrebbe aggiungere: e con la speranza
di ricevere numerose ordinazioni – sono l’umilissimo devotissimo servo
di Vostra Maestà».
E perché sappiate inoltre, Signori, sotto
quali auspici la ditta Krupp ha avuto così brillanti sviluppi, voglio
leggervi anche la risposta di Napoleone III. Essa dice: «L’imperatore
ha accolto l’album con grande interesse, e Sua Maestà ha dato ordine
di ringraziarvi per questa comunicazione e di farvi sapere che Sua
Maestà
auspica il successo e lo sviluppo di un’industria destinata a rendere
all’umanità considerevoli servigi». Non manca ora che inserire nello
stemma della Krupp un’aureola nella quale inscrivere il nome di
Napoleone
III.
Signori, il ministro non solo si è sentito
in dovere di esprimere il particolare patriottico ringraziamento alla
ditta
Krupp, ma si è spinto sino a muovermi un rabbuffo, per aver io
riportato
la faccenda; dice che non serve ai fini dell’istruttoria.
Signori, se qualcosa ha dimostrato che era
necessario tirar fuori la questione, è il modo in cui il ministro della
guerra mi ha risposto ieri e il fatto che il ministro della guerra ha
ammesso
ieri che quell’inaudita lettera della Deutsche Munitions- und
Waffenfabrik
gli era nota già da due anni e che nondimeno non ha intrapreso nulla
contro
questa ditta, pur rappresentando la lettera, di fatto, perlomeno un
duro
colpo anche per i nervi più solidi dei più forti patrioti degli affari.
Quanto fosse necessario presentare qui questo
materiale lo dimostra tuttavia anche un altro fatto: l’inchiesta,
conclusa
per il fatto principale, è stata ora rivolta contro chi viene
sospettato
di avermi passato le informazioni. Signori, è questo un metodo da lungo
tempo sperimentato in Prussia: quando viene svelato un abuso, si
procede
anche contro quello che lo ha scoperto.
Dal momento che sono stato sentito quale testimone
in un procedimento che deve servire ad accertare, stabilire se si possa
imputare qualcuno di aver trasmesso questo materiale, mi vedo costretto
a procedere anche a mia volta senza riguardo alcuno. Devo del resto
sottolineare
come l’obiettivo dell’istruttoria non possa più essere pregiudicato,
perché tutto il materiale è ormai nelle mani dei giudici, tutto è stato
sequestrato; ora si tratta solo di trovare la definizione giuridica
delle
azioni commesse; gli elementi di fatto sono già agli atti, al sicuro.
Ma naturalmente non poteva essere mio dovere aspettare, per dare queste
informazioni, che il progetto di bilancio militare fosse arrivato a
buon
fine, tanto più che io e tutti i miei amici e qualsiasi persona
avveduta
dopo queste rivelazioni sappiamo, forse più di prima, come in realtà
non esista attualmente pericolo maggiore per la pace europea – devo
continuare
a ripeterlo – dei progetti di bilancio militare francese e tedesco. Ed
il progetto militare tedesco, proprio come quello francese, è
indubbiamente,
in parte assai considerevole, il prodotto dell’opera di sobillazione
“patriottica” di quella spregevole specie di patrioti degli affari
di cui ho parlato.
Signori, è il pubblico interesse che ha dettato
la mia condotta, che mi ha imposto il dovere di svelare le manovre
degli
interessi degli armamenti che rappresentano un pericolo pubblico.
Ieri ho parlato della Deutsche Waffen- und
Munitionsfabrik, delle Dillinger Werke, di Krupp. Il ministro della
guerra
ha preso sotto la sua protezione, al cinquanta per cento o per tre
quarti,
e per di più glorificato Krupp; per quanto riguarda la Waffen- und
Munitionsfabrik
ha ammesso di non aver fatto nulla ed inoltre non ha detto di avere
l’intenzione
di fare qualcosa, e sulla Dillinger ha completamente taciuto.
Non sono certo sulla falsa strada se ne traggo
la conclusione che manca ancora al ministro della guerra l’energia
necessaria
ad intervenire, che sino ad oggi egli non ha ancora assunto con la
sicurezza
auspicabile l’atteggiamento che, a parer mio, non andrebbe neppure
discusso
né in un’amministrazione né in un parlamento che tenessero alla propria
pulizia. D’altro canto la questione è di importanza assai maggiore di
quanto non indichi il nome Krupp o non indichino i nomi Krupp, Waffen-
und Munitionsfabrik, Dillinger.
