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"COMUNISMO" n. 55 - dicembre 2003
Presentazione
Imperialismo questione strategico-militare  (III - RG85) - Guerra imperialista e Preparazione rivoluzionaria (53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).
I giovani Marx ed Engels, gli operai, gli scioperi, i sindacati ( I - II ): 7. Origini borghesi - 8. Sbarco in Inghilterra - 9. «La condizione della classe operaia» - 10. L’esercito industriale - 11. I sindacati - 12. Sindacati e Partito di classe - 13. Fermandoci qui.
Capitale e Popolazione: 1. Opposte teorie: Visioni apocalittiche e tremori borghesi - La “ecologica” teoria di Malthus - False soluzioni ad un falso problema - Marxismo e popolazione - 2. Le leggi della popolazione nei modi di produzione precapitalistici: Forma primaria - Paleolitico - Neolitico - Forma secondaria - Forma terziaria - Fra feudalesimo e capitalismo - 3. La legge della popolazione nel capitalismo: Borghese impotenza e nevrosi - La sovrappopolazione relativa - Popolazione e rivoluzione capitalista - La crescita rallenta - Le tendenze in Asia e in Africa - Verso un stato stazionario? - La popolazione nel Comunismo.
Dall’Archivio della Sinistra:
    Partito Socialista Italiano - XIII Congresso Nazionale - Reggio Emilia, 8 luglio 1912, Intervento di Benito Mussolini.

 
 
 
 
 
 



Presentazione

Da tre anni che l’attentato alle torri di New York stupì per la sua fredda determinazione e gli effetti catastrofici, il mondo capitalistico sembra aver trovato un nuovo micidiale quanto elusivo avversario da combattere alla scala planetaria. Un altro fantasma, tra i tanti che ne crea la nera coscienza del capitalismo.

Naturalmente, secondo i migliori copioni teatrali, i protagonisti cattivi che emergono da oscure organizzazioni hanno nomi e cognomi importanti, che la grancassa dell’informazione mondiale si cura di rendere ben noti al grande pubblico, saltabeccano inafferrabili da monti a valli, entrano ed escono di scena, sempre pronti a seminare sfracelli per tutto l’orbe. Dietro questi geni del male un’armata di ignote dimensioni che non cessa di riprodursi conduce una guerra-non-guerra a base di martiri esplosivi ed attentati sanguinosi.

Alla fine dell’Ottocento alcuni pochi anarchici e rivoluzionari non marxisti combattevano la loro guerra di minoranza a furia di bombe e attentati, sia pure con i miserrimi strumenti di allora. Ma oggi, che il pericolo del sovvolgimento interno degli Stati appare ai più morto e sepolto, una nuova falange con l’etichetta dell’integralismo religioso islamico si muoverebbe a turbare lo status quo di un’area tra le più critiche del mondo, e di conseguenza irradiare crisi ed instabilità su tutto il resto.

A dar retta ai governi occidentali, parrebbe che il nuovo millennio si sia aperto all’insegna di questa sinistra novità.

La propaganda internazionale presenta ora questo “fenomeno” come una cosa del tutto nuova, mai prima accaduta. Quello che ha segnato il secolo scorso sarebbe stato un terrorismo “locale”, che aveva luogo e ispirazione in un ambito determinato e perseguiva finalità specifiche, secessionistiche o di destabilizzazione della compagine statale. Per esemplificare, si pensi al terrorismo nord irlandese, a quello nei paesi baschi o alle stragi senza ancora un chiaro movente come quelle in Italia degli anni settanta. O gli attentati delle Brigate Rosse, azioni che nascevano e si sviluppavano, si diceva, secondo un disegno perverso di eversione, ma limitato nello spazio e nel tempo.

Ma nel nuovo millennio, nell’era della globalizzazione, che noi continuiamo a chiamare di imperialismo tardo capitalista, questa concezione ristretta non è più al passo con i tempi né funzionale a processi che interessano l’intero orbe geopolitico. Ed ecco che il nuovo terrorismo viene teorizzato dai politologi borghesi e dai chiacchieroni di mestiere e presentato dal sistema dell’informazione in una prospettiva più ampia, secondo una logica che si differenzia dalle motivazioni del passato.

In primo luogo si dichiara internazionale il teatro d’azione, poi gli si scopre una struttura sovranazionale, ramificata e differenziata secondo le diverse aree geografiche, ma unitaria nel negare in toto i “valori dell’occidente”, che poi in molti casi vengono a coincidere con gli interessi nel mondo degli Stati Uniti e dei loro alleati. Il tutto operante con il cemento ideologico dell’islam, così plastico e indefinito da tornare alla perfezione tanto nella disperata Cecenia dell’ex impero russo, quanto negli attentati contro le sinagoghe ebraiche, nei “summit” ultrablindati dei capi di Stato e dei loro accoliti, nelle appariscenti cittadelle della potenza imperiale o tra le rovine disperate di guerre cominciate in nome dell’umanità e della democrazia. Tanto vuoto di contenuti quanto buono, secondo un criterio di modularità commerciale, per ogni luogo e situazione. Per dare motivo d’intervento basta ed avanza.

Questa la musica che suona la grancassa giornaliera. Le argomentazioni diventano un sistema autoreferente e tautologico: “è colpa del terrorismo internazionale”. Così come viene propinato allo spettabile pubblico diventa allora un contenitore da riempire secondo la necessità o le giustificazioni necessarie agli occhi del mondo per l’ennesima avventura imperiale, un mezzo che travalica il suo scopo per assurgere a “fine”: la messa in crisi degli “interessi” dell’occidente.

La parafrasi propagandistica, che ritorna con insistenza negli scritti di influenti politologi borghesi è quella dell’impero romano, assediato e poi distrutto dai barbari germani: perché e come poté cadere il poderoso impero di Roma sotto i colpi delle invasioni, abbattuto dall’esterno e consunto dall’interno, secondo la triste necessità di doversi sempre più allargare per proteggere i propri confini. Così il nuovo impero mondiale deve oggi difendersi dagli attacchi dei nuovi barbari dell’Islam.

Alla luce del materialismo queste teorizzazioni e l’apparato propagandistico sulla presunta difesa, con l’adesione più o meno forzosa di altri Stati alla nuova crociata, mostrano l’inganno che li sottende.

Ormai al mondo nazioni di barbari non ne esistono più. Il modo di produzione capitalistico ha già raggiunto i confini del Mondo e nessuna minaccia da fuori e dal passato gli può provenire. Questi fantasmi minacciosi escono quindi dal suo seno.

Il vero ed unico soggetto di terrore per il Capitale è quello della promessa, attesa e finale spallata del proletariato internazionale alle sue marcescenti strutture, anche se quello oggi, privo del suo partito, è ridotto ad incassar colpi e tacere.

Il terrorismo è certamente una costante nella storia dei rapporti, (necessariamente violenti, Signor Bertinotti!), tra gruppi diversi e tra classi sociali per la supremazia politica o il rovesciamento di vecchie forme, ed è sempre stato utilizzato dagli Stati contro parti del corpo sociale.

Sotto determinate circostanze, quando non sia ancora tempo di scontro aperto, costituisce anche un mezzo che gli Stati possono usare l’uno contro l’altro, per innescare lo scontro, o per mantenerlo aperto senza arrivare al punto limite. Uno strumento “sporco” rispetto alla “nobiltà” della guerra aperta che, con i suoi riti e le sue stragi, può ricevere la santa benedizione per i superiori interessi di Patria, Stato, religione e capitale nazionale.

Ma uno strumento, appunto, un mezzo per raggiungere dati fini.

Nell’attesa che si dichiarino i nuovi avversari imperiali, con armi ed eserciti dispiegati, come si impongono a tutti, volenti o nolenti, al termine di questa lunga e terribile recessione mondiale l’imperialismo si è inventato un altro comodo fantasma e forma retorica per disporre intanto opportunamente le proprie forze sullo scacchiere mediorientale e centroasiatico.

L’oggetto del terrorismo che si dispiega non sono quindi gli Stati e gli interessi dei capitalismi (eufemismo: la “democrazia”), che invece sono quelli che lo hanno creato e lo alimentano, ma le popolazioni da tenere sottomesse, e in primo luogo la classe operaia: in Occidente con la minaccia costante di un “nemico esterno” che sarebbe comune a lavoratori e a padroni, in Oriente con il mito ipocrita e falso di un “antimperialismo” che ugualmente spinge tutte le classi a confidare nelle barbe dei preti e a piegarsi ai loro governi di polizia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Imperialismo, Questione strategico-militare

Rapporto esposto nella riunione di gennaio 2003.
 

(Segue dal numero scorso)
(53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).

Guerra imperialista e Preparazione rivoluzionaria
 

Nella nostra analisi il capitalismo imperialistico vive della guerra, non soltanto quando decide di scatenarla ma ancor prima, quando la prepara con la sua forsennata sete e ricerca del profitto, nella fase in cui tutto sembra andare a gonfie vele.

Per quanto riguarda la Prima Guerra mondiale, nei primi decenni del ’900 la borghesia se la godeva celebrando quella che fu chiamata la “belle époque”; soltanto chi pagava l’alto prezzo di quella preparazione, il proletariato, era in grado di prevederla. Così quando la guerra “scoppiò” (mai termine fu tanto appropriato, al punto che ancora oggi è usato) nella apparente sorpresa generale, ci fu chi non fu che confermato nelle sue valutazioni. Anzi, come sappiamo, fu confermato quel che Federico Engels aveva previsto molti anni prima, alla fine del 1800, con analisi e studi. Semmai arrivava tardi, non nel senso che venisse auspicata.

Per altro arrivò “presto”, nel senso che trovò un proletariato non adeguatamente organizzato e “preparato”. Sì perché, mentre il Capitale “prepara” inevitabilmente, col suo modo di produzione, la guerra, il movimento operaio “prepara” la rivoluzione. Non il proletariato indistinto, ma le sue avanguardie coscienti, legate e organizzate nei suoi partiti e sindacati di difesa economica.

I processi molecolari che spingono le classi antagoniste allo scontro non sono da tutti visibili e riconoscibili. Se così fosse non si parlerebbe di “scoppio” della guerra, o della rivoluzione, ma di avvenimento scontato, normale, quasi come fatto naturale. Ed invece è necessario, perché gli eventi non trovino il proletariato impreparato e scoperto di fronte all’attacco borghese, mascherato da guerra tra Stati, che l’organizzazione proletaria sia guidata dal suo Partito politico, o come in quel caso, dai suoi partiti.

Il nesso Stato-Rivoluzione-Guerra è in verità complesso, e non può essere compreso senza una valutazione dialettica. Non è automatico che la guerra, anche quella, portata all’estremo delle sue forme, definita “anti-terroristica”, determini le condizioni favorevoli alla ripresa rivoluzionaria. Lenin alla mano, tre condizioni almeno devono essere presenti perché il processo si inneschi: 1) che esistano condizioni di crisi dei rapporti borghesi; 2) che la crisi trovi un movimento operaio complessivamente in salute; 3) che la guerra produca il rifiuto da parte del proletariato di seguire la propria borghesia sul campo di battaglia.

Se già Engels nel 1890, nonostante la potenza organizzativa della “socialdemocrazia”, sia a livello politico sia di difesa economica, auspicava “più tempo a disposizione” per rafforzare il proletariato in modo che potesse opporsi con le armi alla borghesia, dobbiamo dire che, dopo i guasti del ‘900, l’attuale stato di salute del movimento proletario è pessimo. Sarebbe un espediente attribuire tutti i mali alla controrivoluzione staliniana ed ai suoi esiti e code, ma probabilmente non si riesce appieno a valutare i danni provocati dalla sconfitta subita e inflitta al seno stesso del movimento.

Siamo così nella condizione, da ammettere realisticamente, che oggi non esistono né organizzazioni economiche e di difesa classiste, né una benché minima e misurabile influenza del partito di classe. Condizioni che potremmo definire, se non disperate, tali da provocare scoramento. Ma è anche vero che mai abbiamo accettato di lavorare sul pessimismo. Le condizioni del lavoro proletario spingeranno determinate avanguardie a riprendere la via della organizzazione e della lotta.

Abbiamo già osservato come la natura della guerra definita “terroristica” tenda, ancor più che nel passato, a sospettare di “convivenza” chiunque non si allinei o non condanni. Il livello di coscienza della classe è così turbato e scompaginato che non è sufficiente che il partito le dica “le cose giuste” e le indichi la giusta tattica. Le condizioni materiali dovranno svolgere la loro parte. Per fortuna, siamo deterministi!

Sempre più si sente diffondere la considerazione per la quale è necessaria, da parte degli Stati borghesi, una tattica militare informata al concetto di “guerra preventiva”, cioè attaccare per difendersi, rompere gli indugi in modo da sorprendere l’avversario. Collocata la guerra in un contesto più largo e più vasto della risposta al casus belli, non c’è più modo di distinguere la guerra dalla “giusta rappresaglia”.

Se soltanto si guarda ai casi che nel passato sarebbero stati sufficienti a scatenare un conflitto generale, si deve ammettere che la Terza Guerra mondiale è scoppiata già più d’una volta. La questione è giustificata dal fatto che sempre più gli strateghi militari sostengono la contemporaneità di “guerra” e di “pace”: mentre le armi si muovono, nello stesso tempo il Capitale intensifica i ritmi di produzione, proprio in nome delle necessità determinate dal conflitto. La guerra, condotta da più parti e secondo logiche distinte comporta, come è avvenuto sempre, ma in particolare durante la Seconda Guerra mondiale, che mentre la diplomazia si accorda sulle spartizioni e disegna nuovi assetti di potere, anche territoriale, le armi aprono nuovi fronti, l’economia segna nuove impennate, modella con la sua plasticità nuovi ritmi produttivi.

Ciò non toglie che l’evento-guerra in senso stretto possa essere ancora segnalato come “particolare”, o comunque tale da rompere precedenti equilibri. Per questo la macchina propagandistica è all’opera per convincere che dopo l’11 settembre il mondo non è più quello di prima: si tratta di persuadere che la ricreazione è finita, ed è di nuovo cominciata una epoca “di lacrime, sudore e sangue”. Se è vero che nel concetto e nella pratica antica e classica di guerra, la pace non è che un intervallo nell’ambito complessivo del polemos che governa il mondo, non si può negare che la cultura occidentale è la madre di tutte le battaglie. In un certo modo la traduzione volgare della formula filosofica apparentemente indolore, del primato del “divenire”, del cambiamento costante come essenza del mondo.

Ma una volta che siamo entrati nella fase imperialistica del Capitale, non è più possibile giustificarsi dietro la belle formule teoriche: il proletariato, in queste condizioni, sarebbe fagocitato dalla “necessità fatale del movimento”. Dunque, nella nostra tradizione e versione della guerra, come del resto della “rivoluzione”, il termine “permanente” non ci sembra il più pertinente. Sia la guerra sia la pace costituiscono dei “ritmi” da riconoscere e da non sottovalutare.

La dialettica, in fin dei conti, allude ai “ritmi” della realtà. Attenersi al polo dell’Essere o del Divenire, in astratto, per noi non significa nulla. Non a caso Platone, considerato parricida, in rapporto a Parmenide, per primo riconosce il “ritmo” come rottura dell’immobilità dell’Essere. Insomma, la guerra, anche quando sostenessimo che in regime capitalistico non passa mai, dal momento che l’estorsione di plusvalore in fabbrica e nei campi è pur sempre “guerra di classe”, è un processo da riconoscere, con le sue peculiarità d’ordine organizzativo, amministrativo, che interrompe e mette violentemente in discussione il ritmo “normale” della vita produttiva.

Quando si parla di “guerra mondiale” si intende un processo dal quale non si salvano, di fatto, più o meno indirettamente, tutti i paesi del mondo organizzato. Se per tutto il periodo della “guerra fredda” il fenomeno guerra ha interessato aree circoscritte, prima la Corea, poi il Vietnam, quindi l’Irak, e così via, è corretto da parte nostra sostenere che il Capitale ha creduto possibile di rimandare la guerra mondiale in senso proprio, riuscendo a ricucire strappi, contraddizioni, necessità interne di vario tipo. Per questo, allorché dopo la crisi petrolifera del 1973, e particolarmente dopo il 1975, siamo tornati a parlare delle due possibilità alternative, “o guerra o rivoluzione”, abbiamo indicato la contraddizione di fondo che il Capitale, da allora, non avrebbe potuto eludere. Naturalmente abbiamo sempre auspicato che un movimento proletario organizzato e in crescita potesse “anticipare” i disegni del Capitale. Abbiamo come sempre peccato di “inguaribile ottimismo”? Nei nostri testi è scritto che è bene peccare di “generosità” piuttosto che di pessimismo o di fatalismo.

Ciò non significa che le condizioni materiali oggettive possano essere forzate oltre un certo limite: e così abbiamo assistito ad altri decenni, gli ‘80 e i ‘90 nel corso dei quali c’è chi si è illuso sulle mille vite del Capitale: è stato il tempo degli spericolati giochi di borsa, che hanno fatto sentire tanti un po’ “yuppies”, finanzieri allo sbaraglio. Ma le tensioni, per chi l’ha sapute vedere, non sono mancate in varie parti del globo. Sono stati i decenni del canto del cigno del “mito Russia”, che hanno lasciato orfani milioni di proletari, ancora illusi del “miracolo”. I vecchi assetti, anche territoriali, stavano per cadere: gli accordi di Yalta (e noi lo abbiamo per tempo messo in rilievo) stavano cedendo, fino a che l’illusione del “nuovo ordine mondiale” non ha dato l’impressione che gli Usa potessero svolgere nello stesso tempo, per sempre, la funzione di “gendarme” e di locomotiva.

Non poteva durare: ed infatti tensioni profonde si stanno manifestando nelle aree cruciali, da sempre termometro ed epicentro di terremoti politici e sociali. Ci riferiamo alle tre guerre balcaniche, a cui si è assistito senza che il proletariato potesse muovere un dito, in solidarietà non puramente nominale nei confronti di fratelli massacrati in nome di “odi etnici e razziali”, ma in realtà come sempre sacrificati nell’assetto di aree strategiche che portano dallo Adriatico al Caspio, dove sono stati individuati giacimenti di gas e petrolio di eccezionale importanza.

Uno scrittore, tra i tanti intellettuali, in questi giorni, ha voluto fare il furbo, o forse l’ispirato, sostenendo che gli viene da ridere a pensare che qualcuno ancora attribuisca al petrolio la causa di tutti i mali e di tutte le tensioni (Vassalli sul Corriere della Sera) perché ora si tratta di prendere atto che tutto è prodotto dall’odio tra gli uomini... Gli islamici fondamentalisti sarebbero nemici giurati dell’Occidente, e non gliene importerebbe un gran che delle risorse petrolifere, bensì della vittoria di Allah contro gli infedeli...

Mai come in questa fase si è preteso di spiegare la guerra con riferimenti di Allah, al Dio cristiano, al Dio degli ebrei. Poi, si va a vedere con il nostro metodo d’indagine, ed una barba come quella del filosofo Cacciari ammette che sarebbe il caso di capire meglio, magari col vecchio metodo “marxista”... Ma guarda un po’ chi si risente! Naturalmente non ci si illuda che si citi Marx per trarne qualche generica soluzione... “rivoluzionaria”! Oh no! Ormai, per i più colti e raffinati, la citazione di Marx è una questione di essere “off”, cioè di dimostrare la propria “indipendenza di giudizio”.

Ed allora, è inevitabile che si ponga la questione: la “rivoluzione” a che punto si trova? Mentre il saggio di profitto cade e il sistema economico conferma tutte le tesi del Partito, perché il proletariato non si muove? Possiamo muoverlo con slogan, con parole d’ordine? A parte il fatto che “statisticamente”, ci dicono, il proletariato classico di fabbrica fordista è stato ampiamente sostituito dal lavoro a isole, decentrato, etc., etc... si vorrebbe passare sotto silenzio come tutto l’apparato statale dei paesi metropolitani, mentre tosa insistentemente lo “Stato sociale”, non ha il coraggio di farlo ad alzo zero.

Materialisticamente, insomma, il proletariato dei paesi metropolitani, nonostante la crisi, continua ad avere “qualcosa da perdere”. Nella versione classica di Marx non ha da “perdere se non le proprie catene”, ma alla scala di “classe generale” presa nella sua nozione politica che solo il partito ha. In termini contingenti, cioè considerato il proletariato come oggi si trova a muoversi, frazione nazionale per frazione nazionale, in certi momenti tribalizzato dalla canea nazionalistica, è evidente perché si dimostri sordo ad ogni slancio di solidarietà nei confronti dei fratelli che si trovano nei contesti meno favoriti, allettato dalle briciole che cadono ancora, dopotutto, dal banchetto imperialistico. Ecco, il tema, questo sì permanente, è questo, la lezione che non deve mai essere messa da parte è questa: nella anche minima attività di difesa economica si deve sempre fare in modo che le rivendicazioni siano in linea con l’affasciamento delle forze proletarie. Ma il proletariato, che conosce la vergogna della concorrenza al suo interno, non aderirà alle forme di solidarietà perché “buono” o sensibile in senso moralistico. Ancora una volta devono essere le condizioni reali, le determinazioni sociali a spingerlo verso l’esercizio delle condivisioni delle richieste nei confronti del Capitale, per non cedere al suo incontrastato dominio.

Lo scatenamento, da parte della borghesia, di tutte le sue risorse, materiali, ideologiche, religiose, perfino “artistiche” è sotto gli occhi di tutti. La giustificazione della necessità della guerra, in attesa di portare l’”affondo”, si guarda bene dal mettere in campo gli odi di lungo periodo, che sono appunto “religiosi in senso lato”; anzi, tutte le rassicurazioni vanno in questa direzione: “nessuna guerra santa, ma una giusta rappresaglia contro il male”. Come non rendersi conto che questo modo “manicheo” di portare la guerra non può reggere alla distanza? Ma nell’epoca della “comunicazione globale” non ci si deve meravigliare di niente. I messaggi sono rivolti a “masse” anonime, ridotte, dal punto di vista “culturale” a oggetti da manovrare. Chi interpreta la questione secondo metri culturali, proiettando la propria nozione delle cose, deve tener conto del fatto che la “cultura di massa”, per ammissione diffusa, mai come oggi ha toccato livelli così bassi. Certo, il Partito di classe non si adegua a questa realtà, ma sa leggere i messaggi della borghesia. Quando sarà il momento, anche i pacifisti, le Chiese, ambigue ed incerte tra la “legittima difesa” e la pace a tutti i costi, faranno la loro scelta di campo.

Non escludiamo affatto che la borghesia imperialistica potrà rivestirsi di nuovo della sfacciataggine che ebbe il nazismo e muoversi anche in nome della superiorità di una “razza” contro alcuna altra della specie. Ma sappiamo bene che le arti dell’imbonimento democratico sono ben più raffinate, e pericolose, di quelle della pur potente propaganda alla Goebbels. A noi interessa saper vedere sotto e dietro queste cortine fumogene e quello che qualcuno ammette a mezza bocca deve esser detto senza perifrasi: il Capitale non può permettersi di lasciarsi travolgere dalla stagnazione; i suoi “spiriti animali”, per quanto abilmente dissimulati, dovranno venire allo scoperto.

Ed infatti il ministro Rumsfeld, in due occasioni, ha già ammonito sulla possibilità dell’impiego di bombe atomiche “tattiche” facendo chiaramente intendere che anche “l’arma estrema” potrà essere messa in campo. Se teniamo conto della nostra “questione militare”, che per semplificare momentaneamente fa centro sulla necessità di capovolgere la guerra tra Stati in guerra di classe, la domanda che ci si pone, in questi tempi tanto catastrofici, è questa: ma quali sono le armi che il proletariato potrà usare? Notoriamente, mentre per certi movimenti piccolo borghesi, per il rivoluzionarismo estremista di sinistra si è sempre posto il problema del mettere a punto un arsenale militare indipendentemente dal programma politico, secondo una disorganicità non solo dottrinaria ma particolarmente “pratica”, nella nostra tradizione la questione militare non può disancorarsi dalle condizioni storiche determinate.

La lezione più evidente e paradigmatica è stata l’esperienza russa: i bolscevichi, che avevano una potente influenza tra i soviet dei soldati, furono in prima linea nel rovesciamento delle armi in mano all’esercito, in nome della guerra rivoluzionaria.

Si potrebbe porre questo problema: poiché nella guerra attuale la borghesia ha preso le sue misure, addestrando corpi di professionisti e mettendo in secondo piano la coscrizione obbligatoria, di cui ha cominciato a sospettare non solo durante la Prima Guerra ma anche nella Seconda (nonostante tutto, ad esempio in Italia, nel 1943, con la caduta del fascismo, e dopo l’ 8 settembre, l’esercito rimase in balia del disordine organizzativo e pratico). Sarà certamente più difficile che i “mercenari” possano rivoltare le armi contro la propria borghesia. I proletari, piuttosto che al fronte, almeno nelle aspettative tattiche, saranno in fabbrica e nei posti di lavoro.