Ieri all’inizio delle mie considerazioni
ho fatto riferimento al cartello per le piastre corazzate. Vi è noto –
lo sanno anche i muri; siedono qui molti signori che sono al corrente
di
queste cose assai più di noi – che gli interessati agli armamenti sono
generalmente uniti in cartello. È noto inoltre che Krupp rappresenta il
nome di primo piano, la potenza di primo piano nell’industria degli
armamenti.
Se alla ditta Krupp, la più autorevole di tutte queste fabbriche,
avviene
quanto ho qui esposto, quale luce si getta sull’intera industria
tedesca
degli armamenti? Si impone la massima cautela, la diffidenza più
illimitata.
Perché se ciò è avvenuto alla Krupp o alla Waffen- und Munitionsfabrik,
nessuno ci garantisce, anzi, direi quasi, esiste una certa probabilità
che le altre ditte non si comportino in modo sostanzialmente diverso
nelle
loro operazioni, non siano più corrette delle due grandi ditte.
Non mi risulta che il ministro della guerra
abbia tratto questa conclusione generale. Già il caso Dillinger mostra
come il cartello degli interessi degli armamenti non sia un cartello
soltanto
tedesco, ma internazionale. Debbo anche richiamare l’attenzione sul
fatto
che la Krupp, con tutta la sua ditta, fa parte, alla luce del sole, di
un importante cartello in Austria-Ungheria, quindi oltre i confini
della
Germania. Non dovrebbe esservi dubbio che si tratta di una questione
della
massima importanza per il bene della patria.
Che cosa ho dimostrato? Ho provato che la
Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik diffonde sulla stampa estera false
notizie per creare così in Germania la condizione di spirito favorevole
ad un nuovo progetto di bilancio militare. Ho dimostrato che la ditta
Krupp
opera a Essen con la corruzione, con la rivelazione di segreti
militari,
che opera così già da anni, e questo consapevoli per lo meno altissimi
funzionari della ditta e su loro istigazione. Queste sono cose della
massima
importanza che possono indurre il Reichstag a modificare
sostanzialmente
l’atteggiamento tenuto in passato nella questione dei nostri armamenti
e del modo di procacciare i materiali necessari.
Favorire la corruttela – desidero sottolineare
– di funzionari inferiori e superiori dell’amministrazione militare,
come ha fatto la ditta Krupp, non è in realtà un’inezia. Significa
corrompere questi funzionari, significa rendere questi funzionari
doppiamente
più esposti ad eventuali corruzioni anche dall’estero. Questa non e
una “magnanima dimostrazione di sentimenti patriottici,” tale da
meritare
un ringraziamento quale quello reso ieri dal ministro della guerra.
Questa gente, quella che alla ditta Krupp,
alla Waffen -und Munitionsfabrik, alle Dillinger Werke, comanda e
gestisce
simili pratiche d’affari, è la stessa cui deve essere pagata la massima
parte dei nuovi miliardi, richiesti alle tasche del popolo, è la stessa
nelle cui tasche sono affluiti ogni anno innumerevoli milioni, è la
stessa
che nel contempo trae il maggior profitto dal nostro attuale sistema
militare,
dell’attuale situazione capitalistica e che brutalmente tiene soggette,
come i peggiori forcaioli, le masse della popolazione; è la gente che
istiga all’oppressione della popolazione, che più reclama leggi
sull’ergastolo
e leggi eccezionali. È la stessa gente che ha l’impudenza di muovere
alla socialdemocrazia il rimprovero di essere senza patria. Questi
patrioti-modello
dovrebbero essere giudicati in base al loro comportamento, che confina
quanto meno con il tradimento della patria.
Signori, portando qui il mio materiale ho
fatto il mio dovere: il ministro della guerra dovrà fare ancora gran
parte
del suo. Nulla deve essere nascosto, né messo a tacere. Si tratta qui
di un “Panama” peggio del “Panama.” Intendiamo stare a vedere se
il governo troverà l’energia necessaria per intervenire con l’efficacia
indispensabile anche nei confronti dell’onnipotente ditta Krupp e di
tutta questa onnipotente cricca del capitale, e intendiamo stare a
vedere
se anche la maggioranza di questo Reichstag trarrà le conclusioni
indispensabili,
che devono essere tratte nell’interesse del popolo tedesco,
nell’interesse
della pace europea.
Signori, il dottor Oertel ha richiamato l’attenzione
sui fatto che il contenuto della nota sulla “Deutsche Tageszeitung”
rappresenta, per così dire, un’aspra condanna della ditta Krupp, ovvero
degli avvenimenti così come sono stati presentati. Ciò è vero: me ne
sono convinto.
Su questo punto posso ritirare i miei rimproveri.
Ma sottolineo che l’intitolazione dell’articolo, che tanto salta agli
occhi, sembra indubbiamente fatta apposta per sviare. Oggi ci si vede
facilissimamente
costretti a non leggere un articolo per esteso, ma spesso l’attenzione
è attirata da parole d’ordine e se queste parole d’ordine sono
fuorvianti,
il giornale, in definitiva, è responsabile degli equivoci che ne
nascono.
Il deputato Braband e anche un altro signore
mi hanno rimproverato di non essermi accontentato di riportare
circostanze
specifiche ma di averne anche tratto delle conclusioni. Signori, era
questo
il mio maledetto dovere e compito. Questi avvenimenti sono sintomatici,
ecco il loro aspetto sostanziale; ed essendo sintomatici sono
terribilmente
pericolosi e per questo è così straordinariamente importante adoperare
una scopa di ferro. Restiamo in attesa che ciò avvenga.
[...] Signori, il ministero degli esteri ha
disposto un’inchiesta per accertare in quale misura il capitale
straniero
abbia partecipazioni in imprese industriali esercite in Germania. È
facile
che questa inchiesta risulti pressoché infruttuosa; perché prima di
tutto
è oltremodo difficile stabilire in quali mani si trovano, di volta in
volta, le quote, anonime, di capitale, e poi non dovremmo dimenticare
una
cosa, sulla quale, appunto, la futura commissione di inchiesta dovrà
rivolgere
la massima attenzione: ossia, se anche la proprietà di singole imprese,
considerata sotto il profilo giuridico, dovesse trovarsi in determinate
mani, quali che siano, per il fatto che le imprese con grandi capitali
sono unite in Konzerne, in cartelli, e che pertanto tra le imprese
capitalistiche
tedesche e le imprese straniere si stabiliscono stretti, strettissimi
rapporti,
viene un momento in cui l’accertamento è reso straordinariamente
difficile,
tanto più proprio in una inchiesta sul capitale degli armamenti.
La cartellizzazione del capitale all’interno
e quella tra il capitale nazionale e quello estero non esclude
naturalmente,
al caso, la reciproca truffa tra le singole imprese capitalistiche. Non
bisogna quindi pensare che più imprenditori dell’industria degli
armamenti,
i quali si abbindolano l’un l’altro, non possano per questo essere
in uno stesso cartello: sarebbe una conclusione errata.
Signori, desidero accontentarmi di queste
osservazioni generali. In occasione dell’imminente inchiesta il
ministro
della guerra subirà pesanti attacchi, al cospetto dei quali, forse, le
tentazioni di sant’Antonio saranno un gioco da bambini, e, quale Ercole
al bivio, il ministro della guerra dovrà decidere se vorrà giocarsi le
simpatie dei più potenti gruppi capitalistici e barattarle con la
simpatia
della grande massa della popolazione. Gli si presenterà forse questa
alternativa.
Signori, particolari difficoltà per l’inchiesta
derivano anche dai fatto che certi posti nel pubblico impiego,
soprattutto
nell’amministrazione militare, vengono senz’altro considerati,
sistematicamente,
posti di passaggio per buone prebende nell’industria privata.
L’imparentamento
personale tra la burocrazia militare e gli impiegati superiori del
capitale
degli armamenti è particolarmente stretto; si presenterà l’occasione
di provarlo nei particolari. Voglio fare adesso soltanto un paio dì
nomi:
gli ex ispettori, eccellenze Fromm e Köhne; gli ex direttori
Hirschberg,
Kummer, Etscheid, eccellenza Brandt, Passauer e altri, che
precedentemente
lavoravano nell’amministrazione militare, svolgono oggi un’importante
funzione nell’industria privata degli armamenti e ancor oggi – vi ho
già accennato lo scorso anno – entrano ed escono dalle fabbriche di
Stato come se fossero a casa loro.