La reazione alla guerra avverrà, e dovrà avvenire nella cosiddetta “società civile”? Se ripercorriamo anche per sommi capi l’atteggiamento proletario nell’esercito, questo problema è da non sottovalutare, non semplicemente per ragioni “tecniche”, ma per ragioni “politiche”. L’uso delle armi nella guerra “tradizionale” non è lo stesso di quello che si attua nella guerra di “professionisti”.

L’arma principale, anche se non risolutiva, del proletariato rimane, classicamente, la lotta molecolare di resistenza contro la pressione del Capitale, che non cerca come il capitale la “spettacolarizzazione” della guerra per intimidire, distruggendo, massacrando, minacciando la bomba atomica, allo stesso modo in cui il “terrorismo” ha cercato il colpo simbolico, devastante.

Certo, non siamo certo noi gli illusi dello “sciopero espropriatore”. La “guerra proletaria” prevede ancora la presa del potere politico in uno o più Stati, per la sua espansione a livello generale. Ma noi non abbiamo a disposizione le bombe atomiche: che non avrebbero nessun senso nella guerra di classe, terrestre che più terrestre non si potrebbe. Vi ricordate dagli sputnik alle “guerre stellari”? Evasioni per dimenticare che il nemico è in casa, neanche solo nello Stato nemico.

Finché il proletariato non avrà disarmato la sua borghesia è inutile che si illuda di attaccare le borghesie di altri paesi. Infatti la nostra “tattica” prevede che per fare la guerra alla borghesia è necessario: 1) che esistano forti e combattive organizzazioni sindacali di difesa economica; 2) una forte e diffusa influenza del Partito di classe; 3) condizioni oggettive di crisi non soltanto economica, ma morale e politica della classe dominante.

Che fare, allora? Attendere a mani conserte? È questa l’accusa che ci rivolsero ben presto gli opportunisti, di essere dei “deterministi”, anzi, peggio, “nullisti”! Sappiamo come gli è andata a finire, sono passati armi e bagagli al servizio del nemico. Hanno confessato di non credere più nel socialismo. Hanno dimenticato d’aver minacciato ed eliminato generazioni di rivoluzionari, colpevoli di non aver tradito il programma e soprattutto di non essere disposti a dichiarare fallimento, come loro hanno fatto.

L’esercito proletario non si costruisce in vitro, con balzane strategie occulte, o peggio dichiarando “guerre umanitarie”. Così il nostro appello alla lotta d’ogni giorno, alla riorganizzazione di classe, appare patetico, poiché sembra improponibile che con le povere armi della lotta di classe si possa sgonfiare la vergogna dell’imperialismo, la pretesa di determinate culture di schiacciare le altre, ed altri luoghi comuni simili.

Ma, a ben vedere, in realtà la borghesia di tutti i paesi teme la sua controparte interna, e il suo apparato statale è nato proprio per organizzare uno strumento di controllo delle sue potenzialità offensive. Ciò è noto da sempre, anche se ci si illude che il crollo del “socialismo reale” possa aver fugato ogni sospetto e paura. L’individuazione nel “terrorismo internazionale” del nuovo mostro non deve ingannare: ancora una volta il nemico non è soltanto una realtà oggettiva, ma anche una costruzione ideologica utile per i propri fini.

Certo che, se si pensa all’attuale “disarmo” non solo materiale, ma anche “psicologico” del movimento operaio, c’è da chiedersi come potrà tornare ad essere capace di usare le sue armi fino alla presa del potere. Eppure la storia parla chiaro: dai primi inizi, fatti di resistenza e di difesa, fino alla rivoluzione russa c’è un crescendo dialettico di organizzazione e di prospettiva. L’”arma atomica” del proletariato sta nel suo programma e nella sua difesa intransigente. Lo sforzo quotidiano delle organizzazioni statali, del sindacalismo opportunista infeudato agli interessi nazionali e transnazionali della borghesia è quello di tacciare di “terrorismo” ogni tentativo di non stare al gioco, di non rinunciare alla lotta nella direzione del socialismo.

La messa in campo da parte dell’imperialismo del suo arsenale di guerra consiste nella volontà di scoraggiare e di intimidire. Ma già certi eventi legati alla guerra contro l’Afghanistan dimostrano che l’apparato tecnologico non sempre è in grado di aver ragione dell’avversario. Non staremo certo qui, proprio noi, a sostenere la “superiorità” dei popoli cenciosi. Noi ci atteniamo ad una valutazione delle forze in senso storico-dialettico, e dunque dinamico, nella prospettiva che le stesse realtà storiche testimoniano ogni giorno. Gli spiriti animali del capitalismo consistono anche nella pretesa di schiacciamento delle resistenze proletarie, non solo attraverso l’esercizio della violenza, ma anche attraverso l’indebolimento ideologico dell’avversario.

(53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).

 
 
 
 
 
 
 
 
 


I giovani Marx ed Engels,
gli operai, gli scioperi, i sindacati


Rapporto esposto alla riunione di Genova, maggio 2003.

 
(continua dal numero scorso)
 

I giovani Marx ed Engels, gli operai, gli scioperi, i sindacati ( I )
         1. Un “giovane hegeliano” - 2. La Rheinische Zeitung - 3. Proletariato scoperta classe rivoluzionaria - 4. I Manoscritti parigini - 5. Il lavoro in una società post-capitalista - 6. Prime conclusioni

I giovani Marx ed Engels, gli operai, gli scioperi, i sindacati ( II )
         7. Origini borghesi - 8. Sbarco in Inghilterra - 9. «La condizione della classe operaia» - 10. L’esercito industriale - 11. I sindacati - 12. Sindacati e Partito di classe - 13. Fermandoci qui.
 
 

Nella prima parte di questo nostro investigare sulla genesi dell’approccio marxista ai sindacati abbiamo dato un breve riassunto del lavoro giovanile di Marx, dai tempi della redazione alla Rheinische Zeitung all’esilio a Parigi, e abbiamo ricordato il suo sviluppo intellettuale di transizione dall’hegelismo radicale al materialismo comunista.

Nello stesso periodo colui che sarebbe diventato amico e collaboratore a vita di Marx, Federico Engels, stava battendo una percorso parallelo nel labirinto dei concetti hegeliani, e i due, già prima che si fossero incontrati, si influenzavano reciprocamente tramite i rispettivi scritti sulla stampa radicale. Significativi, e definitivi, contributi allo sviluppo del programma comunista sia Engels sia Marx precedono l’inizio formalmente della loro storica collaborazione, nell’agosto 1844.
 

7. Origini borghesi

Engels proveniva da una benestante famiglia di industriali cotonieri di Barmen, in Renania; fu introdotto nell’azienda familiare all’età di 17 anni, un anno prima di quando avrebbe potuto ottenere il diploma scolastico. Privato di una educazione universitaria si sarebbe presto volto al giornalismo come impegno personale e intellettuale.

Presto dovette venire alle prese con l’educazione religiosa che aveva ricevuto. Fin dal 1839, inizio del suo apprendistato commerciale a Brema, aveva osservato le spaventose condizioni della classe operaia tedesca e l’uso ideologico della religione contro di essa. Si trovò in dissenso col padre, pietista e presumibilmente tetragono nelle sue opinioni: «I padroni di fabbrica pietisti sono quelli che trattano le loro maestranze peggio di tutti; usano ogni mezzo per ridurre le paghe, con il pretesto di togliere agli operai la possibilità di ubriacarsi; perfino nell’elezione dei preti sono sempre i primi ad imbrogliare il popolo». Engels descrive le orribili condizioni delle fabbriche, «si lavora in stanze basse dove si respira più esalazioni di carbone e polvere che ossigeno, e nella maggior parte dei casi si inizia già all’età di sei anni» (Lettere da Wuppertal, marzo e aprile 1839).

L’impegno di Engels alle questioni sociali, unito ad un intenso interesse per la poesia e la letteratura, l’avrebbe presto portato agli scritti di Shelley, «il genio, il profeta». Engels deve sicuramente essersi identificato in questo anarchico ribelle, che era stato espulso dall’università di Oxford per aver consegnato un suo opuscolo ateo al vescovo. Quando Engels tradusse la Queen Mab avrebbe ritrovato sé stesso nel percorso dall’originario coinvolgimento religioso alla ricerca di una soluzione politica alle malattie sociali che si ponevano davanti ai suoi occhi.

Dopo il soggiorno a Brema il ritorno nella casa paterna sarebbe stato impossibile per Engels, già con una consumata reputazione di eresia politica e religiosa. In vista del servizio militare e per un già radicato interesse alle questioni militari, proveniente all’incontro nei suoi anni di infanzia con i veterani di guerra napoleonici, il nostro Federico risolse il problema arruolandosi volontario nella Brigata di Artiglieria, alla quale si presentò, a Berlino, nel 1841.

Colà presto si legò al gruppo Freien, “Il Libero”, il quale allora, trovandosi di fronte sia un irrigidimento delle leggi sulla censura sia l’espulsione di molti dei suoi esponenti dall’insegnamento nelle università tedesche, era indotto a mettere in discussione le sue attese di una lenta e pacifica penetrazione delle idee rivoluzionarie. Era venuto il tempo della contestazione, che mettevano in pratica con vocianti cortei e pose goliardiche in una effervescenza individualista che ricorda le manifestazioni sempre ricorrenti della piccola borghesia.

Del resto, da studente, lo stesso Marx aveva partecipato a simili dimostrazioni, come la “sfilata degli asini”, a Bonn, con Bruno Bauer, ma, compresa la loro inutilità, non avrebbe avuto alcuna remora a condannare certe “scemenze da ragazzi”. Senza dubbio Engels passò anch’esso “nel movimento”, che concentrava le sue invettive sui decani del corpo accademico. Ma, al momento, Marx per Engels era ancora solo una mitica figura di anticonformista, che in un poema dell’aprile 1842 avrebbe descritto come: «Un giudice bruno / una mostruosità sul mercato / Non danza non salta, a passi di gigante grida deliri / Dall’alto lassù afferra e a terra schianta la Grande Tenda del Cielo» (Christliches Heldengedicht).

Alla fine del servizio militare a Berlino, nel settembre del 1842, Engels si proclama ateo in religione ma politicamente indeterminato. Ma presto questo stava per cambiare. Sulla strada di ritorno alla casa paterna in Barmen si sarebbe soffermato a Colonia ed avrebbe incontrato Moses Hess, uno dei primi socialisti (o comunisti) di Germania ed iniziatore e collaboratore alla Rheinische Zeitung. Secondo il resoconto dello stesso Hess, Engels avrebbe avuto una illuminante conversazione sui principi del “vero socialismo”, come esposti nel suo libro La Triarchia Europea, che sosteneva che la rivoluzione era imminente e che sarebbe stato compito dell’Inghilterra sintetizzare, in un nuovo tipo di rivoluzione, la Riforma Tedesca e la Rivoluzione Francese. Acceso da queste idee accettò senza indugio la proposta del padre di trasferirsi in Inghilterra per completare l’apprendistato nella filiale in Manchester dell’azienda familiare, il che gli avrebbe dato l’opportunità di partecipare in prima persona alla rivoluzione che si stava approssimando.

All’epoca Engels era anche regolare collaboratore alla Rheinische Zeitung, con 17 articoli e note a suo nome pubblicati fra aprile e dicembre 1842, contribuenti considerabilmente al tono democratico-rivoluzionario che il giornale avrebbe assunto sotto la direzione editoriale di Marx dall’autunno del 1842. I due uomini si sarebbero incontrati di persona per la prima volta nel tardo ottobre 1842, quando Engels visitò la redazione del giornale nel viaggio di trasferimento al suo ufficio in Inghilterra. L’incontro non fu di gran successo dato che Marx era ben sospettoso di uno che sapeva provenire dalla confusione del Freien. Fu tuttavia convenuto che Engels avrebbe fornito al giornale articoli sugli affari inglesi.
 

8. Sbarco in Inghilterra

Engels arriva a Manchester nel dicembre 1842, dopo aver passato un breve periodo a Londra. Nelle sue prime settimane quasi certamente deve aver lavorato nella fabbrica di Weaste per impratichirsi degli aspetti industriali dei suoi affari, ma presto si trasferisce nell’ufficio annesso al magazzino situato a Southgate, dove la sua conoscenza delle lingue e i suoi contatti con il continente trovano subito utilizzazione.

Da qui in dieci minuti arrivava alla “Sala della Scienza” owenista, dove Engels si sarebbe presto trovato a partecipare attivo ai dibattiti e alle discussioni. «All’inizio – disse – uno non può fare a meno di stupirsi ascoltando nella Sala della Scienza gli operai più comuni parlare con chiara cognizione di questioni politiche, religiose e sociali (...) Vidi la Sala Comunista, che contiene circa 3.000 persone, affollata tutte le domeniche» (MECW, vol.3, p.387).

Nel tardo 1843 Engels avrebbe dato il suo primo contributo all’owenista New Moral World, e si può seguire l’elaborazione del concetto del “costruire la nuova società all’interno della vecchia” in un numero di scritti nei quali approfondisce lo studio delle comunità utopiste vecchie e nuove. Avrebbe anche conosciuto i dirigenti del movimento cartista e della Lega dei Giusti, ma nemmeno in questa organizzazione, nella quale si rintracciano i germi del futuro Partito Comunista, si sarebbe assunto un chiaro impegno, «perché ancora mantenevo, contro il loro angusto comunismo egualitario, una buona dose, altrettanto angusta, di filosofica arroganza».

Nel frattempo aveva intrapreso un intenso studio dell’economia inglese e delle sue condizioni, che avrebbe dato i suoi frutti nello Schema di una critica all’economia politica, pubblicato nel 1844 nei Deutsche-Franzosiche Jahrbucher insieme agli articoli di Marx su La Questione Ebraica e alla Critica della Filosofia del Diritto di Hegel. Lo Schema fece una profonda impressione su Marx tanto da indurlo ancora nel 1859 a segnalarlo come «un brillante sunto di una critica delle categorie economiche». Se molti degli scritti di Engels sogliono esser considerati freddamente analitici, questo – nel quale scorgiamo la commozione di chi ha individuato lo scopo della sua vita, una pioggia di interrogativi ed esclamativi che segnano un infinito di domande che attendono risposta e di fatti orrendi che attendono la loro condanna – preannuncia il prossimo arrivo di una nuova teoria sociale ed economica. Forse è dalla redazione di questo articolo, che ebbe la forza di attrarre l’interesse di Marx sull’anatomia dell’economia capitalistica, che possiamo esattamente datare il vero e proprio sodalizio ideale e la collaborazione fra lui ed Engels.

Quello fra Engels e Marx può esser considerato il prototipo del tipo di rapporti, personali e di milizia, ammesso che sia possibile la distinzione, che si stabiliscono all’interno del partito comunista.
 

9. «La condizione della classe operaia»

Il maggior interesse di Engels in questo suo primo soggiorno in Inghilterra, compito cui, in fondo, allora subordinava tutte le sue ricerche, erano le condizioni di vita del proletariato, studio che avrebbe dato il suo meraviglioso frutto nel libro Le Condizioni della Classe Operaia in Inghilterra, testo che i fondatori del marxismo avrebbero confermato come uno dei loro pochi lavori precedenti il Manifesto da considerare fondamentali, insieme alle Tesi su Feuerbach e alla Miseria della Filosofia.

Nella prefazione alla prima edizione tedesca Engels spiegava che il libro riguardava un argomento che, originariamente, avrebbe dovuto costituire un singolo capitolo di una più ampia disamina sulla storia sociale inglese, ma che l’importanza del soggetto aveva reso necessario studiarlo separatamente. In Inghilterra le condizioni proletarie potevano essere osservate nella loro forma classica, e «una conoscenza delle condizioni proletarie è assolutamente necessaria per provvedere un solido terreno per le teorie socialiste, da una parte, e per il giudizio al loro diritto ad esistere, dall’altra». Questo era in particolare il caso del “teorici tedeschi”, fra i quali includeva sé stesso, che erano arrivati al Comunismo per la via puramente teorica «della dissoluzione feuerbachiana della speculazione hegeliana».

Nel tardo 1845 avrebbe scritto in un articolo sui licenziamenti del 1842: «I lettori del mio libro ricorderanno che intendevo principalmente descrivere l’atteggiamento della borghesia e del proletariato rispettivamente l’uno verso l’altro e la necessità della lotta fra queste due classi; consideravo di speciale importanza provare come fosse pienamente giustificato che il proletariato intraprendesse questa lotta e confutare le belle frasi borghesi di fronte alle loro sporche azioni. Dalla prima pagina all’ultima ho scritto un atto d’accusa contro la borghesia inglese». Di fatto, distinguendosi dai numerosi studi parziali allora in circolazione, Engels redasse un testo che «considera l’insieme degli operai», nella loro totalità, una indagine dei lavoratori così approfondita nel loro contesto di classe che non può non risolversi nella loro negazione rivoluzionaria.

Il libro è famoso per le numerose e dettagliate descrizioni dell’opprimente povertà e fame, delle abitazioni squallide, affollate, cadenti; di uomini donne e fanciulli incatenati alle macchine in fabbriche rumorose e sporche o chiusi nei campi di concentramento delle workhouses; di un lavoro noioso e tristo, condotto nell’atmosfera dittatoriale di una rapina organizzata.

Queste descrizione hanno tale forza che sono state assunte come fonte documentaria fin nelle storie economiche borghesi e nei sillabi di sociologia. Ma lì, non importerebbe dirlo, non sono utilizzate per condannare il capitalismo di oggi, ma odiosamente distorte in una illustrazione di quanto il capitalismo abbia progredito da quei terribili giorni originari. Lavoratori, si intende dire, guardate alla vostra situazione di allora, e guardate quella di oggi! Voi lavoratori e noi capitalisti ora abbiamo entrambi un decente livello di vita da difendere, contro gli stranieri e i sottoproletari! La nostra risposta a questa insinuazione, spesso implicita piuttosto che direttamente affermata, è nelle tesi di Marx sul formarsi e sulla inevitabile rovina dell’aristocrazia operaia. Se le condizioni degli operai sono considerate a scala storica e mondiale, con medie nello spazio e nel tempo, conteggiando i paesi dove capitalismi sorgenti stanno lottando per competere con le nazioni più stabilizzate, e se consideriamo non solo i pochi anni di “benessere” ma anche i lunghi di crisi e recessione, l’effetto dei passaggi descrittivi di Engels delle condizioni della classe operaia tornano a risuonare come potente appello alla rivoluzione, anche se non certo dagli scaffali delle sonnacchiose biblioteche universitarie.
 

10. L’esercito industriale

Nelle parole di Lenin Engels «fu tra i primi a dire che il proletariato non è solo una classe che soffre, ma che è proprio la sua vergognosa situazione economica che irresistibilmente lo spinge avanti, lo obbliga a lottare per la sua finale emancipazione». È questa lotta che qui ci interessa.

Engels descrive molto efficacemente la genesi di questa classe che lotta, dalle origini in un ambiente ad economia largamente rurale ad uno basato sulla produzione di macchine a grande scala.

Prima della rivoluzione industriale dominava l’industria in piccole officine auto-sufficienti: il tessitore e la sua famiglia filano e tessono e mandano con questo avanti la piccola azienda, e rimane loro tempo per dedicarsi ad alcune attività salutari della campagna. L’invenzione della filatrice Jenny, con i suoi 16-18 fusi rispetto all’unico della filatrice a ruota, produsse una carenza di tessitori. Il filare e il tessere, fino allora condotti tradizionalmente sotto lo stesso tetto, si separarono e così «iniziò quella divisione del lavoro che è stata da allora infinitamente perfezionata».

Singoli capitalisti ora scoprono che possono risparmiare sul lavoro del filatore isolato mettendo su in grandi fabbricati delle Jenny mosse dall’energia idraulica, un processo che assunse maggiore impulso dallo sviluppo del filatoio di Arkwright nel 1767. Questa invenzione, che Engels considerava, insieme alla macchina a vapore, la più importante invenzione meccanica del secolo 18°, avrebbe ulteriormente esteso l’invadente sistema delle fabbriche fino a che esse furono progettate specificatamente per essere mosse da un motore meccanico. La stessa macchina a vapore, inventata nel 1764 da James Watt, avrebbe a sua volta rivoluzionato la fornitura di potenza. Nel 1804, l’efficiente telaio di Cartwright, specialmente adatto per il moto fornito dal vapore, venne a competere con successo con i tessitori che utilizzavano il telaio a mano. Il solo modo con il quale questi ultimi ora potevano convivere con le macchine era sfruttandosi a morte, creando una situazione nella quale questi tessitori sarebbero apparsi negli annali del movimento della classe operaia inglese come una delle categorie più esacerbate e combattive.

Ma i tessitori rovinati non furono i soli che sarebbero andati ad accrescere la nuova e rapidamente espandentesi classe proletaria. Engels riferisce di elementi provenienti dal contadiname, proletarizzati a seguito delle concorrenza con le fattorie capitalistiche, e a coloro che erano precedentemente occupati nel vecchio sistema artigianale, dove capimastri ed apprendisti si sarebbero visti sostituiti da grandi capitalisti e da operai privati di ogni prospettiva di sollevarsi dalla loro classe. Avrebbero visto il lavoro manuale sempre più inquadrato nel lavoro di fabbrica e sempre più imposta in ogni forma la divisione del lavoro. «I piccoli padroncini che non potevano competere con i grandi stabilimenti erano gettati nel proletariato. Allo stesso tempo la distruzione della precedente organizzazione del lavoro manuale con lo sparire della piccola borghesia privava il lavoratore di qualsiasi possibilità di sollevarsi esso stesso al livello di borghese. Finora aveva sempre avuto la prospettiva di sistemarsi in qualche modo come maestro artigiano, forse occupare dei giornalieri ed apprendisti; ma ora, quando i capimastri erano messi in soprannumero dagli operai di fabbrica, quando grandi capitali erano divenuti necessari per portare avanti il lavoro in modo indipendente, la classe operaia divenne, per la prima volta, una vera classe permanente della popolazione mentre prima era stata spesso solo una transizione verso la borghesia. Ora chi era fatto per gli arnesi non aveva altra prospettiva che quella di rimanere un manuale per tutta la vita. Per contro ora, per la prima volta, il proletariato era in una condizione tale da poter intraprendere un suo movimento indipendente».

La sola concentrazione dei proletari nei centri industriali bastava a creare la coscienza che, sebbene deboli come individui, essi formavano una potente unità. «Le grandi città sono il luogo di nascita del movimento operaio; lì i lavoratori iniziano a riflettere sulla loro condizione, e a lottare contro di essa; è in esse che si manifesta la prima opposizione fra proletariato e borghesia; da esse escono i sindacati, il cartismo e il socialismo».

Nel frattempo, nelle grandi città la vasta scala delle nuove manifatture, nelle quali molti dipendenti si radunavano sotto lo stesso padrone, veniva a distruggere le ultime vestigia delle relazioni patriarcali. Ma ciò era anche la premessa perché la borghesia non potesse più tiranneggiare sul popolo lavoratore, «saccheggiandolo a volontà, e tuttavia ricevere obbedienza, gratitudine e consenso da quella gente stupida, in cambio di un poco di paternalismo che non costa niente (...) L’operaio, solo quando è lontano dal suo padrone, quando ha compreso che il rapporto fra padrone ed operaio è il rapporto del profitto pecuniario, quando il legame sentimentale fra loro, che non regge alla minima prova, è del tutto dileguato, allora solo il lavoratore inizia a riconoscere i suoi propri interessi, e li concepisce in modo indipendente; solo allora cessa di essere schiavo della borghesia nei suoi pensieri, sentimenti ed espressioni della sua volontà».

Questo processo del sorgere della coscienza di classe è costantemente alimentato dal fatto che ciò che costituisce un vantaggio per la borghesia, nella maggior parte dei casi, è direttamente opposto all’interesse della classe operaia. Il fatto più evidente è che l’operaio è costretto al lavoro. «Se volontaria, l’attività produttiva è la più alta gioia che conosciamo, mentre il renderla forzata è lo strumento della più crudele e degradante punizione. Niente è più terribile di essere costretti a far qualcosa ogni giorno dall’alba al tramonto contro la nostra volontà (...) Ancora una volta il lavoratore deve scegliere: o arrendersi al suo destino, divenendo un “buon” operaio, attento e “premuroso” agli interessi della borghesia, nel qual caso non può non divenire un bruto, oppure si ribella, si batte per la sua umanità fino in fondo, cosa che può fare solo nella lotta contro la borghesia».

Infine Engels descrive coloro che si trovano senza lavoro. I capitalisti avevano bisogno «in ogni tempo, tranne che nei brevi periodi del massimo di prosperità, di un esercito di riserva del lavoro per poter produrre la massa di merci richiesta dal mercato nei mesi immediatamente successivi. Questo esercito di riserva è più grande o più piccolo secondo che lo stato del mercato determina l’impiego di una maggiore o minore proporzione dei suoi membri». Ed Engels descrive nei suoi duri dettagli lo stato di mendicanti e di privazione che ne deriva.