Ritengo di aver illustrato con sufficiente
chiarezza come le manovre anzidette non abbiano luogo soltanto in
Germania,
ma siano internazionali e come di conseguenza i miei attacchi fossero
rivolti
al capitale internazionale degli armamenti. Per quei signori che hanno
bisogno di istruirsi ulteriormente al riguardo, voglio accennare
brevemente
allo scritto di Delais, La Démocratie et les Financiers, al
breve
scritto istruttivo di de Souza Dantas, La Paix et les Armements,
dove si descrive specificamente la situazione francese; quindi allo
scritto
di Eugène Turpin, La spoliation, persécution et haute trahison pour
la patrie, inoltre agli opuscoli della Lega della Pace sui cartelli
degli armamenti, ed infine agli scritti di Ludwig Pfeiffer, che in
realtà
non sempre contengono soltanto nudi fatti, ma le cui congetture spesso
non possono non incontrare approvazione.
Si è già detto come, soprattutto per quanto
riguarda il capitale inglese degli armamenti, siano state più volte
scoperte
cose del genere. Si tratta, in modo particolare, della Vickers Limited,
della John Brown and Company Limited, della Armstrong, Withworth and
Company
Limited, della Maxim, ecc. che hanno fondato un Konzern,
estremamente
pericoloso anche politicamente, che si è provato con ogni chiarezza
essere
il sostanziale promotore della guerra del Transwaal, del “Jameson
Raid”.
Al nome Jameson si collegano a questo riguardo i ricordi più gravidi di
sospetto.
In Francia abbiamo la stessa cosa. Nello stesso
momento in cui noi in Germania ci sforziamo, nell’interesse della pace
internazionale, di svelare le manovre degli interessi tedeschi degli
armamenti,
in Francia i nostri amici fanno lo stesso, in modo particolare contro
la
ditta Schneider-Creusot. Gli articoli pubblicati sull’”Humanité”
sono
convincenti. Dimostrano nel modo più chiaro come questi interessati
agli
armamenti abbiano svolto, in collegamento con le banche, una politica
internazionale
soprattutto nei Balcani, in riferimento alla Bulgaria ed alla Serbia,
come
queste ditte agiscano in modo assolutamente ricattatorio e come abbiano
manifestato un interesse immediato alla guerra nei Balcani.
Recentemente il ministro della guerra si è
chiesto se io volessi allora sostenere che la guerra nei Balcani è
stata
provocata dagli interessi degli armamenti. Anche allo scoppio della
guerra
nei Balcani hanno sicuramente partecipato mani poco pulite. Sulla base
di quanto pubblicato dall’”Humanité” è fuori dubbio che proprio
il capitale francese degli armamenti vi ha svolto una funzione
rilevante,
dimostrabile.
Ma desidero occuparmi della Germania e premettere
una breve osservazione prima di arrivare all’essenziale di quanto ho
da dire. (Risa a destra ed in centro). Se vi è parso già tanto
importante quanto ho detto adesso... (Grida a destra ed in centro:
“No!”),
potrete giudicare quanto sarà importante quello che ho ancora da dire.
(Grande ilarità). Vi prego, dunque!
Trovo straordinariamente interessante leggere
su un organo oltre-modo beneducato, ossia la “Deutsche Tageszeitung,”
che all’industria d’armi di Solingen hanno fatto estremo piacere le
grosse commesse procurate dall’estero, soprattutto commesse dalla
Russia.
Se vi è uno Stato con il quale sussiste forse
pericolo di guerra, mi pare sia la Russia, prima di qualsiasi altro. E
la nostra patriottica fabbrica d’armi di Solingen doveva proprio avere
il piacere di fornire armi tedesche ai russi, così che l’esercito
russo,
se si verificherà il caso che tanti pessimisti paventano e che tanti
fornitori
d’armi auspicano con ottimismo, potrà massacrare i soldati tedeschi
con armi tedesche.