Questo esercito di riserva, ulteriormente accresciuto da coloro che vengono sostituiti dalle macchine e dalle ondate di immigrati provenienti dall’Irlanda, avrebbe messo energicamente all’ordine del giorno la questione della concorrenza dei proletari fra di loro. Questo avrebbe prodotto da una parte una più avanzata coscienza di classe, dall’altra un corporativismo meschino. Nella battaglia operaia per paghe migliori e migliori condizioni di vita, l’arma più affilata che la borghesia potesse dispiegare contro i lavoratori fu la concorrenza per il lavoro. «Da qui lo sforzo degli operai per annullare la concorrenza con le associazioni, da qui l’odio della borghesia verso queste associazioni e il loro giubilo in ogni sconfitta che le colpiva».
 

11. I sindacati

E finalmente, come l’eroe di Lawrence Sterne nel Tristram Shandy che nei primi due volumi non è nemmeno nato, arriviamo al nostro topico argomento: i sindacati.

La rivolta degli operai inizia subito dopo il primo sviluppo industriale, e attraversa diverse fasi.

«La prima, più rozza e meno fruttifera forma di questa ribellione fu il delitto». Vi ricorsero largamente quelli, fra gli operai disoccupati della popolazione “soprannumeraria”, che avevano «abbastanza coraggio e animo per resistere apertamente alla società e per rispondere, con una guerra dichiarata alla borghesia, alla guerra dissimulata che la borghesia conduceva contro di essi». Ma era una risposta più individuale che di classe.

«Come classe mostrarono la prima opposizione alla borghesia quando resistettero alla introduzione delle macchine, giusto all’inizio del periodo industriale. I primi inventori, Arkwright ed altri, furono perseguitati per questo e le loro macchine distrutte». Questa forma luddista di opposizione fu diretta tuttavia solo contro un aspetto del nuovo sistema, e «una nuova forma di opposizione doveva esser trovata».

«A questo punto venne un aiuto, sotto forma di una legge approvata dal vecchio, non riformato, parlamento oligarchico-Tory, una legge che non sarebbe mai potuta passare nella House of Commons più tardi, dopo che la Reform Bill avesse sanzionato legalmente l’opposizione fra borghesia e proletariato e fatto della borghesia la classe dominante. Quella legge, promulgata nel 1824, venne ad abrogare tutte le leggi secondo le quali le coalizioni fra operai per questioni di lavoro erano state fino ad allora proibite. Gli operai ottennero così un diritto precedentemente riservato alla aristocrazia e alla borghesia, il diritto alla libera associazione». Engels prosegue ricordando che coalizioni segrete erano esistite anche prima ma «non avevano potuto raggiungere grandi risultati, il fatto di essere segrete impedendone la crescita». Dopo il 1824 «queste associazioni rapidamente si diffusero in tutta l’Inghilterra e raggiunsero una grande forza». Si formarono Trade Unions in tutti i rami di industria con la proclamata intenzione di proteggere il singolo operaio dalla tirannia e dalla trascuratezza della borghesia».

Gli obbiettivi delle Trade Unions erano «fissare i salari e trattare in massa con i padroni; regolare la tariffa delle paghe in funzione del profitto di questi ultimi, aumentarla quando ve ne sia l’opportunità, e mantenerla uniforme in ogni categoria in tutto il paese. Cercavano di concordare con i capitalisti la scala dei salari, che dovrà essere applicata universalmente, ed ordinavano uno sciopero ai dipendenti di coloro che rifiutavano di accettarla». Altro scopo consistevano nel sostenere la domanda di lavoro imponendo un limite al numero di apprendisti e nell’appoggiare finanziariamente con le associazioni di assistenza i disoccupati in cerca di lavoro».

«Per raggiungere questi scopi erano previsti un Presidente ed un Segretario retribuiti (dato che certo nessun industriale li avrebbe assunti), ed un comitato che raccoglieva le quote settimanali e controllava la congruità delle spese agli scopi dell’associazione.

Quando si dimostrava possibile e vantaggioso i vari sindacati di un dato distretto si univano in federazione e tenevano un convegno di delegati ad intervalli prestabiliti. In singoli casi fu fatto il tentativo di unire i lavoratori di una categoria di tutta l’Inghilterra in una grande Unione; e alcune volte (nel 1830 per la prima) di formare un sindacato universale per tutta la Gran Bretagna, con una separata organizzazione per ogni industria. Queste associazioni, però, mai restarono insieme a lungo e furono mantenute solo per breve periodo, dato che è necessario un eccezionale generale entusiasmo per rendere tale federazione possibile e funzionante».

I sindacati furono poi pesantemente condizionati dalla legislazione borghese, con forza legale molto debole «quando vi sono degli operai al di fuori del sindacato, o quando dei membri si separano da esso in vista di un momentaneo vantaggio offerto dalla borghesia. Specialmente in caso di scioperi parziali gli industriali possono presto trovare sicure risorse da quelle pecore nere (detti “crumiri”), e rendere senza frutto gli sforzi dei lavoratori coalizzati. I crumiri di solito sono oggetto di minacce da parte dei membri dei sindacati, insultati, bastonati o malmenati in qualche modo, intimoriti insomma con tutti i mezzi. Ne seguono dei procedimenti penali, e poiché la borghesia ben conosce la sua legge e ha il potere nelle mani, la forza del sindacato è spezzata quasi tutte le volte dal primo atto illegale, dal primo procedimento giudiziario contro i suoi membri».

«La storia di questi sindacati è una lunga serie di sconfitte degli operai, interrotta da poche isolate vittorie. Tutti questi sforzi naturalmente non possono alterare la legge economica secondo la quale i salari sono determinati dal rapporto fra la domanda e l’offerta sul mercato del lavoro. Quindi i sindacati restano impotenti contro le grandi forze che influenzano questa relazione. In una crisi commerciale il sindacato stesso deve ridurre le paghe o sparire del tutto, mentre in tempi di forte incremento della domanda di lavoro non può fissare la tariffa dei salari più in alto del livello che avrebbe raggiunto spontaneamente attraverso la concorrenza dei capitalisti fra di loro. Ma riguardo minori, singole situazioni essi sono potenti. Se il padrone non si attendesse una opposizione concentrata, collettiva, potrebbe nel suo interesse gradualmente ridurre le paghe ad in livello sempre più basso; in verità la battaglia della concorrenza che ha da condurre contro i suoi compari industriali lo costringerebbe a far così, e le paghe rapidamente arriverebbero ad un minimo. Ma questa concorrenza degli industriali fra di loro è, in condizioni medie, in qualche modo condizionata dall’opposizione dei lavoratori».

«Ogni industriale sa che la conseguenza di una riduzione non giustificata dalle condizioni, alle quali i suoi concorrenti sono ugualmente soggetti, porterebbe ad uno sciopero. Inoltre il sindacato spesso ottiene un più rapido incremento delle paghe dopo una crisi di quanto accadrebbe senza. L’interesse degli industriali è di rimandare l’aumento delle paghe finché non costretti dalla concorrenza, a meno che i lavoratori non chiedano un adeguamento delle paghe appena il mercato migliora, ed essi possono ottenerlo per via della minore offerta di lavoratori a disposizione in tali circostanze. Ma i sindacati sono impotenti a resistere alle più grandi forze che influenzano il mercato del lavoro. In tali casi la fame progressivamente porta gli scioperanti a tornare al lavoro a qualsiasi condizione, e quando alcuni pochi comincino la forza del sindacato è spezzata, perché questi pochi crumiri, con il residuo rifornimento di merci sul mercato, permettono alla borghesia di superare gli effetti peggiori dell’interruzione degli affari. Le casse del sindacato sono presto esaurite dal gran numero di chi cerca aiuto, il credito che i bottegai danno ad alto interesse è presto revocato, e ciò costringe l’operaio a rimettersi sotto il giogo della borghesia. Gli scioperi per lo più si risolvono in un disastro per i lavoratori (...) Ci si domanderà: perché, allora, i lavoratori scioperano in tali casi, quando l’inutilità di tali azioni è così evidente? Semplicemente perché essi debbono protestare contro ogni riduzione, contro la necessità di questa riduzione; perché essi si sentono obbligati a proclamare che essi, come esseri umani, non possono sottomettersi alle circostanze sociali; ma che le condizioni sociali dovrebbero adattarsi ad essi, esseri umani; perché il silenzio da parte loro sarebbe un riconoscimento di queste condizioni, un permesso alla borghesia a sfruttare gli operai in tempi buoni e lasciarli morir di fame in tempi cattivi».

Molti punti importanti sono sollevati in questo passaggio. Per cominciare, si nota che i sindacati sono largamente impotenti, dovendo contenersi all’interno dei vincoli imposti dalla legge capitalistica della offerta e della domanda di lavoro. Per questo sono più efficaci nel protestare contro i peggioramenti delle condizioni di vita quando l’offerta di lavoro non è esuberante, quando il vantaggio non è dalla parte del capitalista ed essi si trovano quindi a contrastarsi alla pari di fronte alla stessa legge. In caso di troppa offerta di lavoro, invece, la protesta sindacale urta contro lo scoglio fondante del sistema mercantile, ed è in questo caso che il puro tradeunionismo incontra i suoi limiti. «L’attiva resistenza dell’operaio inglese ha il suo effetto nel mantenere la borghese ingordigia di denaro entro certi limiti e nel mantenere viva l’opposizione degli operai all’onnipotenza sociale e politica della borghesia, mentre sollecita l’ammissione che qualcosa di più dei sindacati e degli scioperi è necessario per spezzare il potere delle classi dominanti».
 

12. Sindacati e Partito di classe

È in questo contributo dei sindacati all’inquadramento materiale della classe, e nello stesso tempo nel dimostrarne i limiti, che Engels individua la loro importanza. «Sono la scuola di guerra degli operai, nella quale si preparano per la grande battaglia che non può essere evitata; essi costituiscono la dichiarazione di singole categorie di industria di aderire anch’esse al movimento operaio (...) E come scuole di guerra i sindacati sono insuperabili».

Ma lasciate alla loro propria inclinazione le lotte sindacali tendono a rimanere isolate, ristrette all’interno di ambiti particolari. Un passo avanti gigantesco è fatto, perciò, quando differenti reparti si collegano, ma «quando la lotta divenne generale, questo dipese poco dalle intenzioni degli operai; né quando accadde fu premeditato, in quanto sotto di essa c’era il Cartismo. Ma nel Cartismo è l’intera classe operaia che si erge contro la borghesia, e attacca innanzi tutto il potere politico, il bastione legislativo del quale la borghesia si circonda».

Il punto cruciale da considerare è che il sindacalismo diventa una minaccia per la borghesia solo se travalica l’angusto limite sindacale e collega più reparti della classe lavoratrice. Per questa più ampia prospettiva, che esula dalla coscienza degli operai, è necessaria una direzione politica; una direzione politica, Engels già vuol dire, che deve essere importata nel movimento sindacale dall’esterno, osservazione questa di solito associata a Lenin. Solo se i sindacati subordinano le loro lotte settoriali alla lotta contro l’ordine sociale capitalistico possono guadagnare risultati non contingenti e non parziali per i loro associati.

Il fallimento dello sciopero del 1842 fu dovuto al fatto che gli operai non avevano chiari i fini, al non essere una «cosciente insurrezione operaia». Senza questa coscienza dei loro fini gli scioperanti divennero massa di manovra per la borghesia liberale, «impugnati come un bastone contro i Tory», ridotti al ruolo di truppe schierate contro l’aristocrazia terriera sul fronte della campagna avversa alla legge sul grano.

La principale lezione che fu tratta dallo sciopero del 1842 fu quindi sugli interessi di classe, poiché «il risultato della sollevazione fu la definitiva separazione del proletariato dalla borghesia». Alla Convenzione Nazionale a Birmingham del 1843 il radicalismo borghese si sarebbe scisso dal movimento cartista lasciando che gli operai cartisti abbracciassero «con raddoppiato zelo tutte le battaglie del proletariato contro la borghesia». «I “Sei Punti”, che per la borghesia radicale erano l’inizio e la fine della questione, che erano considerati, al massimo, per richiedere ulteriori riforme della Costituzione, sono per il proletariato solo dei mezzi per fini ulteriori», e, «benché il loro socialismo sia ancora molto poco sviluppato (...) già le misure che propone implicano l’alternativa che essi o devono ancora una volta soccombere al potere della concorrenza e ripristinare l’antico stato di cose, ovvero essi debbono aver definitivamente la meglio sulla concorrenza ed abolirla». D’altro lato «il presente stato indefinito del Cartismo, il suo separarsi da un partito esclusivamente politico [“politico” qui significa in mero senso “parlamentare”], implica che proprio la sua caratteristica, il suo aspetto sociale, ha da essere ulteriormente sviluppato».

Engels quindi passa ad una dettagliata critica del Cartismo e del socialismo come esistevano all’epoca, concludendo che la questione fondamentale da risolvere per tutte le varie forze coesistenti nel movimento della classe operaia era una spiegazione effettivamente scientifica ed una descrizione dei problemi della classe lavoratrice e dei mezzi organizzativi e teorici per risolverli.
 

13. Fermandoci qui

C’è molto ancora del libro di Engels che avremmo potuto riportare; notevoli le descrizioni delle condizioni di vita e di organizzazione dei minatori e del proletariato agricolo. Ma abbiamo voluto concentrarci su quei passaggi dove Engels, pioniere dell’esplorazione sociale, infigge le pietre miliari dell’approccio comunista e marxista al movimento immediato e spontaneo della classe, che rimangono del tutto immodificate ai nostri giorni e che hanno dischiuso la via al nostro approccio generale teorico sulla questione sindacale.
 

Riassumiamo brevemente i più importanti punti sollevati:

1. Senza la pressione concentrata e collettiva dei lavoratori organizzati in sindacati i capitalisti, per effetto della concorrenza fra loro, schiaccierebbero i salari ad un livello minimo;

2. I sindacati hanno un potere effettivo riguardo ad ambiti temporanei e delimitati e in condizioni ad essi favorevoli del mercato del lavoro;

3. I sindacati sono impotenti contro le grandi forze economiche che influiscono sull’offerta e sulla domanda di lavoro;

4. I sindacati hanno la tendenza a rimanere isolati all’interno dei rispettivi settori; riescono a concentrarsi solo in tempi di generale eccitazione operaia;

5. I sindacati sono la scuola di guerra degli operai nei quali, senza esserne coscienti, si inquadrano e si preparano per la grande battaglia che li attende e nella quale verranno a negarsi in quanto classe del lavoro salariato;

6. I sindacati saranno ingranaggi indispensabili nella lotta più generale della classe volta alla conquista dei suoi massimi fini politici, ma ciò comporterà un’accresciuta coscienza politica che sarà apportata, dal suo esterno, dal partito politico comunista.
 

Ancora nel 1892, in una nuova, e ultima, Introduzione a “Le Condizioni”, il nostro Federico, sempre modestissimo verso sé stesso, dirà di considerare il libro «una delle fasi dello sviluppo embrionale del marxismo», ma, nel precisare la sua visione dei sindacati, dopo l’esperienza di mezzo secolo, è costretto a tirar fuori quello che aveva scritto nel 1844: che la lotta sindacale, isolata dalla battaglia contro il capitalismo, è condannata al fallimento. Questo punto di vista chiave, ribadito così insistentemente nel suo vecchio libro, da allora ci serve a irrevocabile smentita di tutte le sempre rinnovate teorie che cercano di mantenere e giustificare la separazione della classe operaia, organizzata in sindacati, dal suo partito politico di classe.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Capitale e Popolazione

Rapporto esposto alla riunione generale del gennaio 2002.
 

        1. Opposte teorie: Visioni apocalittiche e tremori borghesi - La “ecologica” teoria di Malthus - False soluzioni ad un falso problema - Marxismo e popolazione
        2. Le leggi della popolazione nei modi di produzione precapitalistici: Forma primaria - Paleolitico - Neolitico - Forma secondaria - Forma terziaria - Fra feudalesimo e capitalismo
        3. La legge della popolazione nel capitalismo: Borghese impotenza e nevrosi - La sovrappopolazione relativa - Popolazione e rivoluzione capitalista - La crescita rallenta - Le tendenze in Asia e in Africa - Verso un stato stazionario? - La popolazione nel Comunismo.
 
 
 
 

Questioni quali la sovrappopolazione ovvero il calo demografico, lo sviluppo in tempi brevissimi di enormi e affollate megalopoli, l’alterazione improvvida dei sistemi naturali sono all’ordine del giorno dei dibattiti propinatici dai media. Se alcuno di questi argomenti perde di attenzione torna in auge poco tempo dopo. Su giornali e televisioni la trattazione di tali dinamiche si limita a statistiche e denunce, mai però se ne risale alle cause sociali materiali, spesso, a loro stesso dire, catastrofiche. Il capitalismo è razionalità per il profitto e irrazionalità per la Specie umana. La produzione alimentare pro capite mondiale media è oggi di circa 2.700 calorie giornaliere, ma 2,8 miliardi di esseri umani (il 48% della popolazione) vive sotto la soglia dei due dollari al giorno, e di questi 1,2 miliardi vivono con meno di un dollaro al giorno. Le capacità della medicina sono oggi di molto progredite rispetto ai secoli passati, ma ben 18 milioni di persone all’anno muoiono di fame e stenti, fra questi 6 milioni sono bambini.

Nel capitalismo attuale ogni equilibrio è infranto, ogni simmetria. Esistono tanto zone sovraffollate e città con più di 20 milioni di abitanti quanto, all’opposto, zone spopolate e non perché quelle terre siano ingrate, ma perché il capitale si indirizza soltanto in determinati ristretti punti, in quelli dai quali trae il massimo tasso del profitto.
 

1) Opposte teorie

Visioni apocalittiche e tremori borghesi

La popolazione del mondo, che ammontava a circa un miliardo di abitanti nel 1830, ha impiegato 100 anni (1830-1930) per raggiungere i 2 miliardi; 30 anni (1930-1960) per raggiungere i 3 miliardi; 15 anni (1960-1975) per raggiungere i 4 miliardi; 12 anni (1975-1987) per raggiungere i 5 miliardi; altrettanti 12 (1987-1999) per raggiungere i 6.

Se però calcoliamo semplicemente i ritmi di crescita medi annui, il quadro assume un aspetto del tutto diverso:

Miliardi
di uomini
Anno Anni Tasso
medio %
1 1830
100  7,0
2 1930
  30 13,6
3 1960
  15 19,4
4 1975
  12 18,8
5 1987
  12 15,3
6 1999

Altre cifre sono presentate come “senzazionalistiche”. Si è stimato che: dall’8000 a.C. all’anno 0 si è passati sulla Terra da 8 milioni a 300 milioni circa di abitanti; dall’anno 0 al 1750 da 300 a 800 milioni, fin qui con ritmi medi di crescita minimi, dell’ordine dello 0,5%. Dal 1750 al 1800 si arriva al miliardo con un tasso salito al 4,5%; nel 1850 gli abitanti della Terra giungono a 1,3 miliardi e nel 1900 1,7 miliardi. Nel 1950 la popolazione arriverà a 2,5 miliardi (tasso giunto al 7,7%). Dal 1950 al 1975 il grande balzo a 5 miliardi (+28,1%), rallentando poi: al 2000 il tasso torna al 7,7%! Se col tasso di incremento avutosi fra l’anno 0 e il 1750 vi è stato un raddoppio demografico ogni milleduecento anni, oggi il raddoppio è circa ogni trentacinque.

Le tre colonne qui a destra, con intervalli temporali minori, provengono da altra fonte (Calendario Atlante De Agostini) ma danno risultati analoghi: il massimo dell’espansione si è avuto dal 1960 al 1970.

  Anno Popola- Peri-  Tasso
        zione   odo   medio
       milioni anni     %
 Anno Popola- Tasso
       zione
      milioni   %
 -8000      8
                8000     0,5
     0   300
                1750     0,6
  1750    800
                  50     4,5
  1800   1000
                  50     5,3
  1850   1300
                  50     5,4
  1900   1700
                  50     7,7
  1950   2500
                  25    28,1
  1975   5000
                  25     7,7
  2000   6060
    0    270 
  1650    545    0,4
  1800    875    3,2
  1840   1000    3,3
  1870   1343    9,9
  1900   1551    4,8
  1910   1686    8,4
  1920   1770    4,9
  1930   2013   12,9
  1940   2175    7,8
  1950   2504   14,2
  1960   3014   18,7
  1970   3683   20,2
  1980   4453   19,2
  1990   5215   15,9
  2000   6000   14,1

Su “Le Scienze” n.79/1975, in La storia della popolazione umana, Ansley J. Coale scriveva: «Questo periodo d’aumento sarà, senza dubbio, un episodio transitorio nella storia della popolazione. Se l’attuale tasso dovesse mantenersi, la popolazione si raddoppierebbe all’incirca ogni 35 anni, si moltiplicherebbe per mille ogni 350 e per un milione ogni 700 anni. Le conseguenze di un prolungato aumento a questo ritmo sono chiaramente insostenibili: in meno di 700 anni vi sarebbe una persona per ogni metro quadrato di superficie terrestre; in meno di 1200 anni la popolazione umana peserebbe più della Terra; in meno di 6000 anni la massa umana formerebbe una sfera in espansione alla velocità della luce».

Nel 1729, in una satira sprezzante contro l’aristocrazia, Una modesta proposta, Jonathan Swift consigliava provocatoriamente, con accurati calcoli, che i bambini poveri irlandesi venissero mangiati dall’aristocrazia, così che questa non venisse più turbata dalla crescente presenza di tali miserabili, che disturbavano il suo ipocrita “quieto vivere”. Quasi tre secoli dopo lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick, nel romanzo “The crack in space”, immaginava una Terra del futuro in cui, per risolvere il problema della sovrappopolazione, si ibernavano gli abitanti in eccedenza (ovviamente tutti proletari).

Da tre secoli quindi le classi dominanti inorridiscono di fronte al “problema popolazione” solo perché dietro la umana forza vitale scorgono la Rivoluzione. Scrive su “Le Scienze” (n.402/2002) John Bongaarts, vice presidente della Policy Research Division del Population Council: «la popolazione non è la causa principale dei problemi sociali, economici e ambientali che affliggono il mondo, ma vi contribuisce in modo sostanziale. Se la popolazione fosse aumentata meno rapidamente in passato le cose andrebbero meglio»...
 

La “ecologica” teoria di Malthus

Nel 1798 il prete-economista Thomas Robert Malthus pubblicò il Saggio sul principio di popolazione che, riprendendo teorie in circolazione già da tempo, cercava di dimostrare l’impossibilità che possa mai esistere una società migliore, armonica e senza disuguaglianze sociali, a causa della “orribile” legge di popolazione. In una nota del Capitale Marx scriveva al riguardo: «Questo scritto (...) non è che un plagio superficiale da scolaretto, declamatorio in maniera pretesca, di scritti di De Foe, Sir James Steuart, Townsend, Franklin, Wallace, ecc. e non contiene nemmeno una proposizione originale. Il grande scalpore dettato da questo opuscolo fu dovuto unicamente a interessi di partito». Non a caso l’intellettualità borghese, sempre più incapace di conoscere l’essenza della società attuale, fa tuttora riferimento a quel libercolo in modo costante e continuativo.

La legge di Malthus sulla popolazione è così enunciata: «Il potere di popolazione è infinitamente maggiore del potere che ha la terra di produrre sussistenza per l’uomo. La popolazione, quando non è frenata, aumenta in progressione geometrica. La sussistenza aumenta soltanto in progressione aritmetica». Malthus asseriva questo senza preoccuparsi minimamente di dimostrarlo. Una crescita si dice aritmetica se avanza sempre con lo stesso passo (1, 2, 3, 4, 5...), geometrica se ogni passo è proporzionalmente maggiore del precedente (1, 2, 4, 8, 16...).

Per Malthus, affinché venisse frenata questa geometrica crescita dei bipedi umani, bisognava 1°) agire in senso preventivo all’interno delle famiglie (“freno preventivo”); 2°) mantenere «le effettive privazioni di alcuni membri delle classi inferiori che impediscano loro di fornire il cibo e le cure necessarie ai figli», cioè fare morire di fame il proletariato (“freno positivo”). «A questi due grandi freni alla popolazione – scriveva ancora Malthus – si possono aggiungere i costumi viziosi nei riguardi delle donne, le grandi città, le manifatture insalubri, il lusso, le pestilenze e la guerra». Queste sarebbero state «le vere cause del lento incremento della popolazione» avutosi fino ad allora, che controllavano la geometrica crescita della popolazione nell’Europa del tempo.

Già al suo tempo Malthus era un reazionario, che non solo con la sua teoria mirava a confutare le teorie egualitarie di Godwin e Condorcet, ma era anche apertamente schierato contro la borghesia figlia della rivoluzione industriale e della rivoluzione francese, e vicino alla classe dei proprietari fondiari. Basterà però qualche decennio affinché Malthus venga riconosciuto degno rappresentante della criminale economia politica borghese e ben da questa utilizzato pei suoi beceri scopi di propaganda.

Le moderne semplificazioni degli ecologisti, che riducono la dialettica della lotta delle classi ad un contrasto astratto uomo-natura, ben possono dirsi neo-malthusiane.