Signori, nelle rivelazioni intorno all’internazionale
del capitale degli armamenti la Dillinger ha svolto una funzione
importante;
quindi ancora una parola su questa fabbrica. Recentemente il ministro
della
guerra ha trovato giusto togliersi dai piedi la Dillinger contestando
di
essere in rapporti d’affari con essa. Non voglio fare ulteriori
indagini,
per quanto mi sia stato detto che la Dillinger fornisca piastre
corazzate
per alcune piazzeforti tedesche. Ma la risposta era alquanto fredda. Se
il ministro della guerra non ha nulla a che fare con la ditta, è
comunque
il suo amico e collega del ministero della marina del Reich ad avere
straordinariamente
molto a che fare con la Dillinger, amico che peraltro non si è fatto
vedere
qui nei dibattiti della settimana scorsa, che sino ad oggi non si è
neppure
ufficialmente pronunciato, che non ha rotto i rapporti con la
Dillinger,
allo stesso modo in cui il cancelliere del Reich non ha colto sinora
l’occasione
per pronunciarsi, come che sia, su questa faccenda di vitale interesse
per il bene del Reich.
Ora, signori, il consigliere di governo Martin
ha subito attaccato acerbamente il tentativo di discolparsi delle
Dillinger
Werke. Ciò si deve probabilmente al fatto che nel consiglio
d’amministrazione
delle Dillinger Werke siede un ufficiale francese della riserva. Non
intendo
dilungarmi neppure sul caso Dillinger, ma aspetto di sapere dal
ministro
della guerra se anche il suo amico e collega del ministero della marina
del Reich abbandonerà completamente, come ha fatto lui, le Dillinger
Werke.
Passiamo ora alla Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik.
Il ministro della guerra ha giustificato la lettera da me citata. Il
ministro
della guerra è l’unico uomo del sacro romano impero di nazione tedesca
a prendere per moneta sonante l’incredibile, infondato pretesto addotto
dalla Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik, secondo il quale questa
lettera
sarebbe stata soltanto un sondaggio per stabilire se la Francia volesse
acquistare mitragliatrici, quando la Munitions- und Waffenfabrik aveva
naturalmente interesse a ricevere ordinazioni di mitragliatrici.
A quanto so, invece, il significato di questa
lettera è stato afferrato da tutti. Peraltro, oltre al ministro della
guerra, esiste purtroppo un altro ufficio che sinora ha mancato di
cogliere
questo significato. La lettera è stata scritta nel 1907, è stata da me
pubblicata per la prima volta sul “Vorwärts” nel dicembre 1910, senza
trovare, sorprendentemente, attenzione alcuna. È stata poi portata al
Reichstag. Uno dei firmatari è il signor von Gontard, tuttora mente
dirigente
alla Munitions- und Waffenfabrik. Un anno tondo dopo la pubblicazione
di
questa lettera il signor von Gontard è stato chiamato alla camera dei
signori prussiana dalla particolare fiducia del sovrano. Signori, un
meritato
riconoscimento!...
Vi voglio ora presentare la stessa Munitions-
und Waffenfabrik in un nuovo ruolo, forse non privo di interesse per
voi.
Voglio vedere se poi ricomincerete a ridere.
Fino ad ora non ho portato la prova documentaria,
alla lettera, del fatto che il capitale degli armamenti è imparentato
e legato in Konzerne su piano internazionale. Sono ora in
grado
di darvene una prova documentaria. Vi sono interessate le seguenti
ditte:
la Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik, Berlino; la fabbrica d’armi
Mauser, società per azioni, Oberndorf sul Neckar; quindi la
Österreichische
Waffenfabrikationsgesellschaft, Vienna e – adesso, vi prego, ascoltate
bene – la Fabrique Nationale d’Armes de Guerre de Herstal, nel Belgio,
nella quale sostanzialmente è investito capitale francese. Tra queste
ditte, nel 1905, è stato concluso – dapprima per dieci anni – un
contratto
a cartello, integrato neI 1907. Il primo contratto del 1905 riguarda
esclusivamente
la Russia, il Giappone, la Cina e l’Abissinia, mentre il secondo
contratto
riguarda, come vi si legge, «tutti i restanti paesi con le eccezioni
sottoindicate».
Queste eccezioni consistono nel fatto che a singole fabbriche del
cartello
vengono riservati singoli paesi. Si, signori, ad esempio la fabbrica
austriaca
ha l’esclusiva per l’Austria, la belga per il Belgio ed il Congo, la
Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik per la Germania, ecc.