Malthus è criticabile principalmente su tre punti: 1°) la sua legge delle differenti curve di crescita di popolazione ed alimentazione sono negate già dalla più superficiale osservazione del vissuto storico mondiale; 2°) la crescita più o meno veloce delle popolazioni è strettamente correlata al tipo di società civile vigente, ed oggi strettamente alla richiesta del Capitale di manodopera, e non alla maggiore o minore disponibilità alimentare; 3°) ogni modo di produzione ha specifiche leggi di popolazione ed è quindi vano cercare leggi di incremento della popolazione basate solo su fattori “animali”, biologici e darwiniani in senso stretto. “La popolazione è un’astrazione” aveva notato Marx. La popolazione è fatta di classi, ad esempio, e le classi presuppongono delle determinazioni economiche che regolano l’intero sistema vigente. Ogni società di classe determina proprie generali leggi di popolazione, e in particolare leggi specifiche ad ogni classe all’interno dello stesso modo di produzione. Oggi è nelle leggi del sistema capitalistico l’essenza del “problema demografico”.

Per dimostrare quanto sia falsa l’asserzione della crescita soltanto aritmetica delle risorse di cibo rispetto a quella geometrica della popolazione, basti, per esempio, la seguente tabella pubblicata nel nostro Corso del capitalismo mondiale (pag. 278) che è doppiamente indicativa perché riguarda proprio l’Inghilterra, paese del quale trattava il Malthus (la popolazione è in milioni, le produzioni in milioni di quintali):
 

 Anno Popol Cereali Patate Carne  Latte
 1890  37,5    56,9    32,3
 1900  41,2    52,5    32,7
 1910  44,9    51,7    36,4
 1913  45,6    50,2    37,3
 1929  48,6    48,2    45,3
 1938  47,6    45      50     14,9    83
 1947  49,6    63      79      9,1    87
 1955  51,2    89      64     17,3   110
 1960  52,4    94,6    72,7   17,1   120,1 
 1970  55,6   132,7    78,2   21,0   129,7
 1980  56,3   194,8    71,1   23,1   159,7
 1984  56,5   265,3    74,0   23,7   162,0

Se l’Inghilterra avesse dovuto seguire le leggi malthusiane oggi dovrebbe avere un miliardo e 800 milioni di abitanti: la popolazione è invece aumentata del 66% e la produzione di cereali del 500%!

È inoltre del tutto infondata la tesi secondo la quale più popolazione = miseria; meno popolazione = ricchezza. Nel 1846, ad esempio, l’Irlanda subì una terribile carestia che si portò via un terzo della popolazione. Degli 8,2 milioni di abitanti registrati nel 1841, un milione morirono per la carestia e 3 milioni emigrarono dove erano richiesti dal capitalismo industriale, cioè negli Stati Uniti. Una simile perdita di popolazione avrebbe segnato la morte dell’Irlanda in quanto paese industriale. Ma l’Irlanda non era più che un distretto agricolo dell’Inghilterra. Nel 1956-57 (cioè più di un secolo dopo) l’Irlanda (Eire indipendente e Contee del Nord) aveva 1 milione di abitanti in meno che nel 1867, mentre l’industriale Gran Bretagna è passata dai 27,5 milioni di abitanti nel 1850 ai 52 milioni nel 1956-57. Ma il modello filo-malthusiano, credendo nelle proprie dabbenaggini, continua a ripetere il contrario (ah che bella vita avreste fatto, proletari irlandesi!).

Non basta il cibo? Secondo “The Economist” del 10 giugno ‘95 «il mondo è perfettamente capace di nutrire, d’ora in poi, 12 miliardi di persone». Secondo altre stime le risorse agricole mondiali sono in grado di fornire cibo per 2.500 calorie procapite al giorno a 40 miliardi di persone. Ma, vivendo nella società capitalistica, il pane diventa una merce e, per esser consumato non basta che sia disponibile, deve generare rendita e profitto e quindi deve esse scarso, riservato agli uomini che posseggono la moneta socialmente necessaria per acquistarlo.

Sul piano storico, per effetto della Rendita, verificammo la legge marxista della diminuzione del prezzo dei manufatti e dell’aumento del prezzo degli alimenti. Monta l’assurda e irrazionale massa di merci inutili e stupide ad uso della borghesia e dell’aristocrazia operaia – tra l’altro Malthus aveva teorizzato anche la necessità di una classe la cui unica funzione fosse... consumare – mentre la grande maggioranza del proletariato e del semi-proletariato vive in condizioni di mera sopravvivenza.

Il professore di demografia dell’Università di Roma, Antonio Golini, in un “tascabile” difende Malthus in quanto, al suo tempo «non poteva certo prevedere che nell’arco di due secoli il progresso scientifico avrebbe consentito un aumento straordinario nelle produzioni alimentari». Malthus è invece da censurare sia perché nei modi di produzione precedenti al capitalismo la crescita era stata di tutt’altro tipo ed entità, sia perché già a metà ottocento si poteva notare che il grande balzo della popolazione avveniva soltanto dove si impiantava il capitalismo industriale e, dove questo si impiantava, la crescita demografica non presentava una “costanza geometrica” né la produzione di alimenti una “costanza aritmetica”.

Golini d’altronde si adagia sul “metodo” di studio preferito dalla borghesia attuale: isolare una data questione e studiarla in modo astratto e avulsa da ogni determinazione più generale. Ogni questione diventa un “problema” risolvibile in sé. Le soluzioni quindi a dati fenomeni patologici quali l’urbanizzazione, la popolazione, l’ambiente, ecc., sarebbero da ricercarsi nel fenomeno stesso. Così Golini, considerato fra le maggiori autorità in Italia in materia di popolazione, con la serenità propria del dottore universitario, si sbilancia nella moralistica tautologia: «La carenza di cibo potrà essere evitata visto che ci si aspettano ulteriori miglioramenti nella produzione del settore agricolo, a patto che se ne faccia una gestione prudente ed equilibrata». Vale qui la sentenza del grande calabrese Tommaso Campanella: «Chi sa una scienza sola, non sa quella né l’altre bene; e che colui che è atto ad una sola, studiata in libro, è inerte e grosso» (La Città del Sole).
 

False soluzioni ad un falso problema

Quanto prostituito e volgare sia il campo della cosiddetta demografia, pretesa “scienza della popolazione”, lo si può vedere dalle soluzioni proposte dagli “esperti”.

Nel 1974 alla Conferenza di Bucarest sul tema del controllo delle nascite la diplomazia del Vaticano trovò un alleato nella Cina di Mao contro gli Stati abortisti: la rivoluzione borghese anche in Cina doveva passare attraverso... la Grande Procreazione, essendo il numero – i “milioni di baionette” – il primo orgoglio nazionale. La successiva, più matura, fase della industrializzazione cinese ha invece capovolto quella politica ed imposto un drastico limite al numero di due figli per coppia. Il Vaticano invece è rimasto coerentemente anti-abortista.

Nel 1984, a Città del Messico, alleati del Vaticano divennero invece gli Stati Uniti di Reagan.

Nel 1994 si tenne, con roboante opera di marketing, la Conferenza del Cairo sulla popolazione. In questa il papa poté affiancarsi a diversi altri paesi fra cui l’Argentina sull’orlo della catastrofe economica e i paesi dell’Islam: cosa di meglio dei precetti religiosi per dominare su corpi umani rosi dalla fame? Il documento finale, che promise di essere attuato nei dieci anni successivi (ne sono già passati inutilmente nove), è solo un campionario di mediocri buone intenzioni: gli Stati partecipanti dichiararono di unirsi per combattere il pericolo demografico; si stabilì che soltanto un progresso delle condizioni socio-economiche avrebbe potuto permettere un miglioramento della situazione demografica, e ci si pose come obiettivo che le Nazioni Unite si facessero promotrici di un “sistema di conferenze al fine di valorizzare l’uomo e l’ambiente”.

Questo costoso teatrino messo in piedi dalla diplomazia internazionale con l’appoggio di tutte le Chiese, le associazioni umanitarie, ecc., serve solo a far credere al proletariato che il guaio sta nella sovrappopolazione e non nel capitalismo. Scrivevamo in Proprietà e Capitale: «Cosa c’entra l’”eccesso” di popolazione con le crisi industriali, monetarie, di borsa, con le guerre, con tutte le delizie che il sistema capitalistico “produce” come effetti del suo solo esistere? Nello stadio senile, ormai da molto tempo, il capitale non può che dilapidare piuttosto che sostenere i bisogni primari, non abbastanza remunerativi, di popolazioni pauperizzate. Non fa che salassare il corpo sociale, sottrarre all’organismo vivente della specie quantità sempre più grandi di linfa vitale sia sfruttando sempre di più, sia inquinando sempre di più, sia dilapidando sempre di più. E se la sovrappopolazione esiste (...) non è perché il modo di produzione non può produrre i beni occorrenti a soddisfare i bisogni primari e anche secondari di questa parte della popolazione non lavorativa e quindi non guadagnante e pagante, ma perché il sistema capitalistico ha preferito produrre, per scopi più remunerativi, più articoli lussuosi, assurdi, malsani o omicidi, per una popolazione, quella dei non produttori, dei parassiti, che in un modo o in un altro si appropria di gran parte della ricchezza sociale da essi non prodotta» (“Prometeo”, n.10/1948).
 

Marxismo e popolazione

Nel Simposio di Platone, il personaggio di Aristofane racconta un mito secondo il quale all’origine dell’umanità non esistevano l’uomo e la donna, ma un tipo di genere umano detto l’uomodonna, un insieme dei due sessi. Avendo voluto sfidare gli dèi venne punito da Zeus con la violenta divisione in due parti, i due distinti sessi, cosicché «dopo il dimezzamento della figura umana, ogni parte rimpiangeva quel suo doppio e vi aderiva; era tutto un intrecciarsi con le braccia, un vivo nodo, come una febbre di fondersi ancora, così morivano di sfinimento, di totale inerzia, poiché non si adattavano a compiere una sola mossa l’uno senza l’altro».

Per il marxismo la procreazione è la prima e fondamentale delle forze produttive. Fa parte della sottostruttura, insieme alle tecniche agricole e industriali e insieme alle condizioni geografiche e ambientali. Ogni società civile tende a piegare la forze produttive alle necessità ed agli interessi delle classi dominanti. Alla bisogna gli Stati possono, per mezzo della forza, acconsentire al loro libero sviluppo oppure darsi a reprimerle. Ed oggi ben vediamo come tutte le istituzioni borghesi si adoperino in quest’opera di contenimento, su tutti i piani, con tutti i mezzi, cruenti o “indolori”, e in tutti i sensi.

Ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato Engels scriveva: «Secondo la concezione materialistica, il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata. Ma questa è a sua volta di duplice specie. Da un lato, la produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose; dall’altro, la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie. Le istituzioni sociali entro le quali gli uomini di una determinata epoca storica e di un determinato paese vivono, sono condizionate da entrambe le specie di produzione: dallo stadio di sviluppo del lavoro, da una parte, e della famiglia, dall’altra».

Da quando, secondo il mito biblico, Dio cacciò Adamo ed Eva dal paradiso della condizione animale, l’umanità ha intrapreso il suo lavoro, diviso fra produzione e riproduzione.

Nel 1953 in Fattori di razza e nazione scrivevamo: «La deplorata abdicazione del marxismo dal dominio sul campo sessuale e riproduttivo con tutte le sue ricchissime derivazioni ignora le opposte concezioni, borghese e comunista, della economia, e quindi decade da tutta la possente conquista che Marx realizzò sulla rovina delle scuole capitaliste».

La riproduzione è fattore materiale determinante nella storia. Il singolo individuo biologico da solo non ha mai creato nulla (pur se spesso si illude di farlo). «È ovvio – continua lo scritto – che ogni individuo perfetto, sano ed adulto quando è nel pieno vigore delle forze può provvedere – riferiamoci ad una economia del tutto primordiale – a produrre ogni giorno quanto gli occorre consumare. Ma la instabilità di questa situazione singolo per singolo determinerebbe presto la fine dell’individuo (e della specie se fosse una stupida saldatura di individui per le costole un dopo l’altro) se mancasse il flusso della riproduzione, per cui in un corpo organico vi sono rari individui bastevoli a se stessi, i vecchi che più non possono rendere tanto, i giovanissimi che hanno bisogno di essere alimentati per produrre domani. Ogni ciclo economico è impensabile, e nessuna equazione economica possiamo scrivere senza introdurre nel calcolo queste essenziali grandezze: età, validità, sanità». E più avanti: «Non è l’individuo che ha sviluppata e nobilitata la specie, è la vita di specie che ha nobilitato l’individuo a nuove dinamiche e a più alte sfere. Ciò che è primordiale e bestiale, sta nell’individuo. Ciò che è sviluppato, complesso, ed ordinato, costituendo un piano di vita non automatico ma organizzato e organizzabile, deriva dalla vita collettiva e nasce dapprima fuori dei cervelli dei singoli, per poi divenirne per difficili vie dotazione».

«La classe lavoratrice – scrivevamo ancora – è la prima delle forze produttive, dice Marx. Altrettanto e più importante è sapere come si riproduce la classe che lavora, dello studiare come si produce e riproduce la massa delle merci, la ricchezza ed il capitale. Il salariato classico e nullatenente dell’antichità non fu ufficialmente definito a Roma lavoratore, ma proletario. La sua funzione caratteristica era non quella di dare alla società e alle classi dominanti il lavoro delle proprie braccia, ma di generare, senza controlli e limiti, nella propria ruvida alcova, i braccianti di domani. Il piccolo borghese moderno nella sua vuotaggine pensa che gli sarebbe tanto più dolce il secondo lavoro quanto più amaro il primo. Ma il piccolo borghese è quello che, porco e filisteo quanto il grande borghese, contrappone alla potenza di questo tutte le impotenze».

Se si pretende di analizzare la struttura sociale ed economica di una data compagine umana, in una data epoca, senza averne indagato le strutture familiari e norme riproduttive si è fuori strada dal materialismo dialettico. Non si antivede così il bisogno trans-individuale del Comunismo, ma piuttosto l’eterna volgarissima lotta di singoli, ovvero il filisteismo e l’egoismo eternizzato del piccolo borghese.

Nel recente volume Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond, l’autore scrive riguardo all’epoca dell’invenzione dell’agricoltura (epoca di comunismo primitivo): «L’aumento della popolazione è provocato dalla produzione di cibo, o per lo meno da condizioni di eccezionale abbondanza delle risorse spontanee (...) Queste considerazioni hanno portato a una diatriba del genere “è nato prima l’uovo o la gallina”: nella fattispecie, è il progredire dell’agricoltura che fa aumentare la popolazione e quindi nascere le società complesse, o sono queste ultime che permettono la nascita dell’agricoltura? La domanda così posta ci porta fuori strada. In realtà l’una favorisce l’altra per autocatalisi. La crescita della popolazione porta alla complessità, che a sua volta porta a una maggiore produzione di cibo, e quindi a un ulteriore aumento del numero degli abitanti».

Fra produzione dei mezzi di sussistenza e riproduzione della specie si stabilisce una relazione dialettica. Nel flusso, in continuo divenire, delle contraddizioni di questa relazione avviene che in date epoche queste esplodano violente: in quei frangenti l’aumento della popolazione come delle altre forze produttive è tale che vi è un’incompatibilità insanabile fra esse e gli stabiliti rapporti di produzione. Quando si parla di scontro fra forze produttive e rapporti di produzione s’intende anche fra popolazione e forze produttive. Il passaggio dal comunismo primitivo alla società di classe avviene sia per l’aumento delle forze di produzione, per l’invenzione di più sofisticati e produttivi mezzi di lavoro, sia per la maggiore popolazione, con l’agricoltura e l’allevamento che sostengono sempre più persone. Ed eccoci nella storia!
 
 

2) Le leggi della popolazione nei modi di produzione precapitalistici

«Ogni grado di sviluppo ha una sua propria legge delle popolazione», così afferma Marx nel Capitale. Ugualmente, lo stesso concetto di sovrappopolazione è relativo ad un dato modo di produzione.
 

Forma primaria

- Paleolitico

In quella fase del comunismo primitivo, basato su caccia e raccolta, la legge di popolazione era determinata interamente dal clima e dal territorio con la sua flora e fauna. L’uomo aveva bisogno di ampi spazi. Si è calcolato che un attuale pigmeo – comparabile come stadio evolutivo all’uomo del Paleolitico – ha bisogno di 8 chilometri quadri per vivere, un australiano di 30 e un eschimese da 200 a 300. Nel Congo attuale sono state rilevate densità maggiori, 2-3 abitanti per chilometro quadro (0,3-0,5 chilometri quadri a testa). La necessità di spazio dipendeva dalla quantità di selvaggina e dal tipo di tecniche di caccia.

Fino a che gli uomini sono andati a caccia, a pesca o a cogliere i frutti che la terra dava spontaneamente, la popolazione ha conservato un carattere sparso, diradato e viveva nomade. Presso gli aborigeni è stato notato che la densità di popolazione varia di zona in zona, a seconda della quantità di precipitazioni sulla terra e dell’abbondanza di pesce nelle acque. Nel comunismo primitivo è la disponibilità di sussistenze a determinare la popolazione: quando non più bastante si soccombe o ci si sposta verso nuove terre. A quello che la natura offriva si adeguavano le migrazioni nelle varie regioni del pianeta, «seguendo i fiumi e le coste gli uomini poterono diffondersi sulla maggior parte della terra» (Origine della famiglia...).

Dall’avvento delle prime società di classe ad oggi l’umanità ha progressivamente dipeso sempre meno dalla quantità di mezzi di sussistenza disponibili e relativamente sempre più dalle leggi economiche della specifica società.

I tassi di fecondità nel Paleolitico non erano elevati ma piuttosto proporzionati. Negli anni ‘40 Nancy Howell dell’Università di Toronto aveva osservato che nella popolazione del deserto del Kalahari, dedita a caccia e raccolta, «le donne hanno lunghi intervalli fra i parti e una moderata fertilità globale» (A.J.Coale). Diamond nota che «una donna nomade non può permettersi di portare con sé nei suoi spostamenti più di un bambino oltre alle sue poche cose; non può dare alla luce un altro figlio fintanto che il precedente non è in grado di camminare al passo degli altri membri della tribù. In pratica i cacciatori-raccoglitori controllano le nascite in modo che tra un figlio e l’altro passino all’incirca quattro anni; ciò è ottenuto in vari modi: amenorrea durante l’allattamento, astinenza sessuale, aborto e infanticidio».

In Fattori di razza e nazione abbiamo citata l’affermazione del Thomas: «l’istinto è la conoscenza ereditaria di un piano di vita della specie». Soltanto la testa vuota del piccolo borghese di oggigiorno potrebbe pensare che un controllo razionale sulle nascite è fattibile soltanto in società ultrasviluppate, con Stato, educazione, leggi... e proprietà privata.

Da tutto ciò è importante concludere che l’uomo primigenio, anche senza malthusiani che invocassero guerre e pestilenze, sapeva in modo naturale e istintivo regolare la propria progenie. Se allora era la Natura a dominare completamente l’uomo anche riguardo la riproduzione, agli occhi di noi moderni la costrizione appare smorzata dal fatto che l’uomo è ancora abbracciato da ogni lato da quella natura, la subisce ma non ne è del tutto separato e perciò la conosce; conosce, accanto alla sua parte umana, la sua animalità e sa rapportarsi con essa.
 

- Neolitico

L’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento degli animali creò da sé un aumento di popolazione. Scrive J. Diamond: «Il numero di calorie per ettaro fornite dalla coltivazione della terra è molto maggiore di quelle rese disponibili dalla caccia o dalla raccolta, e questo fa sì che più gente possa vivere nello stesso luogo. D’altra parte, l’aumento della densità umana durante il tardo Pleistocene è un fatto accertato, dovuto ai progressi tecnologici che accrebbero l’efficienza nel procacciarsi il cibo. L’agricoltura si avvantaggiò di questa situazione, perché riusciva a nutrire un maggior numero di persone in modo più efficiente. Siamo allora in presenza di un processo autocatalitico, in cui una retroazione positiva fa sì che la reazione, una volta innescata, proceda sempre più velocemente. La densità cresce a poco a poco, e questo accresce i bisogni alimentari; chi riesce (casualmente) a procurarsi più cibo è favorito, e l’agricoltura è più efficiente in questo senso. Una volta iniziata la vita sedentaria, gli uomini possono fare più figli, la popolazione aumenta ancora e c’è bisogno di cibo ancora maggiore (...) Alla fine un ettaro di terra coltivata riesce a dare sostentamento a molti più contadini (dalle 10 alle 100 volte) di quanto non riesca a fare un ettaro di terra vergine per i cacciatori-raccoglitori».

La vita sedentaria dell’uomo del Neolitico dunque fu un fattore che agì direttamente sull’aumento di popolazione, ma è pur vero che se la natalità si era alzata si era alzata anche la mortalità, in quanto la vita sedentaria volle dire cambiamento di ambiente e di abitudini, accresciuta densità di popolazione, maggiore trasmissione di malattie contagiose, dipendenza dalla qualità dell’annata agricola.

Anche queste società primitive dedite all’agricoltura e all’allevamento erano ancora in grado di controllare razionalmente le nascite e a non lasciarsi travolgere dalla crescita eccessiva della popolazione. In ricerche comparative svolte fra popolazioni dell’Africa Nera e del Madagascar si è osservata la confutazione di ciò che pensava Malthus, cioè che mai sarebbe potuta avvenire una società egualitaria, senza classi né guerre né fame, in quanto non vi sarebbero “freni” alla “produzione di popolazione”. Quelle inchieste su società di comunismo primitivo «hanno messo in rilievo la funzione di freno che in questo campo hanno i costumi e i vari divieti. Infatti, nonostante si sposino assai presto - a 20 anni il celibato femminile è praticamente un fenomeno sconosciuto - dai 15 ai 49 anni le donne partoriscono in media da sei a otto volte al massimo» (M.Reinhard, A.Armengaud, J.Dupaquier, Storia della popolazione mondiale). «A Tikopia, nelle isole del Pacifico, i figli non sono mai più di quattro, quelli in soprannumero sono infatti uccisi alla nascita. D’altro canto si usano anche metodi anticoncezionali. La dimensione delle famiglie, a causa della mortalità, è nettamente inferiore alle sei persone: oscilla tra le tre e le quattro. In maniera più approssimativa un’indagine condotta presso una popolazione di indiani del Brasile, i Nambikwara, che vivono di caccia, della coltivazione di qualche ortaggio e raccogliendo i prodotti spontanei della natura, ha mostrato che abitualmente ogni famiglia ha uno o due figli, eccezionalmente più di tre; abbastanza frequente è il caso di famiglie senza figli. Anche presso i Nambikwara l’allattamento dura fino a tre anni e i divieti di carattere sessuale influiscono sulla natalità; anche l’aborto è praticato».

L’avvento dunque di più moderne tecniche di produzione (agricoltura e allevamento) ha permesso un “salto” demografico, ma questo è rimasto controllato. La natalità rimaneva bassa rispetto a moderne epoche di proliferazione incontrollata.
 

Forma secondaria

Il surplus agricolo delle società di classe, che si imposero risolutamente sulle vecchie forme di produzione comunistiche, permise che una parte della popolazione potesse non occuparsi della produzione degli alimenti. Ciò, insieme a insediamenti ormai stabili, determinò la formazione di città, le quali presentarono da subito (ad esempio in Mesopotamia) forti densità di abitanti rispetto alla campagna circostante, poco abitata, e a regioni intere del tutto disabitate.

Lo schiavismo era una forma di produzione classista funzionale con popoli poco densi ed una coltivazione svolta in modo estensivo. Qui si mostra quanto anche il tipo di popolazione concorra a determinare un dato modo di produzione e non invece un altro.

In Mesopotamia, regione in cui le possibilità maggiori in agricoltura e allevamento portarono ad uno sviluppo consistente nella struttura sociale, la popolazione aumentò sicuramente in modo considerevole e si stima che fosse fra i 4 e i 5 milioni. Nei Regni di Israele si stimano 2 milioni di abitanti in un territorio ridotto. Ma Israele era un paese commerciale piuttosto che schiavistico e la sua religione, in linea con le leggi di popolazione del capitalismo, diceva “crescete e moltiplicatevi”, imponeva una severa famiglia monogamica e non permetteva pratiche antifecondative.

Per l’Atene del V secolo a.C. si sono stimati 30.000 cittadini e per l’intera Attica 200.000, con una densità di 200 ab./kmq.; per la Grecia intera circa 2 milioni di abitanti con una densità generale di 35 ab./kmq. Secondo certe stime vi sarebbe stata un quinto di popolazione libera e quattro quinti di popolazione schiava, secondo altre (Oxford Classical Dictionnary) la popolazione dell’Attica sarebbe stata invece costituita da schiavi per la metà.

La pressione demografica in Grecia non fu mai elevata perché la terra richiedeva poche braccia. La produttività della terra era modesta, il latifondo non molto diffuso ed i piccoli contadini-cittadini costituivano la base produttiva. Non vi si poteva avere il grande afflusso di schiavi che conoscerà Roma. «La quantità degli arrivi [di schiavi] era in funzione delle necessità che via via si presentavano. A stretto rigore un’abbondanza eccessiva di schiavi poteva essere eliminata ricorrendo alla loro vendita. La massa demografica poteva essere accresciuta o ridotta a seconda delle circostanze» (Storia...). Nelle classi libere il legame familiare era molto tenue ed il fine era più che altro la procreazione di almeno un figlio (o pochi figli) che aiutasse i genitori da vecchi. La società greca, infatti, data la bassa produttività economica, non consentiva un’alta produzione di prole.

Non è un caso che in concomitanza con il declino della civiltà greca nel IV secolo a.C., ormai prossima a cedere a Roma il predominio nel Mediterraneo, si verificasse una forte crisi demografica. Risultano, tra l’altro, tentativi di incrementare le nascite. Ma ad un declino economico nulla può opporsi se non la violenza di guerre o rivoluzioni.

All’opposto che in Grecia, l’espansione di Roma determinò nei suoi territori la rovina della piccola e media proprietà agricola, la diffusione del latifondo e l’afflusso di enormi quantità di schiavi.

Nel periodo di avanzamento iniziale dello schiavismo romano vi fu una consistente crescita demografica. La stabilizzazione e poi la diminuzione della popolazione cominciò soltanto con la vittoria definitiva del latifondo su tutte le restanti forme di proprietà (si può dare come indicativo spartiacque il II secolo d.C.) e con la crisi del sistema schiavistico per mancanza di economicità. Un’iniziativa politica di carattere demografico, al fine di controllare politicamente le regioni più difficili da domare, fu quella della cosiddetta “terra bruciata” la quale consisteva nel sostituire le greggi agli uomini e nella trasformazione di regioni fertili in zone prive di ogni risorsa all’infuori della pastorizia.

Esempi successivi di questo spopolamento forzato di territori si hanno in quello attuato dai Medici in Maremma nel Cinquecento, poi, più estesamente, nelle campagne inglesi alla fine del Settecento.

Se lo sviluppo del latifondo conteneva l’incremento della popolazione, le necessità della politica imperiale richiedevano un incremento di popolazione per la colonizzazione, la difesa e l’amministrazione delle lontane province. L’Impero era stretto in questa pesante contraddizione di avere la necessità economica di ampliare i propri confini, ma di non avere abbastanza esseri umani per controllarli. Cesare ed Augusto, e così anche i successori, si adoprarono contro questo stato di cose. Cesare ad esempio stabilì premi per coloro che avevano molti figli e comandò che le donne oltre i 45 anni che non avessero né marito né figli, non potessero adornarsi di pietre preziose né usar di lettiga. Augusto fu anche più severo: sotto il suo impero fu promulgata una legge che conteneva disposizioni severissime contro il celibato e la mancanza di figli.

L’Egitto sotto la dominazione di Augusto pare contasse circa 7 milioni di abitanti, arrivò poi a 10 milioni (con una densità lungo il Nilo di 200 ab./kmq), dopodiché mostrò un drastico regresso che precipitò la popolazione a circa 3 milioni nel IV secolo per il declino della struttura economica. Nell’Africa romana si stima che la popolazione sia cresciuta da 3,5 milioni nel I secolo d.C. a 6,5 milioni fra il II e il III secolo. In Gallia si stima ci fossero 8/9 milioni di abitanti al tempo della guerra di Cesare, con radicale diminuzione a seguito della crisi dell’Impero nel IV/V secolo.

Nelle società di classe la scala della popolazione dipende dal modo di conduzione delle forze produttive, controllate da una minoranza ristretta della popolazione. Quanti esseri umani la classe proprietaria abbisogna per trarne un utile pluslavoro, tanti cerca che ve ne siano. Questi lavoratori non sono fatti per consumare o vivere dignitosamente, ma per produrre. Riguardo al “consumare” potremmo “aggiornare” la questione: secondo le dottrine di Keynes per il capitale potrebbero essere utili nuovi nati proprio per farli “consumare”, non invidiabile condanna e condizione questa oggi assai diffusa e a vita, in qualche modo peggiore di quella dello schiavo!

La crisi dell’Impero Romano, o meglio, della forma secondaria di produzione nella sua variante classica determinò la caduta graduale della natalità e l’aumento relativo della mortalità a causa di guerre, carestie e malattie. Al declino del modo di produzione per la crescente improduttività seguì quindi il tracollo della quantità di bipedi umani. Il Cristianesimo si fece specchio di questa miseria con il suo moralismo asfissiante riguardo alla sessualità con l’esaltazione della castità, ricorse all’invenzione del diavolo, associato al corpo, e la colpa originale non fu più, come nell’antica tradizione, il peccato di voler conoscere e misurarsi col Dio, ma l’atto carnale stesso.

Ma i rappresentanti del modo di produzione schiavistico stavano scomparendo con esso. Quando i barbari, sfondati i confini dell’Impero, vi dilagarono all’interno in tutte le direzioni dandogli il colpo finale, l’invasione fu sentita dai contemporanei anche come un’invasione demografica. Ai romani i barbari apparivano splendidamente prolifici e sembrava loro come se si fosse “rotta una diga”. Il papa Zosimo (417-418) notava che «in molte province la popolazione è tanto diminuita che sono stati chiamati i barbari a ripopolarle».

La popolazione è un fattore determinante per il passaggio da un modo di produzione all’altro, in quanto in essa vi è la primaria espressione delle contraddizioni della struttura morente. Come nel Neolitico le popolazioni dedite all’agricoltura sostituirono le popolazioni dedite a caccia e raccolta grazie soprattutto al fatto di essere diventati “più numerose”; come nessuna popolazione arretrata poteva contrastare i numerosi soldati degli eserciti di Egitto e Mesopotamia, così la quantità di barbari sommerse inevitabilmente i sopravvissuti appartenenti ad un modo di produzione superato.
 

Forma terziaria

Nei primi secoli dopo la caduta dell’Impero di Roma, fra V e VIII secolo, l’economia europea era allo sfacelo. Per tre secoli vari popoli scorazzarono nei territori del vecchio Impero Romano, determinando un regresso economico di tal portata (abbandono dei campi, epidemie, ecc.) che il crollo demografico divenne inevitabile. Un recupero lo si ebbe soltanto dall’VIII secolo con la stabilizzazione della nuova impalcatura feudale. La Gallia, ad esempio, che al crollo dell’Impero Romano aveva subito una diminuzione della popolazione da 6 a 3 milioni di abitanti, alla metà del secolo IX risalirà a circa 5 milioni.

Le estensioni enormi della proprietà fondiaria romana nel Medioevo erano poco conosciute ed erano diversamente condotte: le famiglie di servi lavoravano ciascuna un suo appezzamento ed in più disponevano dell’uso di terre comuni. «La potenza del signore feudale, come quella di ogni sovrano, non poggiava sulla lunghezza del registro delle sue rendite, ma sul numero dei suoi sudditi, e questo dipendeva dal numero di coltivatori autonomi» (Il Capitale, vol.I). La possibilità o meno di ricavare un surplus agricolo determinò in date regioni l’incremento, dopo l’anno 1000, di una popolazione che si dette ad attività commerciali, artigianali, bancarie, ecc., e che si radunò nelle città.

Il potenziale sovversivo del fenomeno non sfugì alla Chiesa: contro la diffusa “sessualità pubblica”, di carattere sovente orgiastico e carnevalesco, cui partecipava anche il clero (il celibato dei preti risale all’anno 1073), la Chiesa pose un primo argine con l’instaurazione del Tribunale dell’Inquisizione nel 1183.

In Inghilterra si stimano per l’VIII secolo 800.000 anime. Dai dati del Domesday Book del 1086 (in cui la popolazione era salita a 1.100.000 abitanti) si può notare che la popolazione era aumentata e manteneva una discreta densità nella zona delle terre fertili. Si è dedotto tra l’altro che vi fossero in media 2,5 figli per coppia di genitori.

Per l’Italia fra l’XI e il XIII secolo si sono calcolati più di 8 milioni di abitanti e così per la Spagna, che era salita dai 4 milioni di abitanti nel IX secolo ai 7 milioni nel X. Per la Francia si stimano 15,7 milioni di abitanti nel 1300, il doppio di quelli del 1150 e il triplo di quelli del 1086.

Con il surplus nella produzione agricola si poterono sviluppare le città, abitate da individui non addetti alla produzione di alimenti. Nell’XI secolo la città più grande della Germania, Regensburg, contava 25.000 abitanti. Nel XIV secolo la città più popolosa era Colonia con 50.000. In Italia pare che Bologna (che era la città più grande dopo Venezia) nel ‘200 avesse 70-80.000 abitanti, Firenze 55.000, Palermo e Milano 50.000, Pistoia 45.000, Roma 35.000, Napoli 30.000, Siena e Modena 20.000. Nel XII secolo Parigi contava 25.000 abitanti e un secolo dopo circa 60.000. Londra passò da 17.850 abitanti nel 1086 a 34.900 nel 1377, anno in cui soltanto York, con Londra, superava i 10.000 abitanti.

Scrive Marc Bloch: «Come si sarebbe potuto raccogliere nelle città tanti tessitori, tintori o cimatori di panni e nutrirli, se la popolazione non fosse stata più abbondante di prima e più estesa la superficie del suolo coltivato, se i campi, meglio messi in valore da braccia più numerose, sottoposti soprattutto a più frequenti arature, non avessero dato più ricche e più frequenti messi?» (La società feudale).

L’Inghilterra fra l’XI e il XIV secolo ebbe un notevole sviluppo demografico:

 Anno Popola- Tasso
       zione  medio

    milioni   %
 1086   1,1
              12,0
 1100   1,3
               4,2
 1150   1,6
               3,4
 1200   1,9
               5,5
 1250   2,5
               5,6
 1300   3,3
               2,3
 1350   3,7
             -22,5
 1377   2,0

Fu soprattutto la colonizzazione agricola e la relativa sostituzione dell’agricoltura all’allevamento a determinare questa crescita.

Il XIV secolo sarà il secolo della catastrofe demografica del feudalesimo. Gli anni 1315-17, 1340-50 e 1374-75 furono di acute carestie e fra il 1347 e il 1349 si aggiunse l’immane flagello della peste. A intervalli la peste tornò, nel 1359-61, nel 1369-76, nel 1382-84, nel 1390. L’Inghilterra in ventisette anni, dal 1350 al 1377, passò da 3,7 milioni a 2 milioni di abitanti. «A Vienna si giunse a sotterrare 500 morti al giorno; accadde addirittura che in un sol giorno ce ne fossero 1200. Znojmo e Brno furono completamente spopolate, la Pomerania perse più della metà dei suoi abitanti, Lubecca il 25% dei possidenti, Magdeburgo il 50% degli abitanti, Amburgo tra la metà e i due terzi, Brema il 70%» (Storia...).

All’epidemia di peste e alle carestie si aggiunse la Guerra dei Cento Anni. «Si verificò un accavallarsi della crisi demografica da una parte e della crisi economica dall’altra. Quest’ultima precedette l’altra e l’aggravò, l’epidemia trasformò invece una crisi di crescenza in una catastrofe. Non si potrebbe perciò immaginare niente di più distante da quel modello, frutto di eccessivo ottimismo, il quale pretende di vedere nell’epidemia il mezzo per ritornare a un equilibrio tra popolazione e produzione, tra consumi e risorse alimentari. All’indomani della peste, la popolazione, essendosi ridotta troppo di numero, non ce la fece più a far fronte ai propri impegni. Il sistema economico, la struttura della società, l’organizzazione dello Stato schiacciano questo organismo sfinito suscitando difficoltà in ogni campo: ecco quindi gli scontri, i disordini, le rivolte. Colpiti nei loro gangli vitali gli Stati non riescono a compiere un’esatta diagnosi del male: aggravano il peso fiscale, il che non fa che aumentare le difficoltà, e continuano nelle loro guerre. Dovrà passare in media un secolo perché a mala pena si ristabilisca la situazione iniziale». Fino alla fine del ‘400 la peste e la carestia si ripresentarono all’umanità feudale periodicamente. D’altra parte era salita la natalità, ma nonostante ciò la manodopera ancora nel XV secolo mancava e i salari si facevano sempre più alti.

Ma queste epidemie furono dovute più al capitalismo, che andava sviluppandosi, che alla feudalità. Il bestiame da macellare portava malattie dalle campagne e le città erano infestate dai roditori. Responsabile della peste bubbonica del 1346 fu l’apertura di una nuova rotta terrestre con la Cina, attraverso la quale giunsero pellicce infestate dalle pulci che ospitavano il germe. Nel 1500 pare non vi sia stato ancora il recupero del livello demografico raggiunto prima della diffusione della peste.
 

Fra feudalesimo e capitalismo

Nel XVI secolo si ebbe un massiccio aumento della popolazione in Spagna, nel pieno vigore della sua forza commerciale: in Castiglia si passò da 3 milioni di abitanti nel 1530 a 6 milioni di abitanti nel 1594 (+10,9%). Fra il 1563 e il 1609 nel reame di Valenza vi fu un aumento del 50% e del 70% dei soli moriscos. Nel 1609 i moriscos arrivarono quasi a raggiungere il 50% dei cristiani. Lisbona, altra città in pieno splendore capitalistico-commerciale, passò dai 65.000 abitanti del 1550 ai 100.000 del 1600.

In Italia il Sud spagnolo seguì nell’incremento demografico la Spagna. La Sicilia passò da 600.000 abitanti nel 1500 ad un milione alla fine del secolo (+10,3%). Palermo passò da 25.000 a 100.000 abitanti, Messina giunse alla fine del secolo a 42.000 abitanti. Napoli con i suoi 200.000 abitanti era fra le città più grandi d’Europa. Roma passò da 50.000 abitanti nel 1526 a 100.000 alla fine del secolo. Nel 1592 Milano aveva 100.000 abitanti, nel 1576 Venezia ne aveva 170.000 (suo culmine massimo).

L’Olanda, paese in cui molto risoluto si sviluppava il capitalismo, passò da 275.000 abitanti nel 1514 a 672.000 nel 1622. Altro paese nel pieno sviluppo capitalistico era l’Inghilterra che se nel 1545 contava 3,2 milioni di abitanti, nel 1570-77 arrivò già a 4,4. Qui l’aumento della popolazione determinò tra l’altro l’abbassamento dei salari ed entrambi i fenomeni favorirono lo sviluppo della borghesia.

La Riforma luterana riprese dunque la parola d’ordine ebraica “crescete e moltiplicatevi” indicando tra l’altro che i giovani maschi si sarebbero dovuti sposare a vent’anni e le ragazze fra i 15 e i 18 anni. Mentre il Cattolicesimo raccomandava il celibato, Lutero i matrimoni precoci, entrambi ovviamente fondandosi su princìpi religiosi. Nei paesi della Controriforma non vigeva più la regola del “s’ei piace ei lice” (se piace, è lecito) ricordata nostalgicamente da Torquato Tasso nell’Aminta, ma la vittoria di Tancredi su Clorinda, cioè dell’Uomo della famiglia monogamica e del moralismo della continenza sulla Donna, proveniente da una società in cui era ben più libera, come quella dell’Islam descritta nella Gerusalemme Liberata.

Nel XVII secolo la congiuntura economica fu meno favorevole e quel secolo e la prima metà del successivo registrarono una profonda crisi demografica. Numerose le carestie e le epidemie, ma anche la guerra detta dei Trent’anni e varie guerre civili. Nella campagna l’età media dei matrimoni salì a 24/27 anni, molto alta rispetto ai tempi precedenti, vero strumento anticoncezionale dell’Europa del tempo. Indicativo è il seguente caso: a Ginevra l’età media dei matrimoni passò da 22 anni nel 1550 a 24,9 nel 1600, 25,2 nel 1650, fino a 27 nel 1700. Se nel cinquantennio 1600-1649 sempre a Ginevra vi erano 5,44 figli a famiglia, nel 1650-99 la media scende a 3,62 e nel 1700-49 a 2,91. Far pochi figli non è quindi soltanto del nostro attuale senile Occidente ma tipico di ogni periodo di crisi.

L’arretratezza interna della Spagna, che vedeva scarso sviluppo di manifatture, imprese agricole e compagnie commerciali, non solo non fece aumentare la popolazione ma la portò ad un decremento consistente da 9 milioni di abitanti del 1590 a 6 milioni nel 1650. Con tali cifre di popolazione la Spagna non poteva reggere l’immenso impero coloniale, a differenza dell’Inghilterra che faceva “correre” l’economia e la popolazione. L’Italia, isolata dal nuovo contesto economico affacciato sull’Atlantico, vedrà un decremento demografico del 10%. Nel XVII secolo si ebbero considerevoli aumenti demografici soltanto nei capitalistici Paesi Bassi e in Inghilterra.

Fu nel XVIII secolo che cominciò la possente crescita demografica moderna. Nella Storia della popolazione mondiale gli autori non possono fare a meno di notare come lo sviluppo economico di tipo capitalistico procedesse di pari passo allo sviluppo demografico. Gli stessi Stati nazionali riconobbero nell’incremento di popolazione un sinonimo di potenza. Una popolazione densa forniva infatti bastante carne da cannone. Perciò Luigi XIV stabiliva speciali favori ai genitori di dieci figli, e più rilevanti erano i favori a chi ne avesse undici. Federico II di Prussia proponeva che i matrimoni potessero stringersi a quindici anni, per cavarne gran numero di soldati.

«Nel corso di un secolo la popolazione inglese crebbe da 6 milioni circa a più di 9 milioni di abitanti, segnando cioè un incremento di circa il 50%, mentre quello verificatosi nel ‘600 era stato al massimo del 25%» (Storia...). Diminuiva la mortalità e cresceva la natalità, la popolazione non dipendeva più da buoni o cattivi raccolti come un tempo ma soprattutto era lo sviluppo economico che richiedeva disponibilità di braccia.

Scrivono gli stessi autori: «Questa rivoluzione [demografica], per ragioni logiche e geografiche, si collega alla rivoluzione industriale: ne è una causa ed un effetto attraverso un meccanismo di azione e reazione. Tutte le forme dello sviluppo economico – i progressi dell’agricoltura, la fioritura del commercio, i primi passi dell’industrializzazione – contribuiscono a favorire lo sviluppo demografico. Questo a sua volta contribuisce a creare per l’industria che nasce una clientela e soprattutto fornisce ad essa una manodopera a buon mercato, perché la popolazione eccedente si concentra nelle zone manifatturiere e nei porti. Tra questa folla di persone sradicate la mortalità è maggiore che in campagna, ma non agendo più su di essa i freni demografici tradizionali – si registra in particolare un abbassamento dell’età in cui ci si sposa e un aumento del numero delle nascite illegittime – la spinta della natalità assume un’importanza decisiva; il bilancio può diventare ancora più favorevole nelle regioni industriali che nelle regioni agricole».

Ma se proletari, borghesi grandi e piccoli e contadini proliferano, mostrando così la propria vitalità storica, cosa accade nella classe reazionaria e parassitaria dell’aristocrazia? Nel 1778 Moheau scriveva che «le donne ricche, per le quali il piacere rappresenta il massimo degli interessi e l’unica occupazione, non sono ormai più le sole a considerare la propagazione della specie alla stregua di una sciocchezza del buon tempo antico (...) Tra la prima e la seconda metà del secolo il tasso di fecondità delle donne dai 20 ai 25 anni appartenente all’alta aristocrazia precipitò dai 403 a 148». Una classe parassitaria mostra l’esaurirsi della sua funzione storica anche nell’incapacità a riprodursi.

La Rivoluzione Francese affermò definitivamente la famiglia monogamica e fece principio della diffusione numerica del “popolo rivoluzionario” anche attraverso la procreazione. Da Saint-Just a Robespierre fino a Napoleone, tutti erano favorevoli alla diffusione della Rivoluzione anche attraverso la moltiplicazione dei rivoluzionari. La Francia aveva bisogno di soldati per le sue armate e la sua Costituzione invitava a procreare e il celibe era condannato come un peso inutile per la terra che lo nutre.

Nel giro di cento anni, dal 1650 al 1750, la popolazione europea era passata approssimativamente da 100 a 140 milioni; dal 1750 al 1800 essa superò i 190 milioni: il suo incremento, che in 100 anni era stato del 40% (il 3,4%), in 50 anni fu del 33% (5,7%). La popolazione dell’Inghilterra e del Galles passò fra il 1789 e il 1816 da 8.060.000 a 11.130.000, con un aumento cioè del 38,1% pari ad un incremento annuo del 12,0%: gli influssi della Rivoluzione industriale si erano fatti bruscamente sentire. Un tale aumento non si riscontrava infatti in paesi ancora fortemente feudali quali la Spagna e l’Impero Austro-Ungarico.

C’era però un territorio in controtendenza in Eurasia per quanto riguarda i ritmi di crescita della popolazione: la Russia. Scriverà Trotski nel suo resoconto della rivoluzione del 1905: «In seguito alla pressione dell’Europa Occidentale, l’autocrazia russa ha assorbito una parte sproporzionatamente grande del prodotto addizionale, cioè è vissuta a spesa delle classi privilegiate già formate, frenando in tal modo il loro già lento sviluppo. Ma non basta. Lo Stato si è impadronito anche del prodotto indispensabile dell’agricoltore, gli ha sottratto le fonti di sussistenza, lo ha costretto ad abbandonare i luoghi dov’era appena riuscito a sistemarsi e, con questo, ha ostacolato l’incremento demografico ed ha frenato lo sviluppo delle forze produttive».
 
 

3) La legge della popolazione nel capitalismo

Borghese impotenza e nevrosi

Il comunismo – nella maggior parte dei casi – ritiene sana, vitale e utile la tendenza all’aumento della popolazione, che si risolve in un accrescituto numero di proletari su questo pianeta: più il proletariato si riproduce, più la sua diffusione raggiunge i confini del mondo, tanto più vi è necessità del Comunismo e della Rivoluzione.

Al contrario, se la borghesia difende ancora oggi nella propria coscienza il rapporto causale popolazione-alimentazione, per far ritenere naturale, inevitabile e oggettivo il suo status quo, essa sposa soprattutto la seconda parte della teoria malthusiana, quella che potremmo definire propositiva, riguardante il controllo dell’incremento demografico. Si dà a deprimerlo attraverso varie politiche, con leggi punitive nei confronti delle famiglie numerose, con una qualche mitigazione della repressione statale della contraccezione, dell’aborto, del divorzio, con maggiore tolleranza dell’omosessualità, ecc.

In tutta la storia delle società di classe, vittime principali delle politiche demografiche degli Stati sono sempre state le donne, come il nostro movimento ha sempre energicamente denunciato. Lo descrive in dettaglio la nostra monografia Oppressione della donna e rivoluzione comunista, in “Comunismo” n. 2.

La borghesia si illude e si sforza di controllare la popolazione per non trovarsi sotto la minaccia di una moltitudine di proletari senza riserve che travolgano vigorosamente tutto il cadaverico pattume capitalistico.

Ma l’attuale drastico calo di natalità in tutto il Mondo, e in particolare nei paesi occidentali, più che un risultato di una volontà politica borghese, è da riferirsi ad un Capitale sempre più improduttivo e in crisi che chiede minori nascite.

Scriveva Lenin nel giugno 1913: «Il piccolo borghese vede e sente che sta andando in rovina, che la vita diventa sempre più difficile, che la lotta per l’esistenza diventa sempre più spietata, che la situazione sua e quella della sua famiglia diventano sempre più senza via d’uscita. È un fatto incontestabile, contro il quale il piccolo borghese protesta. Ma come protesta? Protesta, abbattuto e pavido, quale rappresentante di una classe che precipita senza speranza verso la propria rovina, che non ha nessuna fiducia nel proprio avvenire. Non c’è nulla da fare, almeno ci siano meno figli a soffrire i nostri tormenti, a trascinare le nostre catene, a sopportare la nostra miseria e la nostra umiliazione: questo è il grido del piccolo borghese (...) Noi siamo decisamente nemici del neomalthusianesimo (...) Gli operai coscienti condurranno sempre la lotta più spietata contro i tentativi di imporre questa dottrina vile e reazionaria alla classe che nella società attuale è la più avanzata, la più forte, la più preparata alle grandi trasformazioni».

Qui non si parla di morale sessuale individuale ma di determinazioni sociali che sugli individui, e sulla coscienza degli individui, dittano. Nulla a che spartire né col moralismo chiesastico, che delega la soluzione del problema al braccio secolare e repressivo degli Stati, né col liberalismo borghese che lo riduce alla minima dimensione nei termini di libertà giuridica della donna e dell’uomo. Già notava Lenin come le leggi per il divieto dell’aborto siano un’ipocrisia delle classi dominanti, e ben vediamo come gli Stati diversamente autorizzino o proibiscano contraccettivi ed aborto secondo l’andamento del ciclo economico capitalistico.