Ma, signori, mi sembra che non abbiate ancora
afferrato l’importanza della questione. Mi sembra che il vostro
atteggiamento
nei confronti delle mie comunicazioni, a mio parere straordinariamente
decisive, sia condizionato dalla vostra vivace sensibilità per gli
interessi
che voi rappresentate qui. Signori, volete allora dimostrare con il
vostro
atteggiamento che, se sino ad oggi si poteva supporre che tutto il
Reichstag
disapprovava le cose che sono state scoperte, volete allora, signori (rivolgendosi
verso la destra), dimostrare con il vostro odierno comportamento
che
d’ora in poi intendete essere corresponsabili di fronte al mondo intero
di queste cose? Con il vostro comportamento odierno voi vi assumete
queste
responsabilità. (Tumulti continuati. Grida da destra: “che
sfacciataggine!”
Acclamazioni tra i socialdemocratici).
Signori, quando gridate “Che sfacciataggine,”
io non dò alcun peso ai suoni inarticolati che per abitudine vengono
lanciati
dal settore di destra della camera. Ho già dichiarato poc’anzi quanto
mi tocchi questo modo di fare. (Volgendosi a destra) La vostra
creanza,
signori, è proverbiale ed esemplare. Voi rappresentate qui una piccola
parte della camera dei deputati prussiana.
Signori, il contratto tra le sullodate fabbriche
prevede l’eliminazione nei rispettivi paesi della concorrenza straniera
per agevolare lo sfruttamento “patriottico,” ed inoltre la reciproca
garanzia del profitto, proprio come per lo spettabile Konzern della
marina; dividono tra loro il guadagno proveniente dalle forniture e si
controllano reciprocamente. Per decidere delle eventuali divergenze,
viene
convocato un tribunale arbitrale. Tra loro naturalmente non esistono
segreti.
In conformità al contratto devono fornirsi reciprocamente disegni e
programmi.
Essi intraprendono in comune, in impresa, lo sfruttamento dei popoli
dell’Europa
e del mondo restante ai fini degli armamenti.
Nel patto integrativo si dice, in modo caratteristico,
che le forniture alla Bulgaria ed alla Romania restano affidate alle
fabbriche
austriache. Signori, ritengo necessario sottolineare in modo
particolare
questo fatto, a titolo di informazione per tutti gli austriaci che
amano
la pace. Dopo di che, per lo meno in gran parte, le armi bulgare
dovrebbero
essere fornite, con gli auspici di questo Konzern internazionale
del capitale degli armamenti, da una fabbrica austriaca. Lo stesso vale
per la Serbia. Signori, si tratta degli Stati con i quali soprattutto
l’Austria
deve prevedere la possibilità di un conflitto.
I due contratti, dei quali si disporrà la
pubblicazione, in modo che sarete in grado di afferrare tutti i
particolari
di questa enormità, dimostrano nel modo più evidente quale
straordinario
pericolo per la pace dei popoli rappresenti il capitale degli
armamenti.
Dimostrano la perfetta mancanza di scrupoli ed in particolare l’assenza
di patria del capitale degli armamenti, con una evidenza sinora
difficilmente
dimostrabile con documenti. Ecco i grandi patrioti che ardiscono
rimproverarci
di essere individui senza patria!
La stessa Munitions- und Waffenfabrik che
scrisse a Parigi quella lettera, che voi stessi (rivolto a destra)
recentemente avete disapprovata, ma che oggi sembrate approvare, questa
stessa Munitions- und Waffenfabrik il cui capo successivamente è stato
chiamato alla camera dei signori prussiana, partecipa ad un Konzern
internazionale
che si è posto in modo particolare il compito di procurare armi alla
Russia,
di procurare armi alla Russia! Questo prova il contratto. La Russia è
il nome che già nel contratto del 1905 figura al primo posto.
Ora, noi non sottovalutiamo certo il pericolo
rappresentato per la pace dai provocatori bonapartisti dello stampo
delle
eminenze grige della “Post” ed anche della “Kreuz-Zeitung”; gli
anni 1909 e 1910 ci hanno fornito drastici ammaestramenti. Né
sottovalutiamo
certo il grosso pericolo per la pace insito nell’opera di sobillazione
di quella camarilla di ufficiali in rappresentanza dei quali si è
esibito
in questa camera contro il cancelliere del Reich lo stesso principe
ereditario
tedesco (campanello del presidente).