In “Programma Comunista” n.12/1953 scrivevamo: «Non predicando la limitazione delle nascite, che ormai è il compito equivoco delle associazioni di beneficenza presiedute dalle donne della borghesia, si combatte il capitalismo. Anzi, se per astratta ipotesi si potesse arrestare l’aumento delle file proletarie, che è fenomeno mondiale per il progressivo entrare nel girone infernale dell’industrialismo e del salariato di vaste zone del pianeta, se si potesse farlo il capitalismo respirerebbe. Il fatto inoppugnabile che l’esercito dei lavoratori proletari cresce e si moltiplica costituisce una condanna di morte per il capitalismo, che presto o tardi sarà eseguita».

Nel citato romanzo, Dick immagina che nel futuro venga costruito un intero satellite-bordello per lasciar sfogare gli uomini e non farli procreare; vi risulterebbe addirittura antimorale non abortire, proprio perché quella società non vuole “troppi esseri umani” fra i piedi. La morale borghese oggi acconsente a divorzio e aborto o è “tollerante” verso il diffondersi della condizione di “singles” o verso l’omosessualità perché serve ai suoi scopi. È all’opposto “moralista”, intollerante e repressiva quando ha bisogno di una crescita numerica del proletariato. Tali trasformazioni nella morale sessuale erano già presenti nelle società precapitalistiche: si pensi ai secoli della Repubblica Romana in cui regnava il rigore dei Catoni e al corrompimento nei costumi del periodo del suo disfacimento e dei primi secoli dell’Impero.

L’andamento della curva demografica, schiacciato oggi sempre più verso il basso, è prodotto della secolare crisi del regime capitalistico, che si esprime in diffusi sentimenti di impotenza e di insicurezza verso il futuro. La spudorateza del reverendo Malthus poneva come metodo per il controllo delle nascite guerre e pestilenze. Questi fattori effettivamente si portano via gli umani a decine di milioni, ma, come per le altre forze produttive del lavoro, l’effetto delle guerre si recupera, nella maggior parte dei casi, in non troppi anni di “ricostruzione”. La guerra massacra il proletariato in eccedenza ma, in genere, la ricostruzione successiva del Capitale non risente del vuoto in quelle classi di età, mentre nella società resta come una amputazione che non si risolve che nei lunghi tempi biologici delle generazioni. Analoghe considerazioni si possono fare riguardo alle epidemie, il cui tragico esempio attuale è quello dell’AIDS in Africa.
 

La sovrappopolazione relativa

In Struttura economica e sociale della Russia d’oggi scrivevamo: «Sono gli elementi antisocialisti che in una struttura sociale tengono alto il tasso di incremento naturale. Tra questi sono la presenza di economie familiari, ed in genere di collegamento famiglia-azienda (...) ed il vigore dell’istituto familiare monogamo (...) Poi vi è la pressione per “produrre produttori” che nasce dalla spinta all’accumulazione, fatale in ogni economia mercantile, e della conseguente corsa a superindustrializzare». È anche vero che «la diminuzione della mortalità dovuta ai progressi della medicina è altro fattore moderno generale, sul quale naturalmente influiscono anche il clima e la situazione economica».

Con la crescita dell’accumulazione si giunge ad una certa fase in cui l’offerta di lavoro risulta insufficiente alle necessità del capitale; viceversa, quando l’accumulazione diminuisce la forza-lavoro diventa eccedente. In linea generale nel primo caso la tendenza è all’aumento dei salari; nel secondo alla loro diminuzione in quanto l’offerta di forza-lavoro è esuberante e i proletari occupati sono tenuti sotto il ricatto della perdita del posto di lavoro.

È necessario inoltre considerare il ruolo giocato dall’aumento della composizione tecnica del capitale. Quest’ultima è il numero che esprime il rapporto fra il capitale costante, cioè la massa dei mezzi di produzione e materie prime usati, e il capitale variabile, cioè la forza-lavoro. Il capitalista, al fine di arginare la tendenza ad alti salari, può investire “in produttività”, cioè in mezzi di produzione, per ottenere il medesimo od un maggiore prodotto con meno operai, il che si traduce nel fatto che molti proletari finiscono sul lastrico ad ingrossare il popolo dei disoccupati. Come scrive Marx: «Il movimento della legge della domanda e dell’offerta di lavoro su questa base porta a compimento il dispotismo del capitale». Soltanto la lotta sindacale, creando la solidarietà fra il proletariato occupato e quello disoccupato, è in grado di arginare in date fasi questo dispotismo del Capitale.

La sovrappopolazione è una conseguenza diretta dello sviluppo dell’accumulazione, ma allo stesso tempo è anche la leva dell’accumulazione stessa. La massa dei pauperizzati dall’inattività appartiene al capitalista, che li utilizza nei periodi di espansione economica e li rigetta nell’inedia nei periodi di contrazione della produzione. È del tutto utopico quindi impegnarsi, come molti demografi ed economisti, ad annullare la sovrappopolazione. È grazie a tale sovrappopolazione che il Capitale può vivere.

Il Capitale sopravvive, anche se con sempre maggiore difficoltà, proprio perché la gran parte della popolazione del pianeta è affamata e vende la propria forza-lavoro a prezzi irrisori e in condizioni sociali e lavorative orribili.
 

Popolazione e rivoluzione capitalista

Un’opinione molto diffusa e, come la maggioranza delle opinioni molto diffuse, senza fondamento afferma che la sovrappopolazione mondiale odierna sarebbe determinata da arretratezza e “ignoranza”. In realtà è la rivoluzione capitalistica che porta ad una crescita spropositata della popolazione. «La miseria genera popolazione», afferma Marx nel Terzo volume del Capitale, e la miseria cresce enormemente con la rivoluzione capitalistica data la necessità per il Capitale di un’enorme massa di popolazione eccedente. È dunque il progresso economico in senso capitalistico, e non l’arretratezza pre-capitalistica, che genera una grande crescita della popolazione.

Il Capitale non trae plusvalore dalle macchine, ma dal lavoratore salariato: questo gli è indispensabile. Il Capitale richiede quindi lavoratori che gli diano il lavoro dal quale estrarre pluslavoro ed una popolazione operaia disoccupata da usare all’occorrenza.

Inoltre lo sviluppo della produttività e degli scambi, l’accrescersi della divisione del lavoro e della cooperazione scientifica, la necessità per il Capitale di creare strati intermedi fra borghesia e proletariato atti a date mansioni sociali e il gonfiarsi del settore terziario, comportano un’ulteriore richiesta di popolazione. Infine è richiesta “una sovrappopolazione che non lavora” che si dedichi in modo del tutto parassitario al mero consumo (cfr. Marx, Grundrisse, vol. II).

Quando Stalin si pavoneggiava stupidamente sulla “socialistica” enorme crescita della popolazione, noi rispondemmo su Struttura... che la popolazione aumentava enormemente perché in Russia non vi era socialismo, ma capitalismo. Ma la crescita del 25,8% della popolazione fra il 1913 e il 1957 era più bassa di quella del 35% che negli stessi anni si ebbe in Italia e che nel cinquantennio precedente in Italia era stata addirittura del 45%. Questi alti incrementi non avvenivano a caso: dal 1860 al 1913 vi era stata in Italia l’espansione del capitalismo conseguente la raggiunta Unità nazionale. In Russia non era da rilevarsi neanche un milligrammo di socialismo, ma appunto soltanto banale e conforme capitalismo.

L’Inghilterra fra il 1800 e il 1890 crebbe la popolazione di 3,2 volte (+13,1% annuo); la Francia passò da circa 27 milioni di abitanti a 38 (+3,8%); l’Impero Tedesco da 23,5 milioni nel 1816 a 48 nel 1890 (+9,7%); l’Impero Russo, che stava importando, volente o nolente, capitalismo, raddoppiò quasi dal 1850 alla fine del secolo. Se nel 1870 il Giappone aveva 34,5 milioni di abitanti, che nel 1985 diventano 120,8 milioni (+11,0%). La Cina nel 1938 contava circa 446 milioni di abitanti e oggi ha superato il miliardo e duecento milioni (+15,3%)... grazie alla borghese rivoluzione di Mao. L’India nel 1946 contava 341 milioni di abitanti mentre oggi è anch’essa sopra al miliardo (+19%)... grazie alla borghese rivoluzione di Gandhi. L’incremento avutosi in un secolo in Cina e in India è uguale alla popolazione totale del globo all’inizio del secolo. Ovunque si conferma che rivoluzione capitalistica significa esplosione demografica.

Altro fondamentale fattore che determina lo sviluppo industriale di un paese è la densità di abitanti. In Struttura... spiegammo anche nel seguente modo la crescita continua negli anni ‘50 del capitalismo statunitense, a fronte della più modesta crescita della Russia: «Nel Nord America è alto capitalismo, ma ancora bassa densità (...) Lo Stato del Nord America si è espanso con una velocità enorme, anche se la sua rata di incremento demografico era solamente pari a quella della Russia (ma verso il 1920-30 era ben inferiore) grazie alla potente immigrazione da tutti i paesi della Terra. Ha quindi raggiunto e superato l’Inghilterra, strappandole il primato della produzione capitalistica. Lo ha potuto fare perché ha fatto volare l’incremento della sua densità di popolazione. Essa dal 1790 al 1950 ha raggiunto una cifra quaranta volte quella iniziale. La Russia (europea) l’ha solo quadruplicata». L’aumento costante, parallelo allo sviluppo capitalistico, della densità negli Stati Uniti lo si può osservare ben dettagliato nella Tabella storica a pag.344/351 del nostro studio Corso del capitalismo mondiale.

Nella tabella seguente, di altra fonte, che indica la densità di abitanti nell’esempio dell’Inghilterra, della Francia e della Germania, possiamo notare l’interazione industrializzazione-densità:

Anno Densità media ab/Kmq
 Inghil- Fran- Germa-
  terra   cia   nia
1300
1600
1700
1800
1900
1950
2000
    10    40     18
    17    28     25
    42    42     27
    58    50     42
   168    71    135
   205    75    163
   243   107    230

Un altro fattore che può essere utile per valutare la vetustà di un’economia capitalistica in un paese è il grado di urbanizzazione: in Francia la popolazione urbana costituisce attualmente il 75% del totale, in Giappone il 78,8%, in Italia il 67%, nei Paesi Bassi l’89,4%, nel Regno Unito l’89,5%, in Russia il 77,7%, negli Stati Uniti il 77,2%, in Germania l’87,5%.
 

La crescita rallenta

La tendenza che oggi si rileva per la popolazione in Occidente è di stazionarietà o addirittura di diminuzione, mentre è crescita solo nei paesi di nuova industrializzazione. Dal 1950 al 1990 la popolazione dei paesi sviluppati (essenzialmente Europa con Russia compresa, America del Nord, Giappone) è passata da 832 milioni a 1,2 miliardi di abitanti, con un aumento del 44% e del 9,2%; nel resto del mondo essa è passata da 1,7 a 4,1 miliardi, con un aumento del 141% e del 22,3%.

Attualmente il 95% dell’aumento della popolazione ha luogo nei paesi sottosviluppati.

Secondo la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, questo storicamente diminuisce per l’aumento relativo del capitale costante rispetto al capitale variabile. «La legge del saggio decrescente del profitto dice in altre parole: data una qualsiasi determinata quantità di capitale medio sociale, ad esempio 100, vi è un aumento continuo della parte di esso rappresentata dai mezzi di lavoro e una continua diminuzione della parte rappresentata dal lavoro vivo» (Il Capitale, vol.III). Ma già nel Primo Libro Marx anticipava che «la proporzione tra la parte costante del capitale e quella variabile in origine era di 1:1, ora diventa 2:1, 3:1, 4:1, 5:1, 6:1, 7:1, ecc».

Da qui, fra le altre, una contraddizione demografica, così enunciata da Marx nel primo volume dei Grundrisse: «Il capitale deve creare incessantemente lavoro necessario per creare pluslavoro; deve moltiplicarlo per poter moltiplicare il surplus; ma deve altresì sopprimerlo come necessario per poterlo porre come pluslavoro. È per questo che il capitale sollecita l’aumento della popolazione, ed è il vero e proprio processo di riduzione del lavoro necessario che rende possibile mettere in azione nuovo lavoro necessario (e quindi pluslavoro). Donde la tendenza del capitale sia ad aumentare la popolazione operaia sia a diminuire incessantemente la parte necessaria di essa (ossia a porne incessantemente una parte come riserva). L’aumento della popolazione è così anche il mezzo principale per la sua diminuzione».

Se è vero che il capitale trae il plusvalore dal lavoro dell’operaio, e che dunque abbisogna del suo lavoro, dall’altra parte il capitalista lotta per aumentare la fetta di plusvalore da succhiare dal proletario, rispetto al lavoro pagato, attraverso l’aumento del capitale costante, con ciò riducendo relativamente la necessità del lavoro operaio. Se il capitale costante, sviluppando le forze produttive, aumenta in relazione al capitale variabile, si ha la caduta del saggio di plusvalore (e di profitto) da un lato e la diminuzione relativa della domanda di manodopera dall’altro.

C’è quindi una relazione fra la diminuzione del saggio di profitto e la diminuzione del saggio di incremento della popolazione. Così si spiega che oggi il saggio di crescita della popolazione è quasi a zero in Europa e in Nord America ed è invece molto più alto in Asia, Africa e Sudamerica.

In questa tabella la caduta del saggio di popolazione nella “malthusiana” Inghilterra è ben osservabile (i dati fino al 1861 sono tratti dal Capitale, dal 1861 dal Corso...):

Gran Bretagna
Periodo Incre-
          mento %
Periodo Incre-
         mento %
 1811-21   15,3
 1821-31   14,4
 1831-41   13,2
 1841-51   12,1
 1851-61   11,4
 1861-71   11,3
 1870-80   10,1
 1880-90    8,1 
 1890-1900  9,5
 1900-10    8,6 
 1910-13    5,2
 1913-20   4,3
 1920-29   3,7
 1929-38  -2,3
 1938-47   4,6
 1947-55   4,0
 1955-60   4,6
 1960-70   5,9
 1970-80   1,3
 1980-84   0,9
 1984-93   2,1
 1993-02   3,4

Se l’aumento di popolazione medio fino al 1880 era superiore al 10%, dopo il 1910 diminuisce regolarmente. Non è un caso che nello stesso tempo si sia ridotto anche l’aumento della produzione industriale. Significativo l’effetto della Grande Depressione.

Si verifica quella legge che i demografi hanno battezzato “transizione demografica”, che in questa formula però non giunge all’essenza delle cause. Secondo il marxismo «come il recente avvio dell’industrializzazione capitalistica in varie e vaste zone del Pianeta ha alterato il fino allora lento sviluppo delle popolazioni, facendolo pericolosamente straripare, così l’ormai invecchiata struttura capitalistica dei sette principali Paesi sta provocando l’inesorabile invecchiamento delle loro popolazioni. Sui loro territori il fiume della vita dà chiari segni di un’accentuata tendenza a prosciugarsi e inaridirsi» (Corso..., pag.86). Mentre l’enunciazione data dalla borghesia della “legge della transizione demografica” si riduce a un banale constatazione di dati empirici, la nostra “legge della popolazione nel capitalismo” descrive lo scorrere dialettico e la relazione fra cause specifiche ed effetti.

L’Occidente, in breve, oggi figlia meno in quanto il Capitale occidentale investe (non per volontà, ma per necessità storica) sempre più in capitale costante e sempre meno in capitale variabile. Di conseguenza la forza vitale del capitalismo occidentale declina nella sua ormai cronica senilità strutturale. In Occidente si producono troppe merci per troppo poca popolazione. Ovvero, dal nostro punto di vista: le forze biologiche, tecniche e produttive della specie di gran lunga non corrispondono più ai rapporti di produzione vigenti. Sì, la società presente è gravida della nuova che preme per nascere, e ormai non solo come figura retorica ma anche in senso letterale!

Se la natalità è in diminuzione in tutto il mondo occidentale, comincia però a scendere anche nel Secondo e Terzo Mondo (Africa esclusa), in quanto si è entrati anche colà nel ramo discendente del saggio del profitto, pur col corrispondente ritardo di fase.

Bassa natalità e bassa mortalità sono le caratteristiche dell’evoluzione demografica moderna al che corrisponde un aumento dell’età media. Se nel 1985 la proporzione come media mondiale dei più giovani di 15 anni e dei più anziani di 65 era rispettivamente di 33,5% e 6%, nel 2025 è previsto che diventi 21,4 e 9,7%.

Il tasso di fecondità, cioè il numero di nati in media per ogni donna, segue una costante discesa dalla rivoluzione capitalistica in poi. Se nel 1800 in Francia il tasso era 4,5, nel 1920 era sceso a 2,5 e oggi è 1,8 (per non veder ridursi la popolazione occorre che il tasso di fecondità non scenda sotto il 2,2 circa). Lo stesso negli USA che nel 1800 registravano 7 e nel 1920 3,2 (cfr. “Population” n.1/2000). Dal momento che il capitalismo si impianta in una data regione è legge che il saggio di accrescimento della popolazione, il saggio di natalità e il saggio di mortalità decrescano.

Notava ancora Marx nel Primo volume del Capitale: «Se il prolungamento contro natura della giornata lavorativa, al quale tende di necessità il capitale nel suo sregolato istinto a valorizzare sé stesso, abbrevia il periodo di vita degli operai e, con esso, la durata della loro forza-lavoro, diventa necessario sottoporli a maggiori costi di logoramento nella riproduzione della forza-lavoro, proprio come la parte di valore di una macchina da riprodurre quotidianamente è tanto più grande, quanto più rapido è il logorio della macchina. Quindi sembra che il capitale sia indotto dal suo stesso interesse a una giornata lavorativa normale», e, di conseguenza, ad un decremento del tasso di mortalità.

Il basso tasso di mortalità, in particolare infantile e giovanile, e l’aumento dell’età media conseguono dalle migliorate norme igieniche e dai progressi della medicina. Queste grandi trasfomazioni nella curva, nella distribuzione percentuale per classi di età della popolazione, per il capitalismo è una vera disgrazia, costretto come si trova a dover mantenere in vita, bene o male, una grossa fetta di proletariato non più spremibile nelle fabbriche. Il vampiro-Capitale si consola solo pensando di poter tosare, in periodo di crisi cronica, anche gli “over 60” nel loro ruolo di “consumatori”.

Ma non sono affatto da escludere interruzioni ed anche inversioni della tendenza all’abbassamento della mortalità per effetto sia delle guerre sia delle prevedibili peggiori condizioni di vita urbana, di alimentazione e di lavoro. Esempio davvero apocalittico, ben nascosto dai borghesi dell’est e dell’ovest, è quello della Russia dove dopo il crollo economico dell’89 la durata media della vita è precipitata in modo drammatico: gli anziani sono stati sterminati dal freddo, dalla fame, dalla criminalità e i giovani dall’alcol e dai suicidi per disperazione.

In linea generale, sulla popolazione agiscono molto di più natalità e mortalità che emigrazione ed immigrazione, ad eccezione di continenti quali l’America e l’Oceania, di enorme immigrazione. L’immigrazione serve innanzitutto per mantenere la manodopera a basso costo oppure quando v’è bisogno immediato di manodopera e non ci si può permettere i lunghi tempi delle generazioni. In Occidente quindi, dove il capitale oggi non ha certo il fiato e l’ardire di far piani a più lunga scadenza di qualche mese, si ricorre ampiamente all’immigrazione.
 

Le tendenze in Asia e in Africa

Secondo alcune stime la popolazione mondiale del 2025 ammonterà a 8,5 miliardi, ripartiti per continente nel seguente modo:

Previsioni al 2025
1.597.000.000
757.000.000
332.000.000
4.912.000.000
515.000.000
352.000.000
38.000.000
in Africa
in America Latina
in Nord America
in Asia
in Europa
nell’ex-U.R.S.S.
in Oceania.

Secondo tali stime internazionali l’Africa, dove nel 1985 viveva l’11,5% della popolazione, potrebbe raggiungere il 18,8% della popolazione mondiale. L’Europa (senza l’ex-URSS) dove viveva il 10,1% della popolazione non ne raggiungerebbe che il 6,1%. È previsto un lieve aumento della percentuale in Sudamerica (da 8,3 a 8,9%), un lieve decremento in Asia (da 58,4 a 57,7%) e una caduta dell’ex-URSS da 5,7 a 4,1%.

In Africa il tasso di crescita attuale è del 28% all’anno (un tasso che, se costante, implicherebbe un raddoppio della popolazione in soli 25 anni) e il numero medio di figli per donna è di 5,8. Ma si pensi che «un padre di famiglia il cui obiettivo sia di avere due figli viventi alla soglia della vecchiaia (60 anni), obiettivo plausibile nelle norme africane, dovrebbe generare otto figli, date le condizioni di mortalità elevata che sussiste ancora in certe regioni rurali».

La Nigeria, che nel 1950 contava 33 milioni di abitanti, nel 1998 ne contava 106 milioni, con un incremento medio annuo del 24,6%, tuttora in aumento. La Banca Mondiale vi prevede per il 2025 ben 217 milioni di abitanti, che vorrebbe dire continuare al 26,9%. Per l’Etiopia si prevede la triplicazione nello stesso periodo (da 55 a 141 milioni, 37,0%!), in Kenya il raddoppio (da 26 a 47 milioni, 22,2%) e il Kenya ha tra l’altro il primato di avere la più alta fecondità media, 8,1 figli per donna. L’Africa, grazie soprattutto ai paesi sopracitati ma anche alla sovraffollata Algeria, è il continente in ritardo rispetto agli altri nello sviluppo capitalistico della popolazione, ma dagli anni ‘70 sta recuperando rapidamente terreno pur non essendo ancora giunto all’apice della crescita del saggio della popolazione, che ne preannuncerà l’inevitabile discesa.

Jean-Claude Chesnais in La population du monde mostra che il mondo si può dividere fra:

– regioni in regime demografico moderno (incremento naturale della popolazione, cioè escludendo i flussi migratori, in crescita tra il -1 e il +1% nel 1999: l’Occidente, per intenderci);

– regioni in “transizione demografica” avanzata (crescita tra l’1 ed il 1,2%: Corea, Cina, Argentina, Cile e molti altri paesi);

– regioni in “transizione demografica” tardiva (crescita tra il 1,2 ed il 20%: Brasile, Messico, Colombia, Venezuela, ma anche India, Egitto, Marocco, ecc.);

– l’ultimo gruppo è quello della crescita demografica esplosiva dove «essendo calata la mortalità ma non essendo ancora diminuita la fecondità, il ritmo di sviluppo demografico è nella sua fase di crescita». In questo gruppo su 42 paesi, 28 appartengono all’Africa. In quasi tutti i paesi dell’Africa la crescita della popolazione ha oscillato fra il 100 e il 300 per cento dal 1950 al 1990, cioè fra il 17 e il 35%.

Scrive ancora Chesnais: «Una speranza di vita di quarant’anni è l’attesa dell’Europa occidentale verso il 1850 ed è anche la situazione che prevale un secolo più tardi nella quasi totalità dell’Africa; in certi casi estremi (Angola, Gambia) la speranza di vita è ancora di dieci anni più corta. In Africa i paesi che superano tale valore sono rari; si tratta di quelli che, in seguito ad una forma positiva di colonizzazione (formazione di medici, costruzione di ospedali, creazione di infrastrutture), hanno potuto beneficiare dei miglioramenti portati dalla medicina occidentale: Egitto, Maghreb, Africa del Sud, Zimbabwe. La precarietà delle condizioni sanitarie è caratteristica anche dell’Asia del Sud, dove la vita media è di 39,1 anni, appena superiore a quella dell’Africa (37,7 anni). Esistono 19 paesi con una durata di vita media inferiore a 35 anni». Anche questo va nell’elenco degli “olocausti”, sebbene di segno democratico e liberista.

Questo olocausto capitalistico si fa poi particolarmente atroce per l’enorme diffusione dell’AIDS, che in certi paesi ha una diffusione e provoca conseguenze paragonabili alla peste del XIV secolo. «Sono 34 i paesi del mondo che alla fine del Novecento presentano un elevatissimo tasso di popolazione infetta, 29 dei quali sono nell’Africa sub sahariana, 3 in Asia (Cambogia, India e Thailandia) e 2 in America Latina (Brasile e Haiti). Dei 30 milioni di individui che nel mondo si stima siano affetti da HIV, l’85% (26 milioni) risiede in questi 34 paesi nei quali si registra anche il 91% delle morti da AIDS del mondo intero. L’impatto della durata media della vita è devastante: nei 29 paesi africani la vita media è valutata in 47 anni, 7 in meno di quella che si avrebbe in assenza di AIDS» (Golini). In alcuni paesi africani circa metà della popolazione è infetta da HIV. È evidente che il capitalismo mondiale non provvede a cure e prevenzioni in Africa, con la complicità dei governi locali, perché trova nell’epidemia lo strumento per mantenervi l’incremento demografico a tassi, per esso, “ragionevoli”.

In Asia, dopo un periodo di forte crescita di popolazione, si assiste, all’opposto dell’Africa, ad un ridimensionarsi del saggio di accrescimento. Fra il 1970 e il 1990, ad eccezione di pochi paesi quali l’Afghanistan e l’Arabia Saudita, vi è stato un netto ridimensionamento della fecondità, Cina ed India comprese.

L’esempio della Cina è illustrato con molti dati su “Population” n.2/2000, nell’articolo La fecondité chinoise à l’aube du XXI siècle. Ai tempi di Mao lo Stato chiamava a “produrre produttori” con incentivi quali premi in denaro e detassazioni.

CINA
 Anno   Popolaz.          Tassi di
         milioni  Natalità Mortalità Accresc.
 1904    330.000
 1953    587.960    37,0     14,0     23,0
 1960    662.070    20,9
     25,4     -4,6
 1964    704.990    39,1 
   11,5     27,6
 1970    829.920    33,4
      7,6     25,8
 1975    924.200    23,1  
   7,3     15,7
 1980    987.050    18,2      6,3     11,9
 1985  1.050.440    17,8      6,6     11,2
 1990  1.143.330    21,1      6,7     14,4
 1995  1.211.210    17,1      6,6     10,5
 1998  1.248.100    16,0      6,5      9,5

Questa sopra è la tabella riportata dalla rivista (che non conteggia Hong Kong e Macao; il dato del 1904 proviene dal Calendario Atlante De Agostini).

Oggi il governo esercita una campagna di propaganda che pressa i cinesi a mettere al mondo un solo figlio, sostanziata da premi/penalità di reddito e fiscali.  Questo ha indotto la triste ma diffusa pratica della soppressione delle femmine, prima o dopo la nascita. Del fenomeno testimoniano le statistiche per genere di alcune classi di età.

«Per la prima volta nella storia della Repubblica popolare – ad eccezione dei tre anni di carestia consecutivi al Grande Salto in Avanti (1959, 1960 e 1961) – il tasso di accrescimento naturale sarà passato nel 1998 al di sotto della barriera del 10% (...) L’evoluzione è chiara per i quattro periodi intercensitari (per anno in media):
    +17% dal 1953 al 1964,
    +20% dal 1964 al 1982,
    +15% dal 1982 al 1990,
    +13% dal 1990 al 1998».

Ma la disparità da regione a regione è enorme. Se nel 1990 a Shangai il tasso di crescita annuale era del 4,4% e nel 1997 è crollato al -1,3%, nel montuoso Tibet avevano un tasso del 16,4% nel 1990 che nel 1997 era sceso soltanto al 16,0%. In linea generale la zona costiera di più “vecchia” industrializzazione ha tassi molto bassi, le zone più interne e meno industrializzate, in cui le forze capitalistiche sono ancora in pieno rivoluzionamento di vecchie tradizioni e secolari modi di vita, hanno tassi elevati.

La necessità della discesa del saggio di incremento ha degli effetti ovvii sulla “morale sessuale”: «La piccola rivoluzione sessuale che si opera, si legge nell’articolo, rivoluziona i vecchi comportamenti: le relazioni sessuali non hanno più, come nella società tradizionale, per principale funzione la riproduzione; l’immoralità non sta più nel piacere sessuale e nell’amore, come durante la Rivoluzione culturale; si cerca oggi l’affermazione personale attraverso l’affermazione sessuale». Le nuove e diverse esigenze del Capitale, come si vede, agiscono direttamente sulla morale e su ciò che qualcuno ritiene più personale, intimo e protetto: l’amore di coppia. La Cina è diventata a tal punto moderna che l’83% delle donne in età di procreare usa metodi anticoncezionali e sono in aumento di divorzi. Si sviluppa un tipo nuovo di sessualità, non legata immediatamente alla riproduzione.

In India dall’inizio del XX secolo agli anni ‘60 la fecondità per donna è rimasta circa di 5,9-6,0 figli, mentre la durata media della vita passava da 20 a 46 anni. Dalla metà degli anni ‘70 la fecondità è lentamente scesa portandosi nel 1991 a 3,4 figli per donna.
 

Verso un stato stazionario?

Nazioni Unite e Banca Mondiale hanno formulato una previsione secondo la quale nel 2030-2035 vi sarebbe una stabilizzazione della popolazione a livello mondiale, dovuta alla discesa del tasso di natalità.

Se accettassimo l’ipotesi, della quale la Banca Mondiale è convinta, o almeno si forza di crederci, che allora il capitalismo sia, rantolante, ma non ancora cadaverizzato dal Comunismo, si arriverebbe ad una condizione perfettamente stazionaria, un tasso di fecondità poco superiore a 2 e bassa mortalità, una grande percentuale di anziani sulla popolazione, ecc, ecc.

Cosa succederebbe allora? Benché l’immagine della stazionarietà alletti certo ogni risma di reazionari e piccolo-borghesi, per il Capitale non va affatto bene, anzi gli è del tutto incompatibile. Al World Economic Forum di New York nel gennaio 2002 l’economista Gail Foster spiegò in questo modo perché l’acuta crisi giapponese non presenti vie d’uscita: «Con la popolazione in declino, la stagnazione e le politiche errate temiamo che adesso il peggio non possa più essere evitato». Ciò che la Banca Mondiale chiama stabilizzazione demografica sarebbe in realtà una catastrofe per il modo di produzione capitalistico, ben maggiore della ipocritamente deplorata “morte per sovrappopolazione”.

Il Capitale, anche se, forse, appena uscito dalla Terza Guerra Mondiale, da cui sperava ritrovare linfa vitale, continuerebbe a ritrovarsi un saggio di profitto che sfiora lo zero, rapportato ad un contemporaneo saggio di accrescimento della popolazione ugualmente esanime. È quello capitalistico un modo di produzione che, all’evidenza, ha compiuto il suo ciclo, ha dato tutto quello che poteva dare ed attende solo di essere pensionato dalle forze vive del Comunismo.

Sappiamo che il numero di per sé non basta se i miliardi di ioni non si orientano e allineano secondo le linee di forza del campo storico, che è conosciuto e previsto solo dal partito di classe. Ma, contro la putrescenza capitalistica, è già formato il grande esercito del proletariato mondiale, sempre più numeroso. Se il Nord America e l’Europa insieme non arriveranno al miliardo, l’Africa, l’Asia e il Sudamerica forniranno otto miliardi di uomini in buona parte proletari che non sarà facile per il Capitale sempre controllare e reprimere. Miliardi di proletari contro un esiguo numero di parassiti che hanno dedicato la vita ad arricchirsi e a dominare sulle spalle della maggioranza del pianeta.
 

La popolazione nel Comunismo

Nella nostra antica battaglia contro la degenerazione staliniana dell’Ottobre si trovarono nuove conferme alla validità del marxismo e si approfondirono questioni quali, tra l’altro, quella della popolazione.

Stalin decantava come “conquista socialista” anche l’incremento enorme di popolazione, che era in realtà dovuto non al socialismo, che non ve n’era, ma al nascente capitalismo russo. In quella occasione di “dialogo” dicemmo a Stalin che se ci fosse stato in Russia socialismo ci sarebbero state ben altre leggi di popolazione e cioè: «Indici della produzione agraria e industriale sensibilmente costanti ed uguali a quelli della popolazione – indice crescente della produttività del lavoro e indice decrescente in proporzione inversa del tempo di lavoro – mortalità bassa tendente a maggiore equilibrio tra l’età giovane e l’adulta e limitata al 10% annuo – natalità sul livello del 15% annuo – incremento di popolazione basso e di circa il 5% annuo. Questa società immaginaria in cui fosse avvicinato il limite della vita biologica a quello della possibilità produttiva, e quindi non troppo vecchia né troppo giovane, non è tratta come un ideale dai complicati calcoli della demografia matematica, ma è fatta per dare un’idea della rinnovazione delle generazioni in un supposto flusso normale, che segua l’epoca delle catastrofi. Essa è tale che 1000 abitanti sono 1160 dopo 30 anni, 1350 dopo 60, 1570 dopo 90. Allora ne saranno nati 1740 e morti 1140, ossia non vi saranno sopravviventi troppo vecchi, di massima. Inoltre i fenomeni migratori da una parte all’altra del globo dovranno essere di tale vastità da avvicinare la densità locale alla densità optimum, o capacità della terra di ospitare uomini viventi».

Più avanti aggiungemmo che nel Comunismo si rovesceranno le tendenze demografiche del capitalismo «con la razionale limitazione degli accoppiamenti fecondanti, in ragione ad età, sanità e non parodistica pianificazione delle attività; in cui la prima cosa sarà contare, non più unità-moneta, ma unità vere, prima tra esse l’unità animale-uomo».

Malthus riteneva che una società di liberi ed egualitaria fosse utopistica in quanto «non riesco ad immaginare, sciveva, una forma di società più propizia all’aumento della popolazione [di quella comunista]. L’indissolubilità del matrimonio, che fa oggi una decisione irreversibile, certamente scoraggia molti dal compiere questo passo. Al contrario, la libertà del rapporto costituirà il massimo incitamento alle unioni precoci (...) Il numero degli abitanti aumenterà necessariamente più in fretta che in qualsiasi società mai conosciuta». Per Malthus, che conosce solo l’uomo del mondo borghese, una società «senza guerre, vizio e miseria» sarebbe destinata al fallimento in quanto non vi sarebbe più alcun freno all’incremento della popolazione.

Dai dati attuali di storici e demografi abbiamo dimostrato che Marx aveva ragione e Malthus torto. Ogni modo di produzione ha le sue leggi della popolazione. Abbiamo visto che, prima che intervenissero i divieti imposti dai vari modi di produzione di classe, era l’istinto di Specie a regolare la produzione di esseri umani. Nella futura società del Comunismo, di nuovo società nel senso pieno, l’istinto alla riproduzione, individuale e collettivo, tornerà a liberarsi dalle costrizioni della moderna ignoranza, della miseria e della dittatura di Stati.

In un frammento di Engels su l’associazione dell’avvenire si legge: «Le associazioni che si sono avute finora – naturali oppure artificiali – esistevano, secondo le circostanze, per fini economici, ma questi fini erano nascosti e sepolti sotto fatti ideologici secondari. La polis antica, la città o corporazione medioevali, la lega feudale della nobiltà terriera, tutte avevano fini ideologici secondari che le giustificavano e che, nella lega familiare patrizia e nella corporazione, derivavano, non meno che nella polis antica, da ricordi, tradizioni e ideali della società gentilizia. Solo le società mercantili capitalistiche sono del tutto disincantate e pratiche – ma volgari. L’associazione dell’avvenire unirà la freddezza di queste ultime con la cura per la comune prosperità sociale di quelle antiche, e con ciò raggiungerà il suo fine».

La Specie, non il popolo scisso in classi come l’attuale, sarà nel Comunismo un unico corpo organico – vivente e riproducentesi – per il quale “lo sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra
 
 

La guerra italo-turca scoppiata nel 1911 fu un evento che si inquadrava perfettamente nel corso e nello sviluppo dell’imperialismo mondiale e che, nel breve volgere di qualche anno, ebbe la sua naturale conclusione con lo scatenarsi della prima guerra interimperialista.

Lo stesso evento, per la dialettica dei fatti sociali, servì a dare un violento scossone al sonnacchioso procedere del partito socialista, tale che, pungolato in particolar modo dai giovani, non arriverà impreparato, almeno nella sua parte migliore, alla scadenza del 1914.

Il proletariato italiano si era opposto compatto e fieramente si era battuto contro l’impresa di Tripoli. Se lo sciopero generale non conseguì quegli effetti che una mobilitazione globale della classe avrebbe potuto ottenere ciò fu da imputarsi a chi tale sciopero aveva organizzato, sabotandolo, e non certo ai lavoratori che espressero tutta la loro volontà antimilitarista nelle manifestazioni contro la partenza delle truppe.

In una atmosfera di galvanizzazione antimilitarista ed antipatriottica si riunì a Modena, il 15 ottobre 1911, il congresso straordinario del Partito Socialista.

Scriveva Vella ne “La Soffitta” del 15 ottobre: «Abbiamo preciso in noi il piano della nostra azione e siamo decisi fieramente a non prestarci a commedie congressuali di nessun genere (…) La nostra frazione va così sicura e decisa a Modena. Fino a ieri sparuta e inorganica minoranza, oggi si presenta come la forza più omogenea e più compatta del socialismo italiano (…) la sola che comunque dominerà il congresso (…) Solo noi possediamo in Italia un programma sicuro e deciso».

Mussolini, allora esponente di primo piano dell’area rivoluzionaria, non poté esser presente a Modena perché incarcerato a seguito delle manifestazioni antimilitariste, ma il congresso applaudì ben due volte all’indirizzo del “nostro buon Mussolini di Forlì”.

La tenzone congressuale si svolse fra ben cinque correnti: i riformisti di destra con Bissolati, Bonomi, Cabrini, Ferri, Podrecca, apertamente favorevoli alla guerra “civilizzatrice”, alla collaborazione ed alla eventuale partecipazione governativa; i riformisti di sinistra, capeggiati da Turati e Treves, che alla guerra si opponevano ma non alla collaborazione con ministeri borghesi “progressisti”; il gruppo di Modigliani che, nei fatti, non differiva da quello di Turati Treves; gli integralisti, o centristi, di Pescetti; ed infine i rivoluzionari.

Tanti erano i gruppi, ma la effettiva battaglia fu combattuta tra due concezioni dell’organo partito e tra due metodi di azione politica; quello riformista e quello rivoluzionario. E questo fatto veniva chiaramente avvertito sia dalla destra sia dalla sinistra, tanto che l’ultra destro Bonomi, con ragione, poteva affermare: «Non ci sono posizioni medie fra la ferrea intransigenza di Lazzari e il dritto riformismo di Leonida Bissolati, ossia tra la legge democratica della coalizione dei partiti e della partecipazione eventuale al potere e l’intransigenza assoluta, che comanda di accamparsi soli, in perpetua opposizione rivoluzionaria, contro tutta la borghesia».

Da parte rivoluzionaria il Della Seta esprimeva, praticamente, lo stesso concetto: «La frazione turatiana non può, senza confermare il fallimento di tutto il riformismo, distaccarsi dalla frazione bissolatiana con cui sino a ieri formarono una stretta compagnia, che corre alle sue ultime conseguenze ed aspetta, serenamente, l’ora di salire al potere e preferisce la scomunica all’equivoco. Per noi il riformismo uno fu, uno è ancora oggi, uno deve rimanere».

Organicamente meglio articolato fu l’intervento di Lerda teso a dimostrare la inconciliabilità tra metodo riformista e metodo rivoluzionario: «Quando noi al proletariato affermiamo che il principio della lotta di classe è basato sull’antagonismo irreduttibile fra quello che è l’interesse delle classi lavoratrici con l’interesse della classe capitalista (…) noi affermiamo cose che hanno la più grande presunzione di verità scientifica e dalle quali deve derivare, come conseguenza logica, uno speciale determinato atteggiamento direttivo e pratico nella lotta o nell’azione che il proletariato deve impegnare di fronte agli interessi della borghesia capitalista (…) Quando diciamo che la borghesia, nella difesa dei propri interessi, sia col Parlamento, sia con tutti gli altri strumenti di dominio da essa creati, ha la concezione esatta dei fini di conservazione cui mira e che sono la ragione stessa della sua esistenza, quando diciamo che essa sa valutare la propria forza e superiorità intellettuale e materiale di fronte al proletariato (…) noi affermiamo un’altra verità che rivela quanto sia necessario dare alla lotta economica e politica del proletariato un’alta e seria base direttiva nel pensiero e nell’azione. La lotta è a forze impari per ora, ma non è meno perciò lotta ad oltranza perché è lotta di rinnovamento civile ed umano; anche gli opportunismi (…) devon esser banditi da quella che è la teoria del socialismo». Riguardo poi alla guerra di Libia, Lerda affermava che non si trattava di una qualunque congiuntura politica, ma era determinata dalla essenza stessa del capitalismo. «Il fatto di Tripoli (…) non è fatto che possa meravigliare coloro i quali non hanno mai avuto l’illusione di influire e di far diventare socialista un governo borghese. Sostanzialmente fatti come quelli di Tripoli ci sono sempre, come c’è sempre la politica della borghesia italiana e di tutte le borghesie del mondo, intese a dare vita ed espansione maggiore ai loro interessi di classe. Ciò che importa a noi di rilevare, nel fatto di Tripoli, avvenuto sotto il Ministero Giolitti, che ha goduto e gode dell’appoggio dei socialisti, è che noi non dobbiamo illuderci, né illudere, che un governo borghese possa seriamente ed efficacemente fare del socialismo internazionale».

Sempre per i rivoluzionari Francesco Ciccotti sostenne che l’opposizione alla guerra di Libia doveva basarsi non su motivi contingenti, come le spese deviate dall’opera di riforme, ma su principi internazionalisti e, rivolgendosi ai riformisti di sinistra, affermava: «La vostra opposizione relativamente a Tripoli, essendo una opposizione puramente contingente, non di principio, alla spedizione tripolina, alla impresa coloniale in sé, è stata una violazione aperta e patente di quel concetto e di quello spirito internazionalista del nostro partito che, fino a quando voi non avrete deliberato in un Congresso di sopprimerlo, darà le vibrazioni più forti all’anima nostra. Ho notato gli applausi fragorosi che da ogni parte del congresso hanno salutato stamane il telegramma dei nostri compagni tedeschi, i quali inneggiavano apertamente all’internazionale socialista, e mi sono parsi da parte vostra piuttosto degli applausi commemorativi di un ideale già morto e seppellito nel vostro animo».

La mozione presentata da Lerda per la corrente rivoluzionaria, se presentava il difetto di chiudere con il solito richiamo all’opera di “educazione” e di “elevazione” del proletariato quale condizione indispensabile per una vera opera di rinnovamento sociale, aveva però il grandissimo merito di recidere, senza mezzi termini e definitivamente, i ponti con il metodo collaborazionista e riformista «che è in contraddizione col concetto e colla pratica della lotta di classe».

Con gli 8.646 voti ottenuti dalla loro mozione, i rivoluzionari, avendo ottenuto la maggioranza relativa, uscivano vittoriosi dal congresso.

Il successivo congresso del partito si tenne a Reggio Emilia nel luglio 1912, solo dopo nove mesi. Il tempo strettamente necessario per la sua preparazione. I nodi storici venivano al pettine; era tempo di verificare, chiarire, preparare il partito agli eventi che, minacciosamente, si profilavano all’orizzonte.

Per i risultati di questo congresso decisiva importanza ebbero le febbrili riunioni della frazione rivoluzionaria, nelle quali gli elementi più giovani presero posizione di avanguardia.

L’atmosfera si presentava incandescente ed il congresso non poteva non registrare lo scontro frontale fra le due “anime” del partito.

E’ vero che nel febbraio il gruppo parlamentare socialista (con la sola eccezione di Enrico Ferri che venne immediatamente liquidato) aveva votato compatto contro il decreto di annessione della Libia al Regno d’Italia; ma dai discorsi pronunciati in quella occasione si rivela quale profonda discordanza vi fosse perfino all’interno delle correnti riformiste.

Il 14 maggio un altro evento servì a portare ulteriore chiarezza all’interno del Partito Socialista. Il muratore Antonio D’Alba aveva sparato contro le sacre persone di re e regina. La notizia giunse alla Camera mentre i deputati si trovavano in seduta e, su proposta del repubblicano Pantano, si recarono immediatamente al Quirinale per felicitarsi con i sovrani per lo scampato pericolo. Nel gruppo si intrupparono pure, rompendo la disciplina di partito, dei socialisti: Bissolati, Bonomi, Cabrini.

Scoppiò l’indignazione dei socialisti, Mussolini dalle colonne della “Lotta di Classe” chiese a gran voce l’espulsione dei tre. «Espulsione! Ecco la parola davanti alla quale arretrano tanti socialisti e sinistri e destri. Ma se è un atto così frequente, così naturale nella vita dei partiti. Può essere un’operazione dolorosa per chi la provoca e per chi la subisce, ma è dolore che purifica e libera. Il saggio chirurgo afferra il coltello delle amputazioni quando constata la inutilità di ogni altra cura e vuol evitare la cancrena» (“Lotta di Classe”, 20 maggio 1912).

Costantino Lazzari diede inizio ai lavori congressuali inviando «un saluto alle vittime politiche, siano illustri od oscure, che segnano la triste pagina della presente storia politica italiana. Crederei di mancare ad un dovere fondamentale della nostra fede socialista – continuava Lazzari – se, in unione al saluto alle vittime della persecuzione e della giustizia borghese del nostro paese, non mandassimo un saluto a tutte le vittime dell’Italia e della Turchia che oggi cadono sui campi di Libia (scoppio di applausi) vittime tutte, vincitori o vinti, della violenza colla quale le classi dominanti nelle diverse circoscrizioni nazionali, intendono di contendersi il diritto di sfruttare il lavoro delle masse, per l’accumulazione del loro capitale privato (vivissimi applausi, grida di “Abbasso la guerra!”)». Lazzari, infine, sottopose ad una serrata critica l’attività della Direzione del partito concludendo che era stato condotto da inetti ed imbelli. Neppure mancò di attaccare il gruppo parlamentare ed il suo preteso diritto alla autonomia nei confronti del partito.

Anche Serrati si scagliò con forza contro tutto l’operato della Direzione che venne accusata di vivere alla giornata, subendo, piuttosto che dirigendo, le iniziative delle singole sezioni: prima di tutte la mobilitazione contro la guerra.

Ma l’intervento che espresse il carattere distintivo e determinante al congresso di Reggio Emilia fu il discorso di Mussolini ben sostenuto dalle energiche richieste venute fuori nelle lunghe sedute notturne di frazione.«Finalmente fu condannata in tutte lettere ogni autonomia del gruppo parlamentare del partito. Mussolini svolse una vivace critica del parlamentarismo e della sopravalutazione del suffragio universale offerto da Giolitti in contropartita all’impresa libica (“il sacco di ossigeno che prolunga la vita dell’agonizzante”); proclamò che l’uso di quest’ultimo deve soltanto “dimostrare al proletariato che neanche quella è l’arma che gli basta per conquistare la sua emancipazione totale”, e disse senza ambagi ch’era tempo di “celebrare solennemente con un atto di sincerità quella scissione che si era ormai compiuta nelle cose e negli uomini”. Ma il suo forte non furono mai le costruzioni teoriche bensì le posizioni di battaglia. Si scagliò contro la visita al Quirinale: noi non siamo per l’attentato personale, ma gli infortuni dei re sono gli attentati, come le cadute dai ponti quelli dei muratori (d’Alba era muratore). Lesse infine tra applausi frenetici la mozione che espelleva dal partito Bissolati, Bonomi, Cabrini, ma nella fretta scordò una parte delle decisioni di frazione della notte: fu necessario gridargli: e Podrecca? E allora afferrò il lapis e scrisse sul foglietto che tendeva al presidente: “la stessa misura colpisce il deputato Podrecca per i suoi atteggiamenti nazionalisti e guerrafondai”, sollevando, tra lo sbigottimento dei destri e dei centristi, alte acclamazioni. Un’altra frase famosa fu quella, che ben si attagliò al Mussolini futuro: “il partito non è una vetrina per gli uomini illustri!”. Morale, diremmo: le verità non sono tali per virtù di chi le afferma, ma per virtù propria» (“Storia della Sinistra Comunista”, Vol. I).
 
 
 
 
 
 

Partito Socialista Italiano
XIII Congresso Nazionale - Reggio Emilia, 8 luglio 1912
Intervento di Benito Mussolini
 
 
 
 

Presidente GREGORIO AGNINI: - Ha facoltà di parlare il compagno Mussolini.
 

MUSSOLINI (Applausi): - Permettetemi di cominciare con una dichiarazione personale. Si è detto da molti giornali e molti compagni forse lo hanno creduto, che io avrei presentato e sostenuto una specie di pregiudiziale. Questa non è mai stata nelle mie intenzioni e c’è qualcuno qui che può rendermene fede. La mia discussione sulla relazione del Gruppo Parlamentare e sull’operato di taluni membri del gruppo stesso doveva farsi e la faccio al terzo comma dell’ordine del giorno senza inversioni o anticipazioni.

Io mi sono qualche volta domandato – così per curiosità intellettuale – le ragioni dello scarso successo della propaganda astensionistica in Italia. L’Italia è, certo, la nazione in cui il cretinismo parlamentare – quella tal malattia così acutamente diagnosticata da Marx – ha raggiunto le forme più gravi e mortificanti. Si vede che siamo un popolo “politico” da tanto tempo che per quante disillusioni si provino, torniamo sempre ai vecchi peccati.

Il parlamentarismo italiano è già esaurito. Ne volete la prova? Il suffragio quasi universale largito da Giovanni Giolitti è un abile tentativo fatto allo scopo di dare ancora un qualsiasi contenuto, un altro periodo di “funzionalità” al parlamentarismo.

Il parlamentarismo non è necessario assolutamente al socialismo in quanto che si può concepire e si è concepito un socialismo anti-parlamentare o a-parlamentare, ma è necessario invece alla borghesia per giustificare e perpetuare il suo dominio politico. Tutte le nazioni moderne a regime più o meno democratico-rappresentativo ci offrono lo spettacolo di una borghesia travagliata e stimolata dal bisogno di rinnovare i suoi istituti politici per evitare od allontanare la precoce imminente vecchiaia che li logora. Il Parlamento Francese vota la rappresentanza proporzionale perché il suffragio universale ha già esaurito la sua funzione trasformatrice; la Camera italiana vota il suffragio giolittiano per vivificare l’istituto parlamentare – anello di congiunzione fra governo e popolo.