Presidente: Signor deputato, ho sentito
che lei ha fatto il nome dd principe ereditario quale capo della
camarilla
tedesca degli ufficiali. Ritengo la cosa inammissibile e pertanto la
richiamo
all’ordine!
Liebknecht: Signori, “vi resta una
dolce consolazione!”
Ma ora, come per il passato, il maggior pericolo
è rappresentato dagli interessati agli armamenti con i loro pertinaci,
infaticabili sforzi, che non badano a nessun mezzo, per aumentare la
materia
infiammabile e, quando è possibile, per mettete la miccia al barile di
polvere. Proprio dopo i recenti dibattiti al Reichstag, che tanta
polvere
hanno sollevato, “Die Post,” questo foglio mantenuto dal capitale degli
armamenti, si è abbandonato ancora una volta a rozzi attacchi contro la
Francia, attacchi tanto inauditi che persino il cancelliere del Reich
ha
dovuto opporvisi.
Signori, non dovete meravigliarvi se di fronte
a tutti questi avvenimenti noi si riesca, in misura sempre maggiore e
con
sempre maggiore facilità ad abituare la grande massa della popolazione
in Germania e anche negli altri Stati militari a vedere dietro lo
sfarzo
splendente dello sfoggio patriottico quella auri sacra fames,
quella
maledetta furiosa brama d’oro, in particolare del capitale degli
armamenti.
Potrei invocare anche come teste principale il signor Gans Edler zu
Pulitz,
il quale lo scorso anno ammonì il nostro governo a stare all’erta per
non essere coinvolto in una “guerra capitalistica.”
Dopo tutto questo, dobbiamo consigliare ai
signori del Ballhausplatz di Vienna di guardarsi anche dagli
interessati
agli armamenti austriaci, che non sono certamente di pasta diversa di
quelli
tedeschi. Da quanto è stato rivelato il governo austriaco può avere la
certezza che in caso di guerra i cannoni ed i fucili russi gli
porteranno
i saluti degli interessi degli armamenti austriaci e dei loro soci di
profitto
francesi. Quando giaceranno dilaniati e insanguinati sui campi di
battaglia,
i soldati austriaci potranno consolarsi con il patriottico pensiero che
gli strumenti di morte russi hanno portato a loro morte e
annientamento,
ma al capitale austriaco un profitto dal grato suono. E, signori, se
poi
la fedeltà nibelungica austro-tedesca manterrà le sue promesse al punto
che nel caso di una guerra comune della Germania e dell’Austria contro
la Russia, i soldati austro-tedeschi potranno morire confortati dal
pensiero
che i proiettili del nemico sono fabbricati da un Konzern finanziario
nel quale operano insieme – in una nuova triplice – il capitale
tedesco,
quello austriaco e quello francese, questo contribuirà, ne sono
fermamente
convinto, a rafforzare il patriottismo, l’entusiasmo per la guerra,
l’eroismo
dei figli dell’Austria e della Germania!
Signori, attualmente è in gioco – bisogna
dirlo – il leggendario prestigio dell’Austria, che, a quanto si dice,
sarebbe messo in pericolo dalla contingente situazione internazionale.
Ma non è vero che questo prestigio sia il prestigio del popolo
austriaco;
è soltanto il prestigio della diplomazia austriaca e questo prestigio
della diplomazia austriaca non ha, a parer mio, importanza sufficiente
ad offrire in qualche modo il pretesto per un conflitto internazionale.
Non è lecito, oggi, apportando una variante al detto di Orazio dire: quidquid
delirant diplomati, plectuntur Achivi. I popoli non hanno alcun
motivo
di lasciarsi aizzare alla guerra, di lasciarsi dissanguare per gli
errori
ed i peccati dei diplomatici.
Nell’interesse del mantenimento della pace,
nell’interesse della promozione degli sforzi che debbono impedire che
per una simile folle politica di prestigio l’Europa sia trascinata in
una guerra, è necessario ancora una volta additare a tutto il mondo
quelle
cricche capitalistiche il cui interesse ed il cui nutrimento sono la
discordia
tra i popoli, i conflitti tra i popoli, la guerra; è necessario gridare
ai popoli: la patria è in pericolo! Ma non è in pericolo per via del
nemico esterno, ma per via di quel minaccioso nemico interno,
soprattutto
per via dell’industria internazionale degli armamenti.
(In: K.L., Scritti politici, Feltrinelli, 1971).