La decadenza innegabile del parlamentarismo italiano ci spiega perché tutte le frazioni parlamentari – dalle scarlatte alle nere – abbiano votato compatte per l’allargamento del voto. È il sacco d’ossigeno che prolunga la vita all’agonizzante. Per queste ragioni io ho un concetto assolutamente negativo del valore del suffragio universale, mentre per i riformisti il suffragio universale ha un valore positivo. L’uso del suffragio universale deve dimostrare al proletariato che neanche quella è l’arma che gli basta per conquistare la sua emancipazione integrale.

La borghesia come deve compiere il suo ciclo economico, così deve percorrere intera la sua parabola politica – realizzare cioè tutti i desideri delle democrazie – fino al giorno in cui scomparendo la possibilità di ulteriori trasformazioni dei suoi istituti politici, un altro problema, il problema fondamentale, quello della “giustizia nel campo economico” dovrà essere risolto e la soluzione non potrà essere che socialistica: il passaggio alle collettività operaie dei mezzi di produzione e di scambio.

L’utilità del suffragio universale è, dunque – dal punto di vista socialistico – negativa: da una parte esso affretta l’evoluzione democratica dei regimi politici borghesi, dall’altra esso dimostra al proletariato la necessità di non rinunciare ad altri metodi più efficaci di lotta. (Commenti).
 

UNA VOCE: - È grossa.
 

MUSSOLINI: - No è marxista.

La relazione del gruppo parlamentare socialista è una così scheletrica e povera cosa, che non vale la pena di discuterla. Come discutere l’operato di un gruppo di 40 deputati che si presenta al Congresso con due o tre paginette di prosa sbiadita e niente altro?! E tutto questo è il documento della sua vitalità, del suo interessamento per la causa del proletariato? Se questo documento dovesse dirci qualche cosa sull’opera dei deputati socialisti noi dovremmo trarne delle ben tristi constatazioni. Badate che non voglio fare il piccolo processo agli uomini. Non possiamo, non dobbiamo fare un processo di dettaglio. Però permettete che, nella relazione, io rilevi alcune frasi.

Si giuoca a scarica barili. Il gruppo non funziona? La colpa è del partito. I deputati aspettano l’ossigeno dal partito, e viceversa il partito dà la colpa al gruppo. Ora questo giuoco deve finire. A nulla gioverebbe, dicono i relatori, limitare l’autonomia del gruppo. Io la voglio invece sopprime. Il gruppo non deve avere che una sola autonomia: l’autonomia tecnica, ma l’autonomia politica non la deve avere, non bisogna concedergliela (Bene). Bisogna che i deputati escano da questo equivoco.

Rappresentano il partito, o la massa elettorale? Rappresentano le Sezioni Socialiste che hanno lanciato e sostenuto la candidatura o il gregge anonimo e caotico dei votanti? Ebbene, se rappresentate, se siete dei deputati socialisti in quanto la vostra candidatura è stata lanciata dalle Sezioni, dovete essere sottoposti al controllo del Partito. La vostra autonomia politica deve essere soppressa. Vi si potrà lasciare un’autonomia tecnica, ma l’autonomia politica non più. I deputati devono ubbidire alla Direzione. Si troverà modo di rendere le sezioni più spedite ed omogenee, più pronte e meno sorde a tutte le chiamate della Direzione, ma l’autonomia del gruppo è altamente pericolosa e lo abbiamo visto.

Del resto questa relazione conferma le nostre critiche. Si riassume in queste parole: non abbiamo fatto niente. Addita talune cause che non riteniamo plausibili ed aggiunge che il Congresso non dovrà segnare condanna od esclusione di alcuno.

Ci sono dei fatti gravissimi nell’ultimo periodo di storia parlamentare. Questa mattina avete applaudito freneticamente all’ungherese e si capisce. Là i deputati semplicemente liberali hanno fatto un’opposizione a Tisza che noi non sogneremmo neppure in questa Italia.
 

(Applausi) Una voce interrompe (Rumori, invettive, tumulto).
 

MUSSOLINI: - Egregio amico, spero che mi conoscerete.
 

La stessa voce interrompe di nuovo (rumori)
 

PRESIDENTE: - Siano congressisti o del pubblico prego di non interromper l’oratore. Nel caso chiedano di parlare.
 

MUSSOLINI: - Ma lasciando da parte gli atti compiuti da singoli deputati – e potremmo citare lo scandaloso discorso del Cabrini sul Calendario degli emigranti, il voto di Graziadei, unico in tutta l’Estrema Sinistra, favorevole al mantenimento del giuramento politico – vi sono nella recentissima cronaca parlamentare episodi che non possiamo non segnalare come gli indici della degenerazione politica e socialista cui è pervenuto il Gruppo di uomini che nel Parlamento italiano rappresentano il nostro partito.

Ricordo la famosa seduta in cui la Camera ratificò il regio decreto d’annessione. C’è stato un uomo in quella giornata che è rimasto al suo posto, che ha resistito alle violenze verbali ed idiote della maggioranza e costui è Filippo Turati. Ma i suoi colleghi socialisti lo hanno sostenuto come conveniva? No. C’è stata una opposizione a base di insulti e di ciarle come avviene in tutte le piccole scaramucce parlamentari, ma in quella seduta l’estrema sinistra doveva avere il coraggio di sabotare la manifestazione nazionalista (Applausi vivissimi). Non doveva lasciare solo il Turati, doveva insorgere, portare nel Parlamento italiano i metodi dei liberali del Parlamento ungherese e l’opposizione socialista, se non maggiore efficacia, avrebbe certo assunto una più aperta e recisa significazione, suscitando più vasto cerchio di consentimenti e di simpatie in mezzo al proletariato che – lo si voglia o no – detesta la guerra.

Il governo presenta poi il progetto di legge di nuove spese militari. Si tratta di 60 milioni ed il gruppo parlamentare è assente. E viene un momento in cui la polizia italiana impazza. Due o tre mesi dopo l’attentato di D’Alba si arrestano a casaccio delle persone in tutta Italia. Un Vacca (merita proprio questo nome), ordina degli arresti. Si getta la desolazione in tante famiglie ed il gruppo parlamentare è assente ancora una volta. Sì, c’è stata una protesta di Turati, ma è stata platonica: bisognava insistere bisognava più fortemente criticare, si doveva dire che non è possibile, nel 1912, arrestare dei cittadini sotto l’accusa fantastica di complotto (Applausi vivissimi). Non si doveva limitare la protesta per gli arresti al solo Di Blasio, perché è un avvocato, un letterato. No la protesta doveva essere per tutti e doveva essere più energica.
 

TURATI: - No, protestai specialmente per gli anonimi. Dissi che mi preoccupavo poco degli avvocati, che avrebbero trovato difensori, mi preoccupavo degli altri.
 

MUSSOLINI: - Poi il Ministero Giolitti vara un altro progetto: il Ministero delle Colonie. Dove erano i deputati socialisti?
 

UNA VOCE: - A Tripoli.
 

MUSSOLINI: - Un Ministero delle Colonie è concepibile in Francia e in Inghilterra che possiedono veri e propri imperi coloniali, ma in Italia non poteva avere altro scopo che quello di aggiungere un nuovo ingranaggio al madornale macchinismo della burocrazia di Stato.

Assenteismo, indifferenza, inazione, ecco le parole che riassumono l’operato del Gruppo Socialista. Le masse sono state oggi disingannate. Perché nei circoli di campagna dove si crede nel socialismo senza discuterlo, si aveva e si ha ancora una cieca fiducia nei deputati socialisti. Sono i santi che figurano, appesi sui muri, nei quadri allegorici del Nerbini. Si può essere iconoclasti, ma il popolo ama le idee attraverso gli uomini e, forse, ha ragione. I deputati socialisti dovevano essere – nel concetto dell’umile gente – i combattenti inflessibili, come lame di Toledo, dalla vita alla morte. Le delusioni non si contano più. Il popolo che sposa le sue idee, non capisce la disinvoltura morale dei suoi rappresentanti politici: il disgusto per le inversioni e gli esibizionismi degli uomini finisce per inasprire lo scetticismo per le idee.
 

BIANCHINI UMBERTO: - Vi manderemo 20 Marangoni.
 

SERRATI: - Li deploreremo come gli altri.
 

MUSSOLINI: - E volete una prova della nostra rappresentanza parlamentare nell’opinione pubblica? Dieci anni fa, dopo l’ostruzionismo, sarebbe stato possibile ad un Renato Simoni di imbastire la Turlupineide? Voi siete degni della caricatura che sollazza la borghesia. (Applausi).

L’ordine del giorno che vi presento e che non ho ancora finito di illustrare dice: “Il Congresso presa visione della povera, scheletrica relazione del gruppo parlamentare, constata e deplora la inazione politica del gruppo stesso, inazione che ha contribuito a demoralizzare le masse e, riferendosi agli atti specifici dei deputati Bonomi, Bissolati e Cabrini dopo l’attentato del 14 marzo... delibera di dichiarare espulsi dal partito i deputati Cabrini, Bonomi e Bissolati” (Benissimo, applausi).
 

UNA VOCE: - E Podrecca? (Rumori).
 

MUSSOLINI: - Ebbene, la stessa misura colpisca anche Podrecca (Benissimo).
 

PODRECCA: - E perché? Specificate (Vivi rumori).
 

MUSSOLINI: - Per i suoi atteggiamenti nazionalisti e guerrafondai.
 

PODRECCA: - Non ho capito perché. Specificate (Rumori vivissimi. Da un gruppo di congressisti, fra i quali il compagno Serrati partono delle apostrofi all’indirizzo del deputato Podrecca, fra cui si distingue la parola “ciarlatano”. Il deputato Podrecca e molti altri del gruppo di destra rispondono vivacemente. Agitazione, tumulto)
 

PRESIDENTE: - Facciano silenzio. Non posso permettere che si lanciano parole ed accuse insultanti contro nessuno. Prenderò dei provvedimenti. Espellerò dalla sala chi si permette questo, anzi prego i compagni di denunziare coloro che fanno nascere tali tumulti (Benissimo) Qui si deve liberamente e lealmente discutere della condotta dei compagni nostri, ma nello stesso tempo si deve ad essi il massimo rispetto. (Bravo! Applausi).
 

MUSSOLINI: - Non ho alcun rancore personale col Podrecca e non conosco neppure i deputati Bonomi e Bissolati.

Il 14 marzo un muratore romano, spara una revolverata contro Vittorio Savoia. C’era un precedente che indicava la linea di condotta per i socialisti. Si era già criticato aspramente lo spettacolo indescrivibile offerto dall’Italia sovversiva dopo l’attentato di Bresci a Monza. C’è un libro, che potete accettare con beneficio d’inventario, del Labriola, la Storia di 10 anni che vi dice come le classi alte dell’Austria Ungheria seppero accogliere con grandissima dignità la notizia della tragica fine di Elisabetta. Si sperava che, dopo dodici anni, non si ripetesse il veramente indescrivibile spettacolo di Camere del Lavoro che espongono la bandiera abbrunata, di municipi socialisti che mandano telegrammi di condoglianze o di congratulazione, di tutta un’Italia democratica e sovversiva che a un dato momento si prosterna dinanzi al Trono. Difficile scindere la questione politica dalla questione d’umanità. Arduo separare l’uomo dal re. Ad evitare equivoci perniciosi, uno solo era il dovere dei socialisti dopo l’attentato del 14 marzo: tacere. Considerare cioè il fatto come un infortunio del mestiere del re (Bravo! Applausi). Perché commuoversi e piangere pel re, “solo” per il re? Perché questa sensibilità isterica, eccessiva, quando si tratta di teste incoronate? Chi è il re? È il cittadino inutile, per definizione. Ci sono dei popoli che hanno mandato a spasso i loro re, quando non hanno voluto premunirsi meglio inviandoli alla ghigliottina e questi popoli sono all’avanguardia del progresso civile. Pei socialisti un attentato è un fatto di cronaca o di storia, secondo i casi. I socialisti non possono associarsi al lutto o alla deprecazione o alla festività monarchica.

Quando Giolitti dà l’annuncio dello scampato pericolo tutti scoppiarono in un applauso giubilante. Si propone un corteo dimostrativo al Quirinale e alcuni deputati socialisti s’imbrancano senz’altro nel gregge clerico-nazionalista-monarchico (Bene). E si va al Quirinale. Non so se sia vero quel dialogo che le cronache hanno riferito. Non c’ero, ma non è stato neppure smentito. Si dice che quella frase oltremodo banale non sia stata pronunziata. Non importa. So che vi è un telegramma: “Pregovi di presentare a Sua Maestà il mio commosso e riverente saluto “. E questo è il Bissolati, il quale, 12 anni fa, gridava: a morte il re (Applausi a sinistra. Rumori sugli altri banchi).
 

BISSOLATI ED ALTRI: - No. No. Abbasso il re. La destituzione.
 

MUSSOLINI: - Non c’è una grande differenza tra morte e destituzione. La destituzione è comunque la morte civile (Interruzioni).

E la banalità dei complimenti? Bissolati elogia il coraggio del re, che aveva la carrozza chiusa, Cabrini si sdilinquisce dinanzi la regina e ne riceve una lezione. Tutto questo “patetico” finisce nel buffo. Il senso dell’umanità offesa sbocca fatalmente nella piaggeria melensa, volgare del cortigiano.

Ma l’episodio ha un’altra, più ampia e politica significazione. È una specie di riconciliazione fra monarchismo e riformismo. In Francia taluni sindacalisti s’accostano ai camelots du roi e sono indifferenti dinanzi alla ripresa del bonapartismo. Tanto i riformisti italiani, quanto i sindacalisti puri o soreliani fanno completa astrazione del problema politico.

Non è questo l’unico punto in cui s’incontrano le due concezioni antitetiche del divenire sociale. Ve n’è un altro. Entrambi ritengono inutile il partito, entrambi mirano a sopprimerlo. Giorgio Sorel che copre col suo dileggio le associazioni politiche dominate e utilizzate a scopi elettorali dai professionels de la pensée e ritiene che il passaggio del vecchio al nuovo mondo, dalla civiltà borghese alla civiltà socialistica avverrà per via economica e non per via ideologica, avverrà cioè nella fabbrica e non nel parlamento, collo sciopero generale e non coi provvedimenti di un’assemblea di legiferatori. Giorgio Sorel è molto vicino al Bissolati dal “ramo secco”. Ma il Partito non ha dunque più nessuna funzione da compiere nel seno delle attuali società europee? Questo è il problema che noi risolviamo affermando recisamente l’utilità del Partito (Applausi).

I riformisti non possono astrarre dal problema politico istituzionale. In fondo il loro socialismo è eminentemente politico, anzi parlamentare. Il loro socialismo diviene attraverso allo stillicidio delle “provvidenze “ legislative. Sono i professionali della “riforma “. Il loro socialismo è il resultato finale della progressiva democratizzazione delle istituzioni politiche della società borghese. È la democrazia che sbocca nel socialismo. Questa relazione di continuità fra i principi dell’89 e il socialismo costituisce il leit motif degli Studi socialisti di Jean Jaurès. Il Codice Civile francese contiene disposizioni utilizzabili per la rivoluzione socialista. I riformisti quindi hanno tutto l’interesse di democratizzare rapidamente le istituzioni politiche.

Ma gli atti che accrescono il prestigio della monarchia e tendono a conciliare le simpatie popolari, non solo sono anti-socialisti, ma sono anti-riformisti. Sono anti-socialisti in quanto rendono omaggio al privilegio politico, sono anti-riformisti in quanto consolidano un regime che non può, per la contraddizione, che non consente democratizzarsi fino al perfetto idillio della collaborazione di classe.

Anche noi abbiamo una pregiudiziale politica, ma essa non è sola – è parte invece integrante della nostra più complessa pregiudiziale anti-borghese. Se i socialisti italiani avessero accentuato il carattere anti-monarchico del Partito, il Partito repubblicano che vive di una sola pregiudiziale politica sarebbe stato colpito a morte e l’esodo, cominciato verso il ‘90, dei repubblicani collettivi avrebbe gradualmente condotto tutti gli operai repubblicani nelle file del socialismo.

Ora si dice: non bisogna colpire gli uomini. Ma, egregi amici, e le idee? Noi siamo i malinconici Don Chisciotte dell’idea. Ma l’idea è irreperibile come la Dulcinea del Toboso. Bisogna identificarla l’idea. C’è, in quanto c’è l’uomo che la cerca, che l’esprime, che a questa idea uniforma le sue azioni. Un processo alle idee è eminentemente domenicano, ma un processo agli uomini, in un organismo di battaglia, è un processo logico e umano e ve lo dimostrerò (Bravo!). Noi non abbiamo feticismi personali. Non li abbiamo per i morti, e sarebbe ben strano che li avessimo per i vivi.

Io accuso il Bissolati del 1912 colle parole del Bissolati del 1900. Ex ore tuo, te iudico. Ricordo che nel 1900 l’on. Bissolati ingaggiò una magnifica battaglia contro i boxeurs, mestieranti ribaldi, sbucati dai bassifondi delle redazioni dei giornali moderati e clericali, che si scagliarono sul Partito Socialista, tentando di coinvolgerlo nella responsabilità dell’atto di Bresci. Bissolati si batté splendidamente. Era allora l’”Avanti!” un giornale di polemica, non un giornale mezzo industrializzato come è oggi. Ammetto l’industrialismo come una esigenza del progresso giornalistico moderno, ma il giornale polemico che tempestava a destra e sinistra, contro il quale si appuntavano le collere bestiali degli altri giornali e del Governo, lo leggevamo volentieri.

È noto il caso De Marinis. Tornato da Parigi per partecipare ai funerali di Umberto, il suo atto sollevò aspre censure fra i socialisti napoletani. L’epidermide socialista era allora di una sensibilità squisita. Il caso venne portato al Congresso di Roma. Contro la proposta di sospensiva di ogni giudizio parlò uno degli odierni accusati: il Cabrini, affermando giustamente la competenza del Congresso sovrano a giudicare i rappresentanti del Partito. Il Congresso approvò il deliberato dei socialisti napoletani che indicava la porta al De Marinis e su proposta Labriola-Schiavi venne deciso di deferire alla Sezione di Reggio Emilia l’esame di un altro caso consimile: quello Borciani. Il giudizio del Congresso di Roma suscitò una certa emozione. La stampa borghese denunciò il domenicanismo intollerante della Chiesa Socialista, ma il Bissolati vecchio stile scrisse allora in risposta un articolo magistrale che vi leggo e che oggi costituisce per fatale ironia di eventi, l’atto di accusa più formidabile contro di lui. Eccolo:

«L’accusa contro i socialisti è vecchia quanto balorda. Nel fatto speciale notiamo che, quando fu deliberata la partecipazione della Estrema sinistra per la minoranza degli uffici della Presidenza, il gruppo socialista, designando il De Marinis alla carica di segretario, gli fece intendere (né v’era bisogno) che il suo ufficio doveva essere strettamente parlamentare e non prestarsi mai a significazioni di natura politica (ricordo la frase di Andrea Costa: avevamo mandato De Marinis alla segreteria della Camera, non al Quirinale); che il gruppo socialista aveva deliberato in modo esplicito e unanime l’astensione dalle onoranze; che il discorso detto al Parlamento da Filippo Turati, a nome del gruppo, (ho riletto or ora quel discorso: era veramente socialista, non faceva concessioni alla canea) dava a ciascun socialista la norma precisa da seguire, inutile d’altronde a chi ha il senso di parte: che il De Marinis ciò nonostante partecipò ai funerali di Umberto e a un’altra cerimonia di carattere egualmente monarchico, esercitando atti che passano i limiti della funzione parlamentare commessa ai segretari, contravvenendo alla precisa disposizione adottata dal gruppo socialista e, quel che più importa, contraddicendo ai principi e alle norme direttive del partito socialista.

«Dal fatto particolare risalendo al generale, dobbiamo fare qualche altra osservazione. Il P.S. (e qui viene la parte interessante dell’articolo) non esercita tirannie verso alcuno, per il motivo semplicissimo che non ha uffici di leva. Vogliamo dire che esso costringe nessuno ad entrare nelle sue file. La coscrizione è libera. Noi siamo per il volontariato. Ma quando uno domanda l’onore di partecipare alle nostre lotte, assume volontariamente gli obblighi che incombono ad ogni gregario del socialismo, chiunque egli sia. Chi vuole onori e non oneri, chi non conosce le virtù del dovere, ha sempre fra noi quella grande libertà che non è negli uffici e negli impieghi del governo e della società presente: la libertà di andarsene. È tirannia questa?

«È poi strano che l’accusa stolida ci venga proprio da coloro che più sono amanti di tutte le forme di costrizione, da quelle della caserma alle altre più terribili della compressione violenta della libertà di sciopero e di associazione. Il socialismo non è tirannide, perché i suoi soldati sono volontari, ma è milizia severa, dove i deboli e gli incerti non hanno posto, nemmeno nella ambulanza. La disciplina è la forza degli eserciti e dà la vittoria. L’esercito socialista conta già qualche vittoria, perché ha saputo combattere disciplinato contro un esercito, numerosissimo, ma non compatto. E vuol seguitare a vincere. Perciò, discussioni sui principi, sulle norme, libere e illimitate, ma azione sicura e serrata».

Perciò sono contrario ad un processo contro l’eresia dei destri. Essi possono accusare me di eresia, almeno come si leggeva nell’ultimo numero dell’Azione Socialista; ma noi facciamo il processo, non all’idea, ma a determinati atti che cadono sotto la sanzione del nostro codice e questo codice non lo abbiamo fatto noi. (Applausi)

«Chi non vuole stia fuori (continuava Bissolati). Noi o militaristi che ci accusate, non costringiamo nessuno ad entrare in caserma e ben comprendiamo le vostre accuse. Sono le accuse mosse dall’invidia e dal dispetto, dall’invidia delle nostre forze unite e coscienti, dal dispetto delle nostre vittorie. Se così non fosse, invece di urlare come se avessimo offeso voi, vi compiacereste in un silenzio prudente della nostra poca accortezza per la quale respingiamo da noi una forza, un carattere forte che non si piega».

Non so come si potrà rispondere a questo documento. Sono in attesa del miracolo. Il partito socialista pratica le espulsioni perché è un organismo. C’è la fagocitosi socialista come c’è la fagocitosi fisiologica scoperta da Metukikoff. Se non corriamo sollecitamente alle difese, gli elementi impuri disgregheranno il Partito, allo stesso modo che i germi patogeni introdottisi nella circolazione del sangue, quando i fagociti siano – per vecchiaia – impotenti ad eliminarli finiscono per abbattere l’organismo umano (Applausi).

La misura che con piena coscienza vi propongo non deve sorprendervi. È tempo di dire una parola che stronchi gli equivoci. È tempo di celebrare solennemente con un atto di sincerità quella scissione che è ormai compiuta nelle cose e negli uomini.

Il caso ci ha dato un ottimo precedente e un non meno ottimo insegnamento: il Congresso repubblicano di Ancona. Voi lo avete visto: per avere voluto mantenere l’equivoco, il Partito repubblicano è oramai divenuto uno straccio. Sarà un bene o un male, non so, ma so che c’è la crisi in basso e in alto. La “Ragione”, si dice, è in stato preagonico, nel basso c’è la disgregazione, i circoli si sconfessano l’uno coll’altro e tutto questo perché il Congresso ha votato una mozione sibillina, elastica, duttile, un vero pasticcio, come l’ha definita Pirolini.

Ebbene guardiamoci dall’imitare i nostri avversari, perché noi vogliamo ritornare nelle nostre terre ad alimentare il Partito, nel quale abbiamo una grandissima fiducia, perché crediamo ancora nella sua forza ideale. Noi riteniamo che l’Italia per 50 anni almeno abbia bisogno di un partito socialista forte ed omogeneo, il quale, come ha detto recentemente l’on. Colaianni nel suo ultimo libro: I partiti politici in Italia, ha un compito preciso da assolvere: partecipare, decomporre cioè la caotica e incoerente democrazia italiana urtandola e assaltandola da ogni parte. Ecco perché vogliamo un partito numeroso e compatto. Ecco perché ci presentiamo con una lista di proscrizione.

Voi, deputati accusati aspettate da tempo la nostra esecuzione: per voi significa: liberazione. Sciolti da ogni impaccio formale, e da ogni vincolo morale voi potrete più speditamente proseguire il vostro cammino. In fondo non vi troverete la voragine ardente, ma la scala fiorita del potere. Noi abbiamo un preciso dovere: quello d’abbandonarvi sin d’ora al vostro destino. Bissolati, Cabrini, Bonomi e gli altri aspettanti possono andare al Quirinale, anche al Vaticano, se vogliono, ma il Partito Socialista dichiari che non è disposto a seguirli né oggi, né domani, né mai.
 

(Applausi vivissimi e prolungati. Molte congratulazioni).
 
 

(Tratto da Resoconto Stenografico del XIII Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano – Tipografia dell’”Unione Arti Grafiche” - Città di Castello, 1913